martedì 14 maggio 2013

il Fatto 13.5.13
Il costo dell’attesa
Quando Epifani era “parcheggiato” in Cgil
di Salvatore Cannavò


Guglielmo Epifani si appresta a un difficile lavoro, tenere insieme il Pd in condizioni di forma non proprio ottimali. Da quando ha lasciato la direzione della Cgil, nel novembre del 2010, infatti, si è un po’ arrugginito dato che la sua sola attività negli ultimi due anni è stata quella di presidente dell’Associazione Bruno Trentin. A giudicare dal sito, un’attività limitata alla partecipazione a iniziative e convegni pubblici.
Il “centro di cultura politica e sindacale” della Cgil è stato costruito a sua misura nel momento in cui ha passato la mano della segreteria a Susanna Camusso. In precedenza, il sindacato di Corso Italia aveva riservato ai propri leader “in pensione” la presidenza di un altro istituto, la Fondazione Di Vitto-rio. Quando andò a dirigerla, nel 2002, Sergio Cofferati la presentò con i responsabili di tre comitati scientifici: Alberto Asor Rosa per la parte culturale, Adolfo Pepe per la storia, Marcello Messori per il settore economia. “Sarà un cantiere aperto, di approfondimento” disse Cofferati che poi, da lì, intraprese la sua carriera politica.
EPIFANI ha evitato la Di Vittorio e ha deciso di onorare un altro importante segretario della Cgil, quel Bruno Trentin morto nel 2007, a seguito delle conseguenze dovute a una caduta dalla bicicletta. Chi, nella Cgil, non ha mai amato Epifani, ha sempre sostenuto che la presidenza dell'associazione sia stata un “regalo”. A scrivere nero su bianco un giudizio netto è stato Gianni Rinaldini, ex segretario della Fiom tra il 2002 e il 2010 – lo stesso periodo in cui Epifani è stato segretario Cgil – e che ha scritto una lunga memoria della propria vita sindacale. La prima parte di questa storia è già apparsa sulla rivista Alternative per il Socialismo diretta da Fausto Bertinotti (altro dirigente sindacale dalla carriera politica). Il giudizio più pungente su Epifani, però, deve ancora essere pubblicato. Epifani, scrive Rinaldini, “è stato parcheggiato con auto, autista, ufficio stampa in attesa di essere candidato alle elezioni politiche, come è puntualmente avvenuto”. I dirigenti della Cgil, ovviamente, non sono d’accordo e sottolineano che quello dell'attuale segretario Pd è stato un incarico dovuto. Dai bilanci riservati del sindacato, però, si legge che l’introduzione della nuova carica è costata 500 mila euro nel 2011 e altrettanti nel 2012. Una spesa sostenuta mentre, contemporaneamente, la Cgil ha speso 530 mila euro per la Fondazione Di Vittorio, 400 mila euro per l’Ires, l'Istituto di ricerche economiche e sociali, altri 500 mila per l’Isf, l'Istituto superiore di formazione, 400 mila euro per la Smile, azienda di certificazione, e 46 mila euro per l’Associazione Luciano Lama (esiste anche questa). Il costo complessivo per “studi, ricerca e formazione” nel 2011 è stato di 2 milioni, 649 mila mentre nel 2012 erano preventivati in 2,376 milioni. Quasi il 10% delle spese totali che nel 2011 sono state 26 milioni, 130 mila euro.
Una volta eletto deputato l’ex segretario, la Cgil ha provveduto, il 18 aprile scorso, a riorganizzare le sue strutture di ricerca. E così il posto di Guglielmo Epifani alla guida della Bruno Trentin, è stato preso da Fulvio Fammoni, già membro della segreteria nazionale, incaricato di guidare una fase di “unificazione tra l’Associazione Bruno Trentin, l’Ires, l’Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil e l’Isf, l’Istituto superiore per la formazione del sindacato di Corso d’Italia”. Una razionalizzazione attesa e, forse, qualche risparmio.

«Il governatore della Toscana Enrico Rossi a sapere che l'ex leader della Cgil non può pensare di ricandidarsi al Congresso: lui non rappresenta «un segnale di rinnovamento perché ha avuto un ruolo primario nella prima come nella seconda Repubblica»
Per il 39 per cento degli intervistati l'elezione dell'ex segretario della Cgil “è una scelta che sa di vecchia politica”»
L'11 per cento dell'elettorato del partito, ossia un milione e 300 mila elettori, ha preferito disertare le urne il febbraio scorso. Il 14,3, pari a un milione e 700 mila italiani che avevano votato per il Pd nelle ultime politiche, si è buttato sul Movimento 5 Stelle
Corriere 14.5.13
Epifani, l'inizio è in salita Renzi e Veltroni puntano su Chiamparino
Già critiche e distinguo sul neosegretario
di Maria Teresa Meli


ROMA — Non è un inizio facile quello di Guglielmo Epifani. Sia nella maggioranza del Pd che lo ha eletto, sia tra quelli che hanno subìto questa scelta, cominciano già i distinguo e le critiche.
Il governatore della Toscana Enrico Rossi, bersaniano, mette le mani avanti e fa sapere che l'ex leader della Cgil non può pensare di ricandidarsi al Congresso: lui non rappresenta «un segnale di rinnovamento perché ha avuto un ruolo primario nella prima come nella seconda Repubblica». Senz'altro più soft, ma non per questo meno fermo, Massimo D'Alema: intervistato dal Tg3 dichiara che ci vuole un «rinnovamento generazionale» alle assise che verranno. Insomma, non sarà facile per Epifani, che ieri ha incontrato Giorgio Napolitano, districarsi tra le polemiche e le tensioni. Tanto più che anche un sondaggio della Digis, pubblicato da un sito molto vicino al Partito democratico, «Ilretroscena», rivela che per il 39 per cento degli intervistati l'elezione dell'ex segretario della Cgil «è una scelta che sa di vecchia politica».
Come se non bastasse, l'analisi dei flussi elettorali, a cui non è stata ancora dedicata una riunione apposita, ma che è stata comunque già fatta dal Pd, è più che sconfortante. L'11 per cento dell'elettorato del partito, ossia un milione e 300 mila elettori, ha preferito disertare le urne il febbraio scorso. Il 14,3, pari a un milione e 700 mila italiani che avevano votato per il Pd nelle ultime politiche, si è buttato sul Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. In totale il 62,6 per cento ha confermato la preferenza data al Partito democratico. Non è tantissimo, soprattutto se si pensa al clima che ha preceduto le elezioni: tutti credevano che il centrosinistra avrebbe vinto.
Ma questi sono problemi che non riguardano solo Epifani. Anche Matteo Renzi, per quanto cerchi di tenersi il più defilato possibile dalle beghe interne, dovrà porsi una questione. Altrimenti c'è il rischio, come aveva profetizzato lui stesso qualche tempo fa, che finisca per «ereditare solo macerie». È chiaro che in questo quadro il sindaco rottamatore non può non giocare una partita anche all'interno del Pd. Una fetta dei suoi spera ancora che il primo cittadino del capoluogo toscano finisca per candidarsi alla segreteria, visto che il governo non sembra destinato a durare troppo a lungo. Alcuni renziani spingono il loro leader a valutare i «pro» e i «contro». Lui, per ora, resta irremovibile: «Farò il sindaco e nel 2014 mi ricandiderò a palazzo Vecchio».
Ma c'è chi spera che a luglio, quando dovranno essere presentate le candidature per la segreteria del Partito democratico, il sindaco rompa gli indugi. Per il momento, però, non tira affatto quest'aria. Il che non vuol dire che il primo cittadino di Firenze non si renda ben conto del fatto che al congresso d'autunno non potrà appoggiare una candidatura come quella di Epifani, né potrà sostenere Gianni Cuperlo nella sua corsa. Dovrà optare per un candidato che gli somigli di più, che non riproduca l'impostazione del socialismo del tempo che fu. L'uomo giusto c'è. Renzi lo aveva candidato alla presidenza della Repubblica nelle defatiganti votazioni per il Quirinale. È Sergio Chiamparino, presidente della Compagnia di San Paolo, ex sindaco di Torino, uomo stimato sia nel Pd che all'esterno. Certo, c'è una fetta del Pd che lo teme e non lo vuole, per questa ragione ha messo in giro la voce secondo cui guadagnerebbe svariate centinaia di migliaia di euro grazie al suo incarico. Così non è, ne guadagna 70 mila l'anno. Ma il fatto che circolino queste indiscrezioni false la dice lunga sullo stato dei rapporti interni al Partito democratico.
Oltre a Renzi, l'ex sindaco di Torino ha l'appoggio di Walter Veltroni, uno dei primi a pensare al suo nome in vista della corsa alla segreteria. Per l'ex leader del Pd, Chiamparino sarebbe il candidato ideale. E c'è chi ricorda che un tempo era anche in ottimi rapporti con Massimo D'Alema. Ma ufficialmente, lui non è in campo. A qualche amico con cui ha parlato in questi giorni, però, non ha escluso affatto di potersi impegnare in prima persona: «Se ce ne sono le condizioni, non escludo di poter dare una mano. Bisogna costruire una piattaforma politico-programmatica di ispirazione liberal-laburista di cui mi pare si avverta il vuoto nel campo del centrosinistra».

il Fatto 14.5.13
Il Pdl stoppa Letta “No alla legge elettorale”
Il premier vorrebbe eliminare subito il Porcellum per evitare un Parlamento di nominati in caso di voto anticipato. Venerdì il decreto Imu d’Esposito


Sullo “spirito di Spineto”, evocato con enfasi e ottimismo da Enrico Letta, si allunga sempre di più la sinistra ombra del Cavaliere, il nuovo Ghino di Tacco (l'abbazia del ritiro è un tiro di schioppo da Radicofani) che tiene in ostaggio il governo con i suoi guai giudiziari e i suoi calcoli politici. E da questi ultimi, legati ovviamente ai primi, ai guai, dipende il fuoco di sbarramento che si è alzato dai falchi del Pdl, quando al centro congressi di Spineto sia il premier sia il ministro per le Riforme Gaetanno Quagliariello, colomba dei berlusconiani, hanno annunciato un blitz per eliminare il Porcellum, qualora dovesse prevalere “l'imponderabile” (Letta dixit) e si andasse al voto. Per usare il gergo di Spineto, “una messa in sicurezza” della legge elettorale con uno, due interventi per evitare un altro Parlamento di nominati.
Da Roma, il primo a farsi sentire è stato Renato Brunetta, capogruppo del Pdl alla Camera e nuovo ayatollah dei falchi di B. che ha imposto lo stop, “prima le riforme costituzionali poi la legge elettorale”, e ha anche ironizzato sul "codice di comportamento" che impedirà ai ministri di parlare in campagna elettorale dopo “i fatti di Brescia”: “Il silenzio non serve nulla, ma tanto dura solo 15 giorni”. È la conferma che, a fronte dell'implosione del Pd, esistono ormai due Pdl: da un lato i “democristiani” che stanno al governo, dall'altro i falchi esclusi dalle poltrone che fanno la guerra e spingono per l'incidente.
L’UNICO MODO per Letta (e Alfano) per andare avanti è restringere il perimetro d'azione. Ieri a mezzogiorno e mezzo, al termine della seduta di lavori mattutina dei ministri in ritiro, premier e vicepremier si sono presentati alla stampa dopo il violento scontro, sempre sul comizio anti-pm di B. a Brescia, nel viaggio di andata (su un van della presidenza del Consiglio), presenti anche Dario Franceschini e Maurizio Lupi. Letta ha spiegato il piano dei primi fatidici cento giorni che ruota attorno a “quattro assi”: lavoro, casa, agevolazioni fiscali per coloro che “vogliono fare qualcosa per il Paese”, riforma della politica. Per i due assi principali, lavoro e casa, già venerdì ci saranno i decreti su Imu e Cassa integrazione. Più complicata e lunga, invece, la partita per ridurre i parlamentari, abolire le province e il finanziamento pubblico dei partiti, arrivare insomma “a un punto di non ritorno”. A partire dalla legge elettorale, che “deve uscire dal percorso di riforme istituzionali perché non si può andare a votare con il Porcellum e bisogna fare un rete di protezione in tempi rapidi qualora succedesse l'imponderabile”, che tradotto potrebbe significare il ritorno al Mattarellum. Sulle riforme, l'idea originaria della Convenzione, bloccata da Berlusconi, è stata sdoppiata. A prendere la parola è stato Quagliariello: la Convenzione sarà formata dalle commissioni Affari costituzionale di Camera e Senato mentre “consigli” arriveranno da un comitato di esperti esterni. Il risultato sarà sottoposto a una consultazione in Rete.
NELL'EX ABBAZIA di Spineto, all'ora di pranzo, gli echi milanesi della requisitoria del processo Ruby sono forti, ma Alfano e Letta troncano ogni discussione. Il segretario del Pdl ammette che i “problemi ci sono” e che una questione di vent'anni non può risolversi in due giorni. A spaventare i berlusconiani c'è pure l'incubo delle maggioranze variabili, per esempio Pd e grillini sull'ineleggibilità di B. Il problema è stato posto da Alfano ma una soluzione ancora non c'è. E gli esiti, per il vicepremier, possono essere “imprevedibili”.

Repubblica 14.5.13
I sindacati: il governo dimentica la scuola.
"Manca nel programma dei 100 giorni"
Cgli, Cisl e Uil ricordano i "tagli insopportabili di fondi e posti di lavoro" e chiedono a Letta di fare retromarcia. E calcolano che tra tre mesi c'è appunto l'inizio dell'anno scolastico "che vorremmo si aprisse in modo diverso"
di Salvo Intravaia

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Repubblica 14.5.13
Josefa Idem ha chiesto di poter procedere sulle coppie gay
E la Kyenge insiste avanti sul progetto ius soli ma il Pdl alza le barricate


SARTEANO — Cécile Kyenge non abbandona il progetto dello “ius soli”. Lo ha detto anche ieri nello “spogliatoio“ di governo all’Abbazia di Spineto in un breve passaggio del suo intervento. Il suo primo obiettivo è capire i margini di manovra del suo ministero anche sul tema della cittadinanza a chi nasce in Italia. Il ministro dell’Integrazione ha posto il problema, i colleghi del Pdl non hanno contestato la sua impostazione. Anche perché la pratica è appena istruita, i tempi non saranno brevissimi. E il dossier è stato affidato, di concerto, al ministro e al sottosegretario a Palazzo Chigi Filippo Patroni Griffi, che valuterà in quale forma il governo si potrà occupare di un tema caro al ministro, naturalmente, e al partito che lei rappresenta, il Pd.
Il tema dei diritti è stato affrontato anche dal ministro delle Pari opportunità Josefa Idem. Il riconoscimento delle coppie omosessuali è un punto che persino nel Pdl trova dei sostenitori. Anche in questo caso Patroni Griffi aiuterà il ministro a trovare la formula giuridica più adatta per portare avanti questa battaglia. Sia per la Idem sia per la Kyenge, la questione è prima di tutto valutare il recinto dei loro rispettivi dicasteri. Ieri, nell’Abbazia, hanno “verbalizzato” l’argomento e si attendono una risposta a stretto giro da Palazzo Chigi.
Le priorità sono state indicate dal presidente del Consiglio Letta e dal vice Alfano. Non ci sono né lo “ius soli” né i diritti delle coppie di fatto. Ma è un fatto che i due temi sono stati avanzati in una riunione, seppure informale, della squadra di governo. E non hanno trovato resistenze da parte dei colleghi. La cittadinanza agli immigrati nati in Italia divide più dei diritti per i gay. È un’ipotesi rifiutata dalla Lega (che si è astenuta nel voto di fiducia). E quando la Kyenge l’ha lanciata nel corso della trasmissione tv “In mezz’ora”, due settimane fa, ha incontrato la ribellione del Pdl. Ma nelle “politiche” di questo esecutivo, se la sua vita sarà lunga, sono materie che possono trovare posto nell’ordine del giorno.
(g.d.m.)

