giovedì 16 maggio 2013

Repubblica 16.5.13
I no che noi donne dobbiamo dire
di Laura Boldrini


Questo è l'intervento del presidente della Camera, , al convegno che si terrà oggi a Roma, presso lo Spazio Europa, organizzato dall'Unione forense per i diritti umani e da Earth-Nlp.

CI SONO almeno due concetti che potrebbero essere evitati nelle cronache ormai quotidiane sulla violenza contro le donne.
Il primo è il concetto di “emergenza”. C’è infatti uno strano automatismo nel nostro Paese.
Secondo il quale se episodi analoghi e gravi si ripetono con una certa frequenza vuol dire che si deve rispondere con una logica emergenziale. Ed invece nel bollettino quotidiano dell’orrore contro mogli, fidanzate o amanti c’è una violenza stratificata e con radici profonde. Più aumentano i casi, più si dovrebbe ragionare in termini di problema strutturale e quindi culturale.
Il secondo concetto è quello di 'raptus', riportato spesso nei titoli dei giornali. Quando però si va a leggere il pezzo si capisce che di improvviso non c’è stato proprio nulla. Ciò che è stato definito “raptus” era invece un gesto ampiamente annunciato. Penso ad uno degli ultimi casi: Rosaria Aprea, ventenne di Caserta, ridotta in fin di vita da un fidanzato geloso fino all’ossessione. Stordita dall’anestesia, ha avuto la forza di indicare il suo compagno come l’autore di quella violenza. Lo stesso che già due anni fa l’aveva mandata in ospedale, a furia di calci e pugni.
Ed è stata forse improvvisa, la morte di Maria Immacolata Rumi qualche settimana fa a Reggio Calabria? È arrivata in ospedale in fin di vita per le percosse subite. Il marito ha raccontato di averla trovata dolorante e “intronata” una volta tornato a casa. Ma gli stessi figli hanno dichiarato: “Nostro padre l’ha picchiata per tutta la vita, era geloso, non voleva che lavorasse”. Ecco perché parlare di morti improvvise appare addirittura grottesco. Sette donne su 10, prima di essere uccise, avevano denunciato una violenza o avevano chiamato il 118. E allora perché non sono state protette?
Dunque il più delle volte sarebbe meglio parlare di assassinii premeditati e di omissioni da parte di chi avrebbe potuto e dovuto tutelare le vittime.
Il comitato “Se non ora quando” di Reggio Calabria dopo l’omicidio di Maria Immacolata si è chiesto: tutto questo si sarebbe potuto evitare se fossero state rifinanziati case-rifugio o centri antiviolenza? Non potremo mai sapere se Maria Immacolata si sarebbe rivolta a queste strutture, ma di certo sappiamo che sono troppo poche in Italia. E che sono ancora meno quelle in grado di offrire ospitalità alle donne. Si parla di un posto ogni 10mila abitanti. Dunque non c’è più tempo da perdere: i soldi per rifinanziare i centri antiviolenza devono essere trovati.
Alcuni mi fanno notare che sarebbe utile introdurre un’aggravante per i casi di femminicidio. Altri, invece, sottolineano che non servono nuove norme, ma un’effettiva applicazione di quelle già esistenti. Se è così, allora bisogna capire dove e perché si inceppa il meccanismo dell’attuale legislazione. Si potrebbe dunque immaginare una sorta di monitoraggio dell’applicazione delle norme in materia di violenza alle donne. Monitoraggio che non rientra nelle mie competenze di presidente della Camera, ma che mi farò carico di sottoporre alla competente commissione Giustizia, presieduta dall’onorevole Donatella Ferranti, della quale conosco sensibilità e impegno su questo tema. Intanto può servire che l’Italia ratifichi la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne: il 27 di maggio andrà in aula alla Camera come richiesto dalle deputate dei più vari gruppi politici.
C’è poi la questione della violenza via web. Ciò che mi sta a cuore è che si eviti l’equazione secondo cui, se le minacce, gli insulti sessisti, avvengono sulla rete, sono meno gravi. Non è così: la rete invece amplifica e pensare di minimizzare vuol dire non aver capito la portata del danno che dal web può derivare sulla vita reale delle donne. Questo non significa, lo ripeto, invocare un bavaglio. Semplicemente far sì che le norme già esistenti possano trovare effettiva applicazione anche per la rete. Oggi invece false identità o server collocati all’altro capo del mondo offrono un comodo riparo.
Infine, l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità e nella comunicazione. L’Italia è tappezzata di manifesti di donne discinte ed ammiccanti, che esibiscono le proprie fattezze per vendere un dentifricio, uno yogurt o un’automobile. In tv i modelli femminili che vengono proposti in prevalenza sono la casalinga e la donna-oggetto, possibilmente muta e semi-nuda. Da lì alla violenza il passo è breve. Se smetti di essere rappresentata come donna e vieni rappresentata esclusivamente come corpo- oggetto, il messaggio che passa è chiarissimo: di un oggetto si può fare ciò che si vuole. E invece è proprio a tutto questo che bisogna dire no.
Vorrei farlo usando le parole di una donna, una poetessa messicana, Susanna Chavez. Per anni si era battuta contro rapimenti, violenze e femminicidi nella sua città, Juarez. Un impegno che ha pagato con la vita, due anni fa è stata uccisa anche lei nello stesso modo delle vittime che aveva tentato di difendere. “Ni una mas”, era il suo slogan, “Non una di più”.

l’Unità 16.5.13
Sabato in piazza
Stefano Rodotà parlerà dal palco prima di Landini
La Fiom torna a San Giovanni
Con i metalmeccanici della Cgil sfileranno Fabrizio Barca, Pippo Civati,  Corradino Mineo, Antonio Ingroia
Landini: «Una manifestazione non contro qualcuno, ma di proposta, per un cambiamento reale»
di Massimo Franchi


«Cambiamento reale». Dopo le botte ricevute da Berlusconi e Monti, i contratti separati, i soprusi di Marchionne, i metalmeccanici della Fiom non possono più aspettare. Sabato tornano in piazza, tornano a piazza San Giovanni. Il manifesto con la vignetta di Vauro mostra un Cipputi incazzato che spacca la cassa in cui è stato rinchiuso. «Una manifestazione non contro qualcuno, ma di proposta, per un cambiamento reale», esordisce e sottolinea Maurizio Landini. Un corteo inusualmente mattutino, a causa della prenotazione della piazza già fatta per il pomeriggio dai pellegrini. Un corteo che vedrà rappresentati i tanti spezzoni di società che in questi anni hanno condiviso le battaglie della Fiom: gli studenti, i precari, l’Anpi, con gli interventi dal palco di Stefano Rodotà, Gino Strada, Sandra Bonsanti e Fiorella Mannoia, che invece lascerà la musica ad una band di metalmeccanici («Abbiamo anche quelli, siamo una categoria con doti insospettabili», scherza Landini).
Al centro della manifestazione c’è però una piattaforma precisa che Landini snocciola. «Rivendichiamo interventi in direzione di una ripresa degli investimenti pubblici e privati perché diversamente in pochi mesi perderemo interi settori industriali, rifinanziare la Cig in deroga, bloccare i licenziamenti, impedire la chiusura delle fabbriche che una volta chiuse non riaprono più; incentivare i contratti di solidarietà per lasciare tutti attaccati al lavoro, l’estensione degli ammortizzatori sociali ai precari, con un reddito di cittadinanza che permetta ai figli degli operai di studiare e che limiti la precarietà e che deve essere a carico della fiscalità generale; ridurre drasticamente il numero dei contratti e non incentivare quelli a termine; una legge sulla rappresentanza che permetta a tutti di scegliersi un sindacato e di votare sui contratti, l’abolizione dell’articolo 8 imposto da Berlusconi e il ripristino dell’articolo 18 che ora permette ad aziende di 300 persone di licenziare solo due lavoratori, magari iscritti alla Fiom,  con la scusa delle ragioni economiche. Il tutto chiosa Landini per evitare quella implosione sociale che è un rischio reale». In questo quadro la presenza dell’amico di vecchia data Stefano Rodotà, che parlerà dal palco prima di Landini, si spiega con la volontà «di realizzare la Costituzione, non di modificarla, di rendere reale il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione e di rilanciare la responsabilità sociale delle imprese che non significa avere azioni, ma partecipare e discutere le scelte strategiche come nel protocollo da poco firmato in Finmeccanica», sottolinea Landini.
Come per ogni manifestazione dei metallurgici della Cgil è già partito lo stucchevole giochino di chi c’è e chi manca. Ci sarà Nichi Vendola, ci sarà Antonio Ingroia. E parecchi esponenti del Pd: Fabrizio Barca, Pippo Civati, Vincenzo Vita, Corradino Mineo. «Abbiamo invitato anche Guglielmo Epifani», ricorda Landini, «che come segretario del Pd giudicheremo dai fatti più che dalla sua storia: la coerenza è una qualità che va ripristinata».
M5S CONVINTI: LA CIG SERVE
Nel frattempo la Fiom ha incontrato tutti i gruppi parlamentari per illustrare la situazione drammatica dell’industria, ma anche dell’elettronica, delle ferrovie, dell’energia, della telefonia e il dramma del Mezzogiorno. Ed è riuscita nella titanica impresa di convincere il Movimento 5 stelle che la cassa integrazione, la tutela del posto di lavoro sono necessari e giusti e che il reddito di cittadinanza deve essere aggiuntivo, e non sostitutivo degli ammortizzatori sociali. E per questo alcuni parlamentari M5s saranno in piazza. Una piazza che sarà piena, giurano dalla Fiom. Ma che lo sarà grazie ad uno sforzo organizzativo sempre più difficile e costoso. «L’ultima volta che siamo venuti a San Giovanni avevamo organizzato tre treni. Questa volta non ne avremo nessuno semplicemente perché Trenitalia per un solo treno dall’Emilia ci ha chiesto 87mila euro. E in anticipo. Una cifra insostenibile per noi, che pone un problema politico: ormai possono manifestare solo i ricchi?», attacca la responsabile organizzazione Francesca Re David. Sarà quindi un invasione di pullman («Anche per trovarli è stata una lotta perché i pellegrini ne avevano prenotati in tutta Italia») con i manifestanti che partiranno di notte, come per uno sciopero con manifestazione nazionale a Roma. Un sabato particolare, dunque.

il Fatto 16.5.13
Fiom in piazza, la prima grana del Pd Epifani
Il sindacato di Landini sabato manifesta per il lavoro
Grande attesa per Rodotà. Presente Cofferati
Ma il neosegrwtario non ha ancora deciso
di Salvatore Cannavò


Ci sarà Stefano Rodotà, l’ospite d’onore della giornata, e tutta la sinistra politica rimasta in corsa: ma sulla manifestazione della Fiom che si svolgerà sabato prossimo (dalle 9,30 da piazza della Repubblica) con lo slogan “Non possiamo più aspettare”, il Pd, come sempre, non ha una voce univoca. Una parte del suo gruppo dirigente parteciperà: Pippo Civati, l’ex ministro Fabrizio Barca, Matteo Orfini. Se non avesse avuto un impegno, spiega al Fatto Quotidiano, ci sarebbe anche Gianni Cuperlo: “La piattaforma dice cose di grande buon senso anche se sul reddito di cittadinanza, ci sono problemi di copertura”. Ma Cuperlo dice che sarebbe “contento” se il segretario del Pd partecipasse. Ci sarà anche Sergio Cofferati che si augura che “tutto il Pd sia impegnato al di là di chi poi materialmente partecipa”.
Epifani però non si sbottona. Alla Fiom, che l’ha invitato direttamente, non ha ancora dato una risposta. Al Fatto, che lo ha cercato, nemmeno.
L’ULTIMA volta che ha parlato in una piazza della Fiom è stato il 16 ottobre 2010. Fu la prima grande manifestazione che lanciò il personaggio Landini e Guglielmo Epifani, da segretario generale della Cgil, parlò a una piazza che per metà gli era ostile. Tanto che la segreteria nazionale della Fiom gli fece da scudo contro i numerosi fischi che provenivano dal basso. Epifani, dopo qualche giorno, lasciò la guida del sindacato a Susanna Camusso e da allora i suoi rapporti con i metalmeccanici sono stati gestiti solo in forma mediata. Riferendosi al segretario del Pd, durante la conferenza stampa, Landini ha sostanzialmente che il nome e la provenienza del neo-segretario non sono sufficienti per avere garanzie: “Non basta un ex sindacalista come segretario per rimettere il lavoro al centro delle proprie politiche. Più che la storia e quello che si dice per noi conta quello che si fa”.
In vista del 18 maggio la Fiom ha invitato tutte le forze politiche a partecipare alla manifestazione. A dare l’adesione, finora, sono state Sel, il Prc, Alba, Azione civile di Ingroia e qualche altra. Non il Pd. In passato, quando il problema si pose a Pier Luigi Bersani, le polemiche furono sempre accese tra l’ala più di sinistra – rappresentata in quel momento da Stefano Fassina che, questa volta, non ci sarà perché viceministro – e le componenti moderate. L’ex segretario, infatti, non si azzardò mai a sfilare sotto braccio di Maurizio Landini. Epifani, però, è stato il segretario della Cgil e il suo nome è comunque legato a quell’esperienza e ai temi del lavoro. Sul proprio profilo Facebook campeggia l’articolo 1 della Costituzione e ieri è stata pubblicata questa dichiarazione: “L'unica “L” per cui sosteniamo il governo è quella della parola Lavoro”.
La stessa Fiom, stavolta, non sta proponendo una manifestazione “contro”. “La nostra è una manifestazione di proposte” ha spiegato in conferenza stampa Maurizio Landini. Il punto su cui il sindacato metallurgico intende concentrarsi, infatti, è la crisi, il nodo centrale dei licenziamenti e del loro “blocco”, il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e la proposta del reddito di cittadinanza “non sostitutivo della cassa integrazione”. La Fiom chiede al governo di darsi una “politica industriale” con la ripresa degli investimenti utilizzando risorse della Cassa Depositi e Prestiti, ma anche dei Fondi pensione che detengono liquidità spesso investita su titoli stranieri. I metalmeccanici della Cgil chiedono, inoltre, di varare una legge sulla rappresentanza per consentire ai lavoratori di decidere sui propri contratti – l’altroieri è stato firmato, unitariamente con Fim e Uilm, quello delle cooperative metalmeccaniche – e aprono alla partecipazione dei lavoratori alle aziende “non con forme di azionariato, ma con la possibilità di conoscere le politiche di investimento e quelle organizzative”.
UNA PIATTAFORMA chiaramente sindacale ma che, come è già accaduto in passato, si connota politicamente vista la confusione a sinistra e il vuoto di rappresentanza politica.
In piazza prenderanno la parola un atteso Stefano Rodotà, poi Gino Strada, Sandra Bonsanti (in rappresentanza di Libertà e Giustizia) e la cantante Fiorella Mannoia. L’appello di adesione promosso da Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Gustavo Zagrebelsky, ha avuto 9000 adesioni. Alla manifestazione hanno aderito anche Legambiente, Arci, Anpi, Forum dell’acqua. E altre personalità come don Luigi Ciotti, Furio Colombo, Gad Lerner.
La speranza che in qualche modo una sinistra più coesa e coerente possa emergere anche da questo tipo di manifestazioni si avverte tutta.
Stefano Rodotà, però, consapevole delle attese che la sua persona sta generando, ha diffuso un appello video relativo alla partecipazione che si limita a parlare di lavoro: “È necessario manifestare per la centralità del lavoro - ha detto - perché in questo modo si riprende il filo della nostra Costituzione”.

Repubblica 16.5.13
Landini porta in corteo la sinistra di lotta “Con la Fiom per contestare i diktat della Bce”
Rimettere al centro il lavoro, questa è la vera priorità
Letta? Mi pare troppo condizionato da Berlusconi
Ho spiegato a Epifani le nostre proposte. Attendo di sapere che ne pensa.
Certo il Pd ha promesso una cosa e ne fa un’altra
intervista di Roberto Mania


ROMA — Landini, la manifestazione della Fiom di sabato prossimo a Roma, più che un’iniziativa sindacale sembra una scelta politica, per riunire la “sinistrasinistra” da Sel a una parte del Movimento 5 stelle. È questo il vostro obiettivo?
«No. Il nostro obiettivo è un altro: far cambiare le politiche economiche messe in campo dai governi Berlusconi e Monti. Va rimesso al centro il lavoro perché è la vera emergenza. Bisogna cambiare non solo in Italia ma anche in Europa».
Obiettivi politici, appunto.
«Guardi che la Fiom nella sua storia, così come la Cgil, ha sempre avuto l’ambizione di svolgere un ruolo politico per una maggiore giustizia sociale. Anche questo è il nostro mestiere».
È difficile però chiedere un cambio di rotta a un governo che non ha ancora deciso nulla. Cosa pensa dei primi orientamenti di Letta?
«Questa manifestazione l’abbiamo indetta prima di sapere quale sarebbe stato il nuovo governo. L’abbiamo fatto perché fuori dal Parlamento c’era, e c’è, una richiesta di cambiamento. Proprio per questo nei giorni scorsi la Fiom ha scritto ai gruppi parlamentari e ha incontrato alcune forze politiche per illustrare la propria piattaforma. I primi orientamenti di Letta? Mi pare che stia venendo fuori un governo troppo condizionato da Berlusconi».
Dunque, una manifestazione contro il governo Pd-Pdl?
«Di certo non pensiamo che la soluzione che chiedeva il paese fosse il governissimo Pd-Pdl. D’altra parte il governo Monti era già sostenuto dalle forze politiche che hanno dato vita al nuovo esecutivo e che sono state penalizzate dal voto. I due terzi degli elettori hanno chiesto di cambiare rotta. E molte forze politiche, Sel, M5S, Idv, Rifondazione, Azione civile e diversi esponenti del Pd hanno aderito alla nostra iniziativa».
E il Pd di Epifani?
«L’ho incontrato per illustrargli le nostre proposte. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere. Sto aspettando. Premesso che ho solo due tessere, quella della Cgil e quella dell’Anpi, penso che il Pd stia attraversando una fase molto difficile: in campagna elettorale ha detto e promesso cose che sono in netta contraddizione con ciò che sta facendo».
Un silenzio significativo quello di Epifani?
«Non so se sia un silenzio innocente. In ogni caso in piazza ci sarà una sinistra che propone e pensa che ci siano strade diverse da quelle imposte dalla Bce».
Si sente più in sintonia con il Pd o che il M5S?
«Io sto con la Fiom».
Cosa pensa delle critiche di Grillo ai sindacati?
«Al Movimento abbiamo spiegato che la Fiom vive grazie alle quote che pagano i suoi 360 mila iscritti. Il mio stipendio è il più alto ed è di 2.300 euro netti al mese».
E le risorse pubbliche che arrivano dai Caf? E i contributi figurativi per i sindacalisti?
«La Fiom non riceve nulla dai Caf. Quei soldi, frutto di un servizio, vanno alla Cgil. I contributi figurativi per i sindacalisti sono previsti dalla legge».

