sabato 18 maggio 2013

l’Unità 18.5.13
«Fiom in piazza: giovani, operai e lavoro»
di Massimo Franchi
qui

l’Unità 18.5.13
«Assieme operai e giovani. Il lavoro torni al centro»
«Nel corteo la parte migliore del Paese, il Pd non si imbarazzi a partecipare»
«La tenuta sociale del Paese è a rischio, in piazza anche per una nuova politica economica»
Intervista a Maurizio Landini
di Massimo Franchi


ROMA Landini, stamattina tornate a San Giovanni come il 16 ottobre 2010 e il 9 marzo 2012. Cosa è cambiato?
«Rispetto alle altre manifestazioni questa fa i conti con un peggioramento secco della crisi. Il sistema industriale è a rischio, la disoccupazione è aumentata, le modifiche legislative hanno impoverito e reso più precario il lavoro. Per questo la nostra parola d’ordine è riunificare: di fronte alla frantumazione sociale dobbiamo puntare sull’unione dei lavoratori, tutelati e precari, e delle generazioni, giovani e meno giovani, per poter contare di più e cambiare il sistema rimettendo al centro il lavoro. In questo senso la Fiom e la Cgil devono tornare ad offrire un terreno di riunificazione e mettere in condizioni le persone di decidere sul loro destino». E invece non si vede la fine del tunnel della crisi...
«Secondo noi è a rischio la tenuta sociale del Paese. Per questo la prima cosa da fare è evitare che chiudano le fabbriche, favorire i contratti di solidarietà difensiva ed espansiva. Poi va subito lanciato un piano straordinario di investimenti pubblici e privati con una nuova politica industriale, una manutenzione straordinaria del territorio e un piano per una nuova mobilità. La seconda è un cambiamento netto delle politiche economiche degli ultimi governi».
Ma il governo Letta è in grado di garantire il «cambiamento reale» che chiede? «Le soluzioni politiche trovate per creare questo governo non sono quelle che le persone chiedevano con il voto. Dopo di che se questo governo non è in grado di produrre una discontinuità con le politiche di Berlusconi e Monti, il suo esito sociale e politico rischia di essere già scritto».
Intanto però il governo ha finanziato con un miliardo la cassa in deroga. Troppo poco?
«Credo di sì e lo vedremo nei prossimi mesi. Bisogna però andare oltre l’emergenza, cominciare a disegnare tutele universali che siano estese a tutti, a partire dai precari. Noi proponiamo di estendere a tutti i lavoratori la cassa integrazione con il contributo, come avviene per la ordinaria, di imprese e lavoratori. Poi c’è il tema del reddito di cittadinanza che deve permettere ai figli degli operai di poter studiare e ai precari di avere una vita dignitosa».
Il ministro Giovannini punta a rivedere la cassa in deroga. Può essere un’occasione utile per affrontare il tema?
«La cassa in deroga non è un diritto, è uno strumento straordinario per affrontare la crisi. Noi proponiamo di armonizzare Aspi e assegno di disoccupazione, ma a differenza della cassa integrazione, queste tutele devono essere a carico della fiscalità generale». Solo alcuni esponenti del Pd saranno in piazza. Come valuta la loro presenza? «Il Pd dovrebbe avere meno imbarazzi sapendo che alla nostra manifestazione ci sarà la parte migliore del Paese per difendere legalità e Costituzione e non a difendere interessi personali». Nei giorni scorsi avete denunciato i costi proibitivi dei treni e il rischio che ormai possano manifestare solo i ricchi... «Sì e lo ribadiamo, si tratta di un problema di democrazia: manifestare è un diritto e non può diventare proibitivo per gli operai. Detto questo la manifestazione è totalmente autofinanziata e nonostante tutto questo i segnali che abbiamo sono positivi e sono moderatamente ottimista sul fatto che piazza San Giovanni sarà piena anche oggi». Passiamo al fronte sindacale. Mercoledì sarà al congresso della Fim Cisl e si confronterà con gli altri segretari di categoria per la prima volta da quando è stato eletto. Un segnale importante?
«Sono stato invitato e interverrò. In questa settimana poi è stato firmato unitariamente il contratto delle coop e siamo vicini a farlo per la Confapi con miglioramenti importanti rispetto al contratto nazionale separato, come il pagamento dei primi 3 giorni di malattia. Credo che possano essere un esempio far ripartire un’azione comune che deve fondarsi sulle regole democratiche». Intanto da Federmeccanica arrivano aperture. Il presidente uscente Ceccardi punta a superare il sistema del terzo di seggi Rsu ai sindacati firmatari gli accordi. Ma invece pare che Confindustria blocchi l’accordo con Cgil, Cisl e Uil perché non vuole far votare i lavoratori... «È dal marzo 2012 che la Fiom ha proposto a Federmeccanica, Fim e Uilm di superare gli accordi separati. Le imprese ci dissero che dovevano attendere sviluppi interni. Se c’è una nuova possibilità, siamo contenti. Per quanto riguarda l’accordo sulla rappresentanza per noi è necessario che il testo fissato da Cgil. Cisl e Uil sia parte integrante dell’accordo. La certificazione della rappresentanza in base ai voti e agli iscritti che permetta a tutti i sindacati sopra il 5 per cento di partecipare alle trattative sul contratto e l’approvazione dell’accordo attraverso un voto certificato della maggioranza dei lavoratori interessati al contratto nazionale. Non sono accettabili né sanzioni né limitazioni del diritto di sciopero né che Confindustria rifiuti di vincolare l’accordo al voto dei lavoratori».

il Fatto 18.5.13
Epifani vede D’Alema: sostegno all’esecutivo

SOSTEGNO al governo, ma anche una caratterizzazione forte del Pd per evitare di farsi dettare l'agenda da Berlusconi. È il doppio binario sul quale si sta muovendo il neo-segretario del Pd Guglielmo Epifani che in questi giorni sta vedendo tutti i 'big' del partito per un confronto sia sul fronte interno che del governo. Vanno in questa chiave le due iniziative forti che il segretario annuncia che il Pd prenderà a breve, una sul fronte del lavoro e dell’occupazione giovanile, l’altra sul tema (spinoso per il partito) della legge elettorale. Una “scaletta” della quale, secondo quanto viene riferito, avrebbe parlato anche nel colloquio avuto oggi con Massimo D’Alema. L’ultimo di una serie di incontri, tra gli altri, con Pier Luigi Bersani, Walter Veltroni e Matteo Renzi. LaPresse

il Fatto 18.5.13
Chi pensa che cosa di Epifani
risponde Furio Colombo

Caro Furio Colombo, che cosa pensi di Epifani come nuovo segretario del Pd?
Emilio

NE PENSO BENE, nel senso della persona. Ne penso bene nel senso di sapersi sedere a un tavolo e aprire una riunione rendendosi conto di dove sei, con chi sei e perché. In altre parole, penso bene di Epifani, ma non del Pd. Un grande partito a cui un’intera parte del Paese dà (e ha rinnovato) fiducia, non può farsi trovare senza una linea di successione pensata e preparata in caso di incidente di percorso (che poi è la norma, nella vita politica, persino in tempi più calmi di questi). Contrapposizioni e contrasti sono di casa e chi fa politica ci pensa tutto il tempo. E allora si capisce che il vero problema del Pd è di non avere mai discusso, e non avere mai deciso, sulla propria identità. In questo vuoto, in un partito senza passato e senza memoria, non poteva che essere immensamente difficile indicare la “persona giusta”. Giusta per che cosa? Chi ha vissuto vicino al Pd o dentro al suo gruppo parlamentare, ha notato una costante e disorientante volontà di non essere mai esistiti prima. È stata come una costante cancellazione del volto, in uno strano gioco che immaginava il futuro legato a una condizione: essere altro. Di giorno in giorno veniva deciso che non sei stato comunista, non sei stato socialista, non sei stato socialdemocratico, non sei “giustizialista”, sei equidistante fra lavoro e impresa, sei equidistante fra scuola pubblica e scuola privata, provi un nuovo interesse per le privatizzazioni, i tagli alla spesa pubblica (purché non politica), e lo slogan coraggioso “la cultura non si mangia”. È un partito grande, a giudicare dall’ultimo voto (anche se lo si aspettava più grande). Ma è un partito vuoto. Ha messo sul marciapiede tutti i vecchi mobili (ma solo gli ex marxisti; gli ex democristiani si sono tenuti tutto, anche i mobili da sacrestia) ma, forse per non emulare Anna Finocchiaro, non c’è stata alcuna visita all’Ikea (se c’è un’Ikea per un nuovo arredamento politico). E così, nel momento cruciale, qualcuno ha gridato “C’è un medico in sala?” Si è fatto avanti Epifani, che almeno era già stato alla guida di una grande organizzazione ed è tecnicamente competente a guidare. Ma dove?

Corriere 18.5.13
La diffidenza per il leader
di  Giovanni Belardelli
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il Fatto 18.5.13
Emilio Fede choc: “Io voto a Roma e darò il voto al mio amico Ignazio Marino. Lo conosco bene, insieme abbiamo fatto una battaglia comune contro il manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto”

il Fatto 18.5.13
Il partito di sinistra che non c’è
di Mauro Chiostri 

In Italia c’è una larga fetta della popolazione che si definisce di sinistra. Tutta questa gente non è adeguatamente rappresentata: mi sembra palese che nell’attuale parlamento una forza di sinistra è assente: il Pd, tra le sue molte anime sta andando verso l’autodistruzione a causa della sua ambiguità politica; il M5S non è un movimento di sinistra, basta ascoltare i comizi di Grillo per rendersene conto. Ci sono, fuori dal parlamento, formazioni dichiaratamente di sinistra, ma a causa dell’incapacità di rinnovarsi e dell’eccessivo frazionamento non catturano il consenso degli elettori. Se in questo Paese l’impresentabile destra asservita al Caimano continua ad avere il potere in mano è la conseguenza del vuoto politico determinato dall’assenza di un’alternativa strutturata e credibile. É irrimandabile la necessità di gettare a mare tutto il ciarpame residuale della vecchia politica e dare vita a un nuovo soggetto che faccia proprie, attualizzandole, le istanze del “popolo della sinistra”.

il Fatto 18.5.13
Il giorno in cui Bersani non rinunciò al pre-incarico
Dal Colle nessun passaggio formale per revocarlo
Lo strano buio in cui finì tutto
di Wanda Marra

“Ho riferito a Napolitano il lavoro di questi giorni, che non ha portato a un esito risolutivo”. Era il 28 marzo, giovedì santo, quando Pier Luigi Bersani, nella Sala alla Vetrata del Quirinale, informava i giornalisti di non essere riuscito a trovare le condizioni per formare un governo. Poche parole, la postura curva, un’espressione scurissima. Raggelata. Nessuna domanda consentita. Un minuto dopo usciva il segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra: Napolitano si è riservato di “prendere senza indugio iniziative che gli consentano di accertare personalmente gli sviluppi possibili”. Un’altra comunicazione secca. Nessuna apparizione di Napolitano. Subito dopo una nota dell’ufficio stampa del Pd: “Bersani non ha rinunciato”.
MAI USCITA di scena fu più confusa, più sfumata, più sfilacciata. Bersani resta lì, con il suo pre - incarico ad aspettare. Il giorno dopo Napolitano fa le sue consultazioni lampo. In serata vede la delegazione del Pd: Enrico Letta, nella veste di vice - segretario, e i capigruppo, Zanda e Speranza. Chi c’era racconta che in quel colloquio del segretario congelato nessuno fece cenno. Nessuno chiese e nessuno chiarì quali dovevano essere le sorti di Bersani. Alla fine della giornata, Napolitano non esce. Deve riflettere, fa sapere l’ufficio stampa. Comincia così una delle lunghe notti che hanno portato alla sua rielezione. In tarda serata dal Quirinale vengono fatte trapelare voci sulle sue dimissioni. La drammatizzazione della crisi è ai livelli massimi. Si diffonde anche la notizia di una telefonata di Draghi. Poi, nella tarda mattinata del sabato santo esce nella Sala alla Vetrata, più vispo di prima: “Posso fino all’ultimo giorno concorrere almeno a creare condizioni più favorevoli allo scopo di sbloccare una situazione politica irrigidita”. Non se ne va. E dunque, nel frattempo va bene il governo Monti. Poi, via con la nomina dei saggi. Quelli che di fatto scrivono il programma del governo oggi presieduto da Letta. Su Bersani, ancora una volta, neanche una parola. Nè tanto meno un passaggio formale.
L’ex segretario del Pd ieri smentisce la notizia riportata dal Fatto del colloquio in cui D’Alema gli suggerì di farsi indietro a favore di Rodotà premier. Notizia ripresa dall’Unità. Dice Bersani: “Non si capisce come possa circolare la notizia a proposito di un mio rifiuto dell’ipotesi di Rodotà premier che mi sarebbe stata proposta. È un passaggio che non è mai esistito. Ho sempre detto che non avrei mai impedito la nascita di un governo di cambiamento se l’ostacolo fosse stato il mio nome ”. Affermazioni generiche: del colloquio con D’Alema non fa cenno. Piuttosto che smentire, Bersani potrebbe spiegare che cosa successe davvero in quei giorni. Perché non gli venne mai revocato il preincarico? Quali erano davvero gli accordi presi con Napolitano? Un mistero, uno dei tanti. Commenta Arturo Parisi: “Non ci fu nulla di normale in quei giorni”. Neanche il 22 marzo, in occasione del pre-incarico, i passaggi erano stati rituali. Era uscito prima Marra con il comunicato, poi lo stesso Napolitano, a specificare i confini entro cui il governo si poteva o non si poteva fare. Con specifico riferimento alle “larghe intese” troppo difficili: un ammissione con rimpianto.
E dopo? Nulla di tutto questo. Commentò Stefano Ceccanti, costituzionalista vicino al Presidente in un tweet: “Il bilancio delle consultazioni porta con sè in modo chiaro il dichiarare esaurito il pre-incarico di Bersani, sia pure implicitamente”. Spiega adesso: “La nomina dei saggi di fatto fu il superamento di Bersani”. Di fatto. Ma possibile che in passaggi istituzionali così delicati ci possano essere situazioni “di fatto”? Racconta chi ha vissuto da protagonista quella fase che tutto rimase nel non detto e nell’ambiguità. Una sorta di via d’uscita che voleva essere “onorevole” per Bersani. I fedelissimi dell’ex segretario oggi dicono che “forse” Napolitano telefonò all’altro. “Forse”. Ma forse non ci furono neanche comunicazioni confidenziali chiare tra i due. Fatto sta che sia l’ex leader democratico che i suoi fedelissimi si mossero nella convinzione che un governo con Bersani premier fosse ancora possibile. E con questo obiettivo cercarono di eleggere un Presidente che potesse conferirgli un altro incarico. O confermargli quello mai ritirato.
NELLA STORIA della Repubblica italiana c’è un unico precedente: il pre-incarico dato da Scalfaro a Romano Prodi, dopo che il suo governo era caduto per mano di Bertinotti. Fu lo stesso Prodi a rinunciare: “Non ci sono le condizioni”. E toccò a D’Alema. Affermazioni chiare, passaggi definiti. Nel non detto del Presidente e dell’ex segretario si consumò la rottura del Pd durante l’elezione del Colle. Il finale è noto. Bersani in ginocchio da Napolitano per pregarlo di accettare la rielezione e la condizione posta dall’altro: il governo di larghe intese. Quello che il Colle voleva dall’inizio.

il Fatto 18.5.13
Il “premio” è incostituzionale
La Cassazione boccia il Porcellum. Ma il centrodestra non vuole abrogarlo
Verdetto della Consulta in sei mesi
di Sara Nicoli

Per la Cassazione l’attuale legge elettorale, il Porcellum, è incostituzionale in più punti. E così la creatura di Roberto Calderoli torna sotto la lente della Corte costituzionale provocando un’accelerazione del dibattito sulla riforma che si attende da otto anni e tre elezioni. Il ministro Quagliariello sembra intenzionato a ottenere una revisione del premio di maggioranza, ma d'accordo con il Pdl, è contrario a far votare dal Parlamento una nuova legge elettorale prima del via libera definitivo alla riforma complessiva delle istituzioni. La Cassazione, però, ha provocato una valanga ormai difficile da contrastare. Con l’ordinanza interlocutoria, depositata ieri, ha dichiarato “rilevanti e non manifestamente infondate” alcune “questioni di legittimità costituzionale” sollevate in un ricorso sottoscritto da 27 persone, privati cittadini, guidate dall'avvocato Aldo Bozzi. In sostanza, ci sono parti del Porcellum che incidono, in modo diverso, sulle modalità d'esercizio della sovranità popolare, garantite dall'articolo 1 (comma 2) e dall'articolo 67 della Costituzione. La prima questione riguarda le liste bloccate. La Cassazione avanza “dubbi” sul meccanismo di “un voto che non consente all'elettore di esprimere alcuna preferenza”. Nelle liste, infatti, l’attribuzione della rilevanza dell'ordine di inserimento dei candidatideterminaun“concreto ed effettivo vincolo di mandato dell’eletto nei confronti del partito politico di riferimento” e questo è in contrasto con l'articolo 67 della Costituzione. Ma è soprattutto sul secondo punto, il premio di maggioranza in entrambi i rami del Parlamento,adessereconsiderato in forte odore di incostituzionalità. Dice la Cassazione: il “meccanismopremiale,incentivandoil raggiungimento di accordi tra le liste al fine di accedere al premio, contraddice l'esigenza di assicurare governabilità, provocando una alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio è in grado di eleggere gli organi di garanzia che restano in carica per un tempo più lungo della legislatura”. Questo perché essendo “il premio diverso per ogni Regione il risultato è una sommatoria casuale dei premi regionali che finiscono per elidersi tra loro e possono addirittura rovesciare il risultato ottenuto dalle liste e coalizioni su base nazionale”. Ora che succede? La Consulta si troverà davantiadunosnodoimportante, quello di non poter lasciare il Paese senza una legge elettorale, visto che l'annullamento, anche in toto, del Porcellum non farebbe rivivere automaticamente il Mattarellum. È quindi più probabile che la Corte si limiti ad annullare singoli punti della legge, ma in questo contesto,itempimedid’intervento sono di sei mesi. Il Pdl, se potesse, non cambierebbe una virgola del Porcellum. Ma messo di fronte alla necessità di intervenire cercherà di limitare i danni (è parola di Brunetta): va bene cambiare il premio di maggioranza al Senato e prevedere una soglia minima affinché il premio stesso scatti, ma nulla di più, preferenze comprese. Invece, il Pd con Anna Finocchiaro, si appresta a depositare in Senato un ddl per il ritorno al Mattarellum.Il Porcellum fino a oggi ha favorito sia Pd che Pdl e poiché entrambi gli azionisti di maggioranza non si fanno molte illusioni sulla tenuta del governo, è allo studio un compromesso per un eventuale ritorno a breve alle urne. Ma le posizioni restano distanti. Mercoledì ci sarà un vertice di maggioranza per aprire il dossier riforme.

Repubblica 18.5.13
"La Convenzione umilia il Parlamento così si blinda solo una oligarchia"
Zagrebelsky: non c'è pacificazione senza verità e giustizia. "L'art.138 prevede un procedimento lineare per mutare la Carta. E, invece, si vuole una procedura blindata, totalmente estranea alla Carta. E gli esperti sono solo delle maschere"

di Carmelo Lopapa
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Repubblica 18.5.13
Il Parlamento deformato
di Gianluigi Pellegrino


OGNI giorno che resta in vita il Porcellum è un giorno rubato alla democrazia. Ora è scolpito anche in una decisione della Corte suprema di Cassazione emessa in nome del popolo italiano. Ma gli alti giudici, nel provvedimento anticipato ieri da Liana Milella, hanno detto persino di più. L’attuale Parlamento è deformato nella sua composizione da una norma che nelle ultime elezioni ha dato i suoi frutti più velenosi. Il Pd e Sel non solo hanno avuto alla Camera un premio di maggioranza abnorme, ottenendo il 55 per cento dei seggi pur bocciati da più di due italiani su tre, ma poi si sono anche separati sciogliendo quella coalizione che aveva permesso di accedere al premio.
Con Sel che è andata all’opposizione non condividendo un governo che forse è di necessità, ma certamente è in frontale contrasto con il voto chiesto agli elettori. Berlusconi dovrebbe lamentarsene se avesse minimamente a cuore non solo la democrazia ma anche il suo stesso partito. Ma lui pensa solo a se stesso e il Porcellum resta il sistema più funzionale alla sua strategia di breve, medio e lungo periodo anche per il salvacondotto che potrebbe ottenere nella prossima legislatura.
I giudici inoltre non limitano la censura al premio di maggioranza, ma sottolineano come si esponga all’incostituzionalità anche la parte più intollerabile per il senso comune, le liste bloccate. E condannano espressamente la modifica del sistema per collegio previsto nel Mattarellum che invece garantisce il rispetto della Costituzione: elezione dei parlamentari “libera” e “diretta” da parte dei cittadini.
La Cassazione evidenzia ancora (con un specifico passaggio della motivazione) che un parlamento così deturpato nella sua composizione rischia di delegittimare anche la scelta delle autorità di garanzia che hanno funzioni e durata ben più ampie delle legislatura. La Corte ovviamente non cita condotte e circostanze ma il riferimento esplicito è alla elezione del Presidente della Repubblica, dei componenti della Consulta, del Csm e delle autorità indipendenti. Il Parlamento ha compiti troppo alti per poter continuare a convivere con vizi così clamorosi nella sua composizione, rifiutandosi pure di emendarli.
A questo punto non c’è più spazio per infingimenti e nemmeno per pezze a colori come quelle che ha da ultimo ipotizzato il governo dopo il ritiro in abbazia: e cioè limitare l’intervento urgente ad una minimale manutenzione del Porcellum inserendo semplicemente una soglia per il premio di maggioranza. Rinviando il resto a future riforme tutte di là da venire.
Sarebbe un grave arretramento persino rispetto agli impegni assunti da Letta nel suo discorso di insediamento. E oggi sarebbe una pecetta del tutto insufficiente anche a superare le obiezioni sollevate dalla Cassazione. Resteremmo clamorosamente esposti ad una censura della Consulta senza precedenti. Rinviare poi sarebbe insieme miope
e in contrasto con specifiche direttive europee. Miope perché abrogare oggi il Porcellum darebbe al governo la legittimazione necessaria per poter fare quanto di difficile e utile serve, prima di tornare al voto. Al contrario sarebbe esiziale cedere alla tentazione di traccheggiare per tirare a campare.
Il Consiglio d’Europa del resto ha invitato espressamente a non cambiare le leggi elettorali troppo a ridosso del voto: rinviare ci esporrebbe così ad un’ulteriore censura comunitaria.
Per questo anche al Pd è chiesto qualcosa di più. Non basta proporre disegni di legge e poi farsi scudo del niet di Berlusconi, come avvenuto sullo scempio della concussione che in realtà andava bene a tutti. Deve pretendere, il Pd, che il governo ripristini subito il Mattarellum anche con decreto legge e con tanto di voto di fiducia. Subito, con la stessa forza con cui Berlusconi ha preteso l’intervento sull’Imu. Altrimenti i democratici facciano sul punto blocco con i grillini senza se e senza ma.
Non è una delle cose da fare. Ma la precondizione di agibilità democratica del paese e di credibilità minima di forze politiche che vogliano dimostrare di avere a cuore, almeno un po’, l’interesse nazionale. E, a ben vedere, anche la loro stessa sopravvivenza.