Repubblica 14.5.13
L’amaca
di Michele Serra


Si sente in giro, tra le persone in genere munite di passione civica, uno strano umore, chissà se di sfinimento, o di smarrimento, o di resa, che riassumerei così: qualunque cosa accada, io non posso farci più niente. È come se il gioco della politica fosse stato posto sotto sequestro dalle pubbliche autorità. È in mano loro, in qualche stanza chiusa, e lo si gioca a un tavolo ancora più esclusivo – se possibile – di quello al quale ci eravamo abituati: attorno al quale, perlomeno, ci si assiepava per fare il tifo, credendo o illudendoci di spalleggiare questo o quel giocatore con il calore della nostra presenza.
C’è da chiedersi se chi ha architettato questa stretta politica (“larghe intese” è quasi un ossimoro: sono state decise in molto ristretta schiera) avesse messo nel conto questo effetto di ulteriore straniamento. E, nel caso lo avesse messo nel conto, se ne è contento, perché proprio questa era la mira, levare la politica di mano a chi non è abbastanza cauto, abbastanza professionista; oppure se questa lontananza lo spaventa, ne avverte il peso, la patologica cappa di silenzio. Chi fa politica, da sempre, non può odiarla al punto di non capire che questa situazione è anormale, penosa come una partita giocata a porte chiuse, in uno stadio vuoto.

Corriere 14.5.13
E alla Camera spunta la norma per «bloccare» Casaleggio


MILANO — Forse passerà alle cronache (parlamentari) come la norma anti-Casaleggio. Di sicuro la norma che il deputato di Sinistra ecologia e libertà Sergio Boccadutri ha presentato all'ufficio di presidenza della Camera dei Deputati farà discutere, anche se non punta l'indice direttamente contro lo stratega del Movimento o contro altri politici. Il testo presentato dall'esponente di Sel chiede di vietare l'utilizzo delle risorse dei gruppi per acquistare prestazioni di servizi da società amministrate, partecipate o controllate direttamente, indirettamente o di fatto, da deputati o da persone che ricoprono un ruolo politico nei partiti collegati al gruppo parlamentare.
«Si tratta di una norma di trasparenza — afferma Boccadutri —. L'attuale formulazione della norma, infatti, non esclude che tali fondi possano essere utilizzati per offrire occasioni di guadagno a soggetti legati a questa o quella formazione politica. È un criterio necessario per evitare che fondi destinati all'attività istituzionale dei gruppi parlamentari siano utilizzati per altri scopi. In questo modo si impediscono conflitti di interessi, magari poco evidenti ma altrettanto inaccettabili». Nel mirino dell'emendamento di Sel, per quel che riguarda i Cinque Stelle, i rapporti tra Casaleggio, il blog di Grillo e il Movimento in Parlamento. Il guru ha chiarito in passato che lo «staff ufficializzerà» soltanto i professionisti del gruppo comunicazione, ma non li gestirà. «E soprattutto — ha detto Casaleggio incontrando i parlamentari all'inizio della legislatura — non gestiremo mai soldi e fondi».

il Fatto 13.5.13
Campidoglio
Marino aveva definito “giusta” la marcia antiabortista
“Croce usata per dividere”
di Luca De Carolis


E ora sulla strada verso il Campidoglio (ri) appare la questione cattolica. Nella città del Cupolone, a dividere i candidati basta e avanza anche una marcia. Nel dettaglio, la marcia nazionale per la vita, che domenica scorsa a Roma ha visto circa 30mila persone in corteo contro l’aborto e la 194. Dietro al crocifisso su cui erano inchiodati tanti feti di plastica, anche il sindaco Alemanno. Non c’era invece il cattolico Ignazio Marino, che spiegava: “Non voglio strumentalizzare un’iniziativa giusta. Sono per la difesa della vita in ogni suo stadio, ma sono dispiaciuto della presenza di alcuni candidati”. Parole che gli sono valse la replica di Alemanno (“Ero alla manifestazione anche l’anno scorso”) e, soprattutto, un attacco da sinistra. Quello di Sandro Medici, candidato sindaco di Repubblica Romana: “Trovo stupefacente e culturalmente devastante che il senatore Marino definisca giusta una manifestazione di legionari dell’integralismo clericale”. Quasi un paradosso per il candidato Pd, a cui da destra rimproverano a ritmo continuo il suo presunto laicismo. Proprio il motivo dell’attacco dell’Avvenire, quotidiano della Cei che ad aprile “salutò” la vittoria alle primarie di Marino con due pagine contro “la svolta a sinistra del Pd”, con tanto di intervista all’assessore alla Scuola di Alemanno, il ruiniano De Palo.
AL FATTO CHE CHIEDEVA chiarimenti sulla sua posizione riguardo alla marcia e alla 194, Marino ha risposto con una nota scritta: “Ho visto le immagini della croce utilizzata come strumento di divisione. Da medico e credente ho sempre lavorato per difendere la vita di ogni bambino e di ogni donna. Sono cresciuto all’Università Cattolica, in anni anni in cui le donne arrivavano in ospedale sanguinanti e morivano di aborto clandestino. La posizione di uno Stato laico deve essere in difesa della vita e della dignità delle donne anche nelle scelte più difficili. Alemanno ci dica che cosa ha fatto per i consultori di Roma e per le donne in difficoltà”. E la 194? “Garantisce l’autodeterminazione delle donne e il rispetto del loro diritto alla salute. Però va applicata pienamente e nella sua interezza, anche in quelle parti che, attraverso l’informazione e l’assistenza, non lasciano le donne sole”. Ieri Marino ha presentato il programma. Previsti anche il “riconoscimento amministrativo delle coppie di fatto”, e la “sensibilizzazione nelle scuole come altrove sui diritti delle persone Lgbt”. Insomma, la linea non si cambia. Nonostante i mal di pancia in Curia e tra qualche moderato Pd.

il Fatto 14.5.13
La sventura della virtù
Il caso Ruby è una tragicommedia dove l’unica che fa il suo dovere, il pm Fiorillo, è la sola ad essere censurata dal Csm
di Bruno Tinti


Personaggi. Annamaria Fiorillo: sostituto procuratore presso la Procura dei minori di Milano. Ingiunge a Giorgia Iafrate di affidare a una comunità la minorenne marocchina Ruby. Giorgia Iafrate: commissario presso la Questura di Milano. Viola le direttive ricevute e affida Ruby alla igienista dentale di B., Nicole Mi-netti. Pietro Ostuni: capo di gabinetto. “Consiglia” a Giorgia Iafrate di ignorare le direttive di Annamaria Fiorillo. Silvio Berlusconi detto B. : presidente del Consiglio. “Consiglia” a Pietro Ostuni di ingiungere a Giorgia Iafrate di ignorare le direttive di Annamaria Fiorillo. Roberto Maroni: ministro dell’Interno. Afferma pubblicamente che la Polizia aveva affidato Ruby alla Minetti obbedendo alle direttive impartite da Annamaria Fiorillo. Edmondo Bruti Liberati: procuratore della Repubblica di Milano. Emana un comunicato stampa in cui afferma che l’affidamento di Ruby si è “svolto correttamente”. Monica Frediani: procuratore della Repubblica per i minori di Milano. Vieta ad Annamaria Fiorillo di parlare con i giornalisti per smentire le affermazioni false di Maroni e Bruti Liberati.
CONSIGLIO Superiore della Magistratura, detto Csm, composto da membri togati (magistrati nominati dalle correnti) e da membri laici (persone nominate dai partiti). Rifiuta di aprire una pratica a tutela richiesta da Annamaria Fiorillo al fine di smentire le menzogne di Maroni e Bruti Liberati; poi condanna disciplinarmente la stessa per aver spiegato ai giornalisti che Maroni e Bruti Liberati avevano mentito. Trama della tragicommedia (farsa/tragedia?). La minorenne Ruby è accusata di furto, fermata durante la notte. Si accerta che è senza fissa dimora. Il Pm minorile Fiorillo ordina alla polizia di affidarla a una comunità (così prescrive la legge). Il potente B., probabilmente amante di Ruby, teme che costei lo “sputtani” e “ordina” di consegnarla alla sua fida “igienista dentale”. Ostuni e Iafrate, lieti di compiacere il potente ovvero spaventati da lui, obbediscono. Molti cantastorie raccontano il trionfo del vizio; forte è l’indignazione dei benpensanti. Maroni, compagno di governo di B., spontaneamente o sollecitato, li rassicura con una menzogna: la Polizia ha fatto il suo dovere, obbedendo agli ordini del pm. Bruti Liberati gli fa eco, non si sa se con consapevole menzogna o superficiale accertamento: la Polizia ha agito “correttamente”.
FIORILLO si incazza: mi fanno passare per ignorante o, peggio, serva di B. ; chiede al Csm di valutare i fatti e intervenire a sua tutela perché sia chiaro che ella ha fatto il suo dovere, applicando la legge. Il Csm (che di pratiche a tutela ne ha fatte qualche migliaio) si dichiara non competente. Bruti Liberati si guarda bene dal correggere il suo falso comunicato. Fiorillo, abbandonata da tutti e additata come incompetente professionista al pubblico disprezzo, racconta a giornalisti cartacei e televisivi come sono andate le cose.
Bugiardi colposi e dolosi si arrabbiano e il Csm condanna Fiorillo per aver trasgredito all’ordine esplicito del suo capo Frediani. Per scaricarsi la coscienza, il Csm affetta virtuosa integrità: condanno perché la legge è legge; ma sento il bisogno di affermare che la vicenda si è svolta così come ha dichiarato Fiorillo. Qualche anno dopo, uno scriba ignoto, indignato per lo strazio arrecato alla virtù e per l’omaggio offerto al vizio, riprende la storia e ne immagina un confortante sviluppo. Annamaria Fiorillo si ricorda della favola del panettiere, del Re di Prussia Federico II e del giudice di Berlino; e presenta un ricorso alla Corte di Cassazione. Racconta che il sostituto procuratore generale che chiese la sua condanna al Csm era Elisabetta Cesqui, personaggio di spicco di Magistratura democratica, di cui Bruti Liberati è stato a lungo presidente ed è vera e propria icona. Sommessamente lamenta che ragioni di opportunità (anche i pm debbono essere e apparire imparziali) avrebbero consigliato di affidare l’accusa a persona meno legata al procuratore di Milano, il cui comunicato stampa sarebbe stato platealmente smentito dalla sua assoluzione.
INVITA la Corte a valutare l’incoerenza del Csm che sollecitamente incolpa lei per aver disatteso l’ordine del procuratore dei Minori Frediani; e che però non assume alcuna iniziativa nei confronti del procuratore di Milano Bruti Liberati. Eppure costui non solo ha emesso un comunicato obiettivamente falso (questo sì indice di scarsa professionalità e colpevole ingenuità) ma ha omesso, una volta noti i fatti, di emetterne altro, a correzione del primo, a tutela dell’immagine pubblica e professionale di lei stessa Fiorillo e della Procura dei minori. Ricorda infine che lo stesso Csm (Sezione Disciplinare del Csm n. 52/99) aveva ritenuto “giustificate le dichiarazioni alla stampa, fatte per rispondere ad accuse già pubblicate su una certa testata giornalistica, e che esigevano il diritto di ripristinare la rappresentazione reale del proprio operato, contro rovesciamenti di prospettiva distorti e/o offensivi per sé e/o per l’ufficio giudiziario di appartenenza”. La Corte di Cassazione si rende conto dell’oltraggio patito da Fiorillo e applica l’esimente della legittima difesa: in linguaggio paragiuridico (per l’occasione preso in prestito da Marco Travaglio) scrive in sentenza che mandare impuniti funzionari pavidi o compiacenti e magistrati disattenti ed eccessivamente prudenti, “censurando” l’unica persona che ha fatto il proprio dovere, è un vero schifo.

il Fatto 14.5.13
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, mi domando se il comizio di Brescia non si possa definire, in termini legali, “adunata sediziosa”, un comizio di false informazioni da parte di una falsa autorità al fine di provocare sollevazione. Perché tanta tolleranza?
Patrizio

CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande. E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento. Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori). La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio. Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.

il Fatto 13.5.13
Boldrini: “Su contestazioni, non rappresento Sel. Solidarietà a deputate Pdl”
di Andrea Postiglione


“La contestazione di Brescia è politica e Sel ha già risposto. Io non rappresento Sel”. Da Napoli, dove tra l’altro ha visitato Città della Scienza, il presidente della Camera Laura Boldrini risponde a chi tra le file del Pdl ieri chiedeva una sua condanna per le contestazioni durante la manifestazione di Brescia di sabato scorso. “Quanto agli insulti sessisti verso le deputate – ha proseguito la Boldrini – io non ne ero al corrente perché non si evincevano dalle cronache giornalistiche, ma se ci sono stati è ovvio che vanno condannati. Esprimo tutta la mia solidarietà alle donne che hanno ricevuto insulti in quanto donne e questo non ha colore politico”. “Chi strumentalizza – ha poi detto riferendosi alle dichiarazioni di Sallusti – lo fa in modo pretestuoso perché io questa sfida culturale l’ho già lanciata e credo che sia chiaro a tutti. Se poi qualcuno vuole, ogni volta che succede un evento del genere, rilanciare la polemica secondo me non ha altro da fare”. Ma sulla presenza alla manifestazione del ministro degli Interni Angelino Alfano (Pdl), il Presidente della Camera non ha voluto rispondere.
con un video, qui

il Fatto 14.5.13
Francesco abdica da sovrano, ma solo sull’annuario


PER L’ANNUARIO pontificio, Papa Francesco si è fatto togliere la qualifica di “sovrano dello Stato della Città del Vaticano”, a conferma che l’ex cardinale Jorge Bergoglio si sente più pastore che re illuminato di uno Stato. Nella pagina del suo profilo, la prima che riguarda il vicario di Cristo, Francesco ha fatto scrivere: “Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, Primate d'Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, Servo dei Servi di Dio”. Benedetto XVI è ufficialmente Sommo Pontefice emerito. Ieri Francesco ha aggiunto ancora parole alla sua idea di Chiesa: “Meno burocrazia e meno sovrastrutture”.