Repubblica 16.5.13
La Carta tradita sul lavoro
Il ruolo negletto dell’articolo 1, un saggio di Zagrebelsky
di Luciano Gallino


Gli articoli della Costituzione italiana sono, quanto ad applicazioni in forma di politiche economiche e sociali e di legislazione sul lavoro, tra i più negletti dell’intera Carta. Lo ricorda con l’usuale limpidezza espositiva il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky (Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1, Einaudi, pagg. 80, euro 10). Che ne individua le ragioni in una serie di capovolgimenti del rapporto tra economia e dettato
costituzionale avvenuti negli ultimi anni.
Ponendo con l’articolo 1 il lavoro a fondamento della Repubblica, i costituenti intendevano stabilire il principio che dal lavoro dipendono le politiche economiche, e da queste il governo dell’economia. «Oggi – esordisce l’autore – assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato; dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro». In forza di detto rovesciamento, tutti gli articoli inerenti al lavoro sono stati posti in soffitta dagli ultimi governi.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’art. 1 è affatto generico, per cui non si vede quali politiche economiche e sociali potrebbero da esso discendere e nemmeno quali potrebbero contraddirlo. Quel qualcuno dovrebbe anzitutto riguardarsi la massa dei commenti e delle sentenze della Suprema Corte. Essi hanno per lo più interpretato il senso dell’articolo stesso come affermazione del principio che il lavoro va tenuto in alto non solo perché serve a conseguire i mezzi di sussistenza, ma ancor più perché è un tramite per l’affermazione della personalità (come scrisse un grande studioso della carta, Costantino Mortati).
Ma se anche fosse sensata l’obiezione per cui l’art. 1, dal quale muove la pacata quanto severa analisi di Zagrebelsky, è stato dimenticato perché è inconclusivo, vi sono nella Costituzione altri numerosi articoli dal contenuto quanto mai esplicito, che la politica, il governo, i parlamenti hanno ignorato, quando non abbiano provveduto a calpestarli. Quando mai si sono sentiti dei politici, anche del centro-sinistra, pretendere che il governo dovrebbe adoperarsi per rendere effettivo il diritto di tutti i cittadini
al lavoro (art. 4); alla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35); a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del loro lavoro (art. 36); a vedere assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione (art. 38)?
L’autore individua le cause di tali omissioni, che talora si configurano come ferite inferte al tessuto stesso della Costituzione, in una serie di capovolgimenti intervenuti alcuni di recente, altri maturati più addietro nel tempo. Tra questi si colloca la resistibile ascesa della finanza come fine a sé stessa, erettasi a controllore dell’economia reale, anziché fungere come dovrebbe da sostegno di questa. Quando la finanza arriva a imporsi in questo modo «è nemica della Costituzione, oltre che nemica dei popoli su cui si abbatte». È un’economia fittizia, che diversamente da quella reale non produce lavoro né stabilità sociale bensì il loro contrario «e favorisce i pochi signori della finanza, fino a quando non saranno anch’essi travolti, e noi con loro ma prima di loro».
Un altro capovolgimento che l’autore denuncia è un articolo infilato in una legge finanziaria di pochi anni fa (si tratta del famigerato articolo 8, se ben ricordo), in forza del quale a fronte di un accordo tra un’impresa e sindacati locali è possibile derogare da tutti i dispositivi esistenti, legislativi e contrattuali, in tema di criteri di assunzione, tipologia di contratto, orari, mansioni – tutto quanto forma, in sostanza, le condizioni in cui una persona lavora. Si tratta, nell’insieme, di rovesciamenti della Costituzione passati in fondo sotto silenzio, quasi fossero modeste infrazioni al codice della strada, quando in parlamento e nei media la voce dell’opposizione avrebbe dovuto levarsi fortissima e chiara.
Drammatica suona l’ultima pagina. I rovesciamenti costituzionali di cui si è detto, si chiede e ci chiede l’autore, «sono solo eventualità che possono correggersi, governare, contrastare? Oppure sono necessità che possono solo essere assecondate, perché ogni resistenza sarebbe vana?». Se vale questa seconda risposta, dovremmo riconoscere che nella parte che riguarda il lavoro, la Costituzione andrebbe considerata superata. Chi scrive ha dovuto farsi molta forza per concludere che forse la prima risposta ha ancora qualche base nel nostro paese.
IL LIBRO Fondata sul lavoro di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi pagg. 80 euro 10)

Repubblica 16.5.13
La crisi aumenta la disuguaglianza: reddito dei più poveri giù del 20%
Ocse: le famiglie benestanti hanno perso solo il 3%
di Maurizio Ricci


NELLA crisi più grave dal dopoguerra, anche i ricchi piangono. Ma, francamente, lacrimucce. Il disastro sociale - un disastro di cui solo ora cominciamo a intravedere le devastanti proporzioni - è altrove. Gli italiani stanno, infatti, pagando la crisi a seconda del portafoglio: di più, quanto più è piccolo. Uno tende a dimenticarselo, davanti alle statistiche: ma i consumi che si riducono (in media) del 4,5 per cento, il reddito che scende (in media) dell’1 per cento significano cose completamente diverse nei quartieri alti e in borgata. Non solo perché nei quartieri alti ci sono più riserve e c’è più superfluo da tagliare. Ma perché l’impatto è, effettivamente, minore. Ce lo ricorda l’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i Paesi industriali. Fra il 2007 e il 2010, il reddito disponibile dei 5 milioni di italiani che costituiscono il 10 per cento più ricco del Paese, si è ridotto dell’1 per cento l’anno. Ma per i 5 milioni di italiani del 10 per cento più povero del Paese, dove la carne viva del bilancio familiare è già esposta, il reddito si è ridotto del 6 per cento.
Sono riduzioni anno per anno, non cumulate. Questo significa che, nelle famiglie ricche, in quei tre anni, il reddito si è ridotto del 3 per cento, sicuramente una sgradita e inedita sorpresa: invece di 5000 euro al mese, per dire, 4.850. Ma per i più poveri, il taglio complessivo, nello stesso periodo, sfiora il 20 per cento: 800 euro al mese,
per esempio, dove, prima, ne entravano mille. Sono cifre che tengono conto sia delle tasse pagate, che di eventuali sussidi ricevuti. In altre parole, non c’è nessun intervento salvifico successivo di protezione sociale, tranne forse quello della Caritas. Non basta. Della tragedia, per ora, vi stiamo raccontando solo l’avvio. I dati dell’Ocse si fermano, infatti, al 2010, prima cioè che la crisi italiana si incattivisse davvero in recessione. Ma, già allora, era possibile vedere che il diverso peso della crisi sta allargando ulteriormente il golfo che divarica la società italiana. Nel 2007, il 10 per cento più ricco guadagnava 8,7 volte di più del 10 per cento più povero. Solo tre anni dopo, questo rapporto è passato a 10,2 volte, sopra la media dei Paesi Ocse.
Fra i Paesi industrializzati, solo in Spagna la crisi è stata socialmente più matrigna: i ricchi hanno perso, come da noi, fino al 2010, l’1 per cento del reddito annuo. Ma i poveri il 14 per cento: fra il 2007 e il 2010 lo hanno visto quasi dimezzarsi. C’è meno distanza, davanti alla crisi, in Grecia e in Irlanda. Ma sono i Paesi forti, quelli del Nord Europa a fornire un messaggio completamente diverso. Conta la miglior salute economica, ma, probabilmente, anche un sistema sociale più efficiente. Il risultato, comunque, è che, in Germania, in Finlandia, in Olanda, negli stessi tre anni che hanno visto sprofondare i poveri italiani e spagnoli, i ricchi, in proporzione, se la sono passata peggio dei meno ricchi. In Olanda, il decimo più povero della popolazione ha visto scendere il reddito
dell’1 per cento, ma il decimo più ricco del 2 per cento. In Germania e in Finlandia sono andati tutti avanti, ma i poveri di più.
Per una delle ironie amare della statistica, il brutale collasso dei bilanci delle famiglie più povere non si riflette nelle normali tabelle della povertà. Quando tutti i redditi scendono, anche se a velocità diversa, i parametri su cui si misura la povertà si ingarbugliano. Per questo, l’Ocse ha provato a ricalcolarli, prendendo come riferimento la situazione nel 2005. Se si tiene conto della situazione precrisi, dunque, il tasso di povertà è aumentato in Italia di oltre due punti percentuali, che sembra poco, ma non lo è. Vuol dire che, dove prima c’erano cinque poveri adesso ce ne sono sei. Soprattutto, l’aumento è stato rapidissimo, nell’arco di soli tre anni. Chi sono questi poveri? Qui, i dati dell’Ocse non presentano sorprese. Sappiamo da tempo che lo stereotipo della vecchina in miseria è superato. I poveri, oggi, bisogna cercarli negli asili e fuori dalle superiori. Fra il 2008 e il 2010, un italiano ancora minorenne ha visto il reddito medio che, teoricamente, gli compete, ridursi di oltre 600 euro l’anno. Per un giovane diciottenne, la riduzione del reddito disponibile è, in media di 300 euro. Quali sono le categorie forti? Gli adulti sotto i 50 anni che, più o meno hanno tenuto. E i pensionati che, in media, hanno accresciuto i guadagni.

Repubblica 16.5.13
Per 43.845.000 milioni di dollari
Un collezionista italiano si aggiudica la tela di Barnett Newman da record


NEW YORK — È un collezionista italiano che si è aggiudicato l’opera più costosa dell’asta di arte contemporanea organizzata martedì sera da Sotheby’s a New York. Il dipinto più caro si è rivelato la grande tela dell’artista americano Barnett Newman (1905-1970), dal titolo Onement VI, che è stata aggiudicato per 43.845.000 milioni di dollari. Realizzato nel 1953, si presenta come un enorme quadrato blu tagliato a metà da una riga bianca longitudinale ed è considerato uno dei risultati più importanti dell’espressionismo astratto. Onement VI è stato al centro di un’accesa gara al rialzo tra sei compratori. Alla fine ad avere la meglio è stato un misterioso acquirente italiano, collegato con il telefono alla sala d’asta. Il collezionista ha pagato la tela di Newman 22,4 milioni di dollari in più rispetto al precedente record stabilito solo un anno fa. La serata di Sotheby’s ha segnato un altro primato: quello di Gerhard Richter. La sua Domplatz, Mailand è stata battuta all’asta per 37.125.000 dollari. Il pittore tedesco ha stabilito così un nuovo record per un artista vivente. La monumentale tela che raffigura Piazza Duomo a Milano è un capolavoro del 1968, il culmine del canone della photo-painting celebrata negli anni Sessanta.

Repubblica 16.5.13
L’intervista
“Non entrerò nel comitato governativo la Costituzione non si cambia così”
Rodotà: inaccettabile un percorso extraparlamentare
di Anna Lombardi


ROMA — Stefano Rodotà non entrerà nel comitato di saggi che il governo sta per istituire al fine di agevolare il percorso di riforme istituzionali. Non intende accettare procedure extraparlamentari nella revisione della Carta. «Modificare le norme sulla revisione costituzionale che costituiscono la più intensa forma di garanzia - osserva rischia di mettere in discussione l’intero impianto della Costituzione».
Professore, Palazzo Chigi sembra però intenzionato a chiederle una partecipazione nella commissione governativa di saggi che affiancherà la commissione affari costituzionali. Repubblica ha anticipato l’apertura del Pdl nei suoi confronti: l’hanno chiamata?
«Finora nessuno mi ha telefonato chiedendomi se voglio far parte del Comitato di saggi del governo.
Ma, chiamato o non chiamato, l’idea di una commissione estranea al Parlamento non mi è congeniale: la via corretta delle riforme costituzionali è quella Parlamentare. Modificare poi le norme sulla revisione costituzionale che costituiscono la più intensa forma di garanzia rischia di mettere in discussione l’intero impianto della Costituzione. Aggiungo che io non sono mai stato pregiudizialmente ostile alle riforme. Da anni insisto sulla necessità di lavorare a quella che chiamo la “buona manutenzione della seconda parte” della Costituzione. È l’unico modo per non rischiare di incidere sui diritti e i principi fondamentali della prima parte e per sfuggire alle tentazioni di accentramento dei poteri e di riduzione dei controlli. Modifiche come quelle riguardanti il bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari vanno nella direzione giusta».
E questo come dovrebbe avvenire?
«Si dovrebbe cominciare in Parlamento e nella sede specifica delle commissioni affari costituzionali, ripartendo il lavoro fra le due commissioni di Camera e Senato in modo che i tempi si accelerano. Ma non costituendo una sorta di terza Camera, con le due commissioni che scelgono al loro interno i membri di una commissione speciale che procede a redigere il testo delle nuove norme. Due commissioni, lo dico semplificando, che cominciano a lavorare sui due temi specifici indicati prima».
La riforma più urgente?
«Senz’altro la riforma elettorale, la sola che potrebbe permetterci di riprendere a discutere seriamente di politica. È grave che il Pdl subordini alle riforme costituzionali il cambiamento della legge elettorale».
E invece?
«Invece la legge elettorale deve essere modificata subito. E per due ragioni. Una di sostanza: questa legge elettorale ha un vizio di incostituzionalità. L’ha detto la Corte costituzionale, lo ha ripetuto il suo Presidente. Eliminare questo vizio è prioritario. Non mi spingo fino a dire che questo Parlamento è illegittimo: ma certamente è stato eletto con una legge “viziata”. In qualunque paese in cui ci sia un residuo di cultura istituzionale, una situazione di questo genere non sarebbe tollerata. E poi c’è una ragione politica. Berlusconi ha potere di vita o morte su questo governo perché sa che ora può decidere di staccare la spina nel momento in cui i sondaggi gli daranno la ragionevole certezza di vincere le elezioni: facendo l’en plein sia alla Camera che al Senato».
E con l’eliminazione del Porcellum?
«Questo potere di condizionamento, di ricatto sul governo verrebbe, non dico eliminato del tutto, ma certamente diminuito. Una cosa che ci permetterebbe di tornare alla normalità costituzionale, alla normalità politica. E questa è una priorità istituzionale assoluta».
Come interpreta l’apertura del Pdl nei suoi confronti?
«Non sono cambiato né ho cambiato le mie idee negli ultimi tempi. Forse ho avuto maggior visibilità e legittimazione per la vicenda legata alla presidenza della Repubblica. Probabilmente l’attenzione che mi viene dedicata è legata a questo fatto. La registrazione di un dato di realtà».
Contribuirebbe a un governo dove, oltre al Pd, c’è anche Berlusconi?
«Non è una cosa astratta, e mi scusi se torno sulla mia vicenda tante volte travisata. Io mi sono speso in quella direzione per un unico motivo: favorire una soluzione di governo che non portasse alla maggioranza attuale».
Ma se le chiederanno di entrare nella Convenzione dirà di sì o di no?
«Questo modo di aggirare il Parlamento non è il mio. C’è incompatibilità fra come si prospetta questa linea di riforma costituzionale e quello che io ho sempre sostenuto. Lo ripeto: a questa extraparlamentarizzazione della riforma costituzionale sono assolutamente contrario».

il Fatto 16.5.13
Arresti a Taranto: il Pd che prende ordini dall’Ilva
“La Provincia è asservita all’Ilva”, in manette il presidente democratico
di Francesco Casula e Antonio Massari


Operazione “Ambiente svenduto”: il presidente democratico della Provincia, Giovanni Florido, in manette per concussione assieme all’ex assessore all’Ambiente Michele Conserva. L’accusa: “Minacce a chi non favoriva l’azienda per lo smaltimento dei rifiuti”

“E ora bisogna chiedere il conto al presidente della Provincia”. Girolamo Archinà è infuriato. L’11 marzo 2010 ignaro di essere intercettato, l’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva manifesta tutta la sua rabbia nei confronti del presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido e dopo l’ennesimo “no” che i suoi uffici hanno inviato all’azienda, si chiede “il ‘tutto a posto’ – garantito dal presidente, ndr – cosa sta a significare”. L’Ilva è in attesa dell’autorizzazione per lo smaltimento dei rifiuti di lavorazione nella discarica interna dell’azienda. Un permesso che all’Ilva farebbe risparmiare milioni di euro non esternalizzando più il servizio. Florido, al suo secondo mandato con un’amministrazione di centrosinistra e presidente del Pd ionico, aveva garantito “tutto a posto, gli uffici procederanno”, ma così non è stato. Non sono bastate le pressioni e le minacce che, secondo l’accusa, il presidente Florido, l’ex assessore all’ambiente Michele Conserva e l’ex direttore generale dell’ente Vincenzo Specchia hanno effettuato sui dirigenti perché firmassero “a vista” e senza “un esame approfondito delle pratiche” le richieste provenienti dalla grande industria. Tutto però finisce nell’inchiesta della Guardia di finanza “ambiente svenduto” che all’alba di ieri ha portato in carcere Florido, Conserva e lo stesso Archinà, già detenuto dal 26 novembre scorso.
ARRESTI domiciliari, invece, per l’ex dg Specchia. Concussione e tentata concussione sono i reati ipotizzati dal pool di magistrati guidati dal procuratore Franco Sebastio. Nell’ordinanza, il gip Patrizia Todisco parla di “una inquietante, forte inclinazione comportamentale ad asservire il pubblico ufficio, i pubblici poteri rispettivamente esercitati, al conseguimento di obiettivi di favore economico a beneficio di determinati soggetti (ovviamente, non di soggetti qualunque…), in spregio dei principi di buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione”. Presidente, assessore e direttore generale, insomma, avrebbero spinto i dirigenti ad assumere “un atteggiamento di generale favore nei confronti dell’Ilva” attraverso condotte “ispirate e pilotate” proprio dall’uomo ritenuto la longa manus della famiglia Riva. Archinà è “informato di tutto, caldeggia nomine e spostamenti dei dirigenti” ed è “talmente introdotto nei meccanismi di nomina dell'ente da essere al corrente anche delle nomine in cantiere”. A farne le spese è Luigi Romandini, il dirigente che non cede alle pressioni e che Florido trasferisce ad altro incarico. “Tanto adesso hai finito” gli avrebbe detto l’assessore Conserva sventolando il provvedimento e preannunciando il siluramento. Romandini, di tutta risposta, si reca negli ufficio del maggiore Giuseppe Dinoi e denuncia tutto. Intanto al suo posto viene nominato Ignazio Morrone, ma la musica per l’Ilva non cambia: anche lui rifiuta di firmare le autorizzazioni ed è costretto ad accettare il pensionamento anticipato. “Il presidente Florido – ha raccontato ai finanzieri – mi invitava nel suo ufficio, a volte anche pretestuosamente, chiedendomi di evaderle (le istanze dell’Ilva, ndr) quasi ad horas e di fronte alla mia legittima e doverosa richiesta di esaminarle nei tempi dovuti, egli mi rispondeva ‘se non se la sente mi faccia due righe e si dimetta’”. Ma non sono solo i dirigenti a essere trasferiti. Quindici giorni dopo aver sanzionato l’Ilva per una violazione anche il corpo della Polizia provinciale passa dal controllo del settore ambiente a quello diretto del presidente Florido. Intanto per accontentare l’Ilva e ottenere quell’autorizzazione allo smaltimento dei rifiuti, Florido e Conserva sono costretti a chiedere all’avvocato Cesare Semeraro, responsabile dell’ufficio legale della provincia, di affidare a un professionista esterno, l’avvocato Nicola Triggiani, la redazione di un parere che avrebbe consentito di superare gli ostacoli. Semeraro si oppone e tutto si conclude in un nulla di fatto. Ma le pressioni, secondo l’accusa, proseguono. Fino all’estate scorsa quando Florido interviene ancora su Semeraro per le lamentele ricevute dal nuovo presidente dell’Ilva Bruno Ferrante scontento della richiesta di 300 milioni di euro come garanzia finanziaria chiesta dall’ente per la gestione dei rifiuti a fronte di 1 milione di euro previsto dall’azienda. Florido vuole risolvere la questione, ma Semeraro è chiaro: “Se Ferrante ha dei dubbi, mi faccia chiamare”. Per il gip To-disco queste circostanze “confermano il sollecito, premuroso, fattivo e perdurante interessamento del Florido in soccorso delle esigenze di natura economica della proprietà dell’Ilva”. Ed è proprio al patron Fabio Riva che, nel luglio 2010, Florido garantisce l’impegno. Fabio Riva (R): Si son parlati. Mi sembra che sia abbastanza chiaro, la nostra posizione è di andare avanti a collaborare, a vedere di lavorare con la Regione, chiaro che in presenza dell’incidente probatorio dobbiamo stare molto attenti a come ci muoviamo, no? Gianni Florido (F): È evidente... se... R: Perché non puoi da un lato andare a fare delle cose non previste dalla legge e dall’altro avere un incidente probatorio, no? Per cui diciamo tutto l’iter deve seguire una procedura molto rigida, non so come dire. (...) Però per noi è importantissimo andare avanti a parlare con la Regione. F: Stamattina incontreremo anche noi la Regione. E prenderemo una strada comune... va bene. R: Esattamente. F: Se mi chiamate nel pomeriggio... poi vediamo quando lei viene giù: vediamo di combinare questo incontro.

il Fatto 16.5.13
Tutela ambiente, pressioni su Vendola
Per il codice penale la concussione è il reato commesso da un “pubblico ufficiale” e la condotta sembra coinvolgere proprio il governatore
di Fra. Cas. e A. Mass.