L’Huffington Post 18.5.13
Fabrizio Barca: il mio Pd. Un partito palestra, organizzazione flessibile dei cittadini, che capovolga la piramide decisionale

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Repubblica 18.5.13
Stato-mafia, Napolitano citato come teste
La domanda su “indicibili accordi” e l’ombra di Scalfaro dietro la trattativa
di Attilio Bolzoni


SIGNOR Presidente, lei ha saputo dettagli di quegli «indicibili accordi»? Secondo lei, a cosa alludeva il suo consigliere giuridico? Poche righe di una lettera scritta da Loris D’Ambrosio a Giorgio Napolitano – datata giugno 2012 – spingono i magistrati di Palermo a chiamare sul banco dei testimoni il Presidente della Repubblica. Non sembra un’altra puntata della «guerra» fra la procura siciliana e il Quirinale. Al Capo dello Stato vorrebbero chiedere un ricordo, magari avere una conferma.
INSERISCONO nella lista testi un Capo dello Stato ma vogliono scoprire se un altro Capo dello Stato aveva avuto un ruolo in quel patto di vent’anni fa con i Corleonesi. In realtà, è il nome di un altro presidente della Repubblica che rischia di finire fra le pieghe del processo sulla trattativa fra Stato e mafia. È quello di Oscar Luigi Scalfaro.
Cerchiamo di ricostruire con ordine quest’altro incastro di un’inchiesta che, per la prima volta, vede insieme come imputati boss di mafia e ministri della repubblica. Niente c’entrano quelle intercettazioni (poi distrutte) che tanto clamore avevano sollevato un’estate fa. L’accusa che vuole dimostrare l’esistenza della trattativa punta piuttosto a scoprire cosa è accaduto nelle stanze della Presidenza della Repubblica nel 1993, quando qualcuno decise che ad alcune centinaia di boss bisognava alleggerire il carcere duro. Chi voleva questo? Chi si adoperò per cancellare il 41 bis?
Per capirlo fino in fondo — è l’opinione dei magistrati — serve anche la testimonianza di Napolitano, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva reso pubblica la lettera di dimissioni (respinta) del suo consigliere D’Ambrosio dopo l’infuocata polemica sulle sue conversazioni intercettate con l’ex ministro Nicola Mancino e dopo la morte per infarto dello stesso consigliere giuridico. In quella lettera — divulgata da Giorgio Napolitano e pubblicata sul volume “La Giustizia. Interventi del Capo dello Stato e Presidente del Csm 2006-2012” c’è un passaggio che ha attirato l’attenzione dei pm e che li ha convinti a chiedere la testimonianza del presidente nel loro processo.
Il passaggio è questo. Scriveva D’Ambrosio a Napolitano il 18 giugno scorso, riferendosi a un suo testo richiestogli da Maria Falcone: «Lei sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi — solo ipotesi — di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». Un timore, scriveva il consigliere. E aggiungeva poi: «Non Le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini».
Loris D’Ambrosio aveva dunque qualche dubbio su ciò che accadde fra il 1992 e il 1993. I magistrati vorrebbero chiedere a Napolitano se gli avesse mai riferito altro, se il suo collaboratore si fosse confidato. Anche perché, alcuni di quegli sfoghi e alcune di quelle perplessità, loro le avevano ascoltate in diretta nelle telefonate che lui riceva dall’ex ministro Mancino. Su due vicende, in particolare. Una riguardava la nomina al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Francesco Di Maggio e gli interventi intorno a un 41 bis più morbido per fermare le stragi di mafia. L’altra era sul misterioso suicidio nel carcere di Rebibbia di Antonino Gioè, uno degli assassini di Capaci.
Nella prima vicenda emerge chiaramente il nome dell’ex Presidente Scalfaro. È lo stesso D’Ambrosio che lo fa parlando con Mancino: «C’erano due manovre a tenaglia... Questo era un discorso che riguardava l’alleggerimento del 41 bis: Mori (il generale dei carabinieri, ndr), polizia, Parisi (l’ex capo della polizia, ndr) Scalfaro e compagnia; per la parte invece dei colloqui investigativi, un po’ come dire sconsiderati, c’erano Di Maggio, Mori e compagnia». Cosa voleva dire il consigliere giuridico? Ascoltato nel maggio del 2012 dai pm, ha risposto: «Sono mie valutazioni... non so se sia andata così». Sulla nomina di Francesco Di Maggio al Dap — sempre in quelle telefonate fra Mancino e D’Ambrosio — il consigliere, che al tempo era vicecapo di gabinetto del Guardasigilli Giovanni Conso, svelava all’ex ministro di conoscere alcuni restroscena. Diceva: «Uno dei punti centrali di questa vicenda comincia a diventare la nomina di Di Maggio... Ecco, diventa dirigente generale attraverso un decreto del presidente della Repubblica, no? Ora io ho assistito personalmente a questa vicenda... Ricordo chiaramente il decreto...». Ascoltato, D’Ambrosio poi ha precisato: «Non ho mai saputo né dallo stesso Di Maggio, né da altri, attraverso quale percorso si sia pervenuti alla nomina».
L’altro fatto. Riferisce D’Ambrosio a Mancino: «Questa storia del suicidio in cella di Gioè, secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso, non è mica chiara a me questa cosa…E sì, perché secondo me questa cosa di Gioè che improvvisamente viene arrestato, si suicida... non mi suona bene...». Rispose ancora D’Ambrosio un anno fa ai magistrati: «Sono valutazioni del tutto personali, non ho nessuna certezza, nessun dato obiettivo. Però, ho come dire la preoccupazione... questo suicidio mi ha turbato nel ‘ 93 e mi turba tuttora».
Erano questi gli «indicibili accordi» o gli «episodi che mi fanno riflettere» ai quali si riferiva D’Ambrosio? Aveva detto qualche altra cosa al presidente Napolitano? È quello che vorrebbero sapere i magistrati che indagano sulla trattativa.

Repubblica 18.5.13
Orfini: “Il candidato dei Giovani Turchi è Cuperlo. Il congresso si deve fare a settembre e con primarie aperte”
“Chiamparino sbaglia, ricetta superata non serve flessibilità ma meno precarietà”
di G. C.


ROMA — «Capisco che Prodi sia amareggiato, ma deve restare e aiutarci a ricostruire il Pd. Ora con l’elezione di Epifani alla guida del partito è stata fermata la caduta... ». Matteo Orfini, leader dei cosiddetti “giovani turchi”, la sinistra democratica, lancia però l’allarme: «Stiamo attenti a non trasformare il congresso in una sfida all’Ok Corral». E boccia le proposte avanzate su Repubblica da Sergio Chiamparino, pronto a correre per la segreteria: la sua è una ricetta superata.
Orfini, già si moltiplicano i candidati in vista del congresso che sarà a novembre, tra sei mesi. Potreste appoggiare Chiamparino?
«Intanto il congresso dovrebbe essere al più presto, non certo a novembre ma a settembre-ottobre. Devono essere previste primarie aperte».
Chiamparino non vi rappresenta?
«Ho apprezzato il garbo con cui l’ex sindaco di Torino è sceso in campo. Ha detto di volere un congresso che serva a confrontarsi sulla politica e a riunire il Pd: bene, è l’atteggiamento giusto. Però penso cose diverse e noi sosterremo una candidatura diversa. Chiamparino sbaglia, la sua è una lettura errata della crisi, una ricetta superata: non serve più flessibilità, ma meno precarietà».
Quindi voi chi candidate?
«Avremmo potuto candidare uno di noi, uno di quelli che hanno fatto battaglie sui temi della sinistra e del rinnovamento. Abbiamo fatto una scelta diversa, di sostenere cioè la candidatura di Gianni Cuperlo perché pensiamo che bisogna trovare un persona in grado di allargare il consenso e unire il Pd. Cuperlo ha questo profilo; parla sia al mondo dei nostri militanti, ma anche alla società civile rimettendo al centro la lotta alle disuguaglianze, l’idea di una società più aperta in cui corporazioni e oligarchie siano sconfitte».
Le diverse correnti del Pd stanno piazzando le loro bandierine?
«No. Stanno emergendo dei profili importanti, Cuperlo appunto, Chiamparino... un confronto che non può che fare del bene al partito. E mentre facciamo questa discussione, ci vuole un rapporto costruttivo con il governo Letta».
Un segretario eletto dai circoli?
«Sarei anche favorevole a un segretario eletto solo dagli iscritti ma in una situazione ordinaria, normale. Questo è un momento straordinario in cui va ricostruito il Pd, e per farlo bisogna coinvolgere una platea il più vasta possibile, quindi primarie aperte».
Fino a quando non farete chiarezza sui 101 “franchi tiratori” che hanno impallinato Prodi nella corsa al Colle, resterà una ferita?
«Quella è stata la pagina più nera della storia del Pd, lo specchio di un partito diventato federazioni di correnti che ha scaricato le tensioni sul voto per il presidente della Repubblica. Non essere riusciti a costruire un partito vero, questa è la nostra sconfitta, da qui dobbiamo ripartire».
Farete asse con Renzi in nome del rinnovamento?
«Il Pd è da costruire insieme, la presenza di Renzi in Assemblea chiude con le sciocchezze sulla scissione».
Ma lo votereste se si candidasse alla segreteria?
«Questa è un’ipotesi che non c’è, l’ha detto Matteo stesso».
Lo appoggereste per la premiership?
«Non parliamo di elezioni, c’è da sostenere il governo Letta».

il Fatto 18.5.13
Ideona del Chiampa, diventare craxiani

Il banchiere Sergio Chiamparino, proiettato nel futuro, vuole guidare il Pd con “un programma che una volta sarebbe stato definito lib-lab”. Già, ma oggi come lo chiamiamo? “Lib-Lab” è un libro del 1980 (autori Ugo Intini ed Enzo Bettiza), un manifesto ideologico del craxismo. Lo vendono usato su Ebay a euro 4,99. Nell'ottobre scorso gli ex socialisti del Pdl (Cicchitto, Brunetta e altri) proposero la ricetta Lib-Lab “per superare la crisi del partito”. Poi ci ha pensato B., sodale di Craxi. Il Pd ha già eletto segretario un ex craxiano, Guglielmo Epifani. Chiamparino, che se lo fanno capo si iscrive al Pd, è voluto per ora da Riccardo Nencini, che però è già segretario di un altro partito, il Psi. In tanta follia è chiaro che in nome della pacificazione non moriremo democristiani, ma forse craxiani.

Repubblica 18.5.13
Il 2 giugno Libertà e Giustizia in piazza “Difendere la democrazia costituzionale”


ROMA —Il 2 giugno Libertà e Giustizia manifesta per la Costituzione, la giustizia e la legge elettorale. L’appuntamento è alle 13.30 a Bologna, in piazza Santo Stefano. Al centro c’è il manifesto di Gustavo Zagrebelsky, “Non è cosa vostra”. Si tratta di una mobilitazione per costituire - si legge in una nota - una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto e per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale». Insieme a Zagrebelsky e a 30 associazioni ci saranno Stefano Rodotà, Salvatore Settis e Sandra Bonsanti. Interverranno Nando dalla Chiesa, Alessandro Pace, Lorenza Carlassare, Beppe Giulietti, Alberto Vannucci, Raniero La Valle e Giovanna Maggiani Chelli.

Corriere 18.5.13
Boldrini: riconoscere le unioni


ROMA — «Gli omosessuali devono veder riconosciute giuridicamente le loro unioni anche in Italia». Ad affermarlo è stata ieri Laura Boldrini, durante la cerimonia per la Giornata internazionale contro l'omofobia. La presidente della Camera ha aggiunto che il riconoscimento è necessario «anche perché avviene in 19 Paesi europei. È l'Europa che ce lo chiede, non solo in tema di rispetto di bilanci, ma sul versante dei diritti».
Secca la replica del senatore Pdl Carlo Giovanardi: «È una visione ristretta e parziale». «La strada da seguire è quella della Corte Costituzionale», ha scritto in una nota, «che distingue tra diritti della famiglia, società naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna, e diritti dei singoli nelle formazioni sociali che esprimono la loro personalità».
«È tempo di individuare degli strumenti giuridici per attribuire alle coppie di fatto, anche omosessuali, alcuni diritti sociali tradizionalmente collegati al matrimonio», è invece l'opinione dell'ex ministro Michela Vittoria Brambilla (Pdl). «Il modello tedesco della convivenza registrata — ha proseguito — può essere un buon punto di partenza per la discussione in Parlamento. Non sono d'accordo, invece, con ipotesi di apertura all'adozione da parte di coppie omosessuali. Il bambino, a mio avviso, ha bisogno di un padre e di una madre».
Commenti sulla proposta di Laura Boldrini sono arrivati anche da un altro membro del Pdl, il senatore Lucio Malan: «Dovrebbe spiegare quali diritti devono essere riconosciuti, quali costi comportano e a che doveri corrispondono. Se si fa politica attiva, bisogna parlarne ai cittadini. Altrimenti si fa demagogia».

Corriere 18.5.13
Femminicidio, il governo prende tempo


ROMA — Il governo prende tempo sulle misure da adottare per combattere la violenza sulle donne. Un fenomeno, come ha sottolineato nei giorni scorsi il ministro dell'Interno Angelino Alfano, che «interessa tutte le classi sociali» e ha raggiunto «statistiche allarmanti». Ieri durante il Consiglio dei ministri il tema non è stato affrontato perché la riunione è stata quasi interamente dedicata ai temi economici e ad alcune nomine. Nei prossimi giorni i ministri competenti dovrebbero iniziare a discutere una serie di provvedimenti. Il primo riguarderà la messa a punto di una strategia per l'estensione «degli ottimi risultati ottenuti dalla legge sullo stalking». Intanto la commissione Esteri della Camera esaminerà dalla prossima settimana la ratifica della convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza sulle donne e al femminicidio. Il provvedimento è previsto in Aula il 27 maggio per la discussione generale.

l’Unità 18.5.13
L’ultimo rapporto dell’Archivio Disarmo documenta il proliferare di un commercio nel quale l’Italia è in testa
La violenza armata uccide ogni anno 526mila persone. Un giro d’affari di 8,5 miliardi di dollari
Le armi leggere fanno più vittime dei missili
di Umberto De Giovannangeli


Armi leggere. Guerre pesanti. Una denuncia documentata, una radiografia aggiornata, inquietante. È ciò che connota il report 2012 dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo. Attualmente si stima che solo un terzo degli 875 milioni di armi leggere in circolazione nel mondo sia nelle mani di forze di sicurezza o privati legalmente autorizzati. Le autorizzazioni all’esportazione mondiale superano gli 8.5 miliardi di dollari, a fronte di un mercato illecito impossibile da calcolare.
I DATI
Le cifre parlano chiaro: ogni anno la violenza armata uccide circa 526.000 persone. In particolare le Salw (Small arms and light weapons) incidono sull’aumento dei conflitti interni ed a «bassa intensità», così come sulla perpetuazione di abusi nei Paesi dove sono presenti violazioni di diritti umani. In sostanza, il legame tra una proliferazione incontrollata di armi leggere e il trend crescente della violenza armata appare sempre più allarmante. Nel 2011 circa 1,2 miliardi di persone (un quinto della popolazione mondiale), vive in situazioni di estrema violenza armata (30% delle morti sul totale dei decessi). Tali Paesi sono: El Salvador, Iraq, Giamaica, Honduras, Colombia, Venezuela, Guatemala, Sud Africa, Sri Lanka, Lesotho, Repubblica Centro Africana, Sudan, Belize, e Repubblica Democratica del Congo.
A causa della facilità nel trasportarle, nel reperirle e nasconderle, le armi leggere si prestano ad un uso «improprio», che ne ha determinato la proliferazione. A tal proposito rimarca Maurizio Simoncelli, vice presidente dell’Archivio Disarmo l’Arms Trade Treaty (ATT) approvato recentemente dall’Assemblea Generale dell’Onu presenta evidenti lacune. Rimane assai debole l’obbligo di trasparenza dei trasferimenti di sistemi d’arma. L’ATT si pone, in questo senso, sullo stesso livello dell’inefficace Registro Onu sulle armi convenzionali.
ESPORT MILIONARIO
E inoltre, le armi da fuoco che non hanno un uso esclusivamente militare (assieme alle armi elettroniche) ne rimangono escluse. Il trattato può facilmente essere aggirato. La legislazione italiana divide le armi leggere di piccolo calibro in due categorie: armi leggere da guerra e armi comuni da sparo. Solo una parte delle armi leggere italiane, quelle classificate come militari, rientra nel regime di controllo della legge 185/90, mentre le armi comuni da sparo oggetto del report 2012 dell’Archivio Disarmo sono sottoposte alla disciplina della legge 110/75, anche se negli ultimi anni in sintonia con la 185. Nel 2011 l’Italia ha esportato complessivamente armi comuni da sparo per 461.918.073 euro. Negli ultimi dieci anni l’export di armi ha avuto incremento costante con due lievi flessioni nel 2003 e nel 2006. Nel 2011 l’export ha subìto un leggero decremento (0,2%) anche a causa della crisi economica. Ma l’Italia rimane fra i maggiori esportatori nel settore. Scorrendo i dati 2011 relativi ai primi venti importatori di armi comuni da sparo di produzione italiana, si può facilmente notare come questa speciale classifica non sia cambiata molto rispetto al 2010, almeno nella top 5. Al primo posto gli Usa, che importano armi comuni da sparo italiane per la cifra colossale di 126.389.353 euro. La Francia conferma il suo secondo posto con importazioni per 62.638.306 euro anche se ben lontani dai 95.258.592 del 2010. Poi seguono Regno Unito e Russia, rispettivamente con importazioni per 44.804.885 euro e 21.049.337 euro.
Preoccupa, tuttavia, la situazione interna della Federazione Russa, Paese in cui il rispetto dei diritti umani non è per nulla scontato. Amnesty International segnala episodi di tortura da parte della polizia (nonostante siano state approvate leggi di riforma) e violazioni dei diritti umani perpetrate soprattutto nell’area instabile del Caucaso settentrionale sia da parte di gruppi armati sia da parte di forze di sicurezza ufficiali. La top 5 mondiale è chiusa dalla Germania con importazioni per 18.998.375 euro anch’esse in leggera riduzione rispetto al 2010 (22.004.310 euro). Il settimo posto mondiale spetta alla Turchia che spende, nel 2011, 15.175.330 euro. Nel Paese persistono tensioni fra i governativi e il Pkk che rappresenta la minoranza curda nella regione. Nonostante il cessate il fuoco ufficiale sia ancora in vigore, gli scontri spesso sfociano in ondate di grande violenza. E le operazioni nell’Iraq del nord che prendono di mira le basi del Pkk non fanno che esasperare la situazione. Gravi anche i comportamenti di abuso da parte della polizia che sfociano in denunce di tortura e violazione dei diritti umani. Gli Emirati Arabi Uniti importano armi comuni da sparo italiane per 8.890.954 euro. In questo caso Amnesty International segnala discriminazioni nei confronti delle donne e difficoltà a esprimere liberamente la propria opinione. Spesso le Nazioni Unite intervengono nella zona con direttive precise che il governo prova a eseguire. Nel Nord Africa si trova il nono importatore mondiale di armi comuni da sparo italiane, l’Algeria con acquisti per 7.849.141 euro. Il governo ha revocato lo stato d’emergenza nazionale in vigore dal 1992, ma permangono severe restrizioni alla libertà.

l’Unità 18.5.13
Una grande ventata di follia
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Eravamo impassibilmente abituati a suicidi di persone devastate dalla crisi economica. Ma quando una persona, prima di tentare di uccidere se stessa ferisce mortalmente altre persone l’impassibilità si sgretola. Tutti ci sentiamo coinvolti: il passante occasionale, il ragazzo che gioca nel cortile, l’anziano in carrozzella. Se il percorso mentale che conduce al suicidio devia verso la rotta che porta agli altri, può succedere di tutto.
FABIO SICARI
Non si è ancora spenta l’eco del triplice omicidio dovuto al ghanese oggi sottoposto a perizia psichiatrica e torna alla ribalta della cronaca Milano con l’omicidio dovuto all’italiano furibondo con i suoi datori di lavoro. Padre e figlio. In Puglia ed in Sicilia in questi stessi giorni, persone sconvolte per motivi diversi (l’handicap incurabile del figlio? il pignoramento della casa?) travolgono le loro famiglie in omicidi-suicidi spettacolari e spaventosi. Si susseguono intanto i «femminicidi» e tutto si svolge intorno a noi come se quella che percorre l’Italia (e non solo l’Italia) fosse una grande ventata di follia. Legata alla crisi? Forse, perché l’insicurezza sociale ed economica può funzionare da detonatore per la violenza sempre in agguato all’interno dei più fragili e dei più spaventati degli individui. Ma per un insieme di ragioni, forse, che attengono anche ad una difficoltà sempre più grande e diffusa di avere speranza. Nella Provvidenza in cui credevano i Promessi sposi di Manzoni o, più laicamente negli altri intesi come esseri umani che vivono le tue difficoltà o una difficoltà simile alla tua e/o nelle istituzioni che dovrebbero potere e saper dare risposte.

Repubblica 18.5.13
Un ricordo del giornalista scomparso dieci anni fa
Quel che ci manca di Luigi Pintor
di Valentino Parlato


Luigi Pintor, che ci ha lasciato dieci anni fa, è stato più di un giornalista, ha dimostrato che un giornalista può e deve essere un soggetto culturale e politico, un signore che quasi ogni giorno dà lezioni di vita. Nel ricordarlo non si può dimenticare il fratello maggiore Giaime, che influì così decisamente sulle scelte di Luigi.
Luigi era pessimista e critico, ma il suo pessimismo non frenava il suo impegno culturale e politico. Vale qui ricordare la citazione dell’Anonimo, che presenta
La signora Kirchgessner: «Si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanze, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo». L’aspro spirito critico e la fiducia nell’uomo indussero Luigi alla rottura con il Pci, alla pubblicazione della rivista il manifesto diretto da Rossanda e Magri, insieme con Aldo Natoli, Luciana Castellina, Filippo Maone, Marcello Cini e altri ancora, tra i quali anch’io che in quella stagione lavoravo al settimanale del Pci, Rinascita.
Luigi fu decisivo nella decisione di passare dal mensile al quotidiano, che il 28 aprile di quest’anno ha compiuto 42 anni segnati da continue crisi, ma sempre superate, per l’impegno di Luigi e del gruppo che ci lavorava, fatto di anziani ma anche di giovanissimi. Quello di via Tomacelli era un piccolo e straordinario mondo, del quale penso che tutti abbiano nostalgia. E Luigi non era solo un politico di spessore ma anche un maestro di giornalismo. Insisteva fortemente sulla sintesi e la brevità (i suoi editoriali non giravano mai in altra pagina). E ci diede straordinarie lezioni sull’importanza e la qualità che debbono avere le notizie a una colonna. Allora c’erano.
Luigi fu il costruttore e il primo direttore del giornale ma ebbe sempre (salvo quando si arrabbiava e ci lasciava) un ruolo di sostanziale direzione, come possono testimoniare tutti i compagni (me compreso) che in quegli anni hanno diretto il giornale. Al manifesto Luigi manca da dieci anni, anni difficili, e la sua assenza è assai pesante. I suoi editoriali avevano un peso sulla politica della sinistra di straordinario rilievo. Assolutamente da rileggere l’ultimo del 24 aprile 2003, nemmeno un mese prima di morire, e così attuale: «La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette... ha raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra, ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno...». Luigi indicava quel che oggi dovrebbe essere nella mente e nel cuore di chi ancora pensa che una sinistra sia necessaria alla vita del Paese: «Non ci vuole una svolta, ma un rivolgimento. Molto profondo... Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità, ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani, ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste».
Certo, se Luigi fosse ancora al manifesto, assai più penetrante sarebbe il ruolo di questo giornale in una crisi tanto grave, tanto nuova e pericolosa. Le attuali difficoltà, anche con la sua sola presenza, le avremmo affrontate sicuramente meglio. Io e altri compagni saremmo rimasti a combattere insieme a lui: quando Luigi, parafrasando Gertrude Stein ci diceva: «Un giornale è un giornale, è un giornale» sottolineava l’impegno politico e culturale, ne sottolineava il carattere di lotta e non certo la banalità di un quotidiano. E’ proprio su questo che si è aperta una dolorosa divisione nel giornale.
Oggi che la crisi della sinistra si è aggravata, torniamo a leggere quel che Luigi ci ha lasciato: gli articoli e i concisi volumetti come Servabo o Il nespolo.
Troveremo stimolo a capire meglio il presente e, forse, anche a fronteggiarlo. Grazie Luigi.

