lunedì 20 maggio 2013

il Fatto 20.5.13
Capitomboli
Dopo la Fiom, Epifani divorzia dalla sinistra
di Wanda Marra


Sale sul palco, inciampa. E sotto gli occhi di fotografi, cameraman e militanti va lungo disteso. È un capitombolo la prima immagine della campagna elettorale per il neo segretario del Pd, Guglielmo Epifani, ieri ad Avellino per sostenere il candidato sindaco del centrosinistra, Foti.
Cammino accidentato, ostacoli quotidiani. Ieri all’ordine del giorno c’è un litigio senza precedenti con Nichi Vendola. Parte all’attacco in mattinata Epifani: “Non siamo una caserma. La scelta di non partecipare alla manifestazione Fiom non è segno di paura. Noi vogliamo rappresentare tutti”. La risposta è al segretario Fiom Maurizio Landini che sabato aveva accusato il Pd: “Non si può aver paura di star qui”. Ma l’affermazione più sprezzante, che suona definitiva, riguarda tutto il partito di Vendola: “Sel? Si vede che non era un matrimonio molto solido. Non mi piace chi scappa sempre da difficoltà e non mi piace che ci siano due sinistre. Una responsabile e l’altra che non vuole responsabilità. Siamo di fronte a una prova di governo non facile, ma il Pd sa assumersi la responsabilità”.
Mai toni erano stati più aspri tra i vertici democratici e il partito di Vendola. D’altra parte, proprio l’alleanza elettorale con Sel era stata uno dei punti fermi dell’ex segretario Pier Luigi Bersani. Altri tempi. Epifani con queste affermazioni - spiegano nello staff - stava reagendo a chi attacca i Democratici qualsiasi cosa fanno. Vendola sabato in piazza l’aveva detto: “Mancata opportunità non stare qui”. Critiche che al neo segretario non sono piaciute. Perché la parola d’ordine di questo momento è “rigore”: non si può sostenere un governo come partito, e poi andare in piazza a manifestargli contro, come facevano i ministri di Prodi. E poi, molti di Sel sono nella Fiom: mica Sel va alle manifestazioni del Pd. “Mi è dispiaciuto non andare in piazza. Ma sono serio”, ammette Epifani. E in effetti da ex segretario della Cgil la sua scelta colpisce di più quasi “iconograficamente”. Un nervo scoperto dicono da Sinistra e Libertà.
VENDOLA replica a Epifani: “Comprendo il suo nervosismo, ma eviti di trasformarlo in una gratuita aggressione nei miei confronti. Perché io ho deciso di portare avanti un’opposizione molto costruttiva. Per me l’alleanza con Berlusconi non è un gesto di responsabilità, è una resa culturale”. Proprio come nei matrimoni che finiscono, ognuno si sente aggredito.
Commenta Gianni Cuperlo, candidato segretario al congresso Pd, nel tentativo di distendere i toni: “Non abbiamo bisogno di accentuare la divisione nella sinistra. È un errore”. A leggere le interviste e le dichiarazioni di ieri, a partire da quelle di Sergio Cofferati che rimarca come un errore il non esserci per arrivare a quelle dello stesso Epifani che parla esplicitamente di due sinistre, la divisione sembra nei fatti. “Suggerirei a Epifani e a Vendola di astenersi dal discutere sulle alleanze, visto che siamo a una settimana dal voto delle amministrative, dove Pd e Sel si presentano quasi ovunque insieme”, dice Matteo Orfini (l’unico democratico in piazza sabato, insieme a Fabrizio Barca e Pippo Civati).
Per Epifani però è il momento dell’attacco. Durissimo anche con Grillo, che sabato aveva invitato gli iscritti del Pd a strappare la tessera: “Non mi permetterei mai di dire a un grillino di strappare la tessera. Io rispetto quella appartenenza e chiedo a tutti rispetto per il Pd. Non funziona così la democrazia”.
Intanto, Epifani si prepara alla prova muscolare: per la chiusura della campagna elettorale di Roma il Pd ha prenotato per venerdì piazza San Giovanni (la stessa usata dalla Fiom sabato). Bersani le politiche le aveva volute chiudere in un teatro, l’Ambra Jovinelli, mentre Grillo gli scippava la piazza tradizionalmente più cara alla sinistra, riempiendola all’inverosimile. Venerdì lo sfiderà da Piazza del Popolo. Nei prossimi giorni l’attesa democratica sarà venata da ansie di flop.

La Stampa 20.5.13
Migliore: «Forse non si è accorto che la sua base era in piazza»
Il capogruppo Sel: sarà al governo, ma alle amministrative è con noi
«È il Pdl che sta dettando l’agenda. Bisogna lavorare per riprendere l’iniziativa»
di Antonio Pitoni


Tra la Fiom e il Pd, Gennaro Migliore non ha dubbi. «Sono d’accordo con Landini – assicura il capogruppo di Sel alla Camera –. Mi sembra strano che ci sia una polemica più aspra nei nostri confronti, che siamo andati in piazza con la naturale base sociale del centrosinistra, piuttosto che con il Pdl che invece in piazza attacca principi costituzionali come l’indipendenza della magistratura».
Siete la sinistra che scappa come dice Epifani?
«Trovo le parole di Epifani frutto di nervosismo comprensibile per chi usa la parola responsabilità per giustificare l’accordo con il Pdl che è la sconfessione di una linea politica alla quale si è lavorato per anni e che non si è mai discusso come cambiare se non attraverso l’imboscata di 101 parlamentari che hanno deciso di affossare Prodi e cancellare l’esperienza Bersani. Mi ha meravigliato che proprio chi è stato anche segretario della più grande organizzazione sindacale italiana adottasse certi termini. Tra l’altro questo attacco a freddo a una settimana dal voto amministrativo è segno di una certa superficialità. Ricordo a Epifani che lui è alleato del governo ma è anche alleato, alle elezioni, con noi».
Cioè, ripercussioni in vista sulle amministrative?
«Dico che mi pare un atteggiamento autolesionista perché l’elettorato di centrosinistra non sopporta questo tasso di aggressività. Noi nella nostra manifestazione abbiamo augurato buon lavoro a Epifani, non abbiamo mica attaccato a testa bassa. Abbiamo solo detto che volevamo fare opposizione responsabile».
Ha ragione Epifani quando dice che il matrimonio con Sel non era solido?
«Lo interpreto come voler parlare a suocera perché nuora intenda, voler dare un segnale a chi si permette di dissentire dentro la sua organizzazione. La verità è che non c’era un matrimonio tra Sel e Pd, ma un patto politico per fare determinate cose. Ed è chiaro chi sia a non aver mantenuto questo patto».
Per Epifani il punto non è andare in piazza ma risolvere i problemi…
«Allora li risolvessero. Andare in piazza non ha mai fatto male a nessuno. Epifani usa la parola responsabilità come sinonimo di “cioè”, come intercalare. Dal momento che ha ribadito che il Pd si assume le responsabilità e non scappa, spero che non scappi quando proporremo: conflitto di interessi, anticorruzione e ius soli».
Che non sono, però, le priorità del Pdl…
«E’ il Pdl che sta definendo l’agenda di governo. Bisognerebbe lavorare per togliere l’iniziativa dalle mani di Berlusconi. Ad esempio cominciando con la cancellazione dell’attuale legge elettorale. Ma anche su questo vedo imbarazzo, un’autocensura»
Sulla scelta di disertare la piazza, Renzi promuove Epifani: sorpreso?
«Non mi meraviglia che lo dica Renzi, ma mi meraviglia molto che lo dica l’ex segretario della Cgil».

l’Unità 20.5.13
Caro Landini, ricorda Berlinguer
Togliatti e Berlinguer non partecipavano ai cortei sindacali
di Emanuele Macaluso


LA MANIFESTAZIONE PROMOSSA DALLA FIOM DI LANDINI HA IMPEGNATO I COMMENTI DEI GIORNALI DI IERI e per molti di essi al centro di tutto non c’era il lavoro, ma il «tradimento» del Pd (Il Fatto, il Manifesto), e comunque il ruolo che in questo Paese recita il partito ora guidato da Epifani. Il quale è stato «espulso» dalla sua stessa storia di sindacalista. Per alcuni di sindacato ne esiste uno solo, la Fiom, e di sindacalisti, puri e duri, c’è solo Landini.
Persona che io stimo per la passione e la dedizione che mette nel suo lavoro. Ma proprio per questo non mi sottraggo, come fanno tanti opportunisti e presenzialisti che non sanno nemmeno cos’è un sindacato, a fare osservazioni critiche alla manifestazione di piazza San Giovanni. Una manifestazione che aveva un obiettivo essenzialmente politico, nel senso più stretto e strumentale: mettere la Fiom insieme a tutti i reduci di guerre perdute della sinistra «radicale» (Rifondazione di Ferrero, Rivoluzione civile di Ingroia, Sel, spezzoni del grillismo) e personalità che si sono distinte per una critica aspra al Pd per la sua scelta di governo e per altre cose: Rodotà, Gino Strada, Cofferati. Scelta che rendeva impossibile la presenza di Epifani che il governo, con una posizione autonoma ma leale, sostiene. Tuttavia, l’osservazione più di fondo è questa: alle manifestazioni del sindacato dovrebbero esserci solo le bandiere del sindacato e, se ci sono persone che vogliono solidarizzare, lo facciano senza la maglietta del partito o del partitino a cui fanno riferimento.
Negli anni della guerra fredda e dell’opposizione dura della sinistra ai governi centristi, Togliatti, Nenni, Longo, De Martino, Amendola e Lombardi non partecipavano alle manifestazioni della Cgil o della Fiom. E non vi partecipava Berlinguer. Nel corso dello scontro durissimo sul decreto della scala mobile (1984), quando la Cgil fece la grande manifestazione di piazza San Giovanni, Berlinguer come testimonia la famosa foto con Enrico che espone l’Unità con il grande titolo «Eccoci» (fatto da me e Carlo Ricchini) era con i cittadini che assistevano alla sfilata del corteo sindacale. Ieri Epifani è stato trattato bene se penso che negli anni settanta, Berlinguer, in una vignetta di Forattini su la Repubblica, fu disegnato in pantofole e con la vestaglia a casa seduto in poltrona, con tè e sigaretta, mentre nelle strade sfilava il corteo dei metalmeccanici. Oggi Forattini è con il Cavaliere.
Caro Landini, ti racconto un caso personale. Un anno dopo la strage di Portella delle Ginestre, il primo maggio del 1948, la Cgil siciliana organizzò una manifestazione a Portella per sfidare gli stragisti (i banditi di Giuliano e i poteri mafiosi). Il comizio lo dovevo fare io che ero segretario regionale della Cgil, ma il PCI chiese che con me parlasse Girolamo Li Causi, leggendario segretario del partito, il quale, da mascalzoni della destra, era stato falsamente accusato di non essere andato a Portella temendo quel che era successo. Consultai Di Vittorio, il quale telefonò a Li Causi per sconsigliare, in quel momento, la sua partecipazione al comizio con la Cgil. Oggi più di ieri il sindacato deve recuperare autonomia e unità non solo per acquisire forza nella contrattazione, ma per incidere nelle scelte che fanno le forze politiche e i governi.
Negli anni in cui ha governato il centrodestra, la Cisl e la Uil hanno teso ad acquisire forza instaurando un rapporto con il ministro del Lavoro Sacconi, il quale aveva come obiettivo l’isolamento e la sconfitta della Cgil. Sono gli anni in cui la Fiat di Marchionne ha giocato sulla divisione del sindacato per imporre le sue scelte. Ma, a mio avviso, la Fiom ha praticato una politica sindacale in cui non prevaleva la ricerca dell’unità, anche per sfidare su questo terreno la CISL e la UIL: prevaleva invece la denuncia, la separazione, negando ogni possibile compromesso per firmare contratti e accordi sindacali. Il risultato delle scelte della Cisl e della Uil da una parte e della Fiom dall’altra è stato l’indebolimento del sindacato, la sua emarginazione. E la Cgil guidata dalla Camusso sembra un’organizzazione mutilata e paralizzata. Se la Fiom pensa di superare questa realtà promuovendo manifestazioni che esprimono il giusto malcontento e la legittima protesta dei lavoratori, ma si configurano come aggregazioni di gruppuscoli con l’obiettivo di radicalizzare l’opposizione al governo, senza indicare alternative, commette un errore serio.
Queste mie osservazioni non assolvono le responsabilità del Pd, il quale dopo tanti errori ha dovuto per necessità e responsabilità nazionale guidare un governo in cui debbono convivere i due partiti che in passato si sono contrapposti e nel futuro dovranno contrapporsi. In una situazione in cui Berlusconi gioca su un terreno diverso la sua partita personale. Ma a questa situazione non c'erano alternative se non il caos istituzionale evitato in extremis con la corale invocazione a Napolitano di restare ancora al Quirinale. Tuttavia, il futuro da costruire è nell’alternativa tra destra e sinistra. E per questa prospettiva il congresso del Pd, se vuole essere una cosa seria, deve dirci con chiarezza cos’è e cosa vuole essere. Rodotà, Grillo, Cofferati, Vendola, Ferrero e Ingroia vogliono costruire uno schieramento per competere al governo del Paese? Nulla da obiettare, è un loro diritto. Ma, scusa Landini, cosa c’entra la Fiom e il sindacato?

il Fatto 20.5.13
Contro l’alleanza con B.
Occupy Pd, assemblea a Prato


Erano circa 200 i partecipanti all’assembla nazionale di OccupyPd - il movimento di fronda interno al Partito democratico - ieri pomeriggio a Prato. Simbolicamente le sedie sistemate allo Spazio Compost erano state 101, il numero dei franchi tiratori che hanno affondato la candidatura di Romano Prodi al Quirinale, poche settimane fa. Nel suo intervento di apertura Lorenzo Rocchi, giovane democratico pratese, tra gli organizzatori dell’assemblea , ha detto: “Letta è al governo per fare principalmente due cose: la riforma elettorale e una riforma dell’assetto istituzionale. Ma l’Italia non si cambia assieme a Silvio Berlusconi”.

l’Unità 20.5.13
Occupy Pd, summit a Prato
La campagna degli «scontenti» culminerà a giugno in una manifestazione «Letta a termine»
di Giuseppe Vittori


«Dobbiamo dire a Letta che lui è lì al Governo per un tempo limitato e per fare principalmente due cose: la riforma elettorale e una riforma dell'assetto istituzionale. Poi bisogna che ci dia subito una nuova chance per cercare di governare il Paese. L'Italia non si cambia assieme a Silvio Berlusconi». Così Lorenzo, un giovane democratico pratese, ha introdotto l’assemblea degli Occupy Pd ieri a Prato. Circa duecento manifestanti hanno partecipato all’iniziativa propedeutica al raduno nazionale del movimento, fissata per metà giugno a Bologna. L’iniziativa era costruita su una scenografia simbolica con 101 sedie, quanti sono i voti che sono mancati a Romano Prodi nell’elezione al Quirinale. Proprio Prodi è l’interlocutore numero uno degli occupy che vorrebbero incontrare l’ex presidente della Commissione europea per convincerlo a rinunciare al proposito di non riprendere la tessera del Pd, così come fatto filtrare da alcuni esponenti a lui vicini.
Viene scartata infatti l’ipotesi che gli occupy possano confluire al congresso su un nome. «Quello che ci interessa è stato ribadito sono idee e metodi, non i candidati». Insomma, il congresso andrebbe fatto a tesi, non sui nomi.
L’età media dei partecipanti era inferiore ai 30 anni, con qualche eccezione: come Andrea Ranieri, 70 enne componente dell’Assemblea nazionale, molto applaudito dagli occupy.
Prodi, dunque. Non a caso la manifestazione nazionale si terrà nella sua città, a Bologna. I ragazzi di Occupy intendono consegnargli una delle loro magliette «Siamo più di 101». L'iniziativa, al momento in fase di organizzazione, nasce dall'esigenza di far ripartire il Pd «resettando» la logica delle correnti come criterio di organizzazione. Una delle promotrici, Elly Schlein, ha ribadito: «La notizia che Prodi non vuol più iscriversi al Pd ci rattrista perchè lui è stato la personalità che ha dato il contributo fondamentale alla nascita del partito. Comprendiamo la sua amarezza, ma vorremmo provare a dirgli che ci sono ancora ragioni per credere nel Pd come lui l'ha voluto, e queste ragioni sono alla base della nostra iniziativa politica. Noi non ci riconosciamo in nessuna corrente e come noi, in tutta Italia, ci sono tantissimi amici che ci dicono: “Andate avanti, ci restituite la voglia di partecipare”». Ripartire dalla base, senza steccati. «Chiediamo un passo indietro alla dirigenza che ci ha portato in questa fase di stallo. E vogliamo garanzie che ci sia finalmente un congresso aperto, non condizionato dagli accordi tra fazioni».

