mercoledì 22 maggio 2013

il Fatto 23.5.13
Esorcismo del Papa, il secondo mistero Boffo
Il direttore di Tv2000, rete della Cei che ha diffuso il video “Vade retro Satana”, costretto a scusarsi
Il mistero di Francesco esorcista in piazza San Pietro: la televisione dei vescovi si scusa, il dubbio resta
di C. T.


I fatti. Le mani di Papa Francesco sul capo di un uomo seduto in carrozzella, Tv2000, il canale dei vescovi italiani, scopre le immagine dai filmati di domenica scorsa in San Pietro e carica il video sul sito per annunciare un'esclusiva del programma “Vade retro Satana”: ecco, l'esorcismo di Jorge Bergoglio. Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, s'affretta a smentire: “Il Papa ha soltanto pregato e benedetto. Non si trattava di un atto di esorcismo”. La smentita imbarazza la televisione della Cei, diretta da Dino Boffo, ex direttore di Avvenire che lasciò il quotidiano dopo le polemiche sul Giornale. E ieri, mentre ci s'interrogava sul gesto del Papa, Boffo è stato costretto a chiedere scusa e ha fornito la sua versione dei fatti: “Il Papa ha compiuto uno speciale gesto di attenzione e benedizione particolare per il ragazzo, non c'è stato un esorcismo. Come direttore non posso non rifarmi al patto di trasparenza e fiducia che c'è con i telespettatori - continua Boffo - e ammetto che questo episodio ha creato in me un certo disagio e rammarico, per aver involontariamente determinato la diffusione di una notizia vera ma vera solo in parte e in parte non vera, perchè il Papa non si riconosce nella parola esorcismo”. Il direttore dice di non volere tirarsi fuori, ma spiega anche come è nata e cresciuta la notizia: “Nella cronaca di domenica scorsa, verso la fine della messa celebrata per la Pentecoste, nel salutare gli ammalati, il Papa si è fermato in modo particolare e con un tempo particolare su un ammalato, a un certo punto imponendogli le mani. C'era un sacerdote ad accompagnarlo, che si prodigava a spiegare al Papa la situazione di questo ragazzo che il Papa ha benedetto. Mi sono detto: chissà se si tratta di un caso di esorcismo o qualcosa del genere, poi però l’ho archiviato nel mio cuore. Poi, ieri mattina, arriva in studio un collega curatore della rubrica 'Vade retro Satana’, che aveva visto questo passaggio e mi chiedeva l’autorizzazione di poterci lavorare sopra” . Il racconto di Boffo finisce con una riflessione che non chiude la faccenda: “L'intenzione in questo caso - ha concluso - è il dato dirimente: solo colui che fa l’esorcismo può dire se sta facendo un esorcismo o una benedizione o una preghiera di liberazione. Padre Lombardi ha fatto un breve e cortese comunicato e stamane è stato così gentile da spiegare la cosa anche ai nostri microfoni”. Ma padre Gabriele Amorth, che conosce la materia, a sua volta ha smentito il Vaticano e Boffo: “Quello fatto da Papa Francesco è stato un vero esorcismo, se Padre Lombardi lo ha smentito vuol dire che non ha capito nulla”, ha detto il sarcerdote ed esorcista a “Un giorno da pecora”. “Quello è stato un vero esorcismo, e vi dirò di più: il ragazzo che il Papa ha esorcizzato, oggi, alle 11.30, è venuto da me. Non era un ragazzino, ha 43 anni moglie e figli. Lui si chiama Angelo, è posseduto da quattro demoni, io oggi gli ho fatto un lungo esorcismo”. Alla domanda se quindi il Papa non sia riuscito a guarirlo, padre Amorth ha risposto: “Possiamo dire che gli ha fatto un esorcismo, perché un esorcismo è anche quello che uno fa mettendo le mani sul capo della persona e pregando, senza ricorrere agli esorcismi scritti”.

La Stampa 22.5.13
L’esorcismo che imbarazza il Vaticano
“Era solo una preghiera”. Ma restano i dubbi sul Papa
Padre Amorth: Chi nega l’accaduto sta mentendo, conosco il ragazzo»
La predicazione del pontefice è piena di riferimenti al demonio
di Giacomo Galeazzi


Mistero sul Papa esorcista. E’ stata una giornata di fuoco per la Curia con i mass media di tutto il mondo che hanno chiesto chiarimenti su quello che è stato pressoché da tutti interpretato come un esorcismo. La sequenza, rilanciata ovunque da tv e siti web, era apparsa inequivocabile, così come l’espressione attonita del capo della sicurezza Domenico Giani che ha assistito all’insolita scena in piazza San Pietro. L’opera di «normalizzazione» è stata complessa e si è faticosamente snodata tra smentite a tarda notte, dichiarazioni ufficiali per ribadire il concetto e richieste di scuse da parte della rete Cei che aveva trasmesso lo scoop.
Tra i fedeli, però, domina l’impressione di aver assistito ad uno straordinario momento di lotta del Papa al Maligno. E si moltiplicano le voci di analoghi gesti compiuti durante il suo ministero episcopale a Buenos Aires. A più riprese il Vaticano ha negato che Francesco abbia praticato un esorcismo alla messa di Pentecoste, come aveva riportato l’emittente dei vescovi italiani, Tv2000, il cui direttore Dino Boffo si è pubblicamente scusato per «aver intaccato la verità». Le immagini diffuse nel corso del programma «Vade retro» mostravano il Pontefice che si avvicinava a un malato, scambiava alcune parole con il sacerdote che lo accompagnava per poi concentrarsi e imporre le mani posandole con decisione sul ragazzo.
Francesco abbandona l’abituale sorriso bonario e sembra incanalare la propria determinazione verso la liberazione dal male. Per la Santa Sede Bergoglio ha semplicemente voluto pregare per una persona sofferente che gli era stata presentata. Però il dubbi che sia trattato davvero di un esorcismo restano, anche perché agli altri malati il Pontefice non ha imposto le mani. «Il gesto del Papa è stato un esorcismo e chi dice il contrario, incluso il direttore della sala stampa vaticana, padre Lombardi, vuol dire che non ne capisce niente - ribatte padre Gabriele Amorth, leader mondiale degli esorcisti -. Il giovane al quale Francesco ha imposto le mani sulla testa è venuto da me questa mattina e l’ho esorcizzato per più di un’ora. Si chiama Angelo, è messicano e lui ha avuto questa particolare avventura che il Papa ha preso subito a cuore». Angelo ha 43 anni e, secondo padre Amorth, «è posseduto da quattro demoni». Ad esporre Angelo alla «vendetta del demonio» sono stati i vescovi messicani che «non si sono opposti all’aborto come dovevano fare». Precisa Amorth: «Un esorcismo è anche quello che uno fa mettendo le mani sul capo della persona e pregando, senza ricorrere agli esorcismi scritti».
Intanto nelle sacre stanze si minimizza l’accaduto. «Esprimo il rammarico per aver involontariamente determinato la diffusione di una notizia vera, ma vera solo in parte e in parte non vera perché il Papa non si riconosce nella parola esorcismo - dichiara Boffo-. Mi scuso personalmente per aver intaccato la verità dei fatti e per le persone coinvolte, in particolare il Santo Padre. I telespettatori hanno il diritto di fidarsi pienamente delle nostre parole perché siamo una tv cattolica». Dopo la secca smentita di padre Lombardi, Boffo ha ammesso che «l’esorcismo non c’è stato» anche se nel lanciare la notizia l’emittente televisiva aveva parlato lunedì «non di esorcismo ma di qualcosa del genere».
Da decenni gli esorcismi sono divenuti quasi una pratica marginale nella Chiesa postconciliare. In due mesi di pontificato Bergoglio ha disseminato la sua predicazione di riferimenti al demonio.