Repubblica 18.5.13
Se la tv pubblica non fa più storia
di Giovanni Valentini


LA RAI commise l’imperdonabile errore di adeguarsi ai sistemi delle tv private tagliando dal palinsesto i programmi di minore ascolto, come ad esempio la prosa, vale a dire eliminando le trasmissioni più culturalmente impegnative.
(da “Come la penso” di Andrea Camilleri — Chiarelettere, 2013 — pag. 220)
Oltre che “magistra vitae”, come recita la locuzione latina attribuita a Cicerone, la Storia può essere anche “maestra di televisione”: e in particolare, d’informazione e di approfondimento. Tanto più se parliamo di servizio pubblico radiotelevisivo. E questo è senz’altro il caso della trasmissione “La storia siamo noi” che, da dodici anni a questa parte, Giovanni Minoli ha condotto con successo fino ad aggiudicarsi nel 2012 a New York il premio HistoryMakers International, l’Oscar dei produttori televisivi di storia.
A distanza di appena un anno da quel prestigioso riconoscimento, ora il vertice della Rai intende “divorziare” da Minoli, con la motivazione o il pretesto che la struttura a lui affidata per i programmi sul 150° anniversario dell’Unità d’Italia va sciolta e che il giornalista è ormai in età di pensione. Ma in realtà quel format, inventato da Renato Parascandolo, fa parte del patrimonio della tv pubblica, dei suoi compiti e delle sue funzioni istituzionali. E perciò i nuovi dirigenti di viale Mazzini, anche a prescindere dal nome di chi eventualmente sarà chiamato a sostituire il conduttore, rischiano di cancellare un cespite della Rai con una furia iconoclasta da talebani televisivi.
La storia è la memoria di un Paese e di un popolo. La sua coscienza collettiva. L’archivio anagrafico della sua identità sociale e culturale. E perciò – quali che siano gli ascolti di questa trasmissione, peraltro più che lusinghieri – un servizio pubblico radiotelevisivo non può venire meno al dovere fondamentale di coltivare, aggiornare e tramandare quella memoria comune, a pena di rinnegare il proprio ruolo e la propria missione.
Nel lungo periodo in cui ha diretto e condotto il programma, Minoli ha interpretato un modello di tv pubblica che è ancor oggi valido e attuale. Fra le numerose puntate prodotte, per circa mille ore di trasmissione all’anno, resta memorabile – per esempio – quella sugli incidenti durante il G8 di Genova che meriterebbe di essere adottata nelle scuole o nei master di giornalismo televisivo. Ma già prima lui stesso aveva introdotto un’innovazione di rilievo come “Mixer”, poi chiuso – a quanto pare – su sollecitazione di qualche “mandarino” politico a causa di un’impostazione considerata troppo indipendente. Non c’è dubbio perciò che, anche al di là dell’età, la sua esperienza e la sua firma appartengano a buon diritto alla migliore tradizione del giornalismo televisivo italiano, da Sergio Zavoli ad Andrea Barbato, da Piero Angela a Corrado Augias, da Lilli Gruber a Bianca Berlinguer e Milena Gabanelli.
Al di là del “caso Minoli”, comunque, un fatto è chiaro: la Rai, se vuole sopravvivere, deve compiere un salto di qualità sul piano dell’informazione, dell’approfondimento e più in generale di tutta la sua programmazione editoriale. Insediato dal “governo tecnico” di Mario Monti, il vertice in carica non può continuare a gestire l’azienda soltanto all’insegna del rigore contabile, a colpi di tagli e riduzione di personale. Altrimenti, riuscirà anche a tenere in vita “La storia siamo noi” in formato ridotto e forse a far quadrare il bilancio. Ma, su questa china, il servizio pubblico è destinato comunque a non fare più storia, cioè a non incidere più nella cultura e nella coscienza civile del Paese.
Mentre i Cinquestelle si trastullano con la “querelle” sulla presidenza della Vigilanza sulla Rai, una Commissione parlamentare che invece andrebbe abolita proprio per cominciare a sottrarla al controllo politico, rimane intatta dunque la questione della “governance”: vale a dire di chi è legittimato a dirigere e gestire il servizio pubblico. Non sarà verosimilmente questo governo né tantomeno questa “maggioranza di necessità” a risolverla. Ma occorre quanto prima una riforma organica per passare finalmente dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini.

l’Unità 18.5.13
La storia non siamo più noi
di Moni Ovadia


LA NOTIZIA DELL’ANNUNCIATA CHIUSURA DELLA TRASMISSIONE «LA STORIA SIAMO NOI» CONDOTTA DA GIOVANNI MINOLI, personalmente mi ha colto come un violento ceffone inatteso assestato in pieno viso. La scelta di affondare un programma leggendario per qualità e per l’indiscusso valore del suo ideatore e conduttore verosimilmente uno dei migliori uomini televisione al mondo, se per televisione si intende informazione, cultura, formazione, qualità e non spazzatura non può essere dettata da logiche aziendali.
Solo un orientamento ideologico nefasto, può indurre un’azienda di servizio pubblico a rinunciare al meglio di cui dispone. E si deve evidentemente trattare di deliberata strategia della dealfabetizzazione del telespettatore, visto che il killeraggio di Minoli, segue a brevissima distanza, quello di Philippe Daverio e del suo brillante e originale «Passepartout» che si segnalava per il suo carattere colto e insieme ricco di intelligenza umoristica. Queste epurazioni, perché di questo si tratta, rivelano il sinistro clima da normalizzazione di quest’epoca. Forse Minoli non è un adepto della mainstream revisionista che si vuole imporre alla Rai. Forse non è abbastanza conformista. Questi tempi cominciano a diventare davvero inquietanti, lo segnala da diverse settimane l’irruzione nell’etere di un vocabolario evocatore di nefaste memorie. Il termine «pacificazione», davvero sconcertante per la sua totale inattualità, ricorda il famigerato appeasement che non portò all’Europa la pace come millantavano i paladini di quella politica, al contrario, con la sua ossessione dilatoria, rese la II Guerra Mondiale, molto più devastante. Un altro squallido neologismo, l’attributo «divisivo», fa risuonare la lingua della retorica nazionalista e totalitaria che partorì la micidiale parola «disfattista». Una vera democrazia non ha bisogno di servirsi di un linguaggio che non le appartiene, che ne contraddice il senso. Se lo fa, rinuncia alle proprie specificità nell’esprimersi e nel pensarsi. L’epurazione degli spazi di pensiero e di qualità culturale nel principale mezzo a cui i cittadini si rivolgono per informarsi e per formare le proprie opinioni, è grave e pericoloso. Lo è in generale, ma specialmente in anni come questi in cui si è assistito ad un progressivo decadimento del livello della cultura e della istruzione nel nostro Paese. Una nazione non può rinascere da qualche palliativo economico, né dal fingere una concordia artificiosa che nasconda sotto il tappeto le contraddizioni reali e le diverse visioni della politica, per favorire puri accodi di potere. Un cittadino democratico lo sa: o la Storia siamo noi o, se lo dimentichiamo, «loro» ci cacciano dalla Storia e da noi stessi.

l’Unità 18.5.13
Non dimentichiamo le mutilazioni genitali
di Emma Fattorini


I DIRITTI UMANI METTONO IN CRISI LA TRADIZIONALE E ASSOLUTA IDEA DI SOVRANITÀ NAZIONALE COSÌ COME QUELLA DI UN’UNICA E SUPERIORE IDENTITÀ CULTURALE. Se dunque quella dei diritti umani diventa anche una possibile lettura della globalizzazione stessa, la sua cultura non è solo giuridico-costituzionale ma anche storica, etica, politica. E diventa, ormai, il tema sul quale un Paese è giudicato, e sul quale si misura il livello di civiltà e civilizzazione non meno che le questioni economiche o angustamente naziona-
li.
Ed è con questo spirito, quello di un diverso, nuovo senso dei diritti umani che va intesa la difesa la dignità dei corpi femminili. Penso al grande lavoro fatto dall’attuale ministro degli esteri Emma Bonino sul tema delle Mutilazioni genitali femminili (Mgf), che, nonostante rappresentino una grave violazione dei diritti delle donne, sono una pratica molto diffusa nel mondo. In base a recenti stime, si calcola che circa 135 milioni di donne e bambine nel mondo siano state sottoposte a MGF e che ogni anno vi siano circa 3 milioni di potenziali vittime (più di 8000 al giorno), soprattutto tra le bambine fino al quindicesimo anno di età.
L’Italia attribuisce una grande rilevanza a questa tematica e ne ha fatto una delle priorità in materia di promozione e protezione dei diritti umani, nella convinzione che l’abolizione costituisca una battaglia di civiltà. Dal 2009, con la collaborazione di Unicef e Unfpa e l’attivo coinvolgimento dell’Ong «Non c’è pace senza giustizia», l’Italia ha attivamente promosso a New York riunioni periodiche di un gruppo di Paesi, prevalentemente africani, con l’obiettivo di delineare un approccio comune su questa tematica. Il nostro Paese ha agito affinché si coagulasse all’interno del gruppo africano un consenso sulla proposta di una Risoluzione dell’Assemblea generale sulle Mgf. Questo cammino è stato coronato, nell’autunno 2012, dalla presentazione da parte del Gruppo africano in seno alla Terza commissione dell’Assemblea Generale, di un testo sull’eliminazione delle Mgf, che ha costituito la base di in una Risoluzione adottata per consenso dalla plenaria dell’Assemblea generale. Tale Risoluzione è la prima mai adottata ad essere stata specificamente dedicata al tema delle mutilazioni genitali femminili.
Coinvolta in prima linea nel negoziato, l’Italia ha contribuito ad apportare nel testo finale della Risoluzione una serie di importanti miglioramenti, tra cui un riferimento ai diritti umani nel preambolo. L’approvazione della Risoluzione suggella così l’intenso sforzo diplomatico italiano che dovrà adesso concentrarsi sulla sua attuazione, anche per non disperdere il capitale di credibilità costruito nel tempo attraverso l’azione politica e di cooperazione allo sviluppo. Anche sul piano del diritto interno, l’Italia si è mostrata all’avanguardia per quanto concerne la prevenzione e il contrasto della pratica delle mutilazioni genitali femminili. Lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite, nel suo Rapporto sulle Mgf pubblicato nel 2012, ha infatti citato la legge italiana n. 7 del 9 gennaio 2006, riguardante le «Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile», definendola una legge di vasta portata, che non solo proibisce le mutilazioni genitali, ma prevede anche una serie di misure preventive e servizi di assistenza alle vittime di tale pratica.
Dobbiamo ricordare questo percorso proprio ora che chiediamo una rapida ratifica della Convenzione di Istanbul del ’11 maggio 2011, firmata anche dall’Italia il 27 settembre 2012, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Siamo tutti sgomenti di fronte al crescere esponenziale della violenza sulle donne, alle forme odiose e crudeli attraverso le quali viene perpetrata da una crescente fragilità dell’ identità maschile. Che non sembra riguardare solo le nostre società occidentali in crisi. Ma che è un fenomeno mondiale. E non mi riferisco solo agli stupri in India, o alle lapidazioni dei Paesi musulmani ma anche a quel macroscopico fenomeno di milioni di aborti selettivi dei paesi asiatici dove milioni di bambine, dico milioni, mancano all’appello. E il primo diritto umano è quello alla vita. E quello, quello dei feti femminili abortiti è il primo orribile femminicidio di massa. E, dunque proprio perché penso che le radici di questa violenza siano molto profonde, ancora più profonde di quanto la politica non sembri pensare, credo in una comune consapevolezza circa le radici del problema. Occorre infatti un lavoro comune, oltre che una legge esemplare. Insisto lavoriamo per una consapevolezza comune, di uomini e di donne, di culture politiche diverse tra loro, perché proprio su questioni così profonde come questa, che vede in gioco la fragilità dei soggetti e dei rapporti tra i sessi nelle società post secolari, gli orientamenti laici si incontrino pienamente con i principi cristiani in nome di un umanesimo che può trovare proprio in un nuovo umanesimo femminile i fondamenti per un agire davvero efficace.


il Fatto 18.5.13
Affaristi e “gentiluomini” alla corte di Sua Santità
di Antonio Massari

Basta con il feticismo del denaro”, ha detto Papa Francesco. Al Gentiluomo del Papa, nonché ex provveditore alle opere pubbliche, Angelo Balducci – defenestrato dall’ordine Vaticano pochi mesi fa – ieri sono stati sequestrati beni per ben 12 milioni di euro: una villa con piscina e alcuni appartamenti nel centro storico di Roma, altre abitazioni tra le Dolomiti, cinque auto di lusso e poi conti correnti bancari e quote di partecipazione societarie, incluse quelle nella società di produzione cinematografica Edelweiss Production, la stessa che ha prodotto alcuni film interpretati da Lorenzo Balducci, figlio dell’ex Gentiluomo e funzionario di Stato.
Il sequestro è stato effettuato – su richiesta dei sostituti procuratori della Repubblica di Roma Ilaria Calò e Roberto Felici - dai Finanzieri del Comando Provinciale e dai Carabinieri del Ros. Balducci è imputato di associazione a delinquere e, assieme all’imprenditore Diego Anemone, di reati di corruzione per gli appalti pubblici dei “Grandi Eventi”, poiché “aveva di fatto posto stabilmente la propria funzione pubblica a vantaggio degli interessi del citato imprenditore, dal quale recepiva favori e utilità di vario genere”.
Ma non è certo l’unico dei Gentiluomini a finire nei guai. L’ultimo dell’elenco è Franco La Motta, ex vicecapo dell’Aisi - il servizio segreto civile – indagato a Roma per corruzione e peculato. Il gentiluomo La Motta, tra il 2003 e il 2006, ha diretto il Fondo per gli edifici di culto, dal quale avrebbe fatto sparire ben 10 milioni di euro. Inchiesta che parte da Napoli dove invece, secondo la Procura, il prefetto La Motta avrebbe favorito alcuni camorristi. A detta di Massimo Teodori, autore di Vaticano Rapace (Longanesi), l’ex numero due dei servizi ha anche un conto corrente allo Ior, la banca vaticana. Un uomo di grande potere, quindi, come tanti Gentiluomini del Papa. Tra questi spicca oggi Gianni Letta e, nel passato, Umberto Ortolani, che fu piduista di rango, condannato per il crac del Banco Ambrosiano: dismise il ruolo di gentiluomo quando decise di trasferirsi in Sudamerica, da lati-tante. E in Sudamerica è stato eletto senatore, per il Pdl, il gentiluomo Esteban Juan Caselli. “E’ pericolosissimo”, dice Silvio Berlusconi di Caselli, intercettato dalla procura di Napoli. E perché Berlusconi lo frequenta?, domanda l’alto funzionario di Finmeccanica, Paolo Pozzessere, a Valter Lavitola. “Qua sembra Totò e Peppino e la mala femmina”, dice Pozzessere, “perché lui frequenta un cazzo-ne del genere, che cazzo gli frega di avere rapporti con questo? ”. “Letta, Letta, Letta, Letta! ”, risponde Lavitola, “Questo (Caselli ndr) è gentiluomo del Papa, questo qui è amico di qualche cardinale dei miei coglioni. Letta gli dice fammi la cortesia ricevilo e quello lo riceve”.
Dei 147 Gentiluomini, 114 italiani, 7 sono statunitensi, 5 austriaci e 5 spagnoli. Oltre La Motta, nell’elenco si conta almeno un altro nome legato ai servizi segreti, quello dell’architetto Adolfo Salabé, coinvolto – negli anni Novanta – nello scandalo Sisde. Per farsi un’idea sul fervore apostolico di Herbert Batliner, invece, bisogna dare un’occhiata a L’unto del Signore (Bur) di Udo Gumpel e Ferruccio Pinotti, che descrivono il gentiluomo come lo “gnomo” delle tre finanziarie del Liechtenstein dietro la Banca Rasini, l’istituto che finanziò Silvio Berlusconi. Batliner avrebbe anche fornito la sua consulenza ad alcuni narcotrafficanti latino-americani e, nel 2007, sarebbe stato riconosciuto colpevole di una maxi-evasione fiscale in Germania. In quegli stessi anni Batliner riuscì a ottenere un permesso speciale per incontrare papa Ratzinger a Ratisbona e regalargli un organo a canne. Un umile presente da 730 mila euro.
Ricchezza e potere sembrano requisiti fondamentali per agghindarsi dell’abito nero d’ordinanza e fregiarsi dell’ambito titolo di gentiluomini: nell’elenco compaiono, tra gli altri, Giovanni Arvedi, patron delle acciaierie di Cremona, e Franco Pecorini, amministratore della Tirrenia. E ancora: Luigi Roth, presidente di Terna, Emanuele Emmanuele, potente presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma e Alfredo Santini presidente della Cassa di Risparmio di Ferrara.
E infine il coordinatore dell'Udc romano, Francesco Carducci, ex amministratore della i Borghi srl di Lorenzo Cesa. Società che ha ricevuto, dalla giunta guidata da Renata Polverini, circa 2 milioni di commesse a trattativa privata. Obiettivo: gestire – dopo averlo ristrutturato – l'Auditorium di via della Conciliazione. Auditorium di proprietà del Vaticano, s’intende.

Corriere 18.5.13
Il mostro di Cleveland e il sonno dei vicini
di Aldo Grasso


I vicini di casa (Neighbors) non sono una categoria accidentale di persone, sono una tipologia antropologica. Essere vicino di casa è una condizione metafisica che, però, ha alcune ricadute sulla vita pratica: il vicino di casa non vede, non sente, ma parla. E parla sempre bene dei suoi vicini di casa: «Per me era un signore rispettoso», dice una signora. «Non mi sono mai accorta di nulla», ribadisce un'altra. Il vicino di casa, per i vicini di casa, è sempre un modello di comportamento: discreto, magari poco espansivo, uno che si fa i fatti suoi. Poi si scopre che il vicino di casa è un mostro, che ha rapito tre ragazze e le ha tenute segregate per ben dieci anni in condizioni disumane.
Cercavo di immaginarmi una fenomenologia del vicino di casa, mentre seguivo il reportage di Liliana Faccioli Pintozzi «Il mostro di Cleveland» (Cielo, Dtt canale 26, Sky canale 126, ore 21,15). Le immagini ricostruivano l'incredibile storia delle tre giovani ragazze, rapite e tenute prigioniere per anni in una casa di Cleveland, in Ohio, da Ariel Castro, e intanto i vicini di casa, quasi tutti ispanici, dicevano la loro: «Non ci siamo mai accorti di nulla», «Era una brava persona, portava al parco giochi la sua bambina», cose così. I vicini di casa, quando la polizia arresta il mostro e lo porta via, applaudono come forsennati, ma per dieci lunghi anni non hanno visto nulla. Il loro dramma è proprio questo: non possono credere ai loro occhi perché i loro occhi non hanno visto.
Certo, quel quartiere di Cleveland era pieno di problemi e, diciamo così, i suoi abitanti erano poco inclini a chiamare la polizia, ma com'è possibile essere così ciechi? Com'è possibile che tre ragazze, una delle quali nel frattempo è diventata madre, possano vivere prigioniere in una casa di Seymour Avenue, in mezzo ad altre case? Il sonno dei vicini di casa genera mostri.

