martedì 21 maggio 2013

il Fatto 21.5.13
Bagnasco benedice Napolitano
“Larghe intese unica risposta”


”Insieme è possibile”. Senza “personalismi” e “senza populismi inconcludenti e dannosi”. I vescovi italiani benedicono il governo delle larghe intese, unica risposta possibile – dicono – alla “mole e complessità dei problemi che assillano famiglie, giovani e anziani”. Anzi, tali sono le “urgenze” che chi pregiudicherà la raggiunta unità ne dovrà rispondere alla “storia”. Nella sua prolusione all’assemblea generale della Cei, apertasi oggi in Vaticano, il cardinale presidente Angelo Bagnasco avverte drammaticamente che non è più tempo di inutili tatticismi e contrapposizioni, che tutti devono prendere “ispirazione” dall’esempio indicato da “disponibilità esemplari”, ed è chiaro il riferimento a Napolitano. “Non bisogna perdere l’opportunità – è l’appello di Bagnasco –, né disperdere il duro cammino fatto dagli italiani. L’ora è talmente urgente che qualunque intoppo o impuntatura, da qualunque parte provenga, resteranno scritti nella storia”.

Corriere 21.5.13
«Chi blocca il governo ne risponderà»
Il capo dei vescovi contro i populismi: la politica pensi al Paese
di G. G. V.


ROMA — «L'ora è talmente urgente che qualunque intoppo o impuntatura, da qualunque parte provenga, resterà scritto nella storia».
Il cardinale Angelo Bagnasco sillaba la parte centrale della sua prolusione, all'assemblea generale della Cei, e mantiene il punto. Sono anni che richiama alla «responsabilità» e al «bene comune» le forze politiche. E ora le sue parole suonano come un sostegno al governo delle larghe intese, per le stesse ragioni che lo portarono a elogiare l'impegno di Mario Monti. Non è il momento di «contrapposizioni» sterili, il presidente dei vescovi attacca «personalismi» e «populismi inconcludenti e dannosi», scandisce una frase efficace come uno slogan: «Insieme è possibile».
Ma non è questione di slogan. Giovedì il Papa incontrerà i vescovi e Bagnasco ricorda una frase di Bergoglio: «Quando parliamo, alcuni ci accusano di fare politica. Io rispondo: sì, facciamo politica nel senso evangelico della parola, ma non siamo di parte». Il cardinale parte da «coloro che sono scesi a livello della povertà e dell'angoscia», parla dei «giovani che non trovano lavoro», di chi lo ha perso o è precario, e tratteggia un'analisi secca: «In questa prolungata crisi economica, le richieste di aiuto si moltiplicano a dismisura e approdano alle porte delle parrocchie, dei centri di ascolto... Già nel 2007 avevamo lanciato l'allarme della povertà che avanzava strisciante. E ora siamo nel vortice dell'emergenza che, come un'onda irriducibile e crescente, assedia».
Ecco perché «l'ostinata contrapposizione» non ha senso: «Si rischia la patologia che paralizza il vivere sociale». Ed è «il segno triste e sconfortante di un modo di pensare vecchio e senza futuro». Non è questione di anagrafe, precisa, «ma di giovinezza dell'anima». Ci vuole «un serio esame di coscienza»: «In questi tempi abbiamo visto, ad alti livelli, gesti e disponibilità esemplari che devono ispirare tutti», dice riferendosi a Napolitano, «ma anche situazioni intricate e personalismi che hanno assorbito energie e tempo degni di ben altro impiego, vista la mole e la complessità dei problemi che assillano famiglie, giovani e anziani». Bagnasco è diretto: «Dopo il responso delle urne, i cittadini hanno il diritto che quanti sono stati investiti di responsabilità e onore per servire il Paese, pensino al Paese senza distrazioni, tattiche o strategiche che siano. Pensare alla gente: questa è l'unica cosa seria. Pensarci con grandissimo senso di responsabilità, senza populismi inconcludenti e dannosi». Il cardinale chiede tra l'altro «un forte e deciso piano industriale», critica «le pesanti politiche fiscali», condanna il gioco d'azzardo. E ripercorre temi cari alla Cei: la difesa della famiglia («demolirla è un crimine», dice alludendo anche al riconoscimento delle unioni gay: «Non può essere umiliata e indebolita da rappresentazioni similari»), del riposo domenicale, della vita. La sensazione generale è che «la società sia a un bivio», riassume. «Non bisogna perdere l'opportunità, né disperdere il duro cammino fatto dagli italiani».

La Stampa 21.5.13
“Esorcismo del Papa in piazza San Pietro”
Un video sulla tv della Cei: ha allontanato Satana da un ragazzo
di Giacomo Galeazzi


Il successore di Pietro contro il Principe delle tenebre: Bergoglio sulle orme dell’esorcista Wojtyla. Il prefetto della Casa pontificia Martin riferì nelle sue memorie postume di come Giovanni Paolo II il 27 marzo 1982 avesse scacciato Satana dal corpo di una donna umbra vittima di possessione diabolica. Domenica il copione si è ripetuto. Siamo in piazza San Pietro, esattamente nei pressi dell’Arco delle Campane. La messa di Pentecoste è finita da poco. Francesco si avvia, come al solito, verso i malati che hanno assistito alla celebrazione. Il Pontefice si avvicina ad un ragazzo.
Il sacerdote che lo accompagna lo presenta al Papa con qualche parola che non si riesce a cogliere. Ma l’espressione di Francesco cambia improvvisamente. Il Papa appare pensoso e concentrato e stende le mani sul giovane pregando intensamente, mentre il ragazzo spalanca la bocca. «Gli esorcisti che hanno visto le immagini non hanno dubbi: si è trattato di una preghiera di liberazione dal Maligno o di un vero e proprio esorcismo», fa sapere Tv2000. Ma in serata il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, chiarisce che l’intenzione del Papa era quella di pregare per una persona sofferente e non di esorcizzarla. Se ne parlerà nella prossima puntata di venerdì prossimo, che sarà dedicata «alla battaglia di Papa Francesco contro il Diavolo e le sue seduzioni». In due mesi di omelie il Pontefice argentino ha più volte messo in guardia dalle insidie di Satana. Secondo il Codice di diritto canonico, nessuno può legittimamente proferire esorcismi sugli ossessi, se non ha ottenuto dal suo vescovo «peculiare ed espressa licenza».
Un’ autorizzazione che viene concessa soltanto «al sarcerdote ornato di pietà, di scienza, di prudenza e di integrità. Racconta il decano degli esorcisti Padre Gabriele Amorth: «Nel corso del suo lungo pontificato Giovanni Paolo II ha lottato diverse volte contro Satana. E la sua battaglia continua anche oggi che è morto». Infatti «Wojtyla è presente ancora oggi durante molti esorcismi». Aggiunge Amorth nel suo libro «L’ultimo esorcista»: «Una volta una posseduta mi ha detto: “Mentre mi esorcizzavi ho visto di fianco a te Giovanni Paolo II. Tu non te ne sei accorto ma mi stava esorcizzando assieme a te”». Dalle affermazioni di diversi esorcisti emerge che l’invocazione a Giovanni Paolo II ha un impatto devastante sul diavolo. «Quando si nomina Wojtyla durante un esorcismo il posseduto schiuma letteralmente rabbia- precisa Amorth-. Il demonio ha lottato parecchio contro la beatificazione di Giovanni Paolo II e ancor più lotterà per la sua canonizzazione. Ma non riuscirà a impedirla perché Satana è il grande perdente mentre Dio vince sempre».
In Sudamerica la spiritualità carismatica e l’attenzione agli esorcismi sono predominanti. Bergoglio appare proiettato sulla scia pastorale di Wojtyla anche in quella lotta al Maligno che invece Ratzinger ha condotto salvaguardando l’ortodossia della dottrina da pericolose deviazioni. «Tutto il pontificato di Benedetto è stato un esorcismo», spiega Amorth.

l’Unità 21.5.13
Caro Macaluso, quella era la manifestazione degli operai
di Francesca Re David

Presidente Comitato Centrale Fiom Cgil

CARO DIRETTORE, LA RINGRAZIO IN ANTICIPO PER L’OSPITALITÀ CHE VORRÀ CONCEDERMI PER POTER REPLICARE ALL’ARTICOLO PUBBLICATO IERIin prima pagina da Emanuele Macaluso. Non è mai utile personalizzare la discussione pubblica e usare la storia e i suoi protagonisti piegandoli ad interessi politici. Il revisionismo al fine della propaganda nuoce più a chi lo usa che a chi lo subisce. Per questa ragione vorrei ripristinare gli elementi di verità che purtroppo hanno tratto in inganno l’autore dell’articolo. La manifestazione della Fiom Cgil è stata decisa e promossa dal comitato centrale qualche mese prima che fosse rieletto il Presidente della Repubblica, eletto il Presidente del consiglio e votato un nuovo segretario del Partito democratico. Le manifestazioni la Fiom Cgil le ha sempre indette su contenuti chiari, che non sembrano essere stati colti, volontariamente o involontariamente, dall’autore di «Caro Landini, ricorda Berlinguer». È sempre semplice buttarla in politica, ma non fa bene ad un Paese che subisce la crisi in modo così pesante. Non possiamo più aspettare non è lo slogan di un corteo, ma il cuore di una iniziativa sindacale che si scontra ogni giorno con le difficoltà che in prima persona i metalmeccanici vivono nei posti di lavoro. Capisco che vista dalle riprese tv si sia potuti essere tratti in inganno, ma chi c’era sa che quella del 18 maggio, del resto lo hanno rilevato in tanti, è stata la manifestazione dei metalmeccanici. Non certo «l’aggregazione di gruppuscoli con l’obiettivo di radicalizzare l’opposizione al governo».
Direttore, chiedo che dal suo giornale siano rispettati gli operai e gli impiegati che hanno faticato tanto ad essere in piazza e non trattati come comparse nel teatrino della politica che l’autore dell’articolo vorrebbe rappresentare. Eppoi il segretario generale della Fiom Cgil ha spiegato a più riprese che sarebbe stata una manifestazione non di protesta ma di proposta. Stiamo al merito: visto che ci viene imputato di essere un sindacato «di denuncia, separazione, negando ogni possibile compromesso», chiedo a Macaluso se ha letto che nell’appello alla manifestazione chiediamo una legge sulla democrazia che riconosca il diritto dei lavoratori a scegliersi il sindacato, a votare gli accordi. L’unità è un diritto innanzitutto dei lavoratori. Nel corso degli ultimi anni a partire dall’intesa Fiat fino al rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, organizzazioni sindacali confederali (Fim e Uilm) hanno siglato intese che impediscono ai lavoratori di essere rappresentati dalla Fiom Cgil, che è il primo sindacato di categoria. Oggi per realizzare l’unità sindacale bisogna rimuovere le discriminazioni con una legge sulla rappresentanza e il voto dei lavoratori.
Sappiamo che in una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo non basta esprimere il malcontento per combattere la disperazione, che pure ha bisogno di uscire dalla solitudine, ma sono necessarie proposte concrete. Infatti, bisogna impedire la deindustrializzazione del nostro Paese attraverso il blocco dei licenziamenti e la riforma degli ammortizzatori sociali valorizzando la riduzione dell’orario coi contratti di solidarietà. Sono necessari investimenti pubblici e privati per creare nuova occupazione stabile superando la contrapposizione lavoro ambiente. Anzi, crediamo che ci possa essere più lavoro nella ricerca di uno sviluppo ecocompatibile. Alla disoccupazione giovanile possiamo rispondere con un reddito che garantisca la cittadinanza e liberi dal ricatto del lavoro nero o sottopagato. Infine, dinnanzi alla messa sul mercato di beni comuni e welfare (scuola, università, sanità) bisogna mettere in discussione i vincoli di bilancio e salvaguardare servizi e lavoro. I punti che ho riportato sono parte essenziale della nostra piattaforma sindacale, ed è sulla base di queste proposte che chiediamo un confronto con la politica. Alla Fiom Cgil, c’è una cosa che non si può imputare ed è la subalternità a questo, quel partito o governo che sia.
Direttore, infine, Emanuele Macaluso ci ha chiesto cosa c’entra il sindacato con «Rodotà, Grillo, Strada, Cofferati, Vendola, Ferrero e Ingroia». La Fiom Cgil, sindacato confederale e pienamente convinto del valore della propria autonomia e indipendenza, a partire dalle proprie proposte, ha voluto interloquire con associazioni, movimenti, partiti e gruppi parlamentari. Nei giorni precedenti alla manifestazione si sono tenute centinaia di iniziative pubbliche che hanno rimesso al centro la nostra Costituzione. Se proprio dobbiamo citare Togliatti e Berlinguer dobbiamo dirci che tutta la loro azione politica aveva al centro l’inveramento della Costituzione: sarebbe stato inimmaginabile governare con chi l’avesse voluta cancellare. Per questa ragione la Fiom Cgil il 2 giugno parteciperà alla manifestazione indetta da «Libertà e giustizia» “non è cosa vostra”.

Corriere 21.5.13
Basso merito zero ambizioni
di Giuseppe De Rita


C'è stato un tempo felice in cui tutto il corpo sociale viveva di impulsi politici. Dalla fine della guerra fino al crollo della Prima Repubblica la vita di tutti era segnata dal primato della politica: dal primato delle grandi ideologie dell'epoca (comunismo, liberismo, corporativismo, dottrina cattolica); dal primato della dialettica fra i sistemi geopolitici (mondo occidentale, mondo arretrato, Paesi cosiddetti non allineati); dal primato anche quotidiano di scontri sociali e mobilitazioni di classe. Tutto era politica.
Ma, al di là della forte ruvidezza conflittuale di quegli anni, la politica non ci dispiaceva, perché ci trasmetteva un messaggio comune: crescete, andate avanti, salite la scala sociale, diventate altro da quello che siete. Ci spingevano a tale dinamica coloro che esaltavano le lotte operaie come coloro che coltivavano l'ampliamento del ceto medio; coloro che speravano nella potenza politica dei braccianti come coloro che trasformavano i braccianti in coltivatori diretti, cioè in piccoli imprenditori; coloro che spingevano per dare spazio a più ampie generazioni studentesche come coloro che coltivavano le alte professionalità industriali; coloro che predicavano il politeismo dei consumi come coloro che richiamavano alla sobrietà dei comportamenti. Gli obiettivi e i conflitti della politica erano tanti, ma l'anima era unica: «Crescete e salite i gradini della scala sociale». Ed era verosimilmente per questo incitamento alla mobilità che la politica piaceva.
Oggi è quasi disprezzata. I giornali sono pieni di possibili spiegazioni: la politica è estranea ai bisogni della gente; i politici fanno casta e se ne approfittano; sotto i partiti ci sono interessi inconfessabili; non c'è più una dinamica di rappresentanza democratica. Spiegazioni plausibili, ma è possibile che la cattiva fama della politica derivi dal fatto che essa non spinge più a crescere e salire, ma a far restare tutti ai gradini bassi in una filosofia di eguaglianza che si collega all'idea di una comune cittadinanza che rischia di diventare populismo, obbedendo alla logica di «invidia e livellamento» di cui lo stesso Marx aveva timore.
Guai a diventare «qualcuno», per la politica attuale. Dobbiamo restare cittadini a pari e basso merito, collocazione corroborata da giudizi morali tanto gridati quanto semplicistici. Non sorprende che i due terzi dei nostri giovani parlamentari siano «programmaticamente» cittadini a basso merito che si proclamano eticamente superiori. E se c'è «qualcuno» che vuole o tenta di essere protagonista, è rapidamente cecchinato. Il messaggio profondo della politica oggi sta proprio nel diffondere, anzi imporre, l'appiattimento al basso della cultura collettiva, della dinamica sociale. Ed è colpa ben più grave dei vizi di casta, perché inquina la chimica intima della società, ne riduce le dinamiche in avanti e le speranze.
Per questo bisognerà cominciare a difendersi dalla politica; diffidando di come oggi il suo primato sia diventato regressivo e non propulsivo. Forse il meglio è altrove, nella dinamica sociale, dove ancora vive un po' della voglia di crescere e salire che ci avevano dato i politici di prima, che tutto erano meno che dei semplici cittadini a basso merito.