Repubblica 22.5.13
Esorcismo del Papa, il dietrofront di Boffo
“Mi scuso, notizia vera solo in parte”. Ma Amorth insiste: “Quell’uomo è posseduto da 4 demoni”
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO — Dino Boffo, direttore di Tv2000, si scusa «per aver intaccato la verità dei fatti e per le persone coinvolte, in particolare mi scuso con il Santo Padre». Padre Gabriele Amorth, invece, noto esorcista, rilancia, e dice al contrario che «si è trattato di un vero esorcismo». Nel mezzo, i fedeli e anche tanti non credenti che, osservando il video mandato in onda dalla tv dei vescovi italiani due giorni fa nel quale si vede Papa Francesco pregare alla fine della Messa di Pentecoste imponendo le mani su una persona accompagnata da un sacerdote che gliela presenta dicendogli che «ha bisogno di esorcismi», si chiedono: cosa è successo esattamente? Papa Francesco ha fatto o non ha fatto un esorcismo? Padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, è stato chiaro. E alle sue parole occorre attestarsi: «Non si è trattato di esorcismo». Il gesuita ha interpellato Papa Bergoglio che ha escluso per primo di aver compiuto tale atto. In questo caso, l’intenzione del protagonista non è secondaria. E, dunque, se il Papa ha pregato su questa persona non con l’intenzione di voler fare un esorcismo, significa che non l’ha fatto. Certo, resta anche non del tutto illogico ciò che dice padre Amorth, e che nella sostanza si può riassumere con questo pensiero: se un sacerdote (in questo caso il Papa) impone le mani su un posseduto, la sua preghiera inevitabilmente è di liberazione. La si chiami «esorcismo» o in altro modo, resta il fatto che il posseduto subisce tecnicamente una preghiera che lo aiuta a liberarsi dal male, preghiera la cui efficacia nel caso di domenica è ben testimoniata dal soffio rilasciato a pieni polmoni dall’uomo quando Bergoglio smette di pregare su di lui. Chi svolge questo tipo di preghiere può ben testimoniare che accade spesso così: chi subisce la preghiera sente d’un tratto il fiato come rompersi. E finalmente un’enorme massa d’aria annidatasi non si sa in quali meandri all’interno del proprio interno trova una sua via di fuga. Se il male è spirito, dopo la preghiera di liberazione lo spirito maligno esce dal corpo come quando con uno spillo si buca un palloncino. Dice padre Pedro Mendoza Pantoja, esorcista dell’arcidiocesi di Città del Messico, che Satana esiste e che la sua strategia è «la confusione». E, in effetti, in queste ore, oltre Tevere, un po’ di questa confusione sembra essersi a suo modo manifestata. Nella parole di Boffo c’è anche il «disagio» e il «rammarico» di chi ha commesso anche se «involontariamente » un errore. Boffo sostiene di «aver involontariamente determinato la diffusione di una notizia vera ma vera solo in parte e in parte non vera». E commentando le parole di Lombardi che dice che Francesco «non ha inteso compiere un esorcismo, ma semplicemente pregare per una persona sofferente che gli era stata presentata», il direttore di Tv2000 spiega che in effetti «l’intenzione in questo caso è il dato dirimente: solo colui che fa l’esorcismo può dire se sta facendo un esorcismo o una benedizione o una preghiera di liberazione ».
Nel filmato, comunque, un altro dato colpisce. Il Papa, mentre si avvicina al posseduto, si fa di colpo serio e concentrato, come se fosse consapevole di avere di fronte una persona particolare. Amorth sostiene di conoscere questa persona. Ai microfoni di Un giorno da pecora, l’anziano religioso paolino rivela di averla incontrata ieri. Dice: «Ha 43 anni, moglie e figli, si chiama Angelo, è posseduto da quattro demoni». «Io — spiega — gli ho fatto un lungo esorcismo». E lo stesso, secondo il religioso paolino, avrebbe fatto Francesco. «Un esorcismo è anche quello che uno fa mettendo le mani sul capo della persona e pregando, senza ricorrere agli esorcismi scritti». Per il decano degli esorcisti, ad esporre Angelo alla «vendetta del demonio» sono stati i vescovi messicani che «non si sono opposti all’aborto come dovevano fare». Quanto alla smentita vaticana, padre Amorth afferma che «se hanno smentito vuol dire che non hanno capito niente ». E cita «tre casi di esorcismi fatti da Giovanni Paolo II, senza nessun libro di esorcismi».

Repubblica 22.5.13
Se anche il Diavolo si trasforma in uno show
di Francesco Merlo


ADESSO sì che ci vorrebbe un superesorcista, ma di quelli sobri e dunque rari, per liberare la Santa Romana Chiesa dal peccato preferito dal demonio: la vanità. E non solo quella di padre Amorth, famoso scacciadiavoli, che è andato a farsi prendere in giro da quei folletti radiofonici di “Un giorno da pecora”.
Questo pittoresco pretone, che sembrava più un’esca che uno spauracchio per diavoli, ha raccontato l’indicibile rito dell’esorcismo papale spiegando pure che quel povero assatanato, a cui i giornali complici oscurano il viso forse per cautela o forse per paura del contagio, di maligni in corpo ne aveva almeno quattro. «Ma per cacciarli davvero via ci vuole bene altro», ha aggiunto padre Amorth: da professionista si è offerto alla clientela.
Papa Francesco – bisogna riconoscerlo – aveva sbrigato la pratica con la sua solita affabilità e la sua proverbiale arguzia francescane. Aveva infatti imposto le mani taumaturgiche sul posseduto (“presunto” si scriverebbe in cronaca giudiziaria) e senza neppure pensarci su, in mezzo alla folla. E noi non ci saremmo accorti di nulla se la notizia non avesse avuto l’imprimatur della televisione dei vescovi diretta, nientemeno, da Dino Boffo. Il Papa infatti era riuscito ad essere spontaneo e semplice anche quando qualcuno gli mormorava all’orecchio che il malato era un indemoniato. Il solito Francesco insomma: si era comportato con quel malato un po’ come quando telefona alla libraia o porta la sedia alla guardia svizzera che instancabilmente vigila dietro la sua porta.
D’altra parte l’esorcismo a cui siamo abituati (si fa per dire) è una cerimonia esoterica, con lo zolfo, la schiuma e gli improperi, mentre quella di Papa Francesco sembrava quasi una pranoterapia, all’improvviso e in pubblico, senza neppure la necessaria acqua benedetta e senza quei paramenti d’ordinanza che servono a proteggere il sacerdote come il grembiule di piombo protegge il medico dagli effetti nocivi dei raggi X.
Dunque è stata la tv dei vescovi che ha visto il diavolo nella consueta sceneggiatura del Papa che fa tutto su due piedi per essere alla mano. Dino Boffo non ha resistito alla diabolica suggestione dimenticando forse che news e devil fanno lo show. E lo show è appunto il trionfo di quella vanità che ha come unico regista il diavolo. Ingenuamente infatti padre Lombardi, che è la voce istituzionale della Chiesa, ha smentito, senza dunque accorgersi che si stava già leccando la coda quel diavolo dell’informazione che meglio di tutti sa quanto la smentita sia una notizia data due volte. Tanto più che è arrivata un’altra diabolica “smentita-conferma” e cioè la rettifica del direttore Dino Boffo. Se è vero che la regola numero uno del demonio è quella di lasciare credere che non esista, Dino Boffo certamente lo ha aiutato. Ha infatti chiesto scusa, ha detto che si è sbagliato, che lui e solo lui ha visto il demonio dove c’era solo una malattia e l’esorcismo dove c’era solo un conforto.
E intanto il diavolo, che aveva scatenato la vanità, l’ha resa inarrestabile e l’ha lasciata dilagare come le fiamme che gli sono familiari. Ha dunque svegliato padre Gabriele Amorth che, incontrato per strada effettivamente potrebbe spaventarci ma in radio risulta grottesco, non il frate Cipolla di Boccaccio, che del diavolo era davvero più furbo, ma il pretacchione tontolone di Dario Fo. E però un povero diavolo di esorcista senza capo né coda non rende povero anche il vero diavolone, e infatti tutta la sua bislacca esibizione radiofonica ha avvalorato la fiammeggiante presenza. Così il demonio ha fatto pure una grande audience, che è la traduzione moderna del famoso “baccano”, vale a dire il “sabba”, vera ragione sociale dell’“Inferno spa”.
E tutti, guardando e ascoltando padre Amorth, abbiamo dimenticato che questo Papa non ha neppure il fisico allucinato dell’esorcista che è per eccellenza l’ossuto e spettrale Max von Sydow nel celebre film che ci spaventò da ragazzi, ancora oggi ricordato come il più terrificante della storia del cinema e felicemente parodiato in “Esorciccio” da quel Ciccio Ingrassia che il fisico spettrale comunque ce l’aveva.
Teologicamente il demonio è, come si sa, l’elemento fondante della presenza della Chiesa. Ed è controversa nella cristianità la sua natura di essenza o di persona. Infatti il “liberaci dal male” del Padre Nostro dei cattolici diventa il “liberaci dal Maligno” degli ortodossi che lo scrivono pure maiuscolo. Di sicuro, il demonio non era mai stato così astuto da far credere di potere essere cacciato con un semplice mormorio della labbra, come fa il professor Raptor per far cadere Harry Potter che si esibisce in audacie aeree e acrobazie mozzafiato sulla scopa Nimbus 2000, che manco la Ferrari di quel diavolo rosso di Montezemolo.