La Stampa 14.5.13
Preti e massoni relazioni pericolose
di Alberto Papuzzi


Può un cattolico essere massone? No. Per quanto i rapporti siano diventati meno ostili, rispetto alle origini della massoneria italiana (attorno al 1730), tuttavia la Chiesa non può accettare il dominio occulto e l’esoterismo segreto che si praticano nella società dei liberi muratori: chi vi aderisce è di fatto scomunicato. Si mette fuori dell’ambito ecclesiale. Ciò non toglie che fra le due organizzazioni si sia costituito, storicamente e culturalmente, un tessuto connettivo profondamente radicato. Ci sono notoriamente massoni fra i preti, si è parlato persino di papi massoni (con leggendari sospetti su Giovanni XXIII e Paolo VI), nelle alte sfere della Santa Sede siedono uomini di fiducia massoni.
Questo iceberg di misteri è l’oggetto di una complessa inchiesta di due giornalisti, Giacomo Galeazzi ( La Stampa) e Ferruccio Pinotti ( Corriere della Sera ), che arriva nelle librerie in un volume dal titolo provocatorio: Vaticano massone (Piemme, pp. 304, € 18,50). Una ricerca scottante, ricca di documenti.
Una prima parte è dedicata alle trame che irretiscono da decenni l’immagine della Chiesa in Italia: si rivedono le vicende dei Calvi, Sindona, Marcinkus, Ortolani, con esiti che arrivano fino a lambire l’elezione di Bergoglio alla cattedra di Pietro. Papa Francesco è visto come l’ultimo atto di una «guerra per bande». Una seconda parte analizza la posizione delle massonerie ufficiali nei confronti della Chiesa, interrogando i vertici delle tre grandi obbedienze italiane: il Grande Oriente d’Italia, il raggruppamento più potente, la Grande Loggia d’Italia (che ammette anche le donne) e la Grande Loggia Regolare, nata all’interno d’uno scisma. Parlano anche il Grande Oriente Democratico e le massonerie dissidenti. Tutti denunciando difficoltà di dialogo con la Santa Sede. Una terza parte più sintetica considera lo scacchiere mondiale della massoneria.
Chiude il volume un’appendice di interviste, in cui parla anche un «massone pentito». Chi conta di più, gli viene chiesto, fra i massoni italiani? Bernabè, risponde, uomo di Rothschild, mentre Monti sarebbe l’uomo dei Rockefeller. Provocazioni da prendere con la dovuta cautela, si raccomandano gli autori.

«Vaticano rapace. Lo scandaloso finanziamento dell'Italia alla Chiesa»
Corriere 14.5.13
I segreti dei gentiluomini con il collare d'oro
di Dino Messina


Secondo una ricerca condotta da Franco Garelli, nel 2007 il 45,9 per cento degli italiani dichiarava di credere in Dio senza dubbi e il 36,8 con dubbi, mentre il 17,3 si diceva assolutamente ateo. Secondo la stessa ricerca, soltanto il 64 per cento della popolazione rispondeva di avere fiducia nella Chiesa cattolica come istituzione. I segni di secolarizzazione della società sono evidenti anche dai dati del censimento 2011, pubblicati nell'annuario statistico 2012 dell'Istat. Un esempio su tutti: per la prima volta nell'Italia del Nord il numero dei matrimoni civili ha superato quello dei matrimoni religiosi.
Come mai, di fronte a questa evoluzione in senso laico della società, il finanziamento degli italiani alla Chiesa cattolica è in costante aumento? Attorno a questa domanda ruota il nuovo saggio di Massimo Teodori, ex parlamentare, americanista, storico, editorialista del «Corriere della Sera»: Vaticano rapace. Lo scandaloso finanziamento dell'Italia alla Chiesa (Marsilio, pp. 176, 13). Dopo un chiaro excursus che va dalla legge delle guarentigie (1871) al Concordato firmato dal cardinale Gasparri e da Mussolini (1929) e alle modifiche firmate nel 1984 da Bettino Craxi e Agostino Casaroli, Teodori arriva a spiegare il meccanismo che consente alla Chiesa cattolica, grazie a un ambiguo meccanismo di legge, di usufruire dell'85 per cento del totale dell'8 per mille destinato alle istituzioni religiose, nonostante solo il 37 per cento dei contribuenti nel 2010 vi abbia destinato esplicitamente il proprio contributo.
Grazie a un criterio che «proietta la scelta della minoranza dei contribuenti consapevoli anche su tutti gli inconsapevoli» (cioè la maggioranza dei contribuenti che non fanno alcuna scelta), i vescovi italiani hanno ricevuto dal gettito Irpef del 2011 un miliardo e 118 milioni di euro. Di questa somma, solo 361 milioni vanno per il mantenimento del clero. Degli altri 757 milioni, 467 vanno a «esigenze di culto e pastorali», 85 alle diocesi per la carità, 55 vengono accantonati «a futura destinazione», 45 utilizzati per «esigenze di rilievo nazionale», quali «le campagne sui temi politici o la propaganda televisiva».
Vaticano rapace non ruota soltanto attorno alle enormi somme destinate dallo Stato italiano alla Chiesa, ben superiori alle «congrue» previste dalle leggi dell'Italia liberale e confermate dal Concordato del 1929, ma dedica capitoli allo Ior (Istituto opere religiose) che, nonostante non sia ritenuto una banca dal Vaticano, è stato storicamente anche una centrale di traffici poco puliti. E a quei personaggi «con il frac e il collare d'oro», i «gentiluomini di Sua Santità», fra cui sono capitati il piduista Umberto Ortolani, il boss dei lavori pubblici Angelo Balducci e il prefetto Francesco La Motta, emerso in questi giorni agli onori delle cronache giudiziarie per una decina di milioni destinati agli edifici di culto e finiti invece in fondi segreti in Svizzera.
Ci viene da suggerire la lettura di questo bel libro di Teodori per capire quanto necessaria alla Chiesa sia la svolta che sta imprimendo papa Francesco.

Repubblica 14.5.13
Le dimissioni del papa tra teologia e politica
“Il mistero del male” di Giorgio Agamben sulla scelta radicale di Ratzinger
di Antonio Gnoli


Un oscuro teologo del IV secolo fa da sfondo dottrinale alla decisione del Papa di abdicare al suo magistero. Possibile? Ce lo racconta con il solito raffinato incastro di testi Giorgio Agamben nel nuovo libro: Il mistero del male (Laterza). Da anni egli affronta il significato politico della fine dei tempi, sfrondandolo dagli orpelli apocalittici e cogliendone il senso in una plausibile ricerca filologica. I testi a volte ci parlano: nella loro autorevolezza sopportano l’usura del tempo e ci indicano strade che avevamo abbandonato. Non è questo il senso della tradizione, di quella sapienza archeologica che segna a volte il nostro agire più consapevole?
Proprio Joseph Ratzinger, appena trentenne, pubblicò un dotto articolo per spiegare la posizione dottrinaria di Ticonio in merito alla Chiesa. Costui era un donatista che avendo descritto una Chiesa al tempo stesso malvagia e giusta, seppe coglierne la struttura bipartita che comprende in sé tanto il peccato quanto la grazia. In una prospettiva escatologica questi due corpi della Chiesa sono destinati a convivere fino alla fine dei tempi. Allorché il Giudizio universale dividerà definitivamente i malvagi dai giusti, il Cristo dall’Anticristo. Fino a quel momento le due “anime” conserveranno una loro presenza nello stesso corpo della Chiesa. È in questo contesto teologico che Agamben colloca il gesto rivoluzionario di Benedetto XVI. Che non è un atto di viltà – accusa già rivolta a Celestino V – né di stanchezza, ma una meditata e sofferta scelta dottrinaria che lo ha posto all’altezza della drammatica situazione in cui la Chiesa si trova a vivere.
Può, infatti, questo istituto millenario attendere che il gran conflitto tra i malvagi e i giusti si risolva alla fine dei tempi? Ecco perché la prospettiva escatologica va ricondotta a quella storica, il tempo dell’apocalisse al nostro tempo. La Chiesa, ci rammenta Agamben, non può sopravvivere se rimanda passivamente alla fine dei tempi la soluzione del conflitto che ne dilania il “corpo bipartito”. D’altro canto, l’aver ignorato lo sguardo escatologico ha pervertito l’azione salvifica della Chiesa nel mondo. L’ha resa per così dire cieca e priva di scopo. Di qui gli scandali, la corruzione e quel corredo negativo che ne hanno stravolto l’immagine. Agamben sottrae il male al cupo dramma teologico e lo restituisce al suo vero contesto storico, nel cui spazio ognuno è chiamato a fare senza riserve la sua parte. Decidere, d’accordo. Ma su cosa? E per quali opzioni o scelte?
Benedetto XVI suggerisce una strada. La sua decisione radicale rinvigorisce l’idea di giustizia e di legittimità. Rimette in moto una macchina politica senza la quale la Chiesa sarebbe destinata a inabissarsi. Non è di un analogo destino che soffre la nostra società? Ancora una volta teologia e politica incrociano due categorie – legittimità e legalità - oggi confuse o smarrite. La profondità della crisi che la nostra società sta attraversando, dice Agamben, va ricondotta anche al tentativo della modernità di far coincidere legalità e legittimità.
Una Chiesa dei giusti non trionferà senza una lotta ai malvagi; così come una società equa non prevarrà senza il ricorso alla giustizia che è un concetto più profondo della legalità. Chi può avere oggi la forza di trasferire nel profano ciò che Benedetto XVI – con il suo richiamo all’Auctoritas (al potere spirituale) - ha svolto nell’ambito del teologico? Le nostre vite, attraversate da crisi terribili, hanno urgenze mondane che si scontrano con l’ideologia liberista oggi dominante. Nota Agamben che il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quello della giustizia e finge di poter governare una società sempre più ingovernabile secondo criteri esclusivamente tecnici. Chiamiamola pure dittatura dell’algoritmo. Ma chi oggi ha un potere così immenso da potervi perfino abdicare? Non è da questa rinuncia che possa nascere una nuova occasione per la politica. Perché il potere sembra esser sfuggito dalle mani dell’uomo. Ecco il dramma storico e il “mistero” dal quale bisogna ripartire.

Il mistero del male “Benedetto XVI e la fine dei tempi” di Giorgio Agamben (Laterza pagg. 80 euro 7)

Repubblica 14.5.13
Pedofilia, una class action in Italia
le vittime chiedono i danni alla Chiesa
di Elena Affinito e Giorgio Ragnoli

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Corriere 14.5.13
Kabobo interrogato
«Sentivo delle voci cattive. Così ho preso il piccone»
di Cesare Giuzzi e Gianni Santucci


MILANO — Ecco come inizia un massacro: «Ho dormito in una stazione dei treni. Quando mi sono svegliato, una voce mi ha detto "vai e colpisci"».
Mada Kabobo, 31 anni, sta seduto accanto a un interprete. Dall'altra parte c'è il gip del Tribunale di Milano, Andrea Ghinetti, che alla fine della mattinata convaliderà il suo arresto per l'omicidio di Alessandro Carolè, 40 anni, ucciso all'alba di sabato davanti a un bar.
Prima che si chiuda l'interrogatorio di garanzia, in un reparto di neurorianimazione, muore però Daniele Carella, 21 anni. È la seconda vittima di Mada Kabobo. Il ragazzo è stato assalito alle spalle, alle 6 e 20 del mattino (pochi minuti dopo Carolè). Il ghanese gli ha fracassato il cranio con un piccone. Ermanno Masini, 64 anni, attaccato da Kabobo in un piccolo parco, è ancora in fin di vita. Aggrediti tutti nel giro di un quarto d'ora o poco più.
Ieri, per la prima volta, davanti al magistrato, è lo stesso imputato a ripercorre l'ossessione e la sequenza dei suoi omicidi. A partire dalla notte.
Il suo avvicinamento alla violenza è stato graduale: «Ho preso un bastone. Erano le 4 e mezza. La prima persona l'ho incontrata ai giardinetti, ma aveva un cane. Ha iniziato ad abbaiare forte. Mi sono agitato». È difficile parlare di una vera e propria ricostruzione. E già questo racconta qualcosa della follia omicida: Kabobo è analfabeta; balbetta solo poche parole di italiano, senza essere in grado di costruire una frase; dice di provenire da un villaggio o una cittadina sperduta del Ghana che per ora non è stato possibile identificare; parla un dialetto minore del suo Paese, per il quale non si trovano interpreti; il suo inglese è meno che maccheronico. A stento riesce però a spiegare: «Sono arrivato dalla Libia. È là che ho iniziato a sentire le voci». È un passaggio chiave.
Kabobo è arrivato in Italia nel 2011, con l'ondata di profughi sbarcati dall'allora Paese di Gheddafi. Sappiamo che molti di quegli immigrati dal centro Africa hanno fatto viaggi stremanti nel deserto; altri hanno passato mesi in centri di detenzione in Libia. Che lui collochi «le voci» dei suoi fantasmi ossessivi proprio in quella fase, potrebbe essere di una certa importanza per comprendere il suo passato. Lo sbarco in Italia aggiunge un altro tassello: «Sono arrivato con due miei connazionali — racconta durante l'interrogatorio — ma quasi subito li ho persi di vista. Ora qui non conosco nessuno». Gli chiedono: come ha fatto a vivere fino a oggi? «Ho chiesto l'elemosina». Si è mai rivolto a un centro di aiuto? «Mai. Non ho malattie, non sono mai entrato in un ospedale, non sono stato mai curato».
Chi si domanda da dove possa nascere un'esplosione di violenza così inconcepibile (due feriti, un uomo in fin di vita e due morti in un'ora e mezza di tempo e in meno di un chilometro di strada) dovrà tener presente questo profilo. Un immigrato analfabeta; senza alcun contatto con l'esterno; senza alcuna relazione sociale; qualche crimine alle spalle; un'esperienza probabilmente estrema nel deserto africano. Tutti elementi che, innestati su una mente deviata, possono aver creato il terreno di un delirio esploso senza preavviso molto più tardi.
In un momento dell'interrogatorio viene mostrato il drammatico filmato di un'aggressione ripresa da una telecamera sulla strada. Sei stato tu? «Sì — ammette Kabobo — la voce mi ha detto di farlo». Nelle stesse immagini si vede l'uomo mentre afferra un telefonino dopo aver colpito quattro volte col piccone una delle vittime. In tasca, alla fine, gli verranno trovati tre cellulari. E anche due chiavi: una di un'auto, l'altra di un appartamento. Improbabile che siano sue. Potrebbe averle rubate, o trovate chissà dove, durante i suoi mesi trascorsi in strada come un fantasma solitario.
In una di quelle strade, non lontano dal quartiere Niguarda, in via Stella, ieri mattina sono state trovate quattro bottiglie molotov. Erano proprio sulla rampa di accesso del garage di un centro che, fino a un mese fa, era utilizzato dal Comune di Milano proprio per ospitare i rifugiati dell'«emergenza profughi».

