domenica 19 maggio 2013

Corriere 19.5.13
Più divario tra top manager e dipendenti
I primi guadagnano 163 volte di più
di Mariolina Iossa


ROMA — La ricchezza si concentra nelle mani di pochi e in queste stesse mani aumenta. La povertà si allarga e diventa sempre più povera. Ma soprattutto, aumenta in maniera spropositata e impressionante la distanza tra quella ricchezza diventata ormai ultraricchezza e la stragrande maggioranza di chi riceve stipendi e compensi medi al limite della sussistenza. È l'effetto della crisi economica che si ripercuote sulle società occidentali investite dalla crisi, che reagiscono con politiche che non favoriscono la redistribuzione del reddito e l'attenuamento delle diseguaglianze. In sostanza, la crisi ha allargato la forbice della diseguaglianza sociale e quasi la metà della ricchezza nazionale, circa il 47 per cento, è ormai concentrata nelle mani del 10 per cento delle famiglie.
I numeri emergono da un aggiornamento del rapporto sui salari 2012 della Fisac-Cgil (Federazione italiana assicurazione credito), che illustra anche come aumenti il distacco tra le retribuzioni dei top manager e quelle dei lavoratori medi. Dice Agostino Megale, segretario generale della Fisac, che si tratta di «una forbice che cresce, allargando senza freni le diseguaglianze, producendo un rapporto di 1 a 163 tra la retribuzione media di un lavoratore dipendente (pari a 26 mila euro lordi all'anno) e il compenso, sempre medio, degli amministratori delegati e dei top manager (pari a 4 milioni e 326 mila euro all'anno)».
Per il segretario della categoria del credito della Cgil, i numeri del rapporto sono scioccanti per il loro effetto sperequativo. Di conseguenza, questo «distacco enorme» tra chi guadagna stipendi piuttosto bassi, la stragrande maggioranza della popolazione, e chi guadagna stipendi stratosferici, e si tratta come abbiamo visto di una percentuale minima della popolazione, «richiede subito una legge che imponga un tetto alle retribuzioni dei top manager».
Infatti, continua Megale, «in questi sei anni di crisi il potere d'acquisto dei salari e delle pensioni si è più che dimezzato mentre non hanno subìto alcuna flessione i compensi dei top manager, così come nessuna incidenza ha subìto quel 10 per cento di famiglie straricche, determinando e incrementando la vera forbice delle diseguaglianze».
Andando ad approfondire i numeri del dossier presentato dalla Fisac-Cgil, salta subito agli occhi come «il rapporto tra retribuzione lorda di un lavoratore dipendente e compenso medio di un top manager è attualmente di 1 a 163 mentre era nel 1970 di 1 a 20». È proprio qui, secondo Megale, che «c'è la vera ingiustizia». Di fatto, «il salario cumulato nei passati quattro anni da un lavoratore dipendente è pari a 104 mila euro lordi mentre per i top manager è pari a 17 milioni e 304 mila euro, con una esorbitante differenza di 17 milioni e 200 mila euro».
Non si può continuare su questa strada, dice ancora Megale, che propone «di realizzare unitariamente, non solo nella categoria del credito, il lancio di un disegno di legge di iniziativa popolare, accompagnato dalla raccolta di centinaia di migliaia di firme», raccolta che dovrebbe contestualmente essere accompagnata dalla «presentazione da parte del centrosinistra della legge di iniziativa parlamentare per porre un tetto alle retribuzioni nel rapporto uno a venti, immaginando che in tempi di difficoltà come questo le quote eccedenti di compensi dei top manager possano essere versate in un fondo di solidarietà per favorire un piano di occupazione per i giovani».
Occorrerebbe dunque tornare assolutamente, secondo il rapporto, a quel rapporto 1 a 20 del 1970 che sarebbe comunque sufficiente a garantire un grado di elevato benessere economico per i manager ma anche in contemporanea una redistribuzione della ricchezza che può aiutare le famiglie in difficoltà, e rilanciare i consumi.

Repubblica on line 18.5.13
Salari, cresce la disuguaglianza, 47% della ricchezza al 10% delle famiglie
Il rapporto tra la retribuzione di un dipendente e quella di un top manager è arrivato a 1a 163. Nel 1970 era 1 a 20
Metà della ricchezza nazionale è concentrata nelle mani del 10% della popolazione

qui

...e adesso ci chiedono - ancora! - di votare per loro!
L’Unità 19.5.13
Intervista integrale a G. Epifani

qui

il Fatto 19.5.13
Nella piazza per il lavoro manca soltanto il Pd

Centomila persone a Roma con la Fiom, Vendola, Rodotà, Strada, Ingroia e i 5Stelle, ma senza democratici. Presenti a titolo personale Cofferati, Barca e Orfini (contestato). Landini a Epifani: “State al governo con B., non coi lavoratori. E l’Imu è un falso problema”

il Fatto 19.5.13
Il Pd diserta la piazza degli operai: “Hanno paura”
Grande manifestazione a Roma, Landini attacca Epifani e propone un suo programma: i soldi dell’Imu vadano al lavoro
di Salvatore Cannavò


La sostanza della grande manifestazione che la Fiom ha tenuto ieri in piazza San Giovanni a Roma, Maurizio Landini la esprime con una battuta al termine del suo lungo intervento: “Ogni volta che facciamo una manifestazione ci chiedono: volete fare un partito? Ma che due palle! ”. La Fiom, spiega il suo segretario, è un sindacato “autonomo e indipendente”.
Quando però si attacca il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, si incassa il dialogo con il Movimento 5 Stelle, si acclama Stefano Rodotà e si dice che occorre “raccogliere la domanda di cambiamento” uscita dal voto del 25 febbraio, la politica si prende il proprio spazio. Come, del resto, si aspettavano i 50 mila rimasti fino alle prime gocce di pioggia ad ascoltare tutti gli interventi. Tra i quali ci sono stati quelli classicamente sindacali, gli operai dell'Ilva, di Mirafiori e Pomigliano, fino al saluto della Cgil.
LA CONFEDERAZIONE era presente non con il segretario generale, ma con un componente della segreteria, Nicola Nicolosi, molto dialogante ma lo stesso vittima dei fischi. L’intervento più atteso, però, è quello di Stefano Rodotà, annunciato con grande effetto scenico dagli operai di Pomigliano e acclamato come un leader. Grande festa anche per Gino Strada e Fiorella Mannoia, di solito chiamata a cantare, ieri invece più “politica”. E politica è stata la conclusione di Maurizio Landini. Se nelle manifestazioni degli scorsi anni il “nemico ” era Sergio Marchionne, la politica aziendale della Fiat, l’arrendevolezza di Cisl e Uil, stavolta i bersagli sono stati altri. Due in particolare: le larghe intese e il segretario del Pd. A Epifani, Landini ha riservato l’attacco più duro, rimarcando la sua assenza dalla manifestazione: “Non si vergognano di governare con Berlusconi e si vergognano di venire qui, in questa piazza”. L'assenza del Pd è il simbolo delle macerie della sinistra e dei compiti “della nuova fase”. “È venuto il tempo di ricostruire questo Paese”. Quindi, spiega Landini, non solo protesta ma proposte: da un grande piano di intervento pubblico per l'occupazione e l'industria alla democrazia nei luoghi di lavoro riducendo i contratti nazionali “che oggi sono 274”. Dal reddito di cittadinanza alla lotta alla corruzione fino alle infrastrutture nevralgiche – ma no al Tav – da finanziare ricorrendo ai fondi pensione, “circa 100 miliardi collocati per lo più in titoli esteri”. Infine, l'attacco contro la cancellazione dell'Imu rilanciando, invece, la tassazione delle ricchezze e delle rendite finanziarie. Un programma alternativo al governo, arricchito dall’intervento di Rodotà che sul binomio “lavoro e democrazia” impernia la difesa della Costituzione dagli attacchi di “questa o quella convenzione”. E infatti la prossima tappa di questa “sinistra” sarà il 2 giugno, a Bologna, “per la difesa e l'affermazione della Costituzione”.
Nel pomeriggio arriva la risposta di Epifani: “Il problema non è stare in piazza, ma ascoltare la piazza e dare alla piazza le risposte”. E sulla sospensione dell’Imu assicura che non si tratta di una vittoria completa del Cavaliere: “Aveva chiesto di riavere i soldi del 2012 e non ci sono. Aveva chiesto la cancellazione e c'è sospensione e riforma della tassa. Quindi lui può dire che ha vinto, ma non è così”.
LANDINI non vuole trasformare la Fiom in un partito, non sarebbe possibile. Ma è lui a sottolineare la sostanza politica del voto del 25 febbraio: “La maggioranza si è espressa contro il governo Monti e per un cambiamento”. É quindi in nome di questa maggioranza che il sindacato si mette a disposizione di un obiettivo diverso rispetto a pochi mesi fa. Se prima “la fase” era quella di condizionare al massimo un possibile governo Pd-Sel, ora si tratta di ricostruire un campo della sinistra. L'accoglienza a Rodotà lo dimostra. Non si tratta di fare un “parti-tino” a sinistra del Pd ma di creare una forza ampia che, a questo punto, tolga terreno allo stesso Partito democratico. Forti di una opzione nuova: l'interlocuzione con il Movimento 5 Stelle. Il riconoscimento tributato dai due capigruppo del M5S alla manifestazione è un fatto inedito. Emblematica, la chiacchierata sotto il palco che Landini ha fatto con i deputati pentastellati tra cui Claudio Cominardi. Un confronto “sulla visione per i prossimi 30 anni”, come sottolinea Cominardi e sul rapporto tra dignità umana e dignità del lavoro.
Giorgio Airaudo che ha passato la propria vita nella Fiom e che ora siede in Parlamento con Sel, di fronte alla prospettiva di una nuova sinistra in grado di allearsi con Grillo, risponde: “Perché no? Il problema della ricostruzione di un campo è posto. E loro non sono indifferenti”.

La Stampa 19.5.13
“Il partito ha sbagliato a non partecipare”
Cofferati: d’accordo con le idee delle tute blu


«Avrei trovato normale che, come si usava un tempo, di fronte a una manifestazione che si annunciava come importante e molto partecipata il Pd facesse un comunicato di adesione, e indicasse una delegazione a rappresentarlo. Non è stato fatto, ed è un errore. Un partito di sinistra deve partecipare a iniziative che hanno quei contenuti».
Sergio Cofferati, ex leader della Cgil ed europarlamentare del Pd, lei in piazza con la Fiom c’era. Perché?
«Perché condivido le proposte della Fiom, perché era una manifestazione “per”, e non “contro”. Che la Fiom solleciti i suoi interlocutori, governo e imprese, ad adottare politiche di crescita per creare nuovo lavoro mi sembra una cosa giusta e meritoria. Perché il lavoro, insieme con il contrasto alla povertà, sono le due priorità del paese. Priorità - l’Imu non lo è - che dovrebbero però essere condivise da tutta la sinistra, sociale e politica. Mi aspetterei dal governo un piano straordinario di investimenti per creare nuovo lavoro. Le imprese assumono solo quando hanno una domanda di mercato da soddisfare.
L’idea coltivata dall’Esecutivo di agire ancora una volta sulla flessibilità, modificando in peggio la già brutta legge Fornero, serve solo a togliere diritti. Ma non crea un posto di lavoro in più».
Si è detto che la manifestazione Fiom è stata un laboratorio politico: accanto a Landini c’erano Gino Strada, Stefano Rodotà, Nichi Vendola...
«La Fiom fa il suo mestiere di sindacato, non ha intenzioni che riguardano la politica. E del resto se ci fosse stato il Pd (e le cose che dice la Fiom sul lavoro non sono diverse da quelle che dice il Pd) l’ipotesi del “laboratorio della nuova sinistra” sarebbe stata cancellata. Non penso che la Fiom, che è una grande organizzazione sindacale, si voglia proporre come laboratorio politico. È inevitabile che partecipino a una manifestazione come questa persone della società civile diversissime tra loro, come Gino Strada o Sandra Bonsanti. Semmai si conferma che sul merito, cioè lavoro e difesa dei deboli, ci sono sensibilità trasversali importanti».
A maggior ragione è significativa l’assenza deliberata del Pd, non crede?
«Ripeto, mi sarei aspettato un comunicato di adesione e l’indicazione di una delegazione. In ogni caso non si può dire che il Pd non ci fosse: c’ero io e c’erano molti altri esponenti del Pd. Significa che nel Pd ci sono opinioni che convergono con l’esigenza di manifestare per quegli obiettivi. Non potrei mai dire che rappresento il partito, certo».
E l’assenza del segretario Guglielmo Epifani, un altro ex sindacalista?
«Il problema non è il segretario, ma il partito».

Repubblica 19.5.13
Cofferati, eurodeputato ed ex leader della Cgil: in questa piazza tesi perfino moderate e un’energia da valorizzare
“Che errore, una delegazione doveva esserci”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA — «Doveva venire almeno una delegazione democratica guidata dal capogruppo, Speranza e il partito doveva inviare un comunicato...». Sergio Cofferati, l’ex segretario della Cgil di cui Epifani è stato vice, giudica «un errore» l’assenza del Pd alla manifestazione Fiom. Alcuni lavoratori pressano: «Sergio, dacci una speranza». E lui: «Bisogna lottare».
Cofferati, ha sentito Epifani? Gliel’ha detto che è stato uno sbaglio non venire?
«No. Però sarebbe stato giusto esserci: la Fiom dice cose ragionevoli, addirittura moderate. In questa piazza c’è una energia positiva con la quale interloquire».
È stata la manifestazione di una parte del sindacato.
«Penso e spero che anche il resto del sindacato proponga questi temi e costringa il governo a discuterne».
Epifani ha quindi sbagliato?
«Al di là di Guglielmo, i temi riguardano il Pd. Oggi i problemi sono il lavoro, la crescita, la povertà. Mancano le azioni concrete».
Alcuni provvedimenti il governo Letta li ha già avviati. Non le sembrano adeguati?
«C’è bisogno di un piano di investimenti straordinari».
Forse è presto per affrontare anche questo capitolo.
«Ma no, che presto! Aggiungo che non si va da nessuna parte cancellando i diritti. Sento dire che ci vuole maggiore flessibilità in entrata, così non si crea nulla. E mi pare che di tutto questo nelle intenzioni del governo non ci sia niente. L’Imu non è una priorità, il lavoro è la priorità».
In piazza c’è la sinistra anti larghe intese?
«Ci sono i partiti di sinistra».
Le larghe intese sono comunque una fase transitoria?
«Per il numero di temi che si propone di affrontare, non mi pare che il governo Letta si stia muovendo con l’idea di un traguardo vicino».
Lei ha detto che il neo segretario del Pd, Epifani è debole perché non eletto con le primarie. Le primarie sono indispensabili?
«Penso che l’idea di differenziare il modo in cui si legittima il segretario del partito da quello per il candidato premier, sia un errore».
Nel senso che non è d’accordo sulla distinzione tra le due figure che il Pd vorrebbe ora introdurre, e che peraltro con una norma transitoria aveva già voluto Bersani?
«Sono d’accordo sulla separazione, ma non con l’indebolimento che un segretario eletto solo dagli iscritti. Significherebbe rendere il partito ancillare al governo».
Il congresso democratico sarà tra sei mesi, ma già si moltiplicano gli sfidanti?
«È utile anticipare il congresso perché guai a rimuovere gli errori gravissimi commessi. La sequenza che ha visto la bocciatura di Marini, poi di Prodi e richiamare Napolitano non è figlia della distrazione».
(g.c.)

il Fatto 19.5.13
Il “complotto”
Pd, triste fine di un partito verso l’autodistruzione
di Furio Colombo


Certo che c’è un complotto. Ci deve essere una ragione urgente, grave e pericolosa, se il nuovo segretario del Pd, già segretario della Cgil, è costretto a non andare al corteo e alla manifestazione della Fiom (Cgil) che difende accanitamente il lavoro. Per non turbare il governo delle larghe intese? Non può essere perché appena una settimana prima il collega di Letta dell'altro partito era andato in piazza in difesa di Berlusconi condannato due volte e in attesa di due sentenze. Lo aveva fatto contro i giudici, ovvero un leader dell'esecutivo contro un altro potere democratico della Repubblica. Lui risponde: “È la politica, bellezza”. Non vale per il Pd. Il Pd deve fingere di esserci e restare fermo, sottomesso, a obbedire. Questo è il complotto. Ecco le prove. Una sera in televisione compaiono fianco a fianco il presidente della commissione Giustizia del Senato, Nitto Palma (Pdl) e la presidente della commissione Giustizia della Camera, Ferranti (Pd). Sono due esperti, due magistrati. Rappresentano i due partiti che si contendono il governo in Italia. Viene buttata lì la domanda (Lilli Gruber, 16 maggio): “Secondo lei Berlusconi potrà essere senatore a vita? ”. Il lettore immaginerà che il senatore del Pdl abbia detto con convinzione ed entusiasmo che certo, sì, Berlusconi è lo statista italiano che più di tutti merita questo onore. Giusto. Nitto Palma lo ha fatto. E che la presidente Ferranti, anche perché giudice, abbia respinto con un certo sdegno questa risposta. Invece, con un sorriso ha detto che “non saremo noi a dire se Berlusconi può diventare senatore a vita. Il privilegio di quella decisione spetta al presidente della Repubblica”. Gli spettatori – elettori (ormai le elezioni sono sempre imminenti) hanno constatato che una delle parti è attiva e occupa tutto lo spazio che può (molto, data la doppia disponibilità televisiva che è dono del conflitto di interessi) al punto da mandare in onda, in tempo reale, contro-inchieste televisive su processi in cui Berlusconi è imputato.
L’ALTRA PARTE è immobile. E viene incoraggiata a disertare e disprezzare una grande manifestazione operaia per il lavoro. Non mancano i momenti in cui le conseguenze del complotto contro il Pd diventano ancora più chiare. Arriva Chiamparino, che lascerebbe tutto per diventare segretario del Pd dopo il Congresso d'autunno. La notizia sembra interessante, smuove le acque. Ma il complotto obbliga Chiamparino ad aggiungere una condizione non negoziabile: “Accetterei solo se il Pd facesse proprie le proposte di Pietro Ichino sul lavoro”. Come è noto, sono le stesse regole di condotta che hanno affondato il lavoro negli Stati Uniti, mettendo tutto il potere nelle mani delle imprese, fino a quando il presidente Obama ha strappato al Congresso più diritti e più lavoro per la parte di americani che lo ha votato, cioè i più poveri. Il Pd, invece è deciso (o costretto) a ignorare i suoi elettori. Eppure molti di loro cercavano, anche i meno sicuri, una sola qualità nel Pd: la certezza che non fosse il Pdl. Ma qui entra in funzione, potente e bene organizzato, il complotto. Centouno estranei si infiltrano nel partito che, in Europa, è parte del Pse (Socialisti europei) e prima abbattono Prodi, poi obbligano l'intero partito, dirigenza e deputati, a non vedere Rodotà. Vo-tarlo voleva ridare istantaneamente identità e dignità a un intero partito immobilizzato e sotto assedio, avviare un nuovo governo e soprattutto restare dalla parte degli elettori. Ma la ferrea crudeltà del complotto non lo ha permesso. Forse per questo Beppe Grillo, leggero di mano come al solito, può dire in un suo comizio di questi giorni: “Non preoccupatevi, è tutto chiaro. A ottobre andremo alle elezioni perché così vuole il nano e allora saremo in due a misurarci, noi e il nano. E li spazzeremo via”. Non sappiamo se la previsione sull’happy end di Grillo sia fondata. Ma purtroppo la descrizione del paesaggio sembra realistica. Si vedono con chiarezza due protagonisti, non tre.
VI DIRETE: ma il presidente del Consiglio è del Pd. Inevitabile rispondere. Sì, ma da lontano non si vede. E questo è il capolavoro del complotto che sta togliendo di mezzo il Pd: quel partito, da lontano, dal punto di vista degli spettatori-elettori, non si distingue. Avrete notato il tono padronale del vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno (carica non da poco in caso di imminenti elezioni). Avrete notato il tono padronale dei loro giornali, delle loro televisioni. Ti parlano con la contenuta indignazione di chi comanda, e includono un evidente disprezzo per chi ha detto o scritto ciò che non vogliono. Anche l'uso del governo – che offre al ridicolo la reputazione di uno dei partiti per segnare i punti dell'altro – dovrebbe far riflettere. Esempio, l'Imu. Letta rischia tutto con l'Europa, un bravo banchiere gli fa da notaio. Ma è Berlusconi che si presenta al pubblico per l'incasso. Lo ottiene perché, per forza, credono a lui. Nessuno farebbe spontaneamente, contro se stesso e la propria credibilità e immagine, ciò che il Pd ha fatto e sta facendo. Come Pasolini, devo dire – del complotto contro il Pd – che “io so, ma non ho le prove”. A differenza di Pasolini mi tormenta un dubbio. Che si tratti di un folle autocomplotto che punta a un risultato inevitabilmente distruttivo? Altrimenti come spiegare che un solo senatore (Luigi Zanda) ha chiesto al Pd di dichiarare l’evidente ineleggibilità di Berlusconi? Gli altri sono minacciati?

il Fatto 19.5.13
La nuova sinistra di Rodotà trova la sua base nella Fiom
Ovazione per Gino Strada, insulti al giovane turco Orfini
di Giampiero Calapà


Come si può stare al governo con Berlusconi e avere paura di essere qui? In questa piazza? Con la parte migliore del Paese? ”. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, attacca frontalmente il nuovo capo del Pd, Guglielmo Epifani, ex leader della Cgil, assente alla manifestazione dei metalmeccanici. Lo fa nel suo giorno, dal suo corteo “rosso”, tra bandiere del sindacato, partiti e siglette di una sinistra alla ricerca della casa comune perduta o forse mai avuta. Militanti e bandiere, sognando Rodotà, ormai qui per tutti “il mio presidente”.
Ore 9,45, piazza Esedra Barca saluta e se ne va
Fabrizio Barca deve scappare da Roma per altri impegni, quindi raggiunge Landini alla partenza: “Bella piattaforma”. Poi Landini cerca di farsi largo nella ressa per guadagnare la testa del corteo, assediato da telecamere e sommerso dagli applausi: “Ci sono diversi parlamentari del Pd, ringrazio tutti. Chi non c’è parla da solo”.
Ore 10,30, via Cavour Cofferati oscura Vendola
Dopo Landini il più applaudito è Sergio Cofferati (escluso Rodotà che sbanca alla fine). Proprio lui, il predecessore di Epifani alla guida della Cgil, che senza nessun timore reverenziale verso il nuovo segretario lancia un missile terra-aria: “Avrei sperato che il mio partito fosse qui presente con una chiara condivisione di questa manifestazione, spero ancora succeda prima dell’arrivo del corteo. Se non succederà saremo di fronte all’ennesimo errore del Pd”. E alla domanda “sta nascendo qualcosa di diverso a sinistra? ”, Cofferati risponde: “È presto, ci vuole pazienza”. Molto meno entusiasmo intorno a Nichi Vendola, che prova a stare sul pezzo: “Chi non è venuto ha perso un’occasione”.
Ore 10,45, Esquilino Arriva Mr Emergency
Nella classifica dell’applausometro stradale Landini e Cofferati stravincono, eguagliati soltanto da Gino Strada, che compare in testa al corteo vicino al segretario generale: “Alla Fiom, ultimo baluardo della democrazia in Italia, bisogna dire grazie di esistere mentre in Italia è in atto una guerra contro i poveri”. Cammina solo, al lato del corteo, un altro dissidente del Pd, Pippo Civati: “Do-v’è il mio partito? Questa è una piazza in cui la sinistra ci deve essere. Spero che si possa cambiare la legge elettorale per tornare al voto in autunno”. Tra i presenti del Partito democratico il più sfortunato è Matteo Orfini, per il giovane turco non solo qualche fischio: “A raccontare le cose che racconti in televisione pigli pe’ culo te stesso... ma come fai a stare in quel partito? ”. Orfini tenta di spiegare che non si tratta di una manifestazione contro il governo, ma si prende ancora fischi e insulti, anche quando giustifica l’assenza di Epifani: “Ha un ruolo diverso, è normale abbia deciso di non partecipare”.
Ore 12, piazza San Giovanni M5S dal segretario generale
Ha formalmente aderito alla manifestazione con una lettera dei capigruppo di Senato e Camera Vito Crimi e Roberta Lombardi, ma soprattutto ha inviato una delegazione, il Movimento 5 Stelle. Presenti i parlamentari Alberti, Davide Tripiedi, Claudio Cominardi, Francesco Campanella e Currò. Breve colloquio sotto al palco con Landini: “La Fiom si deve occupare dell’oggi, ma noi dobbiamo pensare in prospettiva per i prossimi trent’anni”. Dino Alberti sfida il Pd: “Noi non siamo né destra né sinistra, ma anche tra questa gente sembriamo quel punto di riferimento che il Pd non è più”. Tommaso Currò è dispiaciuto: “Mi avrebbe fatto piacere fosse venuto anche Grillo”.
Ore 13, cori da stadio per “Ro-do-tà-Ro-do-tà”
Quando il professor Stefano Rodotà prende la parola dal palco le bandiere rosse sventolano più forte al grido di “pre-si-den-te”. Un popolo di sinistra a corto di leader si stringe attorno al giurista. Lui, omaggiato con la tessera onoraria, si commuove: “Il mio rapporto con la Fiom non nasce certo oggi. Ci siamo sempre battuti insieme per la democrazia e la Costituzione”. E, alla fine, il sogno: “Serve unificazione e dialogo a sinistra, perché tutto è messo in discussione dell’attuale maggioranza di governo”.

il Fatto 19.5.13
Delusione, rabbia e quell’unica bandiera democrat
Un pensionato di 73 anni con l’unico vessillo del partito in piazza
Un ragazzo incredulo: “Che coraggio”
di G. Cal.