Corriere 18.5.13
Jia Zhangke
«La mia Cina cresce con un'anima violenta»
di Giovanna Grassi


CANNES — «Per primo mi sono stupito che la censura del mio Paese abbia approvato, senza alcuna intrusione, il mio film. Però, dopo che per anni i miei lavori erano stati vietati A Touch of Sin è passato indenne, quindi si vedrà presto anche in Patria. Eppure, il copione racconta attraverso quattro personaggi diversi e quattro località lontane tra loro la violenza, ormai endemica, che serpeggia in tutta la Cina», dichiara Jia Zhangke, il pluridecorato regista (da Cannes, a Berlino, alla Mostra di Venezia).
Per la terza volta in concorso sulla Croisette, il regista ritenuto uno dei più grandi autori della new wave cinese affronta nel suo film, che tiene a definire «un unico racconto anche se differenti sono le sue località e i personaggi delle quattro storie», gli squilibri economici del suo Paese, la rabbia che contrappone i poveri ai ricchi, gli umili agli arroganti, l'uso delle armi capace di rivelarsi una sorta di droga anche per persone che prima mai avevano impugnato una pistola, l'umanesimo che si nasconde dietro piccoli gesti e rapporti quotidiani. Nato nel 1970, si considera un umanista e, per molti aspetti, un allievo di quel «realismo didascalico» di Roberto Rossellini, che incrocia con note poetiche e dure denunce nei suoi film.
«Il titolo inglese, A Touch of Sin — spiega — allude a un film taiwanese sulle arti marziali, A Touch of Zen. Perché facendo indagini su un'epoca lontana delle arti marziali ho trovato profondissimi legami con la situazione attuale del mio Paese dilaniato, sempre sul filo del rasoio di cambiamenti radicali, schiacciato da violenze politiche e spesso capace di rispondere con violenza estrema a ogni pressione e frattura sociale».
Volutamente il film è stato girato in quattro regioni diverse e lo spettatore compie un viaggio nel seguire i destini e i luoghi dei differenti personaggi, un minatore che si sente sfruttato, un lavoratore che scopre l'uso multiplo e pericoloso di una pistola che prima gli era servita solo come difesa, la custode di una sauna che soffre per le attenzioni di un frequentatore del locale, un ragazzo che perde la propria identità quando gli viene a mancare il lavoro.
«In un'unica vicenda umana — ribadisce Zhangke — che deve essere sviscerata nella sua interiorità non solo nei gesti estremi dei quali sono capaci i protagonisti, che reagiscono con collera e violenza a ogni sconfitta».
L'autore spiega che «la Cina dei cambiamenti, presa in una spirale che non sempre riesce a decifrare, fatica a non sentirsi vittima di soprusi, ingiustizie e della sostanziale mancanza di democrazia. Nel film realismo e fiction si mescolano nelle quattro vicende, ma ogni personaggio e ogni storia prendono spunto dalla cronaca e, quindi, pone sia lo spettatore che il protagonista faccia a faccia con la realtà e con l'escalation della violenza. Uno dei più grandi problemi della Cina di oggi è la sopravvivenza di molti individui e la ricerca della loro identità tra il passato e i cambiamenti che proiettano nel futuro. La società cinese, tutta, è in uno stato di continua migrazione, di passaggio da antiche case a nuove abitazioni, da agglomerati sociali a nuovi gruppi di lavoro e di collettività».

il Fatto 18.5.13
Il tiranno muore all’alba (e in carcere): addio a Videla
Il leader della giunta militare che instaurò il terrore dei desaparecidos in Argentina avevaa 87 anni
di Alessandro Oppes

L’ultima sera, prima di addormentarsi per sempre nella sua piccola cella del Complesso penitenziario federale n° 2 Marcos Paz, provincia di Buenos Aires, Jorge Rafael Videla ha pregato in ginocchio accanto al letto, gli occhi verso il grande crocifisso in legno appeso alla parete. Alle sue spalle, una libreria zeppa di testi religiosi. Così, come il buon cattolico che, per qualche misteriosa ragione, era convinto di essere. Il tiranno se n'è andato all'alba, all'età di 87 anni. I secondini l'hanno trovato, immobile, alle 6 e 30 del mattino, dopo una notte in cui, dicono, aveva denunciato un malore: problemi di stomaco, per i quali i medici l'avevano sottoposto a un controllo in infermeria, senza riscontrare niente di grave. “Morte naturale”, annuncia il sintetico bollettino diffuso dalla direzione del penitenziario. E non pochi, in Argentina, hanno subito riflettuto con un moto d'orrore che è proprio quel tipo di morte che lui, dal 1976 all'81 alla guida della più feroce giunta militare che abbia mai governato il paese, negò a decine di migliaia, forse 30mila, connazionali: sequestrati, torturati, strappati alle famiglie e scomparsi nel nulla, spesso gettati nelle acque del Rio de la Plata nei “voli della morte”.
DA QUEL CARCERE, dov'era recluso nel “padiglione dei condannati per delitti di lesa umanità”, ormai Videla usciva solo quando doveva comparire di fronte a un tribunale. Perché, dopo l'ergastolo inflittogli nel 2010 a Córdoba, e i 50 anni di condanna per il “piano sistematico di furto dei bebè” subiti nel luglio scorso, il vecchio dittatore aveva ancora conti pendenti con la giustizia. L'ultima sua apparizione pubblica risale a 4 giorni fa, quando lo accompagnarono davanti ai magistrati di Buenos Aires, dove è in corso il processo per il Plan Cóndor, l'internazionale del terrore che coordinava le dittature sudamericane degli anni ‘70. Impassibile nel suo consueto abito blu, Videla ripe-tè il solito copione, negando la legittimità della giustizia civile: “Voglio manifestare che questo tribunale è privo di competenza per giudicarmi per i casi di cui è stato protagonista l'esercito nella lotta antiterroristica”. Mai il minimo indizio di pentimento. Ora che il principale architetto della “guerra sporca” non c'è più, scomparso dopo i suoi compagni della prima giunta militare che rovesciò il governo di Isabelita Perón, Massera e Agosti, e i successivi dittatori, Roberto Viola e Leopoldo Galtieri, a rispondere dei crimini della dittatura restano solo pochi gerarchi, come l'ex capo della giunta Reynaldo Bignone, già condannato all'ergastolo ma imputato nel processo Cóndor insieme al generale Menéndez. A loro Videla lascia in eredità un aberrante progetto politico annunciato due mesi fa, quando dal carcere lanciò un appello “agli ex camerati tra i 58 e i 68 anni che siano in condizioni fisiche per combattere” perché guidino una sollevazione armata contro il governo di Cristina Kirchner. L'ultima follia di un criminale fuori dal tempo, dal quale la società argentina si congeda con un sospiro di sollievo. E se, a nome delle Abuelas de Plaza de Mayo, Estela Carlotto si dice “tranquilla perché un essere spregevole ha lasciato questo mondo”, il Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel riflette: “Ha seminato dolore e ha tradito i valori di un intero paese. Ma non mi rallegro mai per la morte di una persona”.

il Fatto 18.5.13
Vita da golpista
Il feroce contabile della dittatura
di Maurizio Chierici

Si è spento nel sonno come succede ai giusti, ma era un militare senza pietà: Jorge Rafael Videla è morto in carcere dove scontava 2 ergastoli e altre 6 condanne, tra cui quella per aver fatto sparire 500 bambini. Stava per compiere 88 anni. Nel marzo 1976 guida il colpo di Stato che ruba la presidenza a Isabelita Peron, vedova del generale tornato dall’esilio per “mettere ordine in Argentina”. Ma Peron è un relitto e se ne va. Isabelita ne prende il posto con alle spalle il generale Lopez Rega affascinato da spiritismo ed esoterismo. Come può un’ex ballerina governare un paese? Firma ogni foglio che Rega mette sul tavolo. Firma anche la creazione della Triple A, alleanza anticomunista argentina. Quando Videla manda in esilio Isabelita e il suo generale, non deve cambiare una virgola nella specie di gestapo lasciata eredità. La perfeziona: se la signora Peron aveva fatto sparire 1358 persone in pochi mesi, i militari di Videla cancellano 30.000 ragazzi che non sopportavano la soppressione di ogni libertà. E poi i neonati venuti al mondo in prigione, madri assassinate. Le nonne di piazza di Maggio li stanno ancora cercando. Attorno a Videla i comandanti di ogni forza armata: generale Viola che ne ha preso il posto quando le pressioni straniere diventavano insopportabili, l’ammiraglio Massera, il generale Brignone, numerari della P2 di Licio Gelli. Il Venerabile era arrivato a Buenos Aires sull’aereo di Peron. Un compagno di loggia – Giancarlo Elia Valori – glielo aveva presentato a Madrid. Gelli riesce a scivolare da una dittatura mascherata a una dittatura dichiarata e gli affari prosperano tra Videla e l’apparato statale italiano, presidente Andreotti. Non solo armi, navi e aerei delle industrie di Stato, ma transazioni con holding private e l’approvazione di Reagan quando “finalmente” prende il posto di Carter alla Casa Bianca: l’operazione Condor (con Pinochet, Stroessner in Uraguay e la giunta brasiliana) “ripulisce il cono sud dagli agenti del comunismo internazionale”. Tra loro anche preti cattolici e organizzazioni umanitarie. Da far sparire.
Videla imposta la repressione che i generali successori perfezionano con la stessa crudeltà e viscida diplomazia. Buoni rapporti col cardinale Aramburu che invita i cattolici ad aver fiducia nel governo di Videla i cui membri gli sembrano “bene ispirati”. I vescovi Angelelli e Ponce non sono d’accordo: muoiono in strani incidenti. Giovanni Paolo II viene a scoprire la disperazione che la chiesa argentina nascondeva grazie alle madri di piazza di Maggio. Anche Bergoglio, superiore dei gesuiti, è allontanato da Buenos Aires. Stampa e tv sotto un controllo che la mediazione Gelli per un certo tempo dissimula agli occhi dell’attenzione internazionale. L’Italia aiuta la disinformazione: il Corriere della Sera compra la casa editrice Abril, più importante del paese. Proprietaria la famiglia Civita, ebrei milanesi: devono scappare, Rizzoli mette le mani e la P2 fa sapere all’Italia e all’Europa dell’allegro cambiamento argentino. File ordinate davanti a cinema e campi di calcio. Videla che incorona l’Argentina campione del mondo col “paese in festa”. Enzo Biagi rifiuta di raccontarla e il direttore P2 del Corriere lo lascia a casa. Da Buenos Aires è già scappato Gian Giacomo Foa, corrispondente storico: troppo curioso. Anche il Partito comunista di Roma è frenato da un intrigo internazionale. Videla si è accordato con Mosca: l’Argentina affianca gli Usa nelle forniture di grano e i Soviet impongono cautela e silenzio ai partiti fratelli. Governo e diplomazia italiana paralizzati, poi, dalle cautele di Andreotti. Enrico Calamai, giovane console a Buenos Aires, è l’eccezione che sconsidera il potere armato e rischia la vita per mettere in salvo chi scappa dalle minacce. Videla era un uomo di “triste mediocrità”. Un po’ com’era successo a Pinochet si è trovato in prima fila nel golpe organizzato dalle mani pazienti di signori in doppiopetto.
SAPEVA CONIUGARE l’orgoglio della divisa all’arrendevolezza di un signore che sa obbedire a chi di dovere nel calcolo di un futuro di gloria e nell’illusione militaresca di allargare per sempre “ordine e obbedienza” fuori dalle caserme. Bene educato alla violenza, l’ha esercitata con l’arroganza di chi si illude di essere intoccabile. Ma ha esagerato e i grandi protettori hanno preferito sfumare il potere su generali che “sapevano stare al mondo”. L’orgoglio di Videla sopravvive in carcere fino agli ultimi mesi. Nell’intervista a un giornale spagnolo racconta l’amicizia con monsignor Prima e l’aiuto segreto al golpe di partiti argentini che oggi sopravvivono nella rispettabilità. Il suo cuore batteva per Carlos Menem, presidente nei guai per le mani lunghe: ha firmato l’indulto e illuso la speranza di libertà. Ma Nestor e Cristina Kichner l’hanno cancellato. “Sarebbe bene non parlare mai più di un uomo così”, ha detto Cristina.

La Stampa 18.5.12
Gran Bretagna con meno cristiani fra dieci anni saranno minoranza
Crescono invece i musulmani: +75% E la metà ha meno di 25 anni
di Claudio Gallo

Di questo passo tra vent’anni non resterà nulla, soltanto le croci sovrapposte della gloriosa Union Jack, la bandiera britannica. Una nuova analisi dei dati del censimento 2011 mostra infatti che il numero dei cristiani nel Regno Unito sta inesorabilmente calando. Se il trend resterà lo stesso, già tra dieci anni i cristiani saranno una minoranza tra la popolazione.
Continuano a crescere invece i musulmani insieme al loro peso sociale. Impensabile, fino a qualche anno fa, quello che è successo nel piccolo comune di Radstock nel Sommerset, dove un consigliere laburista ha fatto votare un provvedimento per togliere la bandiera di San Giorgio (bianca con la croce rossa) «perché faceva pensare alle crociate e poteva offendere i musulmani».
Da notare che a Radstock, su 5.920 abitanti, gli islamici sono soltanto 16. In questo secolo, il fardello l’uomo bianco lo usa per picchiarsi sulla testa.
Il censimento del 2011 sosteneva che il numero delle persone che si dicono cristiane in Inghilterra e nel Galles era calato del 10 per cento, 4,1 milioni di persone in meno in dieci anni. Le nuove analisi dell’ufficio delle statistiche governativo ha scoperto però che i cristiani propriamente inglesi sono calati molto più drammaticamente di quanto non indicasse quella cifra. A mascherare la realtà hanno contribuito i molti emigrati dai Paesi dell’Est, come la Polonia, o dall’Africa (1,2 milioni), che hanno rimpolpato i ranghi cristiani. Quindi, per la prima volta, nel prossimo decennio probabilmente soltanto una minoranza si dichiarerà seguace della fede del Cristo.
Contemporaneamente il numero dei musulmani in Inghilterra e Galles è aumentato del 75 per cento, spinto dall’arrivo di almeno 600.000 stranieri. Inoltre, mentre la metà del popolo del Corano ha meno di 25 anni, quasi un quarto dei cristiani ha più di 63 anni.
David Coleman, professore di demografia a Oxford, ha detto al Telegraph: «È un cambiamento davvero sostanziale. Mi chiedo quanto rifletta un cambiamento generale in una società dove è percepito sempre più come cosa normale dire che non si segue nessuna religione o non si è cristiani».
I fedeli della religione laica già chiedono che lo Stato si spogli dei vecchi e superati simboli cristiani.
"In un Paese che diventa laico sono gli immigrati a frequentare in massa i luoghi di culto"

il Fatto 18.5.13
Il giovane Jfk (di nuovo) affascinato da Hitler
Sconcerto per le rivelazioni di un libro in Germania. Come 18 anni fa
di Caterina Soffici

Ci sono notizie che nel dubbio è meglio darle due volte. Sai mai che qualche superstite veltroniano se la fosse persa. E così ieri i giornali rilanciavano con grande indignazione e una certa soddisfazione che Jfk, l’icona liberal per eccellenza, il presidente americano più amato citato e criticato della storia, era stato affascinato da Hitler.
Peccato che questo tormento-ne, come tanti altri sulle sue amanti, le spie, la sua morte, i complotti e via elencando, esca periodicamente e non si sa neppure se sia una bufala metropolitana, una leggenda plausibile o una verità storica comprovata. Di storico ci sono alcune frasi, citate ieri dal Frankfurter Algemeine Zeitung, che anticipava un libro di prossima pubblicazione in Germania: John F. Kennedy. Fra i tedeschi. Diari e lettere, a cura dello storico Oliver Lubrich. Sono annotazioni su un diario del giovane Kennedy, rampollo della privilegiata famiglia, buona istruzione e buone frequentazioni, che viene inviato in Europa per farsi le ossa e spedire delle corrispondenze giornalistiche in patria. Il primo agosto del 1945 Kennedy scrive a proposito di Hitler: “La sconfinata ambizione per il suo paese lo ha reso una minaccia per la pace del mondo. Eppure aveva qualcosa di misterioso nel suo modo di vivere e nel suo modo di morire, che gli sopravviverà e che crescerà. Era della stoffa di cui sono fatte le leggende”.
NELL’ESTATE del 1937, sempre in Europa per le sue corrispondenze, annotava anche “Non vi è alcun dubbio che questi dittatori (riferito a Mussolini e Hitler, ndr) nei loro Paesi, grazie alle loro efficaci propagande, siano più amati che fuori. I tedeschi sono davvero troppo bravi. Perciò ci si mette tutti insieme contro di loro, per proteggersi”. E non paiono delle frasi così filo-naziste. Ma tant’è. L’agenzia Ansa che riporta il testo scrive anche che lo stesso studioso Lubrich è convinto che Kennedy non provasse ammirazione per il dittatore nazista: “Io non credo che Kennedy ammirasse Hitler e soprattutto non la sua politica. Più che altro ci si trova qui di fronte a quello che Susan Sontag ha descritto come ‘fascinazione del fascismo’. Kennedy tenta di capire questa fascinazione, che Hitler evidentemente continuava a emanare”. Questo il giudizio di un neolaureato 28enne sul Führer che era morto il 30 aprile, quindi tre mesi prima. Grande prospettiva storica non poteva averne. Quindi, mentre i giornali titolano “Jfk sedotto da Hitler”, il curatore del libro da cui si evince la seduzione, dice che non lo ammirava e tanto-meno la sua politica. Ma tant’è. La cosa ancora più divertente è che le stesse frasi (fatta franca la traduzione, ovviamente) erano già state rivelate nel 1995, in un libro che fece discutere negli States: Prelude to a leadership, The European Diary of John F. Kennedy con prefazione di Hugh Sidney, cronista della rivista Time, nonché autore di una dettagliata biografia di Kennedy uscita nel 1963, tre mesi prima dell’assassinio del presidente. Nel libro venivano pubblicate le stesse annotazioni che escono “inedite” a 18 anni di distanza. Sono stralci di appunti e di corrispondenze e di lettere conservate da Deirdre Henderson, allora sua segretaria, diventata poi una accesa repubblicana. I figli di Jfk, John e Caroline, tentarono di bloccare la pubblicazione dei diari e ci fu una vertenza legale con Al Regnery, editore di area conservatrice. La famiglia sosteneva che la pubblicazione non fosse autorizzata. Cosa riportavano questi diari? Le stesse frasi choc. Kennedy cioè scriveva che “con gli anni Hitler emergerà dall’oblio che lo circonda per diventare una delle figure più significative della storia”.
MA NON È FINITA qui. Di una spia nazista che sarebbe stata un grande amore di Jfk parla un libro del 1992 a firma di Nigel Hamilton, esperto della dinastia del Massachusetts, il quale aveva rivelato di questa presunta storia tra Jack e una tale Inga Arvad, bellezza teutonica presentata nel 1941 al futuro presidente americano dalla sorella Kathleen. Lui la chiamava Inga Binga e lei Fagiolino di Boston. Il libro si intitolava Una gioventù avventata e raccontava il colpo di fulmine del 24enne ufficiale che serviva nell’Intelligence del Navy infatuato della donna, più matura di lui e che aveva relazioni con le gerarchie naziste. Se anche fosse, non pare un grande affaire.
Il tormentone filonazista nella demolizione del mito kennediano trova un altro capitolo molto pascolato nella figura di Joseph Kennedy, il capostipite. Ambasciatore americano a Londra all’inizio della Seconda guerra mondiale si dice che fosse un ammiratore di Hitler. Di certo fu sempre un sostenitore della linea morbida verso la Germania hitleriana, era contrario all’entrata in guerra americana e diede per scontato il rapido crollo della Gran Bretagna. Ma non sempre le colpe dei padri ricadono sui figli. O almeno, aspettiamo delle prove storiche e traduzioni attendibili per dare un giudizio.

l’Unità 18.5.13
Le conquiste dell’Homo Sapiens
«ll nostro ragionamento simbolico ha senza dubbio contribuito al successo della specie»
Intervista a Ian Tattersall, antropologo e autore di «I signori del pianeta»
di Pietro Greco


«L’albero della famiglia della specie umana era davvero folto. Ora sappiamo che c’è stato un tempo in cui sono vissute almeno otto specie di ominidi in contemporanea. Lo scenario di un vigoroso esperimento evolutivo»

NON ERAVAMO ATTESI. NON C’ERA ALCUN «DISEGNO INTELLIGENTE» AD APRIRCI LA STRADA. NON ABBIAMO SEGUITO ALCUN PERCORSO EVOLUTIVO SPECIALE, SIAMO SBUCATI ALLA FINE DI UNA STRADA STRETTA, tortuosa, con mille ramificazioni dove avremmo potuto perderci. Eppure siamo diventati, come recita il titolo del nuovo libro che Ian Tattersall ha pubblicato in italiano per le edizioni Codice, I signori del pianeta. Signori un po’ invadenti, ma indubbiamente dominanti. O, come si dice oggi con un pessimo termine, vincenti.
Ian Tattersall è un antropologo inglese che ormai vive e studia in America. Ed è considerato uno dei maggiori interpreti del «pensiero biologico» contemporaneo. Ieri al Salone del Libro di Torino, preceduto dal saluto di Luca Cavalli Sforza, ha tenuto una conferenza dal titolo Homo sapiens alla conquista del mondo.
Lo abbiamo intervistato.
Professor Tattersall, per molti anni abbiamo avuto un’idea piuttosto consolatoria delle modalità con cui noi uomini della specie sapiens siamo diventati «i signori del pianeta». Abbiamo immaginato un percorso lineare e di progresso che dalle australopitecine agli «habilis» e poi agli «erectus» ha portato fino a noi, «Homo sapiens», specie cognitivamente superiore. Questa idea della nostra evoluzione è oggi da rivedere?
«Sì, penso proprio di sì. Ora sappiamo che the human family tree, l’albero della famiglia delle specie umane umana, era davvero folto e cespuglioso, con numerose ramificazioni. Infatti, anche solo tra i resti fossili che abbiamo trovato, c’è la chiara evidenza che c’è stato un tempo in cui sono vissuti sul pianeta almeno otto specie di ominidi contemporaneamente. Questo è davvero un nuovo scenario. Lo scenario di un vigoroso esperimento evolutivo, non certo l’espressione di un cambiamento lineare graduale».
Un’evoluzione né lineare né graduale, lei dice. Un bivio «pesante» drammatico che ha caratterizzato la storia evolutiva delle grandi antropomorfe e che ha consentito ad alcune specie di imboccare il sentiero che porta fino a noi, è certamente la «conquista del bipedismo». Ma fu davvero una «conquista», ovvero un carattere che offriva un chiaro vantaggio evolutivo alle australopitecine rispetto alle altre grandi scimmie antropomorfe o non fu piuttosto una «contingenza», un carattere evolutivo che solo ex post ha dispiegato tutte le sue potenzialità?
«Penso che il primo ominide imparò a stare eretto semplicemente perché il suo antenato era già capace di tenere eretto il suo busto, spesso sospendendo tutto il suo peso dai rami più alti degli alberi. Cosicché quando fu costretto a scendere al suolo gli fu più facile tenere eretto l’intero suo corpo. Una volta assunta la posizione eretta si è trovato con tutti i vantaggi, ma anche gli svantaggi, potenziali della nuova postura, che è stata certamente la novità nell’evoluzione umana che ha reso possibile tutto quanto doveva poi avvenire». Non così i nostri cugini prossimi, gli scimpanzé, con cui condividiamo il 98% dei geni. Eppure hanno capacità cognitive sviluppate. Ha senso distinguere il genere «Pan» dal genere «Homo»? Erano poi così diversi gli scimpanzé dalle australopitecine e poi dalle prime specie del genere «Homo»? «Penso che noi e gli scimpanzé siamo creature ancora molto differenti. Negli ultimi anni abbiamo imparato che le differenze tra noi sono dovute alla regolazione e all’espressione dei geni che alle differenze strutturali nei geni che codificano per le proteine. È qui che emerge in tutta la sua importanza quella differenza del 2% cui fa riferimento».
Siamo diventati «i signori del pianeta» anche grazie alle nostre capacità cognitive. A cosa è dovuto l’enorme sviluppo delle capacità cognitive del genere «Homo» e della specie «sapiens»: a modificazioni genetiche, alla cosiddetta encefalizzazione o anche ad altri fattori, come quelli sociali? «L’encefalizzazione è stata una forte tendenza in differenti linee evolutive del genere «Homo» negli ultimo due millioni di anni. Ma il modo inusuale che noi abbiamo di processare informazione nella nostra mente è apparso solo molto di recente, e solo nella nostra linea. Probabilmente a causa di una fortunata coincidenza di acquisizioni». Non c’è dubbio che almeno due specie del genere «Homo» hanno avuto la capacità di diffondersi in quasi tutti i continenti. Come spiega questa forte e rara «spinta a viaggiare», che è stata la premessa per diventare «signori del pianeta»?
«Non appena i membri del nostro genere Homo hanno acquisito la moderna forma del corpo divennero manifestamente mobili, come mai avvenuto in passato, diffondendosi fuori dall’Africa e raggiungendo rapidamente l’Asia orientale. Anche dopo sembra che l’Africa abbia prodotto successive ondate di nuove specie di ominidi che si sono diffuse nel Vecchio Mondo. Tutto questo, evidentemente, è avvenuto sia grazie alla loro mobilità che alla loro adattabilità. Ma io vorrei suggerire: anche grazie al possesso di una cultura materiale».
Le analisi genetiche dimostrano che «Homo sapiens» ha avuto contatti (anche riproduttivi) con altre specie del genere «Homo». Cosa le suggerisce questa contaminazione?
«Questo ci dice che le specie giovani possono essere capaci, in una certa misura, di scambiare geni con i parenti più prossimi. Comunque, questi scambi non sono stati biologicamente significativi, perché non sembra che abbiano avuto un effetto materiale sulla traiettoria futura di ciascuno dei partecipanti. I Neanderthal, per esempio, si sono estinti, mentre la nostra specie è diventata quella che è oggi».
Per molti millenni «Homo sapiens» moderno ha convissuto con altri specie di ominidi. Perché oggi è l’unica sopravvissuta?
«Sono sicuro che è grazie al modo inusuale e senza precedenti che noi abbiamo di gestire l’informazione. Il nostro ragionamento simbolico ci dà la capacità di pianificare e una serie di altri fattori di vita che contribuiscono al successo di una specie. Siamo diventati un competitore insuperabile. È questo il motivo per cui noi siamo soli al mondo oggi».