Le pressioni dell’Ilva sono giunte anche in Regione Puglia. Ne sono convinti i finanzieri che nell’informativa del 24 gennaio parlano di “vicenda concussiva in danno del direttore regionale di Arpa Puglia Giorgio Assennato” e chiamano in causa il governatore Nichi Vendola in merito all’ipotesi di “mancato rinnovo nell'incarico, in scadenza nel febbraio 2011, per effetto delle sollecitazioni rivolte al Governatore Vendola ed ai suoi più stretti collaboratori — tra gli altri l'allora capo-segreteria, Manna — proprio dai vertici Ilva”. Nichi Vendola non risulta indagato, ma per il codice penale la concussione è il reato commesso da un “pubblico ufficiale” e la condotta sembra coinvolgere proprio il governatore perché Assennato mostri un atteggiamento meno ostile nei confronti dell’industria tarantina. I militari, guidati dal colonnello Salvatore Paiano, infatti spiegano che “all'esito di quella vicenda concussiva e per effetto di essa, in realtà il prof. Assennato ridimensionerà il proprio approccio, fino a quel momento improntato al più assoluto rigore scientifico”. Per le fiamme gialle la famiglia Riva è in grado “di perturbare il buon andamento della P.A.” e di decidere le nomine “delle più qualificate figure dirigenziali” per ottenere nei posti chiave “soggetti evidentemente meno inclini ad avversare le iniziative imprenditoriali del siderurgico tarantino”. Aspetti chiariti anche dalla conversazione tra Fabio Riva e l’avvocato Francesco Perli nella quale quest’ultimo tranquillizza Riva su Assennato affermando “si è molto... responsabilizzato”. Ed è proprio per questa “responsabilizzazione”, che l’avvocato Per-li suggerisce all’ex presidente Ilva di non intervenire per il suo avvicendamento perché “potremmo trovarcene anche uno molto peggio”. Il governatore Vendola ha sempre negato di aver fatto pressioni chiamando a sua difesa proprio il direttore dell’Arpa. Eppure anche in una conversazione con Archinà, Vendola sembra rassicurare il pr dell’Ilva. Archinà (A): purtroppo i miei timori del recente passato si stanno dimostrando sempre di più.. e sempre di più non solo l'Ilva ma anche.. altre persone sono nell'occhio del ciclone... ma tutto poggiato su una scivolata del nostro... stimato amico direttore (si riferisce ad Assennato, ndr) Vendola (V): va bene.. noi dobbiamo fare... ognuno fa la sua parte... e dobbiamo però sapere che.. a prescindere da tutti i procedimenti .. le cose.. le iniziative.. A: se se... V: l'Ilva è una realtà produttiva.. A: e lo so... e infatti.. V: cui non possiamo rinunciare, e quindi ... diciamo ... fermo restando tutto dobbiamo vederci ... dobbiamo ... A: certo, certo.. V: ...ridare garanzie... volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che.. il Presidente non si è defilato..

il Fatto 16.5.13
La fine di un partito infettato dai veleni
A Taranto il Pd, troppo vicino all’azienda è divorato dalle guerre interne
E Roma tace
di Sandra Amurri


È da poco sorto il sole a Taranto. E la notizia dell'arresto del presidente della Provincia Gianni Florido del Pd e dell'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva e i domiciliari per l'ex direttore della Provincia Vincenzo Specchia comincia a viaggiare via sms tra i cittadini alla velocità della luce, accompagnata da commenti di grande sollievo per l'operato della magistratura. Un colpo durissimo alla credibilità del Pd che da sempre localmente combatte una “guerra” al suo interno tra gli ex margherita. Da un lato, l'assessore regionale al bilancio eletto senatore del Pd Michele Pelillo, sostenitore dell'operazione San Raffaele con don Verzé, dall'altro il presidente della Provincia ed ex segretario della Cisl, Gianni Florido finito in carcere.
NELLA SEDE tarantina del partito, quella storica dei Ds in via Cesare Battisti tra i pochi presenti nessuno vuole commentare. Mentre in quella di via Principe Amedeo, frequentata da iscritti vicini al senatore Pelillo c'è chi lascia timidamente trasparire una certa soddisfazione per l'operato della magistratura facendo notare che la notizia dell'arresto di Florido non è certamente un fulmine a ciel sereno. Mentre il segretario del Pd di Taranto Massimo Serio esprime solidarietà a Florido facendola seguire dalla fiducia nei pm e dall'augurio che “la vicenda si chiuda quanto prima” perché “lei capisce, stiamo parlando di un presidente della Provincia arrestato” e alla domanda se ha sentito la direzione nazionale del partito, il segretario pro-tempore Epifani risponde con un laconico: “Solo la segreteria di Stefano Fassina ma non lui”. Aggiungendo con una certa delusione: “Sono un bancario, vivo del mio lavoro e sì anche della passione per la politica, ma che le debbo dire io, non sono stato eletto dal congresso, sono subentrato al segretario dimissionario, capisce vero? Cercheranno di risolvere questo problema che è un caso nazionale”. Stamane uscendo di casa avrà incontrato diverse persone, cosa le hanno detto? “Le persone ti chiedono come va con aria dispiaciuta, poi magari si girano e giudicano. Io sono sereno, non ho niente da rimproverarmi”. Il sindaco di Bari e presidente del Pd in Puglia, Michele Emiliano, esprime solidarietà all’amico Florido e sostegno alla magistratura: “In questa vicenda è chiaro che è possibile che qualche soggetto politico che aveva il controllo dei controlli sia rimasto impigliato perché non è facile il ruolo del sindaco di Taranto, così come quello del presidente della Provincia di Taranto e del presidente della Regione”. E che che “non ci possiamo permettere di chiudere l’Ilva senza trovare un’alternativa occupazionale”. E Nichi Vendola ha detto che “chi sbaglia deve pagare”.
C'è chi, invece, come il segretario regionale del Pd, Massimo Blasi, ex ds, bibliotecario, per dieci anni sindaco di Melpignano la situazione di Taranto la conosce bene. E va giù duro nel ricordare di essere “una voce inascoltata dentro il suo partito” nel continuare a denunciare la questione morale. “Di fronte al degrado dello spirito pubblico la politica non può mettere la testa sotto la sabbia, lo ripeto da quando sono segretario. Dobbiamo essere irreprensibili per dare esempio”, continua Blasi. “Ho raccolto le firme di cinque consiglieri per una legge regionale sul conflitto d'interesse che non è mai stata discussa”, rivendica prima dell'affondo contro Sel: “Non a caso il presidente della Regione, il vicepresidente e il presidente del Consiglio sono tutti del partito di Vendola”. E quando gli chiediamo cosa ha fatto il Pd di fronte alla pubblicazione delle conversazioni intercettate tra Florido e Fabio Riva risponde che “nulla poteva fare perché il presidente della Provincia viene eletto dal popolo e il partito non ha strumenti per dire: vattene, tanto più se, come nel caso di Florido, si è dichiarato tranquillo ed estraneo a ogni responsabilità. La questione è politica, per questo ho collezionato non poche ostilità dentro il mio partito”, ripete “L'ex assessore regionale alle opere pubbliche del Pd, Amati mi ha accusato di moralismo. Per me è un complimento, io, per citare Rodotà, sono per l'elogio del moralismo” . Allora lei al posto di Bersani non avrebbe accettato il finanziamento per la campagna elettorale da Riva: “Io i soldi non li prendo neppure dall'amico salumiere, i rappresentanti del popolo debbono essere liberi”. E dell'Ilva dice: “Deve essere nazionalizzata. Occorre un comitato di sorveglianza come nella Volkswagen, di cui fanno parte rappresentanti delle istituzioni, dei lavoratori , degli ambientalisti, dei cittadini e si decide insieme. Solo così si potrà superare il vero limite della politica cominciando a guardare alla vita con chi non ha un pezzo di pane”. Ma non prova disagio a incrociare lo sguardo dei cittadini dopo questi arresti? “Io conservo la mia credibilità sono a disagio per il Pd e la politica. Però il Pd un primato ce l'ha: dalle primarie a oggi non abbiamo sbagliato niente”. Un record che il Pd sembra difendere con tenacia.

il Fatto 16.5.13
L’ex parlamentare Pd. L’escluso Della Seta
“Non si può lottare stando nel Pd”
di Luca De Carolis


Il caso Ilva dimostra che non si può lottare per l’ambiente rimanendo nel Pd. O perlomeno, in questo Pd”. Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente, è stato senatore per i Democratici nella passata legislatura. Poi è rimasto fuori delle liste. Si è sempre battuto contro la gestione dell’impianto, “guadagnandosi” una lettera di Emilio Riva a Bersani, in cui il patron dell’azienda si lamentava dell’opposizione di Della Seta al decreto salva Ilva del governo Berlusconi. Ieri sull’Huffington Post lui e un altro ex parlamentare Pd, Francesco Ferrante, scrivevano della “sinistra che a Taranto ha rinnegato se stessa, intrattenendo per decenni rapporti opachi e talvolta decisamente illegittimi con i padroni dell’Ilva”.
Della Seta, cosa ha provato appena ha saputo dell’arresto di Florido?
Non sono rimasto sorpreso. Auguro al presidente della Provincia di chiarire la sua posizione, ma visto il clima a Taranto, fatto di rapporti scivolosi tra politica e industria, non mi può stupire che la magistratura voglia fare luce.
Quando parliamo di rapporti scivolosi...
Parliamo del fatto che per decenni la politica è stata compiacente, e talvolta complice, di una una situazione che fa semplicemente schifo, come quella dell’Ilva. E la sinistra, che ha governato spesso, ha grandissime responsabilità.
Perché compiacente e complice?
La prima ragione, più nobile se vogliamo, è di carattere culturale. Molti dirigenti, per propria formazione, ritengono che l’industria non vada mai ‘disturbata’: ovvero, che lo sviluppo giustifichi danni per l’ambiente. Il secondo motivo è quella zona grigia dove si fa molto labile il confine tra politica e affari. E qui entrano in gioco i finanziamenti.
Ha notizie dirette su Taranto?
No: ma conosco bene l’influenza sui partiti di tutte le industrie, e non solo di quelle dell’acciaio.
Conosce Florido?
L’ho incrociato varie volte. Ma non posso dire di conoscerlo.
Il partito di Taranto gli ha esternato “solidarietà umana”.
Non capisco: la solidarietà la può manifestare un amico, non un partito, che deve fare considerazioni politiche.
Nella nota, il Pd locale “condanna tutti gli atteggiamenti di sudditanza verso l’Ilva e il suo padrone”.
Condivido. Certo, in questi anni il partito è stato un po’ troppo distratto...
Ma non salva proprio nessun esponente della sinistra pugliese sul tema Ilva?
Anni fa la Regione guidata da Vendola costrinse i Riva ad abbattere le emissioni di diossina, con un’apposita legge. Ma è poco.
Nel 2006 Riva finanziò la campagna elettorale di Bersani con 98mila euro. Il Fatto ha invitato l’ex segretario Pd a resistuirli. Lei che ne pensa?
Più che restituirli, io non li avrei proprio presi. All’epoca credo che Bersani fosse responsabile economico dei Ds: poco dopo sarebbe diventato ministro allo Sviluppo Economico. Non doveva accettare quel denaro: chi controlla (o potrebbe farlo) non deve avere rapporti con i controllati.
Chi combatte per l’ambiente paga dazio in politica? Lei non è stato ricandidato...
Non mi hanno mai impedito di fare nulla. Ma di fatto mi hanno espulso, ritenendomi un corpo estraneo. E avevano ragione: lo sono, rispetto a questo Pd.
Quindi, rimane fuori.
Per ora è il solo modo di combattere certe battaglie. Ma non escludo di tornare: anche perché sull’ambiente gran parte degli iscritti la pensa come me.

il Fatto 16.5.13
Arresti Ilva, Pd a fine corsa
di Bruno Tinti


Adesso sappiamo che Ilva produceva, inquinava e ammazzava, non solo nell’inerzia del ministero dell’Ambiente; ma anche per via dei rapporti illeciti con la politica locale, gli arrestati presidente della Provincia Gianni Florido ed ex assessore all’ambiente Michele Conserva, entrambi del Pd. Fra qualche tempo sapremo se mazzette e autorizzazioni prezzolate ci sono state anche a livello nazionale.
Che Ilva continui a inquinare e ammazzare legalmente per via di una legge voluta da Clini e Monti è cosa nota a tutti: ottenuta l’Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia), Ilva ha potuto continuare a produrre nelle stesse condizioni che avevano portato al sequestro degli impianti. Questo perché l’Aia, di per sé, non ha eliminato l’inquinamento; si è limitata a prescrivere una serie di interventi che dovrebbero essere completati entro la fine del 2014 (sarà un miracolo se li completeranno – ammesso che vogliano farlo e che trovino i soldi – nel 2017) ; nel frattempo, respirate il meno possibile e, se potete, andate a vivere da qualche altra parte.
Il sindaco di Bari, Emiliano (Pd), ha espresso con chiarezza un dilemma che gli eredi di Gramsci, Togliatti e Berlinguer avrebbero dovuto risolvere da subito con sdegno: “Per mancanza di indirizzo politico non si capisce se dobbiamo andare fino in fondo senza guardare in faccia a nessuno o se bisogna trovare un punto di equilibrio sulla ragione di Stato, cioè sul fatto che non ci possiamo permettere di chiudere l’Ilva senza trovare un’alternativa occupazionale”. Il che riecheggia sinistramente le parole di Mussolini, quando giustificava l’entrata in guerra con le poche centinaia di morti (per Ilva si contano a migliaia) che gli avrebbero permesso di sedersi da vincitore al tavolo della pace.
E TUTTAVIA, se i termini della questione fossero questi, si potrebbe anche giustificare la cinica realpolitik del Pd. Ma il punto è che la scelta in favore della continuità produttiva non è stata dolorosamente adottata per un superiore interesse collettivo; ma a seguito delle care, vecchie, appetitose mazzette. Ilva necessita di una discarica per smaltire, all’interno dello stabilimento, rifiuti industriali e polveri; discarica che non può essere autorizzata (mancanza di requisiti tecnico-giuridici; fra un po’ sapremo quali). Così Archinà (il facilitatore alle dipendenze di Il-va), risolve il problema nel solito modo: pressioni e quattrini. Dice sempre Emiliano: “In questa vicenda è chiaro che è possibile che qualche soggetto politico che aveva il controllo dei controllori sia rimasto impigliato perché non è facile il ruolo del sindaco di Taranto, così come quello del presidente della Provincia di Taranto e del presidente della Regione”. È chiaro, vero? E allora perché il Pd non si è dato da fare per controllare meglio? I controllori erano persone sue; Ilva non era una fabbrichetta di quartiere: che ci fosse un mostruoso inquinamento lo sapevano tutti. La scelta tra inquinare e ammazzare ancora per qualche anno, ma con la prospettiva di salvare un polo produttivo di immenso valore per l’occupazione richiedeva quantomeno informazioni corrette. Prescrizioni e autorizzazioni sono sufficienti? Sono state ottenute legalmente? Non è che la malattia endemica della nazione, la corruzione, ha colpito anche lì? Se lo sa Emiliano che “è possibile che qualche soggetto politico sia rimasto impigliato”, com’è che i vertici del partito non ci hanno pensato? Magari perché Ilva era tra i finanziatori del Pd?
Ma poi: i vertici del Pd si occupano solo di alleanze, di ministri e sottosegretari, insomma di poltrone? Dei problemi reali, dei cittadini di un’intera Provincia, dei lavoratori di tutto il paese (Ilva ne coinvolge decine di migliaia), della scelta tra morte per inquinamento e morte per inedia, chi diavolo deve occuparsi? Quando il Pd ha chiesto il voto degli abitanti di Taranto avrà pur preso qualche impegno sul problema Il-va. Poi, dopo le elezioni, se n’è dimenticato?
E infine: Clini, l’iperattivo ministro dell’Ambiente, il protagonista dello scontro con la magistratura tarantina, l’uomo privo di dubbi che ha imposto la riapertura degli impianti, come diavolo ha rilasciato l’Aia? Quali accertamenti ha fatto? Qui c’era una discarica che non poteva essere autorizzata; e che era essenziale nel quadro complessivo dell’attività produttiva poiché vi dovevano essere stoccati rifiuti tossici e nocivi e polveri inquinanti. Nessun controllo, le autorizzazioni ci sono, tutto bene. Ma dove vive?
LA DOMANDA, per la verità, non è nuova. Clini è stato per anni direttore generale del ministero dell’Ambiente. Le decennali malefatte dei padroni di Ilva sono state sempre ignorate, le autorizzazioni concesse, gli interventi omessi. Ma lui non ne ha mai saputo niente. “Mi occupavo di altro”, ha reiteratamente risposto a chi gli chiedeva come mai Ilva aveva potuto fare quello che voleva, in spregio della legge e delle sentenze di condanna che pure c’erano state. Di altro che? In realtà, tra il 1991 e il 2000, è stato direttore generale del Servizio prevenzione dell’inquinamento atmosferico e acustico nelle industrie, pubblicando perfino un rapporto sulle 18 aree a rischio di incidente rilevate in Italia. E, in quel periodo Ilva c’era, inquinava e ammazzava. Proprio come adesso. Sarebbe interessante sapere se, tra quelle 18 aree, Il-va compariva; e anche se Clini inviò alle competenti Procure della Repubblica uno straccio di denuncia: sapete, qui ci sono 18 aziende (magari di più) che inquinano, tanto che, secondo me, c’è un rischio ambientale; fate qualcosa.

il Fatto 16.5.13
Mafia e Nutella, impresentabili Pd
Una ventina, solo nel 2013, tra indagati e arrestati in tutta Italia, dal Pirellone a MPS
di Beatrice Borromeo


Non solo Ilva. L'annus horribilis del Pd, affossato alle Politiche e umiliato durante l’elezione del Capo dello Stato, non è cominciato bene nemmeno per quanto riguarda la questione morale. Appena una settimana dopo Capodanno, l’8 gennaio 2013, è Beppe Grillo a ricordare al fu segretario del partito, Pier Luigi Bersani, che gli impresentabili non abitano soltanto nella Casa delle Libertà: “Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna; Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d'ufficio; Giovanni Lolli, L’Aquila, rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, prescritto; Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta; Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio”.
SE IL LEADER M5S avesse aspettato ancora un po’, avrebbe potuto rimpolpare il suo blog con altri esponenti Pd inguaiati con la giustizia. A partire dai due sottosegretari del governo Letta Vincenzo De Luca (l’ultima indagine a suo carico risale a meno di un mese fa per il progetto urbanistico Crescent) e Filippo Bubbico, indagato per truffa e abuso d’ufficio. Poi, in ordine temporale, il 16 gennaio, a Napoli, viene interrogato Nicola Caputo, consigliere regionale campano indagato nell’inchiesta sui rimborsi erogati per la comunicazione. Al pm che lo interroga spiega che farsi accreditare direttamente sul conto i rimborsi per le spese della comunicazione non sarà lecito, ma è prassi. Passa un giorno e nell’inchiesta sui lavori per il sottoattraversamento del Tav a Firenze, vengono indagate 31 persone. Tra loro c’è anche Ma-ria Rita Lorenzetti, che nel 2010 l’aveva giurata a Bersani che non la voleva ricandidare per un terzo mandato come presidente della Regione Umbria. All’ex deputata vengono contestati i reati che avrebbe compiuto come presidente di Italferr, del gruppo Ferrovie dello Stato.
Il 17 non porta bene neanche al sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Per il giovane delfino di Nichi Vendola, in quota Sel e appoggiato dal Pd, scatta l’indagine per falso e abuso d’ufficio per presunte irregolarità nella nomina del nuovo sovrintendente del teatro Lirico. Una decina di giorni dopo, il 28 gennaio, è il turno del consigliere della Regione Campania Enrico Fabozzi, eletto nel 2010 nelle liste del Pd e poi passato al Gruppo Misto. L’ex sindaco di Villa Literno, già arrestato e poi scarcerato nel 2011, è accusato di abuso d’ufficio e falso per una vicenda inerente allo smaltimento dei rifiuti a Caserta. Il 30 gennaio, a Milano, vengono poi iscritti nel registro degli indagati una trentina di rappresentanti di Pd, Idv, Sel e Udc nell’inchiesta sui rimborsi ai gruppi politici al Pirellone (coinvolti anche Pdl e Lega).
Mentre alcuni si dicono certi “di poter dimostrare la regolarità delle spese”, come il consigliere regionale Pd Franco Mirabelli, e “tranquilli”, perché le risorse sono state “utilizzate per spese inerenti all’attività politica”, come giura il capogruppo regionale Pd Luca Gaffuri, per altri la storia è più pesante. Letteralmente: Carlo Spreafico, vicepresidente del consiglio (Pd), ha chiesto che gli venisse rimborsato pure un vasetto di Nutella (scatenando le ironie di chi lo immagina varcare il Pirellone con un barattolo gigante di crema alle nocciole, come in Bianca di Nanni Moretti).
SE IL MESE di gennaio non fa fare bella figura al partito oggi guidato da Guglielmo Epifani, quello di febbraio lo affossa proprio. Nell’operazione contro la cosca Iamonte, che ha portato in carcere 65 tra capi e gregari, finisce in manette Gesualdo Costantino, sindaco di Melito Porto Salvo (Calabria), che – fascia tricolore addosso – concordava coi boss le sue mosse politiche. Gli inquirenti chiedono l’arresto anche del suo predecessore, Giuseppe Iaria (sempre Pd) ma il gip rigetta e l’ex sindaco è adesso indagato in stato di libertà.
Appendice scandalo Mps: Franco Ceccuzzi, ex parlamentare Pd ed ex sindaco di Siena, viene indagato nell'inchiesta sul fallimento del Pastificio Amato: l’accusa è di concorso in bancarotta. Si parla poi di un’indagine sulla spartizione delle poltrone tra Denis Verdini e lo stesso Ceccuzzi, sempre smentita da quest’ultimo. L’8 marzo si celebra anche Maria Tindara Gullo, prima delle neodeputate Pd a essere indagata nel 2013 (per falso ideologico: il padre viene direttamente arrestato nella stessa inchiesta). La settimana dopo finisce in prigione anche Alberto Tedesco, primo ex parlamentare (Pd, poi Gruppo Misto) arrestato nel nuovo anno. Gli ultimi a venire iscritti nel registro degli indagati, ad aprile, sono gli ex consiglieri Pd Stefano Lepri e Mino Taricco e Vito De Filippo, presidente della Regione Basilicata, coinvolto nel-l’inchiesta sui costi della politica. Rinviato a giudizio invece Stefano Bonaccini, segretario del partito emiliano, per turbata libertà degli incanti e abuso d’ufficio. I democratici impresentabili per ora sono una ventina: ma il 2013 non è neanche a metà, e il Pd ha ancora molto da imparare dai suoi alleati di governo.