Tutto il coraggio, la rabbia, la delusione, la rivalsa, l’orgoglio di quell’unica, sola, irrisa, rispettata, bandiera del Partito democratico, l’erede diretto del Pci, si rivela a mezzogiorno, quando il corteo sta per concludere la marcia sotto al palco della Fiom. Roma, piazza San Giovanni, all’ombra della basilica la sinistra c’è tutta o quasi, le bandiere più numerose sono anche le più improbabili: partitini come quello comunista dei lavoratori di Marco Ferrando, sigle che evocano mondi lontani e incomprensibili come i Carc, Sinistra critica, Alba. Non mancano i vessilli dei vendoliani di Sel, di Rifondazione comunista, del Pdci, di Azione Civile di Antonio Ingroia. Del Movimento Cinque Stelle, che pur ha aderito alla manifestazione, non se ne vede una.
MA IL GRANDE ASSENTE dalla sua piazza sarebbe il Partito democratico. Non fosse per Mario Fiorentino, 73 anni, uscito da casa alle otto e mezza del mattino, in viaggio dai castelli romani, comune di Montecompatri. Autobus e poi metro. Per esser l’unico a issare la bandiera del Pd: “Perché questo partito, nonostante tutto, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo”, dice Mario con orgoglio. Francesco, torso nudo sotto il sole, bandana, parlata romanesca e bandiera di Rifondazione comunista tra le mani si avvicina incredulo: “Complimenti, sono stupito dal coraggio. Non ne ho viste altre”. Mario Fiorentino, pensionato, una vita di lavoro nella Voxson, azienda di televisori e autoradio a Torsapienza chiusa negli anni ’80, risponde subito a tono: “Guarda tu, che in questa piazza, sono pronto a scommettere, ci sono molti più voti del Pd che bandiere di Rifondazione”. Francesco rinnova i “complimenti al coraggio” e si allontana, non convinto ma colpito. Perché Mario Fiorentino rimane là, nella “mia piazza San Giovanni con la mia bandiera”. E, spiega, non si deve vergognare di niente: “Il governo con il Pdl? Un rospo che stiamo ingoiando. Non è piacevole. Ma sa che cosa mi stupisce ancora? Che dopo tutto questo tempo ci sia ancora gente che abbia votato per Berlusconi. E non si vergognano neppure più”. Si avvicina un ragazzo: Cosimo, 25 anni, studia alla Sapienza, sta andando a Termini per ritornare a Matera per qualche giorno, dai suoi: “Ma prima non sono riuscito ad evitare di passare da qui, è la nostra piazza, la nostra gente”. Cosimo è un tesserato Pd, ha visto da lontano Mario Fiorentino, quell’unica bandiera, e si è avvicinato, ha voluto stringere la mano a questo signore che ha scritto un pezzetto importante della storia di questa giornata. “Che bello vederla, vederne almeno una, dopo quello che i dirigenti ci hanno fatto. E non sa da me in Basilicata che accade nel partito... ”, sospira Cosimo. Mario Fiorentino, 73 anni da Montecompatri, dà qualche consiglio al giovane Cosimo, poi mentre il ragazzo si allontana si commuove. “Ogni tanto penso a quanta strada abbiamo fatto, quanti errori, quante amarezze, da quel giorno”. Quale? “Quello del funerale di Enrico. Enrico Berlinguer”. Parola dell’ultima bandiera.

il Fatto 19.5.13
Mannoia: “Vi volevo vedere al governo”


Questa volta non ha cantato, Fiorella Mannoia, ma dal palco della Fiom ha pronunciato un appassionato discorso molto politico: “Sono qui perché queste sono le facce che avrei voluto vedere alla guida del governo del mio, del nostro Paese”. La cantautrice ha spiegato che “siamo nel periodo piú buio dal dopoguerra, abbiamo in tutti i modi cercato di comunicare il nostro disagio, il nostro malessere, la nostra voglia di cambiamento, il nostro desiderio di legalità, che è la cosa di cui il paese ha più bisogno. Ma non ci hanno ascoltato”. Ma il suo non è un messaggio di pessimismo: “Io non ho gli strumenti per dire come ripartire, ma penso che una buona partenza sarebbe quella di ridare una speranza, ritrovando quella passione per il bene comune, per i cittadini, che oggi si sentono soli e traditi, non ascoltati”.

l’Unità 19.5.13
La manifestazione Fiom
Centomila con Landini: «O si cambia o si muore»
Grande partecipazione alla manifestazione dei metalmeccanici Cgil
Landini polemizza col Pd: non si può avere paura di stare qui
«Partito Fiom? Ma va là». Applausi per Rodotà
di Massimo Franchi


La Fiom torna nella piazza «strappata» alla sinistra da Grillo prima delle elezioni. Sono forse in 100mila ad applaudire Landini, ma anche Rodotà e Gino Strada. Il leader della Fiom polemico con il Pd: «Come si fa a stare al governo col Cavaliere e avere problemi a stare qui in piazza con noi?».

Per la terza volta in quattro anni la Fiom riempie San Giovanni, la piazza strappata da Grillo alla sinistra prima delle elezioni. Siano 50 o 100mila, sono comunque tanti. Che applaudono Stefano Rodotà e Gino Strada. E scatenano l’orgoglio di Maurizio Landini. Che sotterra definitivamente la legenda metropolitana del partito della Fiom («Ad ogni manifestazione me lo chiedono: oh che due balle! Noi siamo coerenti e continuiamo a fare sindacato») e non manca di lanciare frecciate al Pd che non è in piazza: «Non riesco a capire come si può essere al governo con Berlusconi e avere problemi a stare qui in piazza con noi».
«Noi a differenza di altri che hanno pagato per avere le piazze piene, siamo qui non per interessi personali. Nonostante in questi anni abbiano cercato di cancellarci come potrebbe raccontare ognuno di voi per l’esperienza fatta nelle vostre fabbriche: siamo ancora qua perché non rinunciamo all’idea di cambiare questo Paese e mandare a casa chi lo ha distrutto», esordisce Landini. Oltre a ribadire la piattaforma programmatica della manifestazione (investimenti pubblici e privati per salvare l’industria, agevolazioni per i contratti di solidarietà, una politica industriale, manutenzione del territorio, cassa integrazione per tutti, reddito di cittadinanza per precari e studenti) e l’idea di «riunificazione delle lotte di tutti i lavoratori, senza distinguere fra tutelati e non, fra giovani e meno», citando Di Vittorio («impedire in qualsiasi modo una competizione tra lavoratori»), il segretario generale della Fiom ha rilanciato un suo vecchio cavallo di battaglia: «Anche il sindacato non ha fatto quello che doveva, per esempio contro la riforma delle pensioni, e deve cambiare. E allora io dico per esempio che 274 contratti nazionali sono troppi, non servono, ne bastano molti di meno, uno per settore, uno dell’industria, uno nei servizi, ad esempio».
Il problema è infatti quello di tutelare anche «quelli che nella logistica prendono 3 euro l’ora come i lavoratori morti nel crollo in Bangladesh» e per farlo l’unico modo «è farli votare». E qui arriva il messaggio sulla rappresentanza, accordo che sembrava a portata di mano già venerdì e che invece viene rimandato per le scadenze e i ripensamenti interni a Confindustria: «Deve mantenere il diritto di voto dei lavoratori sui contratti e sono inaccettabili le limitazioni e le sanzioni che limitano il diritto di sciopero». A Fim e Uilm, che Landini incontrerà mercoledì al congresso dei metalmeccanici della Cisl a Lecce, lancia un messaggio sul contratto nazionale: «Se qualcuno che ha firmato accordi del cavolo capisce solo dopo di aver siglato un accordo del cavolo, torni pure indietro, noi non glielo faremo neanche notare», dice sarcastico. Sul governo il leader dei metallurgici Cgil non è certo tenero: «Se questo governo non sarà in grado di cambiare le politiche di Monti e Berlusconi, lo dico ora per non essere cattivo profeta penso che non avrà lunga durata perché questa manifestazione dimostra che non ci siamo rassegnati e che le cose le vogliamo cambiare».
«FAR VOTARE I LAVORATORI»
Oltre a Berlusconi, il bersaglio preferito di Landini sono stati «i professori bocconiani di turno». «Quelli che ci spiegano da anni che i sacrifici li devono fare e l’austerità la devono pagare solo i lavoratori, e che pur essendo laureati non capiscono che i soldi si trovano solo dove ci sono: nelle rendite finanziarie». L’altro cavallo di battaglia è ancora la democrazia. «Se ci pensate bene tutte le modifiche peggiorative fatte alle leggi sul lavoro (articolo 8, modifiche all’articolo 18, contratti separati) sono state fatte senza votare. Gli unici posti in cui i lavoratori hanno votato sono stati Pomigliano e Mirafiori e lì lo si è fatto sotto ricatto e non è stata certo democrazia».
Prima di lui c’erano stati gli ormai soliti e isolati fischi al segretario confederale Cgil di turno e il coro «Sciopero generale». Ma c’era stato soprattutto l’intervento di Stefano Rodotà. Al grido «presidente, presidente», il professore è stato presentato dai lavoratori di Pomigliano, «i compagni» conosciuti a piazza del Popolo durante lo sciopero generale del 21 ottobre 2011. Il lungo rapporto tra la Fiom e Rodotà («molto precedente alle recenti vicende», precisa il professore) si basa su un concetto caro ad entrambi: «La Costituzione va attuata, non modificata». «La Costituzione parla di eguaglianza e invece nella condizione delle persone, specie i disoccupati, si è creato un abisso attacca il professore quando le persone vengono separate dai diritti rimane solo la legge economica, dobbiamo invece restituire dignità alle persone anche tramite un reddito minimo garantito. E la Fiom, da Pomigliano in poi, lotta per i diritti di tutti, dei più deboli. Ora non possiamo aspettare oltre in questa sacrosanta battaglia». Musica per le orecchie di piazza San Giovanni.

l’Unità 19.5.13
Il Pd e le anime della sinistra che non s’arrende
di M. Fr.


Senza treni speciali che «ormai costano come l’Eurostar», alle nove della mattina, mezz’ora prima dell’orario previsto, la piazza di fianco alla stazione Termini è già piena. I metalmeccanici sono arrivati a Roma da tutta la penisola molto prima, hanno parcheggiato i pullman lontano e sono arrivati con la metropolitana. Nonostante una crisi che morde da un lustro e che ha colpito prima (e quasi solamente) loro, il clima è festoso. «La voglia di lottare c’è ancora, non vedevamo l’ora di tornare in piazza», racconta Sandrone che ha la maglietta con la scritta «Orgoglio operaio».
In piazza Esedra, e poi a piazza San Giovanni, le bandiere di partito sono tante. Troppe. Testimoniano però la disperazione politica di chi non è più in grado di mobilitare le persone e «sfrutta» le manifestazioni della Fiom per dimostrare al mondo che, nonostante le magre elettorali, esiste ancora. C’è Rifondazione con Paolo Ferrero, il Pdci, l’Idv senza Di Pietro, il Partito comunista dei comunisti con Marco Ferrando e ci sono le bandiere aggiornate di Ingroia con «Azione» che sostituisce «Rivoluzione», mentre l’aggettivo «civile» è invariato.
Presto arrivano anche Fabrizio Barca e Matteo Orfini. Sono i primi esponenti della delegazione Pd in piazza. Il primo saluta Landini, scambia quattro chiacchiere e poi se ne va a La Spezia nel tour fatto per spiegare il suo documento. Orfini invece la butta sul ridere: «Per adesso non mi hanno ancora menato». Viene fermato e riconosciuto da moltissimi e la frase più gettonata è: «Ma cosa avete combinato?». Lui si ferma a parlare con tutti, spiega, ride e riparte.
COFFERATI IL PIÙ APPLAUDITO
Il più applaudito è comunque Sergio Cofferati. L’ex segretario generale della Cgil torna alle origini ed è totalmente a suo agio fra servizio d’ordine, strette di mano e telecamere. «Avrei sperato ci fosse il
mio partito, anche perché concordo con lo spirito della manifestazione che è quello di manifestare per e non contro qualcuno o il governo. D’altronde le parole d'ordine di questa piazza sono più lavoro e meno austerità e sono parole condivisibili anche dal Pd», chiude prima di salutare tutti i vecchi compagni della Cgil che lo vanno a salutare nel retro palco. Ci sono Corradino Mineo, Vincenzo Vita, Fausto Raciti che rappresenta anche i Giovani democratici.
Discorso a parte merita Nichi Vendola, in corteo assieme a tutti i vertici di Sel. Lui è qui per ricostruire «la grande coalizione del lavoro che non è solo un fatto politico o sociale». «Io spiega il leader di Sel sono di sinistra e se non vengo al corteo della Fiom non so dove altro potrei andare».
La bufala messa in giro ad arte venerdì prevedeva la presenza di Beppe Grillo. Al suo posto c’è un sosia che riscuote qualche epiteto poco carino («Razzista») da chi lo scambia per il vero. Ci sono invece Tommaso Currò «in incognito» e Franceso Campanella. C’erano anche loro due settimane fa, quando Landini li ha incontrati e convinti che il reddito di cittadinanza deve essere alternativo e non sostitutivo della cassa integrazione, perché il posto di lavoro va tutelato. Loro hanno capito: «Sulle questioni del lavoro siamo vicini alla Fiom».
Ingresso trionfale nel corteo per Carla Cantone. La segretaria generale dello Spi Cgil e «zia adottiva» di Maurizio Landini entra a via Merulana accolta dal «nipote preferito». «La manifestazione è importante perché mette al centro il lavoro e l’uguaglianza, due temi che insieme rivendicano un modello di società basato sulla partecipazione. Chi è in piazza, compresi noi dello Spi, si aspetta che il governo modifichi le scelte indegne fatte da Berlusconi e Monti. È questo il senso della parola riunificazione perché non c’è riappacificazione senza diritti».

l’Unità 19.5.13
Gino Strada
«Questo corteo è una speranza di cambiamento»


Se Rodotà aveva già partecipato a molte manifestazioni, Gino Strada non aveva mai parlato dal palco della Fiom. Ricordando un intervento di «alcuni anni fa», il fondatore di Emergency ha salutato «uno degli ultimi baluardi della democrazia in Italia». La situazione del Paese è infatti «grave: 600 nuovi poveri al giorno, 6 milioni di famiglie povere». Tanto che Emergency ha aperto strutture anche in Italia, «cosa impensabile pochi anni fa». Critico col governo («coloro che hanno prodotto i problemi ora siedono insieme a dirci che li risolveranno»), Strada vede «nella piazza della Fiom è il primo segnale di un cambiamento ancora possibile».

l’Unità 19.5.13
Si può dire sì al governo e stare in piazza con Landini
Dentro il governo e dentro la piazza Si può, anzi si deve
di Mario Tronti


SOLO A GUARDARLI QUESTI OPERAI, FACCE, CORPI, PUGNI, VOCI, RIPRENDI FORZA, PER CONTINUARE A COMBATTERE.
Mi dico: qui sei a casa. Con i tuoi. Pensare, studiare, scrivere, parlare, stare perfino in Senato: acquista un senso: che, senza di loro, non ci sarebbe. E mi viene in mente che qui non c’è quello che si vede nelle piazze coccolate dalla disinformazione mediatica: la rabbia, il rancore, la violenza delle parole. Qui c’è passione serena, forza tranquilla, volontà di lotta, e quella sottile ironia, che solo le persone del popolo sanno avere. Nessuno grida: in galera! Nessuno fa il segno delle manette. Il lavoro educato dall’organizzazione è una potenza civile espressa dalla modernità, che non ha bisogno di grida scomposte e di atti eclatanti e di demagoghi urlanti per farsi sentire.
Qualcuno dice, molti dicono: è il mondo di ieri. Sono pochi, maledetti e nemmeno utilizzabili subito. Ho letto qualche giorno fa sull’Unità un bellissimo articolo di Carla Cantone. Ma è dunque possibile diceva che essere pensionato, e addirittura pensionato iscritto allo Spi, sia quasi una colpa? È possibile che il voto a sinistra di una parte consistente della generazione più anziana sia visto come un bel guaio? A nessuno viene in mente di dire, aggiungo io, che quella generazione vissuta nel Novecento si è conquistata forse una coscienza politica superiore a tanti postmoderni nativi digitali. Ai quali bisognerebbe consigliare, non avendo avuto quel privilegio di vita, di andarsela a recuperare, con la fatica e con la bellezza della memoria. Ma non è vero che è il mondo di ieri. È un pezzo del mondo di oggi, sottaciuto, occultato, emarginato, perché avendo fatto tanta paura nel passato a chi comanda, viene nel presente accuratamente tenuto nascosto alla vista. Ben venga allora quella forma di sindacato che lo fa riemergere, gli dà la parola, ne fa immagine eloquente, come accade in questa manifestazione, di un dramma sociale generale, che altrimenti rischia di risolversi nel piantarello ipocrita sulle singole tragedie quotidiane. La Fiom cerca l’unità e non la trova, la Cgil cerca l’unità e non la trova. E questo è un dramma nel dramma che bisognerebbe affrontare insieme e contemporaneamente alla ricerca, governativa, di tutte le misure possibili per alleviare la sofferenza di chi lavora, di chi perde il lavoro, di chi non ha lavoro, di chi ha un lavoro precario, di chi il lavoro non lo cerca nemmeno più, di chi non ha né stipendio né pensione, in una delle vicende più incredibili, che solo un governo dei tecnici poteva partorire.
Landini chiedeva al Pd meno imbarazzi in occasione di un’iniziativa come questa. Imbarazzante, in effetti, è che si debba partecipare a titolo personale alla manifestazione di un grande sindacato di lavoratori. C’è da sperare che si metta all’ordine del giorno per il futuro il superamento di questa ambiguità. È un bel tema congressuale. Vorrei piuttosto capire una cosa, che sembra marginale, ma non lo è. Mi piacerebbe calcolare quanti di questi ragazzi e ragazze del cosiddetto Occupy Pd si siano immersi in questo mare operaio. Mi permetterei di dire loro: guardate che più di centouno sono loro, prima che voi. E se non passate di lì, attraverso la lotta contro il capitale prima di quella contro il caimano, non crescerete bene. E bisogna crescere bene, perché ci sarà bisogno di voi, quando questi vecchi operai non ci saranno più. E senza quello che hanno fatto loro, non farete niente. Vanno ristabilite delle gerarchie dei problemi. Al primo posto non c’è il conflitto di interessi di Berlusconi, ma il conflitto di interessi tra i lavoratori tutti e questa forma attuale di capitalismo finanziario. Di cui, certo, Berlusconi è anch’esso una figura. Ma allora bisogna attaccarlo su questo. Così si fa chiarezza. E si ristabilisce la differenza tra destra e sinistra, senza bisogno che ce lo dicano i processi in tribunale. Problema. Si può oggi dare la fiducia al governo Letta e andare in piazza con la Fiom? Certo che si può. Io direi: si deve. Questo è il vero compromesso, non l’inciucio con il Pdl. Sarebbe un errore fare una cosa senza l’altra, errore più grave mettere l’una contro l’altra. Sbaglia il Pd a non mescolare le sue bandiere politiche con le bandiere del sindacato. Sbaglia la Fiom a chiamare sul palco solo i nomi che risultano alternativi alla difficile esperienza di governo. Come ogni serio compromesso, va sostenuto e realizzato con la politica. Ma se non si capisce che la politica, nella sua autonomia, serve a questo, non si fa un passo indietro per farne due avanti, come diceva quel tale. Si sta fermi. E stare fermi, specialmente su una gamba sola, si finisce col sedere per terra. Quanto, di recente, esattamente accaduto.

Repubblica 19.5.13
Per la sinistra ferita serve una costituente
di Adriano Sofri


LA MANIFESTAZIONE cui la Fiom ha chiamato ieri a Roma in nome del lavoro e dei diritti era la benvenuta. Le persone di sinistra – scriviamolo senza preoccuparci di definirlo, “come se” lo sapessimo – sono state raramente così tristi. La manifestazione è andata coraggiosamente contro questo stato d’animo.
E ha fatto incontrare militanti e cittadini decisi a reagire. Il bravo Maurizio Landini ha ceduto alla frase da comizio – «Siamo la parte migliore dell’Italia» – troppo sentita e sfortunata: ma che fosse convenuta lì una parte buona dell’Italia è certo, e non è poco. I commenti hanno riguardato di preferenza chi non c’era. Si capisce, soprattutto rispetto al Pd: «Un Pd che non sta in strada con la Fiom mentre sta al governo con Berlusconi». C’era uno slogan antico, dell’estrema sinistra: «Il piccì, non è qui, lecca il c… alla diccì». Il Pd, epigono mai abbastanza rimescolato di ambedue, è al governo con un’altra cosa, e non ha creduto che l’invito della Fiom fosse un’occasione per testimoniarsi di governo e di lotta. Alla manifestazione si guardava anche per misurare l’amalgama possibile di una nuova sinistra politica, cui il merito della Fiom nella difesa dei diritti del lavoro offrisse un’occasione. L’adesione di Sel, oltre che dei partiti e gruppi “comunisti”, e di 5stelle, indica un percorso affine a quello, in verità rocambolesco, che ha portato in Grecia un’alleanza di incompatibili gruppettari (stalinisti e trozkisti compresi!) a formare, in un giro brevissimo di tempo, un partito, Syriza, capace di competere per la maggioranza. Questo percorso non si è fatto riconoscere nella manifestazione di ieri, né per il numero né per il modo della partecipazione. Attorno al nerbo dei militanti Fiom, gli altri reparti di aderenti hanno tenuto la propria fisionomia in un modo tradizionale, e cittadini e studenti non davano nell’occhio. (In piccolo, un disegno del genere era rovinato buffamente con la “Rivoluzione civica” di Ingroia).
Assente era anche la costellazione di iniziative e sensibilità che pensa sì a una casa comune nuova per la sinistra ma punta su una crescita per azioni concrete e locali, e diffida di partiti e partitini esistenti, apparati e concorrenze. Una nuova sinistra organizzata a partire dal ripudio irreversibile del Pd, è l’idea della maggior parte dei movimenti cui abbiamo accennato – col suo corollario, che l’elettorato del Pd sia l’acqua in cui gettare le reti. Se no, occorre ancora interrogarsi sul Pd. Con pochissime eccezioni personali, il Pd dei nomi noti si è tenuto alla larga dalla manifestazione di ieri, ma anche la gente del Pd non si è fatta vedere. La ferita è troppo recente, e poi a Roma c’è la campagna per il Comune: ma è probabile che amarezza e sconforto prevalgano di gran lunga sulla decisione di trasferire altrove fiducia e impegno, e forse perfino voti. I 5stelle, in particolare, hanno avuto una parte troppo vistosa nel favorire la conclusione di governo, per allettare la sinistra amareggiata. Sicché, in un tal brulicare di offerte politiche più o meno improvvisate e demagogiche, un ennesimo pretendente che prendesse la scena rivolgendosi, piuttosto che ai serbatoi elettorali tradizionali e ora mobili, all’enorme bacino astensionista, che facesse appello al voto dei non votanti, potrebbe trovare ghiotto mercato.
Il contesto è cambiato, almeno formalmente. I muezzin dell’austerità non sono più in auge. Se il governo cade presto, Letta e Alfano torneranno alle case madri (matrigne). Se dura, può darsi che si ritrovino alla fine nello stesso partito – come all’inizio. Si disse che il Pd avrebbe tenuto, all’indomani delle elezioni, un interposto congresso. Si è arrivati forse a una scissione per interposto governo. Che il governo duri o no, non si tornerà a quel Pd. E’ uno scherzo la spiegazione dei rispettivi alleati: c’era un’emergenza, siamo qui per fare le cose indispensabili, poi torneremo ad affrontarci davanti agli elettori. Non saranno più gli stessi. Il centrismo del Pd si è separato dalla sinistra, di cui era fino a un’ora prima “vice”, divenendone la guida. Enrico Letta era – sul serio – il miglior dirigente dell’Udc. C’è un governo Pdl–(U) dc col sostegno quasi unanime del Pd, esterno, salvi alcuni personaggi “prestati”. Non si tornerà, come dopo il Congresso di Vienna, allo status quo ante e alle vecchie parrucche. Si sarà confuso tutto. Compresa la separazione fra renziani e no, che eragià stata confusa, giustapponendo nuovi e vecchi a destra e sinistra. In questa deriva dilazionata, una eventualità è la moltiplicazione di aspiranti ad accaparrarsi un pezzetto del giocattolo rotto. Il grosso si barcamenerà. Le ali si incontreranno qua e là, con Rodotà, con Barca, con Vendola, con Cofferati e Landini, con Civati, coi giovani di Occupy Pd renziani, bersaniani, grillini, e Veltroni e D’Alema. Nel frattempo si farà il presidenzialismo o il semipresidenzialismo, cioè la stessa cosa, in modo da assicurare a uno dei populismi in gara anche i pieni poteri presidenziali. Può andare diversamente? Speriamo, certo. Le denunce dell’inciucio, nel caso migliore acchiappano la coda della questione. Prendete il malinteso della responsabilità: il Pd è squartato fra il compromesso scadente e il senso di responsabilità. Il senso di responsabilità ne può uccidere più che l’amore per il compromesso scadente. E’ successo con Monti. Pd e Pdl gli si consegnarono, poi il Pdl ruppe il giocattolo e la gabbia, e impostò spudoratamente tutta la sua campagna sull’attacco a Monti, l’Imu ecc.; il Pd non poté farlo, non tanto perché preferisse l’accordo con Monti – mentre si alleava con Sel – quanto perché si voleva responsabile, e perfino rispettoso del galateo: era maleducato attaccare a testa bassa, benché Monti si stesse immergendo nelle peggiori scelte personali. La lotta all’austerità, che era la cifra della sinistra, diventò quella di Berlusconi, il quale era a suo modo coerente, perché dell’austerità se ne era fregato prima per irresponsabilità (i ristoranti erano pieni) e poi ne sventolò la bandiera contro la Merkel e la speculazione finanziaria – cioè contro se stesso. Allo stesso modo, ora nel governo introvabile il Pd si vuole responsabile, vuole il bene del paese, ha il suo vicesegretario a capo del governo, mentre Berlusconi ha il vice al posto di vice, è irresponsabile, dà ultimatum, tira la corda nell’attacco ai magistrati, difende il soldo di oggi fregandosene del bilancio di domani, monta nei sondaggi: se la corda si spezza, il Pd va col culo per terra, se resta tesa, il Pd paga il pegno e Berlusconi fa la ruota. Chissà, si può, si poteva liberarsi dal (falso) senso di responsabilità? Si poteva constatare che il governo che si voleva fare non si poteva fare, e tirarsi indietro e dire: Prego signori, fatelo voi, voi Pdl, voi 5 stelle, voi due partiti di un uomo solo, è vostra, la responsabilità? – e poi vediamo i sondaggi? E ora, una costituente della sinistra del lavoro fondato sul rispetto della salute, della dignità e dell’ambiente, si può?

il Fatto 19.5.13
Occupy Pd oggi il raduno nazionale a Prato


SI VEDRANNO oggi a Prato, per il primo incontro nazionale, i ragazzi di Occupy Pd, il “movimento” dei giovani democratici nato nelle settimane dopo le elezioni in dissenso con la scelta dei vertici nazionali di andare al governo con il Pdl. A Prato ci saranno 20 delegazioni da 15 territori, per un intero pomeriggio di discussione, 5 minuti a disposizione per ogni intervento. L'incontro è fissato allo Spazio Compost e l’invito è rivolto a tutti coloro che, in queste settimane, hanno occupato le proprie sedi di partito, dal Veneto alla Sicilia. “Sarà un’ occasione - scrivono gli organizzatori - per ripercorrere le ragioni che hanno spinto i ragazzi a mobilitarsi con un obiettivo ben più ambizioso: passare dalla protesta alla proposta. Sarà un pomeriggio di dibattito aperto, che metterà al centro il Pd, le sue contraddizioni, ma soprattutto le energie da cui ripartire”.

il Fatto 19.5.13
I 4 “processi” di B. Ora ai Democratici tocca votare sì o no
Depositate le richieste di autorizzazione
Decisivo il Pd, in aula sarà scrutinio segreto
di Eduardo Di Blasi


I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Il primo comma dell’articolo 68 della Costituzione, quello sulla “insindacabilità” dei parlamentari, è la prima grana giudiziario-parlamentare di Silvio Berlusconi nella XVII legislatura, e anche la prima del Pd, che si vedrà costretto a scegliere tra l’alleato di governo e le convinzioni espresse (e anche votate) fino a pochi mesi fa.
Mercoledì, infatti, la Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio sarà chiamata all’esame di ben quattro provvedimenti di insindacabilità dell’ex deputato, oggi senatore. Relatore d’eccezione il neopresidente della Giunta, Ignazio La Russa, autonominatosi all’esposizione in quanto i provvedimenti sono già stati esaminati dalla precedente giunta (a maggioranza centrodestra) e quindi necessitano solo di una rinfrescata (oltre che del voto della mutata maggioranza di Montecitorio). Sull’insindacabilità, sia detto, è pressoché impossibile rinvenire casi di “condanna” da parte del Parlamento di propri membri. Da quando fu fatta la legge attuativa, nel 2003 (ci vollero dieci anni per riformulare il testo eliminato con la cancellazione sotto tangentopoli della vecchia “autorizzazione a procedere”), Umberto Bossi fu salvato dalle offese a una giudice di Cantù che lo aveva processato, Paolo Guzzanti potè scrivere serenamente che Gino Strada “ traveste generosamente la sua attività politica facendo il medico con i soldi raccolti dalla sua Ong”, e un presidente del Senato come Marcello Pera passò indenne da un articolo a sua firma, scritto sul Messaggero, che sotto il titolo “I pm? Mostri a tre teste”, accusava i pm palermitani (mai citati) Gian Carlo Caselli, Vittorio Teresi e Antonio Ingroia di “processare, condannare o far rimuovere dal ministro compiacente” le forze dell’ordine che non si comportavano “come volevano i pm” (il riferimento era ai casi di Bruno Contrada e Mario Mori).
IN TUTTI I CASI fu poi la Consulta (successe anche per Gasparri, Iannuzzi e vari altri) a pronunciarsi in un giudizio successivo contro l’immunità votata dal Parlamento e quei procedimenti poterono proseguire nelle sedi proprie.
Nel caso di Silvio Berlusconi, mercoledì la Giunta dovrà esaminare quattro richieste di insindacabilità, alcune anche già votate ma destinate a ricominciare daccapo.
La prima nasce a seguito di una denuncia del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, pm del processo Media-set, che si sentì diffamato quando l’ex premier, in conferenza stampa, accusò la procura di un “ennesimo gravissimo episodio di incontestabile uso politico della giustizia”. A suo dire non era stata fatta una rogatoria alle Bahamas per verificare l’effettivo pagamento di David Mills. Il procuratore di Milano annotò che quelle richieste di rogatoria erano partite per ben tre volte, e per ben tre volte si erano arenate al ministero della Giustizia “dall’inerzia di un ministro del governo Berlusconi” (annotò nella passate legislatura il relatore di minoranza Federico Palomba dell’Idv). Robledo ha perciò chiesto un risarcimento da mezzo milione. Nel luglio del 2012, quando la giunta votò sul tema per la prima volta, Berlusconi fu salvato: nove voti contro dieci. In suo favore votarono Pdl e Lega. Contro Pd e Idv, con l’astensione di Udc, Fli e Radicali.
SITUAZIONE SIMILE si verificò sull’altra pratica, quella intentata da Renato Soru. L’ex presidente della Sardegna querelò Berlusconi per una dichiarazione fatta nel 2009 durante la campagna elettorale per Cappellacci governatore. Disse che Soru aveva intascato 30 milioni da un affare pubblicitario tra la Regione e la Saatchi and Saatchi (negli anni successivi Soru sarà assolto da questa accusa). Anche qui la giunta salvò Berlusconi con la maggioranza Pdl-Lega.
Resta quindi difficile oggi immaginare quale possa essere il comportamento del Pd “di governo” davanti a questi appuntamenti in giunta. In teoria dovrebbe votare come nei mesi passati. Anche perché sui tempi con cui i provvedimenti arriveranno all’aula si innesterà un altro balletto. L’aula infatti, a stragrande maggioranza Pd-Sel, rischia di diventare difficilmente gestibile se, come in questi casi prevede il regolamento della Camera, il voto sarà segreto.