Repubblica 21.5.13
Cemento, abusi e condoni. Le tentazioni del governo
di Salvatore Settis


La demeritocrazia incalza e, col favore delle “larghe intese”, occupa il Palazzo, e già il Pdl torna a intonare la litania dei condoni. Qualche curriculum: Giancarlo Galan ha presieduto la regione Veneto negli anni (1995-2010) che l’hanno issata in cima alle classifiche per la cementificazione del territorio, 11% a fronte di una media europea del 2,8 %; da ministro dei Beni culturali, ha chiamato come consigliere per le biblioteche Marino Massimo De Caro, che col suo consenso è diventato direttore della biblioteca dei Girolamini a Napoli, dove ha rubato migliaia di libri (è stato condannato a sette anni di galera per furto e peculato). Per tali benemerenze, Galan oggi presiede la Commissione Cultura della Camera. Maurizio Lupi ha presentato nel 2006 un disegno di legge che annienta ogni pianificazione territoriale in favore di una concezione meramente edificatoria dei suoli, senza rispetto né per la loro vocazione agricola né per la tutela dell’ambiente. Ergo, oggi è ministro alle Infrastrutture e responsabile delle “grandi opere” pubbliche. La commissione Agricoltura del Senato è naturalmente presieduta da Roberto Formigoni, ricco di virtù private e pubbliche, fra cui spicca la presidenza della Regione Lombardia negli anni (1995-2012), in cui è diventata la regione più cementificata d’Italia (14%) battendo persino il Veneto di Galan. Flavio Zanonato, in qualità di sindaco di Padova, ha propugnato la costruzione di un auditorium e due torri abitative a poca distanza dalla Cappella degli Scrovegni, mettendo a rischio i preziosissimi affreschi di Giotto: dunque è ministro per lo Sviluppo economico, che di Giotto, si sa, può fare a meno. Vincenzo De Luca come sindaco di Salerno ha voluto il cosiddetto Crescent o “Colosseo di Salerno”, 100 mila metri cubi di edilizia privata in area demaniale che cancellano la spiaggia e i platani secolari: come negargli il posto di viceministro alle Infrastrutture? Marco Flavio Cirillo, che a Basiglio (di cui è stato sindaco), presso Milano, ha pilotato operazioni immobiliari di obbedienza berlusconiana, disseminando nuova edilizia residenziale in un’area dove il 10% delle case sono vuote, ascende alla poltrona di sottosegretario dell’Ambiente. E quale era mai il dicastero adatto a Nunzia Di Girolamo, firmataria di proposte di legge contro la demolizione degli edifici abusivi in Campania, per l’incremento volumetrico mascherato da riqualificazione energetica e per la repressione delle “liti temerarie” delle associazioni ambientaliste? Ma il ministero dell’Agricoltura, è ovvio.
Che cosa dobbiamo aspettarci da un parterre de rois di tal fatta? Primo segnale, l’onorevole De Siano (Pdl) ha presentato un disegno di legge per riaprire i termini del famigerato condono edilizio “tombale” del 2003, estendendoli al 2013, con plauso del condonatore doc, Nitto Palma, neopresidente della commissione Giustizia del Senato, e con la scusa impudica di destinare gli introiti alle vittime del terremoto. Se il governo Letta manterrà la rotta del governo “tecnico” che gli ha aperto la strada col rodaggio delle “larghe intese”, si preannunciano intanto cento miliardi per le cosiddette “grandi opere”, meglio se inutili, con conseguente criminalizzazione degli oppositori per “lite temeraria” o per turbamento della pubblica quiete. Più o meno quel che è successo all’Aquila al “popolo delle carriole”, un gruppo di volontariato che reagiva all’inerzia dei governi sgombrando le macerie del sisma, e venne prontamente disperso e schedato dalla Digos. In compenso, i finanziamenti per le attività ordinarie dei Comuni e delle Regioni sono in calo costante, e sui ministeri-chiave (come i Beni culturali) incombono ulteriori tagli selvaggi travestiti da razionale spending review, come se un’etichetta anglofona bastasse a sdoganare le infamie. La tecnica dell’eufemismo invade le veline ministeriali, e battezza “patto di stabilità” i meccanismi che imbrigliano i Comuni, paralizzano la crescita e la tutela ambientale, scoraggiano gli investimenti, condannano la spesa sociale emarginando i meno abbienti, comprimono i diritti e la democrazia. Ma il peggior errore che oggi possiamo commettere è di fare la conta dei caduti dimenticando la vittima principale, che è il territorio, la Costituzione, la legalità. In definitiva, l’Italia. L’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno è la messa in sicurezza del territorio e il rilancio dell’agricoltura di qualità. Il consumo di suolo va limitato tenendo conto di parametri ineludibili: l’enorme quantità di invenduto (almeno due milioni di appartamenti), che rende colpevole l’ulteriore dilagare del cemento; gli edifici abbandonati, che trasformano importanti aree del Paese in una scenografia di rovine; infine, il necessario rapporto fra corrette previsioni di crescita demografica e pianificazione urbana. Manodopera e investimenti vanno reindirizzati sulla riqualificazione del patrimonio edilizio e sulla manutenzione del territorio.
Su questi fronti, il governo Monti ha lasciato una pesante eredità. Ai Beni culturali, Ornaghi ha sbaragliato ogni record per incapacità e inazione; all’Ambiente, Clini, che come direttore generale ne era il veterano, ha evitato ogni azione di salvaguardia, ma in compenso si è attivato in difesa di svariate sciocchezze, a cominciare dallo sgangherato palazzaccio di Pierre Cardin a Venezia. Ma dal governo Monti viene anche un’eredità positiva, il disegno di legge dell’ex ministro Catania per la difesa dei suoli agricoli e il ritorno alla disciplina Bucalossi sugli oneri di urbanizzazione: un buon testo, ergo lasciato in coda nelle priorità larghintesiste di Monti & C. e decaduto con la fine della legislatura.
Verrà ripreso e rilanciato il ddl Catania? Vincerà, nel governo Letta, il partito dei cementificatori a oltranza, o insorgeranno le voci attente alla legalità e al pubblico bene? Il Pd, sempre opposto ai condoni, riuscirà a sgominare la proposta di legge dell’alleato Pdl? Anche i forzati dell’amnesia, neosport nazionale assai in voga in quella che fu la sinistra, sono invitati non solo a sperare nei ministri e parlamentari onesti (che non mancano), ma anche a ripassarsi i curricula devastanti dei professionisti del disastro. Se saranno loro a vincere, sappiamo che cosa ci attende. Se verrà assodato che il demerito è precondizione favorevole a incarichi ministeriali, presidenze di commissioni ed altre incombenze, si può preconizzare la fase successiva, quando il supremo demerito, se possibile condito di qualche condanna penale, sarà conditio sine qua non per ogni responsabilità di governo. Che cosa dovremmo aspettarci da questa nuova stagione della storia patria? Il capitano Schettino alla Marina? Previti alla Giustizia? Berlusconi al Quirinale?

Corriere 21.5.13
Non parliamo più di cultura da salvare
di Paolo Di Stefano


Il lettore mi scuserà se scrivo in prima persona. È per dire che ho maturato la convinzione che in Italia non si debba più parlare di beni culturali, di musei, di patrimonio da salvare, di scuola, di biblioteche, di ricerca e università, di cultura da rilanciare. Basta. Vada come deve andare. Tanto fa lo stesso. Il silenzio sarebbe una decisione finalmente dignitosa. Eviteremmo così di aggiungere vergogna alla vergogna: ossia di sovrapporre la cattiva coscienza e il falso senso di colpa alla indifferenza politica e strutturale rispetto a ciò che sa di arte e cultura. Quei pochi che credono sinceramente che questo Paese possa migliorare puntando sulla cultura (declinata al passato, al presente e al futuro) si rassegnino. Non ne caveranno un ragno dal buco. Ho maturato questa convinzione leggendo sul Fatto quotidiano un bell'articolo di Tomaso Montanari che partiva dalla promessa del premier Enrico Letta: «Se ci saranno tagli alla cultura mi dimetto». Montanari metteva nero su bianco i dimezzamenti subiti dal ministero di Bondi e l'ulteriore riduzione compiuta durante il governo Monti. Ebbene, il risultato è che, se prendiamo la Lombardia, si scopre che nelle previsioni di bilancio i tagli più consistenti delle province e dei capoluoghi (Milano compresa) hanno come obiettivo proprio il settore culturale nelle sue varie forme. Questo avviene per le mancate entrate dovute al Patto di stabilità del 2012, e si presume che la sottrazione dell'Imu possa far calare la scure definitiva su quel poco che è finora sopravvissuto.
Ovviamente, ogni nuovo governo lancia i suoi proclami e le sue promesse. Ma nelle simpatiche variazioni sul tema politico-economico c'è una costante che il ministro subentrante eredita dal precedente come una stanca litania: la difesa del patrimonio, il rilancio della cultura! È ingenuo pensare che a tutto ciò potrà porre rimedio la ritualità di parole come quelle pronunciate dal neoministro Massimo Bray al Salone del Libro di Torino, che assicurano un impegno istituzionale volto a «un rilancio della cultura che sia motore del cambiamento politico, volano per la ripresa economica, ma anche e soprattutto elemento fondante della necessità di ricostruire il nostro Paese».
Nel frattempo, continua il collasso di Pompei, quotidianamente chiude un teatro comunale qua e là, le librerie si riducono, le biblioteche nazionali arrancano per gli acquisti e le catalogazioni, gli orari d'apertura degli archivi sono sempre più ristretti, senza dimenticare che i maestri delle elementari sono costretti a chiedere ai genitori di fare le fotocopie. Giusto esultare per il balzo di presenze al Salone di Torino e ovunque ci sia un festival letterario, filosofico, artistico, ma intanto la gente legge sempre meno e l'analfabetismo di ritorno cresce a vista d'occhio.
Dunque, non sarebbe più dignitoso non parlarne più e lasciare almeno che tutto precipiti in silenzio senza l'irritante brusio delle frasi fatte? Tanto, alle persone che dovrebbero darsi da fare sul serio — ormai l'abbiamo capito da tempo — della cultura non gliene importa niente.

Corriere 21.5.13
Amartya Sen
«Che sbaglio, l'euro. Invece di unirvi, vi ha diviso»
di Danilo Taino


LUCCA — Amartya Sen apre una porta attraverso la quale probabilmente passeranno in molti. Dice che «l'euro è stato un'idea orribile». Non che la moneta unica ora vada disfatta. Ma è stata «un errore» che ha prodotto conseguenze negative per l'Europa e ha spinto ad altri errori: tra questi il peggiore è l'imposizione ai Paesi più deboli delle politiche di austerità. Sen è un economista di origine indiana, Premio Nobel, e filosofo. Insegna all'università americana di Harvard ma spesso anche a Oxford e Cambridge perché, dice, si sente europeo, «molto legato alla Gran Bretagna e all'Italia». In effetti, nel 1973 sposò in seconde nozze Eva Colorni, figlia di Eugenio Colorni, uno degli estensori del Manifesto europeista di Ventotene: con Altiero Spinelli (un altro dei tre autori del Manifesto) ebbe rapporti frequenti. Non parte insomma da pregiudizi anti-europei. In questa intervista — rilasciata ieri a Lucca, dove partecipava assieme a Salvatore Veca a una discussione su Educazione e Cittadinanza organizzata dalla Fondazione Campus — si dice però preoccupato della dinamica politica nella Ue.
C'è in giro parecchio nazionalismo. Soprattutto in Asia.
«Non sono sicuro che in Asia ci siano manifestazioni di nazionalismo più forti che in passato. Mi preoccupa molto di più quello che succede in Europa, l'effetto della moneta unica. Era nata con lo scopo di unire il continente, ha finito per dividerlo. I greci contro i tedeschi imperialisti, i tedeschi contro i greci fannulloni. Io vedo molto nazionalismo in Europa, non in Asia».
Sta dicendo che l'euro è stato una cattiva idea?
«L'euro è stato un'idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l'economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l'Europa. I punti deboli economici portano animosità invece che rafforzare i motivi per stare assieme. Hanno un effetto-rottura invece che di legame. Le tensioni che si sono create sono l'ultima cosa di cui ha bisogno l'Europa. Chi scrisse il Manifesto di Ventotene combatteva per l'unità dell'Europa, con alla base un'equità sociale condivisa, non una moneta unica».
Cosa è successo secondo lei?
«Quando tra i diversi Paesi hai differenziali di crescita e di produttività, servono aggiustamenti dei tassi di cambio. Non potendo farli, si è dovuto seguire la via degli aggiustamenti nell'economia, cioè più disoccupazione, la rottura dei sindacati, il taglio dei servizi sociali. Costi molto pesanti che spingono verso un declino progressivo».
Declino in che senso?
«È successo che a quell'errore è stata data la risposta più facile e più sbagliata, si sono fatte politiche di austerità. L'Europa ha impiegato anni a costruire lo Stato sociale. Ora rischia di distruggerlo, nell'Educazione, nella Sanità, nella rete di sicurezza sociale. L'Europa ha bisogno di riforme: pensioni, tempo di lavoro, eccetera. E quelle vanno fatte, soprattutto in Grecia, Portogallo, Spagna, Italia. Ma non hanno niente a che fare con l'austerità, con tagli indiscriminati. È come se avessi bisogno di aspirina ma il medico decide di darmela solo abbinata a una dose di veleno: o quella o niente. No, le riforme si fanno meglio senza austerità, le due cose vanno separate».
Perché questo errore?
«Credo che derivi dall'esperienza della riunificazione tedesca. Allora l'austerità fu necessaria. Ma attenzione, fu un'austerità fatta pagare a chi stava meglio, alla Germania occidentale. Oggi, al contrario, la si applica ai Paesi messi peggio».
Anche lei punta il dito contro Berlino.
«La Germania ha sicuramente beneficiato della moneta unica. Oggi abbiamo un euro-marco sottovalutato e una euro-dracma sopravvalutata, se così si può dire. Ma non credo che ci sia uno spirito del male tedesco. Non ci sono malvagi in questa cosa terribile che sta succedendo. È che hanno sbagliato anche i tedeschi. E si è finiti con la Germania denigrata. Finora i francesi non hanno protestato abbastanza contro questa impostazione. E nemmeno il bravo economista Mario Monti è riuscito a farlo».
Quindi? Quali vie d'uscita?
«Il presidente francese Hollande ha detto cose importanti la settimana scorsa, ha proposto un'organizzazione politica dei 27 partner, non un accordo tra un paio di Paesi. È molto importante. Spero che l'Italia lo segua».
Basta un pò più di unità europea?
«Quella è la strada da seguire. Inoltre, l'austerità non è irreversibile. Basta guardare al Giappone che dopo anni ha cambiato politiche e sta crescendo a un ritmo del 3,5% su base annua. E gli Stati Uniti, che non hanno scelto l'austerità, crescono più dell'Europa e anche il loro rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo migliora perché cresce il denominatore. Oggi serve molto pensiero politico. Per questo mi è piaciuto Hollande».
Una domanda più generale. Perché lei dà tanta importanza all'Istruzione?
«Per molte ragioni. Ne cito una. Le intense deprivazioni sociali in India, a cominciare dall'Istruzione, influiscono negativamente sulla crescita del Paese, che è prima di tutto fondata sulla qualità del lavoro. Il successo economico dei Paesi asiatici — a cominciare dal Giappone ma anche di Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud e ovviamente Cina — ha seguito una rotta focalizzata sull'istruzione, sulla qualità del lavoro. Dovreste tenerne conto, in Europa. Il 60% di giovani disoccupati in Grecia fa crollare la qualità del lavoro: crescere sarà più difficile».

Corriere 21.5.13
Il Porcellum ha favorito il Pd, ma coalizione inevitabile tra (almeno) due avversari
Leggi elettorali alternative: "Mattarellum" e proporzionale non escludono pareggi
Senza premio alla coalizione, i Cinque Stelle sarebbero stati la prima forza alla Camera
di Elsa Muschella

qui

Repubblica 21.5.13
Il voto nella trappola delle larghe intese
di Giulio Carandini


La seconda “grande intesa”, dopo quella del governo Monti, è nata da una urgenza diversa ma altrettanto impellente. Si trattava di rimediare con una riforma della legge elettorale al disastroso Porcellum che è stato causa della eclatante sconfitta- vittoriosa del Pd e alla conseguente impossibilità, verificata da Bersani, di costituire un governo senza il Pdl. Renzi lo ha detto con chiarezza nella sua intervista a Repubblica dell’11 maggio, in cui esortava il Pd a essere protagonista attivo di questo governo non meno del Pdl, e possibilmente di più.
Ma in che senso? Quello, suppongo, di imporre al governo Letta di assumere come suo compito assolutamente primario la riforma della legge elettorale per impedire in ogni modo che, rimanendo in vigore quella passata, se il governo dovesse improvvisamente esser fatto cadere, una vittoria del Pdl nelle nuove elezioni riporti al potere in prima persona — e con il mostruoso premio di maggioranza che il Porcellum prevede — il solito personaggio che, manzonianamente, preferisco chiamare l’Innominato. Va bene; magari anche lui rischierebbe di non averla al Senato quella maggioranza, ma una volta diventato presidente del Consiglio, tornerebbe a godere di tante immunità di cui lui saprebbe servirsi a meraviglia.
Che questa sia una reale possibilità di cui il Pd deve tener conto, ovvero che costituisca una vera e propria trappola delle larghe intese, lo dimostra la conclamata riluttanza del Pdl di anteporre quella riforma elettorale alla riforma “istituzionale”, anch’essa in programma, per la speciosa ragione che la prima dovrebbe essere una conseguenza della seconda. Insomma, prima si riformino le Camere, sia ridotto il numero dei deputati e trasformato il Senato in Assemblea delle autonomie regionali. Mesi e mesi di lavoro e di prevedibili intralci a carico di un governo presieduto dalla sinistra e, se daranno buoni risultati, ne godrà il futuro possibile governo della destra. Ma intanto si tira in lungo, nel frattempo il Porcellum rimane valido e l’Innominato può, a suo piacimento, togliere la spina e farci tornare a votare con quella legge. Il ché potrebbe verificarsi a breve termine nell’eventualità di un verdetto della Cassazione che convalidi la sentenza Mediaset e la interdizione per cinque anni dai pubblici uffici dell’Innominato che, in piena campagna elettorale, sarebbe più problematico rendere esecutiva.
Quali le immediate conseguenze in quel caso, al di là della immensa confusione politica e istituzionale, che porrebbe al capo dello Stato nuovi difficilissimi problemi? Dico, quali conseguenze economiche e sociali, cioè “umane” che sono normalmente quelle meno considerate? Mentre il Parlamento e il governo sarebbero impegolati in spinose questioni istituzionali, milioni di disoccupati continuerebbero a soffrire una disperata miseria, migliaia di fabbriche chiuderebbero ogni giorno gonfiando il numero dei senza lavoro. Senza che da alcuno vengano assunte iniziative serie, e ormai possibili anche in Europa, di un deciso mutamento di strada fuori dell’austerità “assassina” (come viene definita sul New York Time) e in netto contrasto con la demenziale regola che ha inserito il pareggio del bilancio nella nostra Costituzione.
Insomma, delle due l’una: o il governo Letta approfitta dello stato di necessità e raggiunge prima di ogni altra cosa una larga l’intesa sulla riforma della legge elettorale, oppure l’Innominato può cantare vittoria. Perché con la sua legge elettorale ha intrappolato il Pd quattro volte: 1) gli ha impedito di vincere sconfiggendolo al Senato; 2) gli ha imposto uno stato di necessità per riformarla fingendo di volerlo anche lui; 3) lo costringe a menare il can per l’aia con il miraggio di una necessaria riforma istituzionale da realizzare prima di quella elettorale; 4) si è tenuto le mani libere per tornare a votare quando gli farà comodo con la legge elettorale attuale.
E allora? Bisognava pensarci prima di assicurare la fiducia in Parlamento a un governo che non è proprio di larghe “intese” sul punto fondamentale del sistema elettorale, ma di abbondanti “sottintesi” circa il modo in cui l’Innominato le avrebbe gestite.
Auguriamoci che Letta riesca a sottrarsi al ricatto dell’Innominato, tornato lustro, gonfio e tronfio grazie alle larghe intese imposte dal suo Porcellum. Se questo ultimo, disperato tentativo di sottrarre il Paese alla morsa del malaffare e del malgoverno dovesse fallire, temo che il suo futuro destino sia quello di tornare a essere una pura “espressione geografica”, come diceva Metternich due secoli fa, e per di più caratterizzata da campagne abbandonate, da città piene di disoccupati, da fabbriche chiuse, e da uno Stato nelle mani di speculatori, costruttori abusivi, evasori fiscali e amici di famiglie mafiose.