Corriere 16.5.13
Il via libera di Renzi a Chiamparino: sono entusiasta della sua candidatura
di Maria Teresa Meli


ROMA — «A me Chiamparino va benissimo... Dirò di più, sono entusiasta della sua candidatura»: è questa la risposta di Matteo Renzi a chi gli chiede che cosa pensi del fatto che l'ex sindaco di Torino si sia detto disponibile a correre per la segreteria del Partito democratico. Del resto, sono le stesse identiche parole che il sindaco rottamatore ha pronunciato l'altro ieri, quando ha chiamato Chiamparino prima che fosse intervistato da Lilli Gruber. La posizione del primo cittadino del capoluogo toscano lascia interdetti alcuni suoi sostenitori che lo vorrebbero candidato al Congresso d'autunno. E che erano rimasti fermi al suo commento di ieri notte: «Mi pare presto per parlare del Congresso». Ma il mondo si muove, e il Pd, per quanto malmesso, anche. Già, e il sindaco di Firenze è un uomo svelto e sveglio. Intanto, in attesa che le assise nazionali si tengano davvero, lui non può temporeggiare. Nè candidarsi, anche se una residua possibilità che l'esponente più popolare del Pd possa scendere in campo c'è. Se il governo vacillasse, se si vedesse che non riesce a superare il prossimo Natale, allora il primo cittadino del capoluogo toscano potrebbe veramente buttarsi in pista per evitare il crollo del centrosinistra e del Partito democratico. A queste condizioni Renzi si candiderebbe alla segreteria. Ma siccome lo stesso sindaco rottamatore è convinto che il governo arrivi «fino al 2015», non ha la mente tutta occupata dalla sua candidatura. E si butta a capofitto su Firenze: «Devo fare tante cose per la città, e se ho un altro mandato meglio... Ho 38 anni e posso candidarmi alla presidenza del Consiglio nel 2015, 2016, 2017, 2018. Io posso aspettare tranquillamente. Anche perché so che se mi candidassi alla segreteria, il rischio sarebbe quello di un contraccolpo sul governo, come è avvenuto nel caso di Veltroni e Prodi, e io non intendo far cadere Letta». E non c'è verso di fargli cambiare idea, anche quando chi gli sta vicino gli fa osservare che alle prossime elezioni lo scontro potrebbe essere tra l'attuale presidente del Consiglio e il suo vice: «Letta e Alfano o me e Alfano? E dov'è il problema?». D'altra parte, l'obiettivo di Renzi — e anche di Chiamparino e del suo primo sponsor, ossia Walter Veltroni — è quello di scompaginare le attuali correnti e cambiare gli equilibri interni del Partito democratico. Il traguardo, per farla breve, è lo sfarinamento e il riposizionamento dell'attuale maggioranza del Pd, di quel fronte che ha portato alla segreteria l'ex leader della Cgil Guglielmo Epifani. Se Renzi ufficializza il suo via libera all'ex sindaco di Torino gli ex ppi si troveranno costretti a seguirlo. Dovranno farlo Enrico Letta e Dario Franceschini, ma anche Beppe Fioroni che per il momento recalcitra. Come non appoggiare un candidato come Chiamparino e preferirgli un esponente che preferisce rifarsi a un'impostazione socialista classica? A quel punto cambierebbero i giochi. Cambierebbe tutto, probabilmente. In special modo dall'altra parte del Pd, lì dove si sponsorizza, con forza e con convinzione, Gianni Cuperlo. I più tenaci sostenitori dell'ex segretario della Fgci sono i giovani turchi. E infatti Matteo Orfini spiega: «Ho grande rispetto per Chiamparino, ma lui porta avanti una linea politica alternativa alla nostra». Punto e basta. Una stessa nettezza, però, non si riscontra in Massimo D'Alema. Prima dell'assemblea l'ex presidente del Consiglio caldeggiava una segreteria Cuperlo, dopo ha preferito defilarsi. Certo, Chiamparino non è una «sua» creatura, però a tutti ha detto «lo stimo». Perciò c'è chi dice (e spera) che D'Alema faccia una sortita a sorpresa e cambi fronte. Nel frattempo Guglielmo Epifani, che si è addossato la croce di traghettare il Partito democratico fino all'autunno prossimo almeno, cerca perciò di rassicurare i parlamentari: «Dobbiamo ricostruire il Pd, e prenderci tutti le nostre responsabilità, ma l'impresa non è impossibile». Eppure tale appare, stando almeno agli ultimi sondaggi sul partito. Sono quelli fatti da Alessandra Ghisleri: giacciono sulla scrivania di Berlusconi ma la voce di quei dati è giunta anche al Pd. Che ha una percentuale più bassa di un punto di quella della settimana scorsa: 22,6 per cento. Un dato che preoccupa tutti a Largo del Nazareno e che non sembra promettere nulla di buono per il futuro.

il Fatto 16.5.13
Il banchiere che punta alla guida Pd
Chiamparino è presidente della Compagnia san Paolo
Distribuisce 130 milioni
di Daniele Martini


Una passione temeraria spinge i postcomunisti verso le banche. Un'attrazione fatale che ora si manifesta seguendo anche il percorso inverso, dalla banca alla politica, considerato che Sergio Chiamparino, banchiere da 12 mesi e politico da una vita, sindaco Pd di Torino per un decennio, si candida niente meno che alla guida del partito che fu di Togliatti e Berlinguer. Chiamparino è presidente della Compagnia di San Paolo, con uno stipendio di 70 mila euro netti l'anno, una paga sabauda, più da grigio ragioniere che da sfavillante banchiere, ma in un posto di peso.
LA COMPAGNIA San Paolo è l'equivalente nel nordovest d'Italia del Montepaschi nel Centro, con una piccola differenza: mentre la Fondazione senese ha le pile scariche causa mancanza di quattrini, la Compagnia torinese è nel pieno del suo fulgore e i quattrini è in grado di offrirli a destra e a manca. Cosa che fa sempre piacere, ma in un momento come questo può segnare la distanza tra la sopravvivenza e il precipizio. Il suo potere si basa su un patrimonio di oltre 5 miliardi di euro e una partecipazione di quasi il 10 per cento a Banca Intesa che la fa essere il primo azionista dell'istituto. E poi sulla possibilità di erogare finanziamenti per 130 milioni di euro l'anno in “favore del territorio”, dal museo del Cinema al Teatro Regio, dalle regge reali e Venarìa all'Università. Quattrini benedetti in un momento in cui nessuno scuce più un soldo, assegnati seguendo logiche sostanzialmente discrezionali e che nelle casse della Compagnia arrivano grazie agli investimenti effettuati e ai dividendi ricevuti da Banca Intesa.
Per quanto riguarda gli investimenti, Chiamparino si è tramutato da politico in banchiere proprio mentre fuori infuriava una delle crisi finanziarie più disastrose del Dopoguerra. Ma chissà se con il suo fattivo contributo o nonostante la sua presenza, la Compagnia in fin dei conti non se l'è cavata male, con un total return degli investimenti, come dicono gli esperti, di circa il 6 per cento nel 2012. La banca di riferimento, Banca Intesa, nel frattempo ha continuato a portare a casa utili, 1 miliardo e 600 milioni di euro nel 2012, che le ha consentito di distribuire un dividendo di 5 centesimi ad azione, che detto così sembra poco, ma messi tutti insieme sono circa 800 milioni, 80 milioni solo per la Compagnia. Nell'anno in corso è previsto il bis.
STANDO così le cose, se dopo appena dodici mesi Chiamparino è disposto a lasciare la banca forse non è per darsela a gambe, ma per un ritorno al futuro della politica che se diventasse realtà arricchirebbe l'attrazione fatale tra postcomunisti e credito di un nuovo capitolo e un percorso più movimentato di quello solito, non di sola andata, ma anche di ritorno. Il viaggio di andata Chiamparino lo ha fatto preso per mano da Piero Fassino, ex segretario Ds, un altro appassionato di banche, sindaco di Torino succeduto proprio a Chiamparino, quello che al telefono durante la scalata di Unipol (area Coop) alla Bnl esclamò entusiasta “Allora abbiamo una banca! ”.
A VOLER essere pignoli, in base allo Statuto la designazione del presidente della Compagnia non sarebbe spettata al sindaco, ma la tradizione sabauda impone invece il contrario e anche con Chiamparino la tradizione è stata rispettata.
La sostanza è che nel bene e nel male grazie a Fassino sindaco e Chiamparino presidente della Compagnia oggi a Torino non si muove foglia che il Pd non voglia. Ora il kombinat politico-bancario della Mole punta dritto al vertice del Pd.

l’Unità 16.5.13
Un nodo irrisolto del Pd è quello dell’identità
Rileggere Bad Godesberg può aiutare il Pd
di Nicola Cacace


UN NODO IRRISOLTO DEL PD È QUELLO DELL’IDENTITÀ. NATO COME SOMMA DI DUE COMPONENTI DAI VALORI DIVERSI, I CATTOLICI DEMOCRATICI ED I SOCIAL COMUNISTI, non si è mai fatto lo sforzo di definire la identità del nuovo partito. Come si vede dal panorama politico europeo e mondiale, dovunque si contrastano due blocchi, uno conservatore e liberista ed uno progressista di tipo social democratico, che accetta il libero mercato nel quadro di uno Stato forte che garantisce diritti universali ed equa distribuzione della ricchezza. In Europa il documento di identità più noto di un partito democratico di sinistra è quello della tedesca Spd, Bad Godesberg 1959, che comincia così: «Il socialismo democratico, che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, bensì per rispetto delle scelte dell’individuo in materia di fede, scelte sul cui contenuto non devono arrogarsi il diritto di decidere né un partito politico né lo Stato. L’Spd è un partito composto da uomini provenienti da diversi indirizzi religiosi ed ideologici, che con-
dividono precisi obiettivi, libertà, giustizia, solidarietà».
E più avanti: «Ordinamento economico e sociale. La politica socialdemocratica in campo economico persegue il raggiungimento di un benessere crescente, una equa partecipazione di tutti al prodotto nazionale, una vita nella libertà senza inique dipendenze e sfruttamento. La politica economica, sulla base di una moneta stabile, deve assicurare la piena occupazione, accrescere la produttività ed aumentare il benessere collettivo. La libera scelta dei consumatori e del posto di lavoro, così come la libera concorrenza e la libera iniziativa, sono
fondamento essenziale della politica economica socialdemocratica. Nel caso in cui taluni mercati siano monopoli naturali o dominati da singoli o da gruppi, si rendono necessarie misure per ristabilire la libertà economica: concorrenza nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario. La proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere difesa ed incoraggiata nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. La concorrenza mediante imprese pubbliche è un mezzo da usare per prevenire un dominio privato di importanti settori del mercato o laddove, per motivi naturali o tecnici, prestazioni indispensabili alla comunità possono essere fornite in modo razionale ed economico solo con mezzi pubblici. Poiché l’economia di mercato non assicura di per sé una equa ripartizione di redditi e patrimoni, sarà necessaria una politica nazionale dei redditi e del patrimonio. Ciò presuppone due condizioni, la crescita del prodotto nazionale ed una sua equa ripartizione. Il sistema di sicurezza sociale deve essere commisurato alla dignità dell’uomo, consapevole della propria responsabilità. Ogni cittadino ha diritto a percepire dallo Stato un minimo di pensione per vecchiaia, disabilità al lavoro, morte di colui che gli assicura il sostentamento. Tutte le prestazioni sociali in danaro dovranno essere adeguate agli aumenti dei redditi da lavoro.
Poiché il singolo non può difendersi da tutti i rischi inerenti la salute, un sistema pubblico di protezione sanitaria è indispensabile, garantendo nel contempo la libertà professionale dei medici. La durata del lavoro, a reddito invariato, deve essere gradualmente ridotta nella misura assicurata dal progresso tecnico e dalle libere scelte contrattuali. Ciascuno ha diritto ad una abitazione decorosa, vietando anche le speculazioni sulle aree e sottoponendo a prelievo fiscale i profitti derivanti dalla vendita dei terreni. La parità dei diritti della donna deve essere attuata realmente in senso giuridico, economico e sociale. Stato e società devono proteggere, favorire e rafforzare la famiglia e la gioventù».
La conclusione del documento verte sulla nuova concezione di classe, molto più larga di quella originaria del socialismo marxista:
«Il movimento socialista, iniziato come protesta dei lavoratori salariati contro il sistema capitalistico, ha adempiuto ad un compito storico. Nonostante errori e sconfitte il movimento dei lavoratori è riuscito ad ottenere nel XIX e XX secolo, il riconoscimento di molte sue rivendicazioni, tra cui, la giornata lavorativa di 8 ore, la pensione per invalidità e vecchiaia, il diritto di organizzazione sindacale, i diritti di maternità, il divieto del lavoro minorile, le ferie, etc.. Questi successi sono pietra miliare di un cammino ricco di sacrifici, soprattutto dei lavoratori salariati, che ha servito la causa della libertà di tutti gli uomini. Oggi tutte le forze vive scaturite dalla rivoluzione industriale e dal progresso tecnico devono essere messe al servizio della libertà e della giustizia. Da partito della classe lavoratrice il partito socialdemocratico è diventato partito del popolo. Perciò la speranza del mondo è un ordine fondato sui valori del socialismo democratico, che intende creare una società civile nel rispetto della dignità umana, una società libera dalle disuguaglianze, dall’indigenza e dalle paure, da guerre ed oppressioni, in unità di intenti con tutti gli uomini di buona volontà».
Credo che, ci sia da imparare molto dal documento di Bad Godesberg, naturalmente aggiornandolo a 50 anni dopo, in termini di definizione dell’identità di un moderno partito democratico di sinistra. Tanto più che gli 8 Paesi europei più a lungo governati nel dopoguerra da partiti socialdemocratici, i 4 Paesi scandinavi più Germania, Olanda, Austria e Francia, sono non solo quelli a più alta eguaglianza sociale (indice di Gini inferiore a 0,3) ma anche quelli a più alto sviluppo.

il Fatto 16.5.13
D’Alema disse a Bersani: “Proponi Rodotà premier”
Prima del pre-incarico il Lìder Maximo chiese all’ex segretario di rinunciare
di Fabrizio d’Esposito


Pier Luigi Bersani ha sempre sostenuto, durante il suo preincarico, fatto di lunghi giorni sospesi nel vuoto e sul vuoto, che il tentativo di fare un governo di minoranza non era una “questione personale”, che per lui non cambiava fare “il comandante o il mozzo”. Eppure i frammenti di verità che emergono adesso che a Palazzo Chigi c’è Enrico Letta vanno nella direzione contraria a quella indicata dall’ex segretario del Pd. La conferma più autorevole arriva da Massimo D’Alema. Interpellato dal Fatto su una sua strategia dell’attenzione per Stefano Rodotà nei due funesti giorni del disastro democratico sul Quirinale (giovedì 18 e venerdì 19 aprile), l’ex premier e ultimo leader carismatico dei postcomunisti fa sapere che “qualcosa di vero” c’è. Ma non riguarda il Colle, bensì Palazzo Chigi.
ECCO la ricostruzione della mossa di D’Alema, in cui si ritrovano i tratti tipici della sua abilità politica, impastata con quel metodo togliattiano (realismo e intelligenza) che ha contribuito alle fortune di Giorgio Napolitano, altro ex comunista. Tutto si consuma a ridosso dell’ultima decade di marzo, racchiusa tra due date limite: il preincarico al leader del Pd e la successiva decisione di Napolitano di “riassorbire il mandato” affidato a Bersani e di insediare una commissione di saggi per fare melina e arrivare all’elezione del nuovo capo dello Stato. D’Alema si muove alla vigilia delle consultazioni del Colle, quando capisce che Bersani non andrà da alcuna parte con i suoi calcoli impossibili sul governo di minoranza, basati su una spaccatura dei grillini e su una manciata di assenze pilotate del centrodestra. Calcoli più da amministratore che da politico, avrebbe detto sempre Togliatti, per il quale gli emiliani non dovevano guidare il “Partito” ma occuparsi solo delle feste dell’Unità. Il ragionamento dalemiano è lineare: serve un disegno vero per neutralizzare l’ostilità del Quirinale, per cui l’unica via d’uscita sono le larghe intese, e costringere Grillo a scoprire le sue carte.
COSÌ D’Alema incontra Bersani riservatamente. Un colloquio teso tra due compagni-amici che sono ormai vicini alla rottura. Dice l’ex premier: “Caro Pier Luigi secondo me devi valutare anche un’altra possibilità”. “Pier Luigi” ascolta, tortura un mozzicone di sigaro tra i denti e intuisce dove “Massimo” vuole arrivare. Prosegue D’Alema: “Fai un passo indietro, vai dal capo dello Stato e proponi il nome di Stefano Rodotà come premier incaricato. Vediamo cosa fanno i grillini”. La risposta di Bersani è no: “Massimo io me la voglio giocare fino in fondo”. È qui che si apre la faglia tra la nomenklatura del Pd e il suo segretario e che porta al fallimento totale della “ditta” nel cupio dissolvi di aprile, quando i franchi tiratori bruciano nelle votazioni per il Quirinale prima Marini poi Prodi (che ieri ha peraltro lasciato intendere che non rinnoverà l’iscrizione al Pd). Una fase che i detrattori interni di Bersani indicano come “l’autismo di Pier Luigi”, con l’allora segretario rinchiuso sempre più nel suo “tortello magico”, al punto da chiudere i canali persino con quasi tutti i suoi fedelissimi, salvo Errani e Migliavacca.
LA MOSSA del riformista e pragmatico D’Alema, che si ritrova sulle posizioni di Civati e della Puppato, farà comunque proseliti nel partito, soprattutto tra i giovani turchi come Andrea Orlando e Matteo Orfini. Ma sino alla fine non ci sarà nulla da fare. Anche se lo schema di Rodotà premier circolerà ancora, soprattutto nel M5S, durante gli scrutini per il Quirinale. Al Fatto, un’altra fonte vicinissima a D’Alema confida che “Massimo propose Rodotà per il Quirinale nella notte tra giovedì 18 e venerdì 19 aprile, prima che venisse ufficializzata la candidatura di Prodi”. Ma D’Alema, appunto, fornisce una versione diversa. Per lui la convergenza su Rodotà andava a fatta a monte (consultazioni per Palazzo Chigi) e non a valle (elezione del nuovo capo dello Stato). Una strategia, la sua, che rivela il vuoto bersaniano e culmina pure in uno scontro personale tra i due. Accade subito dopo il plebiscito per il Napolitano-bis. Di mattina presto, alle sette, un giornalista di “Piazzapulita”, programma di La7, ferma D’Alema per strada, che si lascia scappare: “Tutta questa vicenda è stata gestita male”. Bersani s’infuria e lo fa sapere a “Massimo”, che a sua volta scrive un biglietto e lo spedisce al segretario, per chiarirsi. Oggi, all’ex premier resta solo tanta amarezza, compresa quella di non aver fatto il ministro degli Esteri in un governo di larghe intese. Colpa del Pdl: quando Berlusconi ha visto il suo nome e ha proposto Brunetta e Schifani per riequilibrare un eventuale esecutivo di big, lui, D’Alema, si è tirato indietro: “Se andavo agli Esteri era per le mie competenze e la mia esperienza, a prescindere, non perché loro mettevano Brunetta”.