l’Unità 19.5.13
Borsellino. Il giallo dell’agenda rossa
Un video mostra il diario accanto al corpo
Il procuratore Lari: «Immagini sconvolgenti. Nessuno ci ha mai segnalato quel video»
E’ emerso ventuno anni dopo dagli archivi della Procura di Palermo
di Massimo Solani

Da una nebbia spessa ventuno anni emergono filmati e fermimmagine che potrebbero riscrivere la storia dell’agenda rossa di Paolo Borsellino e con essa delle complicità e dei depistaggi sulla strage di via d’Amelio in cui persero la vita il magistrato e i cinque uomini della sua scorta. Fra le ore di filmati che i magistrati della Direzione distrettuale di Caltanissetta hanno acquisito nel tentativo di dare un nome alle tante troppe, persone che si aggiravano nell’inferno di via D’Amelio dopo l’esplosione, infatti, ce n’è uno che ribalta clamorosamente gli scenari ricostruiti sin qua: in alcune immagini girate infatti dai vigili del fuoco, e già acquisite venti anni fa dalla procura di Caltanissetta, l’agenda rossa rispunta dal buco nero in cui sembra precipitata il pomeriggio di quel 19 luglio. In un frame isolato dai magistrati, e anticipato ieri da Repubblica, si vede infatti chiaramente una agenda, identica a quella su cui Paolo Borsellino annotava le informazioni più delicate e da cui non si separava mai. È lì dove era naturale che fosse: accanto al corpo martotizzato del magistrato e non dentro la borsa che, rimasta nell’auto blindata, è passata di mano in mano in quei minuti convulsi. Difficile, o forse impossibile, che si tratti di una agenda simile anche se certo pare strano che la violenza dell’esplosione, almeno a quanto si vede dalle immagini, non l’abbia distrutta come invece ha fatto con il cadavere orribilmente sfigurato di Paolo Borsellino. Che quindi, se l’ipotesi della Dda di Caltanissetta fosse confermata, avrebbe fatto quello che più volte la vedova Agnese Piraino Leto ha raccontato: ossia l’avrebbe portata senza lasciarla in macchina nella sua borsa di pelle.
Ma c’è di più nelle immagini girate dai vigili del fuoco: si vede infatti distantamente un uomo, mocassini neri, pantaloni beige e un borsello nero in mano, che si avvicina all’agenda e con un piede scosta un cartone che la copriva parzialmente. Passano pochi secondi e quell’uomo ricompare nell’inquadratura e, per una seconda volta, si avvicina all’agenda spostando di nuovo con il piede quel pezzo di cartone. Solo un caso, o quell’uomo (a cui gli investigatori stanno cercando di dare un nome) stava cercando proprio l’agenda? Il sospetto, confermato da alcune persone vicine al magistrato e in primis dalla vedova recentemente scomparsa, è che Paolo Borsellino avesse infatti scoperto l’esistenza della trattativa fra stato e mafia e che per quesrto sia stato eliminato in tutta fretta (erano passati soltanto 57 giorni dalla strage di Capaci in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone assieme alla moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta) per impedire che si opponesse al canale di comunicazione fra i boss e parti dello stato. E di una persona senza nome sul luogo della strage di via D’Amelio aveva parlatoa i magistrati anche l’ispettore di polizia Giuseppe Garofalo: «Ricordo di avere notato una persona in abiti civili alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell'auto blindata aveva raccontato lui mi ha risposto di appartenere ai “servizi”. Posso dire che era vestito in maniera elegante, con una giacca di cui non ricordo i colori».
Il «nuovo» filmato, però, suscita ancora domande: possibile che nessuno si sia accorto dell’agenda e di quell’uomo nonostante fosse stato acquisito già venti anni fa? «Se fosse vero sarebbe pazzesco», commentava ieri il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, «al 99% fu visionato dalla Scientifica, c’è da chiedersi per quale motivo non si stato segnalato come rilevante». «O gli investigatori che con probabilità altissime l'hanno visionato continua Lari hanno escluso che potesse essere l'agenda di Borsellino, ritenendo che non si sarebbe mantenuta integra vista la temperatura provocata dall'esplosione, oppure è sfuggito all’osservazione». E ancora: «Borsellino aveva qualcosa sotto l’ascella è la conclusione del procuratore di Caltanissetta ma dal corpo sono saltati via gli arti: questo è compatibile col ritrovamento dell’agenda integra come si vede dalla foto?».
Quel che è certo è che, fino ad oggi, si pensava che quell’agenda fosse rimasta dentro la borsa che Paolo Borsellino aveva lasciato sul sedile posteriore dell’autoblindata che lo aveva accompagnato in via D’Amelio per far visita alla madre. Anche per questo, per la sua sparizione, era finito sotto inchiesta l’ufficiale dei carabinieri Giovanni Arcangioli, poi definitivamente prosciolto. Era lui l’uomo, immortalato da una foto e da un filmato girato da un operatore Rai, che teneva in mano la borsa di pelle di Borsellino. «Ma dentro si era difeso Arcangioli non c’era nessuna agenda». Una versione che sarebbe oggi confermata dalle immagini del filmato girato dai vigili del fuoco. Bisogna ricominciare daccapo, allora, e dare un volto a quell’uomo che si avvicina all’agenda. «Sono uno che tiene sempre ad accertare la verità, a cercare verità e giustizia ha commentato ieri il presidente del Senato ed ex procuratore nazionale anitmafia Pietro Grasso Quindi, qualsiasi passo in avanti si può fare per me è un fatto positivo comunque».

il Fatto 19.5.13
È l’Agenda Rossa o un altro depistaggio su via D’Amelio?
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


E ora, dopo un depistaggio durato vent’anni, salta fuori un fotogramma, estrapolato da un video girato dai Vigili del Fuoco subito dopo l’esplosione in via D’Amelio, dove si vede un quaderno rosso che il quotidiano Repubblica nell’edizione di ieri non esita a indicare come “l’agenda rossa di Paolo Borsellino”. L’immagine, lanciata in prima pagina come uno scoop, suscita un immediato clamore mediatico e per qualche ora le agenzie e i siti web ci cascano. Ma nel pomeriggio la Procura di Caltanissetta frena gli entusiasmi con una clamorosa smentita: “Vi sono molte ragioni – dice il procuratore Sergio Lari – per prendere quantomeno con il beneficio di inventario la notizia fornita da Repubblica”. Ancora più esplicito l’aggiunto Nico Gozzo, pm nel processo Borsellino-quater in corso a Caltanissetta: “L’ipotesi che l’agenda del giudice potesse trovarsi sul selciato di via D’Amelio non è stata mai presa in considerazione a livello processuale”.
Si apprende quindi che già nel 2007 una consulenza della Polizia scientifica di Roma aveva verificato che nulla di riconducibile al diario di Borsellino fosse presente tra i reperti catalogati sul luogo della strage. “Ciò non toglie – aggiunge Lari – che verificheremo anche questa segnalazione, per scongiurare che il mistero della scomparsa dell’agenda rossa si infittisca, a discapito della verità, sotto-posta proprio in questi giorni a verifica dibattimentale’’.
Ma il fotogramma non è credibile: e non lo è almeno per tre ragioni, che Lari elenca minuziosamente. La prima: “L’oggetto somigliante a una agenda, ma in realtà di minore spessore rispetto all’agenda rossa di Borsellino, raffigurato nel fotogramma, non si trova – come si afferma nell’articolo – accanto al corpo di quest’ultimo, bensì accanto alla salma dell’agente Emanuela Loi”. La seconda: “Il corpo di quest’ultima si trovava accanto a un’auto Citroën Bx, parcheggiata in via D’Amelio, a circa 20 metri distanza dal luogo in cui è stato rinvenuto il corpo di Borsellino”. La terza: “Ammesso e non concesso che l’oggetto raffigurato nel fotogramma possa essere l’agenda di Borsellino, è quasi impossibile fornire una spiegazione logicamente attendibile su come possa essere arrivata in quel luogo”.
Nessuna soluzione, insomma, al mistero dell’agenda rossa, sparita dalla borsa di Paolo Borsellino nei minuti successivi all’esplosione, in una girandola di movimenti sospetti su cui la procura nissena ha indagato a lungo con un’inchiesta conclusa nel 2009 con il proscioglimento del capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli dall’accusa di furto aggravato. Nessuno scoop, insomma, ma piuttosto un’immagine suggestiva, immessa nel circuito informativo “con una tempistica impressionante”, come sottolinea l’avvocato Fabio Repici, parte civile per Salvatore Borsellino: “Ovvero nel momento in cui molti testimoni sono chiamati nel processo in corso a Caltanissetta, per rispondere sulle manovre attorno all’agenda: come se si volessero azzerare tutti i dubbi sulla borsa”.
Eppure il falso ritrovamento dell’agenda rossa, con tanto di foto sparata in prima pagina, ha rischiato di trascinare in un festival dell’assurdo un pezzo dell’Antimafia istituzionale: dal presidente del Senato Piero Grasso che alla vista del quaderno rosso tra le lamiere fumanti di via D’Amelio, aveva dichiarato possibilista: “Ogni passo verso la verità è da considerarsi positivo”, al Pd Luciano Violante, che aveva subito invitato gli inquirenti “a fare tutte le verifiche, perché può darsi che una ricerca più accurata sul filmato e sull’archivio faccia venire fuori altri elementi”.
Non c’è cascato però Antonio Ingroia, oggi pm ad Aosta, che subito si è posto una domanda: “Siamo in presenza di un ennesimo tentativo di depistaggio, o di copertura di un elemento che andava approfondito immediatamente? ”. E non c’è cascato neppure Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso, che dal primo momento ha mostrato molte perplessità sul fotogramma estratto dal video dei pompieri. “Non credo – ha detto ancor prima della smentita di Lari – che quel quaderno possa essere l’agenda di Paolo e invito tutti alla cautela”. Per poi concludere: “Mi chiedo perché questa immagine venga fuori proprio ora: potrebbe essere un tentativo di allontanare l’attenzione dalle indagini sulla borsa. La storia dei depistaggi su via D’Amelio ci dice che il rischio di inquinamento è sempre molto alto”.

Repubblica 19.5.13
Così gli uomini del grande depistaggio
di Attilio Bolzoni


NON l’ha segnalato a chi di dovere, l’ha omesso, ha taciuto. E depistato.
Se questa è l’agenda rossa di Paolo Borsellino a mistero si aggiunge mistero, un altro: chi l’ha raccolta da terra, chi l’ha rimossa da quel parasole per auto dove era celata poco prima che un piede la spostasse, chi l’ha presa? Chi l’ha rubata?
La macchia rossa — quella che sembra proprio un’agenda — compare per la prima volta al minuto 5.37 secondi in un video di 2 ore 28 minuti e 19 secondi girato dai vigili del fuoco di Palermo nei momenti successivi all’esplosione (ma non sappiamo quando esattamente hanno cominciato a riprendere e quando esattamente hanno finito), filmato che da 21 anni — avete capito bene, ventuno anni — è agli atti dell’inchiesta e poi del processo per l’uccisione del procuratore aggiunto della repubblica di Palermo Paolo Borsellino. Da quasi un quarto di secolo quella macchia rossa è lì, ben in vista, riconoscibile anche o occhio nudo quanto meno come un oggetto che potrebbe tanto somigliare a quel diario che il magistrato portava sempre con sé e dove annotava tutti i suoi pensieri dal giorno della morte del suo amico Giovanni Falcone.
È lì, fra la cenere e un cadavere (quello della povera Emanuela Loi) sotto il parafango di un’auto, una Renault, un’utilitaria e non una delle blindate dei poliziotti di scorta al magistrato. Qualcuno, ventuno anni fa, aveva mai segnalato quella macchia rossa ai pubblici ministeri che stavano indagando sulla strage? Qualcuno, ventuno anni fa, aveva mai avuto il dubbio che quella macchia rossa avrebbe potuto essere l’agenda del procuratore assassinato? Qualcuno, ventuno anni fa, aveva menzionato in una relazione di servizio — in un verbale di sopralluogo, in una lettera di trasmissione del
video girato dai vigili del fuoco — quelle immagini della macchia rossa? Dallo «sconcerto» manifestato dai magistrati di Caltanissetta la risposta sembra ovvia: no, nessuno quanto pare si preoccupò di comunicare ai titolari dell’inchiesta cosa si vedeva al minuto 5.37 di quel lunghissimo filmato del dopo strage. Perché? In qualche modo, l’abbiamo già detto. O grande è stata l’imperizia degli investigatori delegati alla visione del filmato o — e certo i precedenti in questa direzione non mancano — qualcuno ha fatto finta di non vedere.
Se così stanno le cose, come possiamo ogni volta mostrare meraviglia che si sia scoperto poco e niente sui massacri di Capaci, di via D’Amelio e sui tanti, troppi delitti eccellenti siciliani? Se così stanno le cose, i procuratori di Caltanissetta che negli ultimi anni hanno indagato con intelligenza sulle indagini taroccate e deviate nel 1992 (fino ad arrivare a chiedere la revisione del processo Borsellino per sette imputati) dovranno ricominciare la loro inchiesta fin dai particolari più insignificanti. E da quelle più significanti. Come per esempio questo video dei vigili del fuoco dove in meno di sessanta secondi — dal minuto 5,37 al minuto 5,55 — si nota di spalle un uomo in maglietta azzurra, pantaloni chiari e mocassini neri davanti a quella macchia rossa.
Le indagini tecniche annunciate dal procuratore capo della repubblica Sergio Lari accerteranno fra qualche giorno se la macchia ripresa dai vigili del fuoco sia davvero la famosa agenda di Paolo Borsellino, però bisogna precisare che intanto la caccia ai «ladri» di quel diario non si è fermata mai. Neanche in queste ultime ore, soprattutto in queste ultime ore dove sembra che si sia accelerata la ricerca a personaggi sospetti — uomini dei servizi segreti, secondo i pubblici ministeri — sospettati di avere trafugato l’agenda il pomeriggio del 19 luglio 1992. L’affaire, come vediamo, è apertissimo. Di sicuro, le investigazioni si stanno concentrando sulle manovre degli apparati di sicurezza di stanza in Sicilia ventuno anni fa. E che non riguardano solo la sparizione dell’agenda. È praticamente tutta l’indagine sull’uccisione del procuratore, fin dall’inizio, che scava negli ambienti dell’intelligence. È già il primo depistaggio alle indagini, il più grande, che viene da quel mondo. Con quell’imbeccata che un (ancora) anonimo 007 offrì alla squadra mobile di Palermo annunciando «svolte clamorose» sulla strage di via Mariano D’Amelio. Come? Tirando fuori per la prima volta il nome di Vincenzo Scarantino, uno sbandato di borgata fatto passare per un grande testimone di mafia. Così è entrato in scena il falso pentito della Guadagna, quello che — poi manovrato da poliziotti — si è autoaccusato di un attentato che non aveva mai fatto trascinando nel gorgo delle indagini personaggi estranei al massacro. Lo Scarantino ha confermato, ha smentito, ha riconfermato e ha rismentito la sua versione anno dopo anno. Sotto la regia di qualcuno in divisa che l’ha pilotato per allontanare i magistrati dalla verità. Un pupo Vincenzo Scarantino. In mano a pupari. Gli stessi che probabilmente qualche giorno prima avevano fatto sparire l’agenda rossa.

Repubblica 19.5.13
L’intervista
“Sì, questa può essere la svolta in quelle pagine scomparse mio padre custodiva i suoi segreti”
Il figlio Manfredi: cercate le persone che appaiono nel video
di Alessandra Ziniti


PALERMO — «Che mio padre anche quel giorno avesse l’agenda rossa con sé e che sia stata trafugata da qualcuno in via d’Amelio nell’immediatezza della strage e non altrove noi non abbiamo mai avuto alcun dubbio. E certo ora questo filmato potrebbe essere un elemento importantissimo. Se solo gli inquirenti di allora avessero lavorato come stanno facendo quelli della Procura guidata da Sergio Lari...».
È emozionato e turbato Manfredi Borsellino alle otto e mezza del mattino quando sulla prima pagina di Repubblica vede per la prima volta quel fotogramma che immortala la presenza di un’agenda rossa tra le macerie fumanti della strage in via d’Amelio. Parla a nome suo ma anche delle sue sorelle Lucia e Fiammetta. I loro telefoni non smettono un attimo di suonare. Tutti, magistrati, investigatori, giornalisti, amici, vogliono sapere da loro se quella è l’agenda di Paolo Borsellino che tutti cercano invano da vent’anni.
Manfredi, voi figli siete in grado di riconoscere quell’agenda?
«Così, da un fotogramma un po’ sgranato pubblicato sul giornale non siamo in grado di dire che quella è proprio l’agenda di mio padre. Ma certamente non lo escludiamo. È indubbio che questo è un elemento importantissimo nelle indagini. Ho parlato con il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e, anche a nome delle mie sorelle, gli ho ribadito tutta la piena e incondizionata fiducia che abbiamo nel lavoro dei magistrati dell’attuale Procura di Caltanissetta. Siamo certi che, come hanno dimostrato negli ultimi tempi, non tralasceranno alcun elemento utile all’individuazione di chi, in via d’Amelio (e questo ormai è un dato acquisito processualmente) ha fatto sparire l’agenda di mio padre».
Il procuratore Lari ha detto che è assurdo che questo filmato, agli atti del processo e certamente visionato dalla Scientifica, non sia stato segnalato come rilevante. Voi cosa dite?
«Ribadisco. Che abbiamo piena fiducia in questa Procura. Se vent’anni fa avessero lavorato allo stesso modo forse non staremmo qui a parlare di depistaggi».
Ma quell’agenda di suo padre com’era? Aveva dei particolari segnali distintivi, voi sareste in grado di riconoscerla?
«Se la vedessimo da vicino, nitidamente, sì. Era un’agenda rossa, di pelle, di un certo spessore, che aveva sulla copertina in basso a destra inciso un piccolo logo dell’Arma dei carabinieri, nulla sul retro. Era un’agenda semplice».
È possibile che l’agenda di suo padre sia finita intatta sotto la macchina? Che non fosse dentro quella borsa rimasta in macchina e poi passata di mano in mano?
«Assolutamente sì, come abbiamo detto tante volte, mio padre non teneva in modo particolare alla sua borsa da lavoro, ma all’agenda, quella rossa, sì. E spesso la portava in mano, fuori dalla borsa. Quella domenica 19 luglio, certamente nella borsa mio padre aveva un’altra agenda, di cuoio marrone, quella è stata ritrovata, c’erano dentro appunti, ma niente di rilevante e quella ci è stata restituita. Ma quella rossa, dove lui teneva i suoi appunti riservati, no. Niente di strano, dunque, che anche nel momento dell’esplosione potesse averla in mano o che l’avesse lasciata per qualche minuto sul cruscotto. Perché in realtà quella domenica 19 luglio mio padre era sceso dalla macchina solo per citofonare a mia nonna, non per salire su da lei. Quindi non pensava di dover restare fuori dall’auto più di qualche minuto. C’era stato un improvviso cambio di programma quella domenica».
E cioè?
«Il cardiologo che avrebbe dovuto visitare mia nonna, il professore Piero Di Pasquale, la notte precedente aveva subito l’incendio del suo camper e quindi non poteva allontanarsi da casa e allora mio padre decise di andare a prendere mia nonna e di portarla lui a casa del cardiologo».
Nel video girato dai vigili del fuoco si vede quest’agenda ma si vede anche un uomo che, per due volte, con il piede sposta un cartone che la copre parzialmente. Anche questo è un elemento che conferma i vostri sospetti.
«Ora parlo anche da poliziotto. È chiaro che ogni elemento, ogni piccola tessera del mosaico può risultare decisiva. Forse, nella fattispecie, il gesto compiuto da questa persona può essere la cosa più importante e magari la comparazione di questi fotogrammi con altri o con gli altri video in possesso dei magistrati può portare altrove».
Un passo avanti verso quella ricerca della verità che vostra madre, da poco scomparsa, non si è stancata di chiedere fino all’ultimo.
«Ce lo auguriamo. La richiesta di mia madre è quella di noi figli».

il Fatto 19.5.13
Il Supertestimone Marco Fassoni Accetti
“Io, la Orlandi e la guerra contro Wojtyla”
di Rita Di Giovacchino


Laboratorio artistico, scale che scendono e salgono, musicisti che suonano, attori che recitano. Alle pareti pannelli teatrali firmati da Marco Fassoni Accetti, fotografo, sceneggiatore, luci e ombre nelle sue foto e nel suo passato.
Ma anche ultimo testimone nell’infinita saga di Emanuela Orlandi. Il luogo dell’incontro si addice al dialogo su misteri vaticani, lotte curiali, l'ombra incombente di Paul Casimir Marcinkus, vero dominus della Gendarmeria e dello Ior.
La Madonna di Fatima e l’attentato di piazza San Pietro. Sullo sfondo omicidi e strane sparizioni, dentro e fuori le Mura Leonine, da far invidia a un romanzo di Dan Brown.
La trama è nota: il 22 giugno 1983 Emanuela, 15 anni, cittadina vaticana, scompare appena uscita dalla Chiesa di San-t’Apollinare dove studia flauto traverso. Telefona alla sorella e le racconta di una proposta ben retribuita: 375 mila lire, per pubblicizzare i prodotti Avon a una sfilata delle Sorelle Fontana, a piazza di Spagna, e prima alla Sala Borromini. Poi la ragazza scompare, i primi a telefonare sono tali Mario e Pierluigi. La storia di Emanuela si congiunge a quella di Mirella Gregori, anche lei sparita il 7 maggio nei pressi di Porta Pia. I sospetti si concentrano su R. B., un vicino di casa che si scoprirà agente vaticano, addetto alla sicurezza del Papa. Nel 2009 la svolta: Sabrina Minardi, ex moglie del bomber della Lazio Bruno Giordano e sventurata amante di Enrico De Pedis, il boss della Banda della Magliana, afferma che a rapirla e a ordinarne l’uccisione era stato lui per conto di Marcinkus. Ma nel frattempo il boss è stato ammazzato e per qualche misterioso motivo sepolto nei sotterranei di Sant'Apollinare. Caso risolto? No, due mesi prima dello scadere dei 30 anni, in procura si presenta Marco Fassoni Accetti con un flauto rivestito di raso rosso, quello di Emanuela dice. Nel suo passato c'è la morte di di José Garramon, dodicenne figlio di un diplomatico uruguayano, investito e ucciso alla Pineta di Ostia. L’uomo si autoaccusa, sostiene di essere stato uno dei telefonisti, parla di un gruppo di “controspionaggio” tra fazioni in lotta nel Vaticano.
Chi è Marco Fassoni Accetti? Perché ha deciso di parlare soltanto adesso?
Sono stato in carcere 2 anni e bollato da accuse infamanti. Fu un incidente stradale, l’auto procedeva a 70 km orari, l'ipotesi dell’inseguimento ventilato da una trasmissione televisiva è insensata. Non so perché il ragazzino si trovasse lì, so perché mi ci trovavo io. Voglio parlare del capitolo Pineta, è la chiave di tutto. Noi cercavamo di dare una mano a un piccolo gruppo di prelati che cercava di opporsi alle iniziative di Wojtyla. Lì vicino c'era la casa del giudice Santiapichi, doveva diventare presidente del processo d’appello ad Antonov, ma questo avrebbe consolidato le calunnie di Agca ai Bulgari, noi invece volevamo che il Turco ritrattasse per salvare gli equilibri politici tra est e ovest. Il nostro obiettivo era Arianna, la figlia del magistrato.
É vero che ha fotografato De Pedis mentre prelevava Emanuela?
Non parliamo di Vaticano, facevo controspionaggio per conto di un piccolo nucleo di preti e monsignori, l’ala progressista che cercava di ostacolare la politica dello Ior. Ero legato a monsignor Pierluigi Celata, direttore dell’istituto San Giuseppe, che si trova a piazza di Spagna, che frequentavo. Era il mio direttore spirituale. La scuola è vicina all’ingresso delle Sorelle Fontana. Quando si scrive Sorelle Fontana, si deve leggere Celata, quando si parla di Sala Borromini, si indica Francesco Pazienza che abitava alle spalle della Chiesa nuova dove incontrava i suoi amici della Magliana. I codici sono importanti nelle operazioni camuffate. Tra l'Istituto San Giuseppe e le Sorelle Fontana c'era il tabernacolo dove il 5 ottobre è stato deposto un messaggio accompagnato da due proiettili calibro 357 magnum. Se aggiunge due volte 1 vien fuori la data dell'apparizione della Madonna di Fati-ma 13 maggio 1915, lo stesso gioco va fatto con la cifra indicata a Emanuela: 375 mila lire. Un messaggio all'éntourage polacco. Perchè uno come De Pedis si mette in bella vista davanti al Senato, parcheggia di traverso una Bmw? Ecco, vedete, sono io, la Banda della Magliana, vogliamo i nostri soldi. C'era ben altro. Come si chiamava Celata? Pierluigi. Che Celata facesse pressioni su Pazienza perché agisse su Marcinkus non sono stato io a raccontarlo ma lui, molti anni dopo, nel suo libro Il disubbediente. Per essere un pedofilo mitomane non è che sapevo in anticipo un po' troppe cose? Mettono la foto di Benigni, mi definiscono il “sosia”. Ah, ah, questo è l'uomo che sa tutto! Sono stato io a inventare il gioco.
Qualcuno avrebbe prelevato il piccolo José Garramon per buttarlo sotto la sua auto. Perché?
Il giorno dopo ad Antonov sono stati concessi gli arresti domiciliari e Acga ha cominciato a ritrattare le accuse. Mettiamo in fila le date: il 20 dicembre 1983 vengo arrestato, il 21 Antonov esce, il 27 Wojtyla incontra ali Acga in carcere. Prima che tutto ciò accadesse il Turco ricevette un messaggio in cui si parlava del sequestro del figlio di un diplomatico. Ma quello che mi colpì è il messaggio indirizzato a Pierluigi e Mario: “Finirete a far concime nella pineta”. Chi lo sapeva della pineta? Lo sa che De Pedis in quel periodo abitava all'Eur (via Vittorini ndr), a cento metri dalla casa dei Garramon?