Repubblica 20.5.13
In duecento all’assemblea nazionale di Prato: “L’Italia non si cambia insieme a Berlusconi”
Gli “Occupy Pd” incalzano il premier “È a tempo, via il Porcellum e poi al voto”
di Maurizio Bologni


PRATO — Fa solo capolino un certo linguaggio giovanilista, per chiedere il «reset della classe dirigente del Pd» e invocare la rinascita di «un partito fico». Per il resto, tante invettive «classiche»: contro i «101 vigliacchi e trasformisti », contro Berlusconi, contro Grillo: «Pensi ai fatti suoi che noi la tessera del Pd non la stracciamo, questo è il nostro partito, lo cambieremo, lo miglioreremo dall’interno». Applausi. È la prima assemblea nazionale di OccupyPd, a Prato, duecento giovani attesi da 101 sedie quante quelle di chi ha impallinato Prodi. Ma dopo più di tre ore e oltre trenta interventi (due soli di ragazze), c’è chi avverte il rischio che il movimento si spenga in uno «sfogatoio». Gli interventi del romano Emanuele Perugini e del milanese Giacomo Marossi mettono a fuoco la necessità di un salto di qualità: la costruzione di un documento su cultura, ambiente, lavoro, istruzione e diritti, da portare al congresso. Non tutti sono d’accordo, anzi. Se ne parlerà nelle prossime assemblee, «ogni territorio organizza la propria e la prossima è già domani » dice il pratese Lorenzo Rocchi, e a giungo una nuova assise nazionale a Bologna.
Età media 25 anni, 25 delegati da 15 province e 9 Regioni in un vecchio capannone artigianale abbandonato, nel centro storico di Prato, ora utilizzato dal circolo Spazio Compost, lanterne cinesi al soffitto (è zona ad alta densità di orientali), striscioni alle pareti («Occupiamoci del Pd» e «Disoccupazione giovanile: 38,4%), diretta Tweet curata da Il Tirreno e proiettata su uno schermo. Ogni intervento non più di cinque minuti, con count down e tamburo per fermare chi sfora. Lo suona il padrone di casa, Rocchi. «Dobbiamo dire a Letta — afferma il giovane democrat di Prato — che lui è lì al governo per un tempo limitato e per fare principalmente due cose: le riforme elettorale e dell’assetto istituzionale. Poi bisogna che ci dia subito una nuova chance per cercare di governare il Paese. L’Italia — conclude tra gli applausi — non si cambia assieme a Silvio Berlusconi».
«L’incompatibilità con Berlusconi » — come la definisce un altro intervento — e il tradimento dei 101, sono temi che tornano nel dibattito, dal quale sono invece quasi totalmente assenti i nomi di Renzi, Civati, Epifani, degli altri big del Pd. «Il siluro a Prodi è stata una scelta politica e questa scelta sarà al centro del congresso» dice, ad esempio, Andrea Ranieri, 70 anni, membro dell’assemblea nazionale, applaudito e che molti interventi citeranno.
Come andare avanti? Creare una corrente? C’è chi lo ritiene inevitabile, la maggioranza lo respinge. «Niente corrente — dice Perugini — ma al congresso dobbiamo portare proposte, perché questo paese ne ha bisogno, sulla riforma del debito pubblico, sull’utilizzo a fini sociali dei beni pubblici, sulla ridistribuzione della ricchezza, sul lavoro». E poi diritti, lotta alla disoccupazione, sostegno alle partite Iva e politiche per le imprese. «Bene — dice Rocchi — ma niente documento, altrimenti facciamo una correntina che nessuno si fila più».

Repubblica 20.5.13
L’intervista
“I democratici ormai neocentristi stanno divorziando dal loro popolo”
Il leader di Sel: non siamo urlatori, ma difensori di diritti
di Giovanna Casadio


ROMA — «Noi scappiamo? Scappiamo dalla resa a Berlusconi, dal compimento della sconfitta. È incredibile che Epifani ricorra alla metafora del matrimonio fragile... Gli obietto che l’alleanza Pd-Sel aveva come progetto quello di traghettare il paese fuori dalla palude del belusconismo. E l’altra obiezione, un po’ più privata: a proposito di diritti, al segretario del Pd ricordo che in Italia io non posso sposarmi, perché sono proibite le unioni omosessuali». Nichi Vendola, il leader di Sel, contrattacca.
Vendola, con il Pd siete passati dal “matrimonio” allo scontro?
«Epifani ha trasformato un comprensibile suo nervosismo in una aggressione gratuita e fuoriluogo. Non ho detto una parola sul fatto che lui non fosse alla manifestazione della Fiom, benché lo consideri un errore politico. Da quella piazza ho chiesto una cosa concreta al governo Letta. Nel decreto sugli ammortizzatori sociali si prevede una proroga di 5 mesi dei contratti dei lavoratori precari del pubblico impiego. Ecco si provi a cambiare quel comma, lo si sostituisca con un processo di stabilizzazione. Quanti sono i ricercatori dei vari istituti scientifici per i quali potrebbe esserci il “tutti a casa”? Ho lanciato una proposta, a dimostrazione di un atteggiamento che noi terremo sempre».
Un atteggiamento soft?
«Il nostro è lo stile di una opposizione di merito e del dialogo costruttivo».
Il Pd al governo però tenta di dare risposta alle emergenze, voi vi limitate a protestare?
«Le risposte sono parziali e ancora propagandistiche».
Ci sono due sinistre, una di governo e l’altra anti-larghe intese?
«Mi pare che una parte rilevante del popolo e anche dell’intellighenzia legata al Pd, viva
questo passaggio come la rottura radicale con la matrice di sinistra del partito. Molti sottolineano il compimento di una svolta moderata e neo centrista del Pd. Per quanto ci riguarda, non mi faccio rinchiudere nell’angolo della sinistra radicale. Aggiungo che il riformismo non può essere il nome presentabile di un fenomeno impresentabile come il trasformismo».
Secondo lei il Pd non è più un partito di sinistra?
«In questo momento sarebbe una disputa sul sesso degli angeli. Sel è impegnata dappertutto a far vincere il centrosinistra, a ricostruirlo dalla base. Il problema dei Democratici è piuttosto il divorzio dalla loro gente. In giro per l’Italia mi capita di trovare tantissimi elettori democratici che mi dicono: “Aiutaci a tenere viva una speranza”».
Ritiene che il Pd stia tradendo questa speranza?
«Non sono nell’ottica del grillo parlante o dello stalker nei confronti dei Democratici. Però chiedo: “Perché dovete darci ragione sempre dopo?”. Quando dicevamo che il governo Monti avrebbe determinato la resurrezione di Berlusconi, chi aveva ragione?».
Comunque l’alleanza Pd-Sel è stata spazzata via subito. Di chi è la colpa?
«L’elemento fondativo dell’alleanza era l’alternatività al berlusconismo. Quindi, chi l’ha rotta? Chi l’ha rotta rifiutandosi persino di esprimere un voto su Prodi al Quirinale? Io non faccio il tifo per il tanto peggio tanto meglio: credo di conoscere la gravità della situazione sociale del paese. Penso che i provvedimenti che vengono assunti sono in parte provvedimenti indispensabili: evitare di rispondere al problema della cassa integrazione in deroga sarebbe stato come dare l’annuncio di una guerra civile al paese. Ma penso anche che prevalga appunto una impostazione propagandistica da parte del governo Letta. E che si affronti solo in chiave ornamentale o di costume il principale problema politico davanti a noi: l’urgenza cioè, di abbattere il muro dell’austerity».
Addio alla mescolanza di Sel con il Pd?
«Vedremo, incontro gente del Pd che mi chiede notizie di quel partito. Lo dico con rispetto. Nel Pd non sono mai entrato perché sono sempre stato colpito dalla sua incerta natura».
È tentato di partecipare al congresso democratico?
«C’è bisogno di Sel oggi più che mai. Anche per non consegnare il ruolo di opposizione ai populismi. Dovremmo aprirci ad accogliere la richiesta di cambiamento espressa con il voto ai grillini, anche se di Grillo non mi piace lo stile, il mondo non può essere salvato dalle parolacce».

il Fatto 20.5.13
Passerelle
Renzi non rottama più, Veltroni lo vede premier
di Silvia Truzzi


Quelli importanti non arrivano mai insieme al pubblico. Quando tutti hanno preso posto all’Auditorium del Lingotto (strapieno), dal retro palco escono Matteo Renzi, i vertici di Segrate (il sindaco ha appena cambiato editore, passando da Rizzoli a Mondadori perché “hanno fatto l’offerta migliore”), Oscar Farinetti e inaspettatamente anche Piero Fassino. I cronisti torinesi lo punzecchiano: “Si domandano tutti se lei è diventato renziano... ”. Lui fa spallucce e si accomoda in prima fila dove indossa l’imperturbabile faccia che manterrà per tutto l’incontro. Intanto è arrivato il direttore della Stampa Mario Calabresi che inizia l’intervista dal titolo del libro, Oltre la rottamazione. Renzi, tra battute sul calcio e imitazioni di Berlusconi, è pentito ma non redento: “Avessimo utilizzato un'altra espressione, forse non avremmo avuto la visibilità ottenuta con 'rottamazione’, ma “l’impatto è stato eccessivo, ho sbagliato”. Ogni parola del sindaco conferma l’assoluta assenza di complessi: sacrosanto andare a cercare i voti a destra, strategico parlare a un pubblico come quello di Amici, fatale fare una campagna elettorale debole come quella del fu segretario Bersani. Trattato con il rispetto che si deve agli sconfitti, a cui però Renzi non perdona più di un passo falso. A cominciare da una vittoria data per scontata: “Ci siamo fermati un chilometro prima del traguardo”. E poi la litania sul giaguaro: “Smacchiamolo, era lo slogan. Ma che siamo un detersivo? ”. Ce n’è anche per il neo editore B: “Spolverando la sedia di Travaglio a Servizio pubblico, è riuscito a cancellare nove anni di malgoverno”. Calabresi gli domanda di Grillo e da rottamatore diventa profeta: “Il gruppo dei 5 Stelle in Parlamento si spaccherà: non hanno deciso cosa fare da grandi. Hanno una posizione rigida sul capo, ma si dividono sul portafoglio”. L’attualità stringe e il direttore della Stampa gli chiede conto delle polemiche nate dalla mancata presenza del Pd alla manifestazione della Fiom. Laconica la risposta: “Un partito politico non vive di manifestazioni fatte da altri”. Gli spettatori in sollucchero hanno tutta l’aria di preferire il sindaco in scarpe da ginnastica e giubbino di camoscio al neopremier delle larghe intese. Un assist gli arriva da Walter Veltroni, al Lingotto in veste di autore di E se noi domani. La sinistra che vorrei (Rizzoli): “Oggi Renzi è sicuramente la persona con maggiori caratteristiche per la premiership. Ma un partito non vive solo di nomi”. L’incontro di Veltroni è in Sala gialla (posti esauriti): il particolare non è per nulla trascurabile perché esattamente qui, nel 2007, lanciava la sua candidatura a guidare il nascituro Pd. Presenta il vicedirettore della Stampa Massimo Gramellini, reduce da un incontro sul suo Fai bei sogni che ha riempito l’Auditorium, e sceglie di partire con il video dell’alba del Pd, quando tutto doveva cominciare.
SONO PASSATI sei anni dal discorso del segretario fondatore, ora che il partito - se non affondato – ha i motori in avaria: sembrano secoli. Anche per lui è tempo di riflessioni: “Vorrei una sinistra che avesse voglia di futuro, che fosse aperta e facesse credere di essere una forza di cambiamento”. Invece “negli ultimi mesi sono stati fatti tanti errori, tra cui rinunciare all'ambizione di avere la maggioranza. Serve una sinistra che non dica solo no, che ritorni a essere cambiamento e non solo conservazione”. E di qualche ammissione: “Se c'è un rimprovero che faccio è che siamo stati troppo poco di sinistra”. Renzi e Veltroni non s’incontrano, si scambiano buffetti a mezzo dei giornalisti che li seguono. A chi gli domanda di un possibile asse con Veltroni, il sindaco risponde: “Chieda a lui, che è notoriamente più buono”. Siparietti a parte, sembrano d’accordo sulla possibile segreteria di Sergio Chiamparino (ieri era a Bruxelles, per la nascita del nipotino). Renzi: “Lo ammiro, spero che lo faccia”. Veltroni: “Sergio è l’uomo giusto”. Meno d’accordo Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa: “Sarebbe un ottimo segretario, ma spero resti alla Compagnia di San Paolo”. Basta capirsi sulle parole: il presidente di una Fondazione bancaria è l’uomo giusto per un partito “più di sinistra”, come vorrebbe Veltroni? L’inquieto popolo del Pd darà una risposta.

Repubblica 20.5.13
Fenomenologia del “renzismo”
I consensi dell’ex rottamatore mescolano elettori dei due poli boom tra gli anziani e al Nord
Gradimento al 64%. Ma piacere a tutti è un rischio
di Ilvo Diamanti


MATTEO Renzi non si nasconde. Ma non si espone. In questo periodo, è ben visibile. Ma preferisce non “scendere in campo” direttamente. Al Salone del libro di Torino, ieri, ha espresso l’intenzione di andare “Oltre la rottamazione” (titolo del suo libro, pubblicato da Mondadori). Perché si tratta di uno slogan efficace, ma che, al tempo stesso, fa paura. Visto che, osserva Renzi, oggi, in Italia, “il 70% della popolazione è over 40”. Così, il sindaco di Firenze oggi frena sulla “questione generazionale”, sulla frattura fra vecchio e nuovo, in politica e nella società. Su cui aveva impostato la sua offerta politica, fino alle primarie. Quando aveva ottenuto un risultato rilevante, ma non sufficiente a vincere.
ANZI: lontano da quello ottenuto da Bersani. Anche per questo appare prudente. E, per la successione di Bersani, come futuro segretario del PD, preferisce lanciare la candidatura dell’ex-sindaco di Torino, Sergio Chiamparino.
Resta coperto, Renzi. Teme, ancora, di vincere la competizione dell’audience e di perdere quella politica. Di risultare il candidato preferito “fuori”, più ancora che “dentro” il partito. Come nelle precedenti primarie del PD. Così attende. Di rientrare direttamente in gioco quando si tratterà di scegliere non il futuro segretario, ma il candidato Premier. D’altronde, nell’opinione pubblica continuano ad emergere, nei suoi confronti, orientamenti molto favorevoli. Nell’Atlante Politico di Demos, infatti, il 64% degli elettori valuta positivamente la sua azione politica (con un voto pari o superiore al 6). Primo fra i leader. Avvicinato, a breve distanza, dall’attuale Premier, Enrico Letta. Anch’egli giovane, ma di certo meno polemico verso il ceto politico (non solo del PD). Favorito dall’incarico di governo, sostenuto da intese molto larghe.
Ciò che colpisce, tuttavia, è la trasversalità del consenso. Anzitutto, sotto il profilo dell’età. È, infatti, evidente come il richiamo alla “rottamazione” non abbia preoccupato gli elettori più anziani. Fra i quali, al contrario, il sindaco di Firenze ottiene il gradimento più elevato (oltre i 65 anni sfiora il 70%). Inoltre, è interessante osservare come egli riesca a sfondare il “confine padano”, visto che ottiene il sostegno maggiore (oltre il 70%) proprio nel Nord. Mentre è più debole nel Mezzogiorno (58%). Renzi: gode dei livelli di consenso più elevati fra gli studenti e i pensionati. Fra gli impiegati pubblici. Fra i cattolici praticanti. Mentre è (un po’) meno sostenuto dagli operai, dai liberi professionisti, dagli imprenditori. Dalle persone con un basso livello di pratica religiosa. Ma il maggior grado di trasversalità dei consensi nei suoi riguardi emerge in rapporto agli orientamenti di voto. Renzi, infatti, ottiene un giudizio positivo dal 77% degli elettori del PD, ma da oltre l’86% di Centrodestra. Dal 70% dei leghisti, da oltre i due terzi della base del PdL. Mentre il suo consenso cala fra gli elettori di SEL e degli altri partiti di Sinistra — anche se si avvicina al 60%. I livelli più bassi di sostegno, nei suoi confronti, si osservano, però, nella base elettorale del M5S e nella zona grigia dell’astensione e dell’indecisione. Anche qui, comunque, egli dispone di un gradimento maggioritario, superiore al 50%.
Renzi, dunque, piace a tutte le principali componenti dell’elettorato. E appare in grado, soprattutto, di superare i tradizionali limiti espressi dal PD. In particolare, sul piano territoriale. Nonostante sia sindaco di Firenze, infatti, Renzi non sembra un leader della “Lega di Centro” — per citare la formula usata da Marc Lazar per definire i DS (e valida anche per il PD, fino alle ultime elezioni). Sicuramente, non subisce il pregiudizio anticomunista, che ha vincolato la crescita del PD, come dello stesso Ulivo. Renzi, al contrario, piace agli elettori di Centro, e perfino di Destra, più ancora che a quelli di Sinistra. Non è un caso che, anche fra i possibili segretari del partito, egli sia decisamente il preferito dagli elettori del PD. Ma perda consensi tra quelli di SEL e della Sinistra (a favore di Barca e di Civati).
Il profilo politico e sociale del consenso a Renzi, dunque, ne sottolinea le ragioni di forza. Ma ne suggerisce anche i possibili limiti. Che in parte coincidono.
Renzi, infatti, si sottrae alla tradizionale frattura fra destra e sinistra. E impone, invece, la questione generazionale, legata al rinnovamento politico. In questo modo, intercetta l’insoddisfazione — diffusa — verso le istituzioni e i gruppi dirigenti di partito. Ponendosi in concorrenza con Grillo e il M5S. Infine, il sindaco di Firenze è tra i più abili nell’impugnare le armi del berlusconismo: la personalizzazione e la comunicazione. Non a caso proprio Berlusconi, come ha ribadito Renzi, anche ieri, ha bloccato la sua candidatura alla guida del governo.
Insomma, Renzi piace un po’ a tutti. E questo potrebbe diventare un problema, oltre che un vantaggio. Le stesse basi del suo consenso, inoltre, potrebbero costituire una minaccia, oltre che una risorsa. Renzi, in particolare, rischia di non ancorarsi alle “questioni” e alle “fratture” sociali. Di cui la distinzione fra destra e sinistra è uno specchio. Rischia, dunque, di non dare rappresentanza adeguata ai problemi e alle domande delle principali componenti del mercato del lavoro. Che, in una fase drammatica come questa, si sono rivolte, non a caso, soprattutto al M5S. Infine, non è chiaro a quale alternativa guardi, rispetto al “partito personale” “mediale” e delle “ nomenclature”, distante dalla società e dal territorio. E oggi dominante.
Anche per questo, probabilmente, Matteo Renzi preferisce “restare fuori” dalle scelte — e dalle polemiche — che riguardano il partito e il governo. In attesa che i tempi maturino — e logorino i suoi concorrenti. (Bersani, che lo aveva battuto alle primarie, si è già “consumato”.) Tuttavia Renzi, in questi tempi crudi, rischia. Se non spiega cosa ci sia “oltre la rottamazione”. Quali priorità. E quali parole. Se non spiega: come sia possibile imporle. E, soprattutto, cambiare il PD da fuori. Senza conquistarne la guida. Renzi rischia, altrimenti, di arrivare anch’egli logoro. Alla guida di un partito logoro.