Corriere 21.5.13
Stefano Rodotà sul referendum di Bologna contro le scuole private cattoliche
Consultazione giusta.  Pretestuoso parlare di strategie politiche


Caro direttore,
vorrei semplicemente ristabilire la verità dei fatti a proposito di quanto scritto ieri sul suo giornale a proposito del referendum bolognese sui finanziamenti alla scuola privata, di cui vengo additato come l'ispiratore (del che, se fosse vero, sarei assai lieto). Ma il vero ispiratore è l'articolo 33 della Costituzione, dov'è scritto che i privati possono istituire scuole «senza oneri per lo Stato». E i promotori sono i cittadini bolognesi che avviarono le procedure referendarie fin dall'anno scorso, da quel 25 di luglio 2012 quando il Comitato dei garanti comunali ne approvò i quesiti. Le firme necessarie furono depositate il 5 dicembre e il referendum fu indetto dal sindaco il 9 gennaio di quest'anno. Dopo che la procedura era già ampiamente in corso, mi fu chiesto di presiedere il comitato referendario, cosa che accettai di buon grado. Questa cronologia è utile anche per mostrare quanto sia pretestuoso e fuorviante il tentativo di presentare questa iniziativa come parte di una strategia politica che si è venuta sviluppando solo nelle ultime settimane. Gli argomenti contro il referendum, peraltro, sono quelli che discendono da una triste interpretazione, giuridica e politica, che ha voluto aggirare la chiara lettera della Costituzione con una operazione opportunistica e strumentale, alla quale mi sono sempre pubblicamente opposto anche quando veniva condotta dal Pci e dai suoi successori. Distinguere «finanziamenti» da «oneri», e battezzare come «pubblico» un sistema di cui i privati sono parte integrante, sono espedienti di cui ci si dovrebbe un po' vergognare.
Si è detto, anche dal cardinale Bagnasco, che quel finanziamento permette allo Stato di risparmiare. Non si comprende che non siamo di fronte a una questione contabile. Si tratta della qualità dell'azione pubblica, del modo in cui lo Stato adempie ai suoi doveri nei confronti dei cittadini. La consapevolezza di questi doveri si è assai affievolita in questi anni, e le conseguenze di questa deriva sono davanti a noi.
Forse varrebbe la pena di ricordare che Piero Calamandrei definiva la scuola pubblica «un organo costituzionale». E la Costituzione stabilisce pure che lo Stato debba istituire «scuole statali per tutti gli ordini e gradi». In tempi di crisi, questa norma dovrebbe almeno imporre che le scarse risorse disponibili siano in maniera assolutamente prioritaria destinate alla scuola pubblica in modo di garantirne la massima funzionalità possibile. Siamo ormai così disabituati alle questioni di principio che, quando ci capitano tra i piedi, cerchiamo di liberarcene tacciandole di «ideologia». I promotori del referendum, per fortuna di tutti, sono abituati a un altro realismo e chiedono che i principi siano rispettati al di là delle convenienze e che la legalità costituzionale venga onorata.
Stefano Rodotà

il Fatto 21.5.13
Domenica il referendum
Lo scontro sulla scuola sgretola la sinistra
Soldi ai privati? Bologna decide, sinistra a pezzi
Guccini: ”Scrivete A, per Calamandrei”
Tra i sostenitori Stefano Rodotà, Valeria Golino, Gino Strada, Isabella Ferrari, Andrea Camilleri, Corrado Augias e Michele Serra
di Emiliano Liuzzi


I democratici e Sel sono alleati in giunta, ma divisi sulla consultazione per cancellare il milione di euro agli istituti privati. Da una parte le larghe intese, dall’altra il comitato e tante voci. Questione che rischia di diventare un precedente

Prodi contro Guccini e Rodotà

Bologna Come ci sia finito dentro a questo inghippo, non è chiaro: il sindaco di Bologna, Virginio Merola, è uno che pur di non avere guai è capace di condividere i pensieri di Renzi, Bersani, Prodi, D'Alema o dei ragazzi di Occupy Pd. Non brilla per protagonismo, e neppure per le decisioni. Un uomo diviso tra Guelfi e Ghibellini che si è trovato, causa di forza maggiore, a indire un referendum che non avrà nessun valore giuridico, ma che rischia di mettere in crisi la sua già vociante giunta: quello sui finanziamenti alle scuole private. Un milione di euro che ballano sui tavoli del palazzo comunale e che il sindaco vuol concedere e concederà, ma che la Bologna laica rispedisce al mittente.
UN FUOCHERELLO, all'inizio, che rischia di generare un incendio. Sul fronte opposto al sindaco di Bologna si sono schierati con il comitato Articolo 33 personaggi come Stefano Rodotà, Andrea Camilleri, Corrado Augias, Michele Serra, Francesco Guccini, Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Isabella Ferrari, Ivano Marescotti, giusto per citarne alcuni, tutti sul “non se ne parla”, niente soldi alle scuole private. Scuole che a Bologna, ma anche nel resto d'Italia, vuol dire cattoliche.
Così Merola si è trovato catapultato in una nuova campagna elettorale, solo che due anni fa aveva al fianco Pier Luigi Bersani, Romano Prodi e Vasco Errani, quello che allora sembrava essere il vertice di un governo prossimo venturo. Questa volta invece i suoi principali alleati sono un cardinale, l'arcivescovo Carlo Caffarra, il Pdl, la Lega Nord, impegnatissima nel montare gazebo ovunque tra le vie medievali, con tanto di palloncini verdi. Un mix di genti a dir poco singolare: uomini del Carroccio, militanti del Pd, impiegati delle Coop rosse, parroci e suore, tutti insieme per convincere gli elettori a mettere la croce sulla B, quella che prevede il mantenimento del sistema integrato tra pubblico e privato. E quindi anche un sostanzioso finanziamento alle scuole d'infanzia convenzionate. Non un euro di più, non un euro di meno.
Tutti gli altri sono per il no al sostegno comunale dell'educazione privata, che tradotto sulla scheda elettorale vuol dire opzione A. E tutti gli altri vuol dire Sel, principale alleato al Pd in giunta, quello che la tiene in piedi, il Movimento 5 stelle, con i suoi due consiglieri comunali, Massimo Bugani e Marco Piazza, intellettuali, attori, personalità della cosiddetta società civile, molto poco politici. Un muro contro il quale il sindaco di Bologna, la città simbolo del Pd che fu, rischia di sbattere contro. Perché il referendum, essendo puramente consultivo, non avrà nessuna conseguenza immediata e non è detto che, in caso di vittoria del comitato referendario, l'amministrazione debba invertire la rotta. Anzi. Merola può benissimo andare avanti per la sua strada. Sarà più difficile, in questo, convincere i suoi alleati, i vendoliani, che comunque gli hanno garantito che – almeno per ora – non hanno alcuna intenzione di far cadere la giunta e rischiare un altro commissariamento dopo quello già vissuto (e non bene) con Anna Maria Cancellieri. Una consultazione che per il momento sta dividendo molto. Due nomi su tutti: Romano Prodi e Francesco Guccini. Da sempre, il maestrone di Pavana, come lo chiamano a Bologna, sostiene il professore: lo ha fatto nel corso delle campagne elettorali, lo avrebbe voluto come sindaco di Bologna, candidato premier, presidente della Repubblica. Ieri Guccini – che nella sua vita, oltre a scrivere canzoni, è stato insegnante alla Dickinson College – ha preso una posizione netta: “Entrare nella scuola pubblica è il primo passo di ogni individuo che voglia imparare l'alterità e la condivisione. Ed è il primo passo di ogni essere umano per diventare uomo, per diventare donna”.
Prodi, da Addis Abeba, dove è al lavoro per l'Onu, spiega invece che il “referendum si doveva evitare perché apre in modo improprio un dibattito che va oltre i ristretti limiti del quesito. Il mio voto per i finanziamenti alla scuola privata è motivato da una ragione di buonsenso: perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che tutto sommato ha permesso con un modesto impiego di mezzi di ampliare il numero di bambini ammessi alla scuola d'infanzia? ”. Non stupisce la dichiarazione di Prodi: nonostante la distanza abissale che si è creata tra lui e il Pd, quello del finanziamento alle scuole private è un provvedimento voluto dal suo governo il 5 agosto 1997. Se la partita fosse decisa dagli intellettuali il fronte del no avrebbe già vinto. Oltre a Prodi, di nomi spendibili il sindaco di Bologna ne ha ben pochi: Maurizio Lupi, Maurizio Gasparri, Stefano Zamagni, Giuliano Cazzola, Antonio Polito e pochi altri.
Previsioni? Per ora non ne circolano. Certo è che in una città come Bologna, la Curia e quello che fu il “partitone” la fanno da padrone. È sempre stato così, dal dopoguerra a oggi. Poteri che hanno sempre dialogato, seppur mai in pubblico, e che per la prima volta nella storia repubblicana si trovano ad amoreggiare senza nascondersi.

il Fatto 21.5.13
Contro l’ideologia
423 bambini esclusi nel 2012
“Il diritto è all’istruzione. Gratuita”
di Francesca Coin


Il Corriere della Sera di ieri ospitava in prima pagina un articolo di Antonio Polito sul referendum consultivo sui finanziamenti pubblici alle scuole paritarie private previsto a Bologna per il 26 maggio. Polito usa toni allarmistici che poco rappresentano i contenuti e il significato della campagna referendaria, nonché i principi dei cittadini che vi partecipano.
LA CAMPAGNA sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie private nasce qualche anno fa dalla preoccupazione di quelle famiglie costrette a confrontarsi ogni anno con l'esclusione scolastica dei loro figli. I tagli alla scuola e una rapida riforma hanno infatti colpito duramente la scuola pubblica. A Bologna il problema più grave è stata l’incapacità del sistema integrato della scuola per l’infanzia di garantire un posto a scuola a tutti i bambini di Bologna. Nel 2012, 423 bambini non hanno avuto accesso alla scuola per l'infanzia. E alla fine, nonostante il Comune abbia improvvisato soluzioni d’emergenza, 103 di loro sono rimasti a casa. Altre famiglie sono state costrette a iscrivere i loro figli a una scuola privata, spesso confessionale. Sul Corriere, invece, Polito sostiene che “il referendum punta ad abbattere il sistema integrato di scuola pubblica e scuola paritaria che fu avviato in Emilia più di vent'anni fa”. La campagna referendaria in realtà non ha mai assunto toni duri, tanto meno contro i privati. Si limita a sostenere quanto prescritto dall'articolo 33 della Costituzione, come diceva Piero Calamandrei “la scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius”. O per usare le parole dell'onorevole Luigi Preti nell'Assemblea Costituente nel 1947, “sarebbe un paradosso che lo Stato, che non ha nemmeno abbastanza denaro per le proprie scuole, dovesse in qualche modo finanziare delle scuole non statali”.
PER FAR FRONTE alle esigenze di tutte le famiglie ed eliminare le liste d’attesa nella scuola pubblica a Bologna servirebbero 12 nuove sezioni a un costo di 90 mila euro a sezione, come dimostra le delibera comunale del 9 ottobre 2012. Questa cifra corrisponde esattamente a quella che al momento viene data alle scuole private: 1 milione e 80 mila euro. La richiesta dei referendari, dunque, è semplice: prima di divagare assicuriamoci che i diritti vengano garantiti. Altrimenti la “libertà di scelta” di cui parla Polito non è affatto garantita. Non vi è libertà di scelta quando l'istruzione diventa un servizio a pagamento .
Va ricordato che il referendum del 26 maggio non è abrogativo, bensì consultivo: interroga la cittadinanza su quale sia la destinazione più opportuna dei fondi pubblici. Per fare questo, il Comitato Referendario ha chiesto il supporto di illustri costituzionalisti, come il professor Stefano Rodotà che, lungi dall'ispirare il referendum, come ha scritto Polito, ha messo le sue competenze a servizio della campagna, divenendone presidente onorario.
Spiace che una campagna così partecipata, appassionata e calorosa possa diventare pretesto per un'agenda politica altra. Polito dice che “nelle urne bolognesi si fronteggiano per la prima volta gli inediti schieramenti che si sono creati in parlamento, Pd e Pdl insieme da un lato, Sel e Movimento Cinque Stelle dall'altro”. Non è così. Alle urne questo 26 maggio i cittadini voteranno per difendere la scuola pubblica e la Costituzione. Ogni altra interpretazione è pretestuosa e fallace.
docente di Sociologia all’Università di Venezia

il Fatto 21.5.13
Referendum scuola pubblica, Guccini e Prodi per la prima volta divisi sul voto
Il "maestrone" appoggia l'opzione A della consultazione del 26 maggio: non vuole più, quindi, che i soldi comunali vadano alle scuole materne paritarie ("accompagno la vostra campagna con il cuore"). L'ex premier invece, sceglie l'opzione B: "E' buon senso. Perché bocciare un accordo che ha funzionato per anni?"
di Davide Turrini

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da Report di domenica 20 maggio
Gabanelli sul Movimento 5 Stelle:



il Fatto 21.5.13
Grillo contro Gabanelli. L’idillio si rompe sui soldi
Aveva vinto le “quirinarie”, ora è “venduta” perché fa domande sugli introiti del blog.
Nuove regole alle “parlamentarie”
di Paola Zanca


Seduto all'ombra del Colosseo, un attivista dei Cinque Stelle romani sbotta: “Ma anziché darli ai terremotati, quei soldi non li poteva dare a noi che siamo sempre senza una lira?”. È domenica 21 aprile, Grillo non è riuscito a tenere il comizio per la scarsa (inesistente) organizzazione della manifestazione in piazza Santi Apostoli. E per la prima volta, qualcuno si lamenta della penuria delle casse. Rigorosamente sotto anonimato, perchè quello dei soldi (a cominciare dall'annosa questione della diaria) per i Cinque Stelle è argomento tabù. Li schifano, ma – come tutti – non ne possono fare a meno. Dev’essere per questo che l’ultima puntata di Report ha scatenato un putiferio, e trasformato anche Milena Gabanelli - vincitrice delle Quirinarie M5S - in una “traditrice” come gli altri. La sua colpa è quella di aver posto due domande ai fondatori del Movimento. La prima riguarda la rendicontazione dello Tsunami Tour: “Passati i tre mesi dalle elezioni - ricorda Report - è stato pubblicato un rendiconto sommario, ma non sono state inserite le fatture e i nomi dei fornitori”. Nessuna risposta: nessuno ha accettato di farsi intervistare. Al fattoquoti  diano.it   - che all’inizio aprile aveva già chiesto lumi - era stata data una risposta evasiva: “Oltre due terzi dei nostri donatori hanno chiesto di rimanere anonimi, quindi per tutelare gli altri, abbiamo ritenuto di mettere tutti con la sigla”.
MA LA DOMANDA che più ha mandato fuori dai gangheri i Cinque Stelle è quella sui ricavi del blog. Anche qui, quesito piuttosto semplice: “I proventi vanno anche al Movimento oppure no? ”. Non serve aspettare la risposta di Grillo, basta ricordarsi di quell’amaro commento su via dei Fori Imperiali. No, i soldi del blog non finanziano il Movimento. Ed è qui che la nebbia si fa piuttosto fitta: perché non dire quanti sono? e come gestire l’assoluta novità di una impresa privata (il blog) che lega le sue sorti a quelle di un fatto pubblico (il Movimento)? Per avere qualche cifra, assolutamente non ufficiale, bisogna rivolgersi a Massimo Artini, deputato M5S, informatico di professione, di casa negli uffici della Casaleggio associati. “I guadagni da banner sono risibili, coprono solo i costi di gestione del sito”, sostiene Artini, che precisa di fare calcoli sulla base di un ragionamento logico-statistico. “Se il blog ha 100 mila visualizzazione nei momenti di picco, il tasso che misura l’efficacia della pubblicità, il click-through rate, è dello 0,5% e ogni clic è pagato intorno a un centesimo, gli introiti non vanno oltre i 2/3 mila euro al mese”. Cifre completamente diverse da quelle calcolate dal Sole 24Ore, che ha parlato di un giro d’affari “tra i 5 e i 10 milioni di euro all’anno”. A Grillo e Casaleggio, per fare chiarezza, basterebbe aprire le casse e chiarire una volta per tutte il controverso rapporto tra blog e Movimento. Lo chiedono anche alcuni attivisti: “Alle domande riguardanti gli introiti del Blog – scrive Matteo Alessandroni – sarebbe giusto rispondere numericamente dato che quest'ultimo è il nostro faro politico e sapere di cosa e come vive è più che legittimo per me”. Lo sostengono anche alcuni parlamentari, come Giulia Sarti - già vittima degli hacker che, per piantarla di pubblicare le caselle mail degli eletti, chiedevano proprio trasparenza ai guru Cinque Stelle -: “Alla prima occasione - dice al fattoquotidiano.it   - dovremmo parlarne con Beppe”. Tanti, invece, se la prendono con la Gabanelli, “messa in riga dal padrone che le tiene il guinzaglio, altrimenti niente più Raitre”. Compresa la capogruppo Roberta Lombardi: “Non me l’aspettavo, poteva almeno dire che i soldi avanzati li abbiamo dati ai terremotati”.
Al di là delle domande, non è piaciuta una nota a margine della giornalista: “Con tre milioni di disoccupati - ha detto in tv - smettetela di parlare dei vostri scontrini”. Lo considerano un affronto, proprio da lei, trionfatrice delle Quirinarie. Chissà che il “voltafaccia” della potenziale Capo dello Stato non sia l’ennesima crepa nel meccanismo di scelta dei candidati in Rete. Da giorni, nello staff e tra gli eletti, si interrogano su come rivedere le regole delle parlamentarie in vista delle prossime elezioni. Bisogna fare in fretta, trovare nuovi criteri per portare in Parlamento persone più competenti e preparate. L’anzianità nel Movimento non basta, la fedina penale pulita non è sufficiente. Grillo e Casaleggio hanno capito che, lì in mezzo, c’è finito di tutto. Replicare, non è il caso.