l’Unità 22.5.13
L’occasione perduta
Manifestazione Fiom, perché critico il Pd
di Sergio Cofferati


Berlinguer non partecipava ai cortei ma questo non gli impediva di tenere comizi come a Mirafiori
Personalmente sabato mi sarei accontentato di un qualsiasi gesto che dicesse: «Il Pd è qui con voi»

In un suo recentissimo articolo su questo giornale Emanuele Macaluso solleva una serie di obiezioni a Maurizio Landini che nell’intervento conclusivo della manifestazione della Fiom di sabato scorso ha lamentato l’assenza ufficiale del Pd al corteo. Gli ha risposto la Fiom come ovvio.
Ma visto che sono stato tirato in ballo da Emanuele che addirittura mi attribuisce delle intenzioni sul governo del Paese, vorrei approfittare della tua cortesia per riconfermare alcune mie semplici opinioni.
Per quanto riguarda le mie intenzioni non sono affatto quelle di contendere, insieme ad altri in una improbabile nuova formazione politica, il governo del Paese a chi ne porta oggi la responsabilità in questa inedita e preoccupante coalizione. Vorrei semplicemente esprimere le mie opinioni sul governo e sul mio partito, in un congresso che spero venga confermato, anzi anticipato e non inficiato da modifiche statutarie volte a cambiarne le ragioni. Spero che questa intenzione non appaia eccessiva, ma è davvero tutto quello che voglio. Ma tornando alla manifestazione, visto che sono stato tra coloro che hanno chiesto una presenza visibile ed ufficiale, del Pd, vorrei riconfermare le ragioni della mia sollecitazione prima e del mio disappunto dopo.
Ho detto: «Spero che il mio partito faccia come si usava un tempo, scriva un breve comunicato di condivisione degli obiettivi della manifestazione e si faccia rappresentare da una delegazione al corteo». Dunque nessuna richiesta di presenza di Epifani ma del Pd e, soprattutto, di esplicitazione del giudizio del partito sui temi proposti dalla Fiom: la crescita (e non l’Imu) quale priorità nell’azione del governo, il lavoro in primo luogo per le ragazze e i ragazzi, il reddito minimo garantito per difendere e aiutare i più poveri, una legge sulla rappresentanza. Come si vede obiettivi del tutto condivisibili, finanche moderati, sollecitati dai governi socialisti in Europa o addirittura già realizzate a casa loro. Emanuele Macaluso sostiene che i segretari di un tempo non partecipavano ai cortei, presumo per segnare una distinzione di ruolo e di giudizio. Per spiegare l’assenza di Enrico Berlinguer alla manifestazione sulla scala mobile del 1984 usa l’esempio peggiore possibile (per la sua tesi si intende). In quella occasione Berlinguer facendosi riprendere tra i cittadini che assistono al corteo mostrando l’Unità con l’efficacissimo titolo pensato proprio da Emanuele esplicita la sua condivisione dei contenuti della manifestazione, anzi va oltre perché si appropria un poco della stessa.
Ma se vogliamo restare a tempi relativamente più recenti, il 22 marzo 1997, con Romano Prodi alla presidenza del Consiglio, quattrocentomila persone sfilarono a Roma per chiedere al governo azioni efficaci per creare nuovo lavoro. Con i manifestanti sfilarono anche Fausto Bertinotti e Massimo D’Alema, segretari di Rifondazione e del Pds, partiti che facevano parte del governo e lo sostenevano, confermando con la loro presenza la condivisione dell’esigenza di avere più lavoro disponibile per i giovani. Infine non voglio fare l’elenco degli autorevoli dirigenti della Margherita e dei Ds presenti al Circo Massimo il 23 marzo del 2002.
Personalmente sabato non pretendevo tanto, mi sarei accontentato di molto meno, di un qualsiasi gesto che dicesse: «Il Pd condivide, il Pd è qui con voi». Non è vero che questo governo non aveva alternative, è semplicemente figlio di una lunga lista di errori del Pd.
Ma anche lavorando in questo governo si possono avere opinioni sul lavoro e farle vivere. Berlinguer non partecipava ai cortei ma questo non gli impediva di tenere comizi come quello davanti alle porte di Mirafiori, perché per quella sinistra il lavoro e i lavoratori erano molto importanti. Spero non si riproducano situazioni così drammatiche ma il futuro è buio. Senza pretese eccessive e senza invocare presenze salvifiche del segretario ma, ora per allora, posso sperare in una azione del Partito democratico nel governo, distinta per sua natura dalle lotte della Fiom, per cercare di evitare che tra qualche mese in Sicilia chiudano definitivamente i battenti dello stabilimento Fiat a Termini Imerese?

il Fatto 22.5.13
Operai
Macaluso cancella Berlinguer alla Fiat


Sull’Unità di lunedì scorso, Emanuele Macaluso, migliorista che di quel giornale è stato direttore, stronca la piazza della Fiom del 18 maggio. In particolare difende Epifani e il Pd per la mancata adesione. Da vent’anni, la “piazza” è la bestia nera di ogni riformista che si rispetti, perché raduna la sinistra radicale o massimalista (in questo caso: Landini, Rodotà, Strada e Cofferati). Per illustrare la sua tesi, Macaluso usa però la storia: “Caro Landini, ricorda Berlinguer”. Ed elenca una serie di manifestazioni cui il Pci non partecipò. Con una omissione significativa: l’ex direttore dell’Unità non cita lo storico comizio di Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat, nel 1980. Un gesto che il segretario del Pci fece con un solo obiettivo: stare dalla parte degli operai. Macaluso, invece, con chi sta?


il Fatto 22.5.13
Il neo segretario del Pd che insegue Berlusconi
di Mario Sacchi


Spiace dover constatare come Epifani si sia adeguato al ruolo di segretario del Pd assumendo la veste del pompiere che smorza gli incendi che i piromani attizzano non appena gira la testa. Da una parte Berlusconi ed i suoi, dall’altra Grillo e lui ad inseguire. Spiace anche sentirlo sminuire, rispondendo alle critiche di Landini, il valore delle manifestazioni di piazza dopo che nella sua precedente “vita” ha convocato i lavoratori a manifestare, non solo, come ora dice, per porre problemi ma anche per indicarne le soluzioni. Si possono capire le sue tante difficoltà attuali, ma non è facendo il pompiere che riassemblerà il partito né tanto meno richiamerà gli elettori in fuga per l’inaffidabilità dei suoi dirigenti.

l’Unità 22.5.13
Riforme istituzionali. Questioni aperte e buon senso
di Cesare Salvi