Repubblica 20.5.13
L’intervista
“Stop alla formazione non pagata e largo a nuovi ammortizzatori”
Camusso: agevolazioni a chi assume, ma servono più investimenti


ROMA — «Basta con gli stage che si susseguono uno dopo l’altro, basta con l’idea che si possa far lavorare le persone gratis. I contratti formativi devono avere come obiettivo la stabilizzazione del rapporto di lavoro». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil guarda con interesse e anche cautela al prossimo piano del governo per il lavoro dei giovani. E quando la leader della confederazione dice che bisogna riservare una parte degli investimenti esclusivamente per creare lavoro per i più giovani finisce probabilmente per ammettere che qualche distrazione nei confronti delle nuove generazioni ci sia stata pure tra i sindacati. Per quanto precisi: «Nessuno dei nostri padri si è trovato di fronte a una crisi come questa con cinque anni consecutivi di recessione».
Camusso, cosa pensa della prime linee del piano del governo per l’occupazione giovanile?
«Che per ora siamo di fronte a indicazioni. Vedremo nel merito. Certo c’è la youth garantee europea. È forse l’unico atto sociale della Commissione di Bruxelles in questa stagione. Non è una rivoluzione, sia chiaro, né sono clamorose le risorse. Ma è importante che ci sia, soprattutto per un paese come il nostro. Perché consente di mettere in campo idee per i giovani e fare un po’ d’ordine».
Cosa intende dire?
«Che va chiusa la stagione in cui si riteneva che i giovani potessero lavorare gratis. Questa può essere l’occasione per far diventare gli stage o i tirocini dei veri rapporti di lavoro formativi. E può essere l’occasione pure per ritornare a parlare di politiche attive per il lavoro, dopo che è scaduta la delega al governo per il riordino delle agenzie per il lavoro. Infine si deve ricominciare a ragione intorno alle politiche
fiscali finalizzate al lavoro».
Durante la campagna elettorale il Pdl ha proposto l’azzeramento delle tasse per i nuovi assunti. Lei sarebbe d’accordo?
«Per il Pdl c’è sempre il “meno tasse” di qualunque cosa si parli. Quindi non vale. Credo che si debba introdurre una fiscalità di vantaggio per chi assume. E credo che si debba operare sul fisco più che sui contributi sociali per gli effetti negativi, in termini di costi per la collettività, che potrebbe avere una riduzione dei contributi ai fini previdenziali».
Per quanti anni dall’assunzione non si dovrebbero pagare le tasse?
«Il problema non è questo. Ciò che è importante è che non si diano sgravi a pioggia. Perché alla fine, come è successo per la nascita delle imprese, i rapporti di lavoro resterebbero in piedi fino a quando ci saranno gli sconti fiscali. Dunque servirebbe un meccanismo premiale: lo sconto fiscale va a chi stabilizza nel tempo il rapporto di lavoro».
Basta questo per creare occupazione o forse servirebbero anche gli investimenti da parte delle imprese?
«È da tempo che lo sosteniamo. In un paese come il nostro bisogna capire che il nuovo lavoro va creato. Tralasciando il tema dei nuovi investimenti, ritengo innanzitutto che si debbano mettere in moto gli investimenti già a bilancio e quelli autorizzati dal Cipe di cui si è persa traccia. E ancora va attuata la ristrutturazione dei fondi strutturali europei avviata dal ministro Fabrizio Barca. Dentro questa politica una parte degli investimenti andrebbe vincolata alla creazione di lavoro giovanile».
È quasi la prima volta che il sindacato italiano mette al centro la questione della disoccupazione giovanile. È un’autocritica?
«Non credo si possa dire una cosa del genere. Forse alcune scelte sono state nel passato poco visibili. Di certo di fronte alle diseguaglianze create dalla crisi bisogna mettere in campo politiche per ridurre le disparità».
Basta una manutenzione della legge Fornero, come dice il governo, o la Cgil chiede una radicale modifica?
«Ogni giorno che passa dimostra quanto fosse sbagliata quella legge. Credo che si debba smettere di proporre regole per costruire eccezioni e, invece, si dovrebbe puntare sul ruolo della contrattazione tra le parti sociali. Per esempio tra le urgenze non c’è quella di ridurre i vincoli ai contratti a termine bensì quello di disegnare un sistema di ammortizzatori sociali universali».
Come lei sa bene, non ci sono i soldi.
«Non c’è dubbio. Però seguendo questa logica continuiamo a finanziare la cassa integrazione in deroga. Forse sarebbe stato meglio avere un istituto uguale per tutti».
Con la Confindustria siete a un passo dall’accordo sulla rappresentanza sindacale. Può servire per affrontare meglio la crisi?
«Sì. Dopo una lunga stagione di scontro è giunto il momento di dare regole ai rapporti tra le parti. I tempi sono più che maturi e i sindacati sono pronti: hanno una proposta unitaria che speriamo possa essere accolta dalla Confindustria nelle prossime ore. Speriamo che prevalga il buonsenso e non la vecchia logica delle divisioni».
(r.man)

La Stampa 20.5-13
Ineleggibilità, ora il Pdl teme un asse tra Grillo e parte del Pd
Il centrodestra preoccupato che alcuni senatori decidano di votare con i 5 Stelle
di Amedeo Lamattina


Prima Renato Schifani nell’intervista al nostro giornale; ora il suo collega della Camera Brunetta. I due capigruppo del Pdl hanno lo stesso timore: il voto che la giunta per l’immunità del Senato dovrà esprimere su Silvio Berlusconi. Il punto esclamativo lo mette Brunetta, quando strilla «aridateci il Pci», volendo così affondare il coltello sugli accordi non mantenuti dal Pd e sul controllo dei parlamentari dell’alleato. Schifani e Brunetta temono che si possa ripetere la stessa scena dell’elezione di Nitto Palma alla presidenza della commissione Giustizia del Senato. Cioè senatori Pd che vanno per la propria strada, come è successo in forma più eclatante con il falò di Marini e Prodi durante l’elezione del capo dello Stato.
Incidenti avvenuti sempre a scrutinio segreto e il Pdl teme la «recidiva», come la chiama Brunetta. «I parlamentari del Pd sono recidivi, inaffidabili per il passato, speriamo non lo siano per il futuro». Il futuro sta arrivando, con l’insediamento della Giunta per l’immunità (martedì) che dovrà verificare le condizioni di eleggibilità dei parlamentari. Anche quelle del senatore Berlusconi, appunto. Una questione da non sottovalutare. Qualunque componente di questa giunta potrebbe sollevare un problema di incompatibilità e si andrebbe allo scrutinio segreto. Così, un senatore 5 Stelle pone il problema e magari al voto si tira dietro una parte del Pd e di Sel.
Solo una volta che si insedierà la giunta si capirà se ci sono i voti potenziali per una simile pugnalata politica. E allora Brunetta ricorda che «se si sommano i voti dei Democratici a quelli di Sel e M5S, è come se io sottoscrivessi con una mano una società e con l’altra denunciassi il socio». In politica questo può avvenire e avviene molto più frequentemente che nel diritto aziendale. Sapendolo, Schifani e Brunetta mettono le mani avanti e pongono il problema ai loro dirimpettai del Pd. Ma questo passaggio è l’ultima cosa che il Pd vuole affrontare adesso, avendo già tanti fronti da gestire. I vertici del gruppo sono sicuri che sui provvedimenti del governo non ci saranno problemi. Ma su questi provvedimenti si vota a scrutinio palese. Più problematico è controllare lo scrutinio segreto, proprio mentre inizia la scalata del governo Letta.
Ecco perché è l’ultima cosa che vorrebbe affrontare, il capogruppo del Pd Zanda, crocifisso per la sua intervista all’Avvenire in cui parlava di ineleggibilità di Berlusconi. Ma lo ha fatto a titolo accademico, perché ogni partito deve tenere viva l’appartenenza al partito, l’«identità», mentre al governo ci si mescola con gli storici nemici. E lì, al governo, non c’è la stessa tensione che circola tra le truppe parlamentari a maggioranza variabile su certe questioni. Cosa succederebbe se venisse messo ai voti il dll anti-corruzione, come vorrebbe il presidente Grasso, che l’ha presentato a inizio legislatura?
Ora che si insedia la giunta per l’immunità può succedere l’incidente - lo teme anche il Pd: «Sono voti non controllabili. Non sarà una rogna da poco», è la sincera e preoccupata ammissione che si fa a Palazzo Madama. Il partito guidato da Epifani vorrebbe prima sciogliere, mercoledì al vertice sulle riforme con il premier, il nodo della legge elettorale, sottoposta alla Consulta per vizi di incostituzionalità. I capigruppo Zanda e Speranza vogliono proporre la cancellazione del Porcellum e il ritorno al Mattarellum. Pdl e mezzo governo non sono d’accordo, a cominciare dal ministro Franceschini. Si cerca l’accordo nelle prossime ore, ma almeno sulla legge elettorale si vota a scrutinio palese. In giunta per l’immunità no, e le sorprese sono messe nel conto. Non dovrebbero essere i senatori Democratici a sollevare il problema dell’incompatibilità di Berlusconi. Ma - ci si chiede - i senatori che andranno a comporre la giunta saranno «indisciplinati» come quelli della commissione Giustizia? Martedì, quando l’organo si insedia (salvo proroghe), il Pdl capirà se il pericolo è reale: conteranno quei senatori Pd che potrebbero sostenere una richiesta di voto proveniente da 5 Stelle.
Tutti i filogovernativi della maggioranza si augurano che il direttivo del gruppo Pd al Senato indichi senatori insensibili al canto delle sirene grilline. Largo del Nazareno sa che sarebbe un errore imperdonabile, non uno di quei «falli di reazione» nei confronti dei quali Berlusconi lo statista chiede di non reagire. Qui si tratta dello stesso Berlusconi, della sua ineleggibilità. Alta tensione a Palazzo Chigi.

Repubblica 20.5.13
Il conflitto d’interessi
“Berlusconi ineleggibile subito” sfida del M5S, il Pd si divide
La proposta andrà in Giunta. Casson: stavolta è una partita nuova
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Non faranno passi indietro, i 5 stelle, sull’ineleggibilità di Silvio Berlusconi. «Domani la giunta per le elezioni e le immunità parlamentari si riunirà per la prima volta al Senato ed eleggerà il suo presidente - dice Vito Crimi - poi, alla prima seduta utile, noi solleveremo la questione ». Il capogruppo dei grillini a Palazzo Madama è fiducioso:
«Secondo me stavolta passerà la giusta interpretazione della legge, quella per cui il Cavaliere non avrebbe mai dovuto sedere in Parlamento. Perché è chiaro che Berlusconi decadrà non appena sarà condannato dalla Cassazione, l’esclusione dai pubblici uffici scatterà immediatamente, e i suoi avversari politici hanno tutto l’interesse a dire: “Lo abbiamo fatto cadere prima. Lo abbiamo fatto cadere noi”. E ci faremo due risate visto che se ne sono accorti dopo 20 anni».
Si chiede quale strada prenderà il Pd, Crimi. Crede che il presidente dei senatori democratici Luigi Zanda - che giovedì scorso aveva ammonito: «Berlusconi è ineleggibile, non può fare il senatore a vita» - sia in buona fede, ma che di tutti gli altri non si possa ancora dire. Le scuole di pensiero all’interno del partito sono diverse: c’è chi pensa che non si debba guardare al passato, che bisognerebbe piuttosto riscrivere quella legge - la 361 del 1957 - rendendola più stringente per tutti, oltre che per il Cavaliere. Oggi l’articolo 10 prescrive l’ineleggibilità di «coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica ». La concessionaria delle frequenze radio su cui trasmette Mediaset è una società quotata in borsa di cui la Fininvest della famiglia Berlusconi possiede il 38%. Il Cavaliere è proprietario de facto, quindi, ma questo - alle giunte che si sono succedute alla Camera dal 1994 a oggi - non è apparso sufficiente. «Per paradosso - ricorda Marco Follini, che la scorsa legislatura presiedeva la giunta del Senato - finora è stato considerato ineleggibile Confalonieri e non colui che gli ha dato l’incarico».
«Qui non vige la Common Law, i precedenti interessano fino a un certo punto», dice chiaro il senatore pd Felice Casson che, da buon magistrato, ha già avuto modo di studiare le carte. «Credo sia meglio non anticipare le nostre posizioni visto che la giunta ha poteri paragiurisdizionali e non si è mai riunita», spiega cauto. «Certo, il centrosinistra ha qualche imbarazzo perché in passato, alla Camera, ha votato almeno una volta per l’eleggibilità, ma io su questo tema ragiono con la mia testa e sono contento che il segretario Epifani si sia espresso in questo senso, dicendo che saranno i componenti della giunta a decidere».
Se ne parlerà quindi, tra i democratici, ma non ci saranno ordini di scuderia. «L’importante dice un dirigente - è che non sembri che facciamo un uso politico della giunta come ha fatto il Pdl per anni, da Cosentino in giù». Benedetto Della Vedova, in commissione per Scelta Civica, non vuole anticipare nulla: «Aspettiamo e si vedrà», dice sibillino. I tempi non sono maturi. Lo saranno presto però. E se mai la “mozione” dei 5 stelle dovesse passare in giunta, stavolta sarà l’aula del Senato a decidere.

Repubblica 20.5.13
Il voto a Roma
Un cuore rosso e “addio inciuci” Marchini sfida i vecchi partiti De Vito: mai accordi con Marino
Gli outsider nella corsa per il Campidoglio
di Alessandra Longo