Corriere 19.5.13
I meriti di «la Storia siamo Noi» rimanga nostra anche dopo Minoli
di Paolo Conti


«La Storia siamo noi» rappresenta uno dei migliori prodotti della Rai. È una delle rare proposte di viale Mazzini che testimoniano la sua identità di servizio pubblico e giustificano il pagamento del canone: racconto delle nostre radici, linguaggio accessibile, documentazione storica di prim'ordine, nessun cedimento a una facile spettacolarità, capacità di rivolgersi al grande pubblico e agli studenti. Se le nuove generazioni sanno qualcosa sul fascismo, sulla vicenda che ha condotto alla complessa Repubblica in cui viviamo, lo si deve anche all'indirizzo editoriale di indubbia qualità che ha guidato la trasmissione.
Di questa isola felice si è tornato a parlare in questi giorni. Giovanni Minoli, da anni ideatore, motore e volto di quel complesso meccanismo, ha concluso il suo contratto di collaborazione che ha seguito il suo pensionamento. Da giugno «La Storia siamo noi» non appare più in palinsesto. Fonti Rai assicurano che riprenderà a settembre (Minoli dice che non sarà così). Il direttore generale Luigi Gubitosi sostiene che bisogna distinguere tra i volti e i prodotti. Ovvero che il format, di proprietà della Rai, «venne ideato da Renato Parascandolo e poi gestito da Minoli che ha fatto molto bene, ora tutto passa a Silvia Calandrelli nella quale abbiamo molta fiducia». Nove deputati di diversi partiti hanno indirizzato un'interrogazione parlamentare per capire cosa accadrà.
Una volta tanto la politica è in sintonia con i cittadini, che in larga parte coincidono con gli abbonati Rai. Sarebbe incomprensibile e grave se, dopo l'uscita di Minoli, «La Storia siamo noi» subisse anche un piccolo ridimensionamento. Si parla di un gran progetto sulla Prima guerra mondiale. Ma sarebbe interessante capire cosa riserva il dopo Minoli. Non è questione di personalismi. Ma è un fatto che «quel» marchio è legato ora a «quel» volto. Tocca alla Rai dimostrare, annunciando progetti sicuri, che il gran lavoro svolto fino ad oggi non verrà disperso. Semmai arricchito e accresciuto.

l’Unità 19.5.13
Getta i figli dal terzo piano «L’ho fatto per il loro bene»
La tragedia a Busto Arsizio. La madre, 41 anni, ha detto di «non sentirsi adeguata»
Per i piccoli, 4 e 7 anni, un volo di otto metri e varie fratture
La depressione probabile causa. Le condizioni dei bambini sono critiche ma stazionari
di Saverio Franco


BUSTO ARSIZIO (VA) Si sentiva inadeguata come madre. «Non ce la facevo» avrebbe confessato. Silvia Brusciani, una mamma di 41 anni, persona con problemi psichici e reduce da quasi un mese di ricovero per curarli, ha gettato dal balcone del terzo piano del palazzo di Busto Arsizio in cui abita i suoi due figli, un bambino di 7 e una bambina di 4 anni.
Non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti nel suo ruolo di genitore. «Ero terrorizzata per il loro futuro, l’ho fatto per il loro bene, spero che muoiano»: questo, secondo quanto si è appreso da ambienti investigativi, è ciò che la donna ha spiegato al pm Mirko Monti che l’ha interrogata e ne ha confermato l’arresto per duplice tentato omicidio con l’aggravante di aver agito sui discendenti.
La donna adesso è ai domiciliari nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Busto ed è guardata a vista perché si teme che possa pensare di fare del male anche a se stessa. I due bambini la più piccola con fratture al torace, il più grande con un trauma cranico sono ricoverati in prognosi riservata ma non sono considerati in pericolo di vita.
GESTO PREMEDITATO?
Il gesto della donna sarebbe stato maturato nel tempo ma la circostanza in cui l’ha messo in atto potrebbe essere stata casuale. È accaduto in viale Rodari, appena fuori dal centro di Busto Arsizio, seconda città del Varesotto, poco dopo mezzogiorno. Mamma e figli erano dalla nonna materna, nell’appartamento accanto, comunicante proprio attraverso il balcone. La dinamica ricostruita dalla Polizia racconta che i quattro stavano nel salotto, mentre il padre era andato a fare la spesa. Poi la nonna si è spostata in cucina, per preparare il pranzo, e quando è ritornata ha trovato solo la figlia. «E i bambini dove sono?» ha domandato. Pare che la donna abbia spiegato che cosa aveva fatto con freddezza: nel frattempo, i due bambini erano caduti sul terrazzino del primo piano. Otto metri più sotto.
Secondo quanto ricostruito la prima a volare giù sarebbe stata la più piccola, la bambina. La quale, in base alle prime testimonianze raccolte dagli inquirenti, avrebbe cercato in tutti di modi di tenersi a sua madre per non cadere nel vuoto. Il fratello l’ha seguita dopo pochi secondi. La mamma, con lucida determinazione, lo avrebbe afferrato per le mani e lanciato nel piano di sotto.
Chi ha prestato i primi soccorsi aveva dapprima pensato a un incidente domestico. Un condomino del pian terreno ha sentito un tonfo sul terrazzino, ha visto il corpo della bambina, ha chiamato in aiuto un altro condomino che si trovava in giardino. E hanno chiamato il 118: oltre all’ambulanza è però dovuta poi intervenire anche la polizia.
La madre una volta arrivata in commissariato non ha negato quando aveva fatto. Ha chiesto di essere aiutata ma ha spiegato che l’aveva fatto per il bene dei suoi figli, ha detto che il ruolo che doveva ricoprire era troppo grande per lei, che non ce la poteva fare e che non ce l’avrebbe mai fatta.
AI DOMICILIARI
Adesso starà ai domiciliari nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Busto Arsizio. «Un gesto così è difficile da spiegare», ripetevano i vicini che, insieme a tanti curiosi, si sono soffermati a chiedere informazioni in viale Rodari. Certo, sembra che delle difficoltà della donna si parlasse già, si sapeva del resto del suo lungo ricovero terminato l’11 maggio nello stesso ospedale in cui adesso è tornata. Ma tutti quelli che conoscevano la famiglia speravano che tutto potesse tornare nella normalità.

La Stampa 19.5.13
Mamma getta i figli dal balcone
di Fabio Poletti


Fortunatamente un tavolo di plastica da giardino, che si trovava sul terrazzo dei vicini sotto l’appartamento della famiglia, ha attutito la caduta dei due bambini dal terzo piano
Arrestata Silvia B. mentre viene accompagnata dalla polizia in una clinica psichiatrica

La donna era stata dimessa pochi giorni fa dalla struttura psichiatrica che la assiste
«Sì, li ho buttati dal balcone: l’ho fatto per il loro bene Ci pensavo oramai da molto tempo Spero non sopravvivano»"
«Ripeteva sempre che i suoi bimbi non avevano futuro Diceva che nessuno le voleva bene. Mi parlava e sembrava in trance»

Dal balcone ha gettato prima Gabriele, 7 anni, il suo figlio più grande. Con Francesca, 4 anni, è stato più difficile. La bambina piangeva, si aggrappava al vestito della madre e poi al vaso di gerani al terzo piano di questo condominio con le piastrelle di ceramica marrone. Silvia B., 42 anni, casalinga, moglie di un professionista e mamma due volte, una storia di ricoveri psichiatrici lunga così, ha dovuto fare solo un po’ di fatica in più. Poi, come se niente fosse, è rientrata nel bell’appartamento arredato con cura e ha raccontato tutto a sua madre, alla nonna dei bambini, con imperturbabile calma serafica. La stessa calma ostentata davanti al magistrato Mirko Monti che l’ha arrestata e al quale ha raccontato quello che aveva fatto come la cosa più normale del mondo: «L’ho fatto per il loro bene. Ci pensavo da tempo. Spero non sopravvivano».
E invece ce la faranno Gabriele e Francesca, intubati all’ospedale di Gallarate, gravi ma non in pericolo di vita, guardati a vista dal loro padre, Andrea R., che era a fare la spesa mentre sua moglie stava facendo quello che stava facendo. Gabriele, il più grande, ha una vertebra schiacciata ma non avrà conseguenze. Francesca, la bambina più piccola, solo traumi e contusioni. Il volo di almeno otto metri si è fermato su un tavolino di plastica, uno di quelli da terrazzo, che ha attutito il colpo. I vicini del primo piano che hanno soccorso i bambini e chiamato il 118 poi sono corsi su al terzo piano pensando a una disgrazia e non a una tragedia. La vicina non si dà pace quando racconta dell’incontro con la madre che voleva uccidere: «Ripeteva sempre che i suoi figli non avevano futuro. Diceva che nessuno le voleva bene. Le sue crisi si erano aggravate dopo la nascita di Francesca. Io ho cercato di chiederle perché avesse cercato di ammazzare i bambini. Ma lei non rispondeva, sembrava in trance».
La stessa calma ostentata davanti al magistrato. Le stesse parole che Silvia B. ripete come una litania inseguendo i fantasmi della sua mente: «Volevo farlo da tanto tempo. Ieri finalmente mi sono decisa e l’ho fatto. L’ho fatto soprattutto per il loro bene». Eppure se non nella sua testa, non c’era motivo per accanirsi sui figli. Quella di Silvia B. alla fine era una famiglia borghese di provincia come tante. Il condominio è elegante. Nel parcheggio in giardino ci sono auto di grossa cilindrata. A suo marito, ingegnere edile in una ditta di Gallarate, il lavoro non mancava. C’era tutto per stare bene, a parte quello che Silvia B. aveva in testa.
Si chiama sindrome post parto. Ne soffrono milioni di donne nel mondo. Basta una terapia, a volte nemmeno quella. La gioia di un figlio fa passare tutto. La nascita di Francesca, invece, a Silvia B. ha fatto crollare il mondo in testa. Le terapie sempre più forti non servivano a niente. I medici che la assistevano e cercavano di rincuorarla fallivano uno dietro l’altro. Poi sono arrivati i ricoveri nelle strutture psichiatriche. Più di contenimento che di cura vera e propria. L’ultima volta che era stata internata nel reparto di Psichiatria dell’ospedale di Busto Arsizio era lo scorso 19 aprile. Quasi tre settimane di cure intensive servite a niente. La cartella clinica con le dimissioni dell’11 maggio parla di un male di vivere insopportabile ma non solo di quello: «La paziente soffre di istinti lesionistici e autolesionistici». Silvia B. - è la traduzione letterale - poteva fare male a se stessa e agli altri. Che i suoi figli, la sua ossessione, fossero più di un obiettivo non era difficile capirlo. Ora sono i medici a chiedersi se forse il ricovero non doveva essere prolungato. Perché quello che è successo ieri all’ora di pranzo al terzo piano del bel condominio marrone era molto più che prevedibile. Silvia B. lo ha ripetuto ai vicini e poi anche al magistrato: «Ci pensavo da tempo... L’ho fatto solo per il loro bene».
Per il suo bene il magistrato ha disposto gli arresti domiciliari nella stessa struttura psichiatrica da dove era stata dimessa solo otto giorni fa. Un ricovero che questa volta sarà lunghissimo, almeno fino al processo che la vedrà imputata di tentato omicidio, se non arriverà prima una perizia psichiatrica a stabilire l’impunità per incapacità di intendere e volere.

Repubblica 19.5.13
“Stava male già quando era giovane ma è crollata con la nascita dei figli”
di Simone Bianchin


BUSTO ARSIZIO - Silvia Brusciani per i medici che l’hanno avuta in cura (da tempo, sia all’ospedale Passirana di Rho, sia al reparto di psichiatria di Busto Arsizio) soffre di «disturbo della personalità border line» e manifesta «forme di depressione e intenzioni auto ed etero lesioniste, voglia di suicidarsi e di far del male ai figli». Dall’anamnesi clinica emerge il profilo di una donna i cui disagi si sono acuiti dopo la nascita dei due figli, ma che non sta bene fin da quando era giovane. In stato di confusione e spossatezza anche davanti al magistrato Mirko Monti fa riferimenti «anche a episodi della sua infanzia», alla depressione della quale, ha raccontato, aveva sofferto il suo defunto padre, e che lei si è sentita rovesciata addosso. La signora «ha confermato quanto fatto ai bambini - spiega il dirigente del commissariato di Busto Arsizio, Franco Novati - senza mai tentare di nascondere nulla del suo disagio e dei suoi problemi».

La Stampa 19.5.13
Le prede troppo facili
di Elena Loewenthal


Che cosa ci vuole, per scaraventare un bambino dal davanzale di casa? Bisogna prenderlo su con un modesto slancio di braccia e poi racimolare un’inezia di forza fisica per spingerlo giù: più o meno, come lanciare un sacco di spazzatura dentro il cassone. Eppure, non basta. Ci vuole tanto altro. Una capacità di esercitare e imporre violenza che va al di là di ogni limite, di ogni frontiera fisica e mentale. Se poi a scaraventare un bambino o due come è capitato ieri a Busto Arsizio è una madre, se a puntare il fucile contro un figlioletto è un padre, ci vuole anche uno slancio che non è solo fisico ma porta in un altrove remoto, che dovrebbe essere irraggiungibile, perché va contro la nostra natura umana, animale. Anzi, va contro ogni legge di natura, buona o spietata che sia. E’ come uccidere se stessi e il mondo tutto insieme, e il presente e il futuro e anche il passato perché i figli sono tutto questo insieme.
Eppure in questi ultimi giorni è un incalzante susseguirsi di violenze, per lo più omicide, verso i figli. «Ero terrorizzata per il loro futuro. L’ho fatto per il loro bene, spero che muoiano», dichiara la madre quarantenne dei due fratellini di sei e tre anni, dopo averli fatti precipitare giù dal terzo piano. Noi e presumibilmente tutto il resto del mondo speriamo l’opposto, per quei bambini, e questa frase è come un raddoppio della violenza a cui li ha sottoposti. Ma abusare dei bambini, picchiarli e ucciderli è tremendamente facile anche se va contro ogni legge, che sia umana o di natura. Sono la preda più comoda, la vittima che ha scritta in faccia la propria inermità: la biologia ci insegna che i cuccioli hanno quei lineamenti arrotondati fatti apposta per ispirare tenerezza e attivare la cura protettiva. Di qualunque specie siano, i cuccioli chiamano amore, bisogno di accudimento. L’altra faccia della medaglia di questa fascinazione che la loro dolcezza attiva negli «esemplari» adulti è la crudeltà sconfinata. Facendo del male a un bambino sai con certezza che non sarai ricambiato. E che incontrerai una resistenza nulla o tutt’al più blanda, risibile.
In questo nostro presente che ha sempre più i tratti di postumi della civiltà che di civiltà vera e propria, la violenza sui bambini incalza.
Abbiamo fissato i canoni di una cura parentale e sociale fatta di protezione a volte parossistica, di sublimazione della «sicurezza» fisica, di enfasi sulla debolezza dei nostri figli. Una volta, ma mica tanto tempo fa, i ragazzini portavano i pantaloni corti anche d’inverno. Nessuno sapeva che cosa fossero le allergie alimentari. A scuola il maestro usava il righello non solo per spiegare il triangolo isoscele, ma anche come strumento punitivo. Nulla di che rimpiangere, per carità. Ma l’idea era che una certa esposizione alle asprezze della vita, se non al pericolo, fosse parte del modello educativo. Poi è arrivata l’era della protezione: i figli vanno coperti, salvaguardati, tenuti al riparo. Dal freddo, dalla maestra troppo severa, da qualche crampo di stomaco ogni tanto. Forse, li abbiamo resi più fragili di quanto non siano, i bambini. E così facendo, li abbiamo sciaguratamente esposti a quella violenza domestica nutrita in eguale misura di disperazione e follia, frustrazioni e accanimento, autodistruzione e puro sadismo. Perché quella violenza ha bisogno di una preda facile, inerme, fragile per definizione, incapace di reagire alla sete del male. Una preda che invece di restituire il colpo si guarda intorno incredula per capire da dove è arrivato. E non ha neanche senso giudicare, in casi come quelli, che in questi giorni affollanno le pagine della cronaca di sangue, perché questi genitori che uccidono i figli si sono già dati la loro infame condanna.

La Stampa 19.5.13
Bufera sul nuovo manuale per psicologi
“Criteri discutibili, pazienti moltiplicati”
La quinta edizione della “Bibbia della psichiatria” finisce nel mirino degli esperti: «L’abbassamento delle soglie per la diagnosi potrebbe far aumentare il consumo di farmaci»

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La Stampa 19.5.13
Cannes
Benicio Del Toro: “Io, pellerossa sul lettino dello psicanalista”
In “Jimmy P.” di Desplechin, storia vera di un reduce di guerra
di Fulvia Caprara

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Corriere Salute 19.5.13
Con il terremoto crolla anche il nostro sistema di riferimenti interni
di Danilo di Diodoro


Si chiama psicosi del contesto la distruzione dell'ambiente di riferimento nel quale viviamo causata da un'improvvisa catastrofe, come un terremoto o un grave incidente tecnologico.
Il termine psicosi sta a indicare proprio la gravità di tale disgregazione, paragonabile alla distruzione operata dalle più gravi forme di disturbi psichici, le psicosi, appunto.
L'ambiente nel quale viviamo è un sistema di informazioni e percezioni in base al quale organizziamo la vita. «Quando l'uomo impatta con un evento critico, questo sistema mentale strutturato viene fortemente minacciato — dice Domenico Nardiello, psicologo, professore a contratto alla Facoltà di medicina e chirurgia dell'Università Federico II di Napoli e coordinatore nazionale del Nucleo attività psicologiche del Corpo militare della Croce rossa italiana —. Così, il senso di sicurezza, posto tra i bisogni primari di ogni uomo, viene meno». E questo fenomeno è ben descritto da Nardiello con due colleghi, Giorgio Caviglia, Raffaele Felaco e con altri professionisti del settore, nel volume «Psicologi nelle emergenze» (Liguori editore, vedi in alto).
A fronte della perdita dei propri cari, o di beni importanti e anche simbolici, come la casa, — spiegano gli autori — le persone possono manifestare reazioni psicologiche, di cui si occupa, appunto, in un'ottica preventiva, la Psicologia delle emergenze, il cui compito è limitare i rischi di uno sviluppo di patologie psichiatriche, come il disturbo post-traumatico da stress.
In tutte le Regioni italiane esistono équipe psicosociali per le emergenze, nelle quali operano professionisti dei servizi sociosanitari, in collaborazione di altri enti, come associazioni di volontariato e ordini professionali. Queste équipe intervengono sul campo, in sinergia con i Posti medici avanzati, offrendo una prevenzione psicosociale secondaria.
I danni possono presentarsi nelle vittime della catastrofe, ma anche nei loro familiari o nei testimoni dell'evento. Una risposta particolare è quella dei bambini, che hanno una percezione incompleta del pericolo e dipendono nella loro reazione emotiva da quella degli adulti. «In seguito all'esposizione a un trauma i bambini possono presentare diverse tipologie di reazioni — dicono ancora gli autori del libro — come un aumento della dipendenza dagli adulti, incubi notturni, regressione rispetto alle tappe evolutive raggiunte, paure specifiche che riguardano oggetti legati al trauma, rappresentazione della calamità attraverso il gioco e ripetizione di comportamenti stereotipati. Sono inoltre frequenti i pensieri intrusivi che riguardano il trauma, un'ipervigilanza e la paura che l'episodio possa ripetersi». Nella maggior parte dei casi questi fenomeni sono transitori, non patologici, e servono ai bambini a elaborare quello che hanno vissuto.
In generale, dopo una catastrofe le persone rispondono con reazioni iperemotive brevi, che si manifestano in circa l'80 per cento della popolazione, e rappresentano un modo per metabolizzare il trauma.
«Sono caratterizzate da ansia, depressione, palpitazione, tremore, nausea, comportamenti stereotipati, senso di impotenza e smarrimento — spiegano Nardiello e colleghi nel loro volume — . Questi sintomi si manifestano immediatamente dopo l'episodio traumatico e nei giorni successivi, ma generalmente si dissolvono nelle settimane seguenti. Però, in circa il 10-15 per cento dei casi chi è coinvolto in un evento catastrofico può reagire con le cosiddette reazioni gravemente inadeguate, con stati confusionali, deliri, depressione, inibizione, comportamenti aggressivi e autolesivi. Questo genere di reazioni ha una probabilità maggiore di sfociare in un vero disturbo post-traumatico da stress».
Nel restante 10 per cento circa si manifestano invece reazioni di tolleranza, tipiche di persone che restano lucide e autocontrollate. Infine, c'è anche chi a fronte di una catastrofe migliora lo stato psicologico, come se apprendesse durante l'evento critico.
Sebbene allenati ad affrontare le più disparate situazioni di emergenza, anche i soccorritori hanno risposte emotive. «Esperienza e formazione continua sviluppano una soglia di tolleranza maggiore allo stress, — concludono gli autori del libro — anche se il ripetuto contatto con esperienze stressanti può sfociare in diversi disturbi, quali il Disturbo post-traumatico da stress, il Disturbo acuto da stress e i Disturbi di adattamento».

Corriere Salute 19.5.13
Le diverse psicoterapie che fanno superare lo choc
di D. d. D.


L'onda lunga emozionale di un evento traumatico può generare stati ansiosi e depressivi e, in certi casi, slatentizzare disturbi psichici più gravi. L'equilibrio psicofisico e la quotidianità risultano destabilizzati, così che in alcuni casi chi è stato esposto a un evento traumatico, talvolta anche solo come spettatore, deve in seguito fare ricorso a un supporto psicoterapico per tentare di superare il trauma. «Un trattamento psicoterapico offre la possibilità di esplorare le emozioni collegate al trauma, favorendo un ripristino della fiducia in se stessi e del contatto con il mondo esterno — dice lo psicologo Domenico Nardiello —. La Psicologia delle emergenze mira innanzitutto alla normalizzazione, a offrire a chi ha vissuto un'emergenza uno spazio mentale nel quale poter dare un senso a ciò che è accaduto. Normalizzare le risposte fisiologiche, ma spesso inattese, previene l'eventuale scivolamento psicopatologico nel medio e lungo termine. Questa operazione si attua attraverso semplici interventi, come il defusing e le tecniche di rilassamento che possono essere trasmesse anche ai non tecnici». Il termine defusing, proviene dall'inglese to defuse (si veda box) che vuol dire "rendere innocuo". È una semplice tecnica di auto-aiuto immediato per persone colpite da una catastrofe, o anche per gruppi di soccorritori. «Il defusing va proposto dopo che sono stati soddisfatti i bisogni elementari delle vittime e dei soccorritori — dicono gli autori del volume «Psicologi nelle emergenze» (vedi sopra) — e ha l'obiettivo di facilitare lo scambio di esperienze. È inoltre possibile fare ricorso a tecniche specifiche, che sono invece appannaggio degli psicologi, come il debriefing psicologico o la desensibilizzazione attraverso la cosiddetta EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing): un approccio psicoterapico in cui, attraverso particolari movimenti oculari, si attiva un processo di rielaborazione dell'evento disturbante che fornisce al soggetto un nuovo schema mentale di adattamento. L'EMDR è forse l'unica forma "terapeutica" sul campo. Ma in generale sulla scena del disastro non vi è spazio per una vera psicoterapia, riservata a un tempo successivo.
Se sono presenti disagi post-traumatici, rappresenterà una prevenzione terziaria, che tende a ridurre le cronicizzazioni. In quei casi risulta però fondamentale per tentare di rintracciare una linea di riorganizzazione mentale, emotiva e cognitiva, dell'evento vissuto.
Ad esempio, in un caso, dopo un'alluvione un intervento psicologico ha aiutato un uomo con attacchi di panico a ritrovare un equilibrio a partire dall'analisi di una scena dissonante che inconsapevolmente lo aveva scosso: aveva visto dei pesci saltare sull'autostrada che percorreva, e l'incongruenza di questa immagine aveva innescato il panico.
La Psicologia delle emergenze è trasversale ai diversi approcci e orientamenti psicologici teorici. Diverse istituzioni si occupano di formare i suoi operatori, anche con un graduale affiancamento sul campo. La Croce Rossa, ad esempio, da alcuni anni ha un Servizio psicosociale ben strutturato, con gli psicologi che fanno rete a livello nazionale e istruiscono a loro volta i soccorritori a diventare operatori psicosociali. Anche la Protezione Civile e alcune Università offrono una formazione specifica. Conclude il dottor Nardiello: «La presenza sul territorio è però ancora purtroppo a macchia di leopardo, anche se la crescente sensibilità ai temi delle dinamiche psicologiche in emergenza lascia intravedere un incremento».

Corriere Salute 19.3.15
Comincia con La Gazette de France nel 1631, sotto la protezione di Richelieu
L’esordio dei giornali medici Subito fra aspre polemiche
di Antonio Alfano


Seicento e Settecento: secoli del progresso nelle scienze e in medicina, e anche dell'esordio del giornalismo medico, il cui sviluppo fu però ostacolato da furenti polemiche e diatribe tra «antichi» e «moderni».
Il precursore fu un medico-giornalista, Théophraste Renaudo (o Renaudot) che fondò e diresse il primo giornale politico d'Europa: la Gazette de France, pubblicata per la prima volta a Parigi il 30 maggio 1631. Il giornale, settimanale, poté godere dell'appoggio del Cardinale Richelieu (1585-1642), il potente primo ministro del Re di Francia, che aveva conosciuto Renaudot intorno al 1610.
La Gazette, pur non occupandosi direttamente né di medicina, né di scienze, si trovò al centro di polemiche legate all'ambiente medico. Renaudot, che aveva studiato medicina a Parigi e a Montpellier, diventò medico del Re e «Commissario generale dei poveri del Regno di Francia» (su nomina di Richelieu), nonché fondatore del primo Monte di pietà francese, che garantiva assistenza medica gratuita ai poveri non ricoverati in ospedale. Nella professione fu un fiero sostenitore delle nuove scoperte scientifiche e tra i primi prescrittori dei nuovi farmaci chimici in Francia, nonché protagonista di un'aspra polemica con il decano della Facoltà di Medicina di Parigi, Guy Patin, che animò le cronache dell'epoca.
Al contrario di Renaudot, Patin era infatti un accademico conservatore, molto potente nella Facoltà parigina e strenuo sostenitore di teorie mediche ormai superate dai tempi, come quelle ippocratiche del grande medico greco Claudio Galeno, a discapito di teorie più attuali, come le tesi di William Harvey (si veda box) su sistema circolatorio e funzione cardiaca, che al tempo rappresentarono una vera rivoluzione copernicana. La contesa tra «antico» e «moderno» finì per coinvolgere tutta la Facoltà di Medicina di Parigi e continuò a lungo con toni molto accesi, tanto da provocare l'intervento del Cardinale Richelieu, protettore di Renaudot.
I l sacro furore contro il «nuovo» che avanzava non risparmiò neanche il Journal des Sçavans, giornale degli scienziati o dei dotti, il primo completamente dedicato ad argomenti di scienza e medicina. Fondato e diretto dal magistrato e consigliere parlamentare Denis de Sallo, con lo pseudonimo di Sieur d'Hédouville, uscì a Parigi il 5 gennaio 1665. Pubblicò articoli a sostegno di moderne teorie: quello sul Cerebri anatome di Thomas Willis, medico e anatomico inglese, che descriveva le strutture cerebrali legate alle emozioni e al comportamento dell'uomo, nonché scritti del filosofo e matematico René Descartes (meglio noto come Cartesio), come L'Homme, sulle funzioni «che appartengono al corpo e quelle dell'anima», e il Traité de la formation du foetus. A pochi mesi dalla sua uscita, le Journal des Sçavans fu costretto a sospendere le pubblicazioni: i contenuti irritarono il clero francese che lo fece chiudere.
Ancora una volta ci fu l'intervento di un potente, il ministro delle Finanze Jean-Baptiste Colbert, che si impegnò perché il giornale potesse riprendere le pubblicazioni l'anno successivo. Con la nuova direzione del più moderato abate Jean Gallois, il Journal, però, si interessò di argomenti letterari, giuridici ed ecclesiastici. Dal 1792 al 1816 interruppe di nuovo la pubblicazione e dal 1909 passò all'Académie des Inscriptions et Belles Lettres, occupandosi di archeologia e storia antica e medievale.
Anche l'Inghilterra ebbe il suo giornale medico. Il 6 marzo 1665 fu dato alle stampe il Philosophical Transactions giving some account of the present undertakings studies, and labours in many considerable parts of the world, diretto da Henry Oldenburg, primo segretario della Royal Society di Londra. E ancora oggi questa pubblicazione è l'organo ufficiale della prestigiosa Società scientifica. Tra i suoi collaboratori vi fu anche l'anatomista e fisiologo italiano Marcello Malpighi.
In Italia, i primi articoli di medicina apparvero verso il XVII secolo, all'interno della stampa letteraria. Il medico, per il suo livello culturale, era infatti considerato un letterato. Non a caso, il primo periodico medico italiano fu il Giornale dei Letterati, pubblicato nel 1668 a Roma per le stampe di Nicolò Angelo Tinassi e diretto dall'abate bergamasco Francesco Nazzari, docente di filosofia a La Sapienza. Anche in questo caso non tutto andò liscio: per divergenza di opinioni tra stampatore e direttore, nel 1675, la stessa testata uscì in due diverse edizioni, una stampata da Tinassi e diretta dallo storico e naturalista Giovanni Giustino Ciampini, l'altra curata direttamente dall'abate Nazzari.
Giornali con argomenti di medicina furono stampati oltre che a Roma, pure a Firenze, Bologna, Ferrara, Padova e Venezia, dove, ad esempio, fu pubblicato nel 1671 il Giornale veneto dei letterati, a cura di Pietro Moretti. E fin dagli albori il sale della polemica fu presente in dosi sostanziose anche nel giornalismo medico italiano.
Lo conferma, per esempio, un'aspra querelle che coinvolse, tra il 1681 e il 1682, Giovanni Cinelli Calvoli, medico e bibliografo fiorentino, Giovanni Andrea Moniglia, medico alla corte del Granduca di Toscana Cosimo III dè Medici, e Bernardino Ramazzini, medico di fama considerato tra l'altro il «padre» della medicina del lavoro. Bernardino Ramazzini era collaboratore del giornale Biblioteca volante, diretto da Cinelli Calvoli.
Tutto nacque da un controverso caso clinico che si verificò a Modena nel luglio 1681 e si concluse con la morte, dopo il parto, della paziente, la nobildonna Maria Maddalena Martellini. La nobildonna era stata seguita dal Ramazzini e al centro della polemica vi furono le modalità di assistenza, sulle quali si «scontrarono» Moniglia e Ramazzini stesso. Nella diatriba s'inserì il giornalista Cinelli Calvoli, che scrisse numerosi articoli a favore di Ramazzini, provocando una violenta reazione da parte del Moniglia. Questi, infatti, non esitò a denunciare Cinelli Calvoli per ingiurie e diffamazione, richiedendo un consistente risarcimento morale.
G iovanni Cinelli Calvoli venne incarcerato e l'11 marzo 1683, nel cortile del Bargello a Firenze, il boia diede fuoco ai numeri sequestrati del giornale. Ottenuta la libertà dopo più di tre mesi di carcere, Cinelli Calvoli — anche per evitare possibili ritorsioni da parte del Santo Uffizio, coinvolto da Moniglia — scappò da Firenze: si rifugiò prima a Venezia poi a Modena, dove, con l'aiuto dell'amico Ramazzini, ottenne una cattedra di lingua toscana. Seguì per Giovanni Cinelli Calvoli un lungo periodo di esilio durante il quale il medico-giornalista, invece di calmare la polemica, continuò a bersagliare Moniglia con i suoi critici articoli.
Il giornalismo medico proseguì il suo percorso di alti, bassi, contrasti e polemiche anche nei secoli successivi, ma questa è un'altra storia....