TRA QUALCHE MESE LA CORTE COSTITUZIONALE DOVRÀ PRONUNCIARSI SUGLI ASPETTI DELLA LEGGE ELETTORALE SUI QUALI LA CORTE DI CASSAZIONE ha sollevato la questione di legittimità. Essi riguardano, com’è noto, da un lato le modalità per l’attribuzione del premio di maggioranza (considerato eccessivo per la Camera, irrazionale per il Senato) e dall’altro le liste bloccate che, secondo la Cassazione, impediscono agli elettori un effettivo potere di scelta dei parlamentari.
La Corte costituzionale aveva in precedenza, in due ordinanze in tema di referendum elettorali, già sollevato dubbi sulla legittimità di tali norme, dubbi ribaditi dal suo Presidente Franco Gallo in una recente conferenza stampa.
Se il Parlamento non interverrà prima, è quindi probabile che il giudizio della Consulta sarà di accoglimento. Ma con quali effetti? Il problema si pone perché la Corte costituzionale ha in passato affermato, in sede di esame dei quesiti referendari, che non è ammissibile una fase nella quale vi sia assenza di una legge elettorale operativa. A questo punto è possibile quindi prevedere che la Corte avrà due opzioni: la prima è quella di dichiarare interamente incostituzionale la legge vigente, affermando nel contempo la reviviscenza della legge Mattarella. Secondo alcuni giuristi, infatti, questo risultato, che non potrebbe essere realizzato per via referendaria, sarebbe invece possibile con una sentenza della Corte. La seconda opzione è quella di una sentenza che dichiari incostituzionale solo una parte della legge, lasciandola vivere per il resto. Ciò probabilmente dovrebbe riguardare l’attribuzione dei premi e le correlate soglie di sbarramento (che oggi sono differenziate perché legate al premio). Se fosse seguita questa strada, la nostra legge elettorale diventerebbe simile a quella tedesca: proporzionale con sbarramento.
Nel frattempo, la non più strana maggioranza sta discutendo di una legge che elimini i principali difetti di quella attuale, in attesa della più o meno probabile conclusione dell’iter dell’ipotizzata «grande riforma» costituzionale.
Si tratterebbe di una legge provvisoria, «di salvaguardia», com’è stato detto.
Ma anche se si vuole seguire questa strada, occorre avere anzitutto chiaro l’obiettivo che si intende perseguire. Se si ritiene che si debba rivitalizzare il bipolarismo, occorre innestare sulla legge attuale il doppio turno.
In altri termini, se al primo turno nessuna coalizione ha avuto la maggioranza assoluta, si procederebbe a un secondo turno fra le due coalizioni più votate. A questo punto, la coalizione vincente al ballottaggio avrebbe ovviamente una percentuale di voti superiore al 50 per cento, e quindi l’attribuzione del premio non sarebbe più ingiustificata. L’altra soluzione è di eliminare il premio di maggioranza o assegnarlo solo sulla base di un consenso molto elevato. Si avrebbe un sistema di tipo tedesco, che comporterebbe, nell’attuale configurazione del sistema politico italiano, l’elevata probabilità di un governo di coalizione dopo il voto.
Restano aperte due questioni. La prima è quella dell’eliminazione dei listoni bloccati, con la preferenza o con liste più corte e il divieto di pluricandidature. Il secondo problema è più complesso, e riguarda il bicameralismo. Se si adotta un impianto proporzionale, la possibilità di esiti differenti nei due rami del Parlamento permane (se non altro per la differenza di età nell’elettorato attivo), ma certamente sarebbe meno rilevante.
Per l’altro sistema ipotizzato (il doppio turno di coalizione) è invece difficile e forse impossibile, a Costituzione invariata, assicurare un esito conforme per Camera e Senato.
Queste considerazioni inducono a una riflessione conclusiva. Invece di perseguire il macchinoso meccanismo ventilato per le riforme costituzionali, e che ha già sollevato serie critiche, non sarebbe preferibile concentrarsi subito su una «buona» legge elettorale, e limitarsi per la Costituzione a un intervento secondo le ordinarie procedure dell’art. 138 sui due punti (la riforma del Senato e la riduzione del numero dei parlamentari) sui quali consente ogni persona di buon senso, e rinviare a tempi auspicabilmente migliori, e quindi alla prossima legislatura, più ambiziosi progetti di riforma?

La Stampa 22.5.13
L’ineleggibilità di Berlusconi mette alla prova le larghe intese
di Marcello Sorgi


Il bollettino quotidiano della guerra dei disegni di legge riporta che all’indomani dell’annunciato (e non ritirato) testo del Pd sull’esclusione dei movimenti dalle elezioni, il Pdl ha annunciato (e poi ritirato) un testo del senatore Compagna favorevole alla riduzione delle pene per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Norma «salvaDell’Utri», è stata subito definita dai Democrat, con riferimento all’ex-senatore condannato e in attesa di giudizio definitivo per i suoi rapporti con Cosa Nostra.
Intanto anche Berlusconi, dopo Grillo, ha alzato la voce contro la legge anti-movimenti, a cui uno dei due presentatori, il capogruppo Zanda, s’è dichiarato disponibile a rinunciare, mentre l’altra, la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, intende lasciarlo agli atti. Il sospetto del Cavaliere è che, dato che si tratta di un’iniziativa ereditata dalla precedente legislatura, fosse il suo partito, e non il M5S, il vero obiettivo. Non si può escludere. Almeno a giudicare dalla tensione, rimasta alta, sull’altra questione controversa della possibile dichiarazione di ineleggibilità per il leader del centrodestra. Ci sono stati, in proposito, due pronunciamenti pesanti: quello dell’ex-presidente della Camera Violante, che ha ricordato come in tre o quattro occasioni precedenti il Pd abbia già votato contro l’ineleggibilità di Berlusconi, e non ci sono ragioni nuove per mutare atteggiamento. E quello dell’ex-presidente della Corte costituzionale Zagrebelsky, che sotto un profilo più giuridico ha ricordato che quei voti costituiscono un precedente, e come suol dirsi «fanno stato». La novità, però, è che in Senato stavolta Movimento 5 stelle e Pd, sommando i propri voti, avrebbero la maggioranza sufficiente a dichiarare il Cavaliere ineleggibile. Grillo punta a svergognare il Pd se non voterà per l’ineleggibilità. Il Pd prende tempo. Il Pdl annuncia che se nascerà una maggioranza anti-Berlusconi cadrà immediatamente il governo. Sarà strategica la scelta (un leghista o un grillino?) del presidente della giunta per le elezioni del Senato, che ieri, non a caso, è stata rinviata. La poltrona infatti toccherebbe per prassi alle opposizioni. Ma M5S obietta che la Lega, essendosi solo astenuta nel voto di fiducia al governo, a rigore non può essere annoverata tra chi si è opposto. Se alla fine, con il prevedibile voto dei dissidenti del Pd, dovesse essere eletto uno dei senatori di Grillo, il voto sull’ineleggibilità verrebbe fissato molto presto. Di qui un imbarazzo generale in area larghe intese e la decisione di aspettare, per non affaticare ulteriormente il cammino di Enrico Letta, in partenza per il vertice europeo.

l’Unità 22.5.13
5 stelle, Pd e Sel hanno tredici voti su ventitre
Il Pdl teme che si formi un’altra maggioranza
Ineleggibilità, giunta rinviata


Cinque minuti prima che si riunisca la Giunta i capigruppo decidono di prendere ancora tempo. Un’altra settimana, oltre non è possibile andare, per trovare un accordo che non minacci la tenuta del governo.
Lo schema sul quale si è lavorato finora in Parlamento era Giunta alla Lega (Raffaele Volpi), Copasir a Sel (Claudio Fava) e Vigilanza Rai al M5S (Fico).
È stato il Pd, spinto da Felice Casson, a far saltare di nuovo il tavolo. «La Lega non è forza di opposizione, nel voto di fiducia si è astenuta e non ha votato contro il governo. Quindi non ha diritto ad essere contata tra gli aventi diritto alla presidenza delle Giunte». Di fronte a questo ennesimo veto, lo stesso capogruppo Zanda ha dovuto chiedere il rinvio nella riunione dei capigruppo.
In realtà i veti di Casson hanno cause più raffinate. La Giunta per le autorizzazioni infatti è il luogo che per primo dovrà decidere su una serie di dossier scottanti. Si va dalla richiesta di utilizzo delle intercettazioni di Verdini nell’inchiesta P3 ad eventuali altre richieste su posizioni giudiziarie delicate, da Formigoni (a giudizio per lo scandalo sanitopoli) allo stesso Berlusconi. Sarà questa Giunta che, ad esempio, dovrà decidere sulla interdizione dai pubblici uffici del Cavaliere qualora la sentenza sulla compravendita dei Diritti tv diventasse definitiva. Sarà, soprattutto, questa Giunta il primo passaggio ufficiale della richiesta dei Cinque stelle di dichiarare ineleggibile Berlusconi in quanto titolare di concessioni televisive pubbliche (una legge del 1957 già stata respinta in Parlamento nel 1996 e nel 2002).
Si tratta di dossier per cui ci vorranno mesi. Ma è chiaro che una buona fetta del Pd non vede di buon occhio il fatto che la presidenza sia consegnata a scatola chiusa ad una finta opposizione. La Lega in tutti i casi di cui sopra sarebbe contraria ad ogni autorizzazione. E il presidente, il cui voto vale uno, avrebbe comunque il potere di calendarizzare il più tardi possibile ogni decisione.