ROMA — E poi c’è Alfio Marchini... Te la raccontano così la campagna elettorale per il sindaco di Roma. Accanto ai due competitor principali, Gianni Alemanno, primo cittadino uscente, appoggiato dal centrodestra, e Ignazio Marino, candidato sindaco del Pd con il favore di Sel (ma la freddezza degli orfani di Gentiloni e Sassoli), c’è, appunto, Marchini, detto dai suoi pochi detrattori Beautiful. A seguire, o se volete, appaiato, il candidato Cinquestelle, Marcello De Vito, cui vanno aggiunti gli altri aspiranti al Campidoglio. 19 nomi in tutto.
Ma torniamo a Marchini che ha cominciato a far campagna prestissimo e si è affidato ad un enorme cuore rosso, simbolo della Roma «con l’anima» che vuol rappresentare. La capitale conosce bene la storia della sua famiglia e Marchini è anche un po’ stufo di raccontarla. I Marchini imprenditori, costruttori e comunisti, il nonno Alfio, partigiano, che partecipa alla Liberazione di Sandro Pertini da Regina Coeli, la scuola dai Gesuiti, la sua «fede interiore» combinata alla «visione laica», cinque figli, separato, campione di polo. Roba da sfiorare la perfezione. Ed è per questo che poi gli tocca accentuare i contenuti pesanti della sua sfida: promettere, addirittura, «la fine del consociativismo e dell’inciucio », annunciare la «manutenzione straordinaria» cui intende sottoporre la città (se mai gli capitasse di vincere), far sognare con quella «carta di credito caricata di 200 euro al mese», inclusa nel suo programma e destinata ai più poveri. Slogan irresistibile: «Piedi nel quartiere, sguardo nel mondo». Occhi adoranti delle signore al mercato. Eccolo a Campo de’Fiori, un pezzo di pizza in mano, gli occhiali da sole. Gli si avvicina una ragazza. Testuale: «Finalmente posso votare un figo pazzesco». Che volete, ad Alemanno e Marino non succede. Marchini va forte sui social network, con la Web serie «Mommascolti » e gli hashtag come questo: #searfiodiventasindaco Tor Pagnotta diventa Tor Baguette. Arfio, l’Avatar, parla al posto suo: «Mai prima di mezzogiorno. Una città riposata è più bella » oppure: «Più golf e più polo. Roma mi ama». Una cosa è certa: Alfio/Arfio ritiene di essere la soluzione politica del momento: «Non sono contro i partiti ma contro questi partiti che hanno perso contatto con il territorio e la gente». I voti della Lista del cuore, teoricamente, dovrebbero andare in fase di ballottaggio verso il Pd. Ma Marchini recita la sua parte e rovescia i fattori: «Sono io che chiederò voti a loro». Sa di piacere anche ad un pezzo del partito di Epifani ed è piuttosto ruvido con tutti e due i suoi diretti avversari: «Come cittadino e come candidato non reputo all’altezza quei signori ». Si è molto arrabbiato quando un giornale ha dato la notizia di un suo incontro segreto con Alemanno e Ignazio Marino ha preso sul serio il gossip: «Tutto falso, infamante, privo di qualsiasi riscontro oggettivo. Negli ultimi sei mesi l’unico a fare opposizione ad Alemanno sono stato io».
Nervosismi dell’ultim’ora. A sua volta Alfio-Beautiful sospetta che Marino si sia già messo d’accordo per il secondo turno con quel Marcello De Vito, candidato CinqueStelle, scelto con 500 clic (il Movimento di Grillo, ricordiamolo, ha preso il 28 per cento nel Lazio alle politiche). De Vito respinge le insinuazioni: «Ma quando mai. Marino e Alemanno per me sono uguali, esponenti di due partiti che hanno fallito». E’ il più pacato di tutti, niente a che vedere con il suo guru. 38 anni, avvocato, gira la città con un camper bianco modello Ford 1975. Ieri campagna elettorale a Villa Ada, vertice degli animalisti a CinqueStelle, turbinio di cani, anche quello di De Vito, un volpino che si chiama Rudi, «non Ruby». Su Gianni Alemanno cori grillini di disapprovazione: «E’ il peggior sindaco che la città abbia mai avuto». Grillo, che sa di non sfondare, non si è speso molto: «L’ho visto tre volte in tutto per dieci minuti ma Beppe sarà con noi, il 24, a piazza del Popolo».
C’è anche un altro candidato, molto popolare a Roma, che non è finito sotto i riflettori dei talk show. È Sandro Medici, appoggiato da Rifondazione, dai Comunisti Italiani, anche da una lista che si chiama «Romapirata ». La sua biografia online inizia proprio dall’inizio ed è molto divertente («Figlio di un fornaio di San Lorenzo e di una stiratrice di Donna Olimpia, Sandro Medici nasce a Roma a metà del secolo scorso... «). Medici è uno che ha provato a fare le primarie con il centrosinistra ma poi ha lasciato perdere, scoraggiato dal clima. Si è messo in proprio con i «compagni». Campagna mediaticamente sottotono come tocca a chi non ha soldi, molto seguito nelle periferie. Medici conosce davvero Roma — è stato consigliere comunale e, dal 2001, presidente del decimo Municipio — glielo riconoscono gli avversari. Del partito cugino non gli va bene quasi niente e men che meno apprezza la linea Marino: «Agisce in quella cornice finanziaria imposta dalla Bce che è proprio la causa dell’impoverimento degli Enti Locali». Ha un obiettivo primario: «Se divento sindaco congeliamo il debito pubblico di Roma, non lo paghiamo più. Cosa succede? Nulla. L’hanno già fatto in altri Paesi, sono usciti dal patto di stabilità... «. Duro e puro ma chiuderà in leggerezza con due giorni di festeggiamenti a cominciare dal 23, al Parco San Sebastiano. Sul palco Assalti Frontali, Elio Germano, Valerio Mastrandrea, Tete de Bois.
I candidati sindaci a Roma sono tanti, in tutto 19, e la scheda, con i nomi delle liste, è lunga un chilometro. Hanno aspiranti al Campidoglio anche CasaPound (Simone Di Stefano è stato aggredito a picconate pochi giorni fa), Forza Nuova e Militia Christi. Dice il compagno Medici: «Roma è una bottega dove tutto si compra e tutto si vende, compresa la dignità della rappresentanza politica».

Repubblica 20.5.13
Agenda rossa, ecco il supertestimone
Spunta il volto dell’uomo che notò l’oggetto in via D’Amelio. I pm: va identificato e sentito
di Francesco Viviano


PALERMO — Ha un volto l’uomo che il 19 luglio del 1992 si aggirava vicino ai cadaveri carbonizzati del giudice Paolo Borsellino e dei cinque uomini della sua scorta, e che con un piede sollevava un parasole facendo scorgere quella che sembra un’agenda rossa. Quell’uomo, che indossa un paio di pantaloni beige su una camicia bianca, è stato ripreso dai Vigili del fuoco intervenuti sul luogo della strage pochi minuti dopo lo scoppio dell’autobomba. Potrebbe essere un fotografo della polizia o dei carabinieri e, secondo uno dei pm di Caltanissetta, avrebbe scattato anche delle immagini perché mentre l’operatore dei Vigili del fuoco filma la scena, si intravedono i flash di una macchina fotografica. Il personaggio sulla scena del delitto, in una fase precedente del filmato, viene anche ripreso frontalmente. «È chiaro a questo punto che stiamo cercando queste foto, che non ci sono state mai mostrate. Identificheremo anche quell’uomo perché potrebbe fornirci elementi molto importanti per l’inchiesta sull’agenda rossa», dice uno dei componenti del pool di magistrati che indagano sulla strage.
Dunque a ritrarre quell’agenda rossa vicino al cadavere carbonizzato di Emanuela Loi ci sarebbe non solo il filmato dei Vigili del fuoco ma anche qualche fotografia. Materiali fondamentali per confermare o escludere la presenza in via D’Amelio dell’agenda, ma mai portati all’attenzione dei magistrati di Caltanissetta che questa mattina faranno un punto per affidare le deleghe per i nuovi accertamenti. Di questi elementi, fra l’altro, non c’è traccia neanche nell’ultima perizia della polizia scientifica consegnata ai magistrati nel 2007. Dice il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo: «In quella consulenza non si parla né di possibili agende rosse né di foto. Ricordo che erano
stati segnalati un tappetino di colore marrone, alcuni fogli di carta e altri reperti di nessuna importanza». Che fine ha fatto il diario di Borsellino? Fino ad ora, dopo 21 anni, non se ne è mai saputo nulla. Ma a confermarne l’esistenza c’è, tra i tanti, un testimone oculare, uno dei poliziotti sopravvissuti alla strage, Gaspare Vullo, che ha sempre dichiarato che quel giorno il giudice aveva con sé l’agenda dalla quale non si separava mai e sulla quale annotava le sue riflessioni più importanti. Sugli accertamenti disposti dopo la pubblicazione su Repubblica dei fotogrammi di una agenda rossa è intervenuto ieri anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti: «Tutti ci auguriamo — ha detto — che un eventuale supplemento di indagini porti ad accertare una verità troppo a lungo trascurata».

Repubblica 20.5.13
L’intervista
“Nel diario la prova del patto tra mafia e uomini dello Stato”
Il procuratore Lari: Borsellino indagava su Ciancimino
di Attilio Bolzoni


ROMA — I misteri dell’agenda rossa di Paolo Borsellino non finiscono mai. Ora, dopo ventuno anni, si scopre che c’erano immagini del dopo strage mai segnalate ai magistrati che indagano. È andata davvero così? «Assolutamente sì, il fotogramma di quell’oggetto che somiglia a un’agenda rossa non ci è stata mai comunicata. O non l’hanno ritenuta importante o non l’hanno vista, chissà».
Parla il procuratore capo della repubblica di Caltanissetta Sergio Lari, il magistrato che insieme ai suoi colleghi del pool antimafia ha ribaltato le indagini sulla strage di via Mariano D’Amelio scoprendo nuovi assassini, falsi pentiti, errori giudiziari, depistaggi polizieschi.
E adesso che farete, il filmato dei vigili del fuoco ce l’avete già, quale sarà la prossima mossa investigativa?
«Per domani mattina (oggi, ndr) alle 9 ho già convocato la direzione distrettuale antimafia, intorno a un tavolo ci saranno tutti i pm e anche i funzionari della Dia che seguono le indagini su Capaci e su via D’Amelio. Subito dopo trasmetteremo una delega alla polizia scientifica di Roma: sono necessari accertamenti, dobbiamo capire esattamente cos’è quella macchia rossa».
I misteri sull’agenda non finiscono mai ma, a quanto pare, anche le vostre indagini. Sono cominciate nel giugno del 2008 con il pentimento di Gaspare Spatuzza e, anno dopo anno, emerge sempre qualche frammento di verità.
«Sull’agenda rossa da una parte seguiamo gli sviluppi dibattimentali del quarto processo Borsellino — fra qualche giorno ascolteremo per esempio testimoni chiave come il consigliere Giuseppe Ayala — e dall’altra ci sono spunti investigativi che non abbiamo mai abbandonato. È materia segreta e non ne posso parlare».
Sull’agenda rossa?
«Anche sull’agenda rossa. Sappiamo con certezza che il povero Paolo Borsellino quel pomeriggio del 19 luglio era sceso dall’auto e aveva citofonato alla madre, la stava aspettando per portarla dal dottore. Se avesse avuto l’agenda in mano quel diario sarebbe andato in cenere… nell’esplosione si sono liquefatte perfino le armi dei poliziotti di scorta... ma se l’agenda l’ha lasciata nell’auto blindata o dentro la borsa, gli scenari che si aprono sono altri e tanti...».
Perché, secondo lei, c’è un’Italia così interessata all’agenda rossa di Borsellino? Perché tutta questa attenzione?
«Perché c’è molta sete di verità. Perché gli italiani provano un sentimento forte verso quell’uomo che è stato un vero eroe del nostro tempo. E poi perché tutti vogliamo sapere quali erano i suoi pensieri subito dopo l’uccisione del suo amico Giovanni Falcone».
Un’idea lei ce l’ha?
«Io penso — lo pensiamo tutti qui alla procura di Caltanissetta — che Paolo Borsellino abbia registrato sull’agenda quegli incontri di Cosa Nostra, attraverso Vito Ciancimino, con rappresentati delle istituzioni».
La famosa trattativa.
«Si, la trattativa».
Da almeno cinque anni indagate anche voi magistrati di Caltanissetta sul fronte dei mandanti esterni alle stragi, ci può fare il punto sulle inchieste?
«Più che mandanti esterni io preferisco chiamarli “concorrenti”. Intanto, non sappiamo chi c’era insieme a tre mafiosi nel garage dove hanno riempito di esplosivo l’auto che doveva saltare in aria in via D’Amelio. Il pentito Spatuzza non lo sa... ci ha detto solo che quell’uomo non era di Cosa Nostra. Certo, il boss Giuseppe Graviano dovrebbe conoscerlo... Poi non sappiamo ancora la provenienza di gran parte dell’esplosivo utilizzato, solo una minima parte è stato ripescato nel mare davanti a Porticello. Da dove proveniva l’altro? E non sappiamo da dove proveniva nemmeno il telecomando. Stiamo ancora rivedendo tutti gli atti, dall’inizio».
Procuratore, ci faccia il bilancio delle investigazioni che ci hanno dato un’altra verità sulla strage
«Sette uomini scarcerati dopo la nostra richiesta di revisione dei processi bis e ter… si erano già fatti quasi diciotto anni di galera... e poi nove nuovi responsabili individuati, fra i quali Giuseppe Graviano e Salvo Madonia. Abbiamo scoperto tanto ma non tutto. E continuiamo».
Da molto tempo ci sono tre poliziotti ancora indagati per calunnia, sono dentro una complicata vicenda dove si allungano ombre di depistaggi decisivi per le indagini. Quando deciderete la loro posizione?
«Quando avremo chiaro il quadro complessivo. Credo che lo faremo alla fine del quarto processo Borsellino, quello che si sta ancora celebrando».

La Stampa 20.5.13
La Procura vuole far luce sulle cure alla mamma di Busto Arsizio
“Mi aspettavo che mia moglie facesse una follia”
Più volte la donna aveva manifestato le sue intenzioni a medici e famigliari
Il padre dei due bambini gettati dal balcone: veniva ricoverata, poi la rimandavano a casa
di Fabio Poletti


Nemmeno la fede ha aiutato Silvia B., la mamma quarantaduenne di Busto Arsizio che l’altro giorno ha gettato i suoi due figli dalla finestra. Da quando si era avvicinata al discusso gruppo di Rinnovamento Carismatico ad Oleggio vicino a Novara e aveva iniziato a partecipare alle messe di guarigione stava pure peggio. «Gridava tutti i giorni... Avevamo paura che facesse qualcosa di brutto... », ricorda un vicino del piano di sotto nell’elegante palazzina di via Boccaccio. Gli ultimi anni Silvia B. li aveva passati dentro e fuori dall’ospedale psichiatrico. L’ultimo ricovero il 19 aprile, poi le inevitabili dimissioni l’11 maggio. «Non sento più la testa... Mi hanno cambiato la terapia... », ripeteva a tutti. Anche ad Andrea R., suo marito che adesso corre da un ospedale all’altro - da Legnano a Bergamo - per essere vicino ai suoi due bambini vivi per miracolo. Le sofferenze di Andrea R. nel condominio erano risapute e chi lo ha incontrato ancora ieri ha ripetuto quello che andava dicendo da mesi: «Me lo aspettavo che facesse quello che ha fatto... Tutte le volte che veniva ricoverata poi la rimandavano a casa e stava peggio di prima. Volevo farla ricoverare in una struttura privata ma con quello che costano... ».
Mirko Monti, il magistrato di Busto Arsizio che si occupa del caso, «almeno per scrupolo» vorrebbe accertare se ci sono responsabilità da parte dei vertici del reparto di Psichiatria dell’ospedale di Busto Arsizio e di tutti gli altri che hanno avuto inutilmente in cura la donna. Nella cartella clinica di Silvia B. alla data delle dimissioni, solo una settimana prima che gettasse i suoi due figli dalla finestra, i sanitari scrivono quello che è molto più di un presagio: «La paziente soffre di istinti lesionisti e autolesionisti». Che volesse farla finita coi suoi figli nella elegante palazzina con le piastrelle di ceramica marrone lo sapevano tutti. Lei non ha mai nascosto che avrebbe voluto uccidere i suoi figli «per il loro bene». Al magistrato che l’ha sentita prima di mandarla agli arresti nella struttura psichiatrica di Busto Arsizio da dove era stata dimessa da poco e questa volta per lunghissimo tempo, Silvia B. non ha fatto mistero di quelle che da anni erano le sue ossessioni: «Ci pensavo da tempo a questo. Come madre non sarei mai stata in grado di garantire loro un futuro felice. Adesso spero solo che non sopravvivano».
Invece ce la faranno e quasi sicuramente senza conseguenze Gabriele che ha sette anni e sua sorellina Francesca di quattro. Gabriele ricoverato nel reparto di Rianimazione dell’ospedale di Legnano per una frattura occipitale e una lesione a una vertebra cervicale è sveglio e vigile e ieri mattina ha voluto vedere i cartoni animati alla televisione. Più serie ma non in pericolo di vita le condizioni di Francesca, trasferita nel reparto di Terapia intensiva pediatrica dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. La bambina è intubata e in coma farmacologico per un gravissimo trauma cranico ma già nelle prossime quarantotto ore i medici potrebbero sciogliere la prognosi. Suo padre e le nonne si dividono tra i due ospedali per non lasciare soli i due piccoli. Mentre Silvia B., pesantemente sedata e guardata a vista nel reparto di Psichiatria di Busto Arsizio, non vede nessuno se non i medici e gli infermieri. Definitivamente sola con i suoi peggiori fantasmi e chissà se pure con un’ombra di rimorso.

Corriere 20.5.13
Il papà dei bimbi gettati giù: «Me l'aspettavo»
di Claudio Del Frate


BUSTO ARSIZIO (Varese) — Adesso la prima preoccupazione è la salute delle piccole vittime. Ma quando le condizioni del fratellino e della sorellina che sabato sono stati gettati dal balcone del terzo piano dalla madre saranno migliorate, occorrerà valutare anche il comportamento delle autorità sanitarie. Stabilire cioè se Silvia, la madre quarantaduenne protagonista del gesto sia stata seguita e curata adeguatamente e se il suo folle gesto, da lei stessa annunciato, poteva essere in qualche modo scongiurato.
«E' uno scrupolo che doverosamente approfondiremo più avanti», ha confermato proprio ieri il pubblico ministero Mirko Monti, titolare delle indagini sul caso.
Silvia era stata dimessa dall'ospedale di Rho l'11 maggio, dopo tre settimane di degenza, ma le sue condizioni erano parse immediatamente problematiche; i vicini di casa la sentivano sempre urlare, uno di loro ha raccontato di averla udita minacciare proprio di gettare i figli dal balcone. Ma la paziente era seguita anche dai servizi territoriali di psichiatria, che l'avevano visitata anche pochi giorni fa.
«Purtroppo un gesto del genere prima o poi ce l'aspettavamo — ha confidato ieri mattina ad un vicino il marito di Silvia e padre delle due vittime — tanto che avevamo pensato di ricorrere al ricovero in una struttura privata».
L'uomo, un ingegnere titolare di uno studio privato di progettazione edile ha trascorso la giornata di ieri al capezzale dei figli, le cui condizioni restano critiche anche se col passare delle ore l'ottimismo si fa strada.
Il maschietto, di 6 anni, è ricoverato a Legnano: ieri mattina era vigile, ha potuto guardare anche dei cartoni animati alla tv ma resta in prognosi riservata per la frattura al cranio e a una vertebra.
Più problematiche le condizioni della sorellina di 4 anni, che si trova nella terapia intensiva dell'ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. La piccola è sempre sedata e intubata, ieri pomeriggio i medici l'hanno risvegliata per un breve tempo e le risposte sono state incoraggianti: danni neurologici non ne sono stati riscontrati. Il rischio è l'insorgere di emorragie interne e decisive a questo proposito saranno le prossime 24 ore. «La piccola paziente rimane grave, ma non in imminente pericolo di vita», riferiscono fonti dell'ospedale.
Notte relativamente tranquilla anche per Silvia, per la quale il magistrato ha disposto gli arresti nel reparto di psichiatria di Busto Arsizio; la donna è sotto l'effetto di psicofarmaci, terapia alla quale si sottoponeva già da anni. Non ha ricevuto visite e dunque si rimane alle drammatiche parole da lei pronunciate nel corso dell'interrogatorio di sabato nel commissariato di Busto Arsizio. «Gettare i miei figli dal balcone è un pensiero che avevo in testa da tempo e sabato quando mi sono trovata sola mi si è ripresentato, con una madre come me non avrebbero avuto futuro».
L'indagata affronterà domani l'interrogatorio di garanzia davanti al gip.
Nel frattempo si arricchisce lo scenario sulla vita della mamma. I primi segnali di una instabile salute mentale risalgono, secondo la «storia clinica» ricomposta dalla polizia, agli anni dell'adolescenza. La diagnosi ricorrente è sindrome depressiva con personalità border line; in passato non aveva mai avuto però manifestazioni violente nei confronti dei figli.
Alcuni testimoni la descrivono come donna ossessionata dalla pulizia e dall'igiene, altri ricordano una sua frequentazione con un gruppo di preghiera di Oleggio (Novara) denominato Rinnovamento Carismatico; si tratta di un nucleo cattolico molto fervente, non ben visto dalle autorità ecclesiastiche locali, che proclama la «guarigione spirituale» dei suoi seguaci attraverso canti e preghiere.
La frequentazione di Silvia della chiesa di Oleggio si sarebbe interrotta tuttavia diversi mesi fa, in coincidenza con il riacutizzarsi delle sue periodiche crisi.