Lo scienziato al Salone del Libro
Ian Tattersall è un antropologo inglese naturalizzato statunitense ed è uno dei personaggi più noti nel mondo dello studio dell’evoluzione umana. Dal 1971 al 2010 è stato curatore della divisione di Antropologia dell'American Museum of Natural History di New York, e autore di molti libri e articoli. Ieri a Torino ha presentato il suo nuovo lavoro, «I signori del pianeta. La ricerca delle origini dell'uomo» pubblicato da Codice (pagine 295, euro 15,90) sul primato dell’Homo Sapiens.

venerdì 17 maggio 2013

il Fatto 17.5.13
L’unica via contro l’inciucio
In piazza con la Fiom per dire no
di Paolo Flores d’Arcais


L’Italia che in schiacciante maggioranza ha votato qualche settimana fa per una svolta di giustizia e libertà, e si ritrova invece con il governo della Casta voluto da Giorgio Napolitano e dominato da Silvio Berlusconi, l’Italia civile che vuole realizzare la Costituzione, che vuole combattere il regime della corruzione e del privilegio, dell’acquiescenza con le mafie e del servilismo dei media, l’Italia che resiste, che progetta, che ha ogni titolo morale per governare, scende domani in piazza a Roma, si raccoglie in corteo fino a San Giovanni intorno ai metalmeccanici della Fiom per una manifestazione di lotta e di proposta.
IL SINDACATO di Maurizio Landini dimostra una volta di più, con questa iniziativa dal titolo inequivocabile (“Basta! Non possiamo più aspettare”), come sia necessario dare respiro generale, cioè politico, a rivendicazioni rigorosamente sindacali che altrimenti sarebbero sconfitte in partenza.
Come la centralità del lavoro, cioè dei diritti concreti e quotidiani di operai, tecnici, impiegati, sempre più spesso disoccupati o precari, debba essere il cuore di un programma di riforme che ineludibilmente riguarda la scuola, la ricerca, l’evasione fiscale, il reddito di cittadinanza, l’impegno ecologico, la giustizia di classe e di establishment. Senza questo respiro politico, capace di coinvolgere l’intera società civile, ogni lotta operaia è condannata all’isolamento e perciò alla sconfitta.
Una manifestazione costruttiva, positiva, riformatrice, quella di domani. Ma proprio per questo una manifestazione contro il governo, inequivocabilmente e radicalmente.
Tra l’establishment del privilegio, che nel governo Berlusconi-Napolitano celebra l’apoteosi, e la volontà riformista del “Terzo Stato”, che la logica dei privilegi crescenti deve invece sovvertire, la divisione e lo scontro non può essere che frontale, quasi manicheo.
PER RAGIONI strutturali, perché non siamo affatto “tutti nella stessa barca”, perché solo con una grande redistribuzione di ricchezze si può uscire dalla crisi economica e rilanciare la produzione. Non si esce dal baratro se non si colpiscono i privilegi, cominciando dai più grandi, e dalla tolleranza zero verso quelli nutriti di illegalità. Ecco perché domani saranno plasticamente evidenti due Italie incompatibili: quella che può salvarci dalla crisi con la legalità e l’efficienza, e che parlerà per bocca di Landini, Rodotà, Strada, e quella dei caimani, della prevaricazione e della menzogna santificate a sistema, che ci trascina nel baratro. Chi non sceglie la prima è già con la seconda. 

Corriere 17.5.13
Gli Occupy Pd in piazza


MILANO — «Romano ripensaci». I ragazzi di Occupy Pd organizzano una manifestazione nazionale a Bologna, a metà di giugno. In quella occasione inviteranno l'ex premier Romano Prodi, al quale consegneranno la maglietta «Siamo più di centouno». L'iniziativa nasce dall'esigenza di far ripartire il Pd «resettando» la logica delle correnti. Elly Schlein spiega: «La notizia che Prodi non vuol più iscriversi al Pd ci rattrista perché lui è stato la personalità che ha dato il contributo fondamentale. Comprendiamo la sua amarezza, ma vorremmo dirgli che ci sono ancora ragioni per credere nel Pd come lui l'ha voluto, e queste ragioni sono alla base della nostra iniziativa politica. Noi non ci riconosciamo in nessuna corrente e come noi, in tutta Italia, ci sono tantissimi amici che ci dicono: "Andate avanti, ci restituite la voglia di partecipare". Purtroppo l'elezione di Epifani non va in questo senso».

l’Unità 17.5.13
Epifani: uniti per l’esecutivo: serve un partito coeso per sostenere il governo
Occorre cercare, proprio sul sostegno al governo, un cemento che rimetta insieme il partito
Renzi e Epifani sono in assoluta sintonia
Stefano Fassina: Partito e governo stesso destino


il Fatto 17.5.13
Sondaggi: Berlusconi vola sulle ali di Napolitano e Pdl
L’inciucio voluto col Colle prepara la vittoria del Pdl
Il Pd arranca
Il Caimano è ogni giorno di più in campagna elettorale
Forte della sponda del Quirinale, sfrutta la crisi dei democratici ridotti a donatori di sangue
di Paola Zanca


Berlusconi andrebbe a votare anche domani mattina. I sondaggi vanno benissimo, l’elezione lo salverebbe anche dai processi. Ma non può. Ve lo ricordate cosa ha detto Napolitano alla Camera? ”. Siamo a due passi dall’ingresso di Montecitorio. Collaboratori fidatissimi del Pdl si dividono il lavoro con le troupe. Tutti vogliono una dichiarazione, un’immagine. Qualcosa che spieghi come mai, il Pdl, sembra non avere nessuna intenzione di mollare il governo Letta per la via. Per trovare la risposta, però, rimandano tutti a una frase, un inciso, pronunciato dal presidente Giorgio Napolitano davanti al Parlamento riunito: “Mi accingo al mio secondo mandato - diceva nel discorso del 20 aprile - senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione ‘salvifica’ delle mie funzioni; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”.
È QUI, in queste parole, che il centrodestra legge chiaro il “ricatto” del Quirinale. Se togliete la fiducia al governo - traducono - io mi dimetto e spetterà al prossimo presidente decidere se sciogliere le Camere. Così, terrorizzati dall’ipotesi di un Capo dello Stato che si metta alla ricerca di altre maggioranze, i fedelissimi di Berlusconi provano a restare quieti, cercando di portare a casa il più possibile da questa legislatura che, dicono, “durerà almeno due anni”. Eppure, i numeri li avrebbero dalla loro parte. Mentre il Pd, dal giorno delle elezioni a oggi, arriva a perdere, secondo alcuni sondaggi, più del 3 per cento; il Pdl galoppa su percentuali di crescita che toccano perfino l’8. Berlusconi, oggi, governa sulla carta il primo partito d’Italia. Era ultimo, a febbraio. Superato dal centrosinistra, scavalcato dai Cinque Stelle.
MA IL GOVERNO delle larghe intese ha cambiato tutto: ha tagliato le gambe al Pd - che in settanta giorni ha bruciato un premier incaricato, due potenziali presidenti della Repubblica e un segretario - ha messo in crisi quella parte di consenso a Beppe Grillo che credeva fosse giusto sporcarsi le mani con il governo.
Così, paradossalmente, è l’ultimo classificato a rialzare la testa. Non lo ferma la richiesta di condanna a sei anni del processo Ruby. Ieri, in un colloquio con il Messaggero, Napolitano lo ha rassicurato: “Capisco chi si trova impigliato” in processi e vicende giudiziarie di rilievo - ha detto - ma “meno reazioni scomposte arrivano, meglio è dal punto di vista processuale”. Restate calmi, e tutto si risolverà.
MA AL DI LÀ delle faccende in Tribunale, sono ancora una volta le questioni economiche a consigliare sangue freddo. “Siamo sul filo del rasoio con Bruxelles”, ricorda il Quirinale. Il neo segretario del Pd Guglielmo Epifani ha ammesso che la nostra situazione finanziaria è peggio del previsto, sostiene che ci sia quella “polvere sotto il tappeto” che Bersani aveva paura di trovare al suo arrivo al governo. Ma sono proprio i falchi del centro-destra quelli che più tirano la corda sui conti italiani: dall’Imu in giù, la credibilità internazionale del governo Letta rischia di finire schiacciata dalle pressioni del partito di Berlusconi.
Lui, comunque, cresce. Ed è lo stesso Grillo, nei comizi che sta tenendo in giro per l’Italia in vista delle amministrative, a dire che la sfida, ormai, è tra loro due. È convinto che si vada a votare ad ottobre, il leader dei Cinque Stelle. E, nel dubbio, anche in Parlamento, è cominciato lo scouting. Se davvero il governo Letta andasse a rotoli e le elezioni però fossero rimandate, il sostegno dei grillini diventerebbe determinante per i democratici. Raccontano che Berlusconi abbia già messo in conto il rischio e si stia già attrezzando a pescare nuovi Scilipoti, cercandoli tra quelli che, prima di incontrare Grillo, erano elettori del centrodestra.
Nel frattempo, però, meglio restare nell’ombra. Dopo il caos di Brescia - dove l’ex premier si è trovato una piazza divisa tra fan e contestatori - si è deciso di rinunciare ai comizi per un po’. “Il presidente Berlusconi è rimasto particolarmente scosso dalle violenze di piazza avvenute a Brescia - fa sapere il coordinatore Pdl Denis Verdini - e ha pertanto deciso di annullare i prossimi comizi elettorali ad eccezione di quello a sostegno di Gianni Alemanno, candidato sindaco a Roma”. Un altro che era distrutto. Resuscitato dai guai del Pd e dall’inesperienza dei Cinque Stelle.

Repubblica 17.5.13
Effetto-larghe intese su Fininvest ieri bingo in Borsa da 88 milioni
Dopo il voto le società di Berlusconi più ricche del 43%
di Ettore Livini


MILANO — Ottantotto milioni di guadagno in 24 ore. L’effetto-larghe intese continua a regalare giornate d’oro a Silvio Berlusconi. La politica (per ora) non c’entra. A far sognare il Cavaliere — dopo l’insperata rimonta elettorale e il varo del governissimo — sono le performance stellari delle sue aziende quotate in Borsa, tonificate dalla ritrovata centralità istituzionale del loro azionista di riferimento. L’ultimo “bingo” è fresco di ieri: i titoli Mediaset, protagonisti di una seduta pirotecnica in un listino fiacco, hanno chiuso in rialzo del 6%. Mediolanum, altro gioiello del Biscione, è balzata dell’1,7%. Risultato: dopo la campanella di chiusura dei mercati, la Fininvest si è ritrovata (virtualmente) in tasca 88 milioni in più di quelli che aveva martedì sera.
Il copione, anche se non a questi ritmi folli, va in replica senza soluzione di continuità dal 26 febbraio. Il risultato delle urne ha certificato l’ennesima “resurrezione” elettorale del lider maximo del centrodestra. E le sue aziende da allora non hanno mai smesso di festeggiare: il patrimonio azionario di Arcore valeva alla vigilia del voto poco più di 1,8 miliardi. Oggi è cresciuto del 43% (contro il +7% dell’indice Mibtel) a quota 2,6 miliardi, garantendo a Berlusconi un guadagno potenziale di 782 milioni in poco più di due mesi. Un risultato mai raggiunto nemmeno nell’era — non troppo lontana — delle varie leggi “ad aziendam”.
La corsa della scuderia Fininvest a Piazza Affari, oltretutto, ha accelerato il passo a ritmi da slot machine subito dopo il decollo del Governissimo. Dal 28 aprile, giorno del giuramento dell’esecutivo Letta, il patrimonio azionario di Arcore è lievitato di 329 milioni — +21% contro il +6% del listino — regalandogli più o meno un milione di euro all’ora, notte e festivi compresi.
I 100mila euro al giorno che il Cavaliere deve pagare ogni giorno a Veronica Lario saranno pure «una cifra fuori da ogni senso della realtà e della misura», come ha fatto notare con sobrietà sua figlia Marina. Il “tesoretto” accumulato dal 24 febbraio, però, basta da solo a garantire all’ex-moglie gli alimenti fino al 31 dicembre 2227. Prosit. Nemmeno gli analisti più fantasiosi riescono a spiegare il boom di Mediaset e Mediolanum con i fondamentali delle due aziende. Specie per quanto riguarda le tv un po’ acciaccate del Biscione: Cologno ha chiuso il 2012 con il primo rosso della sua storia (287 milioni) e nel primo trimestre di quest’anno ha messo assieme un utile striminzito di 9 milioni solo grazie a un pesantissimo piano di tagli ai costi. Non solo: gli ascolti sono da tempo al palo — in aprile l’audience delle reti ammiraglie in chiaro di casa Berlusconi è scivolata quasi di un punto al 31,3% — e nemmeno la speranza di un asse con la Sky di Rupert Murdoch sulle pay-tv (i due tycoon hanno fatto pace negli ultimi mesi) basta a giustificare i fuochi d’artificio azionari di questi giorni.
Per conferma basta chiedere a Mediobanca, giudice (almeno lei) al di sopra di ogni sospetto visto che la stessa Fininvest ne controlla una quota del 3%: Piazzetta Cuccia assegna a Mediaset un target price — vale a dire un obiettivo di prezzo in Borsa tra un anno — di 1,7 euro. E qualche giorno fa, con il titolo già arrivato a quota 2,1 parlava di quotazioni «un po’ troppo generose». La prudenza dell’oracolo del salotto buono non è bastata però a frenare l’euforia tutta politica di Piazza Affari, visto che ieri le azioni delle tv del Cavaliere hanno chiuso la giornata a un soffio da quota 2,5 euro.
Fininvest, intendiamoci, ha vissuto in passato momenti migliori. I titoli Mediaset sono stati collocati in Borsa nel 1995 a 3,6 euro. Nel 2005 il Cavaliere ha piazzato sul mercato una partecipazione del 16% a un prezzo di 10,55 euro ad azione. Da allora però si è spenta la luce. E a novembre 2011, quando il leader del centro-destra — spodestato dallo spread oltre quota 700 — ha lasciato la guida del governo a Mario Monti, il valore di Cologno è sprofondato a quota 1,16. Il recupero, guarda caso, è iniziato alla fine del 2012 quando il mercato — malgrado la crisi degli spot avesse affondato i conti del Biscione — ha iniziato a fiutare la remuntada elettorale del socio di riferimento dell’azienda.
Il boom di questi giorni aiuterà a riportare un po’ di serenità anche nei vari rami dinastici della famiglia dell’ex premier. I conti Fininvest, in effetti, non sono più quelli di una volta. Il Biscione — complici i problemi delle tv e le spese pazze per il Milan — non distribuisce dividendi dal 2010. E l’ex premier e i figli sono stati costretti a mettere mani ai loro tesoretti personali faticosamente accumulati negli ultimi anni per far quadrare i conti di famiglia. Nessuno è rimasto comunque a corto di liquidità: in fondo da quando è sceso in politica nel ‘94 il patrimonio custodito nelle otto casseforti di casa Berlusconi è cresciuto da 162 milioni a quasi un miliardo.

il Fatto 17.5.13
Pd, la stupidità non è una disgrazia
di Bruno Tinti


OLTRE un certo livello la stupidità non è più una disgrazia, è una colpa. Tutti sanno che il Pd ha fatto un governo con il Pdl. In realtà non è vero: il Pd ha fatto un governo con B. che ha ordinato ai suoi dipendenti di sostenerlo. Il Pd, grato (ci siamo salvati da Grillo e grillini), ha immediatamente accettato la prima delle condizioni di B. : abolire l’Imu. Naturalmente sia il Pd che B. sanno benissimo che l’Italia non può togliere dal proprio bilancio 5 o 6 miliardi di euro che da qualche parte dovranno essere recuperati; che l’unico modo per recuperarli è aumentare le imposte, probabilmente l’Irpef; che, in questo modo, l’onere contributivo ricadrà sui lavoratori dipendenti e sui pensionati visto che sono gli unici che non possono evadere; che l’abolizione dell’Imu significherà, come di consueto, privilegiare i ricchi e tartassare i poveracci. Fino a qui la stupidità cui alludo è quella degli elettori di B. tra cui ci sono molti ricchi (che non sono stupidi per niente) e moltissimi poveracci che non capiscono che i loro interessi non possono essere gli stessi di quelli di una partita Iva con una collezione di Ferrari nel garage della sua villa. Ma c’è un altro genere di stupidità, quella propria del Pd. L’abolizione dell’Imu si tradurrà automaticamente in incremento di popolarità per B. : ecco uno che mantiene le promesse! Proprio vero.
SOLO CHE QUESTO uno è anche un delinquente (senso tecnico della parola: persona che delinque; e B. ha subito 6 sentenze di prescrizione: reati commessi ma è passato troppo tempo perché sia possibile mandarlo in prigione; 2 di amnistia e 2 perché il fatto non è più previsto come reato per via di leggi che si è fatto apposta) che a breve dovrebbe essere condannato – tra processi Ruby, Mediaset, De Gregorio e Unipol – a circa 15 anni di galera. Il che significa che l’unica riforma che proprio gli serve è quella sulla giustizia. Che sarà divisa in due parti: quanto serve per annullare l’effetto di queste sentenze, dunque amnistia e indulto (che tireranno fuori dalle prigioni tantissimi altri delinquenti) ovvero nuovo accorciamento dei termini di prescrizione; e quanto serve per bloccare le indagini in corso su B&C e altre che noi ancora non sappiamo, ma che lui sa benissimo (blocco intercettazioni e abrogazione del potere di iniziativa dei pm). Dunque B. pretenderà immediatamente la “sua” riforma della giustizia. E a questo punto il Pd che farà? Ipotesi 1: sì è proprio vero, la giustizia italiana è malata e costruita espressamente per perseguitare B. e gli altri benefattori del Paese; questa riforma è una priorità. Con il che l’Italia sarà fregata e l’illegalità, la prepotenza e il privilegio prospereranno. Ipotesi 2: non se ne parla nemmeno, la legalità è il cardine della convivenza civile; anzi, processo penale e processo civile vanno razionalizzati e resi efficaci. Ah sì?, ghignerà B. ; e io vi tolgo la fiducia: nuove elezioni. E siccome gli stupidi, ipnotizzati dall’abolizione dell’Imu, saranno aumentati, le vincerà.
E la riforma della giustizia (e l’uscita dall’euro, l’insolvenza programmata, la bancarotta etc. etc.) se la farà da solo. Questa stupidità non è più una colpa; è un delitto.

il Fatto 17.5.13
Larghe intese
Ineleggibilità di B., Zanda stava scherzando
«Solo una posizione personale
di Marco Palombi


Il capogruppo grillino in Senato Vito Crimi prende in parola il capogruppo Pd Luigi Zanda sull'ineleggibilità di Berlusconi. Come Pdl ci chiediamo se dobbiamo prenderlo in parola anche noi”. Per non lasciare inevasa la giusta curiosità della deputata ex An, Barbara Saltamartini, meglio rispondere subito: no, il Pd non voterà l’ineleggibilità del Cavaliere.
É lo stesso Zanda a dirlo nel pomeriggio, per inciso dopo una telefonata con Enrico Letta (“si sentono spesso”, minimizzano fonti del gruppo): “La mia non è una mossa tattica. Sull'eleggibilità di Berlusconi da dieci anni ho una posizione personale e non sarebbe serio cambiarla ora. Non faccio parte della Giunta delle elezioni del Senato e quindi non voterò su questa materia, né mi sfuggono i precedenti della Camera che ha già votato varie volte con un’interpretazione opposta alla mia”. Poi, il tapino, è andato pure a Porta a Porta per espiare.
Ma cos’era successo? Semplicemente che Zanda, in un’intervista ad Avvenire, aveva ribadito che per lui Berlusconi “in quanto concessionario [di frequenze tv, ndr], non è eleggibile” per via della legge del 1957. Non solo: il Cavaliere non va nemmeno nominato senatore a vita perché “in 77 anni di Repubblica nessuno che abbia condotto la propria vita come Berlusconi è mai stato nominato a quella carica” (e questa è forse la cosa che gli interessava di più dire). Parole di miele, comunque, per il Movimento 5 Stelle: “Siamo pronti a sostenere e votare nelle apposite sedi l’ineleggibilità del senatore Berlusconi”, aveva subito fatto sapere Vito Crimi.
Apriti cielo. Per il Pdl si tratta, tecnicamente, di lesa maestà: “Zanda non facilita il compito del governo Letta”, scandisce Renato Schifani; “se il Pd vota l’ineleggibilità è chiaro che andiamo tutti a casa”, spiega prosaicamente Altero Matteoli; “vuole intimidire Napolitano”, sostiene Renato Brunetta; “l’antiberlusconismo di Zanda è quanto mai demodé”, la butta lì Gabriella Giammanco.
L’avvocato/deputato di Berlusconi, Piero Longo, già che c’è avverte che il governo cadrà comunque “un minuto prima” che il suo cliente venga “interdetto dai pubblici uffici in Cassazione”. E i democratici? Silenti. Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa proprio in Senato, è l’unico a prendere le distanze da Zanda in pubblico: “Non spetta né a me né a lui decidere chi deve fare il senatore a vita”. Alcuni deputati di rito franceschiano, invece, nel Transatlantico deserto di ieri parlavano anonimamente assai male dell’uscita del capogruppo e la legavano alle prossime amministrative: in sostanza, Zanda avrebbe parlato di ineleggibilità per conquistare ad Ignazio Marino i voti degli antiberlusconiani. Il veltroniano Andrea Martella, dal canto suo, faceva un curioso parallelo: “Ogni giorno esponenti autorevoli, e meno autorevoli, del Pdl si dilettano su qualsiasi argomento: minacciano l’esecutivo, marciano contro la magistratura, propongono leggi che sanno benissimo non saranno mai approvate in questa legislatura”. Noi, rivendica il nostro, “ci passiamo sopra quasi ogni giorno” e ora che Zanda “ha espresso un’opinione, la si condivida o meno“, cos’è tutto questo casino? Insomma, sono solo parole.
Ma al dunque che succederà? L’ex magistrato Felice Casson, che fa parte della Giunta per le elezioni, non si sbilancia: “Siamo un organismo paragiurisdizionale e quindi ci vuole un minimo di riservatezza. Dico solo due cose. La prima è che si tratta solo di una decisione tecnica: se la si vuole usare come scusa per far saltare il governo, ognuno si prenderà le sue responsabilità. E poi che non vivendo in un regime di common law i precedenti non sono decisivi”. Il riferimento è alle decisioni della omologa Giunta della Camera, che nelle scorse legislature ha sempre dichiarato Berlusconi eleggibile. Fonti di partito, però, non prendono nemmeno in considerazione la cosa: “Non succederà niente. E poi come si fa a dire dopo vent’anni che uno è ineleggibile? ”.
Curiosamente, però, la faccenda si trascina perché manca proprio la Giunta: non s’è costituita – è convocata per martedì - perché tra le opposizioni non c’è accordo sul presidente. Pareva dovesse essere il vendoliano Dario Stefàno - con la Lega che si prendeva il Copasir - ieri però il borsino è tornato a propendere per il padano Raffaele Volpi, sicuramente non sgradito al Cavaliere.

il Fatto 17.5.13
Così il no di Bersani a Rodotà spinse il Pd fra le braccia di B.O
di Fabrizio d’Esposito e Wanda Marra