il Fatto 22.5.13
La Giunta prende tempo, ma per il Pd B. è già eleggibile
di Fabrizio d’Esposito


Tra la “fuffa” del nuovo dibattito sulla legge elettorale e quella delle polemiche di giornata (tipo il ddl Finocchiaro-Zanda anti-Grillo sui partiti), la presidenza della giunta delle elezioni e delle immunità al Senato è l’unica cosa concreta che si profila all’orizzonte dell’inciucio di governo. In quanto concreta e fin troppo delicata, perché è lì che si deve slegare il nodo dell’ineleggibilità del senatore Silvio Berlusconi, la decisione attesa per ieri ha ovviamente subìto uno slittamento. Fissata per le 14, la riunione della giunta cinque minuti prima del suo inizio è stata “sconvocata”, come si dice nell’orrendo gergo di Palazzo, dalla conferenza dei capigruppo e “rinviata a data da destinarsi”, probabilmente la prossima settimana, dopo lo svolgimento del primo turno delle amministrative, minitest nazionale per i partiti della maggioranza.
A FAVORE Pd, Pdl e centristi, contro Lega e Movimento 5 Stelle. Ufficialmente, il rinvio è imputato alla mancanza dell’accordone generale sulle presidenze di giunta, Copasir e Vigilanza Rai da assegnare alle opposizioni. Al di là del rifiuto dei grillini a trattare, lo schema di partenza prevedeva e per certi versi prevede ancora: il leghista Raffaele Volpi alla giunta di Palazzo Madama, Claudio Fava di Sel al Copasir e Roberto Fico del M5S alla Vigilanza Rai. Il no a oltranza di Felice Casson del Pd a votare Volpi (“La Lega non è opposizione”) e che ha spaccato gli otto democratici della giunta a metà sarebbe il vero motivo dello slittamento. Lo dimostra il nuovo punto di mediazione da cui è ripartita la trattativa. Casson chiede la presidenza per Sel o un grillino e così l’intesa avrebbe un punto d’arrivo diverso da quello originario: Da-rio Stefano di Sel alla giunta, un leghista al Copasir (lo stesso Volpi, ritenuto buono per tutti i ruoli) e il grillino Fino alla Vigilanza. L’offerta è stata fatta pervenire al Pdl e “il ragionamento comune” ancora non è iniziato. I berlusconiani potrebbero essere “disponibili” ma su tutto e tutti conterà, come al solito, la parola finale del Cavaliere. Alla giunta del Senato si gioca il suo destino di eleggibile e i falchi del Pdl sono sempre fermi al nome di Volpi, l’unico che potrebbe garantire una “velocità lenta” alla mozione che verrà presentata da Vito Crimi, il capogruppo del M5S presente nella giunta delle elezioni e delle immunità di Palazzo Madama.
DOPO l’ultimatum del senatore previtiano Nitto Palma, presidente delle commissione Giustizia, (“Se passa l’ineleggibilità il governo cade”), sono arrivati segnali rassicuranti dal Pd. Il primo dal dalemiano Luciano Violante: “Per tre o quattro volte, nelle passate legislature, il centrosinistra ha votato in un certo modo (contro l’ineleggibilità, ndr). Se non ci sono fatti nuovi non vedo perchè dovremmo cambiare questa scelta”. Poi anche il giovane turco Matteo Orfini, ex dalemiano che oggi incarna l’anima sinistra del partito, ha sconfessato la linea hard dell’ineleggibilità, propugnata per esempio da Luigi Zanda: “Credo che Berlusconi sia eleggibile, perché per vent’anni c’è stata una legge che è stata interpretata a favore della sua eleggibilità. A me piacerebbe batterlo alle elezioni e non squalificandolo”. Idem Stefano Fassina, altro giovane turco socialdemocratico: “Il Pd non vuole eliminare nessuno. Credo che il comportamento che il Pd e i partiti che l’hanno preceduto hanno tenuto sin da quando il problema si è manifestato sia il comportamento che vada tenuto anche ora”. Lungo e contorto giro di parole per dire che B. è eleggibile.
Nonostante le rassicurazioni, B. però non si fida e in tv ha sparato a zero, con venature di sarcasmo, facendo riferimento anche al ddl blocca-Grillo: “Eliminato Berlusconi e il Pdl, eliminato Grillo e il M5S, il Pd correrebbe da solo. Mi domando dove e perché hanno tenuto nascosto questo genio fino ad adesso”.

Repubblica 22.5.13
La rassegnazione dei democratici “Impossibile far decadere Silvio”
Il partito di Epifani verso il sì anche al leghista Volpi
di Liana Milella


ROMA — Sono assai pochi quattro minuti. Ieri hanno salvato i Democrat dal precipizio al Senato. Dalla spaccatura. Dalla palese frantumazione. Quattro minuti per rinviare la seduta della giunta per le autorizzazioni ed evitare che gli otto componenti del Pd andassero in ordine sparso sulla presidenza. Sarebbe stato il segnale che il Pdl aspettava per considerare Berlusconi al sicuro su un futuro voto per la sua ineleggibilità. Il Pd si è fermato prima di finire nel fosso politico, il capogruppo Luigi Zanda ha intuito il rischio, ha bloccato la partita. Lo ha fatto dopo una riunione tesa con gli otto, in cui sono emersi i tre no alla possibile presidenza del leghista Raffaele Volpi, quelli di Felice Casson, Rosanna Filippin e Stefania Pezzopane, ma pure i sì, come quello di Doris Lo Moro, che con Volpi ha lavorato alla Camera e non ne dà un giudizio cattivo. Lo ribadisce, mentre in un corridoio, non accorgendosi di essere ascoltata, parla con una collega: «Su di lui non ho nulla da dire, lo conosco, è uno serio».
È allarme nel gruppo Pd, la grande prova della presidenza della giunta viene vissuta come la prova generale del voto sull’ineleggibilità. Ci vorrà tempo certo, ma a dover fare un pronostico ora, dopo un primo giro di tavolo, la premonizione politica è che la partita di chi lo vuole fuori dal Parlamento è già persa, che Berlusconi risulterà eleggibile anche stavolta. Lo si desume dalle cautele, dalle incertezze, ma anche dai primi no espliciti. Sullo stesso piano si può mettere il sì alla presidenza di Volpi e il no all’espulsione del Cavaliere. Ecco Giuseppe Cucca, uno dei membri della giunta. Su Volpi: «Non avrei difficoltà a votare un leghista». Su Berlusconi: «Faccio l’avvocato e devo ancora studiare, ma sarebbe meglio combatterlo sul piano politico ». Idem Claudio Moscardelli. Su Volpi: «Non sono né contro, né a favore di un leghista». Sul Cavaliere: «È singolare che si ponga la questione oggi, dopo 20 anni di sua vita politica». Ancora idem Isabella De Monte: «Non ho preclusioni, e poi il presidente non ha grandi poteri». E Silvio? «Non ho visto le carte».
Certo, ci sono Casson e Filippin. E Pezzopane, la battagliera presidente della provincia dell’Aquila. Il primo, l’ex pm di Venezia, non vuole anticipare il suo voto sul Cavaliere, ma tutti danno per scontato che il suo sarà un pollice verso. Sul leghista il niet è deciso, come quello di Filippin che durante la riunione ha detto: «Non è il caso che la presidenza sia affidata a un leghista». Berlusconi? In lei prevale la prudenza, «prima si leggono le carte e poi si vede». Pezzopane invece il suo pensiero lo ha espresso chiaro e tondo: «Io vorrei un presidente di Sel, perché è un partito garantista, mentre la Lega non rappresenta una vera opposizione visto è alleata di Berlusconi».
Diciamo la verità, è proprio un macigno per il Pd questa doppia decisione. Si sente quando parla l’ex magistrato Doris Lo Moro: «Su di lui, vent’anni di verdetti pesano ». Scansione inesorabile quella della Camera, 1994, 1996, 2002... Chiosa Lo Moro: «Per cambiare idea deve emergere qualcosa di nuovo, e francamente io non sono ancora stata illuminata sulla via di Damasco. Quella del ’57 è una norma evanescente, perché il ’57 è secoli fa. La colpa della sinistra è di non averla sostituita con una seria norma sul conflitto di interessi». Che è come dire, almeno per lei, che con quella norma lì Berlusconi non si può buttare fuori dal palazzo. Siamo sulla linea di Luciano Violante.
Ma per una campana che suona un certo din-don, eccone un’altra con diverso rintocco. Pezzopane, problematica: «Sto costruendo il dossier sull’ineleggibilità. Rileggo il passato, ma do per certo che esso non conta. Oggi l’insofferenza dei cittadini è molto più forte, quindi la sensibilità della giunta deve essere molto più profonda di prima». Si ferma Pezzopane. Quasi triste. Fa l’ultima considerazione: «In giunta si vota a scrutinio palese, in aula con voto segreto». E allora? «Allora...». In quest’ultimo «allora» si può leggere la vittoria di Berlusconi. Complice la conseguenza che un minuto dopo la mannaia su Silvio ne cadrebbe una sul governo Letta. E si andrebbe a votare.