Corriere 20.5.13
Quel nemico che scatena la violenza distruttiva
La serie di omicidi e suicidi e la sproporzione rispetto alla crisi
di Vittorino Andreoli


La serie di omicidi, suicidi e di comportamenti che combinano insieme queste due negazioni della vita (persone che compiuta una strage più o meno vasta, si uccidono), è cosi insistente, quotidiana e in continuo aumento da rappresentare un fenomeno nuovo ed estremamente preoccupante.
L'elemento a cui si richiamano i protagonisti di queste storie di cronaca spesso è la crisi economica, una parola che qui perde il suo generico significato poiché in un caso vuol dire licenziamento dal lavoro, in un altro la messa in vendita di un appartamento da parte di un Istituto di credito che non riceve più il pagamento del mutuo che lo gravava, in un altro ancora la necessità di chiudere una piccola azienda per fallimento dovuto alla mancata riscossione di un credito o per la cancellazione improvvisa di un ordine, o di un fido.
Un fatto in vertiginoso incremento poiché sono molti quelli che pensano di compiere simili comportamenti estremi e immaginarli rappresenta la premessa per la loro attuazione. Il primo elemento da considerare è la sproporzione del rapporto di causa ed effetto: come è possibile uccidere i famigliari e sopprimersi per un licenziamento? Come per un fallimento quando la storia delle imprese è anche storia di delusioni e di eventi di questo tipo?
Per rispondere occorre fermarsi sull'attuale crisi economica per dire almeno due cose: la prima è che dura da molto tempo, da almeno 5 anni, e che non lascia prevedere una fine, a meno di profezie che sanno di magia poiché parlano di «un tempo che verrà» riportando ad un clima che sa di mistero. La seconda è che la crisi è passata dalla economia, che significa dal denaro che non c'è, dentro la testa di tutti noi e sta modificando lo stesso modo di pensare e il senso della vita, dell'essere nel mondo. Da una parte dunque la sensazione di trovarsi in un tunnel buio che toglie ogni possibile protagonismo e fa avvertire la propria impotenza, dall'altra il cambiamento della visione del mondo che vede sparire la speranza, e finisce per mostrare la morte come una possibile soluzione per uscire dalla crisi.
Ciò avviene perché la «crisi nella testa» produce paura: personaggio chiave della epidemia di morti provocate.
La paura quando assume la dimensione del panico produce la caduta della razionalità e genera una regressione alle pulsioni e dunque alle componenti istintuali dell'uomo. Una condizione in cui la percezione del mondo attorno e di se stessi appaiono differenti e ci si sente vittime di un qualche nemico che trama per decretare la nostra fine e quella dei ruoli sociali che ricopriamo (di padre o di lavoratore o imprenditore). Un nemico di fronte al quale o lo si aggredisce (prima risposta alla paura) oppure si scappa (la fuga come seconda opzione). Ma ecco l'elemento nuovo della attuale situazione: il nemico non ha volto, non lo si riesce a identificare. E del resto se si parla del o dei responsabili di questa crisi (definita lunga e strutturale per distinguerla dalle precedenti congiunturali e brevi) si imbocca subito la metafisica oppure la demagogia. Il risultato vero è comunque che molti sono emarginati dalla crisi, da quel nemico che non ha volto. E che finisce per trasformare tutti in potenziali nemici, per fare assumere al nemico la identità assente o nascosta. L'anonimo diventa nemico e si uccide a caso.
Il processo che si attua è il passaggio dalla violenza alla distruttività di cui già parlava Eric Fromm. Con un nemico senza identità, si può giungere a colpire chiunque e persino se stessi. La distruttività è una piccola apocalisse: di fronte alla impotenza si vuole distruggere il proprio piccolo mondo e persino se stessi. Nella distruttività il mondo diventa nemico e lo si vorrebbe annientare, poiché è la condizione esistenziale di quel momento (della crisi) che ha reso impossibile la vita. Si entra veramente nel clima descritto dalla letteratura apocalittica, in cui in fondo il nemico non è colui che ti ha rubato la moglie, chi ti ha volutamente negato un aiuto, ma diventa il Male del mondo.
Occorre aggiungere che le due possibili reazioni al panico, la fuga e l'attacco, vengono congiunte quando si ammazza e poi ci si toglie la vita, atto quest'ultimo che distacca dal mondo: lo si colpisce e si scappa. E la percezione della morte è in questo periodo cambiata, non più avvertita come il limite ai propri progetti, ma come liberazione dalla propria dimensione di perdente.
Ritorna fortemente alla mente Freud e l'istinto di morte che prevale su quello di vita quando le condizioni della civiltà sono frustranti. La «crisi dentro la testa» è collettiva e dunque ha a che fare con meccanismi che non possono essere «visitati» come fossero caratteristiche del singolo, parte della follia di ciascuno. Viene innescata proprio da un evento come la crisi economica che ha assunto una dimensione esistenziale, perché la società attuale ha celebrato la grandezza del denaro, ritenendolo addirittura la misura del valore di tutte le cose e un uomo vale per il denaro che possiede. Perderlo equivale di fatto a non esserci.
Occorre lavorare molto su progetti coerenti e capaci di dare speranza, per riaprire la dimensione del futuro e aiutare chi la crisi la vive in maniera più drammatica. Occorre una res publica che guardi alla serenità di tutti e non ai privilegi di chi la crisi non la avverte, ma l'ha prodotta.

l’Unità 20.5.13
Assad o non Assad, i dubbi di Israele e dell’Occidente
Il presidente siriano è davvero la scelta peggiore? Il Mossad diviso sui rischi degli scenari futuri di una Siria pro-iraniana o pro Al Qaeda
di Umberto De Giovannangeli


Il dilemma d’Israele riflette quello che paralizza la Casa Bianca e divide le cancellerie europee. Il «dilemma Assad». Ovvero: c’è di peggio del raìs siriano? E il Medio Oriente può ritrovarsi a dover fare i conti sulle macerie del regime baathista con un califfato qaedista a Damasco? Ufficialmente, il governo di Gerusalemme non sembra avere dubbi: il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha evocato la prospettiva di nuovi raid israeliani in Siria, impegnandosi ad agire per evitare che armi sofisticate arrivino nelle mani di Hezbollah o di altri gruppi. Intervenendo alla consueta riunione settimanale del gabinetto di governo, Netanyahu non ha fatto alcun riferimento esplicito agli attacchi di inizio maggio in Siria, ma ha chiarito che Israele è pronto a intervenire in futuro e ha aggiunto che si sta preparando «a ogni scenario» nel conflitto siriano. «Agiremo per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani anche in futuro», ha detto Netanyahu, descrivendo le azioni del governo come «responsabili, determinate e di alto livello». Israele non ha mai confermato né smentito di aver attaccato e distrutto i missili iraniani custoditi alle porte di Damasco nella clamorosa operazione condotta a inizio maggio.
Questo ufficialmente. In realtà, però, il «dilemma-Assad» tormenta Israele. A chiarirlo è lo scontro che vede protagonisti due ex capi dell’intelligence militare dello Stato ebraico. L’interesse d’Israele è che il regime di Bashar al-Assad cada al più presto: a sostenerlo è l’ex capo degli 007 militari Amos Yadlin, polemizzando con un anonimo responsabile della sicurezza israeliana, citato dal Times di Londra, secondo il quale il presidente siriano, al contrario, resta il male minore rispetto ai jihadisti attivi fra gli insorti. Secondo Yadlin, invece, Assad è ormai il pericolo numero uno poiché consente all’Iran di trasferire missili verso gli Hezbollah libanesi. A sostegno della tesi di Yadlin è la notizia che la Siria si sta preparando a dispiegare i suoi missili più avanzati, i terra-terra Tishreen, in direzione di Tel Aviv. È quanto riferisce il giornale britannico Sunday Times, spiegando che i preparativi sono stati rilevati dai satelliti. L’ordine sarebbe di colpire Tel Aviv se Israele lancerà un altro raid sul territorio siriano.
SOTTO TIRO
I Tishreen sono la versione siriana degli iraniani «Fateh 110», obiettivo proprio del terzo raid israeliano il 3 maggio scorso sul suolo siriano, che Damasco voleva far arrivare in Libano alle milizie sciite di Hezbollah. Sono missili con propellente solido, che quindi possono essere lanciati con brevissimo anticipo da rampe semoventi e a differenza degli Scud di fabbricazione russa non debbono essere riforniti di «carburante» liquido, operazione lunga e delicata. Hanno una gittata nella versione siriana di 250 km e trasportano ad una velocità di 3,7 Mach (la velocità del suono) una testata convenzionale di 450 kg di esplosivo.
La resa dei conti è dunque inevitabile? Assad è diventato il nemico pubblico numero uno d’Israele? Chi è l’uomo di Israele a Damasco? Secondo Efraim Halevy, già capo del Mossad (il servizio di sicurezza esterno israeliano) tra il 1998 e il 2002, non ci sono dubbi: è lo stesso presidente siriano Assad, colui che attualmente dà agli israeliani maggiori garanzie di stabilità al confine. In un articolo su Foreign Affairs, Halevy ricorda come in passato diversi premier (Yitzhak Rabin, Ehud Barak, Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu) hanno cercato di raggiungere un accordo di pace con la Siria Paese con cui Israele è tecnicamente in guerra. E tuttora, osserva Halevy, l’obiettivo strategico di Israele nei confronti di Damasco è il raggiungimento di una pace stabile, ragione per cui non intende immischiarsi nella guerra civile in corso nel Paese vicino. Secondo Halevy, Israele ha buone ragioni per non fidarsi né dei ribelli né dell’esercito regolare siriano. Tra i primi infatti stanno prendendo sempre più piede gruppi legati ad al Qaeda, mentre le forze governative, pur essendo ancora sotto il comando di Assad, sono sempre più dipendenti dalla Guardia rivoluzionaria iraniana e dall’Hezbollah libanese. L’Iran di fatto è l’unico Paese con entrambi «i piedi» in Siria, e sebbene appoggi Assad sta facendo pressioni su Damasco affinché sostenga con maggior vigore gli interessi iraniani nella regione. Con queste premesse, spiega ancora Halevy, c’è il serio rischio che un regime post-Assad possa essere apertamente pro-al Qaeda o pro-Iran: entrambi scenari inaccettabili per Israele. E anche per il grande alleato di Gerusalemme: gli Stati Uniti. Le considerazioni di Halevy, che certo non può essere considerato una «colomba», spiegano l’incertezza sul «che fare» che agita Israele e il suo alleato americano. Fino a quando?

Corriere 20.5.13
Rivolta dei salafiti tunisini. Arrestata Amina
di Francesco Battistini


La giovane femminista sfidava gli estremisti a seno nudo. «Salvata» dagli agenti
Bastava un nonnulla. E a un certo punto ieri, nell'alba vuota di Kairouan, la quarta città santa dell'Islam che da due giorni era pattugliata a ogni angolo da undicimila gendarmi e guardie antiterrorismo, di colpo nelle strade deserte è comparso dal nulla un uomo. Il nonnulla, appunto. Un uomo solo. Silenzioso. Di corsa. Col barbone, un sorriso beffardo. Avanti e indietro, sotto il naso d'un ufficiale. «Faceva jogging», dicono i suoi. «Una provocazione», sostiene la polizia. Quell'uomo si chiama Saifeddin Rais ed è il portavoce di Ansar Al Sharia, i partigiani della legge islamica, i salafiti che non riconoscono la nuova Tunisia nata dalle ceneri di Ben Ali. E a Kairouan, dove iniziò la conversione musulmana del Maghreb, dove la leggenda vuole sgorghi la stessa acqua della Mecca, dove il governo aveva vietato che si tenesse l'annuale congresso salafita, Rais era venuto lo stesso. Settecento dei suoi al seguito. Pronti a farsi arrestare. A dare battaglia.
L'hanno ammanettato all'istante. Ed è stata subito la domenica di sangue che si temeva: a Kairouan e poi a Douar Hicher, a Ben Arous, ad Ariana e nella banlieue della capitale, a Ettadhamen e a Intilaka. L'anno scorso, al raduno nazionale dei turboislamici, 40 mila persone, ci si era limitati alle dimostrazioni d'arti marziali e alle esibizioni equestri con la spada brandita. Stavolta, no: sassaiole, molotov, autoblindo, sirene, lacrimogeni, manganelli, spari in diverse città. Con un morto, un manifestante ventisettenne di Kebili, e una quindicina di feriti, molti poliziotti. Con la comparsata pure di Amina Tyler, la liceale-femminista del movimento Femen che qualche settimana fa s'era spogliata con clamore sul web e che di nuovo ha mostrato il seno nudo davanti a una delle più venerate moschee, Oqba ibn Nafaa, scatenando le proteste dei fedeli e obbligando la polizia, per proteggerla, a incarcerarla. Con la sensazione che sia iniziata la campagna elettorale, di qui a fine estate. E che l'Islam radicale abbia cominciato la sua guerra santa per la conquista della Tunisia.
La Bloody Sunday conferma una cosa: i salafiti stanno alzando il livello della sfida a Ennahda, il partitone islamico al governo, ormai liquidato come «tirannia sostenuta dall'America, dall'Occidente, dalla Turchia e dal Qatar per ingannare i musulmani». Contrastati dalla maggioranza (a Kairouan, ieri la gente offriva rose ai soldati, mentre il giornale Le Temps scriveva: «Riservano il paradiso a sé e preparano l'inferno per gli altri»), sostenuti da Al Qaeda maghrebina e guidati in clandestinità da un reduce delle guerre afghane, Abu Iyad (al secolo Saif Allah Bin Hussein, sospettato d'aver organizzato l'assalto di settembre all'ambasciata americana di Tunisi, quattro morti), i partigiani della sharia si sono arroccati lungo il confine algerino e nelle ultime settimane hanno intensificato le violenze: attacchi a gallerie d'arte e perfino ai Buddha Bar della vita notturna, bandiere nere del jihad issate sulle prefetture al posto del drappo nazionale, detenuti in sciopero della fame fino alla morte, un commissario di governo ucciso dopo una pubblica fatwa, venti agenti feriti con mine artigianali, la promessa di «noi eroi che abbiamo difeso la Cecenia e l'Iraq, la Somalia e la Siria, d'immolarci per Kairouan»… Finora tollerati, secondo qualche editoriale anche troppo, i salafiti sono infine arrivati allo scontro decisivo col nuovo ministro dell'Interno, Lotfi Ben Jeddou, un indipendente, ex magistrato e fama di mastino. Gli hanno promesso che il raduno è solo rinviato, domenica prossima ci riproveranno. La posta è alta: la rivoluzione dei gelsomini rischia il profumo del crisantemo.