Come sarebbe cambiata la storia politica degli ultimi tre mesi se Bersani avesse ascoltato D’Alema, prima delle consultazioni al Quirinale, e fatto un passo indietro a favore di Stefano Rodotà per Palazzo Chigi? Risponde Pippo Civati, deputato filogrillino del Pd: “Avremmo avuto il governo del cambiamento, Prodi al Quirinale e Berlusconi sulle barricate. Oggi il Cavaliere è sempre sulla barricate ma, ahimé, è nostro alleato. Tutto potevo immaginare tranne che Massimo D’Alema aveva avuto la mia stessa idea”.
LA NOTIZIA pubblicata ieri dal Fatto, “D’Alema chiese a Bersani di fare un passo indietro e proporre Rodotà come premier”, ha messo in subbuglio il già devastato Pd sin dalle sette di mattina. A infuriarsi più di tutti Bersani e i bersaniani che poi, interpellati dal Fatto, hanno preferito aggrapparsi alla precisazione della portavoce dalemiana, che smentisce le frasi attribuite all’ex premier: “Sono riportate frasi che Massimo D’Alema non ha mai pronunciato”. Una smentita sulle frasi, non sulla notizia. Tanto è vero che l’Ansa, la principale agenzia di stampa, ha cambiato nel giro di 30 minuti il titolo al comunicato di D’Alema. Da “Governo: portavoce D’Alema, non ha mai proposto Rodotà premier” delle 11.08 a “Governo: portavoce D’Alema, non ha mai parlato con il Fatto” delle 11.41. La notizia dell’incontro tra i due, con tanto di proposta per il passo indietro, è vera. Ma anche di fronte all’evidenza l’ex cerchio magico di Bersani rifiuta di pronunciarsi e al massimo minimizza: “Non ci pare una cosa di fondamentale importanza”.
Invece è il contrario. In quei primi venti giorni di marzo (il preincarico a Bersani è del 22) il dibattito interno sul “passo di lato” del candidato premier “primo ma non vincitore” si allargò poco alla volta. Motivo: costringere il Movimento 5 Stelle a dialogare. Se ne convinsero pure i giovani turchi sino ad allora fedeli al segretario.
RICORDA uno di loro: “È tutto vero e anche D’Alema era d’accordo. Noi eravamo per Barca, lui per Rodotà”. E quando poi il preincarico sfumò e tutto andava in direzione delle larghe intese, i giovani turchi non mollarono: “Grillo faccia lui un nome”. Il tema di “aver inchiodato il Pd al destino di Bersani” è cruciale, prima o poi destinato a scoppiare. Persino Walter Veltroni concorda con D’Alema. Con una sola differenza: Veltroni, lo ha detto ieri, preferiva un governo Bonino “gradito al M5S” e “non contestabile dal Pdl”. Resta da capire solo il perché di queste rivelazioni pubbliche a posteriori. Fatte prima avrebbero potuto avere effetti concreti. Gli antidalemiani del Pd insinuano che sono regolamenti di conti perché la rottura tra “Pier Luigi” e “Massimo” avrebbe avuto un epilogo fatale: il segretario avrebbe bruciato D’Alema per il Colle. Questo è un racconto diverso e va collocato nei due giorni del disastro democrat su Marini e Prodi.
GIOVEDÌ 18 aprile, i franchi tiratori silurano Marini e si arriva all'assemblea dei grandi elettori del Pd di venerdì 19, al Capranica di Roma. Il partito è provato, sfilacciato. Quale dev'essere il candidato finale? Si moltiplicano gli incontri, i faccia a faccia. D'Alema vuole giocarsi la partita del Colle. Ma c'è una larga parte del Pd che vuole Romano Prodi. E allora, nel vertice serale al Nazzareno si individua una soluzione: ci sarà un voto a scrutinio segreto, in cui i grandi elettori democratici dovranno indicare Prodi o D'Alema. Un segno su uno dei due, una scelta secca. Ma durante la notte le cose cambiano: la valutazione è che un’operazione del genere possa spaccare il partito in due. E allora si opta per un'altra soluzione. A ogni elettore verrà distribuita una scheda sulla quale deve apporre un nome. Su proposta dei vertici del Pd. La sequenza è concordata: Bersani proporrà Prodi. Poi, si alzerà Anna Finocchiaro e indicherà D'Alema. Ma quella mattina le cose vanno in un modo diverso. Bersani effettivamente fa il nome di Prodi. Scatta l'applauso. Quasi inaspettato. A quel punto c'è chi racconta persino di aver visto Vasco Errani, uno dei colonnelli bersaniani, correre verso la Finocchiaro e bloccarla. Fatto sta che lei non si alza. Momenti di confusione generale. Luigi Zanda, dalla presidenza, comincia un intervento. In realtà, raccontano, sta chiedendo un voto ad alzata di mano per procedere alla votazione segreta. Non tutti capiscono. Molti applaudono e alzano le mani per dire sì alla candidatura di Prodi, altri pensano di dire sì alla votazione. Tutti in piedi. Sembra una standing ovation. A quel punto l’Assemblea si scioglie. È durata in tutto un quarto d’ora. Poi, tutti fuori dal Capranica, verso Montecitorio. I 101 franchi tiratori si organizzano. Fabrizia Giuliani, neodeputata romana vicina a D'Alema, commenta un attimo prima di entrare in aula: “Adesso andiamo a votare, ma se per caso Prodi non dovesse farcela, cambia tutto”. Il resto è storia. Al fondatore del Pd mancano 101 voti democratici. I loro nomi sono e saranno un mistero destinato a pesare. “L’obiettivo non fu solo affondare Prodi, ma fare fuori Bersani”, è l'opinione degli uomini dell'ex segretario.

il Fatto 17.5.13
Bari, dopo l’arresto del presidente Pd
Terremoto politico
La Provincia si dissolve: Pd, Sel e Udc si dimettono
di S. A.


Le macerie del terremoto politico iniziato due giorni fa con l’arresto del presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido del Pd nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente svenduto” hanno finito per travolgere l’intera Giunta e il gruppo consiliare del Pd che ieri hanno seguito l’esempio del presidente e si sono dimessi. Si chiude così, sotto i colpi della magistratura che, suo malgrado si ritrova ancora a supplire al senso di responsabilità della politica, l’esperienza della Provincia governata da una maggioranza composta da Pd, Sel, Udc, la lista del territorio “Noi centro” e la lista civica di Florido confluita nel Pd.
Decisione presa dopo una riunione fiume in cui è prevalsa la consapevolezza della gravità delle accuse: impossibili da ignorare anche per un partito che ha messo la testa sotto la sabbia di fronte alla pubblicazione delle conversazioni intercettate in cui l’ex responsabile delle relazioni esterne dell’Ilva, Girolamo Archinà, si lamentava del fatto che le sue richieste non fossero andate in porto contrariamente a quanto garantito da Florido: “Tutto a posto, gli uffici procederanno”, aveva detto dopo aver esercitato (secondo l’accusa) pressioni e minacce sui dirigenti perché firmassero “a vista” le richieste dell’Ilva. E tutto accade mentre il telefono del segretario regionale del Pd pugliese, Sergio Blasi, continua a tacere: nessuna chiamata né dal “traghettatore” al Congresso, Guglielmo Epifani né dall’ex segretario Pier Luigi Bersani né da altri della Direzione del partito come se si fosse trattato di una piccola scossa di assestamento senza danni.
Mentre ieri il presidente della Regione, Nichi Vendola, al termine della conferenza stampa sul patto di stabilità, prendendo spunto da una domanda sulla vicenda sua e del direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, ha precisato che “ogni tre mesi i giornali hanno bisogno di ricicciare, della presunta violenza mia nei confronti di Assennato cioè il mio pupillo, il mio eroe, quello che io ho voluto e confermato presidente dell’Arpa. Stiamo parlando di nulla”.

l’Unità 17.5.13
Il Pd nell’Italia del risentimento
di Michele Ciliberto


HO LETTO CON MOLTO INTERESSE, E SOSTANZIALE CONSENSO, GLI ARTICOLI CHE GIANNI CUPERLO E ALFREDO REICHLIN HANNO PUBBLICATO SU L’UNITÀ individuando, sia pur con accenti diversi, nella crisi della democrazia il problema principale dell’Italia di oggi. Per «democrazia», in questo contesto, si intende il complesso delle forme della rappresentanza, della partecipazione, del rapporto tra politica ed economia. In una parola, le forme della sovranità democratica che si sono costituite attraverso una lunga storia. In questo contesto, «democrazia» e «sovranità» individuano un
campo semantico e politico omogeneo. Unum et idem. Sono queste forme, e questo intreccio, che sono andate in crisi profondissima in Italia e non solo in Italia, occorre aggiungere (anche per non cadere nel solito provincialismo). Ma questo processo in Italia ha assunto caratteri specifici che in genere si è soliti definire con il termine «berlusconismo». Una definizione generica come tutte le definizioni che non afferra la profondità e la sostanza del problema. Il ventennio berlusconiano, e la torsione reazionaria che ha dato alla nostra democrazia, sono infatti parte di un processo più vasto che va colto in tutta la sua durata per essere compreso e, se è possibile, combattuto. In breve: la crisi del rapporto tra sovranità e democrazia precede il berlusconismo che, certo, di questo lungo processo è stato una causa scatenante e un eccezionale acceleratore, riuscendo a costruire, intorno a se stesso, un larghissimo consenso. Punto questo che diventa incomprensibile se ci si ferma agli epifenomeni, senza cogliere la sostanza della cosa: cioè la crisi, anzi la rottura, operata dal berlusconismo tra sovranità e democrazia.
GLI ERRORI PARALLELI
Finché non capiremo questo e gli effetti che questo ha generato a tutti i livelli continueremo a commettere due errori paralleli: continuare a meravigliarci delle rinascite di Berlusconi e non comprendere le radici della crisi della politica democratica in tutte le sue forme, compresi, ovviamente, i partiti. Come le rinascite di Berlusconi non sono un accidente (ma cause ed effetto della torsione reazionaria, anzi dispotica, della nostra democrazia nell’ultimo ventennio) allo stesso modo la crisi dei partiti a iniziare dal Pd sono conseguenze di processi più larghi che riguardano in primo luogo la crisi e poi la rottura del nesso tra sovranità e democrazia. Investono, insomma, un campo assai più vasto di quello al quale si limitano gli opinionisti politici: riguardano il fondamento del nostro vivere repubblicano, cioè il nesso tra sovranità e democrazia come si configura nella nostra Carta costituzionale. In breve, la questione di oggi riguarda le radici originarie del nostro vivere civile, quelle basi per cui l’Italia è stata una democrazia. Questo è il problema, ed è immenso, né è detto che sia risolvibile. Ci sono, come è noto, teoremi che sostengono l’impossibilità della decisione democratica in quanto tale.
La democrazia è una possibilità, una scelta: non un destino, una necessità. Ma posto che sia risolvibile, il problema può essere affrontato solo avendo pieno consapevolezza della posta in gioco, del punto drammatico al quale siamo arrivati. E così non è. Le politiche che si scelgono, le prospettive che si delineano, mancano di questa consapevolezza. Ritengono, in generale, di poter risolvere per via amministrativa quello che è un problema essenzialmente politico (senza voler togliere valore alle politiche di contenimento della spesa, quando siano necessarie). Lo so: il Pd ha avuto sentore che si era aperto un problema attinente le fondamenta della sovranità democratica e, per cercare di affrontarlo, ha ritenuto di far ricorso alle primarie, cioè a una forma propria della democrazia diretta. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e ciascuno può esprimere il giudizio che vuole. Un punto però è chiaro; come ci ha insegnato la storia, la democrazia diretta, in tutte le sue forme, è uno strumento assai insidioso e ambiguo perché, da un lato, avvicina e questo è positivo governanti e governati; dall’altro si risolve in derive di tipo autoritario e dispotico perché per sua stessa natura essa semplifica, fino a dissolvere, le articolazioni attraverso cui un vivere civile democratico può, e deve, svilupparsi. La democrazia, per essere tale, vive di forme e procedure assai complesse, non di semplificazioni che a loro volta sfociano nel potere di una oligarchia, di un capo, di un leader carismatico. Sono due facce della stessa crisi, anzi della stessa degenerazione.
È importante, a questo punto, sottolineare uno degli effetti più gravi della rottura del rapporto fra sovranità e democrazia, che si riflette in modo uniforme a destra e sinistra, sconvolgendo il tradizionale panorama elettorale. Come si è visto proprio dalle elezioni il nostro Paese è in una fase tumultuosa di trasformazioni che toccano tutti i piani; ma esse derivano in larga parte da una crisi sociale traumatica e senza precedenti che ha messo in questione ruoli e funzioni, approfondendo al massimo le diseguaglianze. Questa crisi si è intrecciata, potenziandola, alla crisi già in atto da tempo del rapporto tra democrazia e sovranità, a tutti i livelli. Questo è dunque il punto da cui partire, ed è noto, in generale. Quello che è meno conosciuto è l’effetto catastrofico che questa doppia crisi, intrecciandosi e poi fondendosi, ha generato nella società italiana, stravolgendo modelli di comportamento, scelte politiche e, perfino, sensi comuni.
Essa ha infatti assunto una forma che per la democrazia può essere letale perché è quella del «risentimento» nel senso forte del termine; rivalsa, rivolta, rovesciamento e rifiuto dei valori civili e politici ordinari, a cominciare da quelli della democrazia rappresentativa? Insomma «risentimento» nella forma in cui ne hanno parlato alcuni grandi filosofi: non semplice astio e rivendicazione ma forza profonda, in grado di spostarsi sul piano sociale e politico, innescando processi potenzialmente incontrollabili. Il successo del Movimento 5 Stelle si radica qui: è stato capace di interpretare e dare voce politica a questo «risentimento», scendendo, simmetricamente, sia sul piano della crisi sociale che su quello della sovranità democratica, ricorrendo, in modo intransigente, alle forme e alle tecniche della democrazia diretta.
LA MISCELA ESPLOSIVA
Una miscela esplosiva (e dicendo questo non intendo togliere valore alla scelta che Grillo ha fatto istituzionalizzando, e «parlamentizzando», il risentimento). Questo è il problema, oggi, di fronte a noi, e questo è il problema con cui dovrebbe confrontarsi un partito che voglia configurarsi come una forza di cambiamento. Discutere in astratto di nuovi segretari, continuare a dividersi le spoglie tra le dodici tribù, chiudersi in polemiche generazionali; tutto questo è insensato, senza prospettiva. Oggi il compito principale di un partito di sinistra deve essere un altro: confrontarsi con tale «risentimento» nelle forme aperte, ma anche in quelle nascoste, e non meno aspre; afferrarne la portata; coglierne la complessità, irriducibile a schemi tradizionali; dargli una prospettiva ideale e politica.
Sono, anche in questo caso, due processi e due crisi che si intrecciano, fino a fondersi: la ricostruzione di un rapporto tra democrazia e sovranità è infatti possibile solo a condizione di interpretare la sostanza di questo «risentimento» sia dei nativi che degli immigrati dischiudendo ad esso, e subito, una alternativa di carattere democratico. Ma questo a sua volta suppone una riconsiderazione della società e della democrazia italiane; delle forme specifiche della loro crisi, a ogni livello; delle diseguaglianze che le opprimono. Soprattutto suppone, e richiede, una politica radicale: radicale almeno quanto è radicale il «risentimento» da cui l’Italia è avvelenata in questo momento.

l’Unità 17.5.13
Perché lo ius soli è una scelta di futuro
di Marco Pacciotti


L’IMMIGRAZIONE RIMANE PER L’ITALIA UN ARGOMENTO DI CONFRONTO «NUOVO» E MOLTO OSTICO, A VOLTE CON EFFETTI PREOCCUPANTI. La difficoltà più evidente è di lettura del processo migratorio e delle sue implicazioni nella trasformazione della società italiana. Quasi sempre lo si affronta come fosse un fenomeno circoscritto nel tempo e nello spazio e di conseguenza come argomento di nicchia.
Credo invece che l’immigrazione sia un dato strutturale e irreversibile, da affrontare fuori dalle ideologie. Bisognerebbe fare un salto di qualità nell’approccio, considerandolo una chiave di lettura per comprendere meglio i mutamenti avvenuti nel nostro Paese e per comprendere meglio cosa avverrà in futuro. Un approccio ben diverso quindi, una piccola rivoluzione copernicana nell’impianto culturale di quelle classi dirigenti politiche, economiche e della comunicazione che finora sembrano essere «spiazzate» dalla centralità che va assumendo questo tema. Un tema sempre meno circoscritto e sempre più diffuso. Basterebbe visitare un asilo o una scuola per intuire la portata storica e gli enormi potenziali benefici per la nostra società. Benefici che non sono automatici, ma che andrebbero accompagnati da un dibattito culturale maturo e consapevole e da leggi tanto necessarie quanto efficaci. Leggi necessarie non ai migranti o ai loro figli, ma all’Italia per crescere come Paese in grado di stare al passo con la globalizzazione e i suoi effetti. Lo ha compreso perfettamente il presidente Napolitano, quando ricevendo una delegazione di ragazzi di origine straniera nati o cresciuti in Italia, li definì «energia vitale» per il nostro Paese.
Stabilizzare questa presenza, circa un milione, significherebbe dare loro serenità e prospettiva. Questo renderebbe il nostro Paese più forte in termini di coesione sociale e in grado di affrontare le sfide future. In primis sul piano dell’innovazione e competitività nei mercati, dove solo la capacità di produrre nuove idee renderà i nostri prodotti richiesti. E da sempre le idee migliori nascono dall’incontro e la sintesi fra culture diverse, rispetto alle quali questi ragazzi sono un «ponte» naturale. In secondo luogo l’invecchiamento della società italiana necessita di questi ragazzi e dei loro genitori per poter mantenere in equilibrio ad esempio il sistema pensionistico. Basti ricordare come ad oggi vengono versati all’Inps dai loro genitori circa sette miliardi l’anno di contributi. Una tendenza destinata a rafforzarsi , al punto che il nostro sistema previdenziale rischierebbe il collasso senza la presenza di questi ragazzi e di quanti ne nasceranno ancora.
Credo che dovremmo ripartire da questa consapevolezza per affrontare correttamente il dibattito sul cosiddetto ius soli. Solo così potremo evitare di incagliarci negli scogli di discussioni piegate a calcoli politici cinici e strumentali, che vivono fuori dalla realtà di un Paese che invece si dice disponibile per oltre il 70% ad accettare una legge sulla cittadinanza che tuteli questi ragazzi. Una percentuale di italiani trasversale agli schieramenti e che dimostra di avere posizioni più avanzate a una parte dei propri rappresentanti.
Di recente invece in risposta alle affermazioni del ministro Kyenge di arrivare in questa legislatura all’approvazione di una legge che aggiorni le attuali norme di ottenimento della nazionalità per chi nasce o cresce in Italia, si è assistito all’ennesima levata di scudi. Un inasprimento dei toni non solo sbagliato ma a volte inaccettabile. Definire vergognose le affermazioni fatte da alcuni esponenti di spicco della Lega è poco, ma non sorprende il pulpito da cui provengono. Quello che sorprende è la discussione sullo ius soli nei media. A mio avviso falsata in partenza da due presupposti errati. Il primo lo ha introdotto indirettamente chi continua impropriamente a definire con il termine ius soli le proposte sull’ottenimento della nazionalità per i bimbi di origine straniera. Il secondo gettato nell’arena mediatica da Grillo parlando di Europa, facendo così passare l’idea implicita che esista un modello europeo di riferimento. Due presupposti errati che convergono evitando che si entri nel merito della proposta, costituendo di fatto un formidabile «fuoco di sbarramento».
Ritengo invece che sia utile e necessario affrontare la questione nel merito, rimuovendo le incrostazioni ideologiche e le furbizie. La prima cosa da riaffermare con nettezza è che in Europa non esiste un modello legislativo uniforme e che probabilmente così sarà ancora per molti anni. Questo in virtù delle peculiarità storiche, culturali e geografiche di ciascun Paese, prerogative queste che ne determinano l’approccio legislativo. Possiamo quindi affermare che chi fa appello all’Europa per questo specifico aspetto, lo fa volendo rimandare alle calende greche la questione. Rimosso questo primo elemento di confusione, è chiaro che l’Italia se vorrà modificare l’attuale legislazione, non potrà appellarsi a un modello uniforme, ma procedere basandosi sulla propria storia e contemporaneità, che suggeriscono realismo e lucidità nell’approccio.
Due criteri adottati nella proposta depositata pochi giorni fa in Parlamento a firma Bersani, Kyenge, Chaouki, Speranza. In essa si dice chiaramente che chi nasce in Italia ha diritto ad essere italiano se almeno uno dei due genitori è residente regolarmente da cinque anni. La proposta si articola poi in diverse opportunità per l’ottenimento della nazionalità, compresa quella che prevede che essa si ottenga per quei minori stranieri che abbiano compiuto almeno un ciclo scolastico completo nel nostro Paese. Proposte che fotografano con realismo la necessità per l’Italia di riconoscere la possibilità di essere italiani a oltre un milione di ragazze e ragazzi che lo sono di fatto. Condividendo con i nostri figli studi, passioni e obiettivi. Una proposta ben diversa quindi dallo ius soli propriamente detto, quello di stampo anglosassone in uso ad esempio negli Stati Uniti, dove è sufficiente nascere sul suolo di quella nazione per diventarne cittadini. La proposta in discussione in Italia invece, come abbiamo visto, tiene conto della nostra realtà. Se volessi essere provocatorio direi che essa rappresenta una forma di ius sanguinis mitigato, adeguato ai mutamenti demografici e sociali già in corso da anni e quindi perfino tardivo. L’elemento positivo è nell’approccio non ideologico quindi, determinato dalla consapevolezza che una legge cosi rappresenterebbe uno straordinario fattore di modernizzazione e crescita sociale indispensabili all’Italia.