Repubblica 14.5.13
Kabobo: “Guidato dalle voci mi dicevano di fare cose cattive”
di Sandro De Riccardis


MILANO — «Mi hanno guidato le voci, di solito le sento e cammino, ma sabato mi hanno detto di fare cose cattive ». A frasi sconnesse, con un inglese elementare mischiato a parole pronunciate nell’idioma del suo villaggio in Ghana, Adam Kabobo ha cercato di rispondere, ieri mattina, al gip Andrea Ghinetti che lo ha interrogato a San Vittore.
Nella sua cella in isolamento, dove è tenuto sotto stretta osservazione, l’uomo che ha ucciso due passanti al quartiere Niguarda lasciandone in fin di vita un terzo, non ha saputo dare una spiegazione credibile sulla sua esplosione di violenza: non conosceva le vittime, non le aveva mai incontrate prima, era arrivato da poco all’estrema periferia nord di Milano, non ha amici né compagni di viaggio. Assistito dal suo legale Matteo Parravicini, il 31enne irregolare ha incontrato anche uno psicologo ma ha solo parlato di quelle «voci che mi dicono di fare cose cattive». Non ha saputo dire dove ha trovato la spranga con cui alle 4 di mattina ha colpito i primi due passanti, né come si è trovato tra le mani il piccone che ha provocato i morti e i feriti gravi.
Sui 143 minuti trascorsi dalla prima sprangata a un commesso i 23 anni che va a farsi medicare al pronto soccorso fino alla telefonata di un passante che chiama i carabinieri, si concentrano ora le indagini del pm Isidoro Palma. Vengono sentiti testimoni del quartiere e operatori sanitari che hanno ricevuto i primi feriti, senza tuttavia far scattare l’allarme che avrebbe potuto evitare altre vittime. Viene anche ricostruito il passato di Kabobo da quando è arrivato in Italia. L’ultimo controllo a Milano un mese fa. Ma era stato identificato a Foggia, nel luglio 2012, quando l’uomo fu registrato con generalità sbagliate. Proprio a Foggia, Kabobo aveva manifestato segni di instabilità mentale al Cara, il Centro accoglienza richiedenti asilo, dove diventava violento ogni volta che vedeva una televisione. Tanto violento da distruggere più di un apparecchio e indurre la direzione del centro a dargli una cella senza tv.

l’Unità 14.5.13
Così possiamo fermare il femminicidio
di Roberta Agostini

Coordinatrice donne Pd

LA STRAGE SILENZIOSA DELLE DONNE NEL NOSTRO PAESE CONTINUA, RACCONTATA CON IL CLAMORE DEI CASI DI CRONACA. Ilaria Leone, Alessandra Iacullo, Chiara di Vita, Michela Fioretti sono state le ultime, in ordine di tempo a perdere la vita uccise da mani maschili.
Nonostante le apparenze, il primo punto da tenere bene a mente è questo: non si tratta di un'emergenza ma di un fenomeno radicato, pervasivo e strutturale, che ha bisogno di essere letto e considerato come tale.
Ci si interroga di fronte all'ennesimo caso e ci si chiede il motivo dell'esplosione di tanti delitti. Massimo Recalcati qualche tempo fa ha scritto che la violenza non è una regressione dall'uomo all'animale, ma accompagna da sempre, come un ombra, la storia dell'uomo. Nasce dall'incapacità (maschile) di accettare il proprio limite, il proprio fallimento, «la ferita narcisistica subita dalla propria immagine» in una miscela esplosiva di narcisismo, appunto, e depressione. Totalmente immersi in una cultura che insegue il «nuovo» ed il «successo» il ricorso alla violenza esorcizza vulnerabilità ed insufficienza.Qui, credo, dobbiamo registrare l’andamento di un dibattito pubblico che è, anche se solo in parte, cambiato. Fino a qualche anno fa non era un dato acquisito ricercare la causa della violenza nelle relazioni sbagliate tra uomini e donne, in una concezione maschile di dominio, in un’incapacità di accettare libertà ed autonomia femminile. Forse non lo è neppure ora, ma il piano dell’ordine pubblico e della sicurezza (che pure è importante per la vivibilità delle città) è stato dominante in molti passaggi cruciali. Ricordo gli argomenti branditi come una clava durante la campagna elettorale di cinque anni fa di fronte alla terribile morte della signora Reggiani a Roma. La sicurezza urbana va garantita, ma questa garanzia non è condizione sufficiente per battere la violenza.
Abbiamo nominato quello che, sotto gli occhi di tutti, senza un nome non veniva visto e riconosciuto, il femminicidio. Queste morti non le possiamo più catalogare in modo indistinto nella cronaca nera: le donne sono uccise in quanto e perché donne, in quanto appartenenti ad un genere, fatte oggetto di discriminazioni, ingiurie, offese e lesioni fisiche, economiche, psicologiche.
Non è una parola solo italiana. Viene dal Messico e arriva fino in India dove grandi manifestazioni contro le barbare uccisioni attraversano il Paese. È il risultato di un movimento mondiale che lavora in molti modi diversi per affermare il ruolo e difendere la dignità delle donne: nelle forze sociali e politiche, nelle associazioni, nelle università, nelle case e nei centri antiviolenza. Molte delle uccise avevano precedentemente denunciato il loro aguzzino. Cosa è successo, perché non sono state ascoltate e protette da chi aveva il compito di farlo? Cominciamo a ricercare le responsabilità. E poi rilanciamo politiche concrete, sappiamo cosa fare ce lo dicono documenti ed esperienze, nazionali ed internazionali.
È indispensabile in primo luogo conoscere il fenomeno attraverso un Osservatorio e poi rafforzare la presenza dei centri antiviolenza e dei servizi, pubblici e convenzionati, luoghi dove si può chiedere aiuto e dove le donne possono essere ascoltate e prese in carico da altre donne. Ed è indispensabile che i centri siano nodi di una rete territoriale che connetta servizi sociali, ospedali, forze di polizia.
È necessario formare tutti gli operatori ed i soggetti che accolgono, sostengono e soccorrono le donne vittime di abusi; attivare campagne di prevenzione e sensibilizzazione a partire dalle scuole, educando i bambini al rispetto tra i sessi; introdurre norme per la tutela della vittima nella fase più delicata del procedimento penale ovvero quella delle indagini; assegnare carattere prioritario per i procedimenti penali per i reati sessuali o contro la personalità individuale per consentire alle vittime di vedere nel più breve tempo possibile soddisfatti i loro diritti.
Servono risorse ed un fondo stabile appositamente dedicato. E quale migliore occasione di un Parlamento fortemente rinnovato e con il 30% di presenza femminile? Chiediamo da tempo che il Parlamento ratifichi la Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa per la prevenzione ed il contrasto della violenza domestica e sulle donne. Ora è possibile farlo. Sosterremo senza esitazioni la proposta della ministra Idem di una task force contro il femminicidio. Altrettanto importante sarebbe se tutte le elette si facessero portatrici di un percorso di condivisione con le associazioni e con i centri anti violenza per formulare una proposta di legge sul femminicidio che segua e dia attuazione alla Convenzione, da approvare il prima possibile. C’è uno strumento ancora che abbiamo per sconfiggere la violenza, che è politico e simbolico. Riguarda la forza e l'autorevolezza delle donne che ricoprono ruoli decisionali, che siedono ai vertici delle istituzioni, che guidano l'economia. Le offese e le minacce alla presidente Boldrini ci parlano anche di questo, ancora una volta della difficoltà di accettare il fatto che una donna ricopra un ruolo tanto importante. Le donne devono tornare a fidarsi dello Stato e delle istituzioni e lo Stato deve affidarsi di più alle donne . Il nostro impegno di elette sarà essenziale affinché le cittadine italiane possano sentirsi rappresentate e sentano la nostra presenza utile per la loro quotidianità.

Corriere 14.5.13
Sfuggite agli aguzzini e collaboratrici di giustizia
Ma l'Italia le «premia» chiudendole nei Cie
La denuncia: immigrate costrette a prostituirsi finite nelle strutture «pur avendo collaborato con la giustizia»
di Rinaldo Frignani

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il Fatto 14.5.13
Pedofilia, l’orco era la mamma
di Valerio Cattano


La polizia postale si infiltra nel “web invisibile” e scopre genitori che abusavano dei figli per poi mettere tutto on line

Genitori che abusano sessualmente dei propri figli. Adulti che fanno “ordinazioni” di un certo genere di filmati. Il copione di quel film dell’orrore che è la pedopornografia sul web si accresce di un capitolo inquietante, portato dall’oscurità alla luce dei riflettori dall’operazione Tor della Polizia Postale di Catania. Quatto arresti, identificate due vittime al di sotto dei dieci anni. Quest’ultimo aspetto non è secondario, perchè spesso i minorenni rimangono solo volti a cui gli stessi poliziotti non riescono a dare identità. Stavolta si potrà tentare – non senza difficoltà – un percorso di recupero. Le persone sottoposte ad indagine nel complesso sono nove.
TOR è un programma che può essere scaricato su qualsiasi computer. Serve a far ricerche senza che il proprio ip sia identificato e rintracciato. Per esempio, se attraverso Tor si cerca di accedere al proprio profilo facebook, il social segnala subito una “intromissione ” perchè l'ip viene localizzato in un paese straniero rispetto all'account originale. Tor è la “porta” attraverso cui i poliziotti informatici sono entrati nel Deep web, una delle parti oscure della Rete. Per avere una idea della mole di documenti che sfugge alla parte conosciuta del web attraverso Google, basta scorrere poche cifre: on line si trovano 550 miliardi di documenti, Google ne ha traccia “solo” di 2 miliardi.
IL WEB INVISIBILE, (conosciuto anche come Web sommerso o Deep web) è l’insieme delle risorse informative del mondo di internet non segnalate dai normali motori di ricerca. Il contenuto, le pagine, i dati e le informazioni che si trovano nel Deep web sfuggono ai motori di ricerca. Si tratta di praterie battute da terroristi, spacciatori di droga, hacker e pedofili, che sanno come rendersi anonimi, a volte utilizzando pagine web dinamiche, dal contenuto generato sul momento da un server, al quale si accede solo con parole chiave o compilando una sorta di registrazione. Su questo terreno si sono mossi gli agenti della Postale. I poliziotti agendo sotto copertura hanno finalmente trovato la pista che li ha condotti allo scenario da incubo: set di immagini in cui un bambino era abusato, anche con oggetti religiosi. Non si trattava di soggetti stranieri come spesso accade, ma di italiani. Chi metteva in atto le violenze era la madre del bambino (il padre risulta all’oscuro di tutta la vicenda). È stato il primo passo: identificata la donna - già conosciuta per adescare minorenni vestita da suora - i poliziotti sono risaliti al resto del gruppo “pedocriminale”. Quattro arresti in varie parti d’Italia: l’uomo rintracciato a Torino era colui che richiedeva – secondo le indagini della Postale – in particolare quel tipo di immagini, per poi divulgarle sul Deep Web. A Roma è emersa l’altra storia raccapricciante: un padre di 41 anni che si riprendeva mentre abusava sessualmente della figlia di 9 anni.
IL TERZO arrestato è un torinese di 28 anni che aveva archiviato nel computer 75 mila files pedopornografici, fra cui una dodicenne adescata su facebook; il quarto arrestato è stato fermato a Rimini. Le accuse rivolte alle persone identificate, a vario titolo indicano produzione, commercio, divulgazione e detenzione di materiale pedo-pornografico, abuso su minori di età inferiore ai dieci anni d’età, commesso proprio al fine di “caricare” on line le immagini pedopornografiche. La storia della donna catanese che adescava minorenni travestita da suora, era già emersa nel novembre dello scorso anno, ed è dunque, per lei, il secondo ordine di custodia cautelare: sono state individuate anche le chiese da lei profanate, in provincia di Torino. Fra la falsa suora e il torinese che faceva le ordinazioni sulle “esibizioni” c’è un rapporto di parentela. Ulteriore sfumatura di una storia malata, in cui l’orco è la mamma.

l’Unità 14.5.13
Fuori dai manicomi. Tutti pazzi per la 181
Una possibile integrazione alla legge Basaglia
Più supporto al paziente, alle famiglie, collaborazione tra i servizi e strutture finalmente accoglienti. Una proposta per garantire cure dignitose a chi soffre di disagio psichico
di Cristiana Pulcinelli


È STRANO CHE IN UN ARTICOLO DI LEGGE SI PARLI DI «FIDUCIA» E DI «SPERANZA» O CHE SI RIVENDICHI IL DIRITTO A «COLORI PASTELLO ALLE PARETI» O A «UN’ACCOGLIENZA CALDA E SORRIDENTE». Nella legge 181 invece lo si fa. Una piccola rivoluzione linguistica attraverso cui cogliamo la vera rivoluzione, quella che riguarda il modo in cui si pensa alla cura delle persone con disturbi mentali: «Senza speranza e fiducia è difficile che ci possa essere un miglioramento» sintetizza Renzo De Stefani.
De Stefani è direttore del Dipartimento di salute mentale di Trento, ma è anche referente nazionale del movimento Le parole ritrovate a cui si deve l’elaborazione della proposta di legge che è stata presentata ieri a Roma con lo slogan «Tutti pazzi per la 181!». La scelta del nome della legge e del giorno della sua presentazione non sono casuali. Il 13 maggio di 35 anni fa, infatti, veniva approvata la legge 180, nota anche come legge Basaglia. La 181 vuole essere la continuazione di quella legge e risolvere la sua mancata applicazione. Perché? La legge ha sancito tre principi: primo, che i manicomi andavano chiusi; secondo, che di norma i trattamenti per malattia mentale sono volontari (l’obbligatorietà è limitata a poche e definite situazioni); terzo, che «gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi extraospedalieri». Proprio quest’ultimo punto è quello di cui si discute. Il problema infatti è che la 180 è una legge quadro: non dice cosa fare, dove, come e quando. Le regioni, dal canto loro, hanno emanato altre leggi al riguardo, ma che sono rimaste scollegate tra loro e che comunque hanno generato servizi diversi a seconda della sensibilità dell’amministratore locale. Questo ha fatto sì che la risposta al problema a macchia di leopardo. Allora, come garantire cure dignitose per tutte le persone che soffrono di disagio psichico, a prescindere da dove vivono? Il problema non è di poco conto perché si considera che in Italia ci siano oggi almeno 500.000 persone che soffrono di malattie mentali importanti. E circa 2 milioni sono i familiari di queste persone. In tutto quasi tre milioni di italiani che ogni giorno devono confrontarsi con questo dramma.
La proposta, che dai prossimi giorni dovrà raccogliere almeno 50.000 firme a livello nazionale per essere poi discussa in Parlamento, vuole aiutare le realtà in ritardo proponendo il modello del «fareassieme», ovvero un modello nel quale gli operatori, gli utenti del servizio e i familiari lavorino insieme. Cosa fare? Innanzitutto si può partire da cose semplici come l’accoglienza. I luoghi fisici devono garantire un comfort non inferiore a «un albergo a tre stelle» con colori pastello alle pareti e piante, magari comperate grazie a sponsor privati. Poi il rapporto con le famiglie che deve essere di squadra. A questo proposito, la 181 propone di allargare al territorio nazionale l’esperienza degli Ufe (Utenti e familiari esperti). Si tratta di persone che hanno fatto un buon percorso di cura e che trasferiscono la loro esperienza ad altre persone che vivono il disagio. E, ancora, la crisi. Quando scoppia, la famiglia non può essere lasciata sola. Ecco allora che la 181 dice che «è impegno prioritario dei Dipartimenti e delle Consulte di salute mentale intervenire nelle situazioni di crisi entro la giornata della segnalazione». Il che vuol dire, in soldoni, che il servizio deve essere aperto sempre, non dal lunedì al venerdì, ma tutti i giorni della settimana. Un altro punto caldo è quello che riguarda la casa, il lavoro, la socialità. Si tratta di tre condizioni necessarie per stare bene, anche per chi soffre di un disagio psichico.
Ma c’è chi questa proposta non la condivide. Per Emilio Lupo, segretario di Pischiatria democratica, «Esiste la legge quadro ed esistono i progetti obiettivo regionali. Nella legge c’è già la centralità dei servizi territoriali, c’è il nuovo protagonismo di utenti e familiari, c’è la centralità dell’abitare e del lavoro, il resto può essere inserito nei regolamenti aziendali o nei progetti obiettivo regionali. Il problema oggi è un altro: il depauperamento delle risorse dei dipartimenti di salute mentale. Oggi non c’è turn over, le risorse per l’abitare e per il lavoro sono sempre meno. Il che vuol dire che si può aprire una deriva verso una alla neoistituzonalizzazione. Oggi c’è da difendere la centralità del servizio pubblico, partendo dalla linea di demarcazione della 180».