Corriere 22.5.13
Sull’ineleggibilità democratici divisi
Cauti contro inflessibili
In Giunta la sfida interna del Pd
I senatori pro Cavaliere. Casson e Pezzopane orientati al sì
di Alessandro Trocino

qui

Matteo Orfini: “Credo che Berlusconi sia eleggibile: per vent’anni abbiamo avuto una legge interpretata in questo senso” (il Fatto 22.5.13)

Berlusconi: “Ineleggibile? Non esiste” Pd, il no di Violante, Fassina e Orfini
Stefano Fassina
, viceministro dell’Economia, toglie dal tavolo il tema ineleggibilità: «Il Pd non vuole eliminare nessuno. Ci comporteremo come ci siamo comportati nelle precedenti legislature». Ossia, Berlusconi resterà in Parlamento (Repubblica 22.5.13)

La Stampa 22.5.13
Il Colle: la buona salute del governo viene prima della legge elettorale
Le ragioni per cui Napolitano ha frenato sulla riforma del Porcellum:
potrebbero spingere qualcuno a considerare esaurita la legislatura
di Ugo Magri

qui

Repubblica 22.5.13
Pressing sui social network: “Applicate la legge”
In rete la base si ribella e chiede coraggio al partito “L’ex premier va escluso”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Fosse per la Rete, Silvio Berlusconi sarebbe ineleggibile da un pezzo. Basta scorrere i tweet - sono centinaia - per ricavare una fotografia fedele dell’opinione del popolo del web. L’aria non cambia se si passa a Facebook, navigando fra le pagine dei principali big democratici: il Cavaliere va escluso dal Parlamento. Il “sondaggio” non ha naturalmente valore statistico, né tutti i fedelissimi di Twitter hanno la tessera del Partito democratico in tasca. Ma i simpatizzanti che affollano la Rete hanno idee molto chiare. E difficilmente gli argomenti si allontanano molto da quelli messi nero su bianco con una certa brutalità dall’utente Francesco Davì: «Sono sicuro che il Pd non avrà il coraggio di votare l'ineleggibilità di Berlusconi, il Cavaliere li tiene per le palle!! Che schifo!!!».
Tira una brutta aria, si diceva, perché il voto in Giunta sull’ex premier si avvicina e i democratici conoscono i rischi di un passaggio tanto delicato. Il popolo di Twitter, che già marcò stretto il gruppo parlamentare Pd in occasione del voto sul Presidente della Repubblica, è martellante. «L’ineleggibilità non è un’opinione, ma una condizione oggettiva fissata da una legge di 56 anni fa», scrive un utente. E gli fa eco un altro: «All’Italia non servono nuove leggi, serve la volontà di applicare le esistenti e non dimenticare che esistono!».
C’è chi scrive direttamente ai senatori Pd, sfidandoli: «Come voterete sull'ineleggibilità di Berlusconi? ». E chi invita a non indugiare oltre, giudicando la battaglia anti Cavaliere un ottimo carburante in vista della corsa elettorale: «Se il Pd votasse ineleggibilità di B. potrebbe andare al voto tranquillo che la gente apprezzerebbe assai!». Oppure, senza tanti giri di parole: «Se si vota ineleggibilità di Berlusconi il Pdl farà cadere il governo. Magari sta botta di culo. #2piccioniconunafava».
Sulla pagina Facebook dedicata a Enrico Letta i toni sono simili. Scrive ad esempio Ciro Manna: «La giunta per le elezioni deve formarsi, riunirsi e dichiarare ineleggibile Berlusconi. Il Pd la deve smettere di giocare sulla pelle di chi lo vota e dei suoi elettori».
Se quasi tutti invitano a mettere fuori dai giochi parlamentari il leader del Pdl, una minoranza sceglie invece di schierarsi con Berlusconi. «Dietro richieste di incandidabilità e ineleggibilità avversari - scrive un utente dietro pseudonimo - il Pd nasconde maldestramente tentativo di golpe! Nostalgici del partito unico!». Un altro internauta, più disincantato, chiude a suo modo la questione: «Che puttanata l'ineleggibilità di Berlusconi: dopo 20 anni? 10 milioni credono alle sue minchiate: svelatele, invece di rincorrere fesserie».

La Stampa 22.5.13
Il Pd in crisi sulla legge elettorale
Partito diviso tra chi accetta ritocchi al Porcellum e chi vuole il Mattarellum. Renzi: sì al semipresidenzialismo
di Carlo Bertini


Lo scontro c’è ma non si vede nel Pdl, mentre il Pd che non si risparmia mai nulla lo fa venire più allo scoperto, con tutti i mezzi possibili e immaginabili. Esempio: martedì Epifani riunirà la Direzione per far votare i nuovi organigrammi, i renziani si aspettano due nomine pesanti, Luca Lotti al vertice dell’Organizzazione e la Bonafè nella commissione congressuale dove siederanno tutte le anime del partito; i dalemiani un completo rinnovamento delle cariche che faccia fuori tutti i bersaniani di ogni ordine e grado; un voto che sarà dunque occasione propizia per esacerbare gli animi, niente di più facile che in quella sede esploda una bella polemica anche sulla legge elettorale. Non è un caso che l’ultimo coniglio tirato fuori dal cilindro da Beppe Fioroni è la proposta di indire un referendum sul modello di legge elettorale preferito dagli elettori, «perché su un tema del genere non possono decidere in pochi in splendida solitudine». Critica neanche tanto velata al neo segretario Epifani che ieri si è chiuso in una stanza con Franceschini, Bressa, Finocchiaro e i capigruppo per decidere una linea comune da tenere oggi al vertice di maggioranza con Letta sulle riforme.
Un vertice dove potrebbe venir fuori un braccio di ferro tra Pd-Pdl con il governo costretto a far da arbitro e a spingere, su sollecitazione del Colle, ad una revisione immediata del Porcellum. Perché il Pdl è disposto solo a ritocchi in linea con i rilievi della Consulta. «La legge elettorale non è un’emergenza, ma una cosa su cui mettere mano con un intervento di manutenzione, per renderla costituzionale», fa notare il ministro Quagliariello. Invece nel Pd c’è chi vorrebbe abolire subito il Porcellum per passare al Mattarellum, nel timore che un ritocco che abolisca ad esempio il premio di maggioranza e introduca le preferenze, possa portare ad un proporzionale puro. Insomma una guerra di posizione in cui nessuno vuole dare armi all’avversario tali da indurlo magari a voler tornare alle urne sentendosi più avvantaggiato. Nel Pd il classico duello tra bipolaristi e proporzionalisti stavolta è complicato dal fatto che i poli ormai sono diventati tre; e c’è chi fa notare che se alla fine si accettasse il semipresidenzialismo col doppio turno, come chiede il Pdl, il rischio è che vincano Grillo o Berlusconi e chissà cosa potrebbe succedere ai ballottaggi nei collegi...
E per questo, fotografando le divisioni esistenti nella «strana maggioranza», Franceschini e Quagliariello hanno spinto i rispettivi gruppi ad accettare uno schema siffatto: una modifica della normativa attuale che vada incontro alle sollecitazioni della Consulta, chiamata «clausola di salvaguardia», da votare il 29 maggio nella mozione con cui l’aula darà avvio al percorso di riforme costituzionali. Una mediazione tra le due posizioni di partenza, quella del Pdl, che chiede di fare prima le riforme e poi cambiare il sistema di voto; e quella del Pd che è per un ritorno immediato al Mattarellum, caldeggiato da Epifani, D’Alema e dai renziani. Lo stesso Epifani, dopo averne parlato con D’Alema venerdì scorso, si è convinto che bisogna caratterizzare l’azione del Pd su due fronti cruciali, un’iniziativa per l’occupazione giovanile, che si terrà a Napoli e la battaglia per abolire subito il Porcellum senza accettarne un restyling.
Quindi nel Pd si fronteggiano due partiti: quello filo-governativo e quello filo-identitario: il primo al seguito di Franceschini e Letta, propende per una riforma-ponte utile nel caso si tornasse alle urne senza aver completato il percorso di riforme; col retropensiero che tutti gli scontenti di queste correzioni del Porcellum possano sentirsi obbligati a completare le riforme proprio per poter poi varare una legge elettorale meno indigesta. Letta comunque vuole «un percorso rapido, efficace e che coinvolga tutti i gruppi parlamentari» per evitare guerriglie con Lega e grillini.
Il secondo fronte del Pd vorrebbe subito una legge che possa essere «venduta» ai militanti. «Siamo d’accordo su una clausola di salvaguardia ma non su una legge elettorale diversa dai desiderata Pd, anche nella formula transitoria», chiarisce Epifani. Ma la confusione regna sovrana: alcuni dalemiani, come Enzo Amendola, tifano per semipresidenzialismo e doppio turno. I renziani finora si sono allineati con Roberto Giachetti che strattona Grillo per far firmare ai 5Stelle la richiesta di una convocazione straordinaria dell’aula, per passare subito al Mattarellum, maggioritario a turno unico. Ma Renzi ieri ha sancito che «i tempi sono maturi per il passaggio al semipresidenzialismo per eleggere uno che finalmente fa le cose». Il che porterebbe ad un sistema di voto come quello per l’elezione dei sindaci a doppio turno...