Repubblica 20.5.13
La Jihad in topless
di Renzo Guolo


La chiave è nella scritta che compariva sul corpo di Amina in occasione della foto che aveva destato scandalo: namus, onore. Se una donna si scopre pubblicamente e non viene messa ai margini, è l'onore comunitario che viene meno. La topless jihad di Amina è dirompente perché mette in mostra la divaricazione tra l'individualismo e l'olismo, fattore che ancora oggi marca la differenza tra Occidente e Islam.
La topless jihad, con i suoi eccessi e le forzature minoritarie tipiche delle avanguardie, mette in discussione una dimensione chiave per i movimenti islamisti che della islamizzazione dei costumi, dunque anche della velatura del corpo e del rifiuto della sua mercificazione, fanno una questione di principio. Anche Femen, dunque anche Amina, è contro la mercificazione ma mettersi a nudo nel mondo della Mezzaluna significa innanzitutto mostrare la contraddizione dell'oppressivo e claustrofobico dominio maschile. Un diverso sguardo sul senso della dignità femminile destinato a una rotta di collisione fatale.
Ma il governo tunisino deve affrontare una questione ben più esplosiva. Il movimento salafita, qui come altrove, è una spina nel fianco. Considera Ennahda preda del revisionismo islamico e incapace di fondare uno Stato islamico retto sulla sharia; teorizza la legittimità di combatterlo con ogni mezzo. La sua corrente jihadista, guidata dal reduce “afgano” Abu Ayad, si richiama a Al Qaeda. Il partito di Gannouschi si trova così pressato da un’ opinione pubblica laica, che non accetta derive religiose, e un movimento radicale che pesca nello stesso bacino dell'Islam politico e si presente come il solo, autentico interprete dell'ideologia islamista. Negli ultimi due anni Ansar Al Sharia si è radicata nei quartieri popolari, facendo proseliti anche tra i delusi di Ennahda. Si ritiene che siano circa cinquantamila oggi i seguaci del radicalismo salafita. Un rapporto condizionato dall'album di famiglia, che ha indotto una certa tolleranza di Ennadha verso i “fratelli che sbagliano”. Almeno sino a ieri, quando i margini per il compromesso ideologico si sono infranti sotto il fuoco della polizia.

Corriere 20.5.13
L’ora della resa dei conti fra le due anime dell'Islam
Contro la laicità. Gli integralisti vogliono imporre il velo alle donne
Assaltano le università, mandano sul fronte siriano «ragazze di conforto» in nome del Corano
di Sergio Romano


TUNISI — Gli scontri fra la polizia e i salafiti a Tunisi e a Kairouan dimostrano che anche in Tunisia, come in Egitto, l'Islam è diviso fra due tendenze: un partito dalla Fratellanza musulmana, Ennahda, e alcuni movimenti radicali fra cui il maggiore è Ansar Al Sharia (partigiani della legge coranica). A prima vista la distinzione è netta. Ennahda si professa democratico, vuole tranquillizzare i laici, governare il Paese, allargare l'area del proprio consenso, ed è stato probabilmente influenzato dall'Akp, il partito turco di Recep Tayyip Erdogan che molti hanno definito, forse troppo generosamente, una «democrazia cristiana islamica». I salafiti di Ansar Al Sharia, invece, formano un gruppo integralista che non nasconde le sue simpatie per Al Qaeda e predica un Islam totalitario, fondato su una lettura miope e angusta del Corano. Uno dei suoi maggiori esponenti è Abou Iyad, oggi alla macchia, ma protagonista di uno scontro con le forze dell'ordine nella moschea di Al Fath e sospettato di un attacco all'ambasciata degli Stati Uniti, nel settembre 2012, in cui morirono quattro persone. Comunica con video diffusi sulla rete e il 12 maggio ha lanciato una sorta di dichiarazione di guerra contro Ennahda e il governo di coalizione mentre in quelle stesse ore un gruppo del movimento annunciava dalla piccola città di Menzel Bourghiba, a sud di Biserta, che avrebbe piantato la bandiera nera della Salafia al posto della bandiera nazionale sulla facciata del ministero degli Interni. Sono salafiti di Ansar Al Sharia, verosimilmente, i guerriglieri (una ventina) che l'esercito ha stanato dalle grotte dove si erano installati nella zona di Jebel Chambi, lungo la frontiera meridionale con l'Algeria.
Ho chiesto a Soufiane Ben Fahrat, commentatore della televisione e de La Presse, quanti siano i salafiti tunisini. Ha azzardato una cifra approssimativa, diecimila, di cui almeno tremila molto attivi nell'organizzazione e mille veterani di tutte le guerre arabe e musulmane combattute negli ultimi trent'anni, da quella afghana contro i sovietici a quelle più recenti in Libia, Mali, Siria, Somalia, Nigeria. La crisi libica e, più recentemente, quella siriana hanno reso la transizione tunisina ancora più drammaticamente complicata. Nel Paese vi sono molti esuli libici, compromessi con il regime di Gheddafi, ma anche una parte considerevole dell'arsenale con cui le potenze occidentali e qualche Paese del Golfo hanno armato gli insorti di Bengasi e i ribelli di Tripoli.
Non è tutto. Oltre a disporre di armi, i salafiti si sono serviti di alcune moschee per farne altrettanti uffici di reclutamento per la guerra siriana. Hanno mandato al fronte parecchi giovani combattenti, ma anche alcune ragazze sui quindici anni nell'ambito di una operazione che è stata definita «jihad del sesso» o «jihad del matrimonio». Le ragazze non combattono, ma forniscono ai guerrieri il conforto di un sesso benedetto dalla fede. Nel corso di una conferenza stampa, all'inizio di aprile, il fenomeno è stato denunciato con molta fermezza dalla maggiore autorità di Tunisia in materia di diritto coranico. Il Gran Mufti Othman Battikh ha detto che i salafiti stanno corrompendo la gioventù tunisina, che la jihad del sesso è soltanto prostituzione e che «chiunque metta fine alla propria vita non può essere un martire».
Gli ho fatto visita in un vicolo della vecchia Casbah, a pochi passi dalla piazza dove sorge il palazzo del governo. Sapevo che un imam radicale, qualche giorno prima, lo aveva duramente criticato per le sue affermazioni e non sono stato sorpreso quando, rispondendo a una mia domanda, ha anzitutto distinto i salafiti innocui, devoti e impegnati nella quotidiana lettura dei detti del Profeta (con i quali è sempre possibile dialogare) da quelli di cui aveva parlato nella sua conferenza stampa. Ma le sue parole degli inizi d'aprile erano già servite nel frattempo ad allertare le famiglie, oggi forse più attente a evitare che ragazzi e ragazze si lascino tentare dal fascino della jihad. Un giornalista tunisino, qualche tempo fa, ha visitato Damasco e il regime di Bashar Al Assad gli ha mostrato un gruppo di giovani connazionali arrestati dopo il loro ingresso clandestino nel Paese e rinchiusi nelle carceri siriane. I suoi articoli, dopo il ritorno in patria, hanno avuto lo stesso effetto.
Non esistono soltanto i salafiti reclutati per la guerra siriana. Esistono anche quelli che pretendono di modificare i costumi laici delle università tunisine. Un docente della Università di Manouba mi ha raccontato che un gruppo composto da ragazzi e ragazze ha fatto irruzione nella facoltà di lettere. I ragazzi avevano folte barbe, vestivano camicioni sgualciti e calzoni lunghi sino al polpaccio (per facilitare le abluzioni rituali), mentre le ragazze erano coperte dal niqab, un velo integrale che lascia agli occhi soltanto una sottile feritoia. I loro portavoce pretendevano che le ragazze fossero autorizzate a portar il velo durante le lezioni e gli esami. Il consiglio accademico ha respinto la richiesta («non si può insegnare a un muro») e le ragazze, assatanate, hanno buttato all'aria l'ufficio del preside che è riuscito a spingerle fuori della stanza, ma a prezzo di una denuncia per aggressione con certificati medici scritti da medici compiacenti in cui si leggeva che sulle guance delle giovani donne vi erano «tracce di schiaffi». Il pover'uomo ha dovuto attendere un anno prima di essere assolto da qualsiasi imputazione. Lo hanno aiutato gli interventi di molti professori di università europee, soprattutto francesi, mentre il ministro tunisino della Istruzione superiore, chiamato in causa dall'università di Manouba, si limitava a raccomandare il dialogo e la comprensione. Alcuni dei laici incontrati a Tunisi sono convinti che Ennahda indossi la maschera della tolleranza quando parla al mondo, ma conservi stretti legami di affinità con l'Islam radicale in cui ha le sue vecchie radici.
A me sembra piuttosto che il partito provi di fronte a questi «ragazzacci» lo stesso imbarazzo dei comunisti italiani quando scoprivano che molti terroristi degli anni Settanta appartenevano al loro «album di famiglia». Ameur Larayedh, fratello del primo ministro, e Osama Al Sarigh, deputato della Costituente eletto dai tunisini residenti in Italia, mi hanno detto che il loro partito non intende tollerare alcuna forma di violenza e che ogni illegalità sarà affrontata con il rigore della legge. Ma il nodo dei legami che ancora uniscono il maggiore partito tunisino al suo retroterra islamico radicale non è di quelli che si possono sciogliere garbatamente o con affermazioni di principio. Per essere totalmente credibile Ennahda dovrà tagliarlo.
(1-continua)

Repubblica 20.5.13
Il possibile baratro delle elezioni europee
di Mario Pirani


ENRICO Letta è cresciuto in poche settimane, persino nella percezione più alta che promana dalla sua statura fisica, quasi l’ergersi di una testa sopra gli astanti sia la prova riuscita di come ha saputo presentarsi all’agone del governare. Fermezza, serietà, autorevolezza e preparazione mi hanno ricordato, con più sommessi fremiti e fantasie intellettuali, la forza del suo maestro, Nino Andreatta, il migliore esponente della Dc nel dopoguerra e credo non mi faccia velo l’affetto che gli portavo. Spero con trepidazione di non subire aspre delusioni che la impervia situazione potrebbe, comunque, produrre. Letta, peraltro, non è un uomo particolarmente brillante e la ricerca, magari arida, della concretezza ha nella sua prosa la meglio sugli effetti speciali della fantasia. Il ruolo che oggi ricopre mi spinge a ripercorrere gli ultimi scritti, prima dell’investitura. Sfoglio l’ultimo numero di “Arel” (3/12), la rivista da lui diretta, fondata a suo tempo da Andreatta. Non mancano le note pessimistiche, accompagnate da qualche speranza ottimistica sollecitata dall’emergenza. “Vorrei – diceva il prossimo premier – fare una provocazione. Venti anni fa prima si è negoziato e poi approvato il Trattato di Maastricht che aveva tre pilastri che, poi, di fatto, erano quattro: il primo pilastro era costituito dall’unione monetaria e dall’unione economica, poi c’era la politica estera e di sicurezza comune, quindi gli affari interni di giustizia. Tre pilastri da dividere in quattro. Quando iniziò quel percorso i capi di governo di allora furono d’accordo sul fatto che i quattro pilastri marciassero insieme per raggiungere insieme gli obbiettivi preposti. Ma già al momento della negoziazione del Trattato cominciò l’asimmetria. Il primo pilastro – unione monetaria e unione economica — fu quello che andò avanti con forza, gli altri con il passar del tempo hanno mostrato molta lentezza... l’asimmetria porta contraddizioni che diventano esplosive per società in ebollizione come le nostre, per gli elettorati dei nostri paesi. Se queste contraddizioni non saranno risolte, i nostri elettori si sposteranno verso posizioni radicali. Dove l’aggettivo “radicale” sta per estremista.
Proprio su questo punto dovremmo riflettere e ricordarci che la crisi del ’29, mentre negli Stati Uniti dette vita all’esperimento rooseveltiano, con una ripresa economica, in Europa sboccò in direzione contraria: con il nazismo in Germania che combatté la disoccupazione con il riarmo, l’Esercito del Lavoro e l’Ordine hitleriano; con l’autarchia e le leggi del lavoro fasciste (proibizione dello sciopero e dei sindacati in una Italia totalitaria); in un inasprirsi dello stalinismo imperniato sulla rigidità della pianificazione in Unione Sovietica. Gli Stati minori soggetti seguirono quell’indirizzo, dalla Romania ai paesi baltici, alla Spagna.
Dappertutto la xenofobia e l’antisemitismo estremo accompagnarono il cosiddetto risveglio nazionalistico. Oggi non ci accorgiamo ancora che questo è il panorama che abbiamo di fronte: ad un anno dalle elezioni nel maggio 2014 per il Parlamento di Strasburgo, oggi baluardo dell’europeismo, si prevede che gli elettori possano eleggere un quarto di deputati populisti – da 100 a 150 – che vanno dagli euroscettici inglesi all’estrema sinistra greca, dai Veri Finlandesi agli antirom ungheresi, dagli antislamici fiamminghi ai post nazisti austriaci. In Italia ambivalente è la posizione grillina e tiepida quella berlusconiana, antieuropei i leghisti. Tutte forze che con una piattaforma in Parlamento, potrebbero indebolire fortemente i due partiti storici, popolari e socialisti. L’Ue diventerà il bersaglio del connubio populista destra- estrema sinistra. Per farvi subito fronte si parla (ma si parla solo) di misure urgenti per il lavoro e di candidature uniche, transnazionali, compreso il presidente, per le cariche elettive dell’Unione. Capiranno in tempo le forze democratiche europee il pericolo che corrono? Lo capirà l’Italia? Questa è la più ardua scommessa anche per Enrico Letta.

Repubblica 20.5.13
Ombre nere sull’Europa
Quel virus populista nelle vene dell’Europa
di Bernardo Valli