«Grillo sarà in piazza del Popolo, Alemanno al Colosseo»
l’Unità 16.5.13
Roma, Epifani scuote il Pd: riconquistare Roma e risalire la china
Il neo-segretario incontra circoli e candidati: «Questa volta non resterete soli»
L’annuncio: chiusura a piazza San Giovanni «Riempirla è difficile ma dobbiamo rischiare»
Sul congresso: «Ci sarà una discussione vera, un’analisi dura dei gravi errori compiuti»
di Jolanda Bufalini


Il primo impegno da segretario è per Roma e per Ignazio Marino, candidato Pd alle elezioni comunali del 26 e 27 maggio. Epifani incontra i circoli del Pd e conferma la scelta di chiudere la campagna elettorale romana a piazza San Giovanni: «Riempirla è difficile ma dobbiamo rischiare».

Il primo impegno operativo di Guglielmo Epifani, appena insediato segretario, è con i circoli del Pd romano, in nome della sfida elettorale più significativa, quella della capitale, perché Roma, dice Ignazio Marino, «deve riprendere il ruolo di guida economica e morale del paese, ruolo che ha perso negli anni di Alemanno».
Il segretario sa bene che non si tratta di un incontro facile, e infatti l’incipit è drammatico: «Abbiamo commesso molti errori nelle ultime settimane», dice anticipando gli umori dell’assemblea. E promette: «Ci sarà un congresso, una discussione vera, a partire dai circoli. Non dobbiamo nascondere i problemi, l’analisi sarà dura». Analisi indispensabile, «noi dobbiamo risalire per il bene del paese, che non possiamo lasciare in balia dei populismi e di questo centro destra». Ma c’è un secondo punto, nel breve discorso del segretario: «Non possiamo stare fermi dice lo dobbiamo al nostro popolo, ai suoi problemi e alle sue difficoltà. C’è il voto a Roma e noi dobbiamo usare questa occasione per rimettere insieme le forze, in questa battaglia importante i romani non resteranno soli, avranno accanto tutto il partito».
L’applauso più schietto e sentito Epifani lo riceve quando aggiunge: «Ho provato un fastidio profondo nel pensare che mentre si compivano quegli errori, c’erano volontari e persone impegnate nei territori, per strappare la vittoria in un municipio. Fastidio e disagio per il distacco fra chi si stava battendo nei territori e chi agiva, magari senza rendersi conto, senza pensare» nella vicenda della elezione del presidente della Repubblica. Sono parole certo rivolte a Roma ma non solo, guardano alle tante altre città in cui si sta combattendo per le elezioni amministrative.
Epifani conferma la scelta di chiudere la campagna elettorale romana a piazza San Giovanni, si richiama alla sua esperienza di sindacalista per dire: «So bene cosa significa, so bene quanto sia difficile riempirla», ma: «se arretriamo di fronte alle difficoltà, finiremo per non farcela». E non risparmia quella che suona come una critica ai gruppi dirigenti di Roma e Lazio: «Mi piangeva il cuore, alla chiusura della campagna per le politiche, non vedere noi in quella piazza, che rappresenta un pezzo della nostra identità. Dobbiamo riconquistarla, anche rischiando. Non vinceremo se non recuperiamo coraggio e entusiasmo». C’è l’omaggio a Nicola Zingaretti, che  ha vinto «quando non si vinceva ovunque», e a Debora Serracchiani, «che sembrava impossibile potesse farcela».
C’è un altro concetto a cui il neosegretario tiene: «Riconquistare Roma è qualcosa di più forte dei nostri problemi, perché se non vincessimo a Roma non potremmo risalire la china». Quindi c’è l’appello a «riprendere coraggio ed entusiasmo nonostante tutto», perché lo dobbiamo «al nostro popolo disorientato e in difficoltà».
Nel merito, le ragioni per riconquistare Roma ci sono tutte, Epifani ricorda i guasti profondi provocati nel Lazio e a Roma da cinque anni di governo della destra: lo sfacelo della sanità nel Lazio, la «sistematica occupazione del potere a Roma che è all’origine di parentopoli, per la quale vincere significa restituire Roma ai cittadini», in cinque anni «il degrado dell’ambiente, il peggioramento dei trasporti, lo stato di abbandono delle periferie» hanno disperso l’eredità delle giunte di sinistra e la credibilità internazionale che la capitale si era guadagnata.
Prima di Epifani aveva parlato all’attivo dei circoli Pd Ignazio Marino, attaccando il sindaco uscente Alemanno: «Il suo tesoriere è agli arresti per aver ricevuto una mazzetta per filobus che Roma non ha mai visto». In questi mesi, ha raccontato Marino, «ho visto un disagio profondissimo nei quartieri della capitale e mi ha colpito l’incapacità che l’amministrazione di Alemanno ha dimostrato nel gestire la complessa macchina capitolina». Marino rivendica a sé, per la sua vita di chirurgo ma anche di organizzatore della medicina, questa capacità e sente, dice, «oltre al grande onore, la grande responsabilità di essere il sindaco di Roma».
Parlano anche Enrico Gasbarra, segretario regionale del Pd, e Eugenio Patané, che, dalle dimissioni di Marco Miccoli, coordina il Pd romano. Patanè ha raccolto i numeri della crisi profondissima dell’economia romana: 17.000 imprese chiuse nel 2012, 14 imprese che chiudono i battenti ogni giorno nel 2013. Il tasso di disoccupazione giovanile che ha raggiunto uno spaventoso 40%. «Sarebbe stato così se avesse governato la sinistra?», la risposta, secondo Patanè, è «no», «durante le giunte di sinistra l’Italia cresceva dell’1,5 % mentre il Pil romano era tre volte superiore». L’approvazione del Prg con Veltroni, «sarebbe stato un volano contro la crisi, invece Alemanno è passato dalla Formula Uno alle piste da sci a Ostia, alle Olimpiadi cassate dal governo senza nemmeno una spiegazione».
Per quanti dissapori vi siano stati, Patanè ringrazia chi ha fatto opposizione in questi anni, dal capogruppo Umberto Marroni al segretario Marco Miccoli, portando a casa, fra l’altro, l’aver sventato la vendita di Acea. Chiede «discontinuità» e annuncia per sabato prossimo l’iniziativa «100 piazze per Marino».

Repubblica 16.5.13
Epifani e l’incubo Roma “Marino rischia, serve coraggio”
E Prodi prepara l’addio al Pd
Renziani in pressing: il segretario cambi passo
di Giovanna Casadio


ROMA — Allarme-voto per il Campidoglio: è il primo dossier che Epifani ha aperto. E in una riunione con i circoli e i parlamentari romani al Nazareno, il neo segretario del Pd non ha nascosto la difficoltà di risalire la china per un partito che è riuscito a dissipare ogni vantaggio. I Democratici fanno fatica persino a riprendersi la storica piazza della sinistra, piazza San Giovanni, la piazza del Primo Maggio ceduta a Grillo nella campagna elettorale per le politiche: «Mi piangeva il cuore alla chiusura della campagna elettorale
per le politiche a non vedere noi in quella piazza. Ora, la sera del 23 maggio Grillo sarà a piazza del Popolo, Alemanno al Colosseo e noi torniamo a piazza San Giovanni e la cosa non ha solo un valore simbolico», incita Epifani nel discorso trasmesso su Youdem, la tv del partito. La piazza è termometro di una riconquistata fiducia — afferma — e il gruppo dirigente deve avere il coraggio di rischiare, perché «non si risale se non rischiamo, non rivinciamo se non abbiamo fiducia. Io ci metto la mia faccia».
La preoccupazione per il voto a Roma è forte: i Democratici temono il voto disgiunto, cioè per il partito e per Marchini, che sembra intaccare i consensi per Marino, il candidato del centrosinistra. Non è l’unico problema da affrontare subito. A sorpresa c’è anche il “caso Prodi” sul tavolo di Epifani. Prodi infatti lascia il Pd, non ritirerà la tessera. «O forse il partito ha lasciato lui», si sfoga Sandra Zampa. «Rischiamo che come Prodi tanti pensino di lasciare», rincara Gozi. Un addio senza clamore: fanno sapere i prodiani, dopo l’imboscata dei 101 “franchi tiratori” che hanno bruciato la corsa al Colle del Professore. Il Professore mantiene l’abituale riservatezza: «Voglio uscire dalla scena pubblica in punta di piedi», aveva detto e ancora ripete, invitando a lasciare correre le indiscrezioni («Lasciateli scrivere»). «Lo scollamento è diffuso», segnalano i prodiani e fanno l’esempio di un altro addio, quello di Francesco Guccini. Il segretario bolognese del Pd, Raffaele Donini commenta: «Spero che Prodi non lasci, anche se la viretti
gliaccata che ha subito è dura da digerire, e non solo per lui». Parole pesanti, che rendono il clima nel Pd. Epifani convoca ieri l’assemblea dei senatori (a inizio settimana toccherà ai deputati) per spiegare la rotta sia per quanto riguarda il governo Letta («Sostegno sì, ma con le nostre battaglie») che la riscossa se si vuole far ripartire il Pd. Proprio Roma — dice — è un punto di ripartenza: come Zingaretti ha conquistato il Lazio nonostante le difficoltà del partito, e Debora Serracchiani il Friuli, l’unione fa la forza anche per il Campidoglio e Marino. «Una campagna che radicalizza alcuni temi, spostata a sinistra», critica Alberto Losacco. Il neo segretario punta a disarticolare le correnti: «Serve uno scatto di responsabilità verso il partito». Non ha ancora messo mano alla segreteria, Epifani. Ieri ha preso possesso dell’ufficio di Bersani al Nazareno, ha iniziato gli incontri con i big, chiarendo che vorrà una segreteria snella e una direzione dimezzata. Annuncia il tour nelle città al voto.
I renziani insistono sulla discontinuità: «Se conferma gli assetti che c’erano prima, allora non si affrontano i “nodi” del Pd», attacca Paolo Gentiloni. Il tam tam sulla candidatura di Chiamparino al congresso d’autunno resta, però i renziani frenano: «È prematura». Renzi potrebbe convincersi a correre per la segreteria se restasse legata alla premiership.

il Fatto 16.5.13
La “Marcia per la vita”
Credenti, non credenti e profittatori
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, si è creato un vuoto, nella nostra vita pubblica, con un governo inventato da Berlusconi, che ha bisogno di compagnia in tempi giudiziari difficili. E subito c’è chi approfitta del vuoto. Ecco allora irrompere nella già devastata vita italiana la “Marcia per la vita” (copiata da una iniziativa della estrema destra americana) che colpisce una legge necessaria e civile. Non è un po’ indecente questa finta religiosità che ha il solo fine di aggiungere caos al caos?
Vanna

DI CERTO la “Marcia per la vita” ha inferto il colpo di un’altra spaccatura, in un Paese già spaccato a cura di Berlusconi e dei suoi nelle leggi e nei costumi. Questa spaccatura attraversa tutta l’opinione italiana, compresi i credenti che vorrebbero rispettare la legge. E raggiunge, con opportuna mossa strategica della destra più accorta, il cuore dell’unico partito che dovrebbe fare da sostegno (e lo fa poco, male e di rado) alle leggi di civiltà. Quella dell’aborto, la 194 (di cui l’Italia dovrebbe essere grata al Partito Radicale) ha ridotto il drammatico evento della interruzione di gravidanza, in Italia, del 50 per cento, un risultato che nessun proibizionismo potrebbe ottenere o ha mai ottenuto. Inoltre l’uso di una pesante dimostrazione da fuori e contro le istituzioni, nel momento in cui dentro le istituzioni non si sono mai contati tanti autoproclamati campioni della fede (al punto che non è possibile votare una legge decente sul testamento biologico o sul matrimonio gay) si mostra subito per quello che è: una potente mossa della destra tradizionalista (che dunque si ambienta bene soprattutto nel post-fascismo) per mettere con le spalle al muro non solo coloro che, in Parlamento o al governo, vorrebbero difendere la 194, ma anche chi si facesse venire delle idee e pensasse di vivere in un Paese democratico in cui contano per tutti le leggi votate dal Parlamento e non i dogmi o dottrine imposte da una chiesa. Fateci caso, sono gli stessi giorni in cui il più grande musicista turco, il celebre pianista Fazil Say, è stato condannato a 10 mesi di prigione “per alcuni commenti giudicati offensivi sulla religione islamica, fatti via twitter”. Un consiglio a colleghi giornalisti, commentatori e leghisti. Attenti a giudicare con sarcasmo eventi come questi nei Paesi islamici. Potreste incorrere, senza volerlo, in una critica alla marcia anti aborto. Molto rischiosa per qualunque carriera.

Affari del Vaticano
il Fatto 16.5.13
Il tesoro rubato all’Idi, sequestrati 36 case e 27 conti
I soldi evasi dagli ex manager, padre Decaminada e Temperini
di Valeria Pacelli


Trentasei immobili, tra cui un appartamento di lusso in pieno centro a Roma e 27 conti correnti aperti in diverse filiali. Sono i numeri del sequestro avvenuto ieri che ha colpito i beni in gran parte dell’ex direttore dell’Idi, Domenico Temperino, e della guida spirituale della congregazione dei figli dell’Immacolata, Franco Decaminada, entrambi raggiunti da un’ordinanza di misura cautelare lo scorso 4 aprile con l’accusa di appropriazione indebita, bancarotta, emissioni di fatture per false operazioni. Il sequestro è stato disposto dalla procura di Roma nell’ambito dell’indagine sull’Istituto dermatologico dell’Immacolata, di cui padre Franco Decaminada è stato consigliere delegato dal 2006 al 2011. Anni durante i quali regnava una gestione allegra del denaro, che si alimentava di ingenti prelievi in contanti e di un sistema di false fatturazioni, che ha portato a spolpare completamente la Provincia Italiana della congregazione e gli ospedali.
IL BILANCIO FINALE è disastroso: i magistrati Giuseppe Cascini, Michele Nardi e Nello Rossi contestano la sottrazione di 14 milioni di euro, e un buco complessivo di 600 milioni di euro. Senza contare le conseguenze che gravano sui 1660 dipendenti, che mandano avanti i nosocomi garantendo le prestazioni senza stipendio. Così ieri il Nucleo tributario della Guardia di finanza ha effettuato un sequestro per “equivalente” di ben 6 milioni di euro. Una cifra che corrisponde al valore di tasse evase, in diversa misura, dagli indagati. Nello specifico a Padre Franco Decaminada è stato sequestrato un solo immobile in via di Bravetta a Roma, dal valore di 600mila euro; oltre 18 conti correnti a lui intestati presso diverse filiali, come San Paolo, Monte dei Paschi o Deutsche bank.
All’ex direttore dell’Idi, Domenico Temperini, oltre 9 conti correnti, sono stati sequestrati anche trentasei immobili tra Roma, Anzio, Zagarolo e l’Aquila. Tra questi, anche un appartamento di lusso ubicato a Roma, nei pressi di Castel San-t’Angelo, di otto vani. Il restante sono appartamenti, ville, box auto e locali commerciali. La maggior parte degli immobili, 34, intestati a Temperini, erano confluiti in due fondi patrimoniali costituiti, rispettivamente, nel 2006 e nel 2009 ed intestati a lui e alla ex moglie.
Insomma un patrimonio da capogiro. Ma è leggendo le carte dell’inchiesta che emerge come ormai negli anni l’Idi per gli indagati fosse diventato un vero e proprio bancomat. Padre Decaminada non disdegnava nel prelevare in contanti ingenti somme di denaro: nel 2010 prende dalle casse circa 116 mila euro; nel 211 altri 155 mila euro; nel 2012, con l’indagine penale ormai in corso, intasca gli ultimi 746 mila euro. Denaro prelevato tutto in contante che veniva giustificato con una voce generica “rimborso spese”.
Ma per svuotare le casse degli ospedali veniva usato anche un altro escamotage: spostare i soldi della congregazione alla società Elea srcl ed Elea Spa, riconducibili a Temperini, attraverso false fatture. Da queste poi il denaro veniva trasferito ad un’altra sigla, la Gi. esse, per poi arrivare come tappa finale sui conti correnti degli indagati e dei congiunti. E tra i beneficiari di questo sistema c’era anche l’ex agente Sismi, Antonio Nicolella, destinatario di 86 mila euro. Anche Nicolella lo scorso 4 aprile è finito ai domiciliari, con l’accusa di bancarotta.
SE DA UNA PARTE l’indagine mira ad dimostrare l’appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta delle diverse società, dall’altra adesso è stata accertata anche l’evasione fiscale. Dal 2007 in avanti, stando ai dati delle Fiamme gialle, l’evasione delle imposte da parte della Provincia Italiana è di oltre 3,3 milioni di euro. Per quanto riguarda le società Elea e Gi. E.Esse. il totale delle tasse non pagate allo Stato ammontano rispettivamente a 1,9 milioni e 800mila euro. Questo sequestro però ad oggi potrebbe rappresentare una boccata di ossigeno per chi, negli ospedali, continua ad fornire dei servizi non ricevendo lo stipendio da tempo. In questo caso, il sequestro è collegato a reati fiscali, ma, spiegano gli investigatori, potrebbe essere utilizzato anche per soddisfare i creditori. Se le indagini dimostrassero che una parte dei beni sono stati acquistati grazie alle azioni distrattive, una parte dei beni sequestrati potrebbe essere utilizzaa per pagare anche i lavoratori. Ma questo avverrà solo e se il sequestro si trasformerà in confisca, e ovviamente alla fine del processo.

il Fatto 16.5.13
La Bonino conferma gli accordi per l’arrivo dei militari americani
È l’alleanza (atlantica), bellezza. Duecento marines a Sigonella
di Giampiero Gramaglia


Bastano 200 marines a Sigonella. Non per spaventare i libici. Ma per mandare in tilt l’Italia. Tutto avviene tra il lusco e il brusco di accordi più o meno segreti: si sa che esistono, ma non si sa bene che cosa prevedono. Per di più, le notizie venivano fuori un po’ per volta: pareva proprio che nessuno volesse raccontarla per bene, questa storia. Ecco, allora, dubbi, ansie, paure.
Ieri, il ministro degli Esteri Emma Bonino, alle commissioni Esteri e Difesa del Senato, la racconta tutta e giusta: a Sigonella, si trasferiranno “200 marines americani, 75 prima, 125 poi, e due aerei” (inizialmente, s’era parlato di 500 uomini e di un movimento già avvenuto). I militari statunitensi arrivano dalla base di Moron, in Spagna, come annunciato dal Pentagono nei giorni scorsi.
A contribuire al nervosismo, sarà pure che Sigonella è nome temuto, nelle relazioni Italia-Usa: terreno di confronto nell’ottobre del 1985, quando, dopo il sequestro dell’Achille Lauro, carabinieri ed avieri da una parte e uomini della Delta Force dall’altra si fronteggiarono, sulla pista della base, con-tendendosi i terroristi catturati: Reagan cedette, la spuntò Craxi.
QUESTA VOLTA, c’è sintonia tra Roma e Washington. La Bonino dice che il trasferimento dei marines nella base aerea siciliana avviene “secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali”. Si tratta, ha spiegato il ministro, di una misura preventiva “per la sicurezza del personale americano in Libia o per possibili evacuazioni”. Una fonte della Difesa aggiunge: “Non c’è nessuna invasione Usa”.
La richiesta statunitense era arrivata venerdì scorso: c'è il rischio di dover evacuare d’urgenza l'ambasciata a Tripoli. L'obiettivo è quello di evitare una “nuova Bengasi” dopo l'attacco terroristico al consolato statunitense nel capoluogo cirenaico, costato la vita, l’11 settembre 2012, all’ambasciatore Chris Stevens. E i timori si sono acuiti nelle ultime 72 ore, dopo l’ennesima strage in Cirenaica. Un’avanguardia dei marines è già sul posto: prima 25 uomini, poi un altro contingente. Una nota della Difesa sottolinea che “la presenza dei soldati americani sulla base di Sigonella in Sicilia è conforme agli accordi bilaterali Italia-Usa, sia per il numero degli uomini sia per il tipo di missione svolto”. Anche se c’è chi fa notare che, se l’avamposto di Sigonella conducesse missioni omicide sul territorio libico, l’Italia ne sarebbe corresponsabile.
Da tempo, gli Stati Uniti vogliono disporre di una forza di pronto intervento per una Libia sempre più turbolenta, in un Nord Africa in fermento, dov’è in scena il requiem della Primavera. A Moron, sono stati recentemente inviati 550 marines di un'unità ribattezzata ‘Bengasi’ con sei MV-Osprey, bi-turboelica molto discusso, in grado di decollare e atterrare come un elicottero per poi volare come un normale aereo e di trasportare fino a 24 soldati completamente equipaggiati. Due MV-Osprey sono destinati alla base a sud di Catania con a supporto C-130 da trasporto e rifornimento.
Per George Little, portavoce del Pentagono, lo spostamento a Sigonella, che ospita droni Reaper e Global Hawk ed è sempre più fulcro delle operazioni Usa nel Mediterraneo Sud, è una delle misure per rafforzare la sicurezza degli americani in Libia. A Washington, sono ancora vive le polemiche per la sorte dell’ambasciatore Stevens e dei suoi uomini.