Nuove idee alla ribalta
Mentre in Cina, già nel 2650 a. C. l'imperatore Huang Ti, scriveva che «tutto il sangue del corpo è sotto il controllo del cuore… la corrente del sangue scorre continuamente in circolo», in Occidente la teoria più accreditata fino al Seicento fu quella di Galeno: non esisteva circolazione, ma due fonti di sangue, cioè il cuore per il sangue arterioso e il fegato per quello venoso; il setto cardiaco era attraversato da minuti fori che permettevano il passaggio del sangue dalla metà destra a quella di sinistra.
A ribaltare la situazione, fu l'inglese William Harvey (1578-1657) che ricostruì il processo di circolazione del sangue; le sue teorie furono sostenute dal direttore della Gazzette de France. Nella sua Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, Harvey dimostrò come il cuore fosse un muscolo che funzionava da «pompa» e come le valvole cardiache permettessero il passaggio del sangue da atri a ventricoli e non viceversa.

Corriere 19.5.13
Violenza, diritti, lavoro La battaglia delle donne
«Femminicidio», la parola che non c'era: la creò il reporter che Bolaño volle personaggio da uno dei nostri inviati
di Cristina Taglietti


TORINO — Serpeggia un tema forte tra gli incontri del Salone del Libro che ieri ha imboccato la porta del weekend: giorni tradizionalmente votati a quel mix di cultura pop, bestseller, musica, grandi personaggi che allunga le code ai botteghini, intasa le uscite e solleva il morale del presidente Rolando Picchioni che parla di 20% in più di affluenza (e per l'anno prossimo annuncia un possibile sbarco, per la prima volta, della Buchmesse di Francoforte con una rappresentanza di editori tedeschi).
Ieri è stato il giorno di David Grossman e di Roberto Saviano che al mattino ha messo in fila i suoi fan a caccia di autografi e il pomeriggio ha bacchettato il governo, ma protagoniste sono state anche, un po' di più rispetto ai due giorni precedenti, le donne. Con Lidia Ravera, Marilisa D'Amico, Loredana Lipperini e Rossella Palomba si sono declinati i temi del femminile affrontando i nodi ancora irrisolti della parità e dell'occupazione, della maternità e delle questioni sociali e politiche legate a essa, dall'aborto alla fecondazione assistita. Ma, nel chiasso della Fiera, si è parlato molto anche di violenza e, soprattutto, di femminicidio.
Lo hanno fatto scrittrici, giornaliste, attrici e, attraverso la sua opera, anche il grande nume tutelare di questo Salone che ha accolto il Cile come ospite d'onore, Roberto Bolaño. Parte del suo romanzo postumo 2666 (Adelphi) è ambientata nella città messicana di Santa Teresa, che corrisponde a Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, dove oltre un migliaio di donne sono state assassinate o fatte sparire nel nulla negli ultimi 30 anni. La quarta delle cinque sezioni che compongono l'opera e che probabilmente l'autore vedeva come una sequenza di romanzi separati, si intitola La parte dei delitti ed è una lunga ossessiva, insopportabile serie di ritrovamenti di corpi. Bolaño segue le tracce di Sergio Gonzales, un giornalista delle pagine culturali («recensiva libri di filosofia che peraltro nessuno leggeva, né i libri né le recensioni, e di tanto in tanto scriveva di musica e mostre di pittura», lo descrive Bolaño) che nel 1993 viene mandato a fare un reportage e comincia a seguire questi casi da cui nascerà il libro Ossa nel deserto. È lì che nasce la parola femminicidio che in Italia è entrata nell'uso soltanto da poco tempo anche se, come suggeriscono le cronache, e — sottolinea la demografa Rossella Palomba, autrice del saggio Sognando parità (Ponte alle Grazie) — «la prima causa di morte per le donne italiane tra i 16 e i 44 anni è l'omicidio da parte del coniuge, ex coniuge o ex fidanzato». Tutto ciò in un contesto di violenze che, scrive ancora la studiosa, è «molto esteso, anche se ancora sommerso e per questo sottostimato». Nel nostro Paese, secondo i dati Istat che Palomba riporta nel suo studio, oltre 14 milioni di donne hanno subito violenza fisica, sessuale o psicologica nel corso della loro vita.
Quello che è certo, e che si capisce anche dalla visibilità che il Salone ha dato al tema, si sta prendendo coscienza dell'emergenza e si comincia a parlarne, pur in modi molto diversi tra loro, che vanno dalla militanza culturale, come hanno fatto Loredana Lipperini e Michela Murgia nel loro pamphlet L'ho uccisa perché l'amavo. Falso! (Laterza), alla cronaca (Questo non è amore, 20 racconti di botte, soprusi violenze, scritte dalle autrici del blog del «Corriere» La 27esima ora, edito da Marsilio) o passando per una forma di messa in scena lirica come ha fatto Serena Dandini con Ferite a morte (Rizzoli). Ieri il Salone ha rappresentato i diversi approcci e la Sala Gialla, mettendo a confronto il libro di Lipperini e quello della 27esima ora ha riempito quasi tutti i 5oo posti a sedere, come di solito succede con gli autori più seguiti.
Se il lavoro della 27esima ora nasce, come ha spiegato il vicedirettore del «Corriere» Barbara Stefanelli, «da un'inchiesta giornalistica sulla violenza alle donne e fa parlare poliziotti, magistrati, operatori, volontari e, soprattutto, donne che si salvano», Lipperini e Murgia partono da un problema di parole, perché «se non si cambiano le parole non si cambiano le persone».
«Quando qualcuno dice che il femminicidio non esiste perché i morti donna non sono più morti degli altri — dice Murgia — credo che si tratti di malafede. In realtà il termine non riguarda qualunque donna morta, ma soltanto quelle uccise da uomini che ne rivendicano il possesso. Le ragioni sono diverse e il femminicidio chiede l'analisi delle ragioni. Un problema che non può essere ridotto a un fatto di costume e va affrontato culturalmente. Nei nostri linguaggi la facilità di accostamento tra amore e morte è impressionante. Non si può scrivere in un titolo di giornale: "L'ho uccisa perché l'amavo". Che la morte sia una delle possibili conseguenze di un amore deragliato non è accettabile».
«Si comincia a parlarne in modo sistematico e serio — dice Serena Dandini — e questo è un grande passo. Il sito di Ferite a morte ha creato un forte movimento di opinione, tanto che sembra che il Parlamento si appresti a discutere di questo appello che abbiamo lanciato a convocare gli Stati generali contro la violenza». Il libro di Dandini è un modo ancora diverso di affrontare il tema del femminicidio: nasce in contemporanea alla lettura teatrale, in ogni tappa donne diverse, note al pubblico (al Salone, per esempio, c'erano, tra le altre, Daria Bignardi, Lella Costa, Chiara Gamberale, Germana Pasquero, Concita De Gregorio) vengono convocate sul palcoscenico a leggere una delle storie vere raccolte nel libro. Le vittime parlano in prima persona, a volte con ironia. Anche quello si può fare, dice Lella Costa, «con garbo, pertinenza, delicatezza, anche se i temi sono drammatici».

l’Unità 19.5.13
Internazionale socialista. Crisi e strumentalizzazioni
di Paolo Borioni e Luca Cefisi

Segreteria nazionale Psi

L’ANNUNCIO (DATO PER ESEMPIO DA «EUROPA QUOTIDIANO») DELLA MORTE DELLA IS, L’INTERNAZIONALE SOCIALISTA, RICHIEDE LA CLASSICA precisazione alla Mark Twain: si tratta di una notizia grandemente esagerata. È vero invece che l’Internazionale, già molte volte snodo storico indispensabile, (nella Ostpolitik negli anni 70, gli accordi di Oslo tra Rabin e Arafat negli anni 90), appare oggi in crisi.
In parte è una crisi dovuta a cambiamenti profondi del sistema di relazioni globale: il consolidamento istituzionale dell’Unione Europea ha reso il Pes (Partito del socialismo europeo), e il suo eurogruppo parlamentare (a cui gli eurodeputati democratici italiani opportunamente aderiscono), degli efficienti organismi di coordinamento e di iniziativa politica, che tendono quindi, almeno nel nostro continente, a sostituirsi al ruolo storico della Is. Quest’ultima, trovandosi, per così dire, disimpegnata in Europa, ha trovato a livello globale un limite arduo da superare nella relativa debolezza della sua istituzione di riferimento (l’Onu) e ancor di più nell’assenza di forze socialdemocratiche in Cina, Russia, Stati Uniti, e quindi ha scontato un’assenza di influenza in alcuni teatri cruciali. L’Internazionale è però attivissima in America Latina e in Africa. L’iniziativa dei socialdemocratici tedeschi, olandesi e, in parte, scandinavi di una cosiddetta Alleanza progressista internazionale vuole rispondere a queste difficoltà, ma, francamente, è un segno di insoddisfazione per l’attuale funzionamento della Is, e non è in grado di sostituirsi ad essa.
Piuttosto, la discussione verte sugli strumenti e l’organizzazione, e ci sono anche ragioni spicciole (succede ovunque...), dopo che l’ultimo congresso della Is in Sudafrica ha respinto con stretta maggioranza una candidatura svedese alla carica di segretario generale, rimasta a una figura storica come il cileno Ayala. Da qui le polemiche: la principale su Tunisia ed Egitto, dove la Is è stata lenta a reagire alle novità (ma in Algeria, Libano, Iraq la stessa Is ha invece ben operato... ). Un tempo pochi leader autorevoli si sarebbero riuniti per risolvere i contrasti, ma oggi non ci sono più i Mitterrand, i Soares, i Brandt, i loro successori non hanno la loro facilità nell’imporsi, e oggi la governance dell’Internazionale è molto più complessa. Non sarebbe un bene se alcuni partiti europei si rinchiudessero nella dimensione organizzativa del Pes: l’annunciata Alleanza appare, in buona sostanza, uno strumento utile a un nucleo fondatore europeo che si rapporta poi con differenti interlocutori in giro per il mondo. E sarebbe una disdetta se il presidente della Is, Papandreu, fosse percepito, in Germania o altrove, come un leader debole per la vicenda greca, dove invece l’ex primo ministro greco ha dimostrato coraggio e dedizione.
Evitiamo equivoci ideologici: non ci sarà una nuova internazionale «progressista» (qualunque cosa la parola significhi), né una sostituzione della visione socialdemocratica in Europa (sebbene sia questo che qualcuno spera). Il presidente Spd Gabriel, nel sostenere recentemente la campagna elettorale di Italia Bene Comune, ha rivendicato a piena voce come la Spd non abbia cambiato nome e valori in 150 anni di storia, e che le ragioni ideali della fondazione dell’Internazionale nel lontano 1889 sono sempre all’ordine del giorno. Del resto, dove sarebbero le famiglie politiche in grande progresso con cui contaminarsi dissolvendo il socialismo europeo? I verdi sono rilevanti in pochissimi Paesi, e solo in Germania sono importanti. I post-comunisti in nessun luogo guadagnano voti dalle difficoltà, innegabili, dei socialdemocratici. Lo stesso vale per i liberali progressisti: solo i Liberaldemocratici britannici erano cresciuti grazie ai delusi da Blair, ma la scelta di andare coi conservatori li ha gettati in una forte crisi. I delusi della socialdemocrazia sono molti perché essa fatica a contrapporsi alle ricette fallimentari dell’austerità, essi confluiscono però soprattutto verso astensione o partiti di protesta. Tuttavia anche nella Grande Crisi fra le due guerre fu così: si stentò a trovare soluzioni, ma poi avvenne. Ancora oggi, pur nelle difficoltà, il socialismo democratico è attrezzato a trovare soluzioni, grazie agli impulsi forti che gli provengono dai think tanks sindacali (come la Hans Böckler Stiftung), dal lavoro critico delle sue fondazioni di studio (la tedesca Friedrich Ebert, la danese Cevea, la britannica Fabian Society e molte altre che collaborano). Infine l’Internazionale Socialista, grazie per esempio alle esperienze latinomericane, può aggiungere il contributo di nuove esperienze, che (come bene indica Salvatore Biasco nel suo ultimo libro) usano senza complessi e con efficacia l’azione pubblica del governo per intervenire nel libero mercato. Pes e Is, che devono certo superare le loro difficoltà contingenti nel collaborare tra loro, possono potenzialmente smentire i desideri di chi voleva, nel 2011, che l’ortodossia economica della Bce divenisse il programma obbligato della sinistra europea ed italiana. Forse questo spiega certe esagerazioni riguardo alle vicende della Internazionale Socialista.

il Fatto e The Independent 19.5.13
Apatia, povertà e sadismo: così nasce l’abuso
Da Savile agli orchi di Oxford, donne e bambini sono merce
di Grace Dent


Nella regione di Oxford si è consumato l’ennesimo orrendo reato contro giovani bambine inermi. Una banda di uomini – sette sono stati giudicati colpevoli – hanno maltrattato e abusato sessualmente numerose bambine 11enni e 12enni, diverse delle quali ospiti di case famiglia nell’Oxfordshire. In questa storiaccia che per molti aspetti ricorda lo scandalo Savile, i sette sono stati condannati per rapimento di minori, associazione per delinquere a scopo di rapimento di minori, induzione alla prostituzione minorile e violenza sessuale. È una lunga storia di orrori che ha visto per protagonisti uomini non più giovani che hanno preso di mira delle bambine contando sull’inefficienza delle forze di polizia e dei servizi sociali e sull’indifferenza della società.
Le bambine venivano abbindolate e ingannate da uomini piuttosto attempati. Uno della banda lavorava per la sicurezza della Tesco. Altri erano dipendenti della catena di pizzerie Domino’s. Le bambine sono state violentate, hanno subito stupri di gruppo, sono state costrette a prostituirsi e sono state “noleggiate” a sadici e pervertiti di ogni genere che le torturavano e le abusavano. Molto spesso venivano ferite con coltelli e taglierini e picchiate con mazze da baseball. Alcune sono state costrette ad abortire. Le ragazzine, stordite dall’alcol e dalla droga, giacevano in squallidi appartamenti dove i pedofili locali facevano la fila per infierire sui corpi di quelle povere creature indifese. Possibile che la polizia, le assistenti sociali, la gente del luogo non cogliesse il benché minimo segno di malessere, non avvertisse che in queste bambine c’era qualcosa che non andava? O forse era più comodo e più facile far finta di non vedere per non cacciarsi nei guai? Ho assistito a numerosi dibattiti su questo caso e ho sentito ripetere fino alla nausea la solita frase stantia: “oh, si tratta di un problema culturale!”.
UNA SORTA DI FRASE magica che mette fine alla discussione e in qualche modo fa sentire tutti innocenti. Ma io non abbandono la nave. Sono intenzionata a scavare fino alle fondamenta di questo cosiddetto “problema culturale”. Problemi culturali, lo ammetto, ce ne sono. Il primo problema culturale che vedo – assolutamente tipico della Gran Bretagna – è la tendenza delle autorità a pararsi il culo e a giocare a scaricabarile. È risultato al processo che 3 delle vittime avevano collezionato 254 assenze non giustificate dalle case famiglia gestite dallo Stato allo scopo di garantire la loro sicurezza. Una bambina, Awol, aveva fatto 126 assenze nell’arco di 15 mesi. Fino a prima di questo scandalo pensavo – ingenuamente la polizia dovesse mettersi immediatamente alla ricerca di una minorenne nel caso in cui non avesse fatto ritorno nella struttura pubblica che la ospita. E pensavo anche che i primi sospetti sarebbero stati i pedofili noti alle forze dell’ordine. Un funzionario della pubblica istruzione ha testimoniato che 9 assistenti sociali su 10 sapevano che le ragazzine erano “controllate” da un gruppo di asiatici.
Il fatto è che tanto la polizia quanto i servizi sociali sembrano convinti che il sistema in quanto tale non ha alcuna responsabilità e che cambiarlo non servirebbe a nulla.
Il secondo problema culturale della società britannica è la presenza di anziani predatori sessuali di ogni razza che vedono nelle donne giovani, povere, psicologicamente instabili, ospiti di strutture assistenziali, facili prede sulle quali esercitare la loro follia. Si tratti del divo tv Savile e dei suoi accoliti che violentavano le ragazze nei camerini della Bbc o dei sette uomini dell’Oxfordshire, il sistema è lo stesso: la promessa di un po’ di divertimento, una bottiglia di alcol, una bella corsa su un’auto sportiva e il gioco è fatto. È facile tentare chi nella vita non ha nulla se non frustrazioni e privazioni. Qui non c’entrano un bel niente né le convinzioni religiose né il colore della pelle né le tradizioni culturali. La realtà è molto più semplice: in una società come la nostra le ragazze e le ragazzine povere sono bersagli facili.
IL NOSTRO PROBLEMA culturale è l’apatia di molte persone che non hanno voglia di immischiarsi e non denunciano alla polizia quello che vedono o che sospettano. L’altro giorno mi trovavo in un taxi e in mezzo al traffico l’autista urlava al cellulare raccontando della cugina che aveva ricevuto moltissime regali d’oro per il suo matrimonio e del fatto che aveva deciso di sposarsi anche se il fidanzato le aveva spaccato il naso per non perdere tutto quel bene di Dio.
Sono scesa dal taxi molto scossa. Ho chiamato la polizia? Non avrei saputo cosa raccontare. E – a esser onesta – non avevo voglia di perdere mezza giornata a spiegare cosa era successo per poi sentirmi dire che era un problema culturale. Così non ho mosso un dito. Di recente ho scritto alcuni articoli sull’infibulazione delle bambine musulmane di cittadinanza britannica. Nessuna organizzazione umanitaria che si occupa di problemi del genere si è messa in contatto con me. Il vero problema è la povertà. In tribunale un autista di piazza ha detto che una sera ha portato una ragazza nella casa famiglia dove nessuno ha voluto pagare la corsa. L’autista l’ha riportata a Oxford e riconsegnata alla banda di mostri che l’hanno picchiata e stuprata. Vogliamo continuare a definirlo problema culturale?
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 19.5.13
A Kabul i diritti delle donne restano ancora un miraggio
I filo-taleban hanno bloccato tutto in 15 minuti
Il Parlamento ferma la legge, gli integralisti: stuprare la moglie non è reato
Per alcuni deputati «le spose bambine sono previste dal Corano»
di Giordano Stabile


È il fiore all’occhiello dei quattro anni di presidenza Karzai. La legge contro la violenza alle donne, promulgata dal presidente afghano subito dopo la sua contestata elezione nell’agosto del 2009. Un piccolo raggio di luce dopo gli anni buissimi dei taleban, quando la condizione femminile era tornata al Medioevo, ma quello peggiore. La legge, in un Paese ancora disastrato e con la metà delle province dilaniate dalla guerra civile, ha funzionato. Ha posto una diga alla pratica delle spose bambine, di dodici, dieci, persino sette anni, che prima era la regola. Ha persino spedito in galera un pugno di uomini denunciati per aggressioni e stupri, anche in famiglia.
Un gigantesco passo avanti che dà ancora molto fastidio ai settori più conservatori dell’Afghanistan, con una nutrita rappresenta nella Loya Jirga, il parlamento di Kabul. Ma ancora troppo timido per le associazioni femminili, guidate dalla combattiva deputata Fawzia Koofi, pure tra le ispiratrici maggiori del decreto presidenziale del 2009. Le due fazioni si sono date battaglia ieri in Aula, quando si trattava di arrivare finalmente all’approvazione parlamentare della legge. Un passo temut o a n c h e dalle femministe, perché negli emendamenti si nascondevano trappole micidiali.
Come quello presentato da uno dei deputati più conservatori, Obaidullah Barekzai, contro l’età minima per il matrimonio, fissata nel 2009 a 16 anni. «È sbagliato che i genitori non possano dare propria figlia in sposa prima di quell’età - ha argomentato - quando lo stesso Maometto sposò Aisha quando aveva nove anni». Uno degli argomenti favoriti dagli imam sauditi che si oppongono all’età minima e hanno grande influenza in Pakistan e Afghanistan.
Barekzai ha proposto anche di eliminare il reato di stupro fra coniugi, uno dei commi che avvicinano la legislazione afghana a quelle occidentale e chiesto la chiusura dei centri di ricovero per le donne vittime di abusi in famiglia, definiti dall’attuale ministro della Giustizia, Habibullah Ghaleb, «postriboli e luoghi di immoralità».
Attiviste come Sorya Sobrang, della Rete delle donne afghane, avevano avvertito dei pericoli insiti nel passo parlamentare. Il decreto Karzai, infatti, «è in vigore e funziona». Rischiare di perdere tutto per migliorarlo e farlo diventare legge ordinaria era «un azzardo». E, alla fine, la conversione non è passata. Il dibattito, fra urla e scontri quasi fisici, è finito dopo 15 minuti.
Le parlamentari guidate da Koofi oltre ad aggiungere nuove norme come il limite a due mogli invece che quattro, volevano soprattutto blindare i diritti acquisiti, in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. Karzai non si ripresenterà. La stessa Koofi sarà probabilmente della partita, ma con scarsechance. E i colloqui di pace con i taleban sono decisivi per gli equilibri del dopo-2014, quando non ci saranno più i soldati della Nato. Si allunga l’ombra di un presidente più conservatore, per quanto ancora filo-occidentale. La legge per i diritti delle donne potrebbe essere la prima vittima del nuovo corso.

il Fatto 19.5.13
Il male quotidiano della dittatura argentina
Lo scrittore Ábos: “Terrore e normalità negli anni di Videla”
di Anna Vullo


Alvaro Ábos è uno scrittore e saggista argentino autore di numerosi libri. Ha 72 anni. Quando Jorge Rafael Videla - il leader della giunta militare morto l’altro giorno a 87 anni - prese il potere, Ábos ne aveva 35. Era un giovane avvocato che tutelava i diritti dei lavoratori e aveva stretti contatti con il sindacato. Per il regime di allora, “un sovversivo”.
Lo scrittore ricorda quel periodo come il più terribile della storia argentina: “Con Videla si arrivò alla violenza estrema”, spiega. “Per noi argentini il militarismo non era un fenomeno nuovo, in un certo senso eravamo abituati al succedersi di dittature. Ero un ragazzino, ma ricordo ancora il golpe del 1955 con cui fu cacciato Peròn. Ciononostante non si era mai arrivati alla brutalità che ha contraddistinto il regime di Videla. Tra il 1976 e il 1983 è stata spazzata via un’intera generazione. Un genocidio paragonabile a quello del nazismo”.
In El poder carnivoro, un saggio del 1985, Ábos descrive l’ideologia della dittatura attraverso l’analisi del linguaggio, dei discorsi e dell’iconografia di quel periodo. In copertina c’è un ritratto di Videla. Con sguardo da semiologo mette a nudo attitudini e posture del regime: “L’equazione era elementare: chi non è d’accordo con la nostra dottrina è un nemico. Discorso di uno schematismo impressionante, che ruotava ossessivamente intorno al tema del male e che non cessava mai di essere minaccioso: i gerarchi venivano sempre ritratti in uniforme, mai in abiti civili. L’unico obiettivo era seminare la paura”.
Tuttavia al principio non si aveva una percezione chiara del dramma che si sarebbe consumato in seguito. “Vivevamo in uno stato di polizia proprio di un regime, ma la vita quotidiana in qualche modo seguiva il suo corso”, spiega Ábos. “La polizia entrava nei caffè, bloccava gli accessi, chiedeva i documenti a tutti i presenti. Oppure sbarrava una via in piena notte alla ricerca di qualcuno. Si udivano ordini, grida. Ci si affacciava e subito un agente intimava: no miren, non guardate, andate dentro! Così si tornava a letto cercando di tener a bada le inquietudini e non porsi troppe domande”. Finché i sequestri, le torture e le sparizioni non diventarono un fenomeno eclatante. Cominciarono a desaparecer studenti e professori dalle università, operai dalle fabbriche, maestre dalle scuole. “Persone comuni, figure professionali del tutto innocue ma che
il regime bollava come nemici della patria”, commenta Ábos. “A scopo intimidatorio, qualche volta veniva fatto ritrovare un cadavere sul ciglio di una strada o ai bordi di un campo da calcio. Alcuni erano carbonizzati o presentavano chiari segni di torture. I giornali scrivevano: è stato rinvenuto il corpo di tizio, di anni ‘x’, di professione eccetera, ma senza mai specificare cosa fosse successo e perché si trovasse lì. Come se si trattasse della vittima di un incidente d’auto”.
L’omertà della stampa corrispondeva al sentimento di una parte della società: chi fingeva di non sapere, chi taceva per paura, chi appoggiava apertamente il regime. “I militari avevano riportato l’ordine dopo un periodo di caos, scioperi e iperinflazione”, spiega lo scrittore. “In questo senso Videla aveva ragione: con lui una parte del Paese si sentiva al sicuro”. Il resto viveva nel terrore.
Per capire se si correvano pericoli si ricorreva a piccole astuzie. “Era importante procurarsi informazioni dall’interno”, sostiene lo scrittore. “Sapere per vie traverse se si era nelle liste nere della polizia e poi agire di conseguenza”. Quando venne sequestrato, torturato e ucciso Norberto Centeno, docente di Diritto del Lavoro e accademico molto noto, di cui Ábos era discepolo, lo scrittore capì di essere nel mirino. Attraversò il confine con l’Uruguay e si imbarcò su un volo per Barcellona. Tornò a Buenos Aires solo alla fine della dittatura.
“In questi trent’anni il discorso di Videla non è mai cambiato. Sino alla morte ha rivendicato le azioni del regime sostenendo che si trattasse di una guerra: dell’Occidente contro i sovversivi marxisti”, aggiunge Ábos. “Tuttavia non ha mai ammesso ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: che si trattasse di un piano di sterminio sistematico, di una struttura dell’orrore. È stato un gerarca molto ipocrita”.
Ma l’Argentina non ha più paura. “Oggi in tutta l’America Latina abbiamo governi democratici e libere elezioni”, conclude Álvaro Ábos. “Il ritorno di una dittatura è uno scenario fantascientico. I militari sono stati cancellati dalla vita nazionale: li abbiamo seppelliti assieme a quell’epoca buia. In questo senso, Videla era già morto da tempo”.