l’Unità 22.5.13
SPATARO:

Non si governa una fase così complicata e piena di insidie con un partito che è ancora diviso, nel quale troppo spesso contano di più i destini personali che non l’interesse della comunità che si rappresenta e del Paese che si vuole governare. La ricostruzione del Pd avrebbe bisogno di una maggiore consapevolezza, da parte di tutti, del tempo che stiamo vivendo, altrimenti si finirà tra le macerie. E sulle macerie è poi difficile riedificare.
Queste verità bisogna dirsele con chiarezza, anche se sono crude. Se il Pd non ritrova lo spirito di combattimento uscirà malconcio da questa difficile esperienza di governo. In questa impresa, infatti, non ci si può stare con un piede solo, e qualcuno addirittura solo con la punta.
Rendendo chiaro al Paese che non ci sono scambi, patti, pacificazioni. Che sulla legalità non ci sono scorciatoie possibili perché la legge è e resta uguale per tutti.
il Pd deve smetterla di farsi del male. Deve ritrovare il suo «senso comune», saper interpretare il malessere che si agita tra i suoi militanti e non lasciare che vinca la sfiducia o la rassegnazione. La sinistra deve saper fare la sinistra, soprattutto nei momenti più difficili.

l’Unità 22.5.13
Cuperlo: nel Pd meglio la rabbia del silenzio
«Il congresso al più presto Riconciliare Pd e società»
«Il partito è debole se si concentra solo sul potere»
«Sostenere il governo Letta e costruire un nuovo centrosinistra»
«Meglio militanti arrabbiati che abbandoni silenziosi»
intervista di Simone Collini


ROMA Il Pd deve sostenere il governo Letta «con lealtà e autonomia». E lavorare affinché al centro dell’azione dell’esecutivo ci siano l’«equità» e «le fasce più deboli» della popolazione. In questa intervista, la prima dopo aver annunciato l’intenzione di candidarsi alla guida del Pd, Gianni Cuperlo parla anche della necessità di «tenere al più presto il congresso» e di costruire «un nuovo centrosinistra» che abbia come «perno dell’alleanza» il Pd. Un partito, dice, che «è un amalgama vero» ma che «è fragile quando si scorda del mondo e si concentra solo sul potere».
Partiamo dal sostegno al governo insieme al Pdl: è stata la scelta giusta?
«È stata la scelta necessaria, dopo aver tentato un’altra via. Noi abbiamo provato a non sciupare la chance di un Parlamento rinnovato e femminile, ma si sa chi lo ha impedito. Otto milioni di voti al M5S sono stati congelati spiegando che per loro lo scopo era cancellare i partiti. A quel punto, dopo i giorni drammatici su Marini e Prodi e il discorso di Napolitano alle Camere, il Paese doveva avere un governo. E non per la sopravvivenza del Parlamento ma della gente che soffre». Ma ora come si evita il rischio che sia Berlusconi a dettare l’agenda? Sono giorni chesiparladiImu,intercettazioni,concorso esterno in associazione mafiosa... «L’agenda la detta la crisi, e Letta mostra di capirlo più di altri. Sulla cassa integrazione in deroga, sulla proroga dei contratti per i precari nel pubblico, sullo sblocco dei contratti di solidarietà, il decreto del governo si è mosso nella giusta direzione. Adesso bisogna scongiurare l’aumento dell’Iva. L’agenda di Berlusconi, siano intercettazioni o il concorso esterno, non è la nostra e la distanza su questi temi si fa abisso».
Come deve caratterizzarsi il Pd nel sostenere il governo, e spingendo perché si affrontino come prioritari quali temi? «Sosteniamo il governo con lealtà e autonomia. Bisogna rompere la congiura del rigore che strangola l’Europa. Fare dell’equità la bussola del governo, e quindi nella fiscalità ripartire dalla Costituzione e dalla progressività. Sostenere le fasce più esposte al precipizio nella povertà. Il rilancio della domanda interna, lo sblocco del patto di stabilità per i Comuni e l’ossigeno a imprese senza credito possono essere le prime ricadute». Faceva riferimento all’Europa: su quale fronte deve agire l’Italia perché si arrivi a una svolta delle politiche comunitarie? «Da tre anni ci viene detto che questa è la crisi più grave del secolo. Se è così non se ne esce con qualche aggiustamento della burocrazia di Bruxelles. E neppure con i tecnici, su cui abbiamo già dato. La sfida è un’altra concezione dell’economia, del valore sociale del lavoro, del rapporto tra mercati e democrazia. Ma ci rendiamo conto della crisi di legittimità che investe parlamenti e governi nazionali? Il discorso di Hollande, in questo senso, sarà pure il riflesso di difficoltà interne ma per la Francia ha segnato una rottura storica e culturale. Allora bene misure anticicliche da discutere al prossimo vertice, ma l’integrazione politica è il vero discrimine di dove si vuole andare. E noi vogliamo andare negli Stati Uniti d’Europa citati da Letta». Questo governo deve affrontare le emergenze economiche, approvare una nuova legge elettorale e poi andare, come ha detto Renzi, subito a nuove elezioni? «Partiamo dalle cose da fare per definire il tempo, perché l’opposto fa perdere la logica. Gli obiettivi sono: affrontare il dramma dell’economia con un’emergenza sociale esplosiva e fare le riforme necessarie a ricostruire la fiducia tra cittadini e democrazia. Ciò vuol dire nuova legge elettorale e riforme istituzionali. Fatto questo è doveroso restituire la matita agli elettori».
Che cosa dice della legge elettorale: Mattarellum o modifiche al Porcellum? «Partirei dall’imperativo di fondo che è “mai più col Porcellum”. Questo è il messaggio decisivo se non vogliamo che la crisi della democrazia travolga tutto. Da quell’imperativo scendono due esigenze. La prima è darsi una legge che escluda rischi d’ingovernabilità. La seconda è accompagnare questa riforma prioritaria alle altre che il Parlamento deve affrontare. E che riguardano il Senato delle Autonomie, la riduzione dei deputati, i costi della politica. Tutto questo rivendicando la sovranità del Parlamento e il rispetto delle procedure previste dalla Costituzione».
Alle prossime elezioni ci sarà ancora un’alleanza di centrosinistra? Glielo chiedo perché dopo la manifestazione della Fiom, Epifani e Vendola hanno avuto un duro scontro, oltre al fatto che il Pd sostiene il governo e Sel è all’opposizione.
«Io non mi rassegno. Servirà un nuovo centrosinistra. Prima di tutto perché noi con la destra non abbiamo stretto un’alleanza politica, ma abbiamo dato vita a un governo che è chiaramente di emergenza. Questa è una prova anche per noi ed è chiaro che saremo giudicati per quanto riusciremo a fare. Ma questo non contrasta col ricostruire il campo largo del centrosinistra in un Paese che esprime una vitalità e una domanda di alternativa alla destra, nei valori e nei programmi. Il Pd è nato per essere il perno di quell’alleanza. Fuori da lì non capirei a cosa serviamo».
Il Pd è fragile, ha detto Renzi, perché ha paura dei leader, chiunque essi siano, e che l’idea dell’uomo solo al comando non è da rigettare: condivide?
«Il Pd è fragile se ha paura delle sue idee e non trova le parole per parlare a tutti ma indicando quali parti e soggetti della società vuole promuovere e contribuire a liberare dal bisogno. Se non ha il coraggio di sfidare lo spirito del tempo dicendo che esistono cose che il mercato non può comperare a cominciare dalla dignità del singolo. Il Pd è fragile quando si scorda del mondo e si concentra solo sul potere».
Tra breve si aprirà la stagione congressuale del Pd: può aiutare a sciogliere quei nodi? «Direi che è lo scopo fondamentale di un congresso da tenere al più presto. Nei circoli c’è delusione e sconcerto. Ma è assurdo aspettare che la rabbia si plachi, e comunque meglio militanti arrabbiati che abbandoni silenziosi. Serve una discussione sincera. Dobbiamo capire cosa abbiamo sbagliato e come si rifonda questo progetto. Bisogna far contare circoli, iscritti e militanti sapendo che il Pd resta la vera grande speranza di far uscire l’Italia da questa crisi profonda». Perché ha deciso di candidarsi a segretario? «Perché vorrei un congresso costruito sul “che cosa” anziché sul “chi”. Perché penso, come tanti, che la prova oggi è riconciliare il Pd e la sinistra con la società italiana. Perché siamo alla fine di un lungo ciclo dell’Occidente, e non solo, che ha prodotto diseguaglianze immorali e la politica ha il dovere di misurarsi col pensiero che può stare alla base di un ciclo nuovo. Perché dopo che il ’900 ha promesso e in parte soddisfatto una rivoluzione dell’uguaglianza, il nuovo secolo ha il compito di produrre una rivoluzione della dignità e questo traguardo non lo si raggiunge solo dalle istituzioni o dal governo ma deve vivere nella società, nei movimenti, nella Rete. Perché il Pd è un amalgama vero e possiede le risorse e lo spirito per ripartire».
C’è l’ipotesi di modificare lo statuto Pd per non far più coincidere la figura del segretario e quella del candidato premier: cosa ne pensa?
«Penso sia utile per dare il segno di un investimento diretto nel partito». Secondo lei, il segretario dovrebbe essere eletto soltanto dagli iscritti o con primarie aperte a tutti gli elettori del Pd? «Dopo questi mesi difficili ogni restrizione può apparire una voglia di restaurazione, il che sarebbe un errore. A noi mai come ora serve un congresso vero e aperto».