Corriere 14.5.13
Che ci fanno ancora qui?
Dentro l'ospedale giudiziario di Aversa. Uno dei sei rimasti in Italia. Dovevano chiudere entro il 31 marzo 2013 e invece sono ancora funzionanti
di Fulvio Bufi

con un video qui

Corriere 14.5.13
Bergamo
Per la festa della mamma i naziskin festeggiano la moglie di Goebbels
di Armando Di Landro

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l’Unità 14.5.13
Neo-nazionalisti crescono nell’Europa della crisi
Un fenomeno in crescita Nel 2014, nel Parlamento di Strasburgo almeno un quarto dei deputati potrebbe essere «euroscettico»
Il loro collante politico è l’avversione all’Unione «dell’omologazione e degli affaristi»
Nel loro dna l’odio verso gli immigrati, l’antisemitismo e la xenofobia
di Umberto De Giovannangeli


L’appuntamento è fissato. Tra un anno. Quando gli «antieuropei» proveranno, con il voto, a conquistare l’Europa. Dall’Ungheria alla Norvegia fino alla Grecia: xenofobia e odio sociale minacciano l’Europa. Il loro collante politico è l’avversione all’«Europa dell’omologazione e degli affaristi». Il loro collante ideologico rispolvera ideologie e pratiche di un passato che non passa: l’odio verso gli immigrati, l’antisemitismo, la xenofobia. Cercano di cavalcare l’insicurezza sociale prodotta dalla crisi, indirizzandola contro i «palazzi del potere» che «affamano il popolo» e contro «gli scippatori di lavoro»: neri, asiatici, i «diversi» che vanno «rispediti a casa», con ogni mezzo. Il nemico viene individuato nelle classi politiche nazionali cosmopolite e liberiste «traditrici» dei valori tradizionali della nazione e l’Unione Europea, concepita come una creazione figlia della cultura che loro rifiutano.
Un populismo aggressivo, in crescita politica ed elettorale, che attraversa l’Europa da nord a sud, da est a ovest. In questo contesto, annota in un recente saggio Francesco Violi (Il Populismo in Europa e nell’Unione Europea), «l’Ue è un nemico da abbattere, il ladro della sovranità violata, colei che vuole annacquare, omologare o cancellare le tradizioni e le culture differenti, colei che vuole rubare ai popoli la loro sovranità con il placet dei burocrati e delle classi dirigenti decadenti e corrotte, colei che fa l’interesse delle grandi multinazionali e delle grandi lobby finanziarie contro il benessere della gente comune...». L’euroscetticismo è il terreno su cui il populismo nazionalista e dichiaratamente di destra incontra quello di movimenti e partiti nuovi, «adeologici».
MAPPA
Tra i pionieri dell’euroscetticismo, c’è il francese Front National (Fn) guidato da Marine Le Pen. Legato alla Destra sociale, nazionalista e con chiare derive xenofobe, il Fn negli anni si è liberato dalle sue tendenze più estremiste guadagnando terreno tra giovani e operai fino alle presidenziali dello scorso aprile, quando la Le Pen ha ottenuto il 18% dei voti, piazzandosi al terzo posto dopo Hollande e Sarkozy e facendo scattare l’allarme a Bruxelles, preoccupata dalla «minaccia populista» portata avanti in Francia e non solo. Una minaccia che, infatti, si estende a macchia di leopardo in tutta Europa e che in Ungheria è il segno distintivo del partito al governo, Fidesz, e del premier Viktor Orban. Tra i partiti populisti di destra estrema, attualmente presenti al Parlamento europeo e nel proprio Parlamento nazionale che portano avanti questi «valori», ci sono: Diritto e Giustizia in Polonia, Ataka-Attacco Unione Nazionale in Bulgaria (7,38% dei voti nelle politiche dell’altro ieri), Jobbik Movimento per una Ungheria Migliore (16,07% nelle politiche del 2010) , il Partito della Grande Romania, il Partito Nazionale Britannico (Bnp), Alba Dorata in Grecia (7% alle legislative del 2012) e il Partito Nazionale Slovacco.
A questi si uniscono movimenti europei che si muovono in una ottica anti-statalista e anti-omologazione europea, senza raggiungere l’estremismo ideologico della destra radicale: tra questi, il Partito della Libertà in Olanda, in Austria il Partito della Libertà e la Lega per il futuro dell’Austria entrambi creazione del defunto Jörg Haider. Si va dal partito irlandese Libertas, che ha guidato il voto contrario al referendum sul Trattato di Lisbona in Irlanda nel 2008, allo Ukip di Nigel Farage (23% alle elezioni del 2013) nel Regno Unito, un partito che ha al centro del suo programma politico l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Nella realtà scandinava troviamo il Partito del Popolo Danese di Pia Kjaersgaard (elezioni 2011 12,3%, sondaggio Gallup aprile 2013 16%), i Democratici Svedesi, i Veri Finlandesi e il Partito del Progresso in Norvegia, di cui è stato membro Breivik, l’autore del massacro di Utoya. «L’unica forma di europeismo che unisce alcune di queste forze riflette ancora Violi è l’europeismo alla Breivik. L’europeismo dell’odio, l’europeismo del “noi, società aperta e libera” contro loro, “chiusi e pericolosi”, l’europeismo del bene contro il male. Una visione inconciliabile contro una visione universalistica dell’umanità, come vuol essere la proposta federalista».
ALLARME NERO
Non siamo di fronte solo a movimenti marginali. Dal 2008 ad oggi gli anni della crisi più dirompente, il Fn francese ha moltiplicato i suoi consensi fino al 18% delle presidenziali dell’aprile 2012. Nello stesso periodo, in Svezia, per la prima volta i Democratici Svedesi riuscivano ad entrare in Parlamento, in Finlandia i Veri Finlandesi di Timo Soini ottenevano il 19,15% risultando il terzo partito più votato e scavalcando il Partito di centro. In Belgio cresce Vlaams Belang (Interesse Fiammingo) che nelle provinciali del 2012 ha ottenuto il 9%, rivendicando l’indipendenza delle Fiandre e una assoluta contrarietà alla Comunità Europea. In ascesa è anche il partito della Libertà dell’antislamico olandese Geert Wilders che nelle elezioni politiche del 2012 ha ottenuto il 10%.
L’allarme nero è scattato: sulla base dei risultati acquisiti nelle elezioni locali e legislative degli ultimi cinque anni, e di recenti sondaggi, dopo il 2014 l’europarlamento potrebbe avere almeno un quarto dei deputati «euroscettici». Un anno per evitare il disastro.

il Fatto 14.3.13
Assassino della sorella e mentitore, a 12 anni
di Angela Vitaliano


UCCISA A COLTELLATE LA BAMBINA DI 8 ANNI S’INVENTA UN AGGRESSORE E PER DUE SETTIMANE TIENE IN SCACCO LA POLIZIA

New York Ha il volto sorridente, Leila Fowler, e nemmeno gli occhiali un po’ da “secchiona” riescono a rendere meno vispi i suoi occhi. A otto anni, di solito, non c’è spazio per ombre. E non si teme, di certo, un fratello di dodici con il quale si condividono giochi e merendine e non coltelli e sangue.
Sono comprensibili, dunque, oggi, l’orrore e la tristezza che attraversano la tranquilla comunità di Valley Springs – borgo rurale a un centinaio di chilometri da Sacramento, capitale della California – nello scoprire che, in manette, due giorni fa, per l’efferato omicidio della sorella, è finito proprio un altro Fowler, di soli dodici anni.
Da due settimane, da quando cioè la polizia aveva iniziato a indagare sull’omicidio della bambina, avvenuto per emorragia in seguito alle coltellate inferte dal fratello, il dodicenne aveva sempre sostenuto la tesi dell’intruso che era entrato in casa mentre loro due erano da soli. “Un uomo alto, muscoloso e con lunghi capelli grigi”. Ecco l’immagine di killer che, dal 27 aprile scorso, ha spezzato la tranquillità della piccola cittadina in cui i genitori hanno persino scelto di tenere i bambini a casa e non mandarli a scuola.
MENTRE PERÒ gli agenti erano impegnati in una caccia all’uomo senza riposo, il piccolo Fowler, di cui non sono stati forniti né il nome né si hanno fotografie disponibili perché minorenne, continuava a fornire dettagli sull’omicidio spingendo, però, gli investigatori a sospettare sempre più di lui. Molti coltelli presenti nell’appartamento erano stati sequestrati per consentire test del Dna e delle impronte e, forse, è proprio lì che è stata trovata l’amara risposta alla quale molti non vorrebbero credere. Pochi giorni dopo l’omicidio, il dodicenne aveva partecipato, con suo padre e con la sua matrigna, mamma biologica di Leila, a una veglia in memoria di sua sorella e molti avevano espresso preoccupazione per la sua ripresa dopo uno choc così forte.
“Lui è molto protettivo nei confronti di sua sorella – aveva detto sua madre, Priscilla Rodriguez, quando voci sul possibile coinvolgimento del 12enne erano cominciate a emergere – non ho mai visto compiere un gesto cattivo nei suoi confronti”.
Al momento non sono ancora chiare le motivazioni del gesto dal momento che la polizia non ha rilasciato dichiarazioni. La minore età del bambino, inevitabilmente, obbliga alla massima protezione della sua privacy nonostante l’arresto, come è consuetudine negli Usa per i minori che si macchiano di gravi crimini.

La Stampa 14.5.13
Cina, il nuovo corso di Xi è quasi un ritorno a Mao
Dal presidente richiami al passato e argomenti tabù per le università
di Ilaria Maria Sala


Miete nuove vittime di rilievo, la campagna contro la corruzione con cui Xi Jinping, il nuovo Presidente cinese, ha voluto dare inizio al suo mandato, ma allo stesso tempo la Cina decide di mantenere ancora più stretto il controllo sulla libertà di espressione. Due volti contrastanti del «nuovo corso» di Xi, che comincia lentamente a delinearsi.
Sul fronte anti-corruzione, ora le indagini si spostano su Liu Tienan, il vice-presidente della Commissione nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, che dall’anno scorso attira l’attenzione per uno stile di vita al di là delle leggi. A puntare i riflettori su di lui era stato Luo Changping, coraggioso giornalista del settimanale economico-finanziario Caijing, che l’aveva accusato di aver cercato di uccidere la sua amante, di non avere un dottorato come sosteneva e di essere stato coinvolto in una serie di transazioni finanziarie sporche. E per quanto il giornalista fosse stato criticato per le sue accuse a un alto funzionario, il web si era impossessato della faccenda, che prima di essere censurata aveva prodotto numerosi commenti sui social media.
Trattandosi però di un alto quadro di Partito, l’indagine non avviene tramite i canali giudiziari soliti, ma deve passare per la Commissione di disciplina interna – e solo se Liu verrà espulso potrà essere sottoposto a processo. Com’era avvenuto, lo scorso anno, con Bo Xilai, l’ex Segretario di Partito della metropoli di Chongqing. Bo, che aveva voluto riproporre alcuni temi maoisti divenendo l’esponente più in vista della fazione della «Nuova sinistra». Dopo un tentativo di defezione al Consolato Usa del suo braccio destro, si è ritrovato implicato nello scandalo che ha portato in prigione per omicidio sua moglie, Gu Kailai.
Xi Jinping, pur continuando a fare dell’anti-corruzione il suo cavallo di battaglia, potrebbe star cercando di inviare segnali di riappacificazione alla fazione maoista – a meno che non ne sia un membro convinto, cosa che per il momento non è di facile analisi.
Proprio nelle ultime settimane, la stampa ufficiale ha riportato alcune frasi del Presidente cinese in cui si schierava contro le critiche all’operato del Grande Timoniere Mao Zedong, morto nel 1976. Anzi: tutto lascia pensare che le celebrazioni del 120mo anniversario della sua nascita, che si terranno a dicembre, avverranno in pompa magna. Nulla viene lasciato al caso: una mostra di Andy Warhol a Pechino ha potuto essere allestita solo dopo aver rimosso le famose serigrafie che hanno reso Mao un’icona pop. E sono stati annunciati anche sette temi tabù per gli atenei universitari.
La nuova direttiva – distribuita oralmente come spesso avviene con le tematiche legate alla censura – ha indicato che gli errori storici del Partito Comunista, i diritti sociali, la società civile, la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura, l’esistenza di una classe «aristocratica» in Cina (i figli degli alti quadri di Partito) e i valori universali non possono essere discussi nelle aule delle Università cinesi. Un significativo restringersi delle già limitate libertà accademiche.
Fino a qualche anno fa, le direttive di questa natura venivano diffuse tramite circolari scritte, ma con l’avvento dei social media e il timore che queste possano essere pubblicate online creando imbarazzo, le autorità telefonano personalmente ai vari responsabili della disciplina, che si occupano poi di far applicare le direttive indicendo assemblee, nelle quali è solitamente proibito prendere appunti scritti.
Se la lotta alla corruzione gode del sostegno del pubblico cinese, il continuo limitare le libertà di stampa, e l’occhiolino a fazioni nostalgiche del maoismo, invece, non godono invece di grande popolarità.