il Fatto 21.5.13
M5S, la deputata Sarti dà ragione a Report: “Più trasparenza sui nostri fondi”
"Nel servizio c'erano inesattezze, ma è un tema che dobbiamo discutere con Grillo"
Martinelli all'attacco: "Totale disinformazione. E quanto guadagna la Gabanelli?"
Artini: "Mie risposte cancellate, il blog di Grillo non guadagna più di 30mila euro l'anno". Il Movimento scivola sui "comunicatori parlamentari"
di Martina Castigliani

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Repubblica 21.5.13
L’intervista
La conduttrice di “Report”: insultata anche dagli ex Ds, mi dicano se ho commesso errori
“Non sono né venduta né prezzolata il mio mestiere è fare la giornalista”


ROMA — È in taxi. Dalla voce, si capisce che per Milena Gabanelli è una giornata infernale, come spesso le accade dopo una puntata di Report che fa discutere. «Ora non posso, aspetto una chiamata, devo lasciare il cellulare libero». Ha appena precisato a
Repubblica tvche
la critica, pur fastidiosa, «si deve accettare». E la devono accettare «tutti, anche la sottoscritta ». Puntando i riflettori sulla galassia del M5S - che solo un mese fa l’aveva candidata addirittura alla Presidenza della Repubblica - Gabanelli è stata messa nel mirino dalla Rete. Venduta e prezzolata, ha gridato il web: «L’importante è che non sia vero - è la replica - io faccio la giornalista». Ha anche chiesto chiarezza sulla pubblicità del blog di Grillo e sulla Casaleggio: «Sono state dette cose non vere? In tal caso vengano precisate, e le pubblicheremo».
Da eroina “candidata” al Quirinale a fustigatrice dei grillini. Come si sente?
«Guardi, come è noto io non appartengo a nessun partito. E poi oggi (ieri, ndr) mi hanno chiamato ex Ds incazzati. Ma io questo mestiere faccio!».
Ha sentito Grillo? Vi conoscete da tempo, ha avuto modo di parlare con il leader del M5S?
«No, non l’ho sentito. Le uniche chiamate che ho ricevuto sono quelle di ex Ds, che si sono lamentati e mi hanno insultato...».
Chi l’ha presa malissimo è una fetta del web. Di lei scrivono che è prezzolata. Pagata dal Pdl o, in alternativa, dal Pd. Insomma, una venduta.
«Mah, l’importante è che non sia vero. Io faccio la giornalista».
Ci chiarisce anche la stoccata sulle diarie e sugli scontrini?
«La mia puntualizzazione era rivolta a tutte le forze politiche che sono in Parlamento. Mentre si parlava della questione Ruby, la scorsa settimana, io ho fatto una puntata sul fiscal compact. Mi sono rivolta ai parlamentari, perché la crescita è il nostro grande problema. Bisogna farsi venire delle idee per uscire dalla crisi, da questa depressione. A favore della crescita».
I grillini sui costi della politica hanno centrato la campagna elettorale.
«La loro campagna elettorale sui costi della politica, gli va dato atto, è stata lodevole. E, va riconosciuto, ha avuto effetti sugli altri partiti. Dopodiché, ora basta: si vada avanti, si faccia un passo avanti».
(t.ci.)

Corriere 21.5.13
Gabanelli giornalista imparziale anche verso chi l'aveva candidata
di Giangiacomo Schiavi


C'è un solo modo per fare il giornalista: andare dal ministro e chiedere, dall'onorevole e chiedere, dal sindaco e chiedere, dal questore e chiedere, dal padrone e chiedere, dall'operaio e chiedere, dai sindacati e chiedere. E star lì fino a quando non si è avuta una risposta. Poi bisogna essere onesti con se stessi e con gli altri, tenere la schiena dritta, servire possibilmente i lettori e non gli apparati. Con questi semplici principi, ai quali aggiunge una straordinaria capacità di raccontare e denunciare le cose che non vanno, Milena Gabanelli si è guadagnata un posto d'onore tra i giornalisti bravi e scomodi, quelli che non si fanno intimidire da nessuno e non rinunciano alla domanda che può dispiacere.
Domenica sera, con un servizio inappuntabile sulla scarsa trasparenza della gestione economica del Movimento 5 Stelle, la giornalista di Report ha dimostrato una volta ancora di essere libera e imparziale anche davanti a chi l'aveva scelta come candidato al Quirinale. Quanti introiti arrivano al blog di Grillo e Casaleggio? Dove si possono leggere i bilanci del Movimento? Perché non sono state pubblicate le fatture delle spese elettorali? Domande che piovono come sassi su un Movimento avvitato da settimane sui propri rimborsi parlamentari («Davanti a tre milioni di disoccupati, smettetela di parlare di scontrini fiscali», esorta nel finale Gabanelli). I militanti reagiscono, e male, inondano i forum, si lasciano andare a offese e triviali volgarità, attaccano la giornalista che un tempo meritava elogi perché «nemica dei poteri forti» e adesso, sostiene qualche anonimo blogghista, «viene richiamata all'ordine».
A dire quel che è giusto dire ci si fa qualche nemico, ma ne vale sempre la pena, diceva Enzo Biagi. Chi è stato eletto dai cittadini deve rispondere di quel che fa, ovunque sia e chiunque sia: il mestiere di giornalista non contempla amicizie interessate o casi di coscienza. Per questo il servizio di Milena Gabanelli invece di irritare dovrebbe far riflettere e pensare tutti quelli che chiedono agli altri trasparenza e non riescono ad averla in casa propria. La libertà è un esercizio che si misura anche nei comportamenti: Report e Gabanelli sono cani da guardia senza collare; nel Movimento 5 Stelle si vedono ancora tanti guinzagli.

il Fatto 21.5.13
Idea Pd: altro che Caimano, ineleggibili i Cinque Stelle
La legge Pd blocca 5 Stelle. Grillo: “Ritireremo le liste”
Finocchiaro: “È l’attuazione dellArt. 49 della Costituzione”
Roberto Fico: “ Si occupino dell’ineleggibilità di Berlusconi”
di Fabrizio d’Esposito


Al Senato, contando i disegni di legge assegnati alla commissione Affari costituzionali, c’è un’instancabile coppia del Pd, formata da Anna Finocchiaro, presidente della commissione stessa, e da Luigi Zanda, capogruppo democrat a Palazzo Madama. Si va dalla riforma dell’immunità parlamentare all’abrogazione del Porcellum (che prevede il ritorno al Mattarellum) passando per un testo di nove articoli già battezzato come ddl anti-Movimento 5 Stelle. Quest’ultimo, presentato il 22 marzo scorso e assegnato il 9 maggio, disciplina la democrazia interna e la trasparenza dei partiti, “in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione”. A firmarlo cinque senatori del Pd: Zanda e Finocchiaro, appunto, e poi La-torre, Casson e Pegorer. Gli articoli che mettono fuorilegge i grillini sono il 2 e il 6. Recita il 2: “I partiti politici sono associazioni dotate di personalità giuridica”. Nella relazione introduttiva del ddl, i firmatari spiegano la ratio dell’articolo 6: “Questo non impedirà a una semplice associazione o movimento di fare politica, ma il mancato acquisto della personalità giuridica precluderà l’accesso al finanziamento pubblico e la partecipazione alle competizioni elettorali”.
LA REAZIONE di Beppe Grillo, a capo di un movimento che è “una non associazione” e rifiuta l’omologazione al sistema, è arrivata dal suo blog: “Il MoVimento 5 Stelle non è un partito, non intende diventarlo e non può essere costretto a farlo. Se la legge anti MoVimento di Finocchiaro e Zanda del pdmenoelle sarà approvata in Parlamento il M5S non si presenterà alle prossime elezioni. I partiti si prenderanno davanti al Paese la responsabilità di lasciare milioni di cittadini senza alcuna rappresentanza e le conseguenze sociali di quello che comporterà”. Tra i commenti c’è chi scrive che a quel punto l’alternativa sarà tra “democrazia e guerra civile”, mentre sulla pagina Facebook di Anna Finocchiaro si leggono altre contestazioni e insulti, per la serie “Ti piace vincere facile” oppure “Tecnica Tafazzi”. Grillo, poi, ha anche lanciato su Twitter l’hashtag #nonsiamounpartito e in serata, a un comizio, chiede: “Napolitano non dice nulla che vogliono escludere 9 milioni di persone? ”.
I risultati ottenuti dal ddl (che eliminerebbe di fatto anche le liste civiche) sono paradossali. Nel senso che il Pd affrontò le questioni dell’articolo 49 della Costituzione nell’estate del 2012, per tentare di rimediare agli effetti dello scandalo Lusi, il tesoriere della Margherita finito in manette. Insomma, per fronteggiare la cosiddetta “antipolitica”, l’allora segretario Pier Luigi Bersani varò un pacchetto di riforme sfociato in parte nella nuova legge sul finanziamento dei partiti. Adesso Zanda e Finocchiaro intendono completare il quadro ma nel frattempo il M5S ha fatto boom alle elezioni politiche e questo provvedimento sembra fatto apposta per cancellarli. Il Pd ha smentito di volere una legge ad partitum ma come al solito Matteo Renzi, che pure ha sparato contro i grillini (“I rivoluzionari dello scontrino perduto”), si discosta dalla linea ufficiale: “Io non sono d’accordo, è un modo per far vincere le elezioni a Grillo. Quando si alimenta un vessillo come l’ineleggibilità di Berlusconi o dici non facciamo candidare Grillo, fai un regalo a Berlusconi e al M5S. Se vuoi vincere non puoi squalificare gli altri. Diventi ridicolo, se no. Come a nascondino, ti beccano”.
IN REALTÀ, il sindaco di Firenze, “salvando” sia Berlusconi sia Grillo, pizzica il nervo più scoperto del Pd: l’ineleggibilità del Cavaliere. Sostiene il deputato Roberto Fico, candidato dal M5S alla presidenza della Vigilanza Rai: “Anna Finocchiaro invece di discutere dell’ineleggibilità di Silvio Berlusconi, magari stabilendo una linea dura e una battaglia senza precedenti nella giunta delle elezioni, preferisce presentare un ddl anti-movimenti al fine di attaccare il M5S”. In ogni caso, in testa alle priorità del nuovo slancio “riformista” del Pd c’è la legge elettorale. L’ultimo ddl di Zanda e Finocchiaro è il ritorno al Mattarellum e attua “la messa in sicurezza” del Porcellum annunciata dal governo in ritiro nel-l’abbazia di Spineto. Ieri c’è stato un vertice al Quirinale, con il capo dello Stato, e oggi Epifani farà un vertice di partito. Considerata l’ostilità del Pdl sarà un altro, infinito tormentone.

La Stampa 21.5.13
L’autogol che aiuta l’antipolitica
di Michele Brambilla


Abbiamo più volte sottolineato - e continueremo a farlo - gli eccessi dell’antipolitica, i suoi qualunquismi e i suoi moralismi, il suo giacobinismo fanatico e il suo furor cieco, la facile demagogia e la tragicomica ossessione del complotto. Ma c’è qualcosa che nonostante tutto continua a dare, a questa antipolitica rabbiosa e urlante, fiato e ragion d’esistere: ed è la politica. La giornata di ieri ne è stata una triste conferma. Grillo e i suoi, fino a una certa ora del pomeriggio, apparivano in difficoltà. Era successo che domenica sera, a Report, Milena Gabanelli, dopo aver parlato del finanziamento dei partiti, aveva posto al Movimento Cinque Stelle due domande: che fine fanno i proventi del blog di Grillo, e quanto guadagna la Casaleggio e Associati dalla pubblicità sul sito. Due domande destinate a restare senza risposta sia durante la trasmissione - Casaleggio, assicura la Gabanelli, ha rifiutato l’intervista - sia dopo.
Scossi dall’essere, per una volta, sul banco degli imputati di un tribunale «amico» come Report, Grillo e i suoi seguaci hanno dato in un certo senso il peggio di sé. Primo: hanno dimostrato di essere, sul tema della trasparenza, piuttosto doppiopesisti: esigono la luce del sole per gli altri, ma non per loro stessi (e verrebbe da dire che non è la prima volta: ricordate le dirette streaming degli incontri con Bersani e Letta e, viceversa, le loro riunioni a porte chiuse?). Secondo: hanno dato un’ennesima prova di incontinenza verbale, visto che Milena Gabanelli, sul blog di Grillo, è stata insultata con tutto il consueto repertorio che si usa in questi casi, in particolare con le donne. Terzo: non hanno saputo spiegare ai propri militanti, e forse neanche a loro stessi, come mai certe incalzanti richieste di glasnost provenissero da una persona che, solo poche settimane fa, era la candidata del Movimento Cinque Stelle al Quirinale.
Quarto, Grillo e i suoi ieri stavano offrendo un brutto spettacolo soprattutto perché nel replicare alle critiche hanno fatto ricorso al solito schema che prevede la delegittimazione, per non dire la demonizzazione, dell’«avversario». Come purtroppo quasi sempre accade, chi non è d’accordo con il Movimento non è presentato appunto per quello che dovrebbe essere, cioè per una persona che non è d’accordo: ma come il servo di qualcuno, la longa manus di poteri forti, il solito giornalista prezzolato. Forse ancora più pesanti degli insulti da trivio, infatti, sono le insinuazioni nei confronti di Milena Gabanelli: «È stata richiamata all’ordine dal padrone PD-L»; «Le sue trasmissioni sembrano manovrate da una regìa politica»: «Lei è una asservita al padrone piddino»; «Cara Gabanelli, dicci chi ti ha costretto a fare quel servizio... ». Di tutta la violenza verbale dell’antipolitica, questo del voler sempre attribuire loschi mandanti a chi eccepisce è l’aspetto più odioso, il più vile.
Ma come dicevamo l’antipolitica non avrebbe di che nutrirsi se non ci fosse la politica. Infatti sempre ieri, proprio mentre Grillo e i suoi si affannavano nella titanica impresa di far apparire Milena Gabanelli come un ventriloquo della Casta, ecco che dai partiti è arrivato l’autogol che ha cambiato la partita. Il Pd ha infatti presentato al Senato un disegno di legge che introduce la «personalità giuridica» dei partiti. Lasciamo agli azzeccagarbugli i dettagli. La sostanza è che, se passasse una legge del genere, il Movimento Cinque Stelle sarebbe costretto o a rinnegare se stesso diventando un partito - oppure a non presentarsi alle elezioni. E siccome Grillo ha già detto che il suo movimento non diventerà mai un partito, una legge del genere avrebbe l’effetto di tenere i Cinque Stelle fuori dal Parlamento.
È bastata la notizia di questo disegno di legge, dunque, a levare i grillini dagli impicci, e a consentire loro di gridare al complotto. E non senza ragioni, stavolta. Il Pd ha già forzato la mano nelle regole delle sue primarie, pochi mesi fa: ora cerca di eliminare Berlusconi dichiarandolo ineleggibile e il Movimento Cinque Stelle costringendolo a cambiare pelle. Si può pensare di risolvere così i propri problemi?
No, non si può pensarlo. Ma la cosa più inquietante è che i politici non ci arrivino a capirlo da soli, dimostrando un distacco dal sentire del popolo che è poi la prima e più vitale linfa dell’antipolitica.

Corriere 21.5.13
Quei regali involontari
E così il Movimento si prende una stella in più
di Massimo Franco


Più che un attentato all’esistenza politica del Movimento 5 Stelle, ha l’aria di un regalo involontario e maldestro a Beppe Grillo. La proposta di legge del Pd per attuare l’articolo 49 della Costituzione, che prevede la personalità giuridica dei partiti, è stata interpretata come un modo per bloccare il M5S alle prossime elezioni.
E se anche l'intenzione non è quella di boicottare Grillo, il disegno di legge di Luigi Zanda e Anna Finocchiaro sta avendo un unico risultato: mostrare un Partito democratico spaventato dalla fioritura di gruppi politici che erodono anche il suo elettorato; e tentato di combatterli con una risposta più burocratica che politica. L'idea ha il demerito di essere percepita come un gesto insieme di debolezza e di prepotenza. Non è chiaro, infatti, il motivo che giustifica proprio adesso una norma per l'attuazione di un articolo della Carta fondamentale lasciato in sonno per oltre sessant'anni. La risposta del Pd è piccata. «L'interpretazione» secondo la quale l'iniziativa serve a «bloccare e andare contro i movimenti è una forzatura deformante», replica il partito in una nota ufficiale.
Di più, nasconderebbe «un'operazione di disinformazione». Il vero obiettivo, si fa presente, sarebbe quello di introdurre meccanismi che garantiscano partecipazione e trasparenza. E si addita il proprio modello di scelta dei gruppi dirigenti. Ma l'impressione è che la risposta non basterà a togliere a Grillo un'occasione ghiotta di polemica con una forza politica alla quale conta di sottrarre altri consensi. E non solo perché con le sue crepe il Pd appare un modello a dir poco controverso. Il problema è la pretesa, discutibile in sé, di obbligare i movimenti a registrarsi per partecipare al voto e ottenere finanziamenti. «Il Movimento 5 Stelle non è un partito, non intende diventarlo e non può essere costretto a farlo», scrive Grillo sul suo blog.
«Se la legge di Finocchiaro e Zanda sarà approvata in Parlamento, il M5S NON si presenterà alle prossime elezioni». Quel «non» maiuscolo sa già di campagna elettorale. E l'ex comico attribuisce ai «partiti», senza distinzione, l'eventuale responsabilità di lasciare «milioni di cittadini senza rappresentanza». L'episodio gli permette sia di velare i contrasti interni e qualche imbarazzo sui finanziamenti del suo sito; sia di rivendicare il poco splendido isolamento per il quale ha optato. La proposta del Pd, la boccia Matteo Renzi, «è un modo per far vincere le elezioni a Grillo e ai grillini».
«Se vuoi vincere le elezioni» aggiunge il sindaco di Firenze alludendo ai tentativi della sinistra di sancire l'ineleggibilità per legge di Berlusconi, «non puoi squalificare gli altri. Altrimenti gli italiani ti beccano e ti puniscono». L'errore tattico commesso con il disegno di legge è vistoso: tanto più perché si registra nelle stesse ore in cui il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha ricevuto Stefano Rodotà, giurista e candidato di Grillo per il Quirinale; per chiedergli di partecipare in qualche modo alle riforme istituzionali. La risposta di Rodotà è stata garbata ma negativa.
Nè poteva essere molto diversa, in una fase in cui Palazzo Chigi è costretto a rintuzzare gli attacchi virulenti di Grillo, che teorizza una competizione elettorale fra il proprio movimento e Silvio Berlusconi: come se la sinistra e il Pd, di cui Enrico Letta è stato vicesegretario, fossero destinati a scomparire. «C'è chi fa e chi parla», replica il premier al leader del M5S, cercando di inchiodare Grillo alla realtà. Sa che per sgonfiare il sintomo più recente e sconcertante della protesta anti-sistema occorre governare e produrre risultati: l'unico modo per mostrare contraddizioni e inadeguatezza di un movimento da battere non con leggi che rischiano di suonare soprattutto strumentali, ma con la buona politica.