Corriere 19.5.13
Laureati tedeschi tutti al lavoro: educazione e cultura ripagano
di Giuliana Ferraino


La Germania dichiara la piena occupazione dei suoi laureati. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall'Agenzia tedesca del lavoro, tra il 2001 e il 2011 il numero dei laureati occupati è cresciuto di due milioni e mezzo, quasi il 50% in più, salendo a 7,7 milioni totali. E il tasso di disoccupazione tra chi possiede una laurea è crollato al 2,4%, una percentuale che per la Frankfurter Allgemeine Zeitung corrisponde, secondo le definizioni comuni, alla piena occupazione. Non solo: in caso di perdita del lavoro, più della metà dei disoccupati laureati trova un altro impiego in meno di tre mesi, e soltanto il 12% aspetta più di un anno. Il record, che piazza la Germania al secondo posto in Europa, superata solo dalla Norvegia, e ben lontana dalla media europea, in realtà sta già creando qualche problema al sistema produttivo tedesco. A corto di ingegneri, medici e tecnici specializzati, le aziende hanno cominciato a «importare» lavoratori laureati dall'estero. Italia compresa, come indicano gli ultimi dati. Il numero di italiani, molti altamente qualificati, l'anno scorso è salito del 30%, e la prima destinazione è proprio la Germania.
Certo, in Italia la disoccupazione è salita all'11,6%, quella giovanile è esplosa al 38,4%, mentre la recessione perdura da 7 trimestri consecutivi. Ma a preoccupare non è soltanto la difficoltà del presente, quanto la mancanza di futuro per le nuove generazioni. Il nostro Paese è all'ultimo posto in Europa per quota di laureati sulla popolazione 30-34 anni (21%), molto distante dall'obiettivo europeo del 40% entro il 2020. Il presidente del Consiglio Enrico Letta all'inizio del suo mandato ha promesso in televisione che se verrà tagliata la spesa in istruzione, ricerca e cultura si dimetterà da primo ministro. L'auspicio è che si investa di più, perché la lezione tedesca, forse ancora più di quella che tutti i giorni riceviamo attraverso lo spread, dimostra che per rilanciare la crescita è necessario puntare soprattutto su cultura e formazione, la polizza migliore contro la disoccupazione.

Corriere 19.5.13
Quando la credenza è più forte dei numeri
di Danilo Taino


Piedi di piombo di fronte alle violenze di cui si sono riempite le cronache negli ultimi tempi. I casi sono spesso ad alta emotività e possono creare bolle percettive fuorvianti, impressioni e paure non fondate nella realtà. Una ricerca pubblicata da pochi giorni dal centro di studi americano Pew Research illustra bene cosa può succedere. Il 56% degli americani ritiene che negli ultimi 20 anni i crimini che coinvolgono l'uso di armi da fuoco siano aumentati; il 26% dice che sono rimasti allo stesso livello. Sottoposte alle statistiche, queste credenze si dimostrano fallaci.
Negli Stati Uniti, i crimini armati sono scesi drasticamente rispetto ai primi anni Novanta. Gli omicidi sono calati del 49%, da sette ogni centomila abitanti del 1993 a 3,6 nel 2010. I casi violenti, sempre condotti con una pistola o con un fucile, in cui però non c'è stato un morto — assalti, furti, crimini sessuali — sono crollati del 75% tra il 1993 e il 2011: da 725,3 per centomila abitanti a 181,5. Il complesso dei crimini violenti ma non fatali (armati o meno) è anch'esso sceso, del 72%: furono 7.976 per centomila abitanti nel 1993, sono stati 2.254,2 nel 2011. Pew Research nota che il tasso di omicidi con arma da fuoco iniziò a crescere negli anni Sessanta, continuò a salire nei Settanta, raggiunse un picco nel 1981, scese, ebbe un altro picco nel 1993 e da allora cala regolarmente, anche se negli ultimi anni a un ritmo inferiore. Non solo: tra i morti per arma da fuoco sono contati anche i suicidi, il cui numero è sceso meno di quello generale, ragion per cui oggi sei morti per arma da fuoco ogni dieci sono suicidi, il massimo dal 1981.
Ciò nonostante, il caso del massacro della scuola elementare di Newton, in Connecticut, dove lo scorso 14 dicembre furono uccisi 20 bambini e sei adulti, ha indotto una enorme discussione — e uno scontro politico — sulla questione del possesso personale delle armi da fuoco. Secondo un altro sondaggio condotto da Pew in aprile, la discussione seguita con maggiore interesse dagli americani (dal 37%) ha riguardato il controllo delle armi. Indipendentemente dal merito di quel dibattito, è interessante notare come certi eventi drammatici prevalgano, nella percezione collettiva, sulle tendenze di lungo periodo.
In Italia, l'Istat dice che, tra il 1997-1998 e il 2008-2009, le aggressioni ogni cento abitanti sono scese da 0,8 a 0,6; gli scippi da 0,6 a 0,5; le rapine sono rimaste a 0,3; i borseggi sono leggermente saliti da 1,4 a 1,6. Ciò nonostante, nello stesso periodo, coloro che si sentono «molto sicuri» a camminare da soli al buio nella zona in cui abitano sono scesi dal 24,3 al 18,8% e coloro che non escono mai da soli quando è buio sono passati dall'8,4 all'11,6%. Poco meno di un italiano su due — il 48,5% — si dice «molto o abbastanza influenzato dalla criminalità».
È la percezione, insomma, che guida le danze su questi argomenti. Ed è ahimè sulle percezioni, più che sui dati, che i politici tendono ad agire quando si viene alla criminalità.

La Stampa TuttoLibri 18.5.13
L’inno alla maternità del Nobel Mo Yan
Gracidano come rane i bambini cinesi che non sono nati
di Angelo Z. Gatti


Una storia ispirata al controllo delle nascite che negli Anni 60 portò alla legge del figlio unico narrata con tragicomico umorismo e fantasia
Mo Yan «Le rane» traduzione dal cinese di Patrizia Liberati Einaudi pp. 382, € 20,00
Mo Yan, nato nel ’55, ha vinto il premio Nobel per la letteratura lo scorso anno

"La fervente dottoressa sfreccia in bicicletta per le campagne a procurare aborti e vasectomie Una ginecologa rivoluzionaria applica le direttive del Partito facendo violenza a sé e agli altri"

Il nuovo romanzo del Premio Nobel Mo Yan, dal titolo Le rane, uscito in Cina nel 2009 e ora da Einaudi nella bella traduzione di Patrizia Liberati, ha una struttura originale e composita. Ci sono cinque lettere datate primi anni Duemila e firmate Girino, pseudonimo di un immaginario drammaturgo Wan Zu, Wan il Piede, alter ego dell’autore e io narrante, indirizzate a un letterato giapponese, Yoshihito Sugitani, dopo che questi ha tenuto in Cina una conferenza sul tema «Letteratura e vita»: quattro introducono altrettanti spezzoni narrativi distribuiti in un arco di tempo di settant’anni, dai Trenta in poi, a formare il romanzo; la quinta sta in capo a un’opera teatrale in nove atti, Le rane, che a detta del narratore «forse non sarà mai messa in scena».
I testi, composti su sollecitazione dello stesso Sugitani, si completano. C’è un antefatto: durante l’occupazione giapponese in Cina il padre di Sugitani, comandante stanziato a Pingdu, ha conosciuto la protagonista del libro Wan Xin, Wan il Cuore, che allora aveva sette anni e gli aveva tenuto testa e che diventerà la zia dell’io narrante. Da un lato la Grande Storia (guerra, fame, sofferenze), dall’altro il quotidiano dei contadini dello Shandong.
L’ambientazione è la zona a nordest di Gaomi, terra natale di Mo Yan e patria d’ispirazione di tutti i suoi libri. I personaggi, come sempre numerosi, hanno nomi di una parte o di un organo del corpo: Chen Bi, Chen il Naso, Wang Gan, Wang il Fegato, Xiao Shangchun, Xiao il Labbro superiore… Ma che cosa di più corporale delle pratiche relative a gravidanze e partorienti?
Il tema del libro è la maternità. Argomento impegnativo tanto più se legato al problema del controllo delle nascite che, in Cina a metà degli anni Sessanta, portò alla legge sul figlio unico. «Una coppia, un bambino» era lo slogan. Mo Yan racconta rifacendosi alle esperienze personali e a quelle della sua gente, trasfigurandole con umorismo tragicomico e giocosa immaginazione, con ricordi sedimentati e mai persi, salti temporali, anticipazioni e ritorni, pagine oniriche e visionarie.
Ispirandosi a una zia ginecologa reale crea un personaggio che ha del mitico. C’è un prima e un dopo la pianificazione delle nascite. Wan Xin, Wan il Cuore, ha studiato le nuove tecniche ostetriche e, una volta medico, con la sua bicicletta e la borsa delle medicine e degli strumenti, sfreccia per le campagne in aiuto delle partorienti e contro le mammane incompetenti e pericolose. Le sue mani d’oro hanno un che di taumaturgico: calmano madri in ansia, alleviano dolori e agevolano nascite felici. Ogni neonato è motivo di soddisfazione e di orgoglio.
Wan Xin è una rivoluzionaria convinta, iscritta e fedelissima («il mio cuore è rosso»). Quando il Partito, per affrontare il problema sovrappopolazione e risorse, impone il controllo delle nascite, lei, facendo violenza a se stessa, applica le direttive alla lettera. Aborti per le donne e vasectomie per gli uomini. Il fervore non risparmia amici e parenti, provocando traumi devastanti e insanabili (anche la famiglia di chi narra è drammaticamente segnata). Così vediamo la zia inseguire col motoscafo una parente incinta del secondo figlio e non disposta all’aborto. Da eroina della vita a «diavolo incarnato».
Nell’ultima parte la zia, tra rimorsi e tormenti interiori e ossessionata di notte dal gracidio delle rane simile al vagito dei neonati (il termine «Wa» significa sia «rana», sia «bambino»), raccoglie in una sorta di santuario le statuine di tutti i piccoli mai nati. Epopea tragicomica e sofferto inno alla maternità, Le rane è un accorato libro di denuncia, all’interno di una scelta politica imposta dall’alto che la la Cina ha dovuto e deve sopportare suo malgrado. E Mo Yan, in tutti i suoi libri, ha un atteggiamento critico palese. Significative sono le lettere poste in capo alle cinque parti.
Scrivendo a un collega giapponese, con inviti a tornare, Mo Yan lancia un segnale: un ideale ponte della pacificazione tra paesi da sempre rivali. Questo a smentire quanti gli rimproverano le sue scelte pubbliche. Sullo spinoso problema dei diritti umani, nella fattispecie sugli arresti domiciliari del Premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, Mo Yan si è limitato a un auspicio di una pronta e sollecita liberazione. Un’ombra. Nessuno è perfetto. Per uno scrittore contano le opere e il Premio Nobel per la Letteratura 2012 è di certo meritato.

La Stampa TuttoLibri 19.5.13
Un romanzo storico nel ‘400
Il mestiere delle armi nell’Italia frantumata
Tra mercenari, sapienti, grandi inventori la caccia a una pergamena che può cambiare il mondo
di Ferdinando Camon


Gli aragonesi, i francesi, il Moro, i Gonzaga, i veneziani… Si fa prima a dire che l’Italia è divisa in due parti, chi fa la guerra e chi la guarda fare.
La storia cambia così: «Il puntino di luce altro non è che una compagnia di soldati in marcia dietro un’enorme torcia, sorretta dalle mani di un cavaliere dalla corazza argentata. Avanzano metà a piedi»
Giuseppe Lupo «Viaggiatori di nuvole» Marsilio pp. 238, € 18
Il «Libro» segreto offre la ricetta per unire i tre monoteismi in lotta per fondare una nuova civiltà

Se avete amato Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, e se amate le Battaglie di San Romano di Paolo Uccello, amerete questo libro. Corrado Cagli considerava le «battaglie» di Paolo Uccello i più bei quadri dipinti dall’umanità. E io amo Corrado Cagli, dunque… Lo amo tanto che, vedendomi assegnato al premio Viareggio un quadro di Enotrio, ma essendo tutti i quadri accatastati in uno sgabuzzino in attesa di essere assegnati, e vedendo tra i quadri una prova d’artista di Corrado Cagli, chiesi di avere il Cagli al posto di Enotrio. Fui accontentato. Non ricordo più chi abbia avuto Enotrio. Adesso vorrei incontrarlo, per proporgli uno scambio annuale.
So che, dichiarando che questo libro mi ha sedotto, mi contraddico. Perché io sto sulla sponda del «cosa dire», Lupo sta sulla sponda del «come dire». Per me: «Rem tene, verba sequentur», se hai bene in mente cosa narrare, le parole vengono da sé; per Lupo: «Verba tene, res sequentur», se ti vengono sulla penna le parole, quelle son le cose. È dunque un libro seduttivo nella lingua. Guerre, donne, amori, fughe, grandi scoperte e grandi rivoluzioni, grandi inventori e grandi condottieri, sono raccontati e descritti per la gioia del racconto e della scrittura, e la conclusione è che le massime verità inconciliate, i tre monoteismi che han costruito civiltà che avevano ciascuna un senso nella distruzione delle altre, trovano accordo e pace unendosi e fondendosi in una civiltà unica, dentro una città nuova, che ha sull’umanità l’effetto di generare una nuova storia, come il Nuovo Mondo appena scoperto da Cristoforo Colombo.
Il libro comincia nell’anno 1499, poi va un po’ indietro e un po’ avanti, il luogo d’apertura è una stamperia di Venezia, e il motivo della conclusione è la rivelazione contenuta nelle pergamene, a caccia delle quali corre tutto il libro. Il padrone della stamperia, dove lavora il protagonista Zosimo, sa di queste pergamene, che contengono rivelazioni portentose, e le vuole stampare lui. Sa che le possiede un chierico, dentro una bisaccia. Il chierico è stato visto a Milano. Il garzone della stamperia va dunque a Milano. Il libro è il girovagare di questo garzone su verso il Nord, poi più su verso la Francia, e poi giù verso il Sud. Sull’Italia spadroneggiano gli metà a cavallo, innalzano insegne a forma di animali che sputano fuoco dalla bocca, ma hanno il passo stanco di chi non vuole far guerra». Si sente un’allure ariostesca. Vittorie e sconfitte non cambiano niente, se non in alto. In basso sono tutti sconfitti a priori. Se Zosimo troverà le pergamene il padrone lo coprirà di diamanti, ma questa non è una storia di ricchezze, bensì di verità: le stamperie sono in gara a chi stampa i libri più rivoluzionari, Colombo ha cambiato il mondo, Leonardo, «filio de lo dimonio», cambia la scienza l’arte e la guerra, le stamperie fabbricano il futuro.
A donne, cavalier, armi, amori, s’aggiunge qui un altro motore della storia: i libri. Il protagonista cerca le pergamene per farne un Libro, e offrirlo all’umanità. Ma anche la polizia cerca i libri, per distruggerli: «I soldati si gettano sopra le casse proibite, le trascinano, le ribaltano. Quando i libri cascano a terra, il taverniere si copre gli occhi e si fa il segno della croce». Riuscirà Zosimo a trovare le pergamene? Sposerà la bellissima Nuevomundo, trovata e perduta e sempre cercata? Avrà in premio l’oro e i diamanti? Sì, ci chiediamo tutto questo, leggendo. Ma soprattutto: qual è la verità sconvolgente contenuta nelle misteriose pergamene? Se il 1499 cercava questa verità, per noi oggi, dopo il Duemila, è una verità trovata? posseduta? chiara per tutti? Chiuso il libro, pensi: purtroppo no, non lo è. Sappiamo qual è, ma non dov’è. La stiamo ancora cercando.

Corriere 19.5.13
Le meraviglie di Saturno si scoprono a occhio nudo
di Giovanni Caprara


Per tutte le notti di maggio Saturno, che con i suoi anelli è il pianeta più affascinante del sistema solare, è visibile a occhio nudo guardando inizialmente a sudest e nelle ore seguenti verso sud. Quindi potrà soddisfare la curiosità di coloro che in tutta Italia condividono l'iniziativa «Occhi su Saturno» alla sua seconda edizione (www.occhisusaturno.it). L'appuntamento è per questa notte con l'augurio che in alcune regioni il cielo sia senza nubi. Organizzata dall'Associazione Stellaria di Perinaldo col patrocinio di numerosi enti (dall'Istituto nazionale di astrofisica all'Agenzia spaziale italiana, all'Unione astrofili italiani) ebbe l'anno scorso un grande successo con 49 eventi in 14 regioni. Lo scopo dell'operazione è duplice. Da una parte invitare a scrutare con un telescopio le meraviglie del pianeta inanellato, dall'altra ricordare Gian Domenico Cassini (1625-1712) che era nato proprio a Perinaldo, in Liguria. Cassini rivelò quel mondo lontano scoprendo, oltre a quattro delle sue lune, anche la divisione tra gli anelli che porta proprio il suo nome. Ora intorno al magnifico corpo gassoso c'è una sonda della Nasa, anch'essa battezzata Cassini, che continua a mostrarci aspetti sconosciuti del pianeta.

Corriere La Lettura 19.5.13
L'universo sembra il gioco dei dadi


S'intitola «Dice World. Science and Life in a Random Universe» («Il mondo come i dadi. Scienza e vita in un universo casuale») il nuovo libro dello studioso britannico Brian Clegg, uscito in aprile per l'editore Icon Books (pagine 288, $ 12,40). Nel saggio l'autore sostiene che il cosmo non assomiglia agli ingranaggi di un orologio, come un tempo si credeva, ma è in larga misura condizionato da fattori imprevedibili. Clegg, nato nel 1955, è noto per i suoi libri dedicati alla divulgazione scientifica: i più recenti sono «Gravity» (St. Martin's Press, 2012) e «The Universe Inside You» («L'universo dentro di te», Icon Books, 2012). In italiano è stato tradotto solo «Volando si impara» (Zanichelli, 2012). Due classici testi scientifici sul tema della casualità sono «Il caso e la necessità» di Jean Monod (Mondadori, 1970) e «L'orologiaio cieco» di Richard Dawkins (Rizzoli, 1988). Il romanzo di Luke Rhinehart «The Dice Man» (1971) uscì da Rizzoli nel 1973 con il titolo «L'uomo dado» (traduzione di Marina Valente). Nel 2010 è stato riproposto con il titolo «L'uomo dei dadi» dall'editore Marcos y Marcos, nella stessa traduzione e con prefazione di Marco Malvaldi

Corriere La Lettura 19.5.13
Ma dobbiamo imparare a convivere con il caso
Non c'è ordine prevedibile nel cosmo Eppure orientarsi rimane possibile
di Chiara Lalli


«Alea jacta est»: così s'intitola il capitolo zero del nuovo libro di Brian Clegg, Dice World. Science and Life in a Random Universe (Icon Books). Ed è proprio dai dadi, presenti sia nella frase attribuita a Giulio Cesare sia nel titolo del suo libro, che Clegg parte per condurci nel «caotico» mondo in cui viviamo, per indicarci le trappole in cui facilmente cadiamo e in cui qualche volta vogliamo cadere, perché ci sembra più rassicurante ipotizzare schemi inesistenti piuttosto che convivere con il peso del caso. Non che non vi siano strumenti per diradare la nebbia, come la statistica e il calcolo delle probabilità, ma sono strumenti difficili da maneggiare e spesso la nostra inettitudine pesa sulla valutazione del rischio. La cosiddetta fallacia del giocatore non ci inganna solo quando lanciamo una moneta o puntiamo sul 19 rosso, ma in ogni scommessa che facciamo, in ogni decisione che prendiamo. Non sono solo le nostre speranze — di vincere, di realizzare i desideri — a confondere il panorama: è facile scambiare una correlazione per la dimostrazione di un nesso causale. È facile lasciarsi sedurre da schemi ordinati e diventa sempre più difficile orientarsi nella complessità del mondo, considerando che, mentre noi siamo rimasti più o meno uguali a migliaia di anni fa, intorno a noi ci sono realtà inimmaginabili anche un paio di secoli fa.
Clegg si sofferma sul valore simbolico dei dadi: non costituiscono un modello del mondo reale, ma sono metafore che ci ricordano l'indifferenza della natura per i nostri desideri. Possiamo sperare con tutte le forze che esca un 6, possiamo invocare qualsiasi divinità o forza superiore, promettere in cambio della realizzazione della nostra richiesta sacrifici e impegni, ma il dado non è interessato, e ciò per noi è frustrante e spaventoso. È forse la frustrazione nel constatare come il mondo sia fuori dal nostro controllo l'aspetto più potente nella celebre affermazione di Albert Einstein: «Dio non gioca a dadi».
Le nostre convinzioni rassicuranti e l'idea meccanicistica di un ordine prevedibile sono sostituite dalla consapevolezza che davanti a noi spesso non abbiamo che imprevedibili possibilità. L'orologiaio non è solo cieco, parafrasando il titolo di un celebre libro di Richard Dawkins, ma è disinteressato al nostro destino.
Alea jacta est illustra bene anche l'irreversibilità, un gesto che simboleggia un punto di non ritorno. La metafora è potente. Lancio i dadi, non li controllo, non posso rendere le conseguenze, e lo stesso lancio, reversibili.
Clegg ricorda un romanzo di Luke Rhinehart, The Dice Man, in cui il protagonista rinuncia a prendere decisioni e si affida al lancio dei dadi, come fosse un'estrema reazione alla paura di dismettere un mondo teleologico. Un conto è rendersi conto della casualità, commenta Clegg, un altro rinunciare alla possibilità di prendere decisioni razionali. La casualità è il cuore pulsante dell'universo e noi dobbiamo imparare ad ascoltarlo. Così come dobbiamo imparare a usare i modelli, che ci servono perché sarebbe uno spreco enorme di energia non farvi ricorso. Siamo in grado di orientarci anche in assenza di moltissime informazioni. Non solo quando dobbiamo distinguere un pericolo da un incontro amichevole e formulare il conseguente comando: tigre/scappa, amico/salutalo. Un esempio banale e affascinante è come riusciamo a leggere un testo anche con parti di lettere mancanti o con i caratteri distorti: come quando un sito ci chiede di digitare correttamente quelle lettere e numeri storpiati (captcha) per dimostrare che non siamo software programmati magari per infestare di spam il web.
È fondamentale avere quest'abilità, perché quasi sempre ci manca buona parte delle informazioni necessarie, ma il risvolto negativo è che spesso immaginiamo modelli dove non ci sono. Oppure fatichiamo ad abbandonare quelli sbagliati: succede anche con le ipotesi scientifiche. Ci affezioniamo a un modello esplicativo e, anche se ci sarebbero sufficienti evidenze per scartarlo, non ne vogliamo sapere. Questo è il momento in cui la scienza si tramuta in superstizione.
Se già è un rompicapo quando le regole del gioco, pur complesse, ci sono e sono intellegibili, la faccenda si complica quando sono assenti. Davanti a un disastro o a una malattia, per esempio. «Perché proprio io?». Abbiamo bisogno di una spiegazione, tuttavia la ragione non c'è, pur essendoci ovviamente una causa. Ma non è il genere di causa di cui avremmo bisogno. È insopportabile pensare che sia successo a noi come mero risultato probabilistico, come quando mettiamo in modalità shuffle la nostra playing list e arriva la canzone che ci fa struggere: «Perché?». La risposta è: per caso, ma spesso ipotizziamo ben altri motivi. È proprio in questa assenza di risposta che si insinuano varie soluzioni consolatorie e sbagliate.