Repubblica 14.5.13
Il pugno di Putin sugli eredi di Sakharov
di Adriano Sofri


Si potrebbe dire, chi ami il sarcasmo, che il presidente Putin sia un gran fautore della trasparenza. «Dicano da dove prendono i soldi!». Quelli che devono dirlo sono le Organizzazioni non governative russe, che hanno l’imprudenza di controllare e denunciare i brogli elettorali, le intimidazioni e le malefatte contro la libertà di stampa e di parola, le torture e le “scomparse” nel Caucaso. Dallo scorso 20 novembre è in vigore in Russia la legge cosiddetta degli “agenti stranieri”: notevole, se non fosse tragica, per la sua comicità. Tragica, se solo ci si ricorda delle centinaia di migliaia di vittime russe dello stalinismo, tacciate d’essere al soldo straniero; e dell’impiego dello stesso epiteto ai danni dei dissidenti fino alla fine dell’Urss. Comica, se ci si ricorda della carriera di Vladimir Putin, a meno che la fratellanza internazionalista non esimesse un agente del Kgb nella Ddr dalla reputazione di agente straniero. (A quanto pare, in Russia su 1200 funzionari del più alto grado, dal presidente in giù, 800 provengono dal Kgb/Fsb).
La nuova legge (ne scrisse qui Nicola Lombardozzi in aprile a proposito del Putin contestato in Germania e Olanda) obbliga le Ong russe “che formano l’opinione pubblica” – cioè tutte – a iscriversi, quando ricevano contributi dal resto del mondo, in un registro che le qualifica come “agenti dello straniero”. “Spie”, alle orecchie allenate di generazioni di russi, e del resto anche alle nostre.
In ogni attività pubblica, le Ong sono obbligate a presentarsi come “agenti dello straniero”.
Per la gran parte delle Ong, a partire dalla principale, “Memorial”, o le sezioni di Greenpeace o Amnesty, i contributi dall’estero sono ovvii, dal momento che si tratta di associazioni internazionali (Memorial ha una attiva sezione italiana). Ma il carattere pretestuoso e brutale della legge si è mostrato provocatoriamente nel processo a un’altra Ong, Golos’, la Voce, che aveva ricevuto il Premio Sacharov dal comitato Helsinki norvegese – 7.600 euro – e l’aveva restituito, proprio per sottrarsi al ricatto della legge. Golos’ è stata condannata a una multa di 7.500 euro, e di un’altra multa personale di 2.500 euro alla sua direttrice, Lilja Chibanova, su cui incombe, se non si piegasse, la minaccia della persecuzione penale e del carcere fino a due anni. (Quanto durino due anni in Russia è stato appena mostrato da un altro tribunale, che ha negato la liberazione condizionale alla ventitreenne militante Pussy Riot, Nadezhda Tolokonnikova, che pure ha già scontato oltre metà della pena, perché “non si è pentita”).
La legge dunque non nasconde, e anzi ostenta, il proposito di liquidare l’attività civica e benefica delle Ong non asservite. E, intanto, di screditarle con le stesse parole d’infamia usate al tempo di Stalin e dei Gulag. Così ha commentato Oleg Orlov, di Memorial, che se ne ricorda: “I processi, prima che a condannare, servivano a eccitare il discredito e l’odio contro gli oppositori”. Orlov taglia corto: “La legge è semplicemente immorale e illegale”. Intanto, all’ingresso della sede di Memorial e poi sul tetto sono state collocate – da “sconosciuti” – scritte e striscioni: “Qui stanno gli agenti stranieri”.
Nessuna organizzazione ha finora accettato di registrarsi. L’obbligo non riguarda solo le associazioni per i diritti civili, ma anche quelle ecologiste, religiose, e perfino sanitarie. È stata multata una Ong specializzata nella cura della fibrosi cistica, che aveva ricevuto un contributo straniero.
Minacce private e persecuzioni pubbliche hanno già l’effetto di indebolire l’attività coraggiosa delle organizzazioni, costrette a impegnare tempo e risorse nella difesa della propria sopravvivenza. Memorial – il cui primo presidente fu Andrej Sacharov, e conta vent’anni di vita, e un ruolo di primo piano nel martoriato Caucaso – ha dichiarato che non si piegherà mai alla registrazione. La sua sede è stata invasa da una perquisizione spettacolare, ripresa dalla Ntv, la prima macchina del fango: bisognava mostrare ai russi la caccia al soldo degli americani. Il segretario di Stato, John Kerry, in visita a Mosca per discutere della Siria, ha riservato uno scampolo del suo tempo a un incontro con nove rappresentanti delle Ong maggiori. C’erano Alexander Cerkassov per Memorial, Ljudmila Alexeeva, 86 anni, prestigiosa dissidente dagli anni ’60, poi del Comitato Helsinki di Mosca, Ivan Blokov di Greenpeace, Tania Lokshina di Human Rights Watch, Lev Ponomarev del gruppo Per i diritti umani. “Belle parole”, ha concluso, “e per il resto occhi chiusi”. Alexeeva si è limitata a un commento sull’etichetta: “Al tempo dell’Urss – ha detto – gli ospiti americani incontravano prima i dissidenti, poi le autorità”.
Il 30 aprile Memorial ha ricevuto dalla procura di Mosca una “raccomandazione scritta” che le dà un mese di tempo per eliminare le “violazioni della legge federale e registrarsi come “agente straniero”. La “raccomandazione” cita soprattutto fra le violazioni il progetto “OVD-info”, creato nel dicembre 2011 da un gruppo di giornalisti, per monitorare gli arresti politici durante le manifestazioni pubbliche. Restano 15 giorni. Bisognerebbe che ciascuno facesse sentire la propria voce. Singoli cittadini, e istituzioni: per una volta, per esempio, un Parlamento dalle larghissime intese.

Repubblica 14.5.13
Il ritorno del baffone
di Nicola Lombardozzi


Che Stalin sia tornato lo dicono in tanti di questi tempi nella Russia di Putin. Lo stesso presidente ha sempre evitato con cura di parlarne troppo male. E le recenti leggi repressive ripescate dagli archivi dei cupissimi anni Trenta su oppositori, gay e “agenti stranieri” non fanno che confermare le preoccupazioni di molti. Ieri però un deputato (uno solo) è quasi impazzito di rabbia quando ha visto in bella mostra sugli scaffali dello spaccio interno del Parlamento, un busto che riproduce un medagliatissimo “baffone” disponibile in tre formati. Da 150 euro fino a mille. L’unico politico indignato che ne faceva «una questione di decenza e di rispetto per le vittime» ha però scoperto che la cosa non turbava nessuno dei suoi colleghi parlamentari. Le reazioni sono andate da un banalizzante «Ma che male c’è?» fino a un più sfacciato «Stalin è comunque un eroe russo». Contemporaneamente, a poche centinaia di metri di distanza il comune di Mosca decideva di intitolare una via a Stalingrado. “Nel ricordo della celebre battaglia”, si precisava davanti alle flebili lamentele di chi vive come un’ossessione il ritorno graduale di un periodo da dimenticare.

La Stampa 14.5.13
Roosevelt e gli ebrei “Era ostile, fece poco per salvarli da Hitler”
Lo storico Medoff: non volle colpire i lager
Il fondatore dell’Istituto degli studi sull’Olocausto ha raccolto nuove prove
FDR limitò l’accesso negli Usa a quelli in fuga dalla Germania «Poteva aiutarne 190mila»
di M. Mo.


Per i visitatori del Museo dell’Olocausto di Washington uno degli aspetti più sorprendenti sono le testimonianze su come Franklin Delano Roosevelt fosse a conoscenza dello sterminio degli ebrei nei lager nazisti ma decise di non bombardarli. A gettare nuova luce su quella controversa scelta dell’allora Presidente degli Stati Uniti, la cui entrata in guerra fu determinante per la sconfitta del nazifascismo, è Rafael Medoff, fondatore dell’Istituto per gli studi sull’Olocausto a Washington, nel libro «FDR and the Holocaust: A Breach of Faith» in libreria.
Sulla base di nuovi documenti, Medoff descrive un Roosevelt privato ostile agli ebrei. Nel maggio del 1943, oltre un anno prima del D-Day, durante una conversazione con il premier britannico Winston Churchill alla Casa Bianca, Roosevelt illustra la sua idea di soluzione della questione ebraica «dopo la vittoria» sposando la tesi del geografo Isaiah Bowman, secondo il quale «gli ebrei devono essere distribuiti geograficamente» fra nazioni e città, in maniera da non dare troppo fastidio a nessuno e la dose considerata appropriata era di «4 o 5 famiglie» per quartiere.
L’idea di Roosevelt era di «rendere più sottile la presenza ebraica» per consentire alle singole nazioni di accettarla e forse tale approccio aiuta a comprendere - questa è la tesi di Medoff perché durante la Seconda Guerra Mondiale limitò al massimo l’arrivo degli ebrei in fuga dalla Germania nazista. La quota annuale permessa era di appena 26 mila persone e inoltre venne colmata solo al 25 per cento in quanto molti venivano respinti con la motivazione di avere «parenti in Germania» e poter dunque diventare «spie nemiche». Se Roosevelt avesse applicato la legge vigente, senza ostacolarla, circa 190 mila ebrei tedeschi avrebbero potuto essere salvati.
La conversazione con Churchill, annotata dal vicepresidente Henry Wallace, è solo uno dei tasselli del mosaico composto da Medoff che documenta una miriade di altri eventi. Nel 1923, quando Roosevelt fa parte del consiglio di Harvard, decide che vi sono troppi ebrei fra gli studenti e ne fa ridurre la quota. Nel 1938, in una conversazione privata, imputa l’antisemitismo in Polonia al «dominio dell’economia da parte degli ebrei». Nel 1941, durante una riunione del gabinetto di ministri, si lamenta dell’eccessivo numero di ebrei fra i dipendenti federali in Oregon e nel 1943 dà disposizione ai comandi alleati affinché nelle zone liberate dell’Africa del Nord «il numero di ebrei nelle professioni debba essere limitato per eliminare le comprensibili ragioni di lamentela che i tedeschi hanno maturato verso gli ebrei in Germania».
In altri documenti Roosevelt mostra fastidio per i «piagnistei ebraici» sulla limitazione dell’arrivo dei rifugiati, si vanta di «non avere sangue ebraico nella vene» e descrive un’operazione fiscale da parte di un editore ebreo come «uno sporco trucco ebraico». Più in generale il tema che più ricorre nelle riflessioni di Roosevelt è il fastidio per l’«eccesso di presenza nelle professioni» e la conseguente possibilità di «esercitare un’influenza immeritata». Altri presidenti sono noti per aver espresso opinioni ostili agli ebrei - da Truman a Nixon - ma a renderle più importanti nel caso di Roosevelt è la possibilità che spieghino il mancato bombardamento di Auschwitz.

Corriere 14.5.13
Gli ebrei protetti dai re ma detestati dalla plebe
I precedenti impedirono di capire la minaccia di Hitler
di Paolo Mieli