Corriere 21.5.13
Piero Alberto Capotosti, ex presidente della Corte Costituzionale e vicepresidente del Csm
«Vietare la corsa ai movimenti è anticostituzionale»
intervista di M. Antonietta Calabrò


ROMA — «Una tesi politica che circola da tempo ma che contrasta con quanto affermato dalla nostra Costituzione». Il professor Piero Alberto Capotosti, ex presidente della Corte Costituzionale e vicepresidente del Csm, non è d'accordo con il contenuto del ddl del Pd che vorrebbe limitare la competizione elettorale ai soli partiti che abbiamo uno statuto a base democratica. «Ci sono dei problemi dal punto di vista strettamente costituzionale».
Ci spieghi...
«Bisogna partire dall'articolo 49 della Costituzione, che prevede il diritto dei cittadini di riunirsi nei partiti descritti come libere associazioni. I nostri padri costituenti quindi sottolineano innanzitutto che si tratta di un diritto e che questo diritto deve potersi esercitare liberamente».
Quindi esattamente il contrario di quanto prevede il ddl ?
«Si, mi sembra che il ddl si rifaccia al modello previsto dall'articolo 39 per i sindacati, ma questo contrasta appunto con quanto previsto esplicitamente per i partiti. È solo per i sindacati (e non per i partiti) che la nostra Costituzione prevede l'obbligo dello Statuto (anzi questo, viene sottolineato, è l'unico obbligo, per ottenere la registrazione) che fissi un ordinamento interno a base democratica».
Perché questa differenza tra partiti e sindacati?
«La Costituzione vuole tutelare la libertà di associazione dei cittadini nei partiti. Fissare statuti, pretendere la personalità giuridica dei partiti infatti può diventare fortemente limitativa dell'autonomia del sistema politico. Ed è questo che i padri costituenti non hanno voluto: la libertà è il bene primario che la Costituzione vuole garantire alla dialettica politica».
Ma non si finisce per avere partiti senza nessun controllo?
«In realtà, il controllo previsto dalla nostra Carta risiede nel libero gioco della politica e delle competizioni elettorali, ma non si è voluto espressamente prevedere altro, per garantire la libertà di partecipazione dei cittadini».
Ecco, parliamo dei cittadini: in che modo questa proposta rischia di lederne i diritti?
«Se si fissano dei paletti troppo rigidi ai partiti, come appunto gli statuti, la personalità giuridica (che impone obblighi e vincoli), e così via, si rischia di intaccare il diritto all'elettorato passivo di tutti i cittadini sancito dall'articolo 51 della Costituzione. Insomma, io vedo una serie di problemi e quindi sarebbe meglio studiare più approfonditamente la questione».
Come mai secondo lei si è arrivati a questa proposta?
«Si tratta di una tesi politica che circola da tempo, e che vorrebbe offrire un punto di ancoraggio normativo alla volontà di controllare il finanziamento pubblico dei partiti. Un ragionamento del tipo: se prendi il finanziamento pubblico devi avere uno statuto a base democratica, degli organismi interni e così via, ma si tratta di meccanismi fortemente limitativi del sistema politico».
La nostra Costituzione è stata scritta quando il Paese usciva dal fascismo...
«Certamente, è per questo che i nostri padri costituenti hanno voluto ben sottolineare la necessità della libertà di partecipazione democratica. Si tratta di una lezione sempre valida».
Il Pd dovrà fronteggiare anche il problema dell'ineleggibilità di Berlusconi...
«Mi sembra che Berlusconi non abbia cariche sociali di nessun tipo. Mi pare sia solo azionista di maggioranza: questa non mi sembra una condizione tale da provocarne l'ineleggibilità. A parte la singolarità di una pronuncia che arriva dopo oltre vent'anni dalla sua scesa in politica, dopo aver ricoperto le massime responsabilità di governo».

Repubblica 21.5.13
L’amaca
di Michele Serra


Il progetto di legge del Pd per definire meglio la qualità giuridica dei partiti politici, la loro trasparenza amministrativa, le loro regole di democrazia interna, è sacrosanto e anzi tardivo. Ma ha un difetto macroscopico: che pare escogitato apposta per mettere alle corde il movimento di Grillo (nove milioni di voti), che di definirsi “partito” e forse di definirsi in generale proprio non ne vuole sapere. È interessante notare, a questo proposito, che nel Pd molti ripetono che l'ineleggibilità di Berlusconi (imminente proposta dei grillini alle Camere) sarebbe un palese oltraggio inferto ai nove milioni di italiani che votano per il centrodestra: ecco dunque un'eccellente occasione per verificare se gli elettori Pdl e quelli M5S, nella visione politica del Pd, contano allo stesso modo; e se sia più o meno conveniente scontentare gli uni o gli altri o entrambi o nessuno dei due.
Sul piano dei principi, il ragionamento che vale per il centrodestra (non è lecito mettere fuori gioco un leader votato da tanti milioni di italiani) dovrebbe valere, nella condizione perfettamente tripolare sancita dal voto di febbraio, anche per le Cinque Stelle. Ma le questioni di principio sono troppo complicate da affrontare adesso, stretti tra le varie emergenze economiche e costretti dalla impressionante alleanza al governo del Paese.

La presidenza della commissione spetta all’opposizione, in lizza Sel M5S e Lega
Repubblica 21.5.13
Il conflitto d’interesse
Berlusconi ineleggibile, oggi il primo round
Si insedia la Giunta, scontro sul presidente. M5S: poniamo subito la questione
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Il timer di quella bomba a orologeria chiamata “ineleggibilità di Silvio Berlusconi” sarà innescato alle 14 di oggi, nella prima riunione della Giunta per le elezioni e le immunità, dedicata all’elezione del presidente. «Non aspetteremo un minuto per sollevare la questione», dice il capogruppo dei 5 stelle al Senato Vito Crimi. Il Movimento ha tutto l’interesse a cavalcare una battaglia che fa male al Pdl e mette il Pd in un angolo, e comincerà a farlo subito, partendo dal rivendicare la presidenza della Giunta. O comunque, cercando di impedire che vada alla Lega, al senatore Raffaele Volpi, sul cui nome gli altri partiti si sarebbero già accordati. «Per prassi la presidenza deve andare all’opposizione - dice d’un fiato il senatore stellato Michele Giarrusso - ma loro vogliono scegliersi l’opposizione che fa più comodo, come hanno fatto alla Camera, dove hanno eletto presidente addirittura Ignazio La Russa, che in giunta non avrebbe dovuto neanche esserci visto che Fratelli d’Italia non ha i numeri per fare un gruppo autonomo. Se queste sono le scelte, se si vuole dare quel ruolo a qualcuno che è di certo più amico di Berlusconi di noi, un motivo ci sarà».
E però, avverte lo stesso Giarrusso, «so che parte del Pd non è d’accordo con questa impostazione. Qui democratici, M5S e Sel hanno la maggioranza. I numeri per impedire questo abominio ci sono tutti». Felice Casson, senatore pd, ricorda che «la Lega al Senato non può essere considerata opposizione, visto che si è astenuta sul voto di fiducia al governo », e per questo non crede le spetti la presidenza. Questione nient’affatto irrilevante, perche se il voto del presidente vale come quello degli altri, il suo ruolo è fondamentale per decidere i tempi e organizzare un lavoro lungo e complesso. La Giunta deve esaminare tutti i casi di incompatibi-lità, incandidabilità e ineleggibilità. Di solito ci si divide a livello territoriale, a ogni commissario vengono affidati i casi di una regione differente (nel caso di Berlusconi si tratta del Molise). Le pratiche vengono istruite presso il “comitato cariche”, di cui fanno parte un numero ristretto di commissari e che di solito è presieduto da uno dei vicepresidenti. Lì si fa una sorta di istruttoria, alla fine della quale il relatore fa il suo rapporto e la giunta vota. A quel punto, nel caso dicesse sì all’ineleggibilità di Berlusconi, ci sarebbe una “procedura di contestazione”, un “processo” per il quale il Cavaliere avrebbe diritto a portare avvocato e testimoni. Al termine la Giunta rivota di nuovo, dopodichè la questione passa all’esame dell’aula.
Se pure tutto venisse fatto in modo molto rapido, e non accade mai, passerebbe almeno un mese prima dell’arrivo in aula. Il che dimostra quanto conti chi decide i tempi. Poi c’è il problema politico. Il Pd sembra orientato a dare ai commissari libertà di coscienza, un’arma che potrebbe rivelarsi a doppio taglio visto che il partito è diviso tra chi pensa che sia ora di dire le cose come stanno, e cioè che Berlusconi è proprietario de facto di Mediaset e quindi non avrebbe mai dovuto essere eletto, e chi crede che dopo 20 anni questa battaglia sia insensata. Doris Lo Moro, senatrice democratica in Giunta, ieri a Un giorno da pecora è stata chiara: «Come cittadina penso che non sia il caso di avere né un deputato né un premier in condizioni di evidente incompatibilità, ma un altro conto è l’applicazione della legge che richiede serietà e serenità». Fuori dal Senato Matteo Renzi pensa che l’intera vicenda sia un regalo a Berlusconi: «Te ne accorgi ora che fa politica da 19 anni? Se vuoi vincere le elezioni non puoi squalificare gli altri. Devi prendere il loro voto o gli italiani ti beccano ». Comunque vada, le conseguenze non sarebbero da poco. Se l’ineleggibilità di Berlusconi passasse in giunta, e addirittura in aula, il Pdl toglierebbe immediatamente l’appoggio al governo Letta. Se non passasse, e le larghe intese restassero in piedi, il Pd avrebbe qualcos’altro da spiegare a una parte dei suoi elettori.

La Stampa 21.5.13
Crimi: sull’ineleggibilità questo governo rischia di cadere
“I democratici potrebbero votarla? Possibile”
"Se votano la legge sui movimenti hanno la responsabilità di lasciare senza voto 9 milioni di italiani"
di Andrea Malaguti


Senatore Vito Crimi, fuori Berlusconi dal Parlamento?
«Non lo diciamo noi. Lo dice la legge».
Voi lo rivendicate.
«Con forza. Diciamo che sarà la prima cosa che sottolineeremo oggi nella Giunta per le Elezioni. Ci sediamo e solleviamo il problema: Berlusconi non può stare in Senato».
Chi altri non ci può stare?
«Sempre a norma di legge, non ci possono stare i suoi avvocati».
Ghedini?
«Ghedini certamente. E anche Longo».
Pensa che il Pd si schiererà al vostro fianco?
«Lo immagino. Anche se ho dei dubbi sulle loro reali motivazioni».
Scusi?
«Lo fanno perché ci credono o semplicemente perché sono convinti che neppure la Cassazione stavolta salverà Berlusconi? ».
L’ineleggibilità di Berlusconi porterà alla caduta del governo?
«Possibile».
A quel punto aprireste al Pd?
«Noi non facciamo alleanze con nessuno. E’ noto. Ma soprattutto toccherebbe al Presidente della Repubblica indicare una nuova via. Noi daremmo la nostra disponibilità a governare».
Già sentita. Ha visto la proposta di legge Finocchiaro-Zanda?
«L’ho vista».
Prevede la piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, secondo cui i partiti devono avere «personalità giuridica». Più una serie di contenuti, adesempiosullostatuto, che di fatto vi impedirebbero di partecipare alle elezioni.
«Ha già risposto Grillo. E io condivido: il Movimento 5 Stelle non è un partito e non intende diventarlo. Se la legge di Finocchiaro e Zanda sarà approvata, non ci presenteremo alle prossime elezioni. A quel punto i partiti si prenderanno la responsabilità di lasciare milioni di cittadini senza rappresentanza, con le conseguenze sociali che comporterà».
Anche Renzi vi attacca: l’M5S chiede ai nostri militanti di bruciare le tessere ma sa occuparsi solo di diaria.
«Gli consiglio di vedere meno tv e di leggere meno giornali. Stiamo facendo un lavoro enorme alla Camera e al Senato. Consulti il nostro blog. Capirà molte cose».
Quanto contano i contenuti del blog di Grillo?
«In che senso? ».
Alcuni senatori non hanno gradito l’esposizione della foto segnaletica del ghanese Kabobo dopo gli omicidi di Milano. E’ sembrato un messaggio razzista.
«Delle volte mi sembra che i miei senatori vengano da Marte. Beppe Grillo ha uno modo specifico di esprimersi. Che conosciamo tutti. La forza delle immagini per lui è sempre stata decisiva. Ma dietro quella foto c’era il tentativo di invitare tutti a un’analisi. Di creare un dibattito. Invece pare che certi argomenti siano tabù».

Corriere 21.5.13
«Cavaliere ineleggibile» La mozione dei 5 Stelle minaccia anche il governo
Democratici verso il no. Incognita voto segreto
di Monica Guerzoni


ROMA — Per il governo è una mina da disinnescare subito, prima ancora che piombi sul tavolo della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato. L'organismo che ha il potere di decidere il futuro politico di ogni singolo eletto si riunirà alle 14 per la prima volta e all'ordine del giorno c'è l'elezione del presidente. La scelta fa litigare i partiti e si incrocia con un'altra, ben più delicata faccenda: la mozione per l'ineleggibilità del senatore Silvio Berlusconi annunciata con gran clamore dal M5S.
Beppe Grillo ha promesso di mangiarsi il cappello se il «Pdmenoelle» voterà sì. E il problema, per la tenuta dell'esecutivo, è che alcuni democratici sarebbero pronti a votare con i grillini. In Parlamento c'è chi accredita il «pressing» di Palazzo Chigi sul segretario del Pd perché i senatori non facciano scherzi, ma il ministro Dario Franceschini smentisce: «È materia di esclusiva competenza parlamentare». Così la pensa anche il segretario Guglielmo Epifani, il quale ha lasciato ai senatori libertà di «fare le proprie valutazioni».
La storia è antica e ha origine nella legge 361 del 1957, in base alla quale i beneficiari di concessioni pubbliche (come quelle televisive) sono ineleggibili. Per capire come potrebbe finire bisogna far di conto e sondare gli umori dei commissari. L'organismo è formato da 23 membri e quel che preoccupa fronte berlusconiano e governo è che, sulla carta, M5S, Pd e Sel hanno la maggioranza: 13 voti. L'incognita è come voterà il Pd, diviso sul da farsi. Negli anni, per cinque volte, alla Camera il centrosinistra ha respinto ogni richiesta di ineleggibilità del Cavaliere e l'orientamento contrario alla mozione sembra prevalere anche stavolta. Ma il voto è segreto e i 101 franchi tiratori che hanno impallinato Prodi sono un precedente che non si può trascurare. I grillini sono determinati a provarci e quel che li fa infuriare è l'intesa che si sta saldando sulla scelta del presidente, che spetta alle opposizioni. I Cinquestelle, come anche Sel, puntano allo scranno più alto, ma il favorito è il leghista Raffaele Volpi. Un nome gradito al Pdl, che potrebbe ottenere voti anche dal Pd.
«Se danno la presidenza alla finta opposizione la mozione sull'ineleggibilità non ha futuro — teme il candidato grillino Mario Giarrusso, che sospetta "pressioni del Quirinale" —. Si creerebbe un precedente micidiale, perché tutto dipende dal presidente...». Se i grillini ci tengono tanto è perché sarà il presidente a decidere quando calendarizzare la mozione contro Berlusconi. «Un conto è portarlo in Giunta tra un mese, altra cosa è aspettare un anno», rivela l'arcano Giarrusso. Sul sito di Grillo l'ideologo Paolo Becchi prevede una «santabarbara delle larghe intese». Nel Pd tendono a sdrammatizzare, ma il Pdl non vuole rischiare: Renato Schifani ha detto chiaramente che se i democratici dovessero votare coi Cinque Stelle cadrebbe il governo. «Combattere Berlusconi a colpi di regolamento è una sciocchezza, il Pd dovrebbe sfilarsi dalla trappola con uno strattone energico» è il consiglio che l'ex presidente della Giunta, Marco Follini, offre ai democratici. Gli otto del Pd sono tormentati dai dubbi. Per Felice Casson i precedenti contano poco. «Non possiamo escludere nulla» è la posizione di Doris Lo Moro, ex magistrato che ritiene Berlusconi incompatibile: «Se mi convincessi che per vent'anni abbiamo sbagliato nascerebbe un problema politico grande come una casa, ma non lo ignorerei». Claudio Moscardelli propende per il no: «Votare l'ineleggibilità dopo vent'anni mi parrebbe singolare». Rosanna Filippin invita a ragionare «con le carte sul tavolo» e rassicura Letta sulla tenuta del governo: «I suoi problemi non vengono dalla Giunta, ma dalle necessità degli italiani».

il Fatto 21.5.13
Il fedelissimo di Calderoli per l’immunità di B.
Dalla giunta per le elezioni passano le richieste dei Pm
Oggi si decide. Democratici già pronti a cedere ai leghisti
di Sara Nicoli