PARIGI È UN discorso antico. Gli storici ne fanno risalire le origini alla Repubblica romana (quella ante Christum natum). Altri ne ritrovano facili tracce in tante fasi della storia recente in diversi continenti. Ma quello che ci investe non è della stessa natura. Ha un’impronta europea. È in parte attribuito a un declino, a un declassamento del Vecchio continente. Trova un terreno favorevole nelle democrazie confrontate all’emergenza di un mondo nuovo, dominato dall’incertezza. È un discorso portatore di un virus politico, dal quale neppure gli autentici partiti democratici sono del tutto immuni. Non è tanto uno spettro che si aggira per l’Europa, quanto un vento che soffia sulle nostre società, provocando sinistri scricchiolii.
Il populismo, poiché di questo si tratta, si presta a tante definizioni. La versione più diretta, meno lusinghiera, indica il discorso di uomini o movimenti che, attraverso promesse elettoralistiche, cercano di conquistare l’approvazione popolare esacerbando le frustrazioni, risvegliando pregiudizi naziona-listi, xenofobi, razzisti, o esagerando i problemi della sicurezza. Il bersaglio delle critiche è l’élite al potere, dalla quale deve dissociarsi il popolo, considerato un insieme di individui, non suddivisi in classi sociali e spinti da collera, rancore, indignazione a seguire un leader carismatico e un partito capace di esprimerne l’ideologia.
È un discorso antico. Gli storici ne fanno risalire le origini alla Repubblica romana (quella ante Christum natum). Altri ne ritrovano facili tracce in tante fasi della storia recente in diversi continenti. Ma quello che ci investe non è della stessa natura. Ha un’impronta europea. È in parte attribuito a un declino, a un declassamento del Vecchio continente. Trova un terreno favorevole nelle democrazie confrontate all’emergenza di un mondo nuovo, dominato dall’incertezza. È un discorso portatore di un virus politico, dal quale neppure gli autentici partiti democratici sono del tutto immuni. Non è tanto uno spettro che si aggira per l’Europa, quanto un vento che soffia sulle nostre società, provocando sinistri scricchiolii.
Il populismo, poiché di questo si tratta, si presta a tante definizioni. La versione più diretta, meno lusinghiera, indica il discorso di uomini o movimenti che, attraverso promesse elettoralistiche, cercano di conquistare l’approvazione popolare esacerbando le frustrazioni, risvegliando pregiudizi nazionalisti, xenofobi, razzisti, o esagerando i problemi della sicurezza. Il bersaglio delle critiche è l’élite al potere, dalla quale deve dissociarsi il popolo, considerato un insieme di individui, non suddivisi in classi sociali e spinti da collera, rancore, indignazione a seguire un leader carismatico e un partito capace di esprimerne l’ideologia. Il terreno d’azione è quello di una democrazia rappresentativa: per questo l’epidemia populista affonda le radici nelle nostre società in crisi.
Oggi esistono ventisette partiti di tipo populista — forse qualcuno di più poiché spuntano come funghi — dotati di un’influenza considerevole in diciotto diversi paesi europei. Negli anni Settanta se ne contavano quattro. In questa contabilità (Dominique Reynié, “Populismes: la pente fatale”, novembre 2012, edit. Plon) sono presi in considerazione soltanto le formazioni politiche che in uno scrutinio nazionale hanno raggiunto un quoziente superiore al 5%. Ma undici sono andati oltre il 15%. I loro successi elettorali sono cominciati con la scomparsa o quasi dei partiti comunisti, con il calo dei consensi a quelli socialdemocratici, e in generale a quelli di governo. Il passaggio dall’estrema destra classica e marginale a un populismo lanciato all’inseguimento della società post industriale è avvenuto soprattutto nell’ultimo decennio, anche se si era già delineato nel mezzo degli anni Novanta.
Il modello tradizionale dell’estrema destra, neo fascista o neo nazista, appartiene ormai al passato o sopravvive a stento. In esso rientravano l’Msi prima del congresso di Fiuggi; l’Msi- Fiamma tricolore di Pino Rauti; l’Npsd e la Dvu tedeschi; il National Front e il Bnp britannici; o l’Nvu olandese. I movimenti con la vecchia impronta sono ridotti a gruppuscoli. Il modello post industriale (come l’ha chiamato Piero Ignazi) ha conosciuto invece un’espansione significativa. Favorita anche dalla crisi economica e finanziaria, intervenuta nel frattempo.
Il fenomeno populista, nelle sue dimensioni attuali, è un prodotto della svolta avvenuta attorno al 2000, quando l’inizio del secolo segna per noi europei, se non proprio la fine, il profondo mutamento di un mondo e comincia, appunto, quello dell’incertezza. Si è appena concluso il comunismo ed è appena iniziata la globalizzazione. Per molti paesi del vecchio continente si sta per aprire l’era dell’euro, della moneta unica, vista come una rinuncia della nazione; i referendum sulla Costituzione europea rivelano profonde perplessità (Olanda e Francia reagiscono con un “no”); esplode il terrorismo islamico con l’attentato dell’11 settembre a New York; ne segue la guerra in Afghanistan e un paio d’anni dopo quella in Iraq; i due conflitti “contro l’Islam” e gli attentati del 2004 a Madrid e del 2005 a Londra rilanciano, accentuano i timori per il terrorismo islamico e di conseguenza quelli per la massiccia immigrazione musulmana. E nel 2008, il 15 settembre, l’affare della banca di investimenti Lehman Brothers annuncia la crisi economica e finanziaria. Con le conseguenze che ancora viviamo, in particolare l’austerità e l’aumento della disoccupazione.
È su questo sfondo (ricostruito da Dominique Reynié, professore nella parigina Sciences Po e autore di saggi sull’opinione pubblica) che le democrazie europee vedono crescere l’ondata populista. Due sono gli itinerari seguiti dai partiti politici convertiti, in parte o del tutto, alla nuova, devastatrice protesta. Il primo riguarda i movimenti dell’estrema destra razzista i quali agiscono per opportunismo. I dirigenti più giovani abbandonano o accantonano le vecchie ideologie neo naziste, neo fasciste, antisemite e negazioniste (dell’Olocausto). E archiviano l’anticomunismo, non solo perché il comunismo si è dissolto, ma anche perché un’ampia porzione degli strati popolari un tempo sensibile ai suoi richiami adesso rappresenta un elettorato da conquistare. I populisti si adeguano con pragmatismo alle nuove realtà. Non mancano di spirito imprenditoriale. Conoscono la cultura del marketing.
In Francia la svolta del Front National avviene a tappe. L’anziano Jean-Marie Le Pen tenta senza grande successo la modernizzazione del partito di cui è il fondatore, ma questa sua incapacità non gli impedisce nel 2002 di superare il candidato socialista, Lionel Jospin, al primo turno delle elezioni presidenziali. Al ballottaggio sarà inevitabilmente sconfitto dal tardo gollista Jacques Chirac. Per Le Pen sarà comunque una sconfitta trionfale. E lo sarà anche per l’estrema destra che si sta riformando.
La figlia Marine gli succede nove anni dopo e adotta un discorso non più ancorato ai temi tradizionali. La neo leader del movimento non attenua gli attacchi all’immigrazione, in particolare quella musulmana, ma non ricalca lo stile del razzismo paterno. Lo ripulisce, lo nasconde sotto i richiami alla democrazia. Marine Le Pen predica l’uguaglianza tra uomini e donne, la laicità, le libertà individuali e d’opinione. Da questa base se la prende con l’immigrazione musulmana, portatrice di valori che minacciano quelli democratici della République. I riferimenti al regime collaborazionista di Vichy, durante l’occupazione nazista, o all’Algeria francese abbandonata da de Gaulle, spariscono. Vanno in soffitta.
Il Front National di Marine Le Pen si ispira al populismo dell’Europa del Nord. Per il super nazionalismo, per lo sciovinismo, si distingue invece dai separatisti, ad esempio dalla Lega italiana e dal Vlaams Belang fiammingo. Il comun denominatore è il rifiuto dell’Unione europea. I populisti gli devono larga parte del loro successo. In Danimarca hanno puntato dal ‘92 sull’antieuropeismo e sulla difesa dell’indipendenza del paese e dell’identità nazionale.
Per questo gli svedesi hanno respinto l’euro nel 2003.
Sempre l’eurofobia, più che l’euroscetticismo, è all’origine dell’ancora caldo successo dell’Ukip (United Kingdom Independence Party), che tre settimane fa ha ottenuto il 23% alle elezioni amministrative in Gran Bretagna, e al quale i sondaggi promettono il 20 % a quelle politiche del 2015. Se il pronostico si avverasse l’intero quadro politico sarebbe sconvolto. Ai tre partiti tradizionali (il conservatore, il laburista e il liberaldemocratico) se ne aggiungerebbe un quarto di dimensioni tali da modificare gli equilibri della democrazia britannica. L’obiettivo iniziale dell’Ukip, animato da Nigel Farage, era di far uscire il Regno Unito dall’Unione europea. Ma col tempo il programma si è appesantito, ha assunto un chiaro carattere populista: lotta all’immigrazione, ad ogni diversità che inquini la compattezza nazionale, e un discorso che cerca di trasformare in collera lo smarrimento della gente colpita dalla crisi economica.
La base elettorale dell’estrema destra populista conta anzitutto piccoli commercianti, artigiani, operai: è formata da strati della società in cui prevale un sentimento di declassamento, di smarrimento di fronte alla mondializzazione, che espone i singoli paesi alla concorrenza internazionale, e a un’Europa in declino che non sa proteggersi. La crescente disoccupazione è attribuita alla mancanza di difese efficaci. I partiti populisti non si augurano la fine dell’economia di mercato, né sono nemici del capitalismo. Vogliono un’economia nazionale controllata da uno Stato forte, capace di ristabilire le frontiere e applicare una politica protezionista. Condannano il potere delle banche, della finanza internazionale, che sottrae al popolo le sue naturali risorse. E se la prendono con i ricchi, con coloro che governano con la politica o con il denaro. (In questo quadro il movimento di Grillo potrebbe trovare uno spazio).
Alternativa per la Germania, l’Afd, la nuova formazione politica tedesca, alla quale viene attribuito dai sondaggi circa un quarto dell’elettorato, ha come obiettivo una dissoluzione progressiva dell’unione monetaria. Sostiene che la Germania non ha bisogno dell’euro e che l’Europa può sopravvivere alla sua scomparsa. L’Afd è un movimento conservatore. Tra gli animatori, economisti, accademici e intellettuali, non sono pochi quelli provenienti dalla Cdu di Angela Merkel. E quasi tutti negano di essersi ispirati al populismo dilagante, e ancor meno all’estrema destra radicale.
Ma sono rari coloro che si dichiarano apertamente populisti o di estrema destra. Sono rari soprattutto nei partiti della destra rispettabile, dove le tentazioni populiste sono vive e tenaci. E che si esprimono sollecitando più o meno apertamente alleanze con i partiti estremisti, tenuti ufficialmente fuori dall’“arco costituzionale” come si diceva tempo fa in Italia. Nelle competizioni elettorali il populismo è emerso a tratti, in modo evidente, in tanti paesi europei. Senz’altro con Sarkozy in Francia, e con Berlusconi in Italia. Due personaggi per altri versi incompatibili. La tentazione di una complicità con il Front National è ancora forte nell’Ump (l’Unione per un movimento popolare) di cui Sarkozy è stato il presidente. E in Italia la Lega populista e il Pdl hanno governato insieme per anni. Anche in Gran Bretagna molti conservatori auspicano un’alleanza con l’United Kingdom Independence Party. Questo è il secondo itinerario, oltre a quello dell’estrema destra, lungo il quale il populismo si infiltra nella vita politica europea.

Oggi alle 13.50 su RNews il tele-reportage di sull’avanzata del neopopulismo nei paesi europei

Repubblica 20.5.13
Gran Bretagna
Quei “pagliacci” anti-politica che vogliono Londra fuori dall’Ue


PER decenni la politica britannica ha avuto tre partiti: i conservatori, i laburisti e i liberaldemocratici. Adesso ne ha un quarto, protagonista di un’ascesa senza precedenti, che toglie voti a ciascuna delle altre formazioni. L’Ukip (United Kingdom Independence Party) ha ottenuto il 23% dei voti alle amministrative di due settimane fa e sfiora il 20% nei sondaggi sulle politiche 2015. Bisogna tornare indietro di 40 anni, al temporaneo successo dello Sdp nel 1981, per trovare un fenomeno simile a Londra. Li chiamavano “pagliacci”, ora dimostrano di potere influenzare le scelte del governo conservatore: David Cameron ha indetto per il 2017 un referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna alla Ue proprio per fermare l’emorragia dei consensi a favore dell’Ukip. Guidato da Nigel Farage, l’Ukip aveva inizialmente un solo programma: portare il Regno Unito fuori dall’Europa. Ora ha posizioni contro gli immigrati, contro ogni tipo di “diversità”, contro lo Stato. È portatore di un populismo xenofobo, che sfrutta la crisi economica per indirizzare la rabbia della gente verso un rifiuto della politica tradizionale. Molti dei Tories predicano un’alleanza con l’Ukip alle prossime elezioni.
(enrico franceschini)

Repubblica 20.5.13
Francia
Attacchi all’Islam e al liberismo Marine Le Pen conquista gli operai


 «SE il populismo è il governo del popolo, per il popolo e attraverso il popolo, allora sono populista». Marine Le Pen non ha patemi d’animo quando si scaglia contro «le élite autoproclamate». Populista, il Fronte nazionale lo è sempre stato. Il suo fondatore, Jean-Marie Le Pen, aveva del resto cominciato la carriera politica con Robert Pujade, l’inventore del corrispettivo francese del nostro qualunquismo. Ma tra padre e figlia ci sono differenze non trascurabili. Il populismo di Jean Marie era infatti rozzo, fatto di battute a effetto, attacchi antisemiti e fulmini contro gli immigrati. Era un populismo duro, capace di chiamare a raccolta anche i gruppuscoli dell’estrema destra neofascista e di quella cattolico-integralista. Il populismo di Marine è più sottile: lei è favorevole all’aborto, attacca l’Islam e non direttamente gli immigrati. Ma soprattutto ha sposato una linea economica che l’avvicina all’estrema sinistra: fine dell’euro, ritorno alla vecchia Europa di Stati nazionali protezionisti, guerra al liberismo. Non a caso una fetta importante del suo elettorato viene dal mondo operaio, che da trent’anni ha voltato le spalle al Partito comunista.
(giampiero martinotti)

Repubblica 20.5.13
Germania
“Il Mediterraneo via dall’euro” I fan del marco cambiano slogan


«FUORI l’Europa mediterranea dall’euro, e così l’euro sarà nell’interesse della Germania». Ecco il nuovo slogan della neofondata formazione politica Alternative fuer Deutschland. Avevano chiesto il ritorno al marco, ma siccome tutti sanno che all’economia tedesca costerebbe un declino intollerabile, hanno ripensato il loro programma. E adesso sono una vera minaccia per l’europeismo rigorista di Angela Merkel e per quello più vicino a Letta e Hollande della Spd. Nei sondaggi Afd è già al 3% e può crescere ancora. Afd non si presenta con un volto di estremismo ideologico antidemocratico. Spaccia la cacciata del Sud d’Europa dalla moneta comune come unica scelta ragionevole. Il suo leader Bernd Lucke è un accademico ex democristiano. Lo affiancano economisti come Konrad Adam e l’ex presidente della Confindustria, Hans-Olaf Henkel. Tutta gente in doppiopetto, insomma, non nostalgici del Reich. Alle politiche del 22 settembre Afd può scompigliare gli equilibri e rendere problematica ogni governabilità.
Mentre Npd e altri neonazisti sono violenti ma incapaci di entrare in Parlamento.
(andrea tarquini)

Repubblica 20.5.13
Austria
L’industriale e l’alfiere dell’ordine in lotta per l’eredità di Haider


LA NUOVA destra radicale erede politica di Haider è a Vienna molto più forte che a Berlino, e ciò non è un caso: l’Austria annessa al Reich partecipò alle guerre di Hitler (austriaco anch’egli) e all’Olocausto, ma nel dopoguerra non fu portata dai vincitori al regolamento dei conti con la propria Storia e al mea culpa che furono costitutivi della Germania postbellica. La Fpoe di Heinz Christian Strache è terza forza politica, al 20% nei sondaggi. Strache cavalca umori xenofobi, vuole legge e ordine, rifiuta l’Europa con forte guida a Bruxelles, si dice difensore di identità nazionale e indipendenza. Finora queste campagne — e battute di sapore antisemita o apparizioni a riunioni di veterani delle forze armate del Reich — lo hanno rafforzato. Ora però è in calo, indebolito da un concorrente anomalo: Franz Stronach, anziano ma energico imprenditore (patron di Magna, colosso mondiale dell’indotto auto) che ha fondato con il suo Team Stronach un nuovo partito populista contrario a euro e Ue. Se non ci fosse Stronach, Strache farebbe più paura ai socialdemocratici del cancelliere Feymann e agli alleati di governo cristianopopolari. (a. t.)

Repubblica 20.5.13
Grecia
Ultradestra violenta e xenofoba Alba dorata cresce sulle macerie


IL VOLTO più inquietante del populismo europeo è forse oggi quello di Alba Dorata, il partito ultra-nazionalista greco diventato la terza forza politica del Paese, con 18 seggi in Parlamento (su 300) e una popolarità in crescita arrivata nei sondaggi — complici le macerie sociali lasciate dalla crisi — al 13%.
Simbolo dell’organizzazione guidata da Nikolaos Michaloliakos è un meandro bianco — che ricorda la svastica nazista — su sfondo nero e sulla scrivania del leader c’è un’aquila imperiale. Il programma politico si fonda sulla superiorità culturale ellenica e si traduce in una violenta campagna xenofoba contro gli extra-comunitari (1,5 milioni su 11 milioni di abitanti) in Grecia. Un rapporto del Consiglio dei diritti umani dell’Onu accusa Alba Dorata di 200 attacchi a sfondo razziale nel 2011 12. Il Consiglio Europeo ne conferma la natura neo-nazista sostenendo che «la Grecia ha il diritto di metterla fuorilegge».
Appello caduto nel vuoto perché il fragile governo di unità nazionale teme che una tale decisione ne aumenterebbe la popolarità in un Paese con il Pil crollato del 25% in 5 anni e la disoccupazione giovanile al 67%.
(ettore livini)

Repubblica 20.5.13
Russia
I gruppi della caccia al “diverso” che preoccupano il Cremlino


PER anni sono stati tollerati e addirittura protetti in quanto considerati utili al potere. Ma da un po’ di tempo gli almeno 70mila neonazisti russi in servizio permanente effettivo, cominciano a rivoltarsi al Cremlino.
Hanno cominciato a protestare contro Putin, familiarizzare perfino con i movimenti di estrema sinistra, o con gli un tempo odiati ecologisti. Tutti uniti contro un regime che non intende dare più alcuno spazio all’opposizione. Da allora polizie e servizi segreti hanno cominciato a combatterli, fermare i raduni improvvisati, bloccare i campi di addestramento paramilitari nelle periferie delle città. Ma è una lotta difficile. I gruppi sono una miriade, formati da massimo 15 ragazzi, ognuno con sigla nazista e senza un apparente coordinamento. La matrice politica è fondata sulla caccia al diverso, inteso come gay, nero e immigrato asiatico. Tutti argomenti che tirano in un Paese omofobico a ogni livello. E sconvolto dall’invasione di immigrati dalle ex repubbliche sovietiche. Ed è una caccia vera, fatta di raid, spedizioni punitive, omicidi. Con ramificazioni e alleanze con gruppi simili nella parte “bianca” dell’ex Urss: Bielorussia e Ucraina.
(nicola lombardozzi)

Repubblica 20.5.13
Quel melting pot nelle città che farà gli uomini tutti uguali
di Enrico Franceschini


Nelle metropoli le diverse etnie sono sempre più a contatto e le differenze si assottigliano Tanto che, secondo gli scienziati inglesi, l’urbanizzazione renderà omogeneo il Dna

LONDRA Forse non ce ne siamo ancora accorti, ma stiamo diventando tutti uguali. Per la prima volta nella storia dell’umanità, più di metà della popolazione mondiale vive in città, e questo sta producendo un effetto non solo culturale, ma anche biologico. «Gli uomini sono oggi più geneticamente simili tra loro di quanto siano mai stati negli ultimi 100 mila anni», afferma il professor Steve Jones, genetista del London University College e uno degli scienziati più noti del pianeta. Non ci siamo mai assomigliati tanto, in altre parole, da quando poche decine di migliaia di Homo Sapiens popolavano l’Africa orientale e cominciavano a diffondersi nel resto del globo.
Geneticamente simili, va precisato, non significa avere tutti lo stesso aspetto, la stessa faccia, lo stesso colore della pelle: vuol dire avere un simile Dna. Ma una cosa è in un certo senso la premessa dell’altra, essendo in ultima analisi la genetica a determinare le caratteristiche del nostro corpo. Nel presentare la tesi dell’ultimo libro del professor Jones, la Bbc parla infatti di «grande omogeneizzazione umana». A determinarla, è l’urbanizzazione. Le città, sebbene rappresentino soltanto il 3 per cento della superficie terrestre, ospitano ora più del 50 per cento della popolazione totale della terra.
Questo processo ha portato nel “melting pot” delle metropoli, nel pentolone di razze dei centri urbani, una quantità senza precedenti di immigrati da tutti i continenti. A New York si parlano 800 lingue. A Londra i bianchi sono adesso una minoranza (appena dieci anni fa erano ancora il 58 per cento). E come conseguenza di questa commistione, le lingue e i dialetti della terra diminuiscono costantemente: ogni due settimane ne scompare una delle 7 mila ancora esistenti.
In sostanza, la multietnicità, producendo società più diversificate dal punto di vista etnico e culturale, porta a mescolare le razze come non era mai accaduto, attraverso i matrimoni misti. Nord e sud, del mondo o di una stessa nazione, si mischiano. E dal cocktail genetico esce poco per volta una nuova specie: l’Homo Unicus. La razza degli uomini tutti uguali, non attraverso un fantascientifico progetto di clonazione,
bensì come risultato di una rivoluzione nei trasporti, nel progresso, nello stile di vita.
«È un’evoluzione cominciata con la bicicletta», dice il genetista Jones, con una provocazione che contiene una verità di fondo. Per milioni di anni, fino praticamente a due-tre secoli fa, gli uomini hanno vissuto per lo più nel luogo in cui erano nati. La distanza tra un villaggio e una città, per non parlare di quella tra una nazione e l’altra, tra un continente e l’altro, appariva come quella tra la Terra e la Luna: incolmabile. Le navi dei conquistadores prima, i treni della rivoluzione industriale poi (e la metropolitana, la prima inaugurata a Londra 150 anni or sono), hanno ridotto e infine frantumato quella distanza. Il globale è diventato locale. E la concentrazione sempre più ampia e diffusa di persone di origine etnica e geografica differente all’interno di una stessa città ha creato una miscela dapprima culturale, quindi pure biologica, come non accadeva dall’alba dell’Uomo.
Naturalmente è inesatto dire che siamo tutti uguali. Ma l’urbanizzazione, avverte l’eminente scienziato gallese, ci sta cambiando in modo non solo socioculturale. Possiamo sembrare diversi per ceto, reddito, religione, ma dentro, dal punto di vista scientifico, ci somigliamo quasi come al tempo del primo uomo. Dando ragione a quella vecchia battuta di Albert Einstein, che al funzionario dell’immigrazione di New York, il quale compilando il questionario d’ingresso negli Usa gli chiedeva a che razza appartenesse, rispose senza batter ciglio: «Umana».