Corriere La Lettura 19.5.13
La sincronia è la trama del mondo
Calcio, lucciole e moti celesti: ecco la forma dell'informe
di Sandro Modeo


Per spiegare l'accesso delle due squadre tedesche, Bayern Monaco e Borussia Dortmund, all'imminente finale di Champions (Wembley, sabato prossimo, 25 maggio) sono state evocate soprattutto componenti extra-calcistiche, dalla programmazione ai bilanci oculati. E anche tra le spiegazioni specifiche (complessione fisica e/o condizione atletica) si è sorvolato su una connotazione non riducibile alla pura tattica: la sincronia, o meglio il sincronismo, dei movimenti d'insieme. Con modulazioni diverse ma con uguale rigore (il Bayern con un presidio più coercitivo, come a chiudere l'avversario in una camicia di forza, il Borussia con una sintassi più sinuosa e sfuggente), tutte e due producono sequenze coordinate nello spazio e nel tempo: per esempio, pressano (o scalano) con tutti i reparti simultaneamente, in modo da non lasciare corridoi e zone scoperte. È una dinamica che innesca nell'avversario, all'opposto, una de-sincronizzazione, inibendolo o mandandolo fuori giri. Lo si è visto nelle semifinali, col Barcellona degradato a squadra evanescente, ologramma muto di un team che sotto Pep Guardiola è stato il vertice proprio di un calcio altamente sincronico; e con il Real, specie a Dortmund, per larghi tratti sconnesso e frammentato. Simili ensemble calcistici sono solo uno tra i tanti casi di sincronia al nostro livello di organizzazione della materia (a mezzo tra il macro e il micro), insieme al canto all'unisono dei grilli e alle frequenze radio, al flusso elegante di un volo di storni (o di un banco di pesci) e al ticchettio degli orologi. Ma se rileggiamo un libro notevole del matematico Steven Strogatz (Sincronia, Rizzoli), vediamo come il principio della sincronia (un po' come la sua gemella spaziale, la simmetria) penetri a ogni grandezza scalare del mondo animato e inanimato, che si tratti di processi meccanici o scelte pianificate, di fenomeni spontanei o artifici culturali come la coreografia di un balletto. A livello fisico, la sincronia è estesa dalla dimensione cosmologica a quella quantistica. Da un lato, agisce silenziosa nei moti di rotazione-rivoluzione dei pianeti e dei loro satelliti; quelli della Luna, in particolare (che gira sul proprio asse alla stessa velocità angolare con cui ruota intorno alla Terra), spiegano perché ne vediamo solo la faccia e mai la nuca (il dark side). Dall'altro, si manifesta in modo controintuitivo e spiazzante nel «comportamento» delle particelle subatomiche, come succede nei superconduttori (dove gli «asociali» elettroni, a differenza che nei fili della nostra corrente domestica, viaggiano a coppie) e nei flussi-laser, dove i fotoni corrono a miliardi in un unico coro di luce. Ogni applicazione della superconduttività (dalle risonanze magnetiche alla memoria informatica) o del laser (dai lettori cd-dvd alle operazioni chirurgiche oculari) dipende quindi da sincronie-sincronizzazioni inaccessibili ai nostri sensi, e di cui sperimentiamo solo gli effetti. A livello etologico-biologico, il caso più suggestivo e istruttivo è quello delle lucciole che popolano le mangrovie lungo i fiumi del Sudest asiatico, descritte già dagli esploratori secenteschi come un'immensa estensione luminescente in accensioni/spegnimenti sincronizzati. Istruttivo perché ogni suo aspetto rivela una modalità del «respiro» sincronico: il ripetersi periodico di accensioni/ spegnimenti mostra come la sincronia sia spesso sovrapposta a una cadenza ritmica; la matrice sessuale del richiamo (emesso dai maschi) ricorda come sia invece uno schema adattativo (in questo caso una strategia riproduttiva) ; e il carattere progressivo della luminescenza (prima estesa a due lucciole, poi a tre, poi a piccoli gruppi, fino a saldarsi nell'unisono) ricorda come la sincronizzazione, a ogni livello, sia l'esito di un «assestamento», di una mediazione tra segnali emessi e ricevuti. Al riguardo, Strogatz trova un'analogia efficace: quella di un gruppo di jogging in mutuo aggiustamento, con alcuni corridori che rallentano e altri che accelerano. Nello specifico della biologia umana, la sincronia agisce in molte dinamiche quotidiane, affinate in milioni di anni: nelle cellule-pacemaker cardiache, cadenzando un'attività elettrica la cui sospensione si traduce in aritmie e a volte in fibrillazioni fatali; nell'orologio biologico con cui il nostro cervello (in particolare l'ipotalamo) coordina il ritmo sonno-veglia rispetto a quello luce-oscurità determinato dai movimenti della Terra (il celebre «ritmo circadiano» sfalsato dal jetlag) ; e nell'attività dei geni, specie di quelli regolatori, che plasmano l'embrione e il feto attivandosi o inibendosi, cioè ordinando alle cellule, attraverso i geni «strutturali», di dividersi-specializzarsi-morire, secondo luoghi e tempi prestabiliti, in un'orchestrazione finemente sincronizzata. Anche se forse l'esempio più insinuante (e perturbante) di sincronia biologica è l'emersione di una scena cosciente nel cervello, resa possibile — come dimostra il neuroscienziato Christoph Koch — dalla sincronizzazione dell'attività di neuroni di diverse regioni e di quella dei neurotrasmettitori. Una sincronizzazione (intesa come un'integrazione di informazione) posta a un preciso livello, sotto il quale il coro neurale rimane allo stato di cacofonia (come in certe fasi del sonno o nell'anestesia), e sopra il quale (come nell'attacco epilettico) il cervello viene sommerso da «scariche neurali iper-sincronizzate e autoalimentate». Utilizzando anche gli strumenti più rigorosi delle teorie del caos e della cosiddetta «fisica sociale» (lo studio delle regolarità e delle invarianze nei comportamenti collettivi, riconducibili a modelli geometrico-matematici) è possibile veder affiorare la sincronia addirittura in molti fenomeni socio-culturali, come i flussi del traffico stradale, l'aggregarsi della folla e la simpatia-empatia che contagia e diffonde una moda o una tendenza.
Qui la sintesi è concentrata nello «strano caso» del pubblico dei concerti dell'Europa orientale (Ungheria e Romania): suonata l'ultima nota, gli spettatori-ascoltatori si producono in un progressivo aggiustamento-assestamento, sincronizzando via via i battimani isolati (asincroni ed entusiastici) in un unisono «più cadenzato e cupo» (riconducibile, secondo una tesi maliziosa, a un retaggio dell'irreggimentazione sovietica). È un caso che richiama, di nuovo, l'accensione luminescente delle lucciole, sia per il carattere progressivo dell'affinamento sincronico, sia per l'auto-organizzazione flessibile prodotta dal basso, senza gerarchie né leader-guida. Del resto, gli ingegneri informatici, a metà degli anni Novanta, si sono ispirati proprio alle lucciole nell'elaborare «architetture decentralizzate» per temporizzare i circuiti di computer in modo più efficiente ed economico. Una simile trasversalità della sincronia ne rivela, alla fine, la natura profonda: insieme ad altri stati e dinamiche della materia (a partire dall'informazione), il respiro sincronico cerca di scremare ordine dal disordine in cui viviamo immersi, da un contesto cosmico tiranneggiato dall'entropia e teso ineluttabilmente alla «morte termica». Spontanea o cercata (che si tratti delle modifiche dei rapporti gravitazionali tra i moti planetari o del semplice unisono di una squadra di calcio), la sincronia è uno strumento per ricavare la forma dall'informe; per isolare arcipelaghi di senso (ma non necessariamente di significato) dal nonsenso.

Corriere La Lettura 19.5.13
Pistoia s'interroga sul moto perpetuo dell'Homo sapiens


Senza la spinta che lo induce a trasferirsi per esplorare nuove terre, l'Homo sapiens non avrebbe occupato l'intero pianeta. È quindi un tema di grande rilievo antropologico quello che funge da filo conduttore della quarta edizione del festival «Dialoghi sull'uomo» di Pistoia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. «L'oltre e l'altro. Il viaggio e l'incontro» è il titolo della manifestazione in programma nella città toscana dal 24 al 26 di maggio: una formula che chiama in causa la letteratura, l'etnografia, l'arte e lo spettacolo. Apre il programma il critico Attilio Brilli, uno dei massimi esperti di diari e romanzi di viaggio, e lo chiude il musicista Vinicio Capossela con lo spettacolo di racconti e canzoni «Antropotiko Tefteri», che raccoglie appunti di un itinerario intorno all'uomo: «tefteri», in greco moderno è il taccuino dove il negoziante tiene il conto dei soldi che il cliente gli deve, mentre il suffisso «tiko» fa riferimento a una musica nata tra gli esiliati, il «rebetiko». Al festival partecipano nomi prestigiosi come Marco Aime, Arjun Appadurai, Allan Bay, Erri De Luca, Francesco Guccini, Folco Quilici, Paolo Rumiz, Colin Thubron e il fondatore delle edizioni Lonely Planet, Tony Wheeler. Nella mattinata di sabato 25 maggio interviene Eva Cantarella sul tema «La curiosità di Erodoto». Nella serata dello stesso sabato tocca a Claudio Magris, che affronta la questione: «Il viaggio: andata o ritorno?». Le tre giornate pistoiesi, promosse dall'amministrazione municipale e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, prevedono venti appuntamenti, cui si aggiunge la mostra fotografica «Italiani in viaggio», curata da Luciana Senna con il materiale d'archivio raccolto dal Touring Club Italiano, che è aperta dal 24 maggio al 7 luglio nelle Sale affrescate del Palazzo comunale.

Corriere La Lettura 19.5.13
I viaggiatori
Abramo, la Genesi dell'Esodo
Il suo peregrinare anticipa la fuga degli ebrei dall’Egitto.
Ma è lontano dall’etica sessuale mosaica
di Marco Rizzi


Leggendo i capitoli 11-25 della Genesi, in cui ne viene raccontata la vicenda, Abramo non appare certo il tipo ideale del viaggiatore, almeno di quello moderno, così determinato e organizzato per giungere alla meta prescelta: il suo appare un vagare casuale e senza chiara direzione. I viaggi di Abramo iniziano al seguito del padre, che abbandona la natia Ur, vicino al Golfo Persico, per dirigersi con tutta la sua gente a nord ovest, lungo l'Eufrate, sino a Carran, l'odierna Harran nella Turchia meridionale. Qui, Abramo riceve l'ordine di Dio di rimettersi in cammino verso sud, in direzione di Aleppo e Damasco, per giungere a Sichem, all'incirca l'odierna Nablus in Cisgiordania, dove Dio gli rivela che quella terra sarebbe stata concessa alla sua discendenza.
Per il momento, però, Abramo si sposta ancora più a sud, a Betel, pochi chilometri a nord del luogo dove in seguito sorgerà Gerusalemme; neppure questo è il punto d'arrivo, perché subito passa nel deserto del Negev, da dove una carestia lo spinge in Egitto. Ripartito da lì, Abramo risale alla valle del Giordano, che Dio gli impone di percorrere in lungo e in largo, perché quella era la terra promessa alla sua discendenza.
Nel corso di queste ulteriori peregrinazioni si verificano gli episodi più noti: l'incontro con Melchisedek e quello con i tre misteriosi viaggiatori alle querce di Mamre (non lontano dall'odierna Hebron, dove Abramo sarà sepolto); la distruzione di Sodoma; la nascita di Ismaele dalla serva Agar e la loro cacciata, per la nascita del tanto atteso Isacco.
A questo punto, viaggio nel viaggio, Dio impone ad Abramo di ripartire nuovamente; questa volta con una meta e uno scopo ben precisi, il monte che Dio stesso avrebbe indicato, su cui sacrificare il figlio amato. Presi con sé Isacco e due servi, Abramo viaggia per tre giorni, compiendo l'ultimo tratto di cammino da solo con il figlio. Ancora, l'esito non è quello previsto: Dio vede nel paziente incamminarsi di Abramo tutta la misura della sua fede e ne salva il figlio, concedendo ad entrambi di discendere dal monte, per tornare da dove erano partiti.
Con tutta probabilità, nella narrazione biblica sono confluiti racconti diversi, tramandati nella memoria dei clan nomadi presenti nelle regioni mediorientali durante l'età del bronzo, tra il XX e il XIII secolo a.C., da cui in seguito si sarebbero originate le tribù di Israele. Si spiegherebbero così le contraddizioni e le ripetizioni, nonché la presenza di comportamenti e costumi molto lontani dalla successiva etica biblica: ad esempio, Abramo cede un paio di volte la propria moglie al signore del territorio su cui si trova a passare, per evitare conseguenze peggiori per sé; Lot, poi, non esita a offrire agli abitanti di Sodoma le proprie figlie, già promesse spose, pur di salvare gli ospiti che aveva accolto nella sua casa dalle attenzioni per cui i suoi concittadini andavano famosi (e per cui, appunto, vennero inceneriti dal cielo); o la pratica del concubinato, nel caso di Abramo non limitato alla sola Agar, bensì esteso a un numero imprecisato di donne, che si aggiungevano alla seconda moglie, Chetura, presa in sposa dopo la morte di Sara e madre di altri sei figli.
Una lettura più teologizzante vede invece in questo racconto la retroproiezione mitica della vicenda dell'esodo dall'Egitto; per far risalire indietro nel tempo l'identità del popolo ebraico che era nato invece in quel frangente, sarebbe stata costruita la narrazione di un altro esodo immediatamente successivo alla creazione del mondo, appunto quello di Abramo; entrambi i viaggi, così, avevano la medesima meta, quella terra che il popolo d'Israele rivendicava ora per sé.
Al di là delle possibili spiegazioni storiche, quello di Abramo è però diventato un potente simbolo del viaggio, di quel viaggio che ha trovato la migliore definizione nelle parole di Antonio Machado: «Caminante no hay camino, / se hace camino al andar...» («Viaggiatore, non esiste viaggio, il viaggio si fa andando»). Il viaggio che percorriamo tutti noi.

Corriere La Lettura 19.5.13
I viaggiatori
Il Marco Polo dei musulmani
di Francesco Surdich


Tra i viaggiatori musulmani del periodo medievale un ruolo di primo piano ebbe Ibn Battutah, nato nel 1304 a Tangeri da una famiglia berbera di giudici islamici che godeva di una posizione rispettabile nell'ambito dell'élite colta della città. Nel giugno del 1325 intraprese l'hajj (pellegrinaggio) alla Mecca e Medina; però quella che avrebbe dovuto essere un'esperienza importante ma relativamente breve lo tenne invece impegnato, fra viaggi e pause di studio e di riflessione, fino al 1349, quando, raggiunta la corte di Fez, fece un ulteriore viaggio prima in Spagna e poi nell'impero mandingo, sul Niger, per rientrare in Marocco nel 1353 e porre così fine a ben 28 anni di peregrinazioni, dipanatesi attraverso oltre 120 mila chilometri.
Partito, come abbiamo detto, da Tangeri, giunse ad Alessandria d'Egitto dedicandosi all'esplorazione del Cairo e della vallata del Nilo prima di decidere di procedere verso la Mecca, anche se poi, a causa di un conflitto scoppiato nella regione, dovette rientrare al Cairo e raggiungere l'Arabia solo in un secondo momento, attraverso la Palestina e la Siria. Dopo essere arrivato a Medina e alla Mecca percorrendo la zona dell'Ijaz e dopo aver compiuto il pellegrinaggio secondo il complesso rituale da lui minuziosamente descritto, fra il novembre 1326 e il settembre 1327 dette inizio a quella lunga serie di viaggi nel mondo orientale, dei quali sarà possibile dar conto solo a grandi linee, che lo avrebbero reso universalmente famoso, facendo inizialmente tappa nella Persia occidentale.
Successivamente, tornando altre due volte in pellegrinaggio alla Mecca, visitò in una prima fase lo Yemen, dove cercò di impiantare un'attività come importatore di spezie, e, in un secondo momento, l'Anatolia. Da questo territorio proseguì alla volta della Crimea e del Mar d'Azov, per risalire prima il Volga e proseguire poi via terra attraverso la Turchia, allo scopo di scortare una principessa, alla volta di Costantinopoli, da dove sarebbe tornato ancora una volta in Oriente per giungere, il 12 settembre 1333, nella pianura dell'Indo attraverso la Corasmia, la Transoxania, il Khorasan e l'Afghanistan.
A Delhi, dove trascorse una dozzina d'anni, fu spettatore non solo della vita di corte, ma anche dei comportamenti del sovrano Muhammad ibn Tughluq, che gli permise di trascorrere un periodo relativamente tranquillo, alternando compiti di vario genere conferitigli da questo sovrano a periodi di studio e ritiro spirituale, sino a quando, nell'agosto 1341, ricevette l'incarico di recarsi come ambasciatore alla corte mongola della Cina, però non giunse a destinazione per una furiosa tempesta che distrusse le giunche destinate alla traversata prima che potesse partire da Calicut. A quel punto decise di proseguire verso i territori indiani, percorrendo il Malabar e il Bengala, prima di rientrare a Calicut e imbarcarsi, alla fine del 1342, alla volta delle Maldive, dove ricoprì per alcuni mesi l'incarico di qadi, giudice. Da qui, alla fine dell'agosto 1344, proseguì prima verso Ceylon e poi verso la foce del Gange, da dove, compiendo un ampio giro attraverso il Bengala, ridiscese verso l'arcipelago malese facendo scalo nell'isola di Sumatra. Fra l'estate e l'autunno del 1346 si diresse in Cina, secondo il suo resoconto, che propone però al riguardo un itinerario alquanto vago e talvolta sconcertante, privo fra l'altro di precise indicazioni cronologiche. Il viaggio di ritorno si concluse a Fez l'8 novembre 1349.
Subito dopo la conclusione del successivo viaggio di Ibn Battutah nel Sahara, il sultano affidò a un giovane letterato di origine andalusa, Ibn Juzayy il compito di scrivere la Rihla (cronaca di viaggio), dal titolo Dono agli studiosi delle curiosità dei paesi e delle meraviglie viste nei viaggi, dell'eccezionale esperienza di questo infaticabile viaggiatore, redatta sulla base del racconto del protagonista, alla quale il compilatore cercò di dare dignità letteraria aggiungendo probabilmente alcuni passaggi.

Corriere La Lettura 19.5.13
I viaggiatori
L'antropologo? Spia del Papa
di Adriano Favole


Nel 1995, mentre stava compiendo la sua prima ricerca antropologica tra gli oksapmin, nelle alte terre di Papua Nuova Guinea, Lorenzo Brutti scoprì che i nativi lo sospettavano di essere una spia del Vaticano. L'accusa nasceva in primo luogo da uno stereotipo: per molti abitanti della Melanesia, l'Italia e il Vaticano sono entità sovrapponibili. In quanto italiano, l'antropologo doveva essere di fede cattolica. In quegli anni Giovanni Paolo II fece due viaggi pastorali in Nuova Guinea e i predicatori protestanti denunciavano nei villaggi la sua «invadenza». In alcune parti dell'isola si era persino diffusa una profezia millenaristica, secondo cui l'Anticristo (nella persona del Papa!), al volgere del secolo, avrebbe preso il potere su tutto il mondo oceaniano.
Nonostante avesse provato a spiegare la sua condizione di ateo (parola che tuttavia non aveva equivalenti nelle lingue locali), Lorenzo Brutti finì per essere considerato un emissario del Papa, anche perché, da antropologo «ficcanaso», se ne andava in giro a fare strane domande alla gente, a misurare le loro ricchezze (il suo progetto includeva una mappatura delle coltivazioni), e aveva persino mostrato delle foto che lo ritraevano, insieme ad alcuni famigliari, sullo sfondo della cupola di San Pietro!
L'episodio mostra che il viaggio alimenta le curiosità e le narrazioni non solo degli antropologi e dei viaggiatori, ma anche dei nativi che sono, ugualmente, protagonisti dell'incontro. Se la letteratura di viaggio produce per lo più racconti (scritti) per voce sola, le narrazioni locali sono molteplici. Le parole dei nativi, affidate un tempo solo all'oralità, sono rimaste a lungo silenti. Con qualche illustre eccezione. Il capolavoro di Victor Segalen, il medico-scrittore francese che andò a vivere a Tahiti nel 1902, Le isole dei senza memoria (Meltemi), ha come protagonista e narratore un nativo. Terii vive ai primi dell'Ottocento, all'epoca dell'arrivo dei primi missionari. Questi piritané («britannici»), o uomini-dal-nuovo-linguaggio, colpiscono i tahitiani per il pallore, per la seriosità e il controllo delle emozioni: a Terii i missionari appaiono degli stregoni. Sono i responsabili del sortilegio che gli annebbia la memoria, proprio mentre recita le lunghe genealogie sul mara'e (tempio). È il tramonto della parola nativa, la scintilla del lungo oblio in cui cadranno lingua e cultura locali.
L'antropologo americano Marshall Sahlins ha dedicato alcuni celebri lavori alle rappresentazioni di James Cook elaborate dagli hawaiani nel corso dei primi incontri. Accolto trionfalmente dai nativi nei suoi primi due approdi, Cook fu poi inspiegabilmente ucciso sulla spiaggia di Kealakekua nel febbraio del 1779. Secondo la ricostruzione di Sahlins, Cook fu identificato inizialmente con il dio Lono, il «fecondatore», perché si presentò all'orizzonte delle isole proprio nei giorni in cui si celebrava il Makahiki, il festival che inaugurava la stagione delle coltivazioni. Il suo inaspettato ritorno, a pochi giorni dalla partenza, dovuto alla rottura dell'albero di trinchetto della nave Resolution, infranse lo schema interpretativo dei nativi. Cook non era più un dio, ma un usurpatore il cui mana (il «potere», la «potenza») andava acquisito attraverso la sua morte rituale e reale al tempo stesso.
Da Segalen a Sahlins, sono molti gli autori occidentali che si sono immersi così in profondità nelle culture del Pacifico da cogliere le narrazioni verosimilmente elaborate nel passato dai nativi sui viaggiatori europei. Nell'attuale clima postcoloniale, tuttavia, una nuova generazione di intellettuali, antropologi e scrittori nativi (dalla samoana Sia Figiel al tongano Epeli Hau'ofa, al maori Witi Ihimaera) si sono incaricati di raccontare fatti e misfatti dei viaggi e dei viaggiatori papalagi («bianchi») nei Mari del Sud. La parola negata di Terii torna a manifestarsi, questa volta anche nelle scritture, valicando i confini delle isole.

Corriere La Lettura 19.5.13
I viaggiatori
Il castoro nel tunnel del futuro
di Giulio Giorello


«Sì, viaggiare, evitando le buche più dure», cantava Lucio Battisti: un prudente entusiasmo raccomandato persino dal filosofo Cartesio, che a suo tempo consigliava ai viaggiatori di rispettare usi e costumi locali; senza venir meno, però, alla propria indipendenza di pensiero. Si poteva viaggiare per interesse o per curiosità, per spirito di conquista o per salvare la vita e i beni. Ma erano viaggi anche le escursioni nei libri scritti da poeti, teologi e metafisici. E per il filosofo del Discorso sul metodo (1637) il viaggio più interessante era quello compiuto senza uscire dalle quattro mura della propria stanza, quando metteva su carta il mondo nuovo che scienza e tecnica avrebbero donato all'umanità. Una volta che il «giusto metodo» avesse affinato la coscienza in modo da produrre «una infinità di congegni», gli esseri umani avrebbero acquisito il controllo di fuoco, aria, acqua e terra, e si sarebbero trovate perfino «regole per la medicina più sicure di quelle avute finora», capaci di sconfiggere le più intrattabili malattie e lo stesso «indebolimento della vecchiaia».
Oggi sperimentiamo sulla nostra pelle il potere dei «congegni» che Cartesio aveva semplicemente sognato. Ci manca però, come mancava anche a lui, una macchina del tempo capace di trasferirci fisicamente nel futuro, per farci vedere con gli occhi del corpo le realizzazioni della mente umana.
Gli scienziati di oggi, comunque, sanno essere visionari almeno quanto il filosofo vissuto quasi quattro secoli fa. Sfruttando versioni della teoria della relatività prefigurano viaggi nel futuro effettuati utilizzando dei tunnel nello spazio-tempo (tecnicamente detti wormholes, alla lettera «buchi di tarlo»). In breve, si tratterebbe di costruire un congegno in cui dovrebbe calarsi il viaggiatore, che finirebbe con il provare l'esperienza di ritrovarsi in una società che per lui rappresenta quella del futuro, in quanto all'esterno della sua macchina il tempo sarebbe trascorso con ritmo più spedito che all'interno. Sarebbe altrettanto possibile congetturare dei viaggi nel passato. E come mai i visitatori che dall'avvenire tornano a curiosare nel mondo dei loro «antenati» non sono già qui? È un po' quel che si chiedeva Enrico Fermi a proposito dell'assenza di extraterrestri supertecnologici venuti a rovistare nel nostro pianeta!
Albert Einstein, che detestava la sola idea di un viaggio nel tempo — mentre il suo grande amico, il logico Kurt Gödel lo stuzzicava su questo punto —, soleva concludere che Dio non avrebbe mai permesso un simile pasticcio... cosmologico.
Al di là delle intenzioni dell'Onnipotente, l'umana fantascienza è disposta a sorvolare sulle difficoltà logiche, fisiche o tecnologiche pur di spedire i suoi eroi a dare un'occhiata al futuro, facendoli diventare così i signori non solo della materia, ma anche di quella «cosa» impalpabile e sfuggente che è il tempo. Quando o se ritornano, costoro ci raccontano in realtà di meraviglie che sono fatte della stessa stoffa dei nostri sogni, si tratti di desideri, di speranze o di paure: società in cui il progresso ha liberato l'umanità dal peso delle malattie o ha invece creato forme più subdole di oppressione, età dell'oro senza più fame e violenza o incubi globali in cui regnano caos e terrore.
Ai tempi di Cartesio non pochi osservatori della natura erano colpiti dalle «prodigiose» capacità di adattarsi alle sfide dell'ambiente mostrate dai vari animali; ma nemmeno le specie più ingegnose sembravano davvero in grado di viaggiare con la fantasia, oltre che con il corpo. Cartesio avrebbe potuto concedere che una farfalla o, se è per questo, un coccodrillo fossero capaci di astuti stratagemmi nelle loro escursioni in cerca di cibo o di sesso; ma avrebbe escluso che essi provassero il gusto del viaggio. Oggi siamo un po' meno sicuri di questa diversità, ma non c'è nessun castoro che sia riuscito a progettare un aereo o a raccontare di una macchina del tempo.

Corriere La Lettura 19.5.13
Polonia e Italia,  sorelle prima di Montecassino


Se c'è una patria gemella dell'Italia è la Polonia. Se ne ha traccia anche nell'Inno di Mameli, che canta «il sangue polacco» versato per la nostra libertà con riferimento alla legione di Adam Mickiewicz, che aveva partecipato alla Prima guerra d'indipendenza. Del resto nella Marcia Dabrowski, divenuta nel 1927 l'inno nazionale polacco, si parla del ritorno «dalla terra italiana alla Polonia». La marcia era quella dei volontari che avevano combattuto al seguito di Napoleone e che nel 1797 sarebbero tornati per riscattare la loro patria. Forse la prendiamo alla larga, ma ci sembra doveroso inserire in questa tradizione il bel libro che Luciano Garibaldi ha appena dedicato a Gli eroi di Montecassino. Storia dei polacchi che liberarono l'Italia (Mondadori, pp. 176, 11). Il nucleo centrale sono le pagine che portano alla mattina del 18 maggio 1944, in cui la biancorossa bandiera polacca del II Corpo, guidato dal generale Wladislaw Anders, viene issata sulle rovine dell'abbazia benedettina, inutilmente rasa al suolo dai bombardieri Usa su pressione del neozelandese Freyberg. Furono complessivamente 860 i caduti polacchi in quelle giornate e riposano con Anders nel loro cimitero militare a Montecassino. Ma la parte più interessante (e dolorosa) del libro di Garibaldi narra come si giunse alla costituzione del II Corpo d'armata di Anders, un ufficiale di prim'ordine che era sfuggito ai massacri compiuti dai sovietici e alle fosse di Katyn e, liberato per esigenze militari dalla prigionia in Urss, aveva avuto il coraggio di fronteggiare Stalin: «Che fine hanno fatto i 12 mila ufficiali polacchi scomparsi nel nulla?». Alla fine del 1942 partirono dai campi di prigionia russi soldati e civili polacchi alla volta della Persia: in tutto più di 100 mila persone che vennero assistite e formate nei campi forniti da Reza Pahlevi. Nel dicembre 1943 l'esercito di Anders, che voleva contribuire a sconfiggere il nazismo per poi liberare la Polonia (anche dai sovietici), sbarcò in Puglia. Di qui l'avanzata verso Montecassino. La storia poi non andò come Anders e il governo polacco in esilio avevano immaginato.