Lotteranno fino alla fine, come si conviene quando c’è di mezzo un pezzo di legalità da difendere, ma la partita appare persa. La giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato – organismo particolarmente delicato in questa legislatura perché da lì passeranno le prossime richieste dei magistrati per i futuri tasselli dei processi che riguardano non solo Silvio Berlusconi, ma anche Denis Verdini e molti altri indagati/imputati illustri a Palazzo Madama come Roberto Formigoni – potrebbe avere un presidente leghista.
Alla fine, nonostante la battaglia condotta da Sel, che avrebbe voluto alla presidenza Dario Stèfano, quella poltrona è a un passo dal finire nelle mani di una finta opposizione, il Carroccio appunto. Che, in quanto astenuto sul voto di fiducia al governo Letta, un voto che al Senato vale come contrario, è considerato opposizione, quindi con le carte in regola per ambire alla presidenza della giunta. Salvo colpi di scena (auspicabili, ma difficili), questa sera la Lega potrebbe già avercela fatta.
IL CANDIDATO alla carica è Raffaele Volpi, senatore molto vicino a Giancarlo Giorgetti (il “saggio” leghista alla corte di Napolitano con idee di correre come segretario nel prossimo corso della Lega), ma soprattutto uomo di Roberto Calderoli; l’autore del Porcellum ne seguirà da vicino i primi passi. Lo vuole Berlusconi. Il segretario della Lega, Roberto Maroni, ha infatti fatto sapere ai diretti interessati (Berlusconi, Verdini e, appunto, Calderoli) di voler rimanere estraneo alla lotta per la conquista della poltrona; Volpi, dopotutto, non è uno dei suoi. Difficile capacitarsi di una simile débâcle, soprattutto dopo quanto avvenuto, poco più di dieci giorni fa alla Camera, quando Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia è diventato presidente dell’omologa giunta a Montecitorio.
Eppure, anche in questo caso, come in quello precedente, da parte del Pd non c’è stata alcuna levata di scudi. Anzi. La presidenza della giunta per le immunità è stata trattata all’interno del pacchetto delle presidenze spettanti alle opposizioni (le cosiddette commissioni di garanzia) insieme al Copasir e alla Vigilanza Rai.
Il raggiungimento dell’obiettivo giunta, da parte della Lega, nasce da lontano. E grazie alla sagacia e alla conoscenza dei regolamenti di Roberto Calderoli. Fu lui a suggerire a Maroni di far astenere i senatori leghisti sul voto al governo, proprio per non rompere l’asse con il Pdl, ma in modo da essere considerati opposizione al momento della divisione delle poltrone “di garanzia” delle commissioni. Per Berlusconi, infatti, è fondamentale avere il controllo della giiunta.
Calderoli, dunque, promise al Cavaliere che avrebbe fatto il possibile per spuntarla. “Abbiamo fatto anche noi il possibile – racconta, non senza amarezza, un senatore del Gruppo misto, vicino a Sel – ma ci siamo trovati davanti a un accordo granitico fatto da Calderoli e Berlusconi a cui il Pd ha deciso di soggiacere. E non riusciamo a capire perché”.
INUTILE, infatti, inneggiare all’incandidabilità di Berlusconi, come nei giorni scorsi ha fatto più volte il Pd con Luigi Zanda, quando poi una battaglia così importante come quella della giunta per le elezioni non viene portata avanti con convinzione. Il malumore nel Pd, comunque, è molto alto. Questa mattina ci sarà l’ultima riunione dei democratici, quella definitiva, per cercare di evitare che il gruppo si spacchi al momento del voto, cosa che appare invece inevitabile.
Quel che temono, però, sia i democratici sia il Pdl, è che alla fine, in caso di grosso caos nel Pd, la presidenza possa finire (alla quarta votazione, cioè quando cala il numero dei voti necessari) nella disponibilità dei grillini, in particolare di Vito Cri-mi, capogruppo M5S al Senato. Una vera beffa per il Cavaliere che non lo perdonerebbe mai al Pd. Con conseguenze sul governo. Non di forma, stavolta, ma di sostanza. La battaglia, al momento, appare persa. A meno di uno scatto d’orgoglio finale del Pd che, però, non pare nell’aria.

il Fatto 21.5.13
il dissidente Felice Casson
“Quel posto tocca a Sel o ai grillini, non alla Lega”
di Marco Palombi


Ci risiamo. Pure per eleggere il presidente della Giunta per le elezioni e le immunità il Pd rischia un nuovo caso Francesco Nitto Palma: i vertici del gruppo e del partito s’accordano col centrodestra su un nome gradito al Cavaliere, gli eletti – evidentemente incapaci di arrendersi alla realpolitik – contraddicono quell’intesa. Nel caso specifico, anche con l’accordo dei vertici democratici, il favorito è Raffaello Volpi, dirigente leghista da Brescia. Pure stavolta però, chi dovrebbe effettivamente eleggerlo, non ci pensa nemmeno: “Io di certo un leghista non lo voto”, ci spiega al telefono Felice Casson, ex magistrato e senatore alla terza legislatura, già tra i protagonisti dell’ammutinamento in commissione Giustizia che stava per far saltare il governo Letta.
Senatore, ci risiamo.
Per una prassi consolidata che deriva da motivi che direi ovvi, la presidenza della Giunta spetta all’opposizione e la Lega non ha votato contro il governo.
Vabbè, il Carroccio si è astenuto...
Appunto, si è astenuto e in commissione Giustizia coi suoi due voti ha fatto eleggere l’ex ministro berlusconiano Nitto Palma. Per quanto mi riguarda in Senato ci sono solo due partiti di opposizione: Sel e Movimento 5 Stelle.
Anche fra loro non c’è accordo sul presidente: lei chi preferisce?
Non è una cosa che spetta a me decidere, spero che un nome unico verrà indicato dalle opposizioni.
I suoi colleghi del Pd in Giunta sono d’accordo con lei?
Non saprei, non ci siamo ancora riuniti.
Risulta che i vertici del suo gruppo abbiano dato via libera a Volpi.
Nessuno mi ha fatto sapere niente. Quando e se dovessero comunicarcelo faremo le nostre osservazioni.
Insomma, si va verso un nuovo caso Nitto Palma?
Glielo ripeto: io un funzionario di partito della Lega non lo voto.

Repubblica 21.5.13
L’intervista
Casson: “Le questioni giuridiche vanno distinte da quelle politiche. Vedremo come il Cavaliere si difenderà”
“La legge del ’57 è chiarissima i precedenti ora non valgono”
di Liana Milella


ROMA — Giunta autorizzazioni, chi vince? «Sarà una sorpresa». Berlusconi ineleggibile? «Sentiamo come si difende». Il futuro del Pd? «Di che Pd stiamo parlando? ». Sul tema del giorno risponde così a Repubblica il senatore Felice Casson.
Pd al bivio su presidente della giunta e ineleggibilità del Cavaliere. I due fatti sono evidentemente legati. Che succederà?
«Nella destra c’è un palese tentativo di tenere assieme le due questioni con l’obiettivo di bloccare, o comunque rigettare, la richiesta di ineleggibilità che verrà presentata dal M5s. In quest’ottica la presidenza affidata a un leghista garantirebbe la gestione dei lavori della giunta».
E invece, per il Pd o una sua parte, la Lega non ha diritto?
«Costituzionalmente è opposizione politica chi vota contro il governo. La Lega, invece, sulla fiducia in Senato si è astenuta e gli unici che hanno votato contro sono stati M5s e Sel. Quindi la presidenza della giunta, che per prassi costante del Parlamento va attribuita alle opposizioni, deve andare a un senatore di Sel o di M5s».
Ma il Pd ha fatto delle promesse?
«A quest’ora della sera non mi risulta. Non è stata fatta alcuna riunione con i membri Pd della giunta, né è arrivata comunicazione di alcun genere in proposito».
Lei al momento del voto che farà?
«Seguirò la regola e voterò per un senatore dell’opposizione. Certamente non della Lega».
Anche se questo può mettere in crisi l’alleanza Pd-Pdl?
«Non credo. E spero che il Pd non voglia violare le regole. Comunque cosa c’entra con noi la Lega? Ci dovrebbero spiegare se c’è un patto, di che genere, e con chi».
Lei sa bene di che stiamo parlando. Di Berlusconi e del suo allontanamento dal Senato per conflitto di interessi. Quando la questione sarà all’ordine del giorno lei che farà?
«Conosco bene giuridicamente la questione e poiché la giunta è un organismo paragiurisdizionale ritengo opportuno non anticipare né il mio giudizio, né il mio voto».
Che fa Casson, il pesce in barile?
«Basta aspettare alcuni giorni e si saprà come voterò e come andrà a finire l’intera partita».
Non ci tenga col fiato sospeso. In termini giuridici è possibile dichiarare Berlusconi ineleggibile?
«L’unica cosa che posso anticipare è che il caso andrà studiato e valutato ex novo. I precedenti delle passate legislature li conosciamo tutti. Però non sono vincolanti nel nostro sistema giuridico-costituzionale».
Lei nicchia e fa il misterioso. La legge del ’57 consente di allontanarlo o no? Da giurista e da politico del Pd che ne pensa?
«La legge è chiarissima. E “in claris non fit interpretatio”. Ma un minimo dovere di riservatezza, rispetto a una decisione così delicata per l’intera giunta, impone a me per primo il riserbo”.
La legge Frattini non gli dà una valida scappatoia?
«Quando sarà posta la questione in giunta, sarà molto interessante vedere con che argomenti e con quali leggi si difenderà Berlusconi ».
Questo scoglio dividerà ulteriormente il Pd?
«Sono convinto che le questioni giuridiche e giudiziarie devono rimanere ben distinte dalla politica ».

La Stampa 21.5.13
Elezioni di Roma, i rimbalzi sul governo
Il risultato del voto nella Capitale misurerà la stabilità (o meno) del governo Letta
di Ugo Magri

qui

Corriere 21.5.13
Le elezioni un po' spente di una Roma disincantata
di Pierluigi Battista


In una grande e vasta metropoli come Roma è difficile per un aspirante sindaco segnalare la sua stessa presenza alla vasta cittadinanza indaffarata o indifferente. Le tv locali hanno un bacino d'ascolto molto circoscritto, quasi catacombale. Le radio della città sono un'infinità e raggiungono un pubblico molto spezzettato, assatanato dalla campagna acquisti della Roma e della Lazio.
Un pubblico poco versato nella decifrazione degli immensi problemi che angustiano la città. I manifesti costano e qui, come altrove, circolano pochi euro, anche se adesso va di moda inondare taxi, bus e tram con la propaganda di partito. E i 19 candidati girano come trottole sperando di intercettare un timido frammento di attenzione pubblica. Solo che se parli a Primavalle, davanti a una dozzina di avventori, a Torpignattara, all'altro capo della città, nessuno di accorge di te. Almeno, una volta, c'erano i partiti a presidiare il territorio, anzi «i territori» come si dice ora in gergo. Ma ora la parola «partito» fa scappare la gente: e i candidati devono pure mimetizzarsi.
Mancano pochi giorni, alle elezioni che decideranno del nuovo governo del Campidoglio, ma l'atmosfera non sprizza energia e passione. La città è indolente, si sa. E ora è anche delusa e disincantata. I quattro candidati più accreditati sono ovviamente: Gianni Alemanno, sindaco uscente del centrodestra; Ignazio Marino, candidato del Pd dopo elezioni primarie che hanno scombussolato la vita del partito già piagato dalle vicissitudini nazionali; Marcello De Vito, del Movimento 5 Stelle, nominato sul web con una platea elettorale molto più esigua di quella del Pd; e Alfio Marchini, indipendente, mediaticamente la star di questa campagna elettorale. Poi c'è la pletora delle candidature che aspirano a un buon piazzamento (e a un po' di tonificante visibilità). C'è un folto gruppo che si colloca all'estrema destra (da CasaPound a Forza Nuova a Militia Christi). C'è un candidato noto per le sue stravaganti, e costose, trovate auto promozionali, Alfonso Luigi Marra, che vanta tra i suoi sostenitori liste come «Dimezziamo lo stipendio ai politici» e «Fronte giustizialista». C'è un candidato che grosso modo gravita attorno al mondo che un tempo si aggregava in Rifondazione comunista, che gode dell'appoggio di una «Lista pirata» e che propone che Roma si rifiuti di pagare i debiti e violi il soffocante «patto di Stabilità». Ma qui si gioca sugli zero virgola. I magnifici quattro, invece, giocano su percentuali molto più elevate, quelle necessarie per il ballottaggio.
La città segue pigramente una campagna elettorale abbastanza opaca e spenta, se si eccettuano risvegli momentanei nell'esercizio che alla classe politica italiana viene decisamente meglio: la rissa da talk show. Roma è soffocata, sporca, ingabbiata in un traffico infernale. Un giorno sì e uno no la metropolitana non funziona. Quella ancora da costruire è un cantiere che il romano cinico già vive come un incubo che non finirà mai e di fronte al quale bisognerà adattarsi, L'Ama, la municipalizzata che si occupa della pulizia delle strade, si è fatta conoscere per una Parentopoli che certo non ha portato prestigio alla giunta Alemanno e i suoi camioncini attraversano la città per svuotare i cassonetti all'ora di punta, vicoli del centro compreso: si può immaginare con quanto entusiasmo dei romani bloccati. Dei nuovi filobus pagati con un conto molto salato non si ha notizia. Recentemente ha chiuso il servizio dei battelli sul Tevere, per via dei detriti che rendono il fiume impraticabile ed è di questi giorni la notizia che sta smettendo di funzionare l'impianto di depurazione del fiume. Ma nella campagna elettorale questi temi sono lasciati sullo sfondo, pure sono manipolati in modo strumentale senza che nessuno dica in modo chiaro, circostanziato e credibile quante risorse serviranno, e come saranno reperite, e come si assicureranno appalti trasparenti, e chi controllerà che i lavori saranno svolti bene, con accuratezza, nei tempi stabiliti, nel rispetto della cittadinanza non trattata come un gregge, come «traffico» con cui ingolfare irrimediabilmente la città.
I candidati maggiori preferiscono tenersi sul vago e, come si dice, buttarla in politica. Gianni Alemanno, che i sondaggi danno in ripresa dopo i tonfi degli ultimi anni, deve spiegare credibilmente perché tutto quello che propone per il prossimo quinquennio non è stato fatto nei cinque anni precedenti. La sua è una battaglia per la vita, perché una sconfitta lo declasserebbe di molto nella nomenclatura che si riconosce nel Pdl. Il sindaco uscente è molto nervoso, reagisce come davanti a un'offesa a chi gli contesta le manchevolezze della sua gestione del Campidoglio, ma spera in un buon piazzamento per il ballottaggio che è una strana creatura della psicologia collettiva, come si dimostrò proprio a Roma nel 2008, a scapito del superfavorito Francesco Rutelli.
Poi c'è Ignazio Marino, che ha vinto con ampio margine le primarie, ma opera con il Pd romano sull'orlo dell'autodissoluzione. Finora lui ha evitato di farsi sommergere dall'apparato del partito, ma una campagna elettorale molto scialba ha consigliato al candidato di non apparirgli troppo estraneo. Alfio Marchini, un cuore rosso come simbolo della sua lista, di una famiglia di costruttori romani da sempre vicina al Pci e alla sinistra, «buca il video» e sui social network si è scatenata, sotto la dicitura «Arfio», la corsa alla presa in giro bonaria del candidato molto danaroso. Un finto annuncio fra tutti: «Rinuncio allo stipendio di sindaco, perché troppi spicci in tasca mi danno fastidio». Il suo destino è di pescare in un'area di consenso trasversale. Come il candidato di Grillo, De Vito, sempre chino sui suoi appunti anche quando deve dire «votatemi». Ora il Pd cerca di riprendersi la piazza San Giovanni «occupata» da Grillo prima delle ultime elezioni, mentre Alemanno sfida le ire della Soprintendenza proponendo il palco elettorale nei pressi del Colosseo. La battaglia dei simboli prima di quella dei voti veri. Per i candidati e i loro partiti una boccata d'ossigeno, o la fine di molte ambizioni politiche.

il Fatto 21.5.13
L’altra campagna
Tutti pazzi per “Arfio” & Co.


Meno male che ci sono loro, così falsi da sembrare veri. I candidati virtuali e i finti gruppi di supporto sono l’anestetico perfetto contro la campagna elettorale per il Campidoglio, gonfia di retorica e isteria. Ci voleva proprio Arfio Marchini, doppio sul web del Marchini vero. È l’invenzione che serviva, il gruppo Facebook Coatti per Marino. Ghigno di merito per Ale-Danno e i siti vari che fanno le pulci al sindaco, tra battute e invettive. Si parte dal profilo su Fb di Arfio Marchini, con quella romanissima r al posto di Alfio: forte di quasi 12 mila “mi piace” in meno di due mesi di vita. Ideato da un anonimo comunicatore, vince già con la foto di sfondo, con l’imprenditore che fa sci d’acqua mostrando bicipiti guizzanti. Ma la parte principale, tra immagini virilissime del candidato, la giocano i post. Quelli che promettono a suo nome “campi da golf ovunque e la rinuncia allo stipendio da sindaco, perché “gli spicci in tasca mi danno fastidio”. Sempre chiosati con lo slogan (vero) di Marchini, “Roma ti amo”. Post del 14 maggio: “Dopo questo estenuante battibecco con quelli che vogliono fare i sindaci, mi butto in piscina, cinquanta vasche e una sauna. Arfio vi pensa e vi ringrazia. Buonanotte. Roma ti amo”. L’altro ieri: “Poco fa Gianni (Alemanno, ndr) mentre spostava una fioriera nella mia villa sulla Portuense si è rotto un dito del piede. Ho chiamato il mio medico, Ignazio Marino, che è intervenuto prontamente”. Il Marchini autentico ha presto capito che quello virtuale è imbattibile, e quindi va lodato. Al Messaggero ha assicurato: “Arfio è un genio, lo trovo divertente, diversamente dai politici che si prendono sul serio”.
LA SERIETÀ è l’Anticristo anche per Coatti per Marino, che rivede e stravolge la campagna di comunicazione del chirurgo, basata sullo slogan “Non è politica, è Roma”, con Marino che mostra cartelli vari. Nel gruppo finto, una serie di fotomontaggi con coatti (rozzi e arroganti) veri o presunti la butta sulla risata, giocando su battute celebri. Esemplare un Mario Brega d’annata, caratteristica principe dei film di Verdone, che mostra: “Nun è politica, è ‘n zucchero” (citazione dal verdoniano Borotalco). Inevitabile la comparsa del Piotta: “Non è politica, è roba coatta” (dal suo successo Super-cafone). Obbligata la citazione con foto e battuta del Sordi del Marchese del Grillo: “Nun è politica e voi nun siete un cazzo”. Suggestiva una proposta: “Domenica 26 coincidenza derby-elezioni: votamo all’Olimpico”. Ma c’è anche il parodiato Marino, che “te porta a magnà er pesce a Fiumicino”. Si passa ad Alemanno, e si ride di meno. Al massimo, si sorride amaro. “Sono il peggior sindaco che Roma ricordi” recita la presentazione di Aledanno, profilo su Twitter. “Esclusivo, oggi la metro B funziona. Alemanno, sei fortissimo! ” morde un tweet. Non male un incrocio calcistico: “Che sfiga er Benfica (sconfitto in finale di Europa League, ndr). Ma nun è che Alemanno ha fatto un gemellaggio co’ Lisbona? ”. Poi c’è l’attacco multiplo, molto schierato: “Voti Marchini e te ritrovi Alemanno. È come se voi magnà ‘na spigola ar sale e te ritrovi i bastoncini Findus”. Su Face-book e siti vari, contro Alemanno volano dardi assortiti: mai solo divertenti, sovente carichi di veleno. Una bella sfortuna, per il sindaco.
l.d.c