Repubblica 20.5.13
L’intervista
Il genetista Giuseppe Novelli: “Ogni bambino nasce con almeno 70 combinazioni di geni non presenti nei genitori”
“Ma la nostra salvezza sono le mutazioni spontanee”
È un bene altrimenti un singolo virus come l’aviaria potrebbe portarci all’estinzione
di Alessandra Baduel


«Ogni bambino nasce con almeno 70 combinazioni di geni non presenti nel Dna dei genitori. Le mutazioni intervengono spontaneamente, per nostra fortuna. O vogliamo forse ammalarci tutti insieme dello stesso virus?». Il professor Giuseppe Novelli, genetista dell’università di Tor Vergata a Roma, crede ben poco alla possibilità di diventare tutti uguali, esseri omologati fin dentro la nostra struttura più intima.
Professore, ritiene possibile un’influenza dell’urbanizzazione sul patrimonio genetico individuale?
«Credo che ci stiamo omologando nel fenotipo, cioè nell’interazione del genotipo individuale con fattori esterni. Ci somigliamo sempre di più per l’azione di effetti ambientali, ma con ciò intendo la gestualità, il modo di vestirsi, pettinarsi, curare il corpo. Questo, sul lungo periodo può influire tramite la scelta di unioni non casuali fra esseri simili».
Un fatto positivo, o no?
«In biologia l’accoppiamento deve essere casuale per permettere la diversità, che dà modo alla selezione di agire favorendo il più adatto. Se fossimo tutti uguali, un virus come l’aviaria ci potrebbe far temere l’estinzione: un bel guaio, direi. Va anche detto, però, che oggi nel mondo circa un terzo delle unioni avviene fra persone nate a meno di 16 chilometri di distanza, ed ecco qui in atto anche l’”effetto megalopoli”. Ma poi è altrettanto vero che nelle stesse megalopoli gli incontri fra persone diverse sono sempre più frequenti».
Il confine fra influenza dell’ambiente e determinismo genetico allora resta?
«Leggendo l’intero genoma degli individui abbiamo scoperto che un bambino non è metà come la mamma e metà come papà, ma nasce con una parte di caratteristiche genetiche del tutto nuova. È questa la nostra salvezza: le mutazioni. E le differenze».

l’Unità 20.5.13
Oltre il destino. Quel senso del nulla
Essere e Verità, vita e morte: il nuovo saggio di Emanuele Severino
L’autore torna sui temi a lui cari e integra in parte il suo pensiero precendente.
Partendo dalla «Struttura originaria», la prima formulazione del sistema filosofico, affronta una questione necessaria quanto impossibile da spiegare
di Vincenzo Vitiello


CON AMMIREVOLE COSTANZA EMANUELE SEVERINO PROSEGUE NELL’INCESSANTE, e per certi aspetti finanche ossessiva, interrogazione sui temi propri della sua filosofia: il nulla, il destino, l’isolamento della Terra. Non sono ancora trascorsi due anni dalla pubblicazione de La morte e la Terra, che esce il suo nuovo saggio, Intorno al senso del nulla (Adelphi, Milano 2013), che sta a mezzo tra il commento e la integrazione-revisione del precedente.
Il tema di quest’ultimo libro l’«aporia del nulla» lo collega direttamente alla Struttura originaria, la prima formulazione del sistema filosofico, che l’impose giovanissimo, all’attenzione della repubblica dei filosofi per l’arditezza delle sue tesi. Ma in che consiste questa aporia del nulla, peraltro già rilevata dal monaco Fredegiso di Tours agli albori del IX secolo? In ciò, che parlare del nulla è tanto necessario quanto impossibile: necessario per potere definire l’essere, impossibile, perché con l’atto stesso di opporlo all’essere gli si conferisce uno statuto d’essere, che lo nega come nulla.
La soluzione prospettata nella Struttura originaria, e variamente ribadita nelle opere successive, consiste nel distinguere il contenuto dell’enunciato, il significato «nulla», che per la sua contraddittorietà si nega da sé, dall’enunciare stesso, il positivo significare il nulla, l’incontraddittorio dire: «il nulla è nulla». Non è questa la sede per esporre le obiezioni che a tale soluzione sono state mosse (tra gli altri da chi firma questa nota). Più conveniente a questa sede, e in generale più interessante, ci sembra ragionare sulla strategia messa in atto da Severino per spiegare com’è possibile, per una filosofia che afferma con la negazione del nulla l’eternità di tutte le cose, ammettere un «nuovo tipo di aporia del nulla» rimasta «irrisolta», che consiste in quel problematico «non è» che pur ricorre, esplicitamente o implicitamente, in tutti i giudizi che noi, abitatori della Terra isolata dal Destino, correntemente adoperiamo.
E ancora come è possibile una «terza forma di autocontraddizione del nulla». La strategia è presto detta: quanto di nuovo dell’«aporetica del nulla» si presenta nel libro ultimo è nella sua forma essenziale già incluso nella Struttura originaria. Incluso, anche se non era detto. Il che è affatto coerente con la tesi fondamentale di questa filosofia che spiega la nascita delle cose eterne in quanto riposano nello sfondo inapparente dell’Infinito con il loro entrare negli orizzonti sempre finiti dell’apparire del Tutto, e la loro morte con la loro uscita.
Ma come spiegare la differenza tra l’apparire del Tutto in orizzonti sempre finiti, e l’inapparente essere infinito del Tutto? Severino ha dapprima risposto che l’Infinito appare negli infiniti circoli finiti del suo mai compiuto apparire. Risposta che lui stesso ha riconosciuto nsufficiente, dacché non colma la distanza tra l’apparire e l’essere (se si vuole: tra il pensiero e l’essere), al contrario l’eternizza. Nel libro La morte e la Terra si spinge oltre, affermando che nell’istante della morte «appare la totalità concreta e infinita dello sfondo». È, questo, un passaggio necessario della sua filosofia. Ma non ancora sufficiente: in Intorno al senso del nulla va ancora oltre: oltre l’istante della morte. Scrive: «A differenza di quanto si dice ne La morte e la Terra», lo «splendore dello sfondo» avviene «subito dopo tale istante, nell’avvento della Terra che salva, liberando lo sfondo e la pura terra dal contrasto con la terra isolata». (p. 98).
Le distinzioni si moltiplicano, «sfondo» e «splendore dello sfondo» sono diversi, come l’apparire della Totalità è diverso dall’apparire della Totalità liberata dal contrasto con la Terra isolata. Ma se l’istante della morte è ancora troppo legato alla vita, alla Terra isolata dal Destino, lo «splendore dello sfondo» che avviene subito dopo ricorda troppo da vicino quella pagina del Mondo come volontà e come rappresentazione sulla morte come liberazione dai limiti dell’io empirico. «L’uomo scrive Severino non muore all’interno di un vortice, di un divenire che lo travalica e sopravanza spingendolo nel nulla. L’uomo muore all’interno di se stesso. Muore come volontà singola all’interno di sé come cerchio eterno dell’apparire del destino» (ivi).
Esito paradossale di una filosofia che ha osato spingere il pensiero oltre ogni limite, anche quello della morte; ma che nel momento stesso che trova l’identità di Verità ed Essere scopre l’abisso che li tiene divisi. In eterno. Nell’eternità del Destino della necessità, che riconosce deve riconoscere eterna anche la Terra isolata dal Destino. La Pasqua della resurrezione e il Venerdì della passione restano in eterno uniti.
Esito paradossale, anzi sommamente aporetico, ma quanto mai istruttivo. L’incessante ritorno del filosofo sulle proprie soluzioni testimonia di un’inquietudine del pensiero che mai non s’acquieta; testimonia di quella infirmitas che è il carattere più proprio della pratica filosofica, che è sempre oltre la teoria in cui essa pur si costringe ad esporsi.

Repubblica 20.5.13
Due libri su un dramma femminile e sull’infanzia dietro le sbarre
Madri dentro
L’insensata pretesa di far crescere i figli in galera
di Adriano Sofri


Ci sono pochi dati altrettanto rivelatori della disparità di opportunità e di risultati fra uomini e donne che le rispettive percentuali dei detenuti: le donne non raggiungono il 5 per cento del totale (il dato è tanto più significativo perché vale su scala mondiale: le donne detenute sono una minoranza che va da un 2 a un 9 per cento). È una circostanza enorme, cui un redivivo reverendo Swift saprebbe rendere giustizia. Noi restiamo alle ingiustizie, non minore fra le quali è la struttura maschile delle prigioni, in cui, con poche eccezioni, le sezioni femminili sono appendici del tutto inappropriate alle loro abitatrici. Che è oltretutto un paradosso, perché in molti illustri casi le prigioni maschili sono ex conventi femminili, e sulla reclusione scrupolosamente efferata di monacate a forza si modellò largamente quella degli uomini. Non ci sono specchi, in galera: che è un’offesa agli uomini, vanitosi come sono, ma un tormento alle donne.
Disadatte a donne, le prigioni lo sono più sciaguratamente ai bambini. Una legge consente alle madri carcerate di tenerli con sé fino ai 3 anni di età — frase che va riletta nel suo rovescio, perché dice che i bambini di tre anni vanno sottratti alle madri detenute. Quella legge fu un passo avanti, rispetto alla separazione di mamme e bambini dalla nascita, e altri passi, piccoli per lo più, importanti a volte (grazie ad associazioni volontarie o a stabilimenti di custodia attenuata come l’Icam di Milano) si sono via via compiuti. Una nuova legge (dal 2014) raddoppia l’età in cui tenere i bambini con le madri, dunque a 6 anni; in alcune galere funzionano dei “nidi”. Ma lo scandalo dei bambini in carcere — ce ne sono mediamente 60-70 — resta intatto. Pensate a chi trascorra i primi tre anni in una galera in cui sia il solo bambino — succede: l’adulto sarà Leonardo da Vinci o una persona infelicissima. Di Leonardo ne riescono pochi. Poi ci sono le decine di migliaia di figli che stanno fuori, e le mamme dentro.
Cristina Scanu, giornalista, fa uscire per Jaca Book un libro sulle carceri femminili visitate e studiate con lungo impegno: Mamma è in prigione.
Una le racconta: «La sera, quando chiudono le celle, ho visto bambini con le lacrime agli occhi bussare al blindato per farsi aprire». Il libro ha il merito di occuparsi dell’intero universo penitenziario femminile, agenti, direttrici, educatrici, volontarie. Non c’è persona non dico di cuore, ma semplicemente di intelligenza e competenza, che non sia persuasa dell’insensatezza gratuita della prigione per mamme e bambini. Quando a Milano si inaugurò l’edificio a custodia attenuata, lo slogan era: «Lo abbiamo aperto, ma lo chiuderemo, perché di bambini in carcere non ce ne siano più». Scanu ha scritto nella speranza ragionata di contribuire a realizzarlo.
Pressoché contemporaneamente è uscito per Einaudi un romanzo di Rosella Postorino, Il corpo docile.
Al centro stanno la nascita e l’infanzia in carcere; anche Postorino ne ha avuto un’esperienza diretta, come volontaria, nella Roma in cui Leda Colombini, gran donna — è morta nel 2011 — , dedicò i suoi anni maturi a quelle madri e quei bambini. Da lei Postorino ascoltò racconti toccanti: «Non potrò mai dimenticarmi gli occhi dei piccoli quando hanno visto per la prima volta il mare, gli animali della fattoria, la neve. Ricordo che una di loro, Edera, cercava di mettersi la neve in tasca per portarla a sua madre e ricordo anche Eugenia che dopo aver guardato a lungo la stanza di una delle volontarie che ospitava i bambini a casa sua ha detto “che bella cella che hai!”». La protagonista di Postorino, Milena, è nata in carcere, da una madre mite e tradita che tentò maldestramente di uccidere il marito. «Se sei un bambino, sconti la colpa di tua madre». Milena ventenne torna da volontaria al suo carcere, a occuparsi di quei bambini, a cercare nei loro corpi che si affidano una conciliazione col proprio corpo renitente. «In che mondo vivi?», le chiedono tutti, convinti che il mondo giusto sia il loro. Nel mondo di Milena c’è Eugenio, che è stato bambino con lei in cella, ed è sempre rimasto il suo compagno. Volevano un animale domestico, allora, e catturarono uno scarafaggio, Eugenio lo mise in una scarpa coperta da un’altra scarpa, così era in gabbia e non poteva uscire. Eugenio però ora sa stare anche nel mondo degli altri. Lei no. È come con il letto nel salotto in cui l’hanno messa a dormire quando l’hanno espulsa dal carcere: lo aprono la sera, lo richiudono la mattina, lenzuola piegate, il letto ingoiato dalla parete, ogni traccia di lei cancellata. È come con le tesi che lei scrive a pagamento per gli altri: consegna la tesi, il candidato ci scrive il suo nome, e Milena è sparita. Che cosa fai?, le chiedono. Fa una che non esiste, ecco che cosa fa. Arriva un uomo nella sua vita, un uomo normale, di quel-l’altro mondo cui ogni sua fibra rilutta. Le succede di poter soccorrere il bambino delle sue premure, la cui madre evade fortunosamente dal carcere, e lei resta a mezzo fra la complicità e la fuga. Qualcosa la richiama indietro, al suo immeritato carcere infantile, al peccato originale. Una specie di inferno terrestre prima della cacciata (si può dire inferno terrestre?). Ai bambini si spiega che la prigione è il posto di chi è stato cattivo. «Se la prigione è il posto di chi è stato cattivo, basta essere cattivi per tornarci. Comportarsi male, per tornare nel nido delle suore, e dormire di nuovo con la mamma». Il romanzo è pieno di personaggi — più forti, la madre, i bambini, o meno, come l’uomo “normale” da cui Milena è travolta, che sembra un coglione, e forse non a caso fa il giornalista — e di cose che succedono, con un ritmo e una concatenazione efficaci fra gli episodi. E anche un racconto che diventa via via più incalzante, fino a permettersi un andamento visionario (fino a ricordare Herta Müller, in certe immagini).
Vorrei aggiungere un dubbio, oltre la mia competenza di recensore penitenziario e non letterario. Il romanzo si intitola Il corpo docile, citazione di Foucault, e pregnante (pregnante, aggettivo femminile e corporale). Postorino sa come la reclusione sia una tecnica millenaria di violazione e umiliazione dei corpi. Che la libertà e la persona sia affare del corpo. Dunque si è proposta — leggo in una sua intervista — «una lingua corporale e sensoriale, tattile persino, dove ogni memoria o rimozione fosse una traccia sul corpo, del corpo… Nell’indocilità del corpo di Milena, che si inceppa, che non funziona bene, che la fa sentire inadatta (come prima o poi accade, in modi diversi, a tutti noi), c’è una forma di resistenza a quella conformità che la società pretende da lei e da chiunque». Ecco: mi chiedo se a questa ricerca sia appropriata l’iperestesia patetica, l’oltranzismo psicomatico cui la scrittrice si impegna. Ne cito alcuni esempi, sapendo di far torto a immagini estratte dal loro contesto: «Sente il bacino segarsi, qualcosa che dal centro del corpo deflagra fino a lambire la fronte… I capelli schizzano come scarpe in una pozzanghera… Un’impennata di nostalgia è montata come un dolore alle scapole…». Fino alla più spericolata: «Milena ha occhi vetrosi. Eugenio la guarda — le sue unghie larghe, piatte, le sue dita storte le fanno formicolare i femori».
«Potrei spiegare la scelta o l’irruzione di ogni mia singola parola in quelle 230 pagine», dice ancora Postorino. Forse convincerebbe anche uno maschio e vecchio, dunque anestetizzato. Uno che, di fronte a un formicolio di femori, lascerebbe lì il libro: e in questo caso avrebbe fatto male, perché il libro è bello e toccante.