il Fatto 16.5.13
Caro Letta, sulla cultura non c’è più nulla da tagliare
“Altri tagli e mi dimetterò” ha detto il presidente del Consiglio
Qualcuno gli spieghi che sono letali quelli già decisi a partire dal 2008
di Tomaso Montanari


Mi prendo l’impegno, se ci saranno tagli alla cultura mi dimetto”, ha promesso il presidente del Consiglio Enrico Letta a Fabio Fazio ospite di Che tempo che fa. E a parte il nonsense istituzionale (chi è allora il capo del governo: lo zio Gianni? nonno Giorgio? il dio Mercato in persona?), appare chiaro che a Letta sfugge un dettaglio: il punto non è evitare altri tagli, è impedire che quelli già fatti siano letali. Il ministero per i Beni culturali, per esempio, è un paziente in coma: se gli togli ancora un po’ di ossigeno muore subito, ma se non glielo aumenti il paziente certo non si sveglia. E la “Nota integrativa per la legge di bilancio” varata dal governo Monti a dicembre ha già schiacciato il grilletto che sparerà ulteriori esiziali tagli oggi e nel 2014: che Letta non lo sappia? Il coma è entrato nella fase profonda nell’estate del 2008, quando Giulio Tre-monti dimezzò di fatto il bilancio del ministero “affidato” all’inconsapevole Sandro Bondi. Allora Salvatore Settis denunciò sul Sole 24 Ore che nel 2011 sarebbero rimasti sul conto del Mibac solo i denari per la macchina stessa, cioè per gli stipendi di un personale peraltro sempre più striminzito e sempre più vecchio. Settis fu cacciato dalla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali, ma la profezia si è puntualmente avverata. Nel 2013 il bilancio Mibac (già massacrato da Tremonti) è ulteriormente sceso del 6,1%, nel silenzio complice dell’allora ministro Lorenzo Ornaghi, perdendo altri 103,3 milioni. Ma è solo l’inizio: se l’attuale ministro Massimo Bray non riesce a evitarlo, ne dovrà cedere ancora 125 nel 2014, e la bellezza di altri 135,7 nel 2015. Per il 2014 tutto il bilancio del Mibac si dovrà attestare alla miseria di 1.451.068.736 euro. Per avere un’idea di che cosa vuol dire, si può ricordare che poche settimane fa la Direzione Investigativa Antimafia di Trapani ha sequestrato il patrimonio dell’imprenditore dell’eolico Vito Nicastri, ritenuto collegato a Cosa Nostra: quel patrimonio è pari a 1 miliardo e 300mila euro. In altre parole, la Repubblica finanzia tutto il patrimonio artistico, quello storico (archivi e biblioteche) la tutela del paesaggio e lo spettacolo con circa gli stessi soldi di un singolo tra gli innumerevoli nemici del paesaggio stesso: in pratica, un suicidio.
SE SI RICORDA che 440 milioni di quel bilancio sono destinati al Fondo per lo Spettacolo, rimane che il bilancio del patrimonio e del paesaggio ammonta ormai a circa un miserabile miliardo di euro l’anno, laddove il finanziamento per fortuna erogato dall’Unione europea per la sola Pompei è stato di ben 100 milioni: pari al 10% di ciò che l’Italia “investe” in un patrimonio che è non dieci, ma diecimila volte più grande di Pompei!
E i tagli colpiscono in modo davvero criminale: è bene, per esempio, sapere che nel paese de L’Aquila e dell’Emilia terremotate l’attività finalizzata alla riduzione del rischio sismico per il patrimonio subirà un ulteriore ridimensionamento. Ovvio, no? E poi la tutela dei beni archeologici, solo nel 2013, perde 8,5 milioni, quella del patrimonio culturale 35,6 milioni. In pratica questo vuol dire che rischieremo di chiudere le famose scuole di eccellenza del restauro italiano, come l’Opificio delle Pietre dure e l’Icr di Roma (Istituto per la conservazione e il restauro, i cui fondi saranno ridotti di un terzo!). Che le biblioteche che già espellono il pubblico alle 14.30, e che non hanno il riscaldamento, dovranno sforbiciare ancora l’orario e peggiorare le condizioni di vita di chi ci lavora e di chi ci studia; che gli archivi dovranno ridurre il condizionamento d’aria nei depositi, mettendo a rischio gravissimo i documenti. Che i funzionari di soprintendenza non potranno usare macchine e telefonini, lasciando il patrimonio ancora più in balia di degrado e furti.
Prendiamo il capitolo di spesa Mibac dei cosiddetti lavori pubblici: quello dei restauri, ma ormai spesso anche delle spese correnti (luce, acqua, etc). La Galleria Estense di Modena (chiusa per il terremoto) non ha ricevuto un euro per il 2013, e ne intravede forse qualche migliaio per il prossimo biennio. Idem per la Galleria Nazionale di Parma. Insomma, che si arrangino.
Una ininterrotta serie di sentenze della Corte costituzionale ha chiarito che l’articolo 9 della Carta dice che il patrimonio artistico non deve essere piegato alle leggi del mercato. Così il presidente Carlo Azeglio Ciampi nel 2003: “La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la ‘primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici’ e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità”.
LA PREMESSA della “Nota di bilancio” che condanna a morte il patrimonio culturale italiano non sembra, però, conoscere né la Costituzione né questa sua interpretazione autentica. Vi si legge infatti che “Il ‘bene culturale’ non ha soltanto un valore estetico o contemplativo, ma anche una precisa rilevanza economica”, e che è quindi “necessario e urgente il supporto d’un approccio tendente a valorizzare il marketing nella gestione dei beni culturali”. In altre parole: tagliamo ancora i finanziamenti pubblici alla cultura (complessivamente l'1,1 % del Pil, la metà della media europea), e mettiamo sul mercato il patrimonio, privatizzandolo. Il nuovo ministro per i Beni culturali Massimo Bray avrà la forza per invertire questa degenerazione culturale, fermare i tagli già programmati, recuperare credibilità? È l’ultima speranza.

il Fatto 16.5.13
Il sottosegretario Giovanni Legnini
“Basta finanziare i giornali senza lettori”
di Carlo Tecce


Qualcosa ci siamo persi, cinque anni fa, se il governo poteva spendere 700 milioni per sovvenzionare un gran mucchio di giornali, di partiti, di cooperative o religiosi.
Il gruzzolo si è assottigliato col tempo e, adesso, non si stacca dai 95 milioni.
Una recente legge, governo di Mario Monti, ha cercato di espiare le colpe dei tanti Valterino Lavitola o Denis Verdini che non avevano interesse a procacciare le notizie: lo Stato garantisce il rimborso sino al 50% dei costi per i quotidiani cartacei e il 70% per i siti d'informazione. Ma la sofferenza non è finita. E il sottosegretario per l'Editoria, il democratico Giovanni Legnini, abruzzese di collina che s’accascia sotto la Maiella, non vuole sprecare ancora: “Un giornale esiste se viene acquistato in edicola o pagato in rete, lo Stato non può sostenere i prodotti editoriali quando non vengono più letti. Il mercato fa selezione, anche se qualunque intervento va sempre meditato perché si sta parlando di un lavoro prezioso e di tanti giornalisti in difficoltà”.
Legnini, il suo appare un principio rivoluzionario.
Addirittura? Le cose rivoluzionarie sono le cose semplici.
S'è chiusa l'epoca dei soldi buttati via, dice, ma che farete?
C'è la norma del mio predecessore, Paolo Peluffo, che non regala più nulla, ma che premia soltanto coloro che sanno gestire bene l’attività e che emigrano su internet per essere operativi. Dobbiamo intensificare i controlli e applicare la legge.
I contributi annuali non rischiano di allontanare la chiusura, mentre mancano persino gli stipendi per i giornalisti?
Penso che andranno valutati anche i riscontri con i lettori, in edicola e in rete, e legare il finanziamento anche a questo parametro come si inizia a fare con il decreto legge dell’anno scorso. Perché i soldi sono pochissimi rispetto al passato e nemmeno un centesimo può essere speso con leggerezza: chi merita sostegno, deve averlo; chi non lo merita, deve trovare una soluzione. Ripeto, però, io sono preoccupato per la forza lavoro perché qui si parla di lavoratori professionisti e non solo di imprese.
Il passaggio online non rischia di funzionare da palliativo?
La forma digitale è il futuro per molteplici ragioni sia industriali che legate alle modalità di accesso agli strumenti d’informazione, quindi bisogna sostenere l’avvio di questa evoluzione. Naturalmente anche per i giornali online vale il criterio di mercato.
Avete recuperato gli oltre 20 milioni di euro che la famiglia Angelucci vi deve restituire per il Riformista e Libero?
Il procedimento è in corso e in parte il recupero è già avvenuto. Le risorse saranno re-distribuite tra gli aventi diritto in regola rispetto all’anno 2010. Alcune settimane fa, il dipartimento ha pubblicato il decreto. Ma come avete sentito in questi giorni, c'è sempre una battaglia per ridurre il fondo.
Vi hanno utilizzato per pagare i debiti statali.
Non siamo in pericolo per l’anno corrente. Posso dire che è stato un taglio non meditato e il governo si è impegnato a ripristinare lo stanziamento. Ma la questione è un'altra.
Quale?
Avere la consapevolezza della necessità del rigore nella gestione dei soldi pubblici che devono sostenere l’informazione e il pluralismo e non imprese decotte. Bisogna fare tutto ciò che è necessario affinché non si ripetano gli scandali del passato e l’utilizzo delle poche risorse disponibili sia razionale e selettivo.

La Stampa 16.5.13
Giustizia: così la riforma è impossibile
di Gian Enrico Rusconi


Il tentativo di evitare la collisione tra la soluzione dei problemi economici e sociali urgenti del Paese e il destino di Silvio Berlusconi avrà i suoi costi. In tutte le dichiarazioni politiche e in tutti i talkshow – che ormai sostituiscono il discorso pubblico – si ripete che si tratta di due questioni separate. Ma è una bugia dalle gambe corte. Non a caso la passione politica si infiamma soltanto quando si parla del nesso tra il destino di Berlusconi e quello del governo.
L’ ipocrisia è tanto più insidiosa quanto più è camuffata, dirottata, indiretta, come si è visto nell’ultimo attacco di Brunetta alla presidente della Camera Laura Boldrini.
Il governo Letta fa finta di niente. Deve fare finta di niente. I giorni passano, le dichiarazioni si moltiplicano, le decisioni si fanno attendere. Auguriamoci che non trascorra il tempo a darsi coraggio e fare «spogliatoio». Intanto il clima sociale è sempre più tetro e disperato, preso nel circuito di notizie sempre più deprimenti.
Ma per i sostenitori di Berlusconi il problema più pressante è denunciare il tentativo della giustizia politicizzata di «far fuori» Berlusconi dalla politica, adesso. Con il sottinteso esplicito che soltanto lui, se fosse finalmente liberato dai pm alla Boccassini, saprebbe cosa fare per il Paese.
Questo sottinteso rischia di paralizzare sotterraneamente la politica italiana. Il governo Letta, ne potrebbe essere la cavia. La prova sarà la riforma elettorale che quasi certamente passerà con un pataracchio: sarà abbassato il premio di maggioranza, ma sarà mantenuto il controllo delle segreterie sui nomi dei possibili eletti. E’ quello che desidera Berlusconi.
A fronte di questa prospettiva, i contenuti specifici delle accuse rivolte al Cavaliere vengono liquidati dai suoi sostenitori come calunnie da respingere, senza neppure attendere le fasi ulteriori del processo. Per non parlare di aspettare gli stadi futuri del procedimento giudiziale che pure nella storia giudiziaria del Cavaliere gli hanno dato soddisfazione. No. La battaglia va fatta adesso, proprio perché è battaglia politica. Per Berlusconi questo governo non deve poter fare nulla di importante; anzi, quel poco che farà, lo sarà grazie al Pdl.
I sostenitori di Berlusconi si muovono su due piani solo apparentemente contraddittori. Da un lato dichiarano intollerabile, anzi offensivo ciò di cui viene penalmente accusato il Cavaliere. Ma dall’altro lo considerano irrilevante per la politica da fare.
Come è possibile tenere insieme le due cose? Davvero per l’elettore del Pdl ciò che conta è soltanto l’Imu, le promesse sempre ripetute e mai mantenute di detassazione e magari il muso duro contro la Merkel e l’Europa? Rispetto a tutto questo, i comportamenti privati del Cavaliere diventano irrilevanti, quando addirittura non suscitano complicità, da contrapporre alle intemerate moralistiche della Boccassini – come sono considerate da qualcuno le argomentazioni del pm?
In realtà il berlusconismo in questo momento salda i due aspetti: l’influenza sulla politica concreta, da un lato, e l’azione di sfiducia aperta e provocatoria contro la magistratura, dall’altro, appena velata dalla fragile distinzione tra la magistratura in generale e quella politicizzata «milanese». In questo clima e con questo atteggiamento parlare di «riforma della giustizia» equivale brandire una clava politica. Temo che qualcosa di simile succederà con la «riforma istituzionale». Per tacere della malcelata insofferenza del Pdl contro le proposte ragionevolmente avanzate in campo democratico in tema di jus soli e unioni omosessuali.
Su questa base non è possibile costruire nessun futuro politico comune tra le attuali (relativamente) maggiori forze politiche. Certo: aspettiamo che si prendano insieme alcune misure urgenti concrete. Ma chi si era illuso che si potesse inaugurare sia pure gradualmente e alla lunga - un nuovo ciclo di «normalità» politica, non si faccia illusioni.

il Fatto 16.5.13
La furbizia occidentale di chi attacca Boccassini
di Gianni Barbacetto


ILDA BOCCASSINI nella sua requisitoria ha attribuito a Karima El Mahroug, in arte Ruby, “una furbizia orientale”. Apriti cielo. Chi era a caccia del pretesto per criticarla, ha trovato la parola a cui inchiodarla: “orientale”. Un aggettivo che proverebbe il razzismo di Ilda la rossa, il suo pregiudizio contro gli stranieri e la sua disumanità.
Impossibile ragionare con chi non vuole sentire ragioni, ma per capire il senso di quell'espressione basta ascoltare (davvero) la requisitoria e comprendere il contesto in cui quell'aggettivo è inserito. Davvero la pm, trasportata dalla foga, ha rivelato la sua essenza culturalmente razzista? Proviamo a vedere come è arrivata a parlare della “furbizia orientale” di Ruby.
Il tema in discussione era non la ragazza (che nel processo è “parte offesa”), ma suo padre. Per ben due volte, in due diversi punti della sua lunga requisitoria, Ilda Boccassini ha tentato di ripristinare la verità sulla figura di M'hamed El Mahroug. La figlia lo ha descritto come un padre-padrone, cattivo e violento, che l'avrebbe maltrattata fin da piccola e sarebbe giunto perfino a versarle addosso dell'olio bollente. Un musulmano perfido e torturatore. Non è vero, ha spiegato la pm. Gli operatori sociali e gli educatori di comunità che da anni conoscono Ruby e la sua famiglia (la ragazza è scappata di casa la prima volta quando aveva 14 anni) raccontano di due genitori poveri e privi di strumenti culturali sofisticati, ma pacifici, dignitosi e onesti. La madre lavora in casa e cresce i figli. Il padre fa l'ambulante e vive una vita umile ma decorosa. La cicatrice in testa che Karima esibisce per commuovere gli interlocutori non le è stata procurata dal padre, ma è il risultato di un incidente domestico capitato alla madre quando la bambina era piccola. È Karima, diventata Ruby, a inventarsi la storia del padre cattivo, che reagisce con violenza alla sua volontà di farsi cristiana. Approfitta, sostiene Boccassini, di un diffuso clima culturale, questo sì razzista e anti-islamico, “sfruttando da furba le difficoltà culturali dell'integrazione”. Si fa accettare in un contesto che sa pieno di pregiudizi, rinnegando le proprie origini e cavalcando quei pregiudizi: “Mi volevo fare cristiana e mio padre mi ha punito con l'olio bollente”.
LA STORIA, secondo gli educatori della comunità siciliana che ha ospitato la piccola Karima, è falsa. Ma siccome serve ad accreditare l'immagine di Ruby brava ragazza perseguitata e bisognosa d'aiuto, ecco che le tv Mediaset e i giornali di famiglia diffondono una falsità, perché questa serve a difendere il loro padrone, cioè l'imputato del processo, il generoso Silvio Berlusconi.
E allora: chi dimostra i propri pregiudizi, chi fa trapelare una cultura razzista? La magistrata che tenta di ristabilire la verità su un pover'uomo, marocchino e islamico, che ha a che fare con una figlia difficile; oppure le tv, i quotidiani e i rotocalchi che strumentalmente diffondono la favola della ragazza che vuole diventare cristiana, oppressa dal padre musulmano malvagio e violento?