C' è un grande mistero nella storia della Shoah. Come è possibile che nel 1940, quando il ghetto di Varsavia ormai stracolmo fu sigillato dai nazisti, ci furono ebrei che dissero di provare «quasi un senso di sollievo»? E cosa spinse alcuni di loro a cooperare con gli aguzzini nell'amministrazione dei ghetti? Queste domande se le è poste Yosef Hayim Yerushalmi — il più grande studioso di storia e cultura ebraica del Novecento (è scomparso nel 2009), già docente alla Columbia University, nonché autore di Zakhor e di Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco (pubblicati entrambi da La Giuntina). Come risposta, Yerushalmi ha ipotizzato che ciò sia accaduto perché a quegli ebrei poteva sembrare che «la loro situazione, fino ad allora incerta, dovesse in quel momento diventare stabile e definitiva». Dopotutto i ghetti non erano una novità e gli israeliti erano sopravvissuti per secoli anche a quelli. E infatti, quando erano state emanate le leggi di Norimberga, per un «equivoco comprensibile», esse furono recepite in ambito ebraico come un «ritorno al Medioevo». Talché «gli ebrei avrebbero lavorato, come già facevano, per le industrie tedesche»; quindi in fin dei conti sarebbero stati «utili» e, considerata la loro «utilità», chi poteva immaginare che qualcuno potesse avere davvero in mente di eliminarli tutti? Fu così che, a Varsavia, i primi testimoni oculari di quanto stava accadendo a Treblinka non furono creduti. Solo quando lo stesso ghetto della capitale polacca «iniziò ad assomigliare a un campo di sterminio», soltanto dopo che dei 430 mila ebrei ne rimase in vita meno del 10 per cento e si ebbe la certezza che i nazisti miravano alla loro eliminazione totale, solo allora scoppiò la rivolta.
La prima a sollevare questo tema era stata Hannah Arendt in La banalità del male (Feltrinelli), volume che, com'è noto, riproponeva, nel 1963, i reportage per il «New Yorker» dal processo di Gerusalemme al criminale nazista Adolf Eichmann (il titolo originale del libro era, appunto, Eichmann in Jerusalem; ne nacque un caso di cui si è occupato Pierluigi Battista su queste colonne il 30 marzo scorso). La Arendt si era spinta molto in là e, riferendosi agli Judenrat (i Consigli ebraici), aveva scritto: «Ovunque c'erano ebrei, c'erano stati capi ebrei riconosciuti, e questi capi, senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o in un altro, per una ragione o per l'altra; la verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni». La scrittrice rimproverava a Leo Baeck, presidente onorario del Consiglio degli anziani del lager di Theresienstadt, di non aver rivelato ai suoi fratelli, in procinto di lasciare il campo, che ad Auschwitz sarebbero stati uccisi con il gas. Parole che provocarono reazioni assai indispettite anche da parte di intellettuali ebrei fino a quel momento amici della Arendt.
Un tema che fa discutere ancora oggi. Anche dopo gli studi di Isaiah Trunk e di altri (tra cui Gustavo Corni con l'esauriente I ghetti di Hitler, edito da Il Mulino), dai quali si sono conosciute meglio alcune vicende assai particolari. Come quella di Mordechai Chaim Rumkowski, presidente dello Judenrat del ghetto di Lodz, il quale aveva atteggiamenti da despota, si aggirava per le strade «incedendo come un re» e mostrava tutti i sintomi di una «megalomania patologica». O di quei poliziotti ebrei nei ghetti che divennero tristemente noti per la loro brutalità. Ma anche, in modo opposto, del presidente del Consiglio ebraico di Varsavia, Adam Czerniakov, che si suicidò il secondo giorno della massiccia deportazione del luglio 1942. Quello stesso anno ci furono due tentativi — di cui il primo riuscito — di suicidio collettivo di un intero Consiglio (a Bereza Kartuska e a Pruzana). Iniziativa, peraltro, criticata dagli abitanti del ghetto. «Si riteneva», ha scritto Trunk, «che l'intellighenzia non avrebbe dovuto abbandonare la comunità, arrendendosi alla disperazione anziché servire da esempio per preservare la comunità stessa da un crollo spirituale in quei momenti cruciali».
Quegli ebrei, ha detto anni fa in una conferenza a Monaco Yosef Hayim Yerushalmi (conferenza il cui testo integrale, magistralmente tradotto da Paola Buscaglione Candela, è adesso pubblicato da La Giuntina, insieme a un'acuta introduzione di David Bidussa, con il titolo Servitori di re e non servitori di servitori. Alcuni aspetti della storia politica degli ebrei), ragionando e comportandosi in quel modo, «seguivano semplicemente il modello millenario del rapporto della dirigenza ebraica con il potere; gli uomini che giornalmente andavano a trattare con le SS o con la Gestapo, intendevano il loro ruolo in modo sostanzialmente non diverso da Filone quando andava a incontrare Caligola». Filone? Caligola? In che senso?
Con un salto indietro di diciannove secoli ci spostiamo, con Yerushalmi, ad Alessandria d'Egitto negli anni immediatamente successivi alla morte di Cristo. Ad Alessandria viveva una vasta e fiorente comunità ebraica, in possesso da tempo «di ampi privilegi che dovevano essere attentamente salvaguardati». Benché culturalmente assimilati, gli ebrei di Alessandria erano separati dalla popolazione greca pagana per l'irriducibile unicità del loro monoteismo, «una diversità spesso aggravata da rivalità economiche». Gli indigeni, egiziani non ellenizzati, «non riuscivano in alcun modo a sollevarsi dalla loro condizione di degrado e oppressione, mentre le colonie di stranieri presenti in città non avevano nessuna ragione speciale per fare causa comune con gli ebrei». Date queste circostanze, non c'è da meravigliarsi che gli ebrei di Alessandria guardassero a Roma — piuttosto che alle altre comunità o ai rappresentanti in loco del sovrano — come «garante dei loro diritti». Nel 38 d.C. accadde che una folla di greci tentasse di far entrare a forza nella sinagoga immagini dell'imperatore. Gli ebrei resistettero, contro di loro si scatenò un pogrom e nessuno cercò di impedirlo. Fu allora che il grande filosofo ebreo Filone andò a Roma dall'imperatore, Gaio Caligola, a denunciare l'accaduto, nonché il mancato sostegno alla sua gente da parte di Flacco, prefetto romano ad Alessandria. Caligola concesse poco, quasi nulla. Ma quel poco o nulla fu sufficiente a Filone per definirlo «salvatore» e «benefattore».
Già duemila anni fa, si può affermare, gli israeliti scelsero di privilegiare le alleanze verticali (con i re) a dispetto di quelle orizzontali (con gli altri popoli). Del resto lo aveva notato proprio Hannah Arendt, in un altro suo fondamentale volume, Le origini del totalitarismo (Edizioni di Comunità), laddove aveva messo in luce che gli ebrei «si rifacevano alle esperienze fatte sotto la protezione dell'Impero romano e più tardi durante il Medioevo, quando la loro esistenza era stata più o meno garantita dai monarchi e dalla Chiesa». Allora «avevano imparato che in qualche modo era meglio dipendere dalle massime autorità di un Paese che trovarsi alla mercé delle autorità locali, che l'effettivo pericolo era sempre costituito dal popolaccio». In realtà era stato così da molto prima di Filone e Caligola, fin dai tempi dell'esilio babilonese e, precedentemente, in Egitto. «Essenzialmente, l'archetipo dell'ebreo di corte si può ritrovare già nella stessa Bibbia ebraica e da allora ha costituito gran parte della memoria e della coscienza collettive dell'ebraismo… Un esempio di questo archetipo nella Bibbia è Giuseppe che salva l'Egitto dalla carestia, riuscendo così a portare contemporaneamente al sicuro i suoi confratelli; oppure Mordechai che, nel Libro di Ester, salva la vita del re Assuero e, come conseguenza, riscatta gli ebrei persiani».
Poi in età romana — a parte tre grandi rivolte ebraiche, tutte di natura messianica e tutte represse nel sangue — fra israeliti e Stato (ma anche Chiesa) si creò un regime di convinta convivenza. «Il giudaismo», osserva Yerushalmi, «fu religio licita sia agli occhi dello Stato che della Chiesa; le sinagoghe, benché a volte distrutte da folle di fanatici cristiani, venivano protette». E badate che «le cose sarebbero potute andare diversamente, se il giudaismo fosse stato dichiarato un'eresia; in quel caso niente avrebbe potuto impedire la conversione forzata o la totale, deliberata eliminazione fisica degli ebrei».
Dopo la caduta di Roma, poi, «l'essenziale politica di tolleranza, con le sue connesse ambiguità, venne assorbita dal Medioevo». Ed è nel Medioevo che si sviluppano nella loro pienezza le dinamiche dell'«alleanza regia», al centro dell'interesse di questo libro. Negli statuti emanati da Carlo Magno e da Ludovico il Pio gli ebrei «appartengono» all'imperatore. Si stabilisce addirittura che se un ebreo viene ucciso, l'uccisore paghi l'enorme somma di dieci libbre d'oro — praticamente il doppio di quel che l'omicida avrebbe dovuto sborsare se avesse assassinato un cavaliere cristiano — perché il denaro andava a finire direttamente nell'erario imperiale. E, dopo l'anno Mille, è tutto un fiorire di concessioni agli ebrei che ogni sovrano, per darsi lustro, vuole attirare sulle proprie terre. «Basterà dire», scrive Yerushalmi, «che tutti gli statuti — come del resto la legislazione corrente relativa agli ebrei — rispondono allo stesso modello: mostrano cioè, assieme a restrizioni variabili, l'impegno delle autorità centrali a mantenere e proteggere i diritti basilari della vita degli ebrei stessi, le loro proprietà nonché l'autorizzazione a praticare la loro religione».
E la Chiesa? Per il mondo cristiano vale più o meno lo stesso discorso. Un «Editto in favore degli ebrei» fu emanato da Callisto II agli inizi del XII secolo per poi ricevere forma definitiva nel 1199 da Innocenzo III. Sì Innocenzo III, un Papa non certo tenero nei confronti degli israeliti, che nel 1215 avrebbe presieduto il IV Concilio lateranense, a partire dal quale agli ebrei sarebbe stato imposto di portare un contrassegno. Eppure, «in modo solo apparentemente paradossale», papa Innocenzo si esprime con queste parole: «Benché la perfidia ebraica sia sotto tutti gli aspetti meritevole di condanna, tuttavia, poiché attraverso loro è provata la verità della nostra fede, loro non devono essere duramente oppressi dai credenti». E così, proprio come non si dovrebbero autorizzare gli ebrei a fare nelle loro sinagoghe «più di quello che la legge loro consente», così «non dovrebbero subire limitazioni dei privilegi loro concessi». In qualche modo con queste formulazioni si annunciava per loro una forma di protezione. Papa Gregorio IX giunse a protestare con il re di Francia Luigi IX per i maltrattamenti subiti da alcuni suoi sudditi ebrei, vessazioni di cui era stato edotto da una loro «lacrimevole e commovente lagnanza». E fu così che «in epoche di tensioni o pericolo, gli ebrei in definitiva guardarono come protettori non solo ai re, ma anche ai Papi».
Tale circostanza portò alla costruzione di una tela di rapporti molto importanti tra ebrei, sovrani e Papi, ma soprattutto alla nascita di una nuova categoria sociale, quella dei rappresentanti del mondo ebraico: «Chi negoziava gli statuti, chi trattava con i re e i nobili, quando i diritti riconosciuti per tradizione agli ebrei venivano violati, chi altri portava davanti al Papa le "lacrime" degli ebrei francesi se non i capi riconosciuti delle comunità ebraiche e i loro delegati ed emissari?». Tutto questo e altro ancora, scrive Yerushalmi, «fa parte di una storia, non ancora raccontata, della diplomazia israelitica che, una volta scritta, dovrebbe demolire definitivamente il mito della passività ebraica nei confronti della storia». A partire dal califfato di Cordova (X secolo) fino al 1492, cioè per oltre cinque secoli, «gli ebrei servirono fedelmente i loro governanti sia musulmani che cristiani, non solo come esattori delle tasse e finanziatori, ma come consiglieri, diplomatici, traduttori e medici». Persone interamente dedicate, per centinaia di anni, a cementare il patto tra popolo e sovrano.
Nell'Europa medievale l'«alleanza regia» fu basata sul presupposto che gli ebrei «appartenessero» al re. Addirittura al suo «erario», come specificava, nel 1157, lo statuto di Worms, su disposizione di Federico Barbarossa. Termine, «erario», che «ha fatto scorrere fiumi di inchiostro erudito e ha tratto molti in errore». Secondo Yerushalmi quell'espressione non significa che gli ebrei si trovavano letteralmente nella condizione di servi e questo «dovrebbe essere chiaro a chiunque conosca la reale situazione della vita medievale ebraica»: gli ebrei non furono mai vincolati alla terra, nessuno fu ridotto in schiavitù; in linea di principio, tutti avevano libertà di movimento e «il loro stile di vita si avvicinava più che altro a quello dei cittadini».
Fu Yitzchak Arama, nel XV secolo, a spiegare nel modo migliore ciò che questa servitus judaeorum significava davvero: era stato deciso dalla divina Provvidenza che gli ebrei, dispersi per il mondo, non dovessero essere assoggettati a normali padroni, bensì «dovessero rimanere nelle mani dei sovrani della terra così da essere servitori dei re e non servitori dei servitori (di qui il titolo del libro di Yerushalmi, ndr)». Un privilegio, dunque. «Chi è un vassallo dei nobili del monarca non è in condizione così elevata come un vassallo del re, perché il vassallo del re è temuto anche dai nobili e dai ministri, a causa del rispetto a cui i nobili sono tenuti nei confronti dello stesso re», ha chiosato Bahya ben Asher. Quel genere di servitù è insomma ai loro occhi una condizione tutta positiva. «Anziché vedere la loro servitù nei confronti del re come un'umiliazione», scrive Yerushalmi, «loro, ma anche altri, la vedono come un segno di condizione elevata, qualcosa da incrementare».
Fu Shelomoh Ibn Adret, rabbino di Barcellona nel XIII secolo, a spiegare bene i termini della questione. I re gentili «possiedono» la loro terra e con essa gli ebrei che la abitano. Agli ebrei è consentito di vivere su quella terra se si sottomettono alla volontà del sovrano che, se volesse, potrebbe espellerli. Perciò gli ebrei sono «obbligati» a ubbidire ai decreti del re, con l'eccezione del caso in cui tali decreti violino la legge mosaica. È importante perché Ibn Adret era ben consapevole del fatto che «nei regni spagnoli non operava solo la legge del re, ma esistevano sia una miriade di norme consuetudinarie, spesso in conflitto l'una con l'altra, sia privilegi di nobili, municipalità, regioni». Trovandosi in questo «labirinto di leggi», gli ebrei dovevano convincersi che «quanto più grande era il numero di giurisdizioni al di sopra di loro, tanto maggiori sarebbero stati gli obblighi e le tasse, e tanto più incombente il rischio di essere vessati dalle autorità locali». Era quindi fondamentale accentuare la propria obbedienza alle «leggi del re» e contrastare apertamente le «leggi degli altri».
Dopodiché, racconta Yerushalmi, l'«alleanza regia» fu soprattutto un modello ideale e le realtà si fecero via via più complicate. Nei regni spagnoli, gli ebrei, «con tutti i loro redditi», venivano talvolta «passati» dal re ai grandi ordini militari piuttosto che a nobili con cui il sovrano si era indebitato o dai quali aveva bisogno di essere sostenuto. In Francia erano spesso sotto la giurisdizione dei baroni, «benché nel XIII secolo la centralizzazione del regno avesse ristabilito la maggior parte delle prerogative del re». In Polonia, a partire dal XVI secolo, la nobiltà divenne più potente dello stesso monarca, spesso acquisendo un diretto controllo sugli ebrei. Sicché talvolta la protezione «pur genuina» del Papa o del re, giungeva troppo tardi o non riusciva a essere efficace.
Ci furono due casi, poi, in cui l'alleanza regia si spezzò del tutto: con Sisebut nella Spagna visigota del 613 e, poco meno di nove secoli dopo, con Manuel del Portogallo (1497), allorché i sovrani ordinarono la conversione forzata di tutti gli ebrei che vivevano nei loro regni. Inoltre, a partire dal 1290, dapprima in Inghilterra, intere comunità ebraiche vennero espulse dal Paese, «in una catena che sarebbe terminata con la cacciata dalla Spagna del 1492». Ma, secondo Yerushalmi, nessuno di questi avvenimenti «riuscì ad alterare nella loro essenza le varie dinamiche o la comprensione che gli ebrei avevano dell'"alleanza regia"». Soprattutto in Spagna. Come è ben descritto nello Shevet Yehudah («Lo scettro di Giuda») scritto da Shelomoh Ibn Verga, vissuto a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento. Agli occhi di Ibn Verga, «i re e in genere i funzionari regi sono sempre appassionati protettori degli ebrei contro gli attacchi della plebaglia». Se gli ebrei non si salvano, «non è per malvolere del re, ma per l'ostinazione e il potere della plebe». Caso esemplare, secondo Ibn Verga, è quello di Gonzalo Martinez de Oviedo, che suggerisce ad Alfonso XI di espellere gli ebrei; insiste, insiste ancora finché l'arcivescovo di Toledo lo apostrofa con le seguenti parole: «Avete attirato la vergogna sulla vostra casa, perché veramente gli ebrei sono un tesoro per il re, un buon tesoro… Ma voi cercate di distruggerli e spingete il re a fare ciò che suo padre non fece; non siete un nemico degli ebrei, ma del re!».
Dunque, trono e altare sono (e devono restare) un punto di riferimento per gli ebrei, a difesa dal vero nemico, il popolino con i suoi mutevoli umori. E, se è vero che, come si è detto, ci furono i sovrani che fecero atti a danno degli ebrei, quei re vanno tenuti nel conto di «rare eccezioni». E le espulsioni in massa successive al 1492? «Le espulsioni», scrive Ibn Verga, «furono decise solo a causa di alcuni delle classi inferiori i quali sostenevano che, con l'arrivo degli ebrei nel regno, il loro cibo costava di più e che inoltre gli ebrei danneggiavano i loro commerci». Le espulsioni «erano dovute anche ai preti, perché questi, volendo esibire la loro religiosità e mostrare al popolo che intendevano onorare ed esaltare la religione di Gesù Nazareno, predicavano ogni giorno cattiverie contro gli ebrei». Ma «dagli altri cristiani essi erano onorati benché vivessero in quel loro Paese ed erano da loro molto amati come sanno bene gli anziani di Spagna». Dunque: re, aristocrazia, Papa e alti prelati erano gli amici; masse e basso clero, i nemici. In più, prosegue Yerushalmi, «è storicamente rilevante la circostanza che dopo il 1492, nelle comunità di rifugiati dell'Impero ottomano, i sultani turchi venissero celebrati come salvatori».
Che cosa rimase di questa lunga esperienza medievale nelle menti degli ebrei? Resta «che in un mondo relativo», risponde l'autore, «le alleanze verticali erano generalmente le più favorevoli per loro; che tali alleanze erano fondate sull'utilità degli ebrei per i loro governanti; che se in qualsiasi momento i governanti non li avessero più ritenuti utili, la diplomazia, le lobby, perfino una vera e propria corruzione, potevano talvolta allontanare una dura sentenza; che se tutto il resto crollava e veniva meno, le peggiori misure di cui era capace lo Stato medievale erano il battesimo forzato (un'eccezione, storicamente) o l'espulsione, cose abbastanza tremende, ma meglio di un massacro… Nessun re medievale lo prescrisse mai, nessun Papa lo autorizzò, dove si verificò, non fu ordinato dall'alto».
Man mano che passavano i secoli, poi, l'«alleanza regia» si confermava per gli ebrei la soluzione migliore. In tutti i regimi. Prima, durante e dopo la Rivoluzione francese, quando gli eserciti napoleonici esportarono la prima, importante esperienza di emancipazione degli ebrei in Italia, in Olanda, in parte della Germania e della Polonia. «La Germania è la nostra Sion e Düsseldorf la nostra Gerusalemme!», si sentì di dire un rabbino tedesco nei primi anni dell'Ottocento. Gli israeliti riconoscevano «che il raggiungimento dell'uguaglianza civile e politica dipendeva non solo dalla nascita di Stati-nazione, ma da quella di Stati unificati, perché solo uno Stato centralizzato poteva garantire e appoggiare i loro diritti». Il re con cui stipulare un patto di alleanza doveva essere uno e uno solo. Così gli ebrei appoggiarono l'unificazione dell'Italia e della Germania, proprio come nel XV secolo avevano sostenuto l'unione di Aragona e Castiglia sotto Ferdinando e Isabella. E ritennero che ci avrebbero pensato gli Stati a debellare l'antisemitismo.
Lo schema dell'«alleanza regia» portò gli ebrei, nei secoli, a sovrapporre la propria immagine a quella dello Stato in cui risiedevano. Con alcune conseguenze impreviste e, per loro, assai negative. Qualcosa che Hannah Arendt ha efficacemente descritto: «In più di cent'anni (tra la metà dell'Ottocento e quella del secolo successivo, ndr) l'antisemitismo aveva lentamente fatto presa in uno strato dopo l'altro di quasi tutti i Paesi europei, finché all'improvviso si presentò come la piattaforma su cui si poteva ottenere l'unità dell'opinione pubblica, irrimediabilmente divisa su tutti gli altri problemi; la legge secondo cui si era svolto questo processo era semplice: ogni classe della società che era venuta a trovarsi in conflitto con lo Stato in quanto tale era diventata antisemita, perché l'unico gruppo sociale che sembrava rappresentare lo Stato erano gli ebrei».
A quel punto gli ebrei sovrastimarono i possibili effetti benefici dell'«alleanza regia», sottostimando nel contempo i fenomeni di ostilità al loro popolo. Del resto, spiega Yerushalmi, «nel corso di tutta la loro esperienza storica non esiste nulla che li abbia preparati intellettualmente o psicologicamente a quanto accadde tra il 1940 e il 1945; i governanti hanno saputo opprimere gli ebrei in vari modi, ma mai, né nell'età antica, né nel Medioevo, una distruzione totale era stata imposta dall'alto». Già, e i pogrom russi? Non furono riconducibili agli zar — risponde Yerushalmi —, zar che li costrinsero sì in quel ghetto che fu denominato «zona di residenza obbligata», li vessarono in mille modi, ma non furono in nessuna maniera responsabili né dei pogrom del 1881 né di quello terribile di Kishinëv del 1903.
Yerushalmi si spinge fino ad assolvere in qualche modo il regime spagnolo di Francisco Franco («durante la Seconda guerra mondiale, salvò circa cinquantamila ebrei») e persino l'Italia fascista: «Il massimo cui arrivò Mussolini furono le leggi razziali del 1938, ma l'eliminazione finale di un quinto degli ebrei italiani non fu opera sua», scrive. Parole che, immaginiamo, provocheranno qualche reazione di sdegno o quanto meno una discussione accesa.
Così come farà discutere quel che l'autore dice dei secoli che precedettero l'età moderna: «Nonostante fosse un'epoca terribile, il Medioevo, almeno ai massimi livelli di potere, conosceva ancora dei limiti che non si potevano oltrepassare». Limiti che furono ampiamente superati, invece, nel Novecento. E lo sono tuttora. Detto tutto ciò, Yerushalmi chiede di non essere frainteso e sostiene di non nutrire «alcuna nostalgia per il Medioevo». Dopotutto, aggiunge con una dose di ironia, «si nasce sempre nel periodo sbagliato». Ma «se non possiamo scegliere il luogo in cui siamo destinati a vivere, ciò non significa che dobbiamo accettare come inevitabili le sue depravazioni». E ben si intende che tali depravazioni, a suo avviso, non sono solo quelle riconducibili ad Adolf Hitler e ai tempi terribili dell'esperienza nazista.