l’Unità 21.5.13
Il guardiano di Auschwitz accusato di 9515 omicidi


Complicità nell’omicidio di 9.515 persone: è questo uno dei capi d’accusa per cui la procura di Stoccarda, in Germania, ha chiesto l’imputazione dell’ex guardiano di Auschwitz Hans Lipschis, che dal 6 maggio scorso si trova in custodia cautelare in attesa del processo. Secondo il documento di dieci pagine, il 93enne Lipschis sarebbe stato impiegato ad Auschwitz almeno nove volte nella selezione degli internati da mandare ai lavori forzati e di quelli da eliminare nelle camere a gas.
Hans Lipschis, di origini lituane, premiato dai nazisti come «etnicamente tedesco» grazie ai servigi resi al regime hitleriano, era al quarto posto nella lista dei ricercati dei criminali nazisti ancora in vita messa a punto dal centro Simon Wiesenthal. Era descritto come uno dei membri del battaglione della morte, e dedito «all’assassinio di massa e alla persecuzione di civili innocenti, soprattutto ebrei». Secondo quanto ha riferito la stampa tedesca, Lipschis avrebbe respinto le accuse, ridimensionando le proprie responsabilità nel campo di sterminio. «Ero solo un cuoco ha detto -. Delle camere a gas e dei forni crematori Lipschis ho solo sentito parlare».
Ma la procura dello Stato tedesco del Baden-Wuerttemberg ha spiccato ugualmente il mandato di cattura. Secondo la procuratrice Claudia Krauth, «ci sono prove a sufficienza». L’accusa ritiene che Lipschis facesse parte della compagnia delle «Ss Testa di morto» (Totenkopf), che ad Auschwitz era impiegata nella vigilanza. Per quattro anni, dal 1941 al 1945, periodo in cui fu messa in atto la «soluzione hitleriana» Lipschis lavorò nel campo.
«Speriamo che la giustizia tedesca faccia ancora molti passi contro il personale dei campi di concentramento e i membri delle truppe d’assalto» ha affermato al momento dell’arresto Israele Efraim Zuroff, direttore del centro Wiesenthal.

il Fatto 21.5.13
Bloccata missione Unesco a Gerusalemme


RINVIO SINE DIE per una missione dell’Unesco incaricata di verificare le condizioni di una ventina di siti storici nella Città vecchia di Gerusalemme, al centro di storiche contese e recriminazioni, fatta saltare da Israele nella convinzione che i palestinesi “intendessero annetterle un carattere politico”. Una portavoce del ministero israeliano degli Esteri ha precisato che, in base a intese precedenti, quella ispezione doveva invece a giudizio dello Stato ebraico doveva avere “solo un carattere tecnico” e ha precisato che è 'solò slittata, ma l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha denunciato l’accaduto con toni molto duri.
“Israele ha chiaramente avuto paura dell’ispezione”, ha detto all’Ansa Nemer Hammad, un consigliere del presidente palestinese Abu Mazen

il Fatto 21.5.13
Nei film a Cannes
Le verità nascoste uniscono ebrei e palestinesi
di Federico Pontiggia


Cannes Ebrei, israeliani e palestinesi: memorie dal passato e conflitti attuali vanno in scena al 66° Festival di Cannes. L’88enne Claude Lanzmann, il regista del capolavoro-fiume Shoah, realizzato tra il 1974 e l’85 e ancora oggi foriero di studi e dibattiti, torna con il documentario Le dernier des injustes, protagonista Benjamin Murmelstein, l’ultimo presidente del Consiglio ebraico nel ghetto di Terezin. Intervistato da Lanzmann nel 1975 a Roma, ripercorre il suo rapporto con Adolf Eichmann, mente e braccio della Soluzione finale: 7 anni, dal ’38 al ’45, in cui Murmelstein riuscì a far emigrare 121 mila internati e, insieme, a impedire la liquidazione di quel “ghetto modello, la città data agli ebrei da Hitler”.
PER ALCUNI AMBIGUO, per altri addirittura un collaborazionista, uno Judenrat, Murmelstein non mise mai piedi in Israele dopo la guerra e non venne chiamato a testimoniare al processo di Eichmann, che era “un demonio”, e non – sostiene il rabbino - quell’emblema della “banalità del male” di cui scrisse Hannah Arendt. È lo stesso Benjamin, parodiando il celebre libro di André Schwarz-Bart, a definirsi l’ultimo degli ingiusti, cui Lanzmann cerca ora di restituire verità postuma: “Questo film indica chiaramente che non sono stati gli ebrei a uccidere i loro fratelli, e Murmelstein acquisisce maggior empatia e comprensione: i suoi accusatori potrebbero placarsi”. Di collaborazionismo parla anche il regista palestinese Hany Abu-Assad, che dopo i kamikaze di Paradise Now (2005) porta sulla Croisette Omar, girato tra Nablus, Nazareth e Bisan. Protagonista un giovane dei Territori occupati, che dopo aver sparato con due amici a un soldato israeliano viene catturato e costretto a giocare al gatto e al topo con la polizia militare: amore, amicizia, fiducia e futuro, le ripercussioni sulla sua vita saranno devastanti. “Alcuni anni fa a Ramallah – dice Abu-Assad – un mio amico mi disse che un agente del governo l’aveva approcciato con informazioni personali: segreti per convincerlo a collaborare. Subito ho capito che avrei dovuto farne un film: una notte non ho dormito, e in poche ore ho scritto la storia di Omar”. Interpretato da Adam Bakri, Omar scavalca più volte il muro che separa Israele e Territori: “Nessuna sorpresa, fa parte della vita quotidiana dei palestinesi, addirittura c’è chi per lavoro aiuta a saltare gli altri. In realtà, il muro non divide Israele e Cisgiordania, ma palestinesi da altri palestinesi”.

La Stampa 21.5.13
Asia emergente vertice a Delhi
India e Cina L’accordo dei giganti ridisegna il mondo
Sono un terzo degli abitanti e un quinto del Pil mondiale
di Ilaria Maria Sala


Qualche anno fa si parlava di «Cindia» più con il piacere di coniare neologismi pop che non per una qualche fondatezza logica nella definizione. Oggi, che per fortuna l’espressione pare tramontata, sembra che l’incontro al vertice fra il Primo Ministro indiano Manmohan Singh e la sua controparte cinese Li Keqiang, possa essere un passo concreto verso la riduzione delle distanze tra le due nazioni più popolate dell’Asia, unite da una frontiera da sempre contestata, con un potenziale di scambi commerciali e sostegno politico reciproco mai realizzato per quanto in crescita. I due Paesi hanno meno in comune di quanto si possa credere e nutrono una diffidenza reciproca che diminuisce, sì, ma con lentezza.
Ieri, mentre alcuni gruppi di esiliati tibetani riuscivano a spezzare i cordoni di polizia per manifestare contro il Primo Ministro cinese, i due leader hanno firmato una dichiarazione congiunta che si ripromette di affrontare con minor belligeranza le dispute territoriali sull’Himalaya e di intensificare il commercio e gli investimenti fra i due colossi asiatici.
Il documento, che contiene otto punti, esordisce con l’accordo sul pellegrinaggio Kailash Mansarovar Yatra, che prevede la visita da parte di devoti indiani ad alcuni templi tibetani, e garantisce maggiori facilitazioni nel passaggio e nelle infrastrutture che i pellegrini potranno trovare lungo la via. Gli altri punti si concentrano sul miglioramento delle transazioni economiche e dell’import-export fra i due Paesi, maggiori traduzioni reciproche di classici letterari e, tema caro all’India, la promessa cinese di inviare quotidiane informazioni all’India sul livello delle acque nel fiume Brahmaputra, che nasce in Tibet (dove è chiamato Yarlung Zangpo) e che sarà presto parzialmente bloccato da tre nuove dighe in costruzione dal lato cinese. Un accordo che lascia inevasa la richiesta indiana di creare una «commissione sull’acqua» fra India e Cina, ma che crea maggiore comunicazione fra i due partner.
L’accordo firmato da Singh e Li in modo indiretto affronta alcune delle questioni più spinose: quella tibetana innanzitutto (il Dalai Lama è ospitato dall’India da quando, nel ’59, è scappato dal Tibet occupato). Si legge nell’accordo: «Le due parti non consentiranno che i loro territori siano utilizzati per attività nocive all’altro», ma «i due Paesi mantengono il diritto di scegliere la propria via per lo sviluppo politico, sociale ed economico in cui i diritti umani fondamentali hanno la posizione a loro dovuta». Rispetto all’economia c’è la promessa di raggiungere scambi per 100 miliardi di dollari Usa da qui al 2015 e l’affermazione che «India e Cina hanno un’opportunità storica per lo sviluppo economico e sociale e la realizzazione di quest’obiettivo farà avanzare la pace e la prosperità in Asia e nel mondo. C’è abbastanza spazio nel mondo per lo sviluppo dell’India e della Cina, e il mondo ha bisogno dello sviluppo comune dei due Paesi che saranno partner e non rivali», dice con ottimismo il documento.
Un dettagliato sondaggio dell’opinione pubblica indiana del Lowy Institute e dall’Australian India Institute pubblicato proprio ieri mostra parte degli ostacoli da superare: se non sorprende che il 94% degli indiani reputa il Pakistan una minaccia alla sicurezza interna, è di rilievo che l’84% di essi dichiarino che anche la Cina è una minaccia. Se il Paese più amato dagli indiani è l’America (e quello meno amato il Pakistan) l’amore per la Cina, su una scala di 10, arriva a 4. Ma forse il nocciolo delle differenze sta qui: secondo altri recenti sondaggi la maggior parte dei cinesi si dice soddisfatta di avere oggi uno stile di vita superiore rispetto a cinque anni fa, mentre il 95% degli indiani dichiara di essere felice di vivere in una democrazia.

Repubblica 21.5.13
Commercio, banche e armamenti ora “Cindia” spaventa l’America
La contromossa di Obama: missione di Kerry a New Delhi
di Federico Rampini


NEW YORK — A leggere la stampa di Stato cinese, ma anche le analisi preoccupate di alcuni strateghi di Washington, siamo alle grandi manovre di Cindia. La decisione del neo-premier cinese Li Keqiang di dedicare la sua prima visita all’estero all’India, ha fatto sobbalzare gli americani. A maggior ragione li allarma il tono adottato da Li nel primo incontro col suo omologo Manmohan Singh: «I nostri interessi comuni superano di molto i nostri punti di disaccordo». Davvero sta per materializzarsi Cindia, l’unione tra il dragone cinese e l’elefante indiano, cioè le due nazioni più popolose del mondo nonché i due pesi massimi nel club degli emergenti Brics? Dal punto di vista economico, le relazioni tra i due giganti asiatici procedono a gonfie vele. La Cina è diventata il primo partner commerciale dell’India, l’interscambio ha raggiunto i 66 miliardi di dollari l’anno scorso. L’obiettivo fissato dal ministero del Commercio di Pechino, di raggiungere 100 miliardi nel 2015, appare molto realistico e potrebbe perfino essere superato. Non a caso la missione di Stato che Li guida a New Delhi ha un carattere prevalentemente economico: al seguito del premier c’è una folta delegazione di imprenditori e banchieri, inclusi i top manager dei colossi delle telecom Huawei e Zte. Le complementarietà tra le due economie sono reali. La Cina ha molte lunghezze di vantaggio come potenza industriale, ma l’India esporta derrate agricole e soprattutto servizi avanzati come software. A confermare che Pechino sta sferrando una “offensiva della seduzione”, c’è lo sgarbo fatto al Pakistan che verrà visitato da Li solo dopo la tappa indiana. Un affronto per un alleato storico della Repubblica Popolare. Del resto Li è a New Delhi anche per firmare accordi di forniture di armi, essendo l’India divenuta il più grosso acquirente mondiale.
Ma se Cindia è una crasi efficace per descrivere le due maggiori nazioni del pianeta, di qui a trasformarla in un’alleanza geostrategica ci vuole altro. La recente tensione al confine del Ladakh, dopo la breve incursione di truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, ha ricordato a New Delhi che i rapporti di forze militari sono sproporzionatamente in favore della Cina. Anche dal punto di vista economico, la disparità è notevole almeno per adesso (nel lungo periodo, il vantaggio di Pechino potrebbe ridursi sia per l’invecchiamento della forza lavoro cinese, sia perché il regime autoritario è meno adatto a gestire le tensioni sociali legate allo sviluppo).
Tra le cause di una tensione latente tra le due nazioni, c’è l’acqua. Più ancora dell’energia — di cui Cina e India sono avidi acquirenti nel mondo intero — l’acqua è la risorsa scarsa che si contendono. I grandi fiumi che irrigano i due paesi nascono tutti dallo stesso “serbatoio” che è l’Himalaya. Con il cambiamento ambientale e lo scioglimento dei ghiacciai, nuove incognite possono minacciare la regolarità dei corsi di quei fiumi. Per questo le dispute territoriali, tutte in aree vicine all’Himalaya, non sono residui di nazionalismi arcaici bensì nascondono una posta in gioco molto reale. Non a caso uno dei contenziosi tra Pechino e New Delhi è l’ospitalità offerta dall’India al Dalai Lama e al governo tibetano in esilio: il Tibet è la “cassaforte idrica” della Cina. A irritare il governo Singh di recente c’è stata la decisione di Pechino di costruire una serie di dighe nella parte a monte del fiume Brahmaputra che irriga le regioni nordorientali dell’India.
Nella nuova versione del Grande Gioco — quello che oppose l’impero britannico e la Russia zarista per le zone d’influenza in Asia — oggi gli Stati Uniti considerano l’India un partner strategico, nel contenimento (o accerchiamento…) della Cina. George W. Bush cominciò a levare le sanzioni sulle vendite di tecnologia nucleare all’India. Barack Obama ha compiuto a Delhi e Mumbai uno dei viaggi più significativi del suo primo mandato, celebrando l’intesa tra le due maggiori democrazie mondiali. Obama segue da vicino le “manovre di Cindia” avviate dalla nuova leadership cinese: non appena sarà partito da Delhi il premier Li Keqiang, la Casa Bianca annuncerà la data del viaggio di John Kerry in India. Il segretario di Stato ci andrà sicuramente entro giugno.
Ieri, mentre il duetto tra Li e Singh occupava la scena a Delhi, due notizie dominavano l’attenzione di Washington. La prima: la ripresa di attacchi di hacker cinesi, riconducibili alle forze armate di Pechino. La seconda: l’incontro con Obama del presidente birmano Thein Sein. La Birmania è una “cerniera” tra India e Cina. Negli ultimi anni stava scivolando nell’orbita economico-militare cinese. Il disgelo democratico — ancora parziale — ha fornito a Obama l’occasione per risucchiare Myanmar verso un rapporto con gli Stati Uniti. Il Grande Gioco continua.

Repubblica 21.5.13
Il governo dell’Irlanda del Nord vuole costruire un centro per la pace dove venivano interrogati e torturati i militanti dell’Ira Ma contro il progetto affidato all’architetto Libeskind insorgono gli unionisti: “Si trasformerà in un santuario del terrorismo”
L’ultima guerra per Bobby Sands sfida sul carcere che diventa museo
di Enrico Franceschini


LONDRA Era il carcere di massima sicurezza più tristemente famoso d’Europa. Dietro le torrette di guardia, i reticolati di filo spinato e le pareti di cemento armato di Long Kesh, la prigione ribattezzata dagli inglesi “Maze” (Labirinto), venivano detenuti, interrogati e in qualche caso torturati i militanti dell’Ira, l’Irish Republican Army, il gruppo clandestino nord-irlandese che si batteva per l’indipendenza dalla Gran Bretagna durante i trent’anni conosciuti come i “Troubles”, i disordini, la guerra civile tra cattolici e protestanti in cui morirono più di 3 mila persone. Tra i quali anche Bobby Sands e altri nove attivisti cattolici tenuti prigionieri prima nelle celle, quindi nell’infermeria del Maze, dove condussero fino alla morte uno sciopero della fame per essere riconosciuti come detenuti politici e non criminali comuni. Una lotta su cui sono stati girati film, scritti libri e canzoni, gridati slogan e piante lacrime, anche lontano dall’Isola di Smeraldo, per molto tempo.
Quindici anni or sono, l’accordo di pace tra le due parti mediato da Tony Blair ha fatto girare pagina all’Ulster. Da allora protestanti e cattolici, ovvero unionisti monarchici e separatisti repubblicani, siedono insieme nel governo autonomo di Belfast. L’Ira ha deposto le armi, i gruppi armati probritannici pure e a dispetto di qualche violenza da parte di fazioni irriducibili sull’Irlanda del Nord è calata la quiete: si guarda al futuro, sebbene senza specificare se finirà per portare alla secessione dal Regno Unito e al ricongiungimento con il resto dell’Irlanda. Si cerca di non pensare al passato. La prigione ha chiuso nel 2000. Poi i bulldozer hanno demolito gran parte dell’edificio, lasciando in piedi, non si capisce se per caso o per scelta, solo il blocco in cui sorgeva l’infermeria di Sands e compagni. E recentemente il governo congiunto nord-irlandese ha deciso di costruire sul luogo di quelle sofferenze un centro per la pace, il dialogo e la riconciliazione, affidando il progetto a uno dei più brillanti architetti del mondo, Daniel Libeskind, noto per il grattacielo costruito a New York al posto delle Torri Gemelle abbattute dagli aerei kamikaze di Osama Bin Laden e per il Museo Ebraico eretto a Berlino fra gli spettri dell’Olocausto.
Sembrava una buona idea, invece ha riacceso le fiamme dell’odio. «Diventerà un santuario del terrorismo», accusano gli oltranzisti protestanti, sostenendo che, qualunque sarà lo scopo del progetto, i cattolici ne faranno un luogo di rimembranza del loro eroe. «È un modo per mettere l’accento sui detenuti rinchiusi nel Maze anziché sulle loro vittime innocenti», dice all’Herald Tribune Mike Nesbitt, leader dell’Ulster Unionist Party. «Coloro che sono morti là dentro non giacciono sepolti sotto le pareti o il terreno del carcere», replica Pat Sheehan, uno dei sopravvissuti allo sciopero della fame del 1981, «bensì sono vivi nei nostri cuori, avendo inspirato un’altra generazione con il loro sacrificio. Bobby Sands e tutti noi eravamo determinati a morire, per insegnare agli inglesi che potevano schiacciarci con la forza ma non potevano schiacciare il nostro spirito».
Il centro disegnato da Libeskind dovrebbe aprire nel 2015, sempre che, nel frattempo, in Irlanda del Nord non ricomincino i Troubles: ce ne sono state avvisaglie negli ultimi mesi, con due attentati falliti e un poliziotto ucciso. Il mese prossimo la regione verrà completamente militarizzata quando ospiterà i grandi della terra per il summit del G8. Ma nessuno potrà impedire a un cattolico, nota il Tribune, di deporre una corona di fiori sul “labirinto” da cui non uscì più Bobby Sands.