Corriere 16.5.13
Carceri, non servono nuovi studi ma decisioni davvero coraggiose
di Luigi Ferrarella


Ma cos'altro dovrebbe far conoscere l'«indagine conoscitiva sull'emergenza carceraria» appena ideata dalla Commissione giustizia del Senato presieduta da Nitto Palma? Già si sa tutto, e da molto tempo. Ci sono i dati ministeriali dell'incivile sovraffollamento di 21.000 persone più della capienza teorica, peraltro gonfiata dal conteggio di molti posti in realtà indisponibili. Le condanne dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo per le detenzioni di persone in meno di 3 mq a testa sono talmente note che il governo Monti, con scelta infelice, invece di mettersi in regola entro fine anno come preteso da Strasburgo, le ha impugnate per congelare l'ultimatum. Vetustà dell'edilizia carceraria, riduzioni di organico nella polizia penitenziaria, sanità negata di fatto in molte celle, stanno tutte nell'informazione di qualità resa da associazioni come Antigone, agenzie come Ristretti Orizzonti, programmi come RadioCarcere. Proposte di legge (anche dell'ex ministro Severino) sono arrivate a un passo dall'approvazione nell'ultima legislatura; e pochi mesi fa la Commissione di studio mista tra Csm e ministero ha addirittura prodotto un articolato normativo per disboscare quelle leggi che producono non «più sicurezza» ma solo «più carcere».
Eppure la politica, che ipocrita suole inchinarsi al capo dello Stato ma da due anni disattende «la prepotente urgenza» additata da Napolitano nel 2011, ora s'inventa l'ennesima «indagine conoscitiva» solo perché non ha la capacità e il coraggio di scegliere tra le ben note opzioni in campo. Chi propende per il successo rieducativo delle misure alternative al carcere non se la sente di spiegarlo all'opinione pubblica. Chi vuole solo costruire più carceri non sa dire dove trovare i soldi. Chi condivide la proposta radicale di un provvedimento di clemenza ha paura che al treno dell'indulto o dell'amnistia, per i detenuti, qualcuno in Parlamento agganci il vagoncino dell'impunità invece per gli indagati eccellenti. E chi vuole abolire norme schizofreniche si scontra con chi sul mercato della paura ha costruito le proprie fortune politiche. Solo che perdere ancora tempo con «indagini conoscitive» può essere un lusso accettabile alla buvette del Senato, meno sui letti a tre piani di celle dove uno deve restare sdraiato, faccia al soffitto, per consentire agli altri almeno di alzarsi.

l’Unità 16.5.13
Tommaso Currò;
«I no di Beppe al Pd hanno favorito Berlusconi»
Il deputato 5 Stelle: «Grillo vuole una democrazia senza partiti, senza destra e sinistra, solo movimenti No Tav, No Ponte etc. Ma così non funziona»
«Le diarie? Il tema vero è quello dell’autonomia degli eletti rispetto a Grillo e Casaleggio»
«Non credo a scissioni ma temo il replay dei casi Favia e Salsi. Le liste dei reprobi sono un errore»
di Andrea Carugati


ROMA Il pericolo di una «deriva populista» del movimento 5 Stelle. Di un clima «emotivamente pesante» tra i parlamentari e il duo Grillo-Casaleggio. Il rischio di un replay in Parlamento dei casi Favia e Salsi, i dissidenti emiliani finiti rapidamente fuori dal partito. Tommaso Currò, deputato di Catania, è stato il primo dei dissidenti tra i deputati a 5 stelle. Nei giorni degli sfottò via streaming a Bersani, lui si alzò per dire che invece col Pd bisognava parlarci. Ora, quasi due mesi dopo, il Pd è al governo col Pdl e i grillini sulle barricate. Travolti dall’ennesima campagna elettorale del Capo e fuori dal governo del Paese. Lui è seduto su un divanetto della Camera e sta studiando dei provvedimenti economici sul computer.
«Resto della mia idea. Avremmo dovuto dialogare e forse ora non saremmo in questa situazione con Berlusconi di nuovo al centro della scena».
Grillo sostiene che è stato il Pd a non voler trattare con voi.
«La mia opinione è che Beppe non abbia mai voluto davvero discutere col Pd. Non lo ha voluto allora e non lo vuole adesso. Invece ha finito per favorire la rinascita di Berlusconi. E io continuo a chiedermi perché».
Sembra che voglia piuttosto succhiare voti al Pd, approfittare della loro crisi. «Capisco, ma non mi sembra una strada utile al Paese. Una certa dose di populismo è servita al movimento, per arrivare a milioni di persone. Altrimenti avremmo fatto la fine dei tanti partitini che non superano il 5%. Ma una volta arrivati in Parlamento bisogna cambiare registro. Non è che io posso entrare in Commissione Bilancio e gridare “tutti a casa”. Bisognare mettere un freno agli slogan, entrare nella complessità. Devo capire come funziona la macchina, fare le mie proposte, valutare quelle degli altri, trovare le coperture per i provvedimenti. È tutto complicato ma è la democrazia parlamentare ed ha un suo fascino. Anzi, le dirò che stando qui dentro, man mano che entro dentro il meccanismo, lo sto apprezzando. La politica è una cosa seria».
Il Capo invece sembra preferire le piazze, invocare le barricate...
«Mi pare di cogliere in lui l’idea di una democrazia senza partiti, assembleare, di un Parlamento come somma di comitati e movimenti “single issue”, i No tav, No ponte, No Discarica. Credo che non possa funzionare, la democrazia ha bisogno di partiti, di una destra e di una sinistra. Partiti rinnovati, in cui chi ha fallito si faccia da parte. Ma pur sempre partiti». Invece i vostri guru puntano alla spalla-
ta, a prendere il 51%...
«Non mi convince. Lo dico con sincerità, non siamo pronti per governare da soli. Dobbiamo maturare, fare pratica. Il rischio che vedo è il moltiplicarsi di forze populiste, che ci scavalchino su temi come l’Europa e la moneta. Che il risultato sia il caos».
Eppure lei è un deputato dei 5 Stelle. Non dovrebbe temere la crescita del suo movimento.
«Per tanti anni ho votato Pd, poi sono stato deluso dal loro correntismo esasperato, dai troppi fallimenti, dalle promesse mancate. Ma l’eventuale implosione del Pd non è una prospettiva che auspico». Tra di voi com’è il clima?
«Sulla questione delle diarie non ho avuto particolari obiezioni di sostanza. È giusto rendicontare e restituire. Ma ho avvertito un clima di tensione che non ci fa bene. Mi sembra che il tema più profondo che sta sotto a questione discussione sulle diarie sia quello della leadership, della autonomia degli eletti rispetto a Grillo e Casaleggio. E in definitiva anche della strategia che intendiamo seguire. Qual è il nostro obiettivo? Io in questo momento fatico a capirlo. Non credo che sia il mondo Gaia di cui parla Casaleggio, quella non è una prospettiva politica. E allora dobbiamo misurarci con la realtà dell’Italia». E invece vi avvitate sui soldi.
«È giusto che noi deputati a 5 Stelle adottiamo dei comportamenti più sobri e più rigorosi degli altri. Ma il punto è discutere della linea politica». Rischiate una scissione?
«Non direi proprio. Però evocare liste nere di reprobi è un grave errore. Mi sembra di vedere in scala più larga quello è successo in Emilia con Favia e Salsi. Sulle diarie e anche prima ho visto una gestione del dissenso che mi preoccupa. Mi auguro che questi metodi non si ripetano».

l’Unità 16.5.13
Class action contro il Cie di Bari. Cambiare si può
di Luigi Manconi e altri


Il 13 maggio scorso a Roma è stato presentato dall’associazione Medici per i Diritti Umani (MEDU) il rapporto “Arcipelago CIE. Indagine sui centri di identificazione ed espulsione”. Si tratta di un’indagine svolta nel corso di un anno (febbraio 2012 – febbraio 2013) e, oltre al lavoro di monitoraggio compiuto effettuando visite all’interno delle strutture, lo studio si è basato sull’analisi di dati statistici e sulla raccolta di testimonianze dirette degli stranieri trattenuti e del personale che vi opera. Le domande cui MEDU ha cercato di dare una risposta sono: i Cie garantiscono il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali?; l’istituto della detenzione amministrativa è davvero efficace nel contrasto dell’immigrazione irregolare?; esistono altri strumenti meno afflittivi per affrontare questo fenomeno?
I risultati, c’era da aspettarselo, sono sconfortanti: viene confermata in modo univoco l’inadeguatezza della detenzione amministrativa nel tutelare la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti, tra cui la salute e l’accesso alle cure. Inoltre, anche sulla base dei dati forniti dalla Polizia di Stato, il sistema dei Cie si dimostra fallimentare in quanto scarsamente rilevante nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Il prolungamento dei tempi di trattenimento a 18 mesi non ha sortito alcun effetto significativo in termini di efficacia nei rimpatri mentre ha contribuito ad aggravare la tensione all’interno dei centri; inoltre l’insieme dei costi economici necessari ad assicurare la gestione, la sorveglianza, il mantenimento e la riparazione di queste strutture non appare commisurato ai modesti esiti conseguiti.
Questi risultati si collegano a una vicenda di cui già scrivemmo lo scorso anno, relativa al Cie di Bari Palese. Gli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci si sono sostituiti al Comune e alla Provincia di Bari e hanno citato in giudizio civile la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e la locale Prefettura chiedendo al Tribunale di disporre l’immediata chiusura del Cie barese per violazione dei diritti universali dell’uomo. La domanda è stata ammessa ed è stato disposto un accertamento tecnico che ha confermato lo stato di detenzione degli “ospiti” nonché le carenze strutturali e igienico-sanitarie del centro e la totale assenza di un presidio del Servizio Sanitario Nazionale all’interno della struttura.
Il Cie di Bari è stato interessato da recenti lavori di ristrutturazione e il Tribunale ha disposto una nuova perizia per verificare le condizioni attuali del centro e la sua conformità ai parametri legali. Il rapporto di MEDU e la class action contro il Cie di Bari ci portano alle stesse conclusioni: i centri di identificazione ed espulsione vanno chiusi per la loro inadeguatezza, inefficacia e inefficienza e il trattenimento dello straniero in attesa di espulsione deve tornare a essere una misura eccezionale. Trovare soluzioni umane e dignitose è possibile. http://www. mediciperidirittiumani.org/ http://www.classactionprocedimentale.it/

Repubblica 16.5.12
Razzismo, l’ultimatum di Balotelli “La prossima volta lascio il campo”
I cori di San Siro: “Io e Boateng avevamo pensato di andarcene”
di Stefano Scacchi


MILANO Due minuti di sospensione e 50.000 euro di multa non bastano a Mario Balotelli. Per evitare di sentire ancora gli odiosi “buu” razzisti, piovuti l’ultima volta domenica dal settore dei tifosi giallorossi durante Milan-Roma a San Siro, il centravanti rossonero ha deciso che adotterà il provvedimento più drastico: smettere di giocare. «Avevo sempre pensato che, di fronte a manifestazioni di razzismo in uno stadio, mi sarei detto: “Nessuno dice niente e allora io non mi preoccupo”. Ma dopo quello che è successo domenica sera, ho cambiato un po’ il mio modo di considerare il problema. Se succederà ancora una volta, lascerò il campo perché è una cosa troppo stupida», ha dichiarato Balotelli alla Cnn.
Sguardo serio, la maglietta aperta sul petto e due collane da rapper: così Mario ha lanciato la sua battaglia. «Dobbiamo lottare contro il razzismo in ogni stadio», aveva detto lunedì sera Boateng, il calciatore che ha aperto questo fronte il 3 gennaio scorso interrompendo l’amichevole Pro Patria- Milan a causa dei “buu” degli ultrà locali (il 5 giugno arriverà la sentenza nei confronti dei sei tifosi imputati a Busto Arsizio). Proprio confrontandosi con Boateng domenica sera in campo, Balotelli era arrivato a un passo dall’abbandonare: «Ho parlato con Prince durante la partita. Stavo per lasciare il terreno. Ma qualcuno avrebbe potuto dire che avevo deciso di farlo perché il Milan stava incontrando qualche difficoltà con la Roma e così io avrei cercato un modo per vincere 3-0 a tavolino. Meglio continuare a giocare e parlare dopo. Se non fosse stato per questa ragione, domenica avrei smesso di giocare». Ma già in quei minuti, scanditi dagli
ululati e dall’interruzione voluta dall’arbitro Rocchi, Balotelli matura il proposito di dire a tutto il mondo che non permetterà mai più allo scempio di arrivare fino al 90’. «Se succederà ancora una volta», dice Mario. Vuol dire che, da questo momento, non tollererà più nessun ululato.
Planetario il mezzo di comunicazione scelto da Balotelli (nel suo servizio on line la Cnn ricorda anche la frase di Paolo Berlusconi a febbraio: «Andiamo a vedere il negretto di famiglia») perché globale è stata la risonanza dei fatti di domenica sera. «Non basta una multa da 50.000 euro. Servono penalizzazioni per le squadre e sanzioni identiche in tutto il mondo », ha detto martedì il presidente della Fifa, Blatter. Ieri ha replicato il n. 1 dell’Uefa, Platini: «Non sono d’accordo con chi vuole togliere punti – dice il francese a Sky Sport – sono i tifosi che devono essere puniti, non i club. Rocchi è stato bravissimo. Ha usato il buon senso. Dopo la sospensione e gli avvisi dello speaker, non ci sono più stati cori razzisti. Noi dobbiamo legiferare in modo da aiutare l’arbitro. E dobbiamo punire severamente i giocatori che in campo insultano un collega». Ma Balotelli non ha tempo di aspettare norme e regolamenti innovativi: al prossimo “buu” se ne andrà. E, a quel punto, come successo dopo la pallonata di Boateng a Busto Arsizio, nulla sarà più come prima nella lotta al razzismo da stadio.

La Stampa 16.5.13
Con una pistola
Florida, bimbo di quattro anni spara e uccide ragazzino di 11


WASHINGTON [M. F.] Ennesima tragedia provocata da armi da fuoco in mano a bambini negli Stati Uniti. A Gainsville, in Florida, un bambino di appena quattro anni ha sparato con una pistola a un altro ragazzino di 11 anni e lo ha ucciso. L’episodio è avvenuto domenica scorsa e il ragazzino colpito, ricoverato in ospedale, è deceduto ieri in seguito alla ferita riportata. Il ragazzino e il bimbo, cugini, stavano giocando nell’appartamento della nonna. Pare che al momento dell’incidente ci fossero in casa sei bambini e un solo adulto.
Secondo le prime ricostruzioni della tragedia, il bambino di quattro anni stava giocando con la pistola con un bambino più piccolo di lui, di appena due. A quel punto il ragazzino più grande ha cercato di strappare di mano il revolver, avvertendo il pericolo. Ma è partito un colpo che lo ha centrato alla nuca. Poi altri colpi. E uno di questi avrebbe ferito anche il piccolo sparatore, che però non è in pericolo di vita.
Domenica scorsa un 19enne ha ferito 19 persone mentre assistevano alla tradizionale parata per la Festa della Mamma a New Orleans. Per la sparatoria è ricercato Akein Scott, identificato sulla base delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza e di numerose testimonianze.

Repubblica 16.5.13
Per un capitalismo sostenibile
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


Circa un mese fa è scoppiato un nuovo scandalo fiscale, Offshore leaks, che coinvolge politici e uomini d’affari di tutto il mondo. Si tratta di un fenomeno assolutamente prevedibile, insito nella natura del capitalismo finanziario che si è affermato dai primi anni ’80. Per capire come si è arrivati a questo punto è utile richiamare le grandi trasformazioni del sistema capitalistico.
Nella prima fase che segna l’affermazione del capitalismo industriale, il profitto viene estratto dallo sfruttamento del lavoro. Il conflitto sociale nasce dalla contrapposizione tra gli interessi capitalistici e quelli della democrazia politica: da una parte i rendimenti del capitale, dall’altra i redditi da lavoro sostenuti dal sindacato e promossi dallo sviluppo della democrazia. La composizione tra queste due esigenze è affidata a politiche dei redditi che si esprimono attraverso una distribuzione proporzionale all’aumento della produttività. La libertà nello scambio delle merci è “compensata” da controlli di varia natura sul movimento dei capitali. L’insieme di queste politiche sociali, commerciali e finanziarie permette di promuovere una fase caratterizzata da crescita economica e maggiore eguaglianza: l’età dell’oro (1945-1973). Dopo il primo shock petrolifero, la situazione muta radicalmente: si scatena una controffensiva capitalistica segnata dalla liberazione del movimento dei capitali. Agli inizi degli anni ’80 si verifica dunque una transizione dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario mentre il profitto è realizzato sempre più attraverso la mobilità del capitale che assicura rendimenti più elevati. La tassazione dei capitali da parte dello stato viene contrastata con un progressivo occultamento dei redditi nei “paradisi fiscali”. Nel luglio 2012 uno studio di James Henry McKinsey, stimava il patrimonio nascosto dai super-ricchi nei paradisi fiscali in oltre 32mila miliardi di dollari, una cifra equivalente alla somma delle economie degli Stati Uniti e del Giappone. In questa fase, il capitalismo realizza l’obiettivo mancato dal movimento operaio: una vera e propria “internazionale capitalistica” che provoca enormi diseguaglianze tra capitale e lavoro e minaccia di deprimere la domanda. Questa minaccia viene fronteggiata con un indebitamento sistematico che dà luogo a una “grande sbornia” del credito: una vera e propria inflazione finanziaria. L’indebitamento delle famiglie e delle imprese che ne risulta viene sistematicamente rinnovato così da rendere il nuovo capitalismo finanziario un sistema nel quale i debiti non si rimborsano mai. Una scommessa chiaramente insostenibile eppure incentivata dai governi e avallata dalle agenzie di rating contro ogni logica. Ma le onde del debito che si accavallano l’una sull’altra, prima o poi si infrangono sulla riva. È il momento della crisi. L’immensa liquidità creata dalle banche e dagli altri intermediari finanziari si essicca di colpo. La liquidità sparisce. Le banche cessano dal farsi credito tra di loro. Ma i debiti restano e devono essere pagati.
Per salvare il capitalismo dal collasso vengono mobilitate risorse pubbliche di una portata mai vista nella storia contemporanea. A differenza degli anni Trenta, quando vi furono massicci interventi statali nell’economia reale (protezionismo, nuove regole, nazionalizzazioni), la crisi attuale è stata fronteggiata attraverso la sostituzione del debito privato con quello pubblico e con l’espansione della moneta da parte delle banche centrali. L’intervento dello Stato ha privilegiato il salvataggio delle banche mentre è stato molto debole sul lato della crescita. E così che i governi sono “puniti” per i loro disavanzi dalle agenzie di rating e riducono le spese sociali addossando i costi della crisi ai ceti più deboli.
In conclusione: gli interventi finora attuati sono stati insufficienti e dannosi. Oggi sarebbe quanto mai necessario un nuovo compromesso storico tra il capitalismo e la democrazia, del tipo di quello che contraddistinse, alla fine della Seconda guerra mondiale, l’età dell’oro. Abbandonare il capitalismo finanziario sregolato per tornare a un capitalismo governato. Costruire un nuovo sistema di relazioni internazionali in cui il dollaro non sia più la moneta dominante. Contenere i movimenti di capitale di brevissimo termine con misure fiscali del tipo Tobin tax e dichiarare una vera “guerra” ai paradisi fiscali. Ridurre i divari nella distribuzione della ricchezza non solo perché diseguaglianze troppo marcate sono moralmente inaccettabili ma perché costituiscono un freno allo sviluppo dell’economia.
Uno sviluppo economico sostetato si deve fondare su investimenti, crescita della produttività e dei salari reali. Per questo la politica dei redditi deve ritornare al centro
della politica economica.

Repubblica 16.5.13
Nella storia Usa i maggiori deficit sono frutto dei governi di destra
I conti sbagliati dei conservatori
di Paul Krugman


La dottrina keynesiana afferma che nei periodi di recessione occorre aumentare la spesa pubblica Ma anche che i tempi di crescita sostenuta siano il momento giusto per ripianare i debiti

A questo punto l’argomentazione economica a favore dell’austerità – del decurtare gli interventi statali a dispetto di un’economia debole – è crollata. La convinzione secondo la quale i tagli alla spesa avrebbero di fatto incentivato l’occupazione promuovendo la fiducia è venuta meno. La presunta esistenza di una sorta di linea rossa del debito che i Paesi non oserebbero oltrepassare ha dimostrato di poggiare su dei calcoli confusi e per certi versi, semplicemente, sbagliati. Le previsioni di una crisi fiscale continuano a non avverarsi, mentre quelle di un disastro determinato dalle stringenti norme di austerità si sono dimostrate sin troppo accurate.
E tuttavia, gli appelli che invocano un’inversione della distruttiva rotta verso l’austerità continuano a cadere nel vuoto, o quasi. Ciò riflette, in parte, gli interessi acquisiti – dal momento che una politica di austerity giova agli interessi dei ricchi creditori; e in parte la riluttanza delle persone influenti ad ammettere i propri errori. Ritengo però che vi sia un ulteriore ostacolo al cambiamento, rappresentato da un cinismo diffuso e profondamente radicato rispetto alla capacità dei governi democratici di cambiare rotta una volta che hanno intrapreso una politica di stimolo economico.
Perlomeno in America, ci siamo quasi sempre comportati in maniera fiscalmente responsabile, con una sola eccezione – ovvero, nel caso dell’irresponsabilità fiscale che prevale quando, e solo allora, al potere vi sono degli irriducibili conservatori.
Negli Stati Uniti le iniziative di intervento statale mirate a incoraggiare l’economia sono di fatto rare – il “New Deal” di Roosevelt e, in misura assai minore, il “Recovery Act” del presidente Barack Obama rappresentano gli unici esempi di rilievo. E nessuna di queste due iniziative è diventata permanente – anzi: entrambe sono state ridimensionate decisamente troppo presto. Roosevelt ridusse radicalmente la propria nel 1937, gettando nuovamente l’America nella recessione; quanto agli effetti del “Recovery Act”, dopo aver raggiunto il loro culmine nel 2010 si sono affievoliti – e questo affievolimento è una delle cause principali della nostra lenta ripresa. Che dire inoltre delle iniziative pensate per aiutare coloro che sono stati colpiti da un’economia depressa? Non rischiano forse di diventare permanenti? Anche in questo caso la risposta è negativa. I sussidi di disoccupazione hanno fluttuato con il fluttuare del mercato del lavoro, e rappresentano una percentuale del Pil che è addirittura la metà rispetto alla soglia da loro raggiunta durante un recente picco.
L’intera nozione di permanenza degli stimoli è dunque una fantasticheria camuffata da cocciuto realismo. Tuttavia, anche se non pensate che gli stimoli durino per sempre, l’economia keynesiana non afferma solo che nei momenti difficili occorre spendere in deficit, ma anche che in tempi di prosperità sia necessario ripianare i debiti.
Inoltre, ripercorrendo la storia degli Usa dalla seconda Guerra mondiale in poi, scopriamo che dei dieci presidenti che hanno preceduto Barack Obama sette hanno terminato il proprio mandato con un rapporto tra debito e Pil più basso di quello che avevano trovato al loro arrivo alla Casa Bianca. Quali sono state le tre eccezioni? Ronald Reagan e i due George Bush. Gli aumenti del debito pubblico non riconducibili a una guerra o a una crisi finanziaria straordinaria sono dunque del tutto associati a dei governi irriducibilmente conservatori. Tale associazione ha un motivo: da tempo i conservatori Usa seguono la strategia dell’“affamare la bestia” – ovvero: decurtare le tasse in modo da privare il governo delle entrate di cui ha bisogno per finanziare le proprie iniziative sociali.
Il buffo è che oggi questi stessi conservatori irriducibili dichiarano che in un momento di crisi economica aumentare il deficit non sia possibile. Perché mai? Perché, dicono, nei momenti di prosperità i politici non faranno ciò che sarebbe giusto fare, ovvero ripianare il debito. A quali politici irresponsabili si riferiscono? Lo avete indovinato: a loro stessi.
Mi sembra una versione “fiscale” della classica definizione del termine yiddish chutzpah – la sfacciata impudenza di colui che dopo aver ucciso i propri genitori esige comprensione perché rimasto orfano. Nel nostro caso, ci troviamo di fronte a dei conservatori che ci dicono che dobbiamo stringere la cinghia, a dispetto della disoccupazione di massa, perché in caso contrario, una volta che l’emergenza sarà terminata, i conservatori a venire continueranno ad allargare i deficit.
Messa in questi termini, naturalmente, la situazione appare ridicola. Ma non lo è. È tragica. La disastrosa svolta verso l’austerità ha distrutto milioni di posti di lavoro e rovinato molte famiglie. È arrivato il momento di invertire la rotta.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 16.5.13
Genio di massa
Così a colpi di tweet la creatività è diventata di tutti
di Maurizio Ferraris