Corriere La Lettura 19.5.13
Figli di asteroidi e glaciazioni pensiamo con gli emisferi invertiti
Michael Gazzaniga ci spiega gli eventi casuali che ci hanno portato a essere raccoglitori-cacciatori, monogami, confusamente razionali
di Antonio Pascale


Il libro di Michael Gazzaniga, Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio (Codice edizioni) ci racconta, con buona capacità divulgativa, lo stato dell'arte neuroscientifica: cosa abbiamo capito della nostra mente. Come raffiguriamo il mondo? Siamo liberi? Quello che ho dentro (in fondo all'anima, per chi ci crede, o in fondo alla coscienza) è il prodotto di un omino che muove i fili, appunto, irriducibile perché sincero e autentico? Fino ad ora le suddette questioni sono state patrimonio delle scienze umanistiche e tuttavia, con un po' di umiltà, bisogna riconoscere che le recenti scoperte della neuroscienza sono molto affascinanti. Lo è anche il percorso metodologico. Infatti Gazzaniga ci suggerisce: per cercare queste risposte dobbiamo indagare non solo sulle reti neuronali — i capitoli più belli del libro ci spiegano che grazie all'emisfero destro elenchiamo le cose che vediamo, poi, con il sostegno dell'emisfero sinistro, le interpretiamo e spesso le interpretazioni dell'emisfero sinistro non concordano con quello destro — insomma, non solo su questo, ma è necessario esaminare anche i caotici accidenti che ci hanno portato fin qui.
La nostra mente non è una tabula rasa, pura e scintillante, al contrario è un prodotto derivato, il derivato di una particolare e caotica e contaminata storia evolutiva. Quindi, per raccontare il libro, è utile un breve riassunto dei fatti fin qui accertati. Il Big Bang risale a 13,7 miliardi di anni fa, la Terra è vecchia di 4,6 miliardi di anni, la vita sul nostro pianeta è apparsa (relativamente) presto, 3,8 miliardi di anni fa. Circa 130 milioni di anni fa, le gimnosperme (sequoie, conifere) cedettero il posto alle angiosperme (le piante da fiore). Le angiosperme si diffusero con grande facilità e crearono un sottobosco variegato, cioè con più nicchie evolutive: termiti, formiche, api e altri insetti eusociali — che come noi proteggono il nido e il territorio — nascono allora. Circa 5 milioni di anni fa un cambiamento climatico (il sollevamento dell'istmo di Panama) fu causa di un'era glaciale, così l'ambiente arboreo — umido e ombroso — cambiò aspetto: diventò savana. In quest'ambiente alcune scimmie antropomorfe, che avevano sviluppato un'andatura bipede, acquisirono un vantaggio evolutivo. Bipedismo significa mani libere. Certo, anche mal di schiena e restringimento del canale del parto. Ovvero cuccioli con cervello piccolo. Ma in questa storia costi e benefici vanno considerati insieme: grazie all'infanzia e all'adolescenza il nostro piccolo cervello è stato (ed è) capace di imparare tanto. Di contro i cuccioli d'uomo necessitano di protezione, motivo per il quale si è imposta la coppia monogama (una deformazione, almeno rispetto alle altre specie). Per un milione e 200 mila anni il genere Homo è stato cacciatore-raccoglitore — la nostra mente si è sviluppata in gran parte allora, in funzione di un ambiente completamente diverso da quello attuale. Finché, 10 mila anni fa, siamo diventati agricoltori. In questi millenni ci siamo battuti contro l'imponderabile e per cercare dei rimedi abbiamo dato la priorità al cosiddetto sistema uno (una modalità di ragionamento che ha origine nel Paleolitico, fondata sulla velocità, sul basso consumo di glucosio e sulla capacità di arrivare velocemente, tramite associazioni, alla conclusione). Invece, il sistema due (quello lento, analitico, ad alto consumo di glucosio), utile per ottenere misure più precise e quindi rimedi migliori, è entrato in funzione con difficoltà, e nonostante l'illuminismo e la nascita di un metodo (ragione fa rima con dimostrazione), siamo ancora qui a barcamenarci. Ci chiediamo: l'universo ha uno scopo? E qual è? Quello di creare degli esseri senzienti? Molte religioni forniscono questa spiegazione, tuttavia reclamano un accesso alla conoscenza fondato solo su dichiarazioni. La verità è che l'universo è inefficace nel produrre umani. Come dire, veniamo fuori dopo che il 99,9999 per cento della storia cosmica si è già svolta. Per di più dobbiamo pure ringraziare catastrofi e asteroidi: se i dinosauri fossero vivi, noi saremmo qui? Insomma, chi siamo rispetto a tutto questo, chi siamo noi che per una settantina d'anni passeggiamo su questa Terra? Buona domanda. Siccome abbiamo strumenti nuovi, non ci resta, dice Gazzaniga, che analizzare la singole parti della nostra mente. Che cosa otteniamo? Risposte definitive no. Ma una visione ad ampio spettro e misure più precise, quelle, il libro di Gazzaniga ce le garantisce.

Repubblica 19.5.13
Quella prima stiratrice in posa per Degas pittore di donne che non amava le donne
di Melania Mazzucco


L’epoca conta, diceva. Se fosse vissuto nel ’600, avrebbe dipinto opulente Susanne al bagno; all’inizio dell’800, odalische, come il venerato Ingres: corpi sognati, senza rapporto con la vita, solo con l’arte stessa. Ma Degas era nato nel 1834 e quando pose fine al suo apprendistato i pittori uscivano dai musei e piantavano il cavalletto sotto il cielo. Cercavano la verità feriale. L’aspra realtà. E i naturalisti scrivevano tetre storie di operai, prostitute e lavandaie: l’arte non doveva più escludere i lavoratori. La modernità imponeva una nuova forma di bellezza, e talvolta esibiva la bruttezza, l’energia grezza della vita. Degas era un borghese ricco e di ottimi studi: «nato per disegnare», si era formato copiando e assimilando i capolavori del Rinascimento, perfezionando la fermezza della linea, il modellato, la figura; rivendicava la continuità della tradizione e in politica divenne prudente. Eppure si ritrovò, senza esitare, dalla parte dell’innovazione. La sua arte non tendeva all’eloquenza né alla poesia, disse Valéry: non cercava che la verità nello stile e lo stile nella verità.
In disparte, protetto dagli occhiali con le lenti blu, libero da scuole e gruppi (benché sodale con gli impressionisti), influenzò la pittura (europea e non solo) fino a ’900 inoltrato. Credeva solo alla disciplina, al rigore, al mestiere: lavorò anche quando la malattia agli occhi lo costrinse ad abbandonare i pennelli e i colori a olio per dedicarsi al pastello. Poiché «l’arte non si espande ma si riassume», la sua opera si concentra su pochi soggetti: corse di cavalli; ballerine (sul palco dell’Opéra, a lezione o esauste dietro le quinte, in un’infinità di scorci e variazioni); teatri, caffè, uffici, modiste; stiratrici e infine solo donne senza attributi o identità: nude con tinozza.
Le stiratrici occupano la sua fantasia per una quindicina d’anni. Nel 1874, a Edmond de Goncourt che visita il suo studio ingombro di Stiratrici (5 le esporrà nella II Mostra Impressionista del 1876), infligge la spiegazione sulla differenza fra il “colpo di ferro appoggiato” e quello “circolare”: lo affascina la dura vita di quelle donne. Degas le studia al lavoro: lo interessa la loro manualità e la materia luminosa delle biancherie. Ma col passare del tempo l’osservazione partecipe si muta in entomologico distacco: le stiratrici diventano plebee sbadiglianti, sfatte dalla fatica, condannate all’alcolismo.
La stiratrice di Monaco è la prima, e più grande, della serie. La raffigurazione è frontale: in seguito Degas sceglierà punti di vista più ricercati, col soggetto di tre quarti o di spalle. È una sinfonia in bianco, orchestrata su pochi altri colori: le sfumature del rosa e del bruno – quasi un dagherrotipo. La nota dominante allude anche al vapore che satura l’ambiente. Pennellate larghe e dense coprono la superficie della tela. La ragazza del popolo, giovanissima, paffuta, polposa, stira un lenzuolo: la stoffa, lucida, lascia intravedere un ricamo vegetale. Forse il lenzuolo di un corredo nuziale, ma non il suo: non potrebbe permetterselo.
Degas, nevrotico dromomane, esplorava volentieri i quartieri operai, curiosava in modesti appartamenti bui. Si documentava con scrupolo. Ma qui – come in altri suoi ritratti – l’ambiente resta sommario e indefinito: la biancheria, appesa sui fili ad asciugare, forma la parete di fondo che serve a far spiccare più netta la figura della stiratrice. Bocca rossa, capelli neri, pelle lunare, indossa una gonna scura e un corpetto bianco scollato. Gli occhi neri assonnati rivolti verso di noi. Ha l’espressione intimidita e però fiera di chi s’è scoperta degna di posare per un artista.
Degas, che a van Gogh sembrava un notaio e a Goncourt un ipocrita con lo sguardo obliquo da assassino, era brutale con le sue modelle: le rimproverava di mutare posizione senza permesso e spesso imprecava, insultava. Nella fase tarda, semi-cieco, aveva bisogno di toccarle, di averle sempre sotto mano. Qui, invece, si è sistemato davanti al tavolo da lavoro: alla giusta distanza. La ragazza si sforza di restare immobile. Ma non può. Così Degas non riesce a stabilire la posizione delle sue braccia e della mano destra sul ferro da stiro. E forse nemmeno vuole. È la dinamica del gesto che lo interessa. Lascia visibili sulla tela i pentimenti – l’ombra irreale del braccio nella postura scartata. E la mano sul ferro (sdoppiata) sembra in movimento, come se due fotogrammi fossero stati sovrapposti. La ragazza si muove, il pittore si muove: si guardano. La corrente di empatia che passa dall’uno all’altra diventa luce accecante.
Degas – che non si sposò mai, per mancanza di passione, e visse con la fedele governante Zoé Cloisier – non è ancora il cinico celibe attempato che disegna laide maîtresse nei bordelli, o donne nude mentre si lavano i piedi o escono dalla tinozza, di cui coglie la pienezza delle forme da angolazioni inedite, talvolta crudeli. La sua stiratrice dalle bianche braccia ha ancora la grazia della Lattaia di Vermeer.
Ma attenzione. L’arte è artificio, diceva Degas. Richiede malizia, furbizia e inganno, come un crimine. Perché una realtà sembri vera, bisogna che sia falsa. La sua non era affatto un’arte spontanea. Catturava il vero dal vivo durante la posa, ma poi lo costruiva con l’ausilio della memoria.
La Stiratrice sembra un’istantanea, ma non lo è. È una scheggia di vita quotidiana ricreata con la freschezza del pennello – con l’analisi e l’immaginazione.
Degas ha dato all’anonima stiratrice parigina il volto di Emma Dobigny, dolce modella che dipinse altre volte, e che posava anche per Corot e Puvis de Chavannes. Forse il “ritocco” è una forma di esorcismo, di distanziazione. Dopo la catastrofica guerra franco-prussiana e i massacri della Comune, il pittore si attardò senza scopo apparente in Louisiana. Da lì, nel 1872 scrisse al suo amico Tissot di ritenere che «una stiratrice parigina dalle braccia nude» valga più di tutta la notevole bellezza di New Orleans. Fu la frase più gentile che questo distaccato pittore di femmine ebbe mai per una donna.

Edgar Degas: La stiratrice (1869-72 circa) Monaco Neue Pinakothek

Repubblica 19.5.13
Egoaltruismo
Fare del bene agli altri non ha nulla a che vedere con la generosità: è e deve essere un impulso razionale, scientifico
Ecco come Philippe Kourilsky ha ribaltato la morale comune per combattere il darwinismo sociale del liberismo e la sua “falsa filantropia”
di Fabio Gambaro


La nostra libertà dipende sempre dalla libertà degli altri. Non solo perché è limitata da quella. Ma perché quella contribuisce a costruire la nostra Senza di essa, la nostra libertà non esiste
L’atteggiamento caritatevole è un atto nobile. Prendete Bill Gates. Ma è variabile e discrezionale. Occorre costruire un sistema solido, fondato sul dovere e non sul sentimentalismo

L’altruismo è la deliberata attenzione prestata da un individuo alle libertà individuali dell’altro, con la deliberata intenzione di difenderle e svilupparle ulteriormente. Philippe Kourilsky definisce così il centro di una riflessione teorica che, prendendo le mosse dall’ambito della scienza, ha investito il terreno della filosofia, dell’economia e della politica. La novità di questa riflessione — che si è concretizzata nelle pagine del Manifesto dell’altruismo, cui oggi viene ad aggiungersi Il tempo dell’altruismo (Codice, pagg. 150, euro 17, trad. di Cristina Romano, con un’introduzione di Amartya Sen) — è racchiusa nell’aggettivo “deliberata”. L’attenzione e l’intenzione devono essere volontarie e soprattutto razionali, totalmente scevre da ogni impulso di generosità o tensione emotiva: l’altruismo deve essere un puro atto dettato da considerazioni intellettuali, un altruismo “scientifico”.
Professore d’immunologia molecolare al Collège de France, membro dell’Accademia delle Scienze e presidente onorario dell’Institut Pasteur, Kourilsky ricorda che, di fronte alle immense sfide che ci attendono, non ci si salva mai da soli, motivo per cui l’altruismo diventa un principio indispensabile e irrinunciabile. La sua è una difesa intelligente e appassionata di una prospettiva fondata sulla cooperazione solidaristica, che vuole rimettere in discussione l’individualismo degli ultimi decenni. Un individualismo egoisticamente aggressivo frutto di una visione del pensiero liberale sottratta a ogni progettualità collettiva e abbandonata alla tirannide del darwinismo sociale. Per questo nella tensione critica tra l’io e gli altri, Kourilsky fa dell’altruismo un imperativo categorico, un dovere etico, la cui attuazione non si risolva solo in atti di generosità. Per l’immunologo, solo ripartendo da un altruismo razionale, scientifico e anaffettivo, sarà possibile non farsi travolgere dalle minacce economiche, sociali ed ecologiche prodotte dalla crisi. Come Amartya Sen o Joseph Stiglitz, egli ricorda che l’economia non può fare a meno di una dimensione etica e invoca un “liberalismo altruista” in grado di superare la competizione a tutti i costi, la centralità dell’homo oeconomicus e la redditività come metro di ogni relazione umana. Lo studioso, che viaggia di continuo tra Parigi e Singapore, dove ha creato un istituto internazionale di ricerca sull’immunologia, è oggi alla Fiera del libro di Torino, dove partecipa a un dibattito su questi temi.
«Per Auguste Comte», spiega, «l’altruismo è una forma d’amore disinteressato capace d’investire l’ambito della morale come quello della politica. Tale concezione dell’altruismo fa però appello alla generosità, all’empatia e più in generale ai sentimenti. Io invece difendo una definizione razionale, che, a prescindere da ogni sentimento, fa dell’altruismo un dovere per ogni individuo».
L’altruismo un dovere?
«La nostra libertà dipende sempre dalla libertà degli altri. Non solo perché la libertà di ciascuno è limitata da quella altrui, ma soprattutto perché la libertà degli altri contribuisce a costruire la nostra libertà. Senza la libertà di chi ci sta attorno, la nostra libertà non esiste. A che serve essere liberi di comprare il pane se non c’è un panettiere che è libero di sfornarlo? Se la mia libertà dipende da quella degli altri, è mio interesse contribuire alla libertà altrui. È, appunto, un dovere».
Quindi l’altruismo è cosa diversa dalla generosità?
«La generosità è sempre discrezionale. Si colloca nell’ambito delle libertà. L’altruismo è dovere accompagnato dal criterio della proporzione. Se le mie libertà sono più sviluppate di quelle di un altro, il mio dovere d’altruismo dovrà essere sviluppato di conseguenza».
Perché diffidare della generosità?
«L’economia ultraliberale fa appello alla generosità per ridimensionare lo stato sociale. La usa come un alibi. Ma non si può fondare un sistema sociale sulla generosità individuale, dato che questa è sempre variabile e dipendente dall’emotività. Si parla spesso della generosità di Bill Gates che ha finanziato campagne di vaccinazione. Ma se Bill Gates, come François Pinault, avesse investito in opere di artisti contemporanei, cosa sarebbe successo ai bambini senza le vaccinazioni? La generosità è un atto nobile, ma è una libertà che possiamo scegliere di esercitare o meno. Per costruire un sistema solido occorre fare appello all’altruismo, un dovere che, lontano da ogni sentimentalismo, nasce da un’analisi razionale della realtà e delle nostre relazioni con gli altri».
Fare appello all’altruismo significa sottolineare l’importanza della responsabilità individuale?
«Certo. Quando si parla della libertà come costruzione sociale, si pensa di solito alla società che crea lo spazio e le condizioni della libertà di ciascuno. È invece importante sottolineare la partecipazione di ogni individuo che deve assumersi le proprie responsabilità. Ognuno deve essere capace di valutare da solo il proprio grado d’altruismo. Più c’è libertà, più è necessaria la responsabilità».
Lei auspica l’avvento di un “liberalismo altruista” in opposizione all’ultraliberalismo darwiniano.
«La nozione di libertà che fonda il liberalismo non contempla il dovere dell’altruismo. Ed è molto grave. Negli ultimi due secoli, questo vizio di fondo è stato in parte mascherato dalla presenza della cultura religiosa, che si è fatta carico dell’attenzione agli altri. Un individualismo fattosi più aggressivo va messo in relazione al venir meno dell’influenza religiosa. Oggi viviamo in una realtà molto più laica. Ed è solo un bene. Ma la conseguenza è che l’attenzione per gli altri è diminuita. È necessario che liberalismo integri l’altruismo. L’homo oeconomicus che pensa solo alla redditività immediata e alla relazione costi/benefici non può continuare ad essere il centro della nostra visione del mondo».
La crisi contribuisce a rimettere in discussione il dogma ultraliberale?
«Può favorire una presa di coscienza, ma anche spingere a una concorrenza sfrenata. Inoltre di fronte alle incertezze della democrazia, c’è il rischio che l’esempio cinese — un sistema non democratico ma vincente sul piano economico — possa essere percepito come un modello da imitare».
Ma come convincere gli scettici della necessità di un atteggiamento altruistico?
«Razionalmente, se non si adotta una politica altruistica, capace d’immaginare una cooperazione responsabile, rischiamo di trovarci di fronte a problemi insormontabili. E tutti ne subiremo le conseguenze, compresi coloro che finora si sono illusi di essere al riparo dai problemi altrui. Purtroppo l’argomento più efficace per molti resta la paura, il che ci fa uscire dall’ambito della riflessione razionale».

Repubblica 19.5.13
Prima Repubblica Una débâcle tutta italiana
di Massimo L. Salvadori


È passato un ventennio da Tangentopoli, l’evento che pose fine al ciclo della storia italiana iniziato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Oggi ci troviamo nel pieno di una nuova crisi di sistema. Si può ben capire come la riflessione degli studiosi si attivi al fine di comprendere origini e decorso di una repubblica che, nata nel 1946, ormai si coniuga in prima, seconda e, già si comincia, terza. Tutte le crisi di sistema dell’Italia unita — 1919-25, 1943-45, 1992-94 (per quella presente è ancora troppo presto) — hanno indotto gli storici a ragionare su cause ed eventi che le hanno determinate.
Negli anni recenti sono andate moltiplicandosi le opere sugli svolgimenti che dalla fondazione della democrazia repubblicana hanno condotto alla débâcle del sistema sorto dall’iniziativa dei partiti antifascisti. Tra queste prende ora posto La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile, edita da Rubbettino e dovuta alla penna di Giuseppe Bedeschi, che, avendo al suo attivo libri significativi sulla storia del liberalismo e del pensiero politico italiano del Novecento, si propone di analizzare i fattori che hanno reso, appunto, «difficile» il cammino dell’Italia nel periodo da lui preso in considerazione. Quattro i principali fattori: essere nata la repubblica democratica da un’unità antifascista e costituzionale sotto la quale si celavano in realtà concezioni non conciliabili della democrazia, dello sviluppo economico e sociale e delle alleanze internazionali; la conseguente formazione di un sistema politico bloccato, che precludeva normali alternanze al governo; l’anomalia costituita dalla presenza del più forte partito comunista d’Occidente; l’avversione prevalente non solo nella sinistra, ma anche nella Democrazia Cristiana, verso una compiuta economia di mercato e la comune inclinazione a dilatare il settore direttamente o indirettamente nella mani dello Stato. Quanto ai momenti più critici che si sono susseguiti in una nazione dai deboli tessuti connettivi, a partire dall’inevitabile archiviazione nel 1947 dell’unità antifascista a livello di governo, basti menzionare: le ripetute rotture avvenute, prima e dopo il “terribile 1956” nel corpo della sinistra, divisa da rivalità mai ricomposte, senza che né i comunisti né i socialisti riuscissero a raggiungere le loro finalità strategiche; l’inadeguatezza dei progetti riformatori dei governi di centro-sinistra; l’interminabile ondata di conflittualità politica e sociale incancrenitasi nei tragici “anni di piombo”; e poi, una volta indebolitasi la centralità della Dc nei primi anni Ottanta, l’avvitarsi dei contrasti tra quest’ultima e il Psi di Craxi sfociati nello stallo, in velleità riformistiche deluse, nel discredito di un potere e di una società minati dalla corruzione. Dal sommarsi degli effetti del 1989 sul mondo dell’Est, della fine del confronto tra Urss e Usa e del prorompere di Tangentopoli è derivata la frana della «democrazia difficile» incarnata dalla Prima Repubblica.
Ritengo il disegno tracciato da Bedeschi nel complesso convincente. Ma per quanto concerne alcuni punti non sono persuaso. Trovo assai unilaterale il drastico giudizio negativo, di originaria matrice crociana ed einaudiana, pronunciato sul Partito d’Azione; non mi convince affatto, in tema di dibattito sull’eredità e sul significato del fascismo, l’adesione entusiastica data da Bedeschi all’interpretazione di De Felice (culminata nella tesi che il Mussolini di Salò fu un patriota votatosi a proteggere l’Italia del Nord dall’occupante nazista); mi pare, infine, che, nella ricerca delle ragioni che fecero del sistema politico della Prima Repubblica un sistema “bloccato”, alla giusta sottolineatura delle responsabilità da attribuirsi al Pci vada accompagnata, con maggior vigore, quella dovuta alle organiche insufficienze di una classe dirigente che, dopo lo slancio iniziale degli anni della ricostruzione e del «miracolo economico», perse largamente per vizi propri la bussola, contribuendo in maniera determinante a fare del nocciolo duro del consenso popolare a quel partito e delle sue sempre più sfuggenti velleità “antisistema” una realtà inamovibile.

LA PRIMA REPUBBLICA (1946-1993) di Giuseppe Bedeschi Rubbettino pagg. 353 euro 19

Repubblica 19.5.13
Eugenio Scalfari “Così racconto me stesso”
di Simonetta Fiori


TORINO Grande festa, al Salone, per il Meridiano di Eugenio Scalfari. Attività giornalistica, pensiero, memoria, riflessione filosofica, sapienza imprenditoriale. Tante cose insieme narrate dall’antologia “autobiografica” e “identitaria” - così la definisce Alberto Asor Rosa, autore anche della bella introduzione – che raccoglie ottantotto articoli di giornale, comparsi in 60 anni sull’Espresso e Repubblica, e sei libri, da Incontro con Io a Scuote l’anima mia Eros.
«Con un dono inatteso per i lettori», aggiunge Renata Colorni, direttrice della collana mondadoriana, «un racconto inedito di grande pregio che mescola vicende pubbliche e private». Einaudi ha già programmato di pubblicarlo in un volume autonomo. Il senso di una vita può essere raccontato in molti modi. E il pubblico, numerosissimo, mostra di gradire questa nuova esposizione di Scalfari, che lo ripaga condividendo ricordi antichi ed esperienze recenti, il rapporto specialissimo con Berlinguer («Era carismatico nonostante la timidezza») e le insofferenze per i populismi contemporanei, gli archetipi della cultura classica e il sodalizio con Calvino. In prima fila anche Fassino, Veltroni e Zagrebelsky. Qual è il filo che unisce il giornalista al pensatore-narratore? La traccia è suggerita dal titolo del Meridiano, La passione dell’etica, che accosta pulsioni differenti, costantemente intrecciati nell’esperienza di Scalfari. È lui stesso a raccontarci il senso ultimo del mestiere praticato per sei decenni. «Bisogna distinguere tra buon senso e senso comune», dice rievocando il suo rapporto con Montanelli. «Indro era uno straordinario giornalista, ma esprimeva il senso comune del paese, i suoi umori diffusi, anche l’emotività. Io, al contrario, mi sforzo di interpretare il buon senso, che è cosa ben diversa: tenta di costruire il futuro ed è dominato dalla razionalità». Ma perché, a un certo momento della vita, questo mestiere non gli è bastato più? «No, non è segno di insoddisfazione», replica Scalfari. «Più semplicemente, il giornalismo non è adatto al viaggio che volevo compiere. Dopo i 40 anni, mi sono reso conto che il viaggiare all’esterno – conoscere gli altri, amarli, odiarli – non mi bastava più. Ho cominciato a viaggiare dentro di me, cosa che non potevo fare negli articoli di giornale». In altra sede, citando Calvino, lo disse così: sono un saturnino che ha deciso di diventare mercuriale, ma restando intimamente saturnino.

Corriere 19.5.13
Joumana Haddad
Scoprire de Sade a Beirut «Ma vorrei Clark Kent»
di Elisabetta Rosaspina


TORINO — Leggere de Sade a Beirut. O trasportare libri per le montagne dell'Atlante. Ci sono tanti modi letterari per difendere la dignità dei più deboli e i diritti delle donne, sulle sponde opposte del Mediterraneo: Joumana Haddad, scrittrice libanese, e Jamila Hassoune, la «libraia di Marrakech», hanno percorso strade diverse, ma le loro vite parallele si incontreranno finalmente questa mattina, assieme a quella della blogger tunisina Leena Ben Mhenni, al Salone del Libro di Torino per descrivere «il risveglio arabo», lontano dalle turbolente piazze primaverili, dagli intrighi politici, dalle beghe elettorali.
Joumana, per esempio, non sarebbe forse diventata una fiera antagonista del «machismo» arabo se a 8 anni non avesse ricevuto da suo zio, per Natale, un regalo avvelenato: «Una cucina e un ferro da stiro in miniatura — ricorda ancora con disgusto —. Ero furiosa: perché a me quella schifezza e a mio fratello, invece, un libro?». Dovette aspettare ancora quattro anni per riuscire ad arrampicarsi fino allo scaffale più alto della grande biblioteca di suo padre e stanarne la prima lettura pericolosa: un'opera del marchese de Sade che, nel pieno della guerra civile libanese, le insegnò non solo quello che una giovane educanda avrebbe dovuto ignorare, ma anche fino a che punto si possano spostare i limiti della trasgressione: «Uno choc positivo — conferma Joumana, trent'anni dopo — per il piccolo cuore di una ribelle precoce».
La biblioteca del papà di Jamila, a Marrakech, era ancora più grande: perché era una vera libreria, dalla quale sarebbe stato generato, vent'anni dopo, il negozio della figlia, nella zona universitaria della città: «Cominciai a chiedermi perché i giovani non comprassero libri e scoprii che non si trattava soltanto di un problema economico. Molti di loro venivano a studiare in città dalla campagna o dal deserto, dove non ci sono librerie e dove il sistema di istruzione è molto carente».
La storia di Maometto e la montagna deve avere inconsciamente ispirato Jamila che, un bel giorno, ha caricato i libri in auto e ha cominciato a viaggiare nelle campagne come una biblioteca itinerante per seminare nei territori incolti il gusto della lettura. Era il 1996: «Iniziava così a svilupparsi l'idea della Carovana Civica, che adesso è diventata anche un forum di dibattito attraverso il quale cerco di comprendere e cambiare gli stereotipi, oltre a combattere l'analfabetismo ancora piuttosto diffuso in Marocco». Specialmente, va da sé, tra le donne: «All'inizio ero la sola donna che osava uscire dalla città con la carovana. Provocavo stupore e qualche polemica. Ma la mia tecnica è semplice: attraverso le scuole e i ragazzi, maschi e femmine, arrivo anche alle loro madri. Nessuno ha cercato di ostacolarmi».
E guai a chi ci avesse provato con Joumana, che — alla faccia di suo zio — è diventata responsabile delle pagine culturali di uno dei principali quotidiani libanesi, «An Nahar», traduttrice (parla sette lingue, tra cui un impeccabile italiano), saggista e, sì, poetessa «erotica». Già dal titolo, Superman è arabo, il suo ultimo libro (edito da Mondadori) è una sfida alla mentalità maschile di una intera e sterminata regione geografica: «Attenzione, il mio risentimento è rivolto soltanto a un certo tipo di maschi arabi. E non solamente arabi. Sono quegli uomini che devono rivestire a tutti i costi i panni di supereroi per mascherare la loro mancanza di fiducia in sé stessi. Ma non è un libro contro gli uomini in generale. Anzi, a me piaceva moltissimo Clark Kent, timido e introverso, ma autentico, finché non indossava il mantello di Superman per compiacere Lois Lane. Che peccato! Non sarebbe bello un mondo di complicità?».
È proprio quello che comincia a scorgere Jamila, nei cyber-café di Marrakech, vicino alla sua libreria: «Ragazzi e ragazze si attardano assieme davanti a computer, come compagni di studio, e le famiglie non si agitano se le figlie restano con gli amici a navigare in Internet fino alle undici di sera, quando mai le lascerebbero fino alla stessa ora in un locale. Per strada le ragazze rischiano di essere molestate, ma negli internet café, tra maschi e femmine si stabilisce un rapporto paritario».
Ne sa sicuramente qualcosa Leena Ben Mhenni, che, con il suo blog «A Tunisian Girl», è diventata una delle protagoniste della rivoluzione giovanile che ha portato alla caduta del regime di Ben Ali.
Questa mattina alle 10 e 30, nello spazio Piemonte del Salone del Libro, le tre «ribelli» si incontreranno per iniziativa della Fondazione Carical, presieduta da Mario Bozzo: «Il risveglio delle coscienze è ormai in atto — sostiene il promotore — e se, attraverso il dialogo interculturale, si riuscirà a rilanciare i tanti punti di contatto e le convergenze su ideali comuni, le sponde del Mediterraneo potranno tornare a essere una sorgente di civiltà e di progresso».