l’Unità 21.5.13
La storia di Gobetti metafora delle vite spezzate dal fascismo
di Angelo Guglielmi


DI «MANDAMI TANTA VITA» DI PAOLO DI PAOLO SU QUESTI GIORNALE È GIÀ STATO AUTOREVOLMENTE SCRITTO. A me rimane una riflessione più minuta su alcuni aspetti meritevoli di un approfondimento.
Tra i meriti del romanzo è la scrittura che non è come si crede qualcosa di estraneo ai contenuti, qualcosa di separato, una seconda realtà che serve a evidenziare la prima. I contenuti pur se drammatici e tragici sono intercambiabili e indifferenti. È la scrittura a fissarli in un volto, a dar loro realtà di natura e senso. Così nel romanzo di Di Paolo, se il filo principale è il racconto dell’eroismo intellettuale e il martirio di Gobetti vittima della violenza fascista, i riferimenti alle aggressioni e i pestaggi delle bande nere occupano uno spazio limitato (due o tre pagine in tutto) a valore più che espressivo di documentazione.
È il romanzo che è per intero dominato da una idea di violenza, in quanto racconto dell’impossibilità di crescere negli anni venti (del secolo scorso) nello specifico a Torino per un giovane non ancora ventenne, nel quale il possibile ostacolo delle timidezze e le altre difficoltà personali (così spesso presenti in un giovane) trovava un definitivo rafforzamento e inevitabilità nel clima persecutorio e antilibertario della cultura (e regime) fascista.
In realtà il romanzo racconta due vite parallele: quella di Piero Gobetti, la sua precocità intellettuale e la morte a soli ventiquattro anni a Parigi , dove ha trovato riparo dopo che un decreto della polizia politica ha sequestrato e chiuso le due riviste da lui fondate impegnate in una clamorosa campagna di denuncia e di opposizione (culturale e politica) contro il regime le sue idee e le sue malefatte; e quella del giovane Moraldo coetaneo di Piero Gobetti ( in cui non è difficile identificare la condizione di tanti giovani di talento del tempo) che non riesce a trovare il bandolo della sua vita segnata da continui fallimenti (progettuali e sentimentali ) non tutti riferibili al suo temperamento indeciso e insicurezza esistenziale. In qualunque situazione si trovi (pur ricca di sforzi e di volontà) ha l’impressione di stringere sempre «un pugno di mosche»
Di fronte alla prima delle due vicende, quella di Piero Gobetti, il lettore non ha bisogno di scegliere (né di convincersi) per esaltarsi di fronte allo spettacolo della sua straordinaria intelligenza, già matura e adulta a diciassette anni, alla sue illuminazioni di pensiero («Spezzare il movimento operaio oggi vale distruggere l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia») alla sua modernità di sguardo, insofferente a ogni sopruso e violenza diventati nel fascismo metodo e prassi di governo. Non ha bisogno di scegliere per commuoversi davanti allo strazio della sua morte a solo ventiquattro anni in esilio (da lui ideologicamente condannato) lontano da Torino, dalla amatissima moglie Ada e dal figlio appena nato nei quali nei momenti di maggiore solitudine gli sembrava di vedere tutto il «riuscito» di cui era stato capace.
UN’INATTESA MODERNITÀ
Ma è la vicenda di Morando che comunica al lettore (qui senza aiuti) con più evidenza il significato del romanzo. A sorprenderlo non sono tanto i tentennamenti e le incertezze che impediscono al giovane studente sceso a Torino dalla provincia di dare una direzione di consapevolezza alla sua vita quanto la meccanica (non mi viene al momento altro nome) della sua davvero straordinaria storia d’amore con l’indecifrabile Carlotta conosciuta per uno scambio di valigie). È una storia di una inattesa modernità, anzi direi attualità, che si sviluppa in una serie di impossibilità insuperabili (e dunque ostruttive) anche di fronte a situazioni di favore. Si tratta di ostacoli cui è difficile dare un nome e comprenderne le motivazioni non basta la non intraprendenza di Moraldo né la svogliatezza e la mancanza di slancio di Carlotta, è qualcosa di indicibile e pure comprensibile, è quel modo di essere della cultura novecentesca che trova la speranza e il futuro solo in quello che non può fare (nel suo fallimento). In questo senso davvero straordinaria è la parentesi parigina di Moraldo e Carlotta che proprio nel momento in cui il loro rapporto realizza la più intensa felicità e sembra definitiva intesa trova la rinuncia e il fallimento. (E non c’è bisogno di riflettere più di tanto per scoprire che il destino di Piero ha seguito lo stesso andamento )...
MORALDO E PIERO A PARIGI
A proposito di Parigi aggiungo che invece meno riuscito mi pare il racconto degli ultimi venti giorni parigini di Piero dove la lontananza dalla sua fervida attività torinese, la solitudine e il peggioramento della sua malattia sono risolte dall’autore con le risorse del mestiere più che sulla spinta di una invenzione stilistica. E anche artificioso e di convenienza mi pare l’incontro dei due giovani, Moraldo e Piero a Parigi sulla panchina de giardini di Lussemburgo. Sembra un modo comodo e ingenuo di chiudere il cerchio.
Notevole è invece il risultato quando l’autore è alle prese con impegni assolutamente descrittivi. Davvero felice è la sua capacità di restituire l’atmosfera della Torino (degli anni venti del secolo scorso) che riesce a conservare la sua severa dignità anche quando scompare nella nebbia (mentre il disordine e l’allegria delle manifestazioni carnevalesche trovano protezione e risarcimento nella massiva autorità delle mura del Lingotto).
Dunque un romanzo interessante questo del giovane Di Paolo il quale tuttavia avrebbe fatto meglio a evitare (non è necessario essere à la page) nel rievocare la vicenda di Piero Gobetti di indugiare in ammiccamenti posticci alla nostra politica presente.

Mandami tanta vita, di Paolo Di Paolo pagine158 euro 13.00 Feltrinelli

l’Unità 21.5.13
I luoghi della cultura
Anche quelli occupati nelle nuove mappe cittadine
Una legge per impedire il cambio di destinazione d’uso a cinema e teatri
A Roma un convegno di Rifondazione per creare una rete
a sostegno degli spazi pubblici da strappare alle speculazioni
di Gabriella Gallozzi


«TORNA A CASA IN TUTTA FRETTA C’È IL BISCIONE CHE TI ASPETTA». ERANO GLI ANNI OTTANTA RICORDA BENEDETTA BUCCELLATO QUANDO COMINCIARONO A COMPARIRE SULLE MURA DI MILANO LE «ENIGMATICHE SCRITTE». «Oggi prosegue l’attrice dopo vent’anni di berlusconismo ci si è svelato in tutto il suo orrore quello slogan. Ci siamo ritirati dai luoghi della cultura per correre in casa davanti alla televisione e restare chiusi lì. Il risultato è la desertificazione culturale che tutti abbiamo davanti». Ripartire da lì, dai luoghi della cultura, anche e soprattutto quelli «occupati» è dunque il passo obbligato per la ricostruzione. Ed è stato questo, infatti, il tema del convegno organizzato ieri a Roma da Rifondazione comunista, per «mano» della responsabile cultura Stefania Brai, per avvviare un confronto «tra le forze sociali, culturali, professionali e politiche sui luoghi di produzione, diffusione e fruizione della cultura».
Sì proprio quelli falcidiati dalle privatizzazioni selvagge. Le sale di città trasformate in bingo, i teatri venduti per diventare nuovi poli commerciali. Con ricadute drammatiche e totali sullo stesso tessuto urbano e sociale, in termini di chiusura di servizi e quindi di «fallimento della città» stessa come spiega l’urbanista Paolo Berdini nel suo intervento in cui traccia la mappa di «un piano regolatore della cultura». Come accade in tutta Europa, vedi il nuovo Louvre a Lens nel Nord della Francia, costruito come volano per combattere la crisi, anche da noi, prosegue l’urbanista, la cultura deve essere centrale nelle città. Mettendo a disposizioni dei giovani i luoghi della cultura e dando lo stop definitivo allo sviluppo urbano. Ma soprattutto puntando su una legge che impedisca il cambio di destinazione d’uso dei luoghi della cultura, sale teatrali e cinematografiche, sale per concerti, biblioteche, librerie, sedi di associazionismo, di archivi. Su questo insiste Stefania Brai: «Di fronte alla vera e propria strage di questi spazi, alla loro trasformazione in sale da gioco e centri commerciali, noi proponiamo una legge, di livello nazionale e locale che impedisca il cambio di destinazione d’uso di tutti i luoghi della cultura. E proponiamo che laddove il privato non sia più in grado di sostenere economicamente uno di questi luoghi, intervenga l’ente locale acquisendone la proprietà e garantendo finanziamenti certi per l’attività culturale. Chiediamo che la gestione di questi luoghi sia affidata in maniera pubblica e trasparente alle forze culturali, sociali e professionali del territorio sulla base di progetti di lavoro culturale stabile e permanente». In questa linea si inserisce anche il progetto dei Presidi culturali, proposti dal Movem, il movimento che raccoglie una quarantina di sigle dell’associazionismo di cultura e spettacolo. Luoghi dedicati anche alla «formazione» del pubblico. Il pubblico per il pubblico, dunque. Perché la definizione «bene comune», prosegue Stefania Brai, «ormai non tutela più il bene collettivo».
Fare rete tra le tante realtà culturali, dunque è la priorità. Tra gli interlocutori del confronto non mancano infatti anche i portavoce del Valle Occupato che, proprio in questi giorni ospita delle matinée dedicate all’opera: 800 bambini delle scuole romane impegnati ne Il rigoletto, altrimenti lasciati a piedi dal Comune di Roma che ha tagliato i fondi a questa iniziativa. Come il Valle si moltiplicano a Roma gli spazi restituiti alla cultura grazie alle occupazioni. Ma necessaria a questo punto è anche una riflessione sulle prospettive.
«Roma è una città occupata prosegue Stefania Brai . I luoghi della cultura, le case. È resistenza certamente, ma bisogna ripartire dalla riappropriazione dei diritti, costruire una rete e ritornare al pubblico. Le realtà occupate se restano esperienze separate e isolate tra loro non hanno la forza di cambiare la società. Quello che serve è lavorare insieme». L’appuntamento di ieri è un primo passo, l’importante è che il motore si rimetta in moto.

Repubblica 21.5.13
In un volume curato dalla Santa Sede la storia di come nacque, per fermare Lutero, il catalogo delle opere proibite

L’Indice vaticano. Quando la biblioteca divenne Inquisizione
di Paolo Rodari


Anno 1534. Paolo III succede a Clemente VII. In Europa, grazie a Lutero, muove i primi passi la riforma protestante. La Chiesa cattolica reagisce sia con la controriforma sia con un movimento interno di autoriforma, due facce della medesima medaglia che hanno un loro primo apogeo nel Concilio di Trento (1545-1563). Di qui prendono avvio l’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti, due dure reazioni contro i riformatori. Anni non facili, che oggi la Biblioteca Apostolica Vaticana rilegge all’interno di un volume dedicato alla sua stessa storia, il secondo di una serie, intitolato La biblioteca vaticana tra riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (a cura di Massimo Ceresa), spaziando dall’elezione di Paolo III fino al 1590 quando muore Papa Sisto V. Gli scaffali della biblioteca (oggi 1 milione e 600mila libri a stampa antichi e moderni, 8.300 incunaboli, 150mila codici manoscritti e carte di archivio, 300mila monete e medaglie, 20mila oggetti d’arte) parlano da soli, basta accostarvisi.
Paolo III viene eletto al soglio di Pietro diciassette anni dopo che Lutero affigge sulla porta della cattedrale di Wittenberg le sue novantacinque tesi dedicate alle indulgenze e in generale all’operato della Chiesa. Presto la riforma protestante si diffonde e conquista gran parte dei territori germanici. Per il Vaticano si pone il tema della risposta, della controriforma, una riscossa che Paolo III mette in campo anche (si può dire anzitutto) culturalmente. Non sempre però questa risposta è propositiva. È anche repressiva. Ne è prova l’Index librorum prohibitorum (l’Indice dei libri proibiti), una lista di testi che ai soli fedeli cattolici, non ad altri, è proibito di leggere se non con uno speciale permesso delle gerarchie ecclesiastiche.
È la Biblioteca Vaticana a creare il primo indice. Tutto ha inizio nel maggio del 1549. Verso la fine del pontificato di Paolo III, quella che si chiama la congregazione del Sant’Ufficio affida a uno dei suoi consultori, il teologo domenicano Teofilo Scullica da Tropea, la compilazione di un elenco di libri proibiti, con l’incarico di aggiornarlo ogniqualvolta giungano notizie di libri «suspecti, scandalosi aut heretici ». Un metodo artigianale, tuttavia, che non risponde allo scopo. Così due mesi dopo il Sant’Ufficio dispone che altri due consultori, i domenicani Stefano Usodimare ed Egidio Foscarari, esaminino gli indici delle Università di Parigi e Lovanio, li aggiornino e predispongano un “cataloghum”.
L’esito di questo lavoro? Incerto. Così Giulio III, succeduto intanto a Paolo III, nel 1550 emana la bolla “Cum meditatio cordis” nella quale vieta ufficialmente di leggere i libri proibiti. È questa bolla che spinge ancora una volta il Sant’Ufficio all’azione. In questo caso l’ordine, affidato ancora a fra’ Teofilo, è singolare: compiere ispezioni presso i librai di Roma e, eventualmente, sequestrare i libri proibiti o comunque sospetti.
La Biblioteca Vaticana conserva un documento datato 25 aprile 1551 nel quale si dà notizia delle ispezioni di Teofilo e dei suoi 32 libri messi all’indice. Non solo i volumi vengono sequestrati da Teofilo, ma sono anche portati in Vaticano e, come scrivono i custodi Fausto Sabeo e Nicolò Maiorano, «posti in libreria». Vengono messi in un’apposita sezione conservata all’interno di un ambiente separato: la camera “parva secreta”. Scrive successivamente il custode Federico Ranaldi che i libri vengono messi «in camera inter prohibitos, poi al Santo Officio». Cioè: prima in un ambiente riservato della Biblioteca, poi direttamente al Santo Ufficio. Quali sono i primi libri proibiti fatti pervenire in Vaticano? Si tratta di alcune opere principali delle riforma protestante, scritti di Lutero, Giovanni Calvino, Huldrych Zwingli, Martin Bucer e altri.
Sequestrati alcuni libri, manca ancora un catalogo delle opere proibite. Solo nel 1557, per volontà di Paolo IV, il Vaticano si cimenta nell’impresa. La versione definitiva del catalogo, poi noto come indice di Paolo IV, viene stampata nel dicembre del 1558 e pubblicata nel gennaio 1559. L’indice passa il vaglio del Concilio di Trento e arriva a una sua versione definitiva soltanto nel 1564 con la bolla papale “Dominici gregis”. Con essa si chiude un capitolo importante dell’attività censoria della Chiesa, ma contestualmente se ne apre un altro: occorre stabilire, infatti, la modalità in base alla quale aggiornare l’indice e anche decidere a quale istituzione interna affidarne la responsabilità. Pio V decide di istituire una commissione cardinalizia “ad hoc”. Tuttavia, egli muore prima di formalizzarne l’istituzione e così il suo successore Gregorio XIII prende una decisione diversa: istituisce la Congregazione romana dell’Indice, un organo slegato dalla stessa Biblioteca e autonomo.
Nel tempo all’interno dell’Index entrano titoli di natura diversa, ad esempio scritti di astronomia e di magia. Viene inserita nell’elenco non solo la letteratura religiosa protestante, ma anche parte della cultura europea. Casi significativi sono le opere di autori come Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio, Erasmo da Rotterdam, Girolamo Savonarola, Niccolò Machiavelli, Francois Rabelais e altri. Vengono citati anche una serie di tipografi, per lo più tedeschi e svizzeri, poi alcune versioni della Bibbia non corrette e tutte le traduzioni in volgare della Sacra Scrittura. A seguito della pubblicazione dell’indice scoppiano diverse proteste in tutta Europa, portate avanti da intellettuali, docenti, stampatori e librai. Ma il Vaticano prosegue, senza mitigare.

La Biblioteca Vaticana, volume II Biblioteca Apostolica Vaticana Pagg. 454, euro 120

Corriere 21.5.13
Scoperta la proteina chiave della disabilità intellettiva


Un gruppo di ricercatori italiani ha scoperto i meccanismi fondamentali della proteina Eps8, che gioca un ruolo fondamentale nei processi di memoria e apprendimento. E, in caso di disfunzioni, può dar luogo a disabilità intellettiva. Lo studio, realizzato dall'Università degli Studi di Milano, dall'Istituto di Neuroscienze del Cnr e Humanitas è stato pubblicato su «Embo Journal». Secondo Michela Matteoli, che ha coordinato la ricerca con Elisabetta Menna, «aprirà la strada a nuovi percorsi di cura per affrontare i gravi problemi legati ad autismo e ritardo mentale».