Il Romanticismo è l’epoca del genio solitario, ma il Postmoderno è l’epoca della creatività, ossia del genio di massa. A giusto titolo in Il falò delle novità. La creatività al tempo dei cellulari intelligenti (Utet) Stefano Bartezzaghi fa iniziare il nuovo evo negli anni Sessanta, ricordando sintomaticamente come il libro dello psicologo Joseph Rossman uscito nel 1931 con il titolo The Psychology of the Inventor venisse ripubblicato nel 1964 come Industrial Creativity.
È in quest’epoca che la creatività entra nella categoria, consacrata da Barthes, dei miti d’oggi, ossia delle divinità mondane che popolano una società che si crede secolarizzata, e non lo è. Basti notare che, come ogni religione, la creatività ha i suoi martiri: non si è mai visto nessuno che chiedesse, per esempio, un lavoro “più banale”, tutti lo vogliono ovviamente più creativo, anche se spesso dietro alla creatività si nascondono le insidie di lavori non tutelati e precari.
Di fronte al mito la scelta metodologica di Bartezzaghi è ineccepibile. Invece di chiedere ai sacerdoti nel tempio (ammesso che possa esistere un qualche sacerdote della creatività) si tratta di interrogare i credenti, i mitomani, ossia i portatori di questa «cospicua e ubiqua mitologia, in cui si raccoglie quanto serve agli uomini contemporanei per riscattarsi dalla loro, o meglio nostra, banalità». Il nocciolo dell’opera è dunque costituito dall’analisi della doxa, documentata da un corpus di circa duecento definizioni della creatività fornite su Twitter in preparazione del festival della mente di Sarzana del 2012, poi sottoposte da Bartezzaghi a uno scrutinio sistematico in un corso universitario. Nella sua sobrietà tassonomica, che riporta agli anni dello strutturalismo, il metodo è tuttavia animato da un paradosso: ciò che l’indagine è chiamata a fare emergere non è l’originale, ma il banale, il non creativo. Così, la classificazione delle nostre credenze sulla creatività ci fornisce quello che Barthes avrebbe definito “l’ovvio e l’ottuso”.
Il genere sommo sotto cui viene rappresentato il mito della creatività è, come è facile da immaginarsi, quello dell’ineffabile, tra cui spicca una definizione da pura teologia negativa: «in quanto infinita, definirla è un controsenso». Eppure questo Dio nascosto lo si riconosce al primo sguardo: «è facile riconoscerla quando la incontri». E di qui all’ossimoro il passo è breve: «Creatività è un’immaginazione pratica, una fantasia concreta, tecnica libera, pensiero che non si accorge di sé» (che riecheggia la serqua di ossimori della preghiera alla Vergine nel canto trentatreesimo del Paradiso: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta» ecc.).
La teologia si svolge del tutto naturalmente in una cosmologia, vedendo nella creatività il nocciolo del rapporto tra uomo e mondo. Dopotutto, il genio era per Kant il medio tra natura e arte, e poi per i romantici sarà la mediazione tra finito e infinito. Abbiamo dunque la creatività come «un’implosione che non offre scampo» (ci auguriamo, al creativo soltanto) ma anche come “continuità dell’armonia”, e soprattutto – a conferma dell’ipotesi dell’incontro tra uomo e natura nel genio – «Creatività è trarre idee e ispirazione da ogni manifestazione dell’universo», che è un tweet che avrebbe potuto scrivere Novalis.
Alla linea genial-romantica si ricollegano le “Definizioni infantiliste”, perché appunto il bambino è più vicino alla natura, all’origine, alla semplicità e all’inconscio, così come la classe della “Creatività come sguardo sul mondo, passività e contemplazione” e quella della “Creatività come presupposto dell’espressione”, in cui campeggiano «Creatività è non porre filtri e resistenze a ciò che la natura esprime attraverso di noi» e «La creatività è il filtro fotografico che svela le qualità dell’Assoluto» (questo tweet, a parte il “filtro fotografico”, avrebbe potuto invece scriverlo Schelling). E ovviamente ancora romantiche, tra lo Sturm und Drang e il futurismo, sono le definizioni della creatività come irrazionalità o superamento di limiti che si appellano a “Libertà Leggerezza Coraggio e Follia!” e a “gesti imprudenti e nuovi”. Nietzsche faceva dire al suo Zarathustra, «L’uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo, una corda sull’abisso», e l’anonimo di Twitter risponde con un «Creatività è riconoscere talenti e limiti, emozioni e follia che nascono in noi, e non averne paura!» o ancora, del tutto nietzschianamente, «Creatività è trovare un’altra scusa per questo mondo».
Quante parole, sia pure in porzioni di 140 battute o meno, per esprimere il vero movente del mito, la fuga dalla noia, la rottura della routine, in forma titanica («Creatività è alzarsi la mattina e vivere una nuova avventura nella routine di tutti i giorni») o ermeneutica («Interpretare in modo originale la realtà»). La morale è molto semplice: l’aspirazione alla creatività è la cosa più comune, dunque meno creativa, del mondo. E a mio parere la palma della creatività va assegnata all’unico (il che è già indizio di creatività) esemplare della classe “Definizioni polemiche”: «Creare creare creare preferisco il rumore del pensare». Definizione che è doppiamente polemica e doppiamente poetica (solo un po’ rovinata dall’appello all’enfasi rumorosa del pensiero) perché dice una cosa vera – cioè inchioda la retorica della creatività – e lo fa senza pretendere di essere creativa, perché è in effetti l’aperta rielaborazione o di due versi di Dino Campana («Fabbricare, fabbricare, fabbricare preferisco il rumore del mare») o della loro ripresa da parte di Ugo Nespolo («Lavorare, lavorare, lavorare preferisco il rumore del mare »).
IL LIBRO Il falò delle novità di Stefano Bartezzaghi (Utet pagg. 237 euro 12)

Repubblica 16.5.13
Chiusa una delle trasmissioni chiave del servizio pubblico: in dodici anni ha rievocato numerosi episodi del passato
La Rai cancella “La storia siamo noi”. L’azienda: l’esperienza è finita
di Silvia Fumarola


ROMA — “La storia siamo noi”, una delle trasmissioni più popolari della Rai, che ha saputo valorizzare la memoria grazie alle immagini d’archivio, le testimonianze dei protagonisti, una ricostruzione meticolosa dei fatti, chiude. Il programma debuttò il primo ottobre del 2002. Dodici anni per costruire un archivio prezioso, ma la Rai ha deciso di cancellare il programma dal palinsesto del prossimo anno: andrà in onda fino alla fine di giugno, poi andrà in soffitta. La notizia circola a Viale Mazzini, Giovanni Minoli interpellato sull’argomento, oppone un secco: «No comment».
Le immagini dell’attentato a John Fitzgerald Kennedy e le acrobazie di Roberto Benigni, la favola di Grace Kelly e il coraggio del giudice Emilio Alessandrini, passando per le guerre, i misteri italiani, i protagonisti della politica dell’industria e dello spettacolo. E poi il ritratto dei Papi, le stragi di mafia, l’inchiesta sul G8, il caso Ilaria Alpi, le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia: un mix di costume, memoria e inchiesta.
Il programma si era aggiudicato nel gennaio 2012 a New York il prestigioso History
Makers International, l’Oscar del Congresso mondiale dei produttori televisivi di storia. Riconoscimento assegnato, come recita la motivazione «per l’enorme impulso che ha dato alla crescita di questo genere di approfondimento televisivo in Italia». In quell’occasione Giovanni Minoli, ideatore curatore e conduttore, spiegò come, facendo il programma, aveva avuto la conferma che «la televisione è il più grande strumento per aiutare l’uomo a crescere. Chi non lo usa anche in questo modo si assume una responsabilità enorme. La memoria è importante: rendersi conto che a livello internazionale si accorgono di noi ci fa sperare che anche i palinsesti Rai tengano conto di più del nostro lavoro».
Per “La Storia siamo noi” parlano i numeri: ogni anno sono state trasmesse 312 ore su RaiDue e RaiTre, di cui 52 seconde serate; 1.460 ore su Rai Storia. Il costo orario medio è di 25mila euro, meno della metà delle seconde serate delle tre reti Rai. Il pubblico televisivo, in questi lunghi anni, ha seguito con lo stesso interesse i temi più diversi: dallo speciale sull’11 settembre (che ottenne il 18,70% di share) all’inchiesta sulla «strana morte» di Papa Luciani (16, 07%).
Nel maggio dell’anno scorso, quando le sorti della struttura di Minoli erano in bilico, l’Associazione documentaristi italiani scrisse una lettera aperta ai vertici Rai, l’allora direttore generale Lorenza Lei e l’ex presidente Paolo Garimberti, spiegando come solo nell’ultima stagione (settembre 2011 — giugno 2012) grazie all’apporto dei programmi “La Storia siamo noi” e “Dixit”, erano state realizzate circa 50 ore con società di produzione indipendenti italiane «innescando così» si leggeva nell’appello «un indotto virtuoso di creatività e occupazione fondamentale per l’industria dell’audiovisivo. La struttura è formata da cinquanta persone, per una produzione di circa mille ore di programmazione l’anno».
Ora che succederà? La direzione generale della Rai rassicura che il percorso continuerà. «Si è chiusa l’esperienza della struttura che curava le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia» dicono a Viale Mazzini «Il budget previsto è stato speso, quindi l’esperienza è finita. È chiaro, però, che il rapporto della Rai con la cultura e la storia continuerà su Rai Educational grazie alla direttrice Silvia Calandrelli e ai nuovi progetti in cantiere, come l’appuntamento condotto da Paolo Mieli e il programma dedicato alla Prima guerra mondiale, che sarà trasmesso anche in HD. Per quanto riguarda le persone che lavoravano con Minoli, si stanno riposizionando nelle varie strutture dell’azienda. Minoli era già in pensione per raggiunti limiti d’età, gli era stato fatto un contratto per curare gli eventi legati all’Unità d’Italia. Non è escluso che in futuro la sua esperienza non possa portare a nuove collaborazioni come autore».

Repubblica 16.5.13
Un progetto del governo per riscattare facoltà universitarie considerate “fabbriche di disoccupati”
Francia, la crociata di Hollande “Rilanciamo gli studi umanistici”
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Rilanciare le scienze umane e sociali, ridare smalto a una serie di insegnamenti troppo spesso considerati come una fabbrica di disoccupati: è il progetto che dovrebbe annunciare oggi il ministro per l’Università e la ricerca, Geneviève Fioraso. Secondo Le Monde, il governo dovrebbe presentare un piano di sostegno globale, i cui contorni restano ancora da definire.
I problemi da risolvere sono di due tipi. Il primo riguarda il rapporto tra formazione e disoccupazione: troppo spesso, i laureati sfornati dalle facoltà umanistiche finiscono per non trovare un lavoro all’altezza dei loro diplomi. Esiste insomma una sfasatura tra la preparazione e lo sbocco professionale: chi studia storia, per esempio, viene automaticamente indirizzato all’insegnamento, una professione che viene poi scelta da appena l’11 per cento dei laureati. La stessa cosa vale per chi sceglie lettere o storia dell’arte. Non molto diversa la situazione degli psicologi: riescono a trovare un lavoro, ma solo il 10 per cento di loro diventa uno psicologo professionista. In generale, i contratti precari restano troppo alti e gli impieghi sono spesso di livello inferiore al diploma o alla laurea. Si tratta dunque di rivedere la formazione degli studenti per cercare di adattarla alla situazione del mercato del lavoro.
L’altro problema riguarda l’insegnamento delle discipline rare, come certe lingue, ma anche l’urbanismo o l’antropologia. In certi casi, ci sono pochi insegnanti rispetto agli studenti, mentre in altri casi c’è il problema opposto, cioè scarsità di allievi. Secondo il ministero, una disciplina ha bisogno di almeno 400 ricercatori per sopravvivere. Una dozzina sono già state recensite come in pericolo: dalla teologia a certe lingue. Tra le più vulnerabili, ovviamente, quelle morte, come il greco e il latino, che attirano un numero sempre più basso di studenti. Ma anche le lingue germaniche, slave e orientali sono in difficoltà in molte università. E il contesto mondiale influenza moltissimo le scelte dei giovani: lo studio del coreano è in piena ascensione, ma ciò si fa a scapito di altre lingue, come il vietnamita.
Per riuscire a mantenere delle cattedre, alcune università non molto lontane geograficamente hanno sperimentato una messa in comune delle strutture. Il dicastero sta preparando una cartografia delle discipline rare per aiutare le facoltà a raggrupparsi, ma anche per creare un fondo che aiuti finanziariamente l’insegnamento di quelle materie per cui ci sono pochi studenti.
È un progetto che chiederà molto tempo. La scelta dell’università, infatti, arriva spesso prima dell’ingresso effettivo in facoltà: la scelta del liceo è infatti determinante per i ragazzi. E oggigiorno la massa preferisce il ramo scientifico e quello socioeconomico piuttosto che quello letterario-umanistico. Quest’ultimo continua ad avere la reputazione di essere una fabbrica di disoccupati e soprattutto sembra destinare i giovani a un solo mestiere: l’insegnamento. Una professione che suscita sempre minori vocazioni, come dimostrano i concorsi di abilitazione: spesso, i candidati sono meno dei posti offerti. E’ uno dei tanti sintomi della crisi della scuola, comune a tanti paesi europei: l’assenza di sbocchi professionali crea squilibri che si prolungano per anni. Anche per questo il governo giudica urgente ricreare un legame forte fra gli studi umanistici e la formazione professionale.

Corriere 16.5.13
MediaLibraryOnline nasce il prestito interbibliotecario formato elettronico
di Alessia Rastelli


Desiderare un libro e poterlo leggere nel giro di pochi minuti (e pochi clic), anche se quel volume si trova a molti chilometri di distanza. Accadrà da ottobre grazie a un servizio di prestito interbibliotecario digitale messo a punto da MediaLibraryOnline (Mlol), network di 3 mila biblioteche pubbliche per la condivisione dei contenuti elettronici. Il progetto — realizzato in collaborazione con Edigita, la piattaforma di distribuzione degli ebook di Feltrinelli, Rcs e Gems — viene presentato oggi a Torino al Salone del Libro. «Il sistema, una novità a livello internazionale, si basa su un algoritmo» annuncia Giulio Blasi, amministratore delegato di Horizons Unlimited, la società che ha ideato MediaLibrary. «La biblioteca — spiega — riceve online la richiesta dell'utente, se non possiede l'ebook lo ordina, lo ottiene istantaneamente da un'altra biblioteca e può darlo in prestito. Per i lettori vuol dire un'offerta molto più ampia e immediata». Dal punto di vista pratico, invece, non cambia nulla rispetto al prestito digitale gestito da MediaLibrary fin dal 2011: l'ebook è in mano a un utente alla volta per 14 giorni, poi scompare. Unica eccezione, tra le piattaforme che aderiscono al network, è BookRepublic, i cui titoli sono visibili senza scadenze. In Italia i numeri del prestito digitale sono incoraggianti. Secondo MediaLibrary alla fine del 2012 gli utenti che partecipano sono 101.630, il 164 per cento in più dell'anno precedente. Inoltre, nonostante il mercato italiano degli ebook sia ancora piccolo, la percentuale di biblioteche che offrono libri elettronici è del 44 per cento, contro il 4 e il 16 per cento, ad esempio, di Francia e Germania. Merito, sottolinea Blasi, anche degli editori, «nostri partner nello sperimentare nuovi modelli». Tra di loro, Giunti. Che a Torino annuncia un accordo proprio con MediaLibrary per far entrare nelle biblioteche, entro l'estate, i suoi ebook. Pay-per-view, la formula scelta. «Alla biblioteca — spiega Blasi — l'editore non vende il singolo titolo ma un pacchetto di download dall'intero catalogo, da offrire poi agli utenti. Per questi ultimi, significa più libri disponibili, perché il prestito diventerà accessibile a più lettori in contemporanea».

Corriere 16.5.13
Stati Uniti, 1971: con «Gutenberg» il primo libro elettronico
Ma il vero cambiamento è il Kindle
di Alessia Rastelli


Stati Uniti, 1971. Michael Hart, studente universitario e futuro informatico e scrittore, lancia per la prima volta l'idea di trascrivere in versione elettronica i libri stampati. La Dichiarazione d'indipendenza americana diventa il primo titolo digitale del «Progetto Gutenberg». E il padre di quello che poi si sarebbe chiamato ebook: electronic book, un libro racchiuso in un file, che oggi si può leggere su tutti gli schermi, dal pc al cellulare, al tablet all'ereader. Nominato Guntenberg — dall'inventore dei caratteri mobili che avviò la rivoluzione della stampa moderna — il Progetto di Hart dura ancora oggi. Ispirato dall'ideale di diffondere la cultura, è arrivato a digitalizzare, grazie al lavoro dei volontari, oltre 42 mila opere: testi non coperti da diritto d'autore e messi in circolazione gratuitamente. Nessuna traccia quindi, ancora oggi, dell'ebook inteso come un prodotto editoriale e commerciale, né dello stretto legame con un supporto tecnologico, che diventa invece imprescindibile per l'affermazione del libro elettronico sul mercato. «La prima prefigurazione di un oggetto informatico pensato per leggere i libri fu dell'americano Alan Kay, nel 1972» ricostruisce Gino Roncaglia, docente di Informatica umanistica all'università della Tuscia e autore de La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro (Laterza, 2010, pp. 304). La realizzazione pratica, però, deve attendere la fine degli anni Novanta. «Quelli della cosiddetta "falsa partenza" — spiega Roncaglia — quando l'ebook iniziò a essere percepito come un prodotto commerciale e nacquero i primi dispositivi per la lettura elettronica». SoftBook e Rocket eBook, tra gli altri, i modelli. Che però non sfondarono. La svolta porta la data simbolica del 2007, quando venne lanciato il Kindle. «Ovvero il primo ereader di successo — sottolinea Roncaglia —. Soprattutto perché poteva già contare sulla forza dello store di Amazon, inaugurando il principio dell'ecosistema della lettura». Lo stesso attorno a cui — arricchito anche dai social network e dalle piattaforme di self-publishing — si muovono oggi i principali protagonisti dell'editoria digitale.

il Fatto 16.5.13
Abbado torna alla guida dei Berliner Philarmoniker

Claudio Abbado torna alla guida dei Berliner Philharmoniker con tre concerti a Berlino il 18, 19 e 21 maggio che saranno sul web all'indirizzo www.digitalconcerthall.com