Corriere 17.5.13
Ius soli, si smarcano tre senatrici 5 Stelle: proposta di legge col Pd


MILANO — Ancora una volta contro la linea del leader. Ancora una volta uno smarcamento. I parlamentari Cinque Stelle riaprono la querelle sullo ius soli: Alessandra Bencini, Manuela Serra e Paola De Pin risultano tra i cofirmatari di una legge che ne prevede l'introduzione. Il disegno di legge, l'atto numero 17 del Senato, è stato depositato a Palazzo Madama lo scorso 15 marzo. Un progetto a firma Pd, dato che il primo firmatario è Ignazio Marino, proprio quell'Ignazio Marino candidato sindaco al Campidoglio che sfiderà tra gli altri il pentastellato Marcello De Vito. Le tre senatrici del Movimento hanno aggiunto la loro firma al testo lo scorso 7 maggio, tre giorni dopo Grillo — che ieri è tornato sul tema immigrazione con un post provocatorio dal titolo «Kabobo d'Italia» — interviene nella questione, dando vita a una ridda di polemiche. Il capo politico del Movimento afferma che l'introduzione dello ius soli può avvenire «solo attraverso un referendum». E prende le distanze da qualsiasi testo (compreso quello delle «sue» senatrici) sia al vaglio dell'Aula: «Una decisione che può cambiare nel tempo la geografia del Paese non può essere lasciata a un gruppetto di parlamentari», si legge nell'intervento del 10 maggio. Parole che hanno provocato anche qualche malumore in seno a deputati e senatori, pronti — come ad esempio Alessandro Di Battista — a ribadire le proprie convinzioni personali (favorevoli) in tema di ius soli. L'idea del leader aveva trovato sponda, invece, in Ignazio La Russa: «Finalmente una posizione chiara e condivisibile da Grillo: no allo ius soli salvo referendum».

il Fatto 17.5.13
La Boldrini come bersaglio
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, ho visto l’attacco maleducato e violento di Brunetta alla presidente Boldrini. Ma Brunetta è capogruppo del Pdl, dunque rappresenta tutti i dipendenti di casa Berlusconi in servizio alla Camera, non solo la sua personale difficoltà di controllarsi. Non avrebbe dovuto esserci ben altra risposta dalla parte opposta della Camera?
Valeria

IL PROBLEMA è che non c’è una parte opposta della Camera. Altrimenti sarebbe insorta a difesa della presidente e avrebbe preteso l’espulsione dall’aula o le scuse di uno che, in pieno lavoro parlamentare, ha perso la testa. Credo che i deputati del Pdl dovrebbero tenere d’occhio il loro capogruppo che si espone a seri rischi, anche di salute, pur di dare spettacolo. Però anche lui, anche nei momenti in cui il furore gli oscura un minimo di visione della realtà, sa che dalla sua parte non si paga. In tempi di governo delle larghe intese, tutto è a carico del Pd, dalla buona educazione al rapporto con i cittadini. Difficilmente si può immaginare lo slancio di vero volontariato, che ha indotto il Pd ad assumersi il peso, la responsabilità e l’immagine di un tristissimo modo di governare. Qualunque cosa accada, paga tutto il Pd. Nel giorno dell’insulto maleducato alla Boldrini l’aggressione avrebbe potuto espandersi e aggravarsi . Del resto era appena accaduto un fatto impossibile: il ministro dell’Interno (Pdl) stava tornando da una manifestazione di protesta contro la Giustizia e in onore di Berlusconi in cui metà della piazza era avversa a Berlusconi. Ma il ministro era in piazza, tra i partecipanti ai disordini e all’attacco contro i giudici. Però le accuse per un simile evento non vanno ad Alfano (questione mai discussa alla Camera) ma alla presidente, colpevole di non si sa quale mancata solidarietà verso le donne partecipanti alla canea anti-giudici di Brescia. In altre parole, tutti da destra – militanti e vicepresidente del Consiglio – partecipano gratis alle loro piazzate, ben difese da tre quarti dei media e da Camera e Senato, senza incorrere in alcuna censura. L’altra parte del governo, invece, non solo paga in voti e immagini ogni momento che passa in loro compagnia, ma paga anche con l’offesa verso istituzioni che dovrebbero essere comuni. Nella vera vita nessuno si presterebbe a entrare spontaneamente, e anzi con un tono un po’ trionfalistico, in una simile trappola. Ma questa non è la vera vita. Questo è un brutto sogno in cui tutto un Paese, istituzioni e cittadini, si è bloccato sotto il peso di Berlusconi e dei suoi processi.

La Stampa 17.5.13
Lo psichiatra Andreoli: la molla è la paura della crisi, oggi chiunque può diventare un nemico
“Ma la follia non c’entra”
di Paolo Colonnello


“Sbagliato parlare di follia La molla è una paura spaventosa”
Lo psichiatra Andreoli: la crisi non ha volto, chiunque può diventare un nemico

L’episodio di ieri ad Abbiategrasso, purtroppo è solo l’ultimo della serie. I giornali ormai sono bollettini di guerra: dal pensionato che si getta dalla finestra per uno sfratto, all’imprenditore che ha ucciso due impiegate della regione Umbria perchè non aveva avuto un finanziamento. Per non parlare dei suicidi. È la crisi, bellezza. Ma davvero non possiamo farci niente? «Uccidersi per un licenziamento o uccidere il datore di lavoro che non ha più la possibilità di dare un impiego sembra follia. Ma non è così», dice il professor Vittorino Andreoli, psichiatra.
Perché non è follia?
«I casi di questi giorni non hanno nulla a che fare con la follia, non si tratta di malati psichiatrici ma di prede di paure spaventose. Questo purtroppo è l’inizio di una catena che sarà sempre più lunga, è come se si celebrasse una liturgia di morte. Uno degli aspetti della crisi dell’economia è che persistendo a lungo e non mostrando una possibile fine, ha innescato un meccanismo psicologico molto forte, che è la paura. Ognuno di noi oggi ha la crisi in testa e tutto ciò ha tolto sicurezze, stima di se e percezione del futuro».
Perché si uccide o ci si uccide?
«Di solito si uccide un nemico, un individuo conosciuto, con un volto. Ma in questo momento c’è qualcosa di diverso perché la crisi non ha un volto, non è una persona, non c’è un nemico preciso e se c’è, è nascosto. Allora la violenza diventa distruttività. È una piccola apocalisse. Si uccide e ci si uccide finendo per diventare nemici di se stessi. È un comportamento che vuole la soppressione di tutto. Ecco perché basta poco per poter arrivare a una violenza contro chiunque. Non essendoci un nemico, tutti sono nemici».
Il lavoro, il denaro, l’economia. Non si ragiona di altro. È un problema?
«Nella paura la ragione non serve. Di fronte alla paura o si scappa o si aggredisce. L’uomo in questo momento vive nell’incertezza e questo spinge a quell’istinto di morte di cui aveva parlato Freud. Ci siamo dimenticati tante cose, bisogna tornare a Platone: qual è il senso dell’uomo, quali sono i suoi bisogni. In un libro, “Il denaro in testa”, ho indicato dieci bisogni centrali dell’uomo dimostrando che nessuno di questi è condizionato dal denaro».
Oggi, sembra esattamente il contrario.
«Per questo ci vuole qualcuno che indichi strade diverse, che non si occupi solo dell’economia ma che si occupi dei bisogni dell’uomo. La nostra cultura nella “res publica” dice che il primo bisogno dell’uomo è la felicità e per ottenerla bisogna avere prima di tutto giustizia. Poi c’è il bisogno della serenità, di più legami, di solidarietà. E soprattutto di espellere il cancro della stupidità».
C’è chi pensa che per ottenere tutto ciò basti rimettere in ordine i conti.
«Un governo che volesse rimettere a posto solo i conti è solo un governo idiota. E lo abbiamo già avuto. Ridurre a misura di tutte le cose l’economia è nefasto, rende nulla intelligenza e capacità».
A chi tocca la cura? Al medico o al politico?
«Al politico. E al filosofo. Ci vuole un buon governo che pianifichi il senso dello stare insieme, della convivenza sociale. Se invece la nostra società esprime solo esaltati, economisti che devono mettere a posto le banche ma non la felicità dell’uomo, avremo una società che andrà verso la distruzione sul piano psicologico. Qui c’è gente che si ammazza e degli idioti che gozzovigliano nell’indifferenza più totale del prossimo. È la stupidità».

Repubblica 17.5.13
Vittime per caso
Le vite (spezzate) degli altri
Dalla bomba alla scuola di Brindisi, un anno fa, al raid del picconatore di Milano: le stragi di innocenti per mano di vendicatori isolati
di Adriano Sofri


Come si ricordano e si piangono le persone amate e ammazzate “per caso”? Domani sarà passato un anno dall’attentato di Brindisi che costò la vita a Melissa Bassi, studentessa di sedici anni, tenne fra la vita e la morte Veronica Capodieci, e ferì altre sei loro compagne. Ci sarà una commemorazione solenne, a Brindisi e a Mesagne, il paese di Melissa e Veronica, parteciperanno ministri e altre autorità, ci saranno cerimonie religiose e civili e concerti. Sarà presentato il librodiario che Selena Greco, compagna di banco di Melissa, anche lei ferita, ha intitolato “I giorni dopo il tramonto”.
Intanto va verso la conclusione il processo all’autore confesso di quella tentata strage, che ora piagnucola in aula e chiede perdono e dice che aveva due figlie anche lui; che in carcere si fece sorprendere mentre rivelava il suo proposito di fare il pazzo; che ricavò “dall’enciclopedia” le istruzioni per comandare a distanza un ordigno fatto di bombole di gas. I giudici l’hanno dichiarato lucido e padrone di sé, com’è evidente, e l’hanno imputato anche di terrorismo. “Ho fatto tutto da solo”, ha detto, a metà fra la speranza d’attenuante e la rivendicazione. La sentenza si pronuncerà anche su questo terrorismo di un uomo solo, che voleva vendicarsi di qualcosa, della vita degli altri, e stampare così la propria orma, o compiacersi dello spavento suscitato. Nelle ragazze ferite nel corpo e nell’anima, che per mesi rifiutavano di uscire di casa, “perché là mi vogliono ammazzare”. Una è venuta a testimoniare in tribunale, sulle menomazioni irreversibili che ha subito e su come è cambiata la sua vita: “Tantissimo, è cambiata”.
C’è un’espressione usata, quando qualcuno muore oscuramente, si dice: “Non aveva nemici”. Quell’espressione riprende il suo significato. Non avevano nemici le ragazze della scuola brindisina. Non ne avevano le persone uscite di buon mattino nelle strade di Niguarda. Non le signore Margherita Peccati e Daniela Crispolti, impiegate della Regione a Perugia, al cui assassino non è bastato proclamarsi Dio e decidere di suicidarsi. Non i carabinieri in servizio a Montecitorio. I loro aggressori assassini li avevano i nemici, avevano saputo inventarseli, e se no si erano accontentati dei primi esseri umani che capitassero loro a tiro — il loro “prossimo”, i più vicini, quelli che una provvidenza alla rovescia mettesse sulla loro strada. Questa condizione mostruosamente squilibrata turba ogni intelligenza. Quando, un minuto dopo l’esplosione di Brindisi, in troppi sostennero che fosse roba di mafia o terrorismo — e avevano le loro brave ragioni: la scuola delle ragazze è intitolata a Francesca Morvillo Falcone, la carovana antimafia stava per arrivare in città — erano mossi soprattutto da una speranza spaventata. La speranza è sempre quella che si tratti del “gesto di un pazzo isolato”. (Il pazzo isolato è una figura insieme arcaica e “americana”). Si può esorcizzarlo più facilmente, sentirsene più al riparo che non dalla minaccia della strage di mafia o terrorista. Tuttavia, in un angolo dei pensieri, la violenza della mafia o del terrore pretende di essere più spiegata, più prevedibile. Ha i suoi fini, i suoi bersagli, anche quando colpisce indiscriminatamente nel mucchio: la morte degli innocenti, degli estranei — la morte per caso — serve alla sua causa. Succede il contrario quando la decisione di uccidere non si cura dei suoi bersagli: omicidi volontari, spesso premeditati — come a Brindisi — dalle vittime impreviste, offerte dal caso. A Niguarda, dopo il troppo tempo trascorso senza alcun intervento, si è di nuovo evocato l’impiego dell’esercito a presidio degli “obiettivi sensibili”: ma occorre chiamare sensibili obiettivi come il giovane che a ogni alba distribuisce i giornali con suo padre, il pensionato che porta il cane ai giardini, le ragazze che vanno a scuola, i carabinieri nella piazza, le impiegate di un ufficio. In questo privato terrorismo asimmetrico, fra assassini volontari e vittime fortuite, ciascuno e dovunque diventa meritevole di una scorta: e dunque è la società intera e la sua socievolezza che deve reimparare a far da scorta a se stessa. (Altro affare è la consunzione dei normali servizi di polizia, la famosa polizia di quartiere, fra usi impropri e denari distolti, auto vecchie e ferme e straordinari non pagati dalla seconda settimana e concorsi bloccati).
Anche il perdono, in questa sgretolata guerra asimmetrica, sfugge ai suoi confini. Si può, chi voglia e ci riesca, perdonare ai propri nemici: ma occorrerebbe rassegnarsi a onorare come nemici i pazzi o i farabutti che hanno deciso di soddisfare su persone ignote e ignare la loro inimicizia universale. Le persone che perdono i loro cari in circostanze come queste hanno uno speciale dolore che non può darsi spiegazioni, che non rintraccia abbastanza né una, per deforme che sia, causa umana, né una sciagura, com’è l’ingiustizia della morte naturale dei giovani. Il monumento ai loro caduti non evoca guerre di stati e di bande criminali o guerriglie civili: non c’è milite ignoto a rappresentarli, perché non c’era milite, solo ragazze di sedici anni che preparavano la sfilata scolastica dei loro modelli, signori di una mattina milanese, signore di un ufficio umbro. “Mio padre e io — ha detto la figlia del brigadiere Giangrande, Martina — ci chiamavamo un esercito sgangherato: ora siamo un mezzo esercito, e pure tanto sgangherato”.
Nel febbraio dell’anno scorso un tribunale milanese ha dichiarato non punibile Oleg Fedchenko perché affetto da schizofrenia, e l’ha assegnato a un Ospedale psichiatrico giudiziario. Fedchenko era il giovane ucraino, pugile dilettante, che nell’agosto del 2010 era uscito dalla casa materna annunciando di voler uccidere la prima donna in cui si fosse imbattuto per strada. “La prima che incontro”. Lo fece: lei era Emlou Aresu, era filippina, aveva due figli, all’indomani sarebbe ripartita per le Filippine. Faceva i lavori nelle case, “andava sempre di fretta”, come raccontarono i conoscenti, e così di fretta arrivò in viale degli Abruzzi, all’appuntamento con quel venticinquenne che voleva vendicarsi di un amore deluso e di chissà quale altro delirio. Si apprese allora che i criminologi li chiamano “delitti casuali”, e li considerano i più difficili da prevenire e impedire. Pensai allora che non è casuale esser donna, e filippina per giunta. Forse quel-l’aggettivo, casuale, verrà lasciato cadere per tutti. Forse, retorica a parte, prenderemo tutti congedo da quell’altra espressione così usata: “Non c’entravano niente”. C’entriamo, scriveremo sul monumento a questi caduti.

l’Unità 17.5.13
RAI
«La storia siamo noi» non va in pensione, Minoli sì
di Natalia Lombardo


Falso allarme alla Rai sulla sparizione de La Storia siamo noi dai palinsesti. In realtà non è così: l’autorevole programma di RaiEducational non sarà cancellato (come risultava da Repubblica e da conseguenti interrogazioni di parlamentari Pd), dopo la chiusura della stagione a giugno e riprenderà a settembre, si spera sia su RaiDue e Raitre oltre che su RaiStoria. Ciò che si conclude il 31 maggio è il contratto (milionario) di Giovanni Minoli, che ha condotto la trasmissione negli ultimi dieci anni e del quale vanta i diritti. Ma La storia siamo noi è stato ideato dall’ex direttore di RaiEducational Renato Parascandolo che lo diresse dal 1998 al 2002 con la cura scientifica dello storico Rosario Vilari (400 puntate più due serie speciali curate da Zavoli e Gregoretti). «La Rai per fortuna continua la sua storia. Minoli aveva un contratto legato ai 150 anni e finisce a maggio. Il programma per noi prosegue», ha detto ieri il direttore generale Luigi Gubitosi a margine della conferenza
stampa per il rinnovo della convenzione con la provincia autonoma di Bolzano, a tutela delle minoranze linguistiche.
Perché, prosegue il dg Rai, «a volte si confondono gli individui con i programmi. La storia siamo noi è un format della Rai, quindi proseguirà. E noi abbiamo tutta la fiducia in Silvia Calandrelli», che dirige RaiEducational. Minoli, 68 anni, da pensionato nel 2010 ha avuto con la Rai un contratto di collaborazione per i 150 anni dell’Unità d’Italia: 2 milioni e mezzo in tre anni. E a Viale Mazzini c’è chi maligna: «Troppo, per uno che riprende i vecchi Mixer e li ripropone...». Gubitosi esclude un bis: «Ora tendiamo a impiegare forze interne e a non rinnovare i contratti di chi va in pensione. C’è soddisfazione per quanto fatto finora da Minoli, lo ringraziamo e ci auguriamo che in futuro possa anche fare qualcosa in collaborazione con Calandrelli», che lavora ai 100 anni della Prima guerra mondiale, e all’Eco della storia con Paolo Mieli.

Repubblica 17.5.13
Famiglie arcobaleno tra diritti e doveri
di Chiara Saraceno


Ci sono molte buone ragioni per argomentare la legittimità della richiesta delle persone omosessuali di accedere al matrimonio. Se il fondamento contemporaneo del matrimonio, nelle società occidentali sviluppate, è la scelta libera di due persone di mettere in atto un progetto di vita comune, basato sulla solidarietà reciproca e sul-l’affetto, non c’è nulla nella relazione omosessuale che sia in contrasto con questo fondamento. Non lo è neppure l’impossibilità di concepire figli come, ed entro, la coppia, dato che né la sterilità della coppia, o di uno solo dei due, né la generazione con un terzo è causa di nullità del matrimonio anche tra le persone eterosessuali. L’interdetto contro il matrimonio per le persone omosessuali poteva valere in un contesto in cui la coppia era insieme strumento di alleanze e di divisione del lavoro, in cui la funzione riproduttiva era importante, e perciò era anche importante che essa avvenisse entro garanzie chiare di consanguineità (anche se è sempre esistito lo strumento dell’adozione per correggere i “fallimenti” riproduttivi). Venute meno, o indebolite, quelle funzioni e quegli obiettivi, anche quell’interdetto perde, appunto, il proprio fondamento.
Molte coppie omosessuali, inoltre, vorrebbero anche realizzare una forma di genitorialità, quindi non escludono affatto l’apertura al futuro e alla generazione. Non vi è dubbio che quest’ultima pone questioni normative, giuridiche, ma anche relazionali ed etiche di tipo nuovo. A differenza del matrimonio, infatti, la filiazione implica responsabilità e diritti che vanno oltre il singolo e la coppia, coinvolgendo in primis i figli, ma anche le parentele e, nel caso di riproduzione assistita con donatore/donatrice e soprattutto di maternità surrogata, altre persone. Riguarda quindi un campo sia normativamente che socialmente più complesso, non diversamente da quanto avviene per la filiazione eterosessuale, specie quando avvenga per adozione o per ricorso alle tecniche di riproduzione assistita con donatore/donatrice e/o d una madre surrogata.
Le ragioni “dalla parte dei bambini” avanzate per giustificare gli ostacoli e i divieti alla genitorialità omosessuale – per via adottiva o tramite le tecniche di riproduzione assistita – non sono basate su evidenze empiriche solide. Le ricerche, al contrario, non segnalano particolari difficoltà o squilibri sul piano psicologico e di sviluppo della personalità in bambini che crescono sereni in un mondo ricco di relazioni con persone di ambo i sessi. Le difficoltà maggiori derivano dalla percezione dell’ostilità e disprezzo nei confronti degli omosessuali, che questi bambini sperimentano al di fuori del loro ambiente familiare. È la stigmatizzazione altrui della omosessualità dei genitori che è pesante da portare ed elaborare da parte di un figlio/a – non diversamente, verrebbe da dire, da quella che un tempo colpiva gli orfani e talvolta ancora oggi tocca i figli di genitori separati, gli adottati, o coloro che hanno caratteristiche somatiche fortemente diverse da quelle prevalenti.
In molti paesi il dibattito pubblico, anche aspro, su queste questioni è avvenuto e si è arrivati al riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali e consentendo loro l’adozione. La Corte Costituzionale ha sollecitato da tempo il Parlamento italiano a dare statuto giuridico al carattere di famiglia delle relazioni di coppia omosessuali, riconoscendone i diritti e doveri derivanti. Quanto ancora si dovrà aspettare?

La Stampa 17.5.13
Bobbio, un’idea di giustizia per il mondo di ieri e di oggi
di Maurizio Assalto


«Noi siamo fedeli a una posizione che vorrei chiamare “illuministica”, che è ispirata non alla disperazione, ma alla fiducia nell’uomo e nella sua ragione, e non è dettata dalla paura, ma dalla coraggiosa assunzione dei sempre nuovi compiti e doveri che la lotta per il miglioramento della condizione umana ci impone». Così Norberto Bobbio concludeva il suo corso di filosofia del diritto dell’annata 1952-53 all’Università di Torino, ora pubblicato da Aragno con il titolo Teoria della giustizia (pp. 141, € 12). Il volume viene presentato oggi alle 18 in Sala Rossa, con Andrea Bobbio, Luigi Bonanate, Gianrico Carofiglio e Gustavo Zagrebelsky.
Nell’idea di giustizia il filosofo individuava l’incontro di tre fondamentali dimensioni della realtà umana - pace, uguaglianza e libertà - particolarmente avvertite in quegli anni di piena Guerra fredda. Una lezione attualissima anche nei nostri tempi di crisi forse più insidiosa di quella, come evidenzia nella prefazione il filosofo del diritto Gregorio Peces-Barba, bobbiano di Spagna, che nel 1978, ispirandosi al suo maestro ideale, è stato tra gli estensori della nuova Costituzione democratica del suo Paese.

Hanan Ashrawi: «Il tempismo di Israele è significativo: è un affronto diretto a ogni tentativo di negoziazione»
Corriere 17.5.13
Piano d'Israele per legalizzare 4 insediamenti nei Territori


GERUSALEMME — Israele vuole rendere legali quattro nuovi insediamenti in Cisgiordania. A riferirlo è il quotidiano israeliano Haaretz, che cita un documento presentato martedì dalle autorità all'Alta corte di Giustizia.
I quattro avamposti, per i quali era prevista la demolizione, sono quelli di Maale Rehavam, Haroeh, Givat Assaf, e Mitzpe Lachish. La notizia arriva a pochi giorni dalla missione del segretario di Stato Usa, John Kerry, che intende far ripartire il negoziato di pace israelo-palestinese. «Il tempismo di Israele è significativo: è un affronto diretto a ogni tentativo di negoziazione», afferma Hanan Ashrawi, esponente dell'Olp. L'associazione pacifista israeliana «Peace Now» interpreta la scelta di Tel Aviv come «uno schiaffo in faccia al nuovo processo di pace» e «una vistosa rassicurazione degli interessi dei coloni». Il piano «legalizzerebbe» in modo retroattivo la fondazione di quattro dei sei insediamenti non autorizzati in Cisgiordania.

Corriere 17.5.13
Quando Apple abbandona Foxconn il mondo degli operai cinesi crolla
di Massimo Sideri


E se, in fondo, la Rete ci avesse «globalizzato» dentro, modificando le nostre capacità recettive con un effetto simile a quello che si subiva quando nel Dopoguerra si passava dal «paesello» alla città? Chi lo ha subìto sa che fisicamente si può anche tornare indietro, magari nel fine settimana. Senza però che la percezione degli spazi dentro la testa possa ridimensionarsi. Così la Rete sta forse costruendo dentro di noi l'impressione di essere tutti consumatori globalizzati, lavoratori di una società unica e interconnessa. Le cose, chiaramente, non stanno del tutto così. La percezione di un mondo «piatto» è distorta come lo era quella che si aveva nell'antichità prima dell'astronomia ellenistica. Però, pur essendone consapevoli, è difficile non sentirsi parte dei problemi per esempio di un operaio cinese a migliaia di chilometri di distanza quando abbiamo in mano quello che lui stesso produce. Così se la Apple sta decidendo di spostare parte del proprio assemblaggio dalla Foxconn, tristemente famosa come la fabbrica dei suicidi, al suo concorrente Pegatron, la questione in parte ci riguarda. Già l'iPhone4s è stato prodotto dal principale concorrente della Foxconn e l'effetto si è subito visto sui conti della società. La Apple ha il diritto di scegliere i propri fornitori sul mercato e va ricordato che dopo lo scandalo dei suicidi e la scoperta dello sfruttamento di minorenni in fabbrica la società ha lavorato con le associazioni umanitarie per migliorare la situazione. Ma la Foxconn è diventata la più grande catena di montaggio di tecnologia al mondo — un milione di dipendenti — grazie alla Apple: il 70% della produzione è concentrata sulla società di Cupertino. Insomma, se come sospettano alcuni osservatori la strada dello switch verso il concorrente è strutturale, bisognerà anche preoccuparsi di un atterraggio morbido per gli operai cinesi che assemblano i nostri oggetti del desiderio.
Noi possiamo tornare «al paesello» nel fine settimana. Loro dovrebbero tornare nelle campagne senza speranze. Se i consumatori sono globali, lo diventano anche gli operai in qualche maniera.