Corriere 14.5.13
Divisa tedesca e occhi a mandorla, uno strano soldato in Normandia
di Paolo Rastelli


«Se siamo americani, pensiamo alla guerra come a qualcosa iniziata con Pearl Harbour nel 1941 e finita con la bomba atomica nel 1945. Se siamo inglesi, ricordiamo il bombardamento di Londra del 1940 e la liberazione di Belsen. Se siamo francesi, ricordiamo Vichy e la Resistenza. Se siamo olandesi, pensiamo ad Anna Frank. Perfino se siamo tedeschi conosciamo solo una parte della storia». In queste parole della storica americana Anne Applebaum è racchiusa una delle tante chiavi di lettura della Seconda guerra mondiale, uno dei motivi per cui essa continua a ricevere l'attenzione degli studiosi e a esercitare un enorme fascino (perverso, se volete, ma indubitabile) sugli appassionati di storia.
L'ultimo conflitto è stato una tragedia talmente immensa che è quasi impossibile da cogliere nella sua interezza e sul quale, quindi, si continua a tornare per capirne di più. E non solo per i milioni di morti (60-70, manca ancora una cifra precisa, soprattutto per la difficoltà di ottenere cifre attendibili sulle vittime sovietiche e cinesi, le più numerose), ma anche per lo sconvolgimento che portò nello scorrere ordinato (magari povero e stentato, come nei villaggi minerari inglesi o nelle campagne birmane, ma comunque familiare) dei milioni e milioni che pure sono sopravvissuti. Scrive Max Hastings in Inferno (Neri Pozza): «Quasi tutto quello che i popoli civili davano per scontato in tempo di pace fu spazzato via, e più di ogni altra cosa l'idea di vivere al sicuro dalla violenza». E in un certo senso non conta che lo sconvolgimento imposto dalla guerra a un'ebrea polacca, con la persecuzione e la quasi sicura fine in un campo di sterminio, sia stato incomparabilmente peggiore rispetto, per esempio, a quello di una casalinga inglese middle class di campagna, costretta a ospitare in casa quattro bambini sfollati dell'East End londinese con i vestiti stracciati e i capelli pieni di pidocchi. Entrambe si trovarono ad attraversare esperienze fino ad allora impensabili e in un certo senso incommensurabili.
Proprio con quest'ottica Antony Beevor ha scritto il libro La seconda guerra mondiale, proposto in Italia da Rizzoli (pagine 1.088, 53 foto fuori testo, 25), sottotitolo I sei anni che hanno cambiato la storia (volume nel quale, tra l'altro, compare la frase di Anne Applebaum sopra citata). L'intenzione dello storico inglese (finora autore di opere settoriali sull'ultimo conflitto mondiale) è quella di tentare di mettere insieme un quadro ordinato del disastro, lasciando nello stesso tempo spazio alle vite individuali travolte da forze storiche fuori dal loro controllo.
Non è un caso che il libro si apra con la vicenda di Yang Kyoungjong, un orientale di 24 anni fatto prigioniero dagli americani in Normandia nel 1944. I paracadutisti che lo catturarono pensavano fosse un giapponese: invece era un coreano arruolato a forza dai nipponici nel 1938 nel loro esercito del Guangdong, catturato dai sovietici nel 1939 durante gli scontri del Khalkhin-Gol e rinchiuso in un campo di lavoro, rimandato al fronte dai russi durante le crisi del 1942, catturato dai tedeschi nel 1943 e poi arruolato in un Ost-Bataillon della Wehrmacht di guarnigione in Normandia (sarebbe poi morto in Illinois, Stati Uniti, nel 1992).
Nel libro si trovano molte storie come questa, oltre, naturalmente, ad aspetti più «classici», diplomatici e militari: la caduta della Francia, la battaglia di Stalingrado, l'assedio di Leningrado, gli scontri africani, la resa dell'Italia, il conflitto aeronavale del Pacifico tra americani e giapponesi, le conferenze di Yalta e Potsdam. Ma forse è più interessante sapere che nei rifugi tedeschi nella Berlino martoriata dai bombardieri angloamericani si spandeva il tanfo delle alitosi per le carie provocate dalla mancanza di vitamine. Oppure che «un'anziana viandante — scriveva il giornalista sovietico Vasilij Grossman nel 1945 descrivendo una profuga — sta lasciando Berlino con uno scialle in testa. Dal suo aspetto sembra che si stia recando in pellegrinaggio — un pellegrinaggio nelle distese della Russia —. Tiene un ombrello di traverso sulla spalla. Una grossa casseruola di alluminio è appesa al manico dell'ombrello». Chissà se ci è arrivata, in Russia.

il Fatto 14.5.13
LaEffe, la televisione giusta per gli “eletti”
di Carlo Tecce


La Effe non poteva che essere elegante, ricercata e un po' radical chic. La Feltrinelli ci ha messo il 70 per cento del capitale (nonostante i 130 esuberi), La7 (Telecom, non Cairo) il restante 30 e il gruppo l’Espresso ha fornito le frequenze – canale 50, digitale terrestre – e ha rottamato bene Repubblica Tv. Esordio con il documentario su Beppe Grillo versione Tsunami e serie danese Borgen, il potere: il primo ministro donna, il partito della libertà, i soliti laburisti e un racconto di una politica incredibile per l'Italia, incluso il sesso ostentato fra il marito (professore) e la demiurga dei moderati che aspira a guidare il paese. Scene salienti. “Non vedo l’ora di fare sesso orale con il primo ministro danese”, dice il merito. “Io vado via, prendo una mala”, dice il leader di sinistra che non vuole sostenere la colazione. Anche il raffinato Mildred Pierce è buon prodotto, e non dovrebbero fallire neanche gli speciali su celebrità, affari e cocaina. Roberto Saviano presenterà e commenterà i film su droga e mala, quantomeno dà una mano e un volto – non sempre vincente – che ha un suo valore televisivo. Ma quello che cattura l'attenzione, però, è quello che di solito l’azzera: la pubblicità. Caratteri enormi e maiuscoli, colori accesi: anni 70, ragazzi, il vintage che si rimpiange. A prima sensazione, La Effe ha le caratteristiche di una televisione elettiva: oddio, nemmeno a La7 ci sono i giochi a premi né le tette in vetrina, ma il linguaggio iconografico non è per nulla commerciale.
ANCORA non s’è capito se l’Espresso avrà un impegno maggiore, si parla di denaro ovviamente, ma la famiglia De Benedetti cerca nuovi sbocchi televisivi: possiede numerose frequenze, ma non ha contenuti rilevanti. Repubblica Tv è stata quasi spenta, anche se avrà due finestre d'informazione nel palinsesto de La Effe: soprattutto per vendere il giornale di carta e interagire con il sito. Gad Lerner, che a La7 non viene più trattato con riguardo, è il presidente del comitato editoriale: all’inventore dell’Infedele non piace la televisione globale – almeno questo si desume guardandolo – ma preferisce la selezione, gli ospiti di un certo tipo, il pubblico di un certo tipo, il gruppo più che la massa, il ritrovo più che il raduno. Può servire, ora che la televisione ha perso il centro di gravità.

La Stampa 14.5.13
Cerveteri, gli Etruschi rivivono nelle teche parlanti in 3D


Per farli rivivere adesso basta un tocco. Poi gli Etruschi si animano in una realtà virtuale, ma di fronte a reperti veri. Si chiama «Museo vivo» il progetto inaugurato ieri a Cerveteri, che vede protagonista il Museo nazionale archeologico. E al tocco sulla teca del reperto scelto, a illustrarlo appare Piero Angela. L’idea è innovativa: la teca diventa un touch screen, come quello di un pc o di un tablet. L’oggetto selezionato viene circondato da effetti, mentre storia e caratteristiche del reperto anfore, buccheri o bicchieri - sono raccontate da Angela. Il tutto in sei lingue: italiano, inglese, francese, spagnolo, tedesco, giapponese. Il visitatore viene guidato nel mondo etrusco, la cui storia è raccontata attraverso i suoi luoghi e i suoi oggetti. Questi interventi, uniti a quelli di «Viaggio nel mondo degli Etruschi» alla necropoli della Banditaccia, già sito Unesco, fanno di Cerveteri l’area archeologica patrimonio dell’umanità più hi-tech al mondo. «Questo sito - ha spiega la soprintendente Alfonsina Russo - è da valorizzare insieme con quelli di Tarquinia e Vulci: lavoriamo a marchio per il territorio».

Repubblica 14.5.13
Gigi Marzullo lascia “Sottovoce” e fa il vicedirettore
di Leandro Palestini


ROMA IL DIRETTORE generale della Rai, Luigi Gubitosi, ha chiuso un’era televisiva. Da fine maggio Gigi Marzullo non condurrà più Sottovoce, nella notte di RaiUno non riecheggerà più la sua celebre e ossessiva domanda all’ospite di turno: “Si faccia una domanda, si dia una risposta”. Dopo ventiquattro anni di ininterrotta occupazione notturna dell’etere (all’inizio fu Mezzanotte e dintorni, in onda dal 1989 al 1994) e migliaia di intervistati, Marzullo non ondeggerà più la sua folta chioma dai teleschermi della rete ammiraglia. Ha ceduto al diktat del dg Gubitosi, che non tollera i doppi incarichi in azienda: i telegiornalisti ora devono scegliere tra la conduzione e il ruolo dirigenziale. Così Luigi Marzullo, detto Gigi, alla fine ha scelto di continuare a fare il responsabile della struttura Notte di RaiUno, con il grado di vicedirettore di rete. Dopo una serie di indiscrezioni, la conferma arriva dai vertici Rai: Marzullo ha firmato la sua resa, da giugno non comparirà più in video con il suo Sottovoce, il programma (cult per alcuni, trash per altri) in cui personaggi famosi si sono fatti docilmente intervistare dal giornalista (mai sgradevole, semmai troppo complice), plotoni di ospiti che si consegnavano all’intervistatore portando pure l’album fotografico di una vita. Sarà un duro colpo per Maurizio Crozza, che lo ha imitato magistralmente nei suoi programmi (da Crozza Italia a Crozza nel Paese delle meraviglie su La7), riproponendo alcune delle ricorrenti e contorte domande del giornalista, i suoi tic, le sue posture di fronte all’ospite di rango. Su RaiUno, a quell’ora di notte, non si sa ancora chi potrà raccogliere il testimone dello stile Sottovoce.
Forse qualche telespettatore rimpiangerà il mantra di Marzullo. “Io vi aspetto come di consueto sempre di notte, sottovoce, un modo per capire, per capirsi e forse per capirci. Quando un giorno è appena finito e un nuovo giorno è appena iniziato...”.