La Stampa 17.5.13
Jfk sedotto da Hitler “È della stoffa di cui sono fatte le leggende”
Lo studente americano in vacanza non aveva capito quale minaccia fosse il Führer
Un libro sul giovane Kennedy nell’Europa degli Anni 30
di Alessandro Alviani


Il 3 agosto 1937 John Fitzgerald Kennedy, allora ventenne, si ferma a Milano durante un viaggio in Europa. Con sé ha un libro del giornalista John Gunther. «Ho finito di leggere Gunther e giungo alla conclusione che il fascismo è la cosa giusta per la Germania e l’Italia, il comunismo per la Russia e la democrazia per l’America e l’Inghilterra annota -. Ho trovato il libro di Gunther molto interessante, ma sembra che lui propenda per il socialismo e il comunismo e rifiuti con decisione il fascismo. Quali sono i mali del fascismo al confronto del comunismo? ». Neanche tre settimane dopo, il 21 agosto, sulla strada tra Francoforte e Colonia, Kennedy scrive: «Le città sono tutte incantevoli, il che mostra che le razze nordiche sembrano essere di sicuro superiori a quelle latine. I tedeschi sono davvero troppo bravi – per questo ci si mette insieme contro di loro, per proteggersi».
Queste due frasi compaiono in «John F. Kennedy. Tra i tedeschi», un libro curato da Oliver Lubrich, professore di Letteratura tedesca moderna all’Università di Berna, che uscirà la prossima settimana in Germania e di cui la Faz pubblicava ieri delle anticipazioni. Si tratta di una raccolta di lettere e diari scritti dal futuro presidente Usa durante tre viaggi in Europa (nell’estate 1937, nell’agosto 1939 e tra luglio e agosto 1945). Materiale in parte già noto agli storici anglosassoni e ai biografi di Kennedy, spiega Lubrich, che ora viene pubblicato per la prima volta con riferimento specifico al rapporto di JFK con la Germania.
Accanto ad annotazioni banali, riferimenti alle donne incontrate e commenti sui posti visitati, il libro contiene frasi spiazzanti, come quella che Kennedy appuntò il primo agosto 1945, dopo aver visitato il paesino bavarese di Berchtesgaden («dopo cena vennero offerti sigari ritrovati nell’auto blindata di Göring») e il «nido dell’aquila», la residenza di montagna di Hitler. «Chi ha visitato questi luoghi - scrive - può immaginare come Hitler emergerà dall’odio che ora lo circonda come una delle personalità più importanti mai vissute. La sua sconfinata ambizione per il suo Paese lo ha reso una minaccia per la pace nel mondo, ma aveva qualcosa di misterioso, nel suo modo di vivere e di morire, che sopravviverà a lui e crescerà ancora. Era della stoffa di cui son fatte le leggende».
Una frase, quest’ultima, «sconcertante», dice alla Faz Lubrich, che precisa: «Non credo che Kennedy ammirasse Hitler e soprattutto la sua politica, semmai qui è in gioco quella che Susan Sontag ha descritto come l’inquietante fascino del fascismo: Kennedy prova a capire questo fascino che evidentemente Hitler emanava ancora». Al tempo stesso, aggiunge Lubrich, appare discutibile che nei suoi diari Kennedy non si sia occupato quasi per niente dell’Olocausto, mentre si è soffermato sulle tecnologie militari tedesche.

I precedenti
GHANDI
“Caro amico” scrisse due volte a Hitler E negò i diritti degli ebrei a una patria
FREUD
Ebbe stima reciproca con Mussolini che intercedette per lui con Hilter
da Repubblica

Corriere 17.5.13
Sacro, trascendente, metafisico. Il confronto tra atei e credenti
di Ida Bozzi


Nell'anno della rinuncia di Joseph Ratzinger e dell'elezione di papa Francesco, sono stati numerosi ieri, nel primo giorno del Salone, gli incontri dedicati al tema del sacro, della fede e della religione in letteratura, con confronti tra posizioni anche molto diverse.
Un'occasione è stata il conferimento del Premio Bonura per la critica militante 2013: il riconoscimento è andato al novantatreenne padre Ferdinando Castelli, autore di saggi come Volti di Gesù nella letteratura moderna e La letteratura moderna come ricerca dell'Assoluto, docente e per 42 anni redattore di «Civiltà Cattolica».
«Concepisco la letteratura — ha affermato Castelli — in chiave teologica. Certo, è anche forma, ma l'elemento formale non è tutto: si tratta soprattutto della scoperta dell'abisso». Ne è seguito il dibattito con gli ospiti, moderati da Alessandro Zaccuri: per la scrittrice Michela Murgia «vi è qualcosa di sacro nella parola, e anche quando lo scrittore non ne è consapevole sta compiendo una liturgia del mistero», mentre secondo l'autrice Helena Janeczek «meglio parlare di trascendenza e non di sacro: è al di là del piano della visione del mondo, al di là dell'orizzontalità del racconto, che la scrittura entra necessariamente a contatto con un oltre». Mario Baudino, invece, ha ribadito il problema «terminologico» aperto tra sacro, trascendente e metafisico. Un confronto tra monsignor Rino Fisichella e la scrittrice Maria Pia Veladiano, intitolato «A che cosa serve la fede?», ha approfondito poi la questione della crisi della religiosità nell'Anno della fede: con un'analisi di Fisichella su che cosa consente di essere riconosciuti come cristiani, e la libertà di scrittrice affermata dalla Veladiano, di «non dover chiudere il cerchio della fede, ma lasciarlo aperto, potendo parlare di contraddizioni e difficoltà». Inoltre, nella giornata si sono succeduti gli incontri di don Gino Rigoldi sul tema della droga, l'appuntamento «Il mio libro della fede» con Gianluca Garrega, Rosario Carelli e i gruppi di giovani lettori, e un appuntamento dedicato a «Don Patagonia», sulla vita del missionario-esploratore Alberto Maria De Agostini.
Critica, invece, la posizione dello scrittore di origine cilena Luis Sepúlveda: a margine dell'incontro di presentazione del suo nuovo libro Ingredienti per una vita di formidabili passioni (Guanda), condotto da Ranieri Polese, lo scrittore (già protagonista di un caso, pochi mesi fa, per il rifiuto di partecipare al Salone nella rappresentanza ufficiale del Cile, Paese ospite di quest'anno), ha commentato dubbioso l'elezione del Papa latinoamericano. Dopo una vita spesa nella difesa degli indigeni e dell'ambiente in America Latina, Sepúlveda ha commentato: «Il nuovo Papa sarà dalla parte dei più poveri? Io spero, ma vedremo. Ma mi domando, qual è l'importanza di una Chiesa che storicamente in America Latina è sempre stata contro gli oppressi e i più poveri? Solo un cardinale cileno lottò con la gente torturata, sofferente, perseguitata, un vero cristiano: fu Raul Silva, tra il 1973 e il 1978. Io spero, ma non ho fiducia nel Vaticano».

l’Unità 17.5.13
Olympia e le sue sorelle
Il dipinto di Manet accanto alla Venere di Tiziano
di Renato Barilli


Manet. Ritorno a Venezia
A cura di S. Guégan, su idea di G. Belli e G. Cogeval
Venezia, Palazzo Ducale
Fino al 18 agosto Catalogo Skira

GABRIELLA BELLI INIZIA LA SUA DIREZIONE DEI MUSEI CIVICI DI VENEZIA NEL MODO PIÙ CLAMOROSO, RIUSCENDO A FAR GIUNGERE IN PALAZZO DUCALE una selezione favolosa di opere di Edouard Manet (1832-1853), tra cui il numero 2 ufficiale della produzione dell’artista francese, l’Olympia, del 1863, con l’appoggio di Guy Cogeval, direttore del Musée d’Orsay in cui il dipinto è custodito assieme all’ancor più fondamentale Déjeuner sur l’herbe. Non solo, ma l’exploit è raddoppiato dal fatto di accostare al capolavoro manetiano la Venere di Urbino, del divino Tiziano, a sua volta in libera uscita dagli Uffizi. Senza dubbio Manet appena ventenne, in un primo soggiorno italiano a Firenze, vide quel dipinto. Ma proprio il trovarli ora affiancati sulla stessa parete conferma quanto peraltro non è sfuggito alla critica, si tratta di concezioni addirittura opposte, sul piano dei contenuti. La Venere tizianesca è una cortigiana di lusso, attenta al decoro, pronta ad accogliere qualche nobile cliente, mentre l’Olympia del lontano seguace è quasi una donna di strada, compiaciuta di un atteggiamento sguaiato, provocatorio, evidente nel modo in cui ci osserva, sbandierando con orgoglio il proprio squallore. E le regge il bordone la serva di colore, altro schiaffo alle convenzioni e buone maniere.
Ma accanto allo scandalo in termini sociologici ben più violento, e forse non ancora indagato a fondo, è quello di ordine stilistico. Infatti Manet fin da giovane infligge una ferita mortale alla concezione di un’arte mimetica, morbida, tuffata nella carezza atmosferica, un complesso di caratteri di cui Tiziano è stato supremo cultore. Le cose si complicano, perché da Tiziano quell’accurato mimetismo giunge fino a Monet, venuto circa dieci anni dopo Manet (grandioso bisticcio di lettere!) e fondatore ufficiale dell’Impressionismo, che con lui, a gara con la fotografia, rimette in auge, per l’ultima volta, la gabbia prospettica, lo sfumato, il dileguarsi della visione in profondità. Ma allora bisogna ripetere che gli Impressionismi sono stati due, quello se si vuole più radicale di Monet, e uno precedente, non solo di Manet, ma del suo coetaneo Degas, che cominciano a negare la piramide prospettica schiacciando le immagini sul primo piano. Ciò avviene, come si stenta ancora ad ammettere, perché c’è già nell’aria l’intuizione che i tempi nuovi saranno sorretti dalla velocità impressionante della luce, delle onde elettromagnetiche, che appunto annullano le distanze, obbligando gli artisti a installare le forme in primo piano.
Naturalmente cose del genere non si potevano chiedere a Tiziano, e neppure a quell’ultimo suo cultore che sarà Monet, ma presentimenti in questo senso li avevano già avuti i pittori di fine ‘700, tra cui Goya. Ecco quindi il vero ispiratore di Manet, nel suo rapporto con il museo (un tipo di rapporto che Monet eviterà del tutto). A livello stilistico, l’Olympia è erede della goyesca Maja desnuda, che stacca gli ormeggi dalla gabbia prospettica e ballonzola in primo piano. O se proprio vogliamo frugare più nel passato, bisogna andare ai nostri «primitivi» del ‘400, cioè a chi si è piazzato «prima di Raffaello». E proprio questi nostri grandi del ‘400 hanno ispirato le prime mosse dei Macchiaioli, Fattori, Lega, Cabianca, anche loro intenti ad allargare, a fare piatto, quasi anticipando l’á plat di Gauguin, cioè in sostanza scavalcando l’Impressionismo di Monet e compagni. Il che pone un quesito: se l’Impressionismo viene calibrato su Monet, bisogna escluderne proprio la coppia Manet-Degas, sia perché non respingono il riferimento all’antico, sia soprattutto perché ne traggono una lezione di arte abbarbicata sui primi piani e condotta a larghe stesure, con ampie superfici di biacca, subito contrastate da orli neri. Se invece i confini di quel movimento vengono ampliati, ponendovi al centro la coppia Manet-Degas, allora ci sta dentro anche la triade dei nostri Macchiaioli più attempati, che infatti in questo momento, in mostra all’Orangerie, vengono presentati come Impressionisti, seppure accompagnati da un cauto punto interrogativo.
Si vuole una riprova di questa pulsione manetiana a fare piatto? Si veda come, in un ritorno a Venezia, egli tratta le bricole, gli attracchi delle gondole, panciuti cilindri percorsi da chiassose fasce blu. L’artista sfrutta questo motivo come un boa potrebbe afferrare una preda e trasformarla in fettuccine da trangugiare.

Repubblica 17.5.13
Homo symbolicus
Ecco il momento esatto in cui siamo diventati umani
La diversità rispetto agli altri viventi non è frutto dell’evoluzione, ma di un “evento” improvviso
di Ian Tattersall


Noi esseri umani siamo parte a tutti gli effetti del Grande Albero della Vita che abbraccia l’insieme delle cose oggi viventi sulla Terra. E siamo saldamente collocati fra i primati, all’interno dell’ordine dei mammiferi. Ma è innegabile che in noi c’è anche qualcosa di fondamentalmente diverso da ogni altra creatura vivente. A prima vista, naturalmente, la cosa che più salta all’occhio sono le nostre peculiarità fisiche, in gran parte collegate al nostro strano modo di muoverci e riconducibili alla postura eretta e alla bipedalità, l’adattamento dei primi ominidi da cui è disceso tutto il resto.
Ma la cosa che veramente ci distingue e ci fa sentire così diversi da tutti gli altri esseri viventi è il modo di elaborare le informazioni nel nostro cervello. Quello che solo noi esseri umani facciamo è disassemblare mentalmente il mondo che ci circonda in un vocabolario sterminato di simboli mentali. Questa capacità unica si palesa in ogni aspetto delle nostre vite. Gli esemplari di altre specie reagiscono, più o meno direttamente e in modo più o meno sofisticato, agli stimoli dell’ambiente esterno. Ma la nostra capacità simbolica ci mette nelle condizioni di immaginare alternative e di porci domande come «Che succede se…? ». E il risultato è che non ci limitiamo a fare semplicemente le stesse cose che fanno le altre creature, solo un po’ meglio: noi gestiamo le informazioni in modo completamente diverso.
Una delle evidenze materiali delle prime opere di menti simboliche è l’ormai famoso motivo geometrico inciso settantacinquemila anni fa su una placca di ocra levigata nella grotta di Blombos, sulla costa meridionale dell’Africa: insieme a molti altri ritrovamenti è l’indizio che centomila anni fa, nel continente nero, tirava aria di cambiamenti comportamentali di vasta portata. Quarantamila anni fa circa, questa rivoluzione comportamentale ancora embrionale trovò la sua piena realizzazione nelle straordinarie pitture rupestri della regione franco-cantabrica. Società simili produssero le prime evidenze dell’avvento della musica, sotto forma di flauti ricavati da ossa di uccello.
Per comprendere le caratteristiche di questo nuovo fenomeno è importante ricordarsi che l’Homo sapiens con capacità cognitive moderne non è semplicemente un’estrapolazione di tendenze precedenti. I ritrovamenti archeologici mostrano piuttosto chiaramente che noi non facciamo le stesse cose che facevano i nostri predecessori, solo un po’ meglio: ricreando mentalmente il mondo noi di fatto facciamo, nella nostra testa, qualcosa di completamente nuovo e diverso. E dal momento che questa innovazione radicale rappresenta una rottura totale con il passato, non siamo in grado di spiegarla ricorrendo alla classica selezione naturale, che non è un processo creativo.
Che cosa successe, allora? La produzione di cognizione simbolica è iniziata in una fase molto recente nella storia del cervello umano. Il nuovo modo di pensare sembra essere nato molto dopo la nascita dell’Homo sapiens come entità anatomicamente distinta, e dunque dopo l’acquisizione del cervello anatomicamente moderno. Non c’è niente di sorprendente in questo, perché le innovazioni comportamentali, e presumibilmente cognitive, di regola sono avvenute durante il periodo di prevalenza delle specie di ominidi esistenti, e non all’inizio.
Tutto questo rende ragionevole giungere alla conclusione che l’innovazione neurale decisiva è stata acquisita come sottoprodotto della grande riorganizzazione evolutiva che ha dato origine all’Homo sapiens come entità fisicamente distinta, circa duecentomila anni fa. In altre parole, questa innovazione è emersa non come adattamento, ma come exattamento, cioè un adattamento nato per assolvere a una certa funzione e che poi finisce per assolvere anche o soprattutto un’altra funzione indipendente da quella originaria. Queste nuove potenzialità, che hanno fornito il sostrato biologico per la cognizione simbolica, sono rimaste «in sonno» fino a quando, sotto l’impulso probabilmente di uno stimolo culturale, non si sono concretizzate. La mia idea è che questo stimolo è stato l’invenzione del linguaggio, cioè l’attività simbolica per eccellenza. Per noi, linguaggio è praticamente sinonimo di pensiero. Come il pensiero, il linguaggio implica la formazione e la manipolazione di simboli nella mente. E in assenza del linguaggio la nostra capacità di ragionare per simboli è quasi inconcepibile.
Immaginazione e creatività sono parte dello stesso processo, perché solo dopo aver creato simboli mentali siamo in grado di combinarli in modo nuovo e di chiedere: «Che cosa succede se…?».
C’è di più: se il linguaggio è venuto dopo le trasformazioni anatomiche dell’Homo sapiens, allora i primi individui linguistici possedevano già, chiaramente, l’apparato vocale necessario per esprimere il linguaggio, apparato che avevano acquisito inizialmente, una volta di più, in un contesto a tutti gli effetti di exattamento.
L’exattamento, tra l’altro, è un evento assolutamente ordinario in termini evolutivi, se si pensa che gli antenati degli uccelli hanno avuto le piume per milioni di anni prima di scoprire che potevano usarle per volare.
Non ci sono dubbi che quello che ci differenzia più di ogni altra cosa dai Neanderthal e da tutti gli altri nostri parenti estinti è il pensiero simbolico: è il pensiero simbolico che spiega perché oggi noi siamo qui e loro no.
La capacità cognitiva specifica della nostra specie, dunque, è un’acquisizione straordinariamente recente, ed è il prodotto immediato di un evento di breve durata e probabilmente casuale, che ha capitalizzato i frutti di centinaia di milioni di anni di evoluzione vertebrata.
Tutto questo a sua volta sembra indicare che noi esseri umani non siamo le creature che siamo grazie a una selezione naturale protrattasi per ere intere.
E naturalmente può aiutarci a capire perché i nostri processi decisionali sono così contorti, perché i comportamenti umani sono così spesso irrazionali e autodistruttivi
e perché la nostra psiche è notoriamente così impenetrabile.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 17.5.13
Torino, Cina.  l’ondata noir degli autori d’Oriente
Così il thriller denuncia le verità nascoste
Editori di Pechino, giapponesi e coreani fanno incetta di diritti al Lingotto. Arte e infanzia. Saviano e Calvino
di Massimo Novelli


TORINO Parafrasando il titolo di un vecchio film di Marco Bellocchio si può dire che, grazie al Salone del libro e all’Ice-Agenzia per la promozione all’estero e per la internazionalizzazione delle nostre imprese, da ieri la Cina è più vicina all’Italia e all’editoria italiana. Con la Cina, poi, si avvicinano il Giappone e la Corea del Sud, offrendo l’opportunità di accedere a un mercato dalle dimensioni estremamente consistenti, che può estendersi a Taiwan, a Hong Kong, a Singapore, a Macao, alla Malesia. Per la nostra letteratura per ragazzi, del resto, il continente asiatico costituisce già il secondo bacino di vendite dopo l’Europa. E le esportazioni di titoli italiani verso l’Asia hanno fatto registrare un incremento, nell’ultimo decennio, del 230 per cento. È ancora poco, tuttavia è già qualcosa.
È l’Asia, dunque, la vera novità di questa edizione di Librolandia. Per la prima volta i rappresentanti, anzi le rappresentanti, visto che sono tutte donne, di undici case editrici cinesi, giapponesi e coreane, tra le maggiori di quelle nazioni, partecipano alla kermesse del Lingotto. Lo fanno animando gli incontri dell’International Book Forum, il settore dove si scambiano i diritti editoriali, televisivi e cinematografici, e incontrando i manager di editori come Bollati Boringhieri, Einaudi, Giunti, Jaca Book, Rizzoli. Puntano a comprare i diritti di libri illustrati e d’arte, di cucina e di archeologia, di viaggio e di design, senza dimenticare la letteratura di ieri e di oggi: da Boccaccio a Dante, intanto, e proseguendo con Italo Calvino e Tiziano Scarpa, Nicolò Ammaniti e Antonio Tabucchi, Alessandro Baricco e Roberto Saviano.
Sotto le volte dell’ex fabbrica della Fiat si muovono le delegazioni delle cinesi People’s Literature Publishing House, The Oriental Press e ThinKingdom, così come quelle delle giapponesi Iwanami Shoten, Japan Uni Agency, Kawade Shobo Shinsha, Nishimura e Sogensha, oltre alle coreane Munhakdongne Publishing Group, Rh Korea e Eric Yang Agency. L’industria editoriale della Cina, al primo posto nel mondo per il valore della produzione, domina ovviamente la scena con i suoi numeri imponenti: un fatturato (nel 2011) di 185 miliardi di euro; un’editoria per ragazzi che conta oltre 400 milioni di lettori. Censura e difficoltà di traduzione non fermano i manager del libro di Pechino, che sembrano amare non soltanto i libri illustrati oppure di storia, ma anche la narrativa contemporanea. La ThinKingdom, la più grande azienda privata cinese di questo comparto, ha acquistato i diritti di tre libri di Baricco: Castelli di rabbia, Seta e Novecento.
In passato il mercato della Cina ha accolto tanto i classici, quanto le opere di autori contemporanei: da Umberto Eco a Susanna Tamaro, da Tiziano Scarpa a Roberto Saviano. Nella letteratura per l’infanzia sono stati tradotti libri di Gianni Rodari, di Bianca Pitzorno, di Roberto Piumini. La giapponese Kawade, fondata nel 1886, ha pubblicato, tra gli altri, Stabat Mater di Scarpa, Perché leggere i classici di Calvino e Il tempo invecchia in fretta di Tabucchi. In questi giorni sta acquisendo i diritti, dopo Gomorra, di Zero Zero Zero di Saviano.
Quello asiatico è un mercato che può rappresentare una notevole occasione di sviluppo per la nostra editoria; una boccata d’ossigeno in questi tempi difficili. La scelta delle case editrici di Cina, Giappone e Corea del Sud di prendere parte al Salone del Libro, dopo l’anteprima nel 2012 alla Fiera di Roma della piccola e media editoria, è più che una scommessa. Si pone come una promessa. Come è successo nel 2011 alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna, quando la premiazione di un libro coreano, The Home of the Heart, ha dato impulso alla traduzione di libri italiani per bambini a Seul. Sono stati 78, un numero che ha significato un aumento del 56 per cento rispetto all’anno precedente.

A Torino:
Oggi alle 15 in Sala azzurra Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelky dialogano sulla natura del potere. Javier Cercas incontra i lettori alle 18,30 in Sala gialla. Domani appuntamento speciale dei Dialoghi dell’Espresso, moderati da Bruno Manfellotto, con Eugenio Scalfari, Umberto Eco, Bill Emmott e Roberto Saviano Dalle 15,30 al Centro congressi del Lingotto Diretta streaming sul sito dell’Espresso
Nel numero in edicola domani un’intervista a Naomi Wolf su sesso e rivoluzione femminile