il Fatto 22.5.13
Ma la sinistra dov’è?
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, è veramente scomparsa la sinistra in Italia? O forse non c’è mai stata, come la intendiamo noi, con tutti i suoi nobili valori? E, al contrario, se ritiene che esista ancora, vuole essere così cortese da dire a Vendola e a Fabrizio Barca di mettersi alla guida di questa sinistra e farla tornare a vivere?

LA DOMANDA È importante, eppure è quasi impossibile parlarne confrontandosi con ciò che vediamo intorno a noi in questa Italia e in questo momento. Porte e finestre sono chiuse sul dopo (qualunque sia il dopo) che continua a non intravvedersi. E nella camera stagna in cui stiamo vivendo si confrontano (e in questo momento si agganciano, per un governo insieme, a luci spente) una destra che non è una destra perché non sa nulla e non vuole sapere nulla del mercato, dell’impresa e dell’economia liberale, e risponde esclusivamente a un padrone; e una sinistra che non è una sinistra perché non concepisce neppure, mentre ne ha l’occasione in mano, di eleggere Prodi o Rodotà alla presidenza della Repubblica. È un paesaggio di macerie in cui continuiamo a vivere a circuito chiuso, senza ricevere e senza trasmettere nulla, bloccati, istituzioni e persone, dentro un incantesimo malevolo che non lascia accadere nulla. La vera domanda è se e quando e come una situazione di blocco, in cui il blocco è stato rinsaldato dalla decisione di non decidere, di non eleggere, di non cambiare niente, possa all’improvviso e per miracolo sciogliersi spontaneamente come il sangue di San Gennaro. Probabilmente la lettera a cui sto rispondendo dice, prima e meglio di come stia facendo io adesso, che non è l’immensa delusione la risposta, ma la forza di ricominciare un lavoro ancora una volta andato a vuoto. Prima ancora della sinistra bisogna desiderare un partito normale e pulito, guidato da persone legate a fatti veri come il diritto e la dignità del lavoro, e impegnate a rendere questo partito riconoscibile (dunque condivisibile) dagli elettori in modo da ritrovare, fuori dall’area infetta, i voti che mancano. E poi, con la pazienza e la tenacia di coloro che ricostruiscono dopo un terremoto, ricominciare da capo. Come vedete sto cercando una speranza e tento di crederci.

Come nasce un governo di larghe intese
Corriere 22.5.13
La pistola e il cellulare: Preiti preparato come un professionista
Chiusa l'inchiesta: giudizio immediato per l'uomo che ha sparato davanti a Palazzo Chigi. Matricola abrasa da un esperto
di  Fiorenza Sarzanini

qui

il Fatto 22.5.13
Con Napolitano è vietato parlare di Mancino
I Pm di Palermo non dovranno rivolgere domande sulle sue telefonate con l’ex ministro
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Giorgio Napolitano potrà deporre nel processo sulla trattativa Stato-mafia, ma al capo dello Stato i pm di Palermo non dovranno rivolgere domande sulle sue telefonate con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, recentemente distrutte sulla base di un decreto del gip Riccardo Ricciardi.
LO HA DECISO ieri il presidente della Corte d’Assise Alfredo Montalto, con un ordinanza nella quale cita espressamente la sentenza della Consulta, stabilendo contestualmente che su tutti gli altri temi del capitolato l’audizione dell’inquilino del Quirinale può considerarsi invece pienamente “legittima”. Si tratta della prima scrematura della lista dei testimoni presentata dalle parti processuali, perché la decisione definitiva sull’ammissibilità della testimonianza del presidente della Repubblica dovrà essere sottoposta in udienza, a partire dal prossimo 27 maggio, al confronto tra le parti. “La decisione della Corte d’Assise non mi stupisce”, è la lapida-ria dichiarazione di Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso. Nessuna sorpresa neppure per Antonio Ingroia che si limita a dire: “Era scontato”.
Al capo dello Stato, i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia intendono chiedere la sua opinione su quanto scrisse, un anno fa, poco prima di morire stroncato da un infarto, il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, in una lettera a lui indirizzata nella quale diceva di sentirsi “come un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, nel periodo tra l’89 e il ’93. Da parte sua, poche ore prima, Napolitano aveva fatto sapere, con una nota diffusa dal Quirinale, che era in attesa delle decisioni della corte d’Assise di Palermo, “nella più assoluta serenità”.
OLTRE A NAPOLITANO, che sarà testimone anche nel nuovo processo su via D’Amelio in corso a Caltanissetta, sono 175 i testi citati dai pm di Palermo nel processo sulla trattativa. Anche nel dibattimento nisseno, il cosiddetto Borsellino-quater, la Corte ha accolto la richiesta di convocare il capo dello Stato, avanzata dall’avvocato Fabio Repici (parte civile per Salvatore Borsellino), specificando che nessuna domanda potrà essere posta sulle conversazioni con Mancino distrutte dal gip di Palermo. Resteranno dunque top secret, perché nessuna domanda potrà essere posta nei giudizi, le quattro telefonate intercettate sull’utenza di Mancino, nel periodo tra il novembre 2011 e il febbraio 2012, per le quali il Quirinale aveva sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Consulta. Con la sentenza del 4 dicembre scorso, la Corte Costituzionale aveva infatti ritenuto che i file-audio andassero distrutti senza contraddittorio delle parti, per tutelare la riservatezza delle comunicazioni del capo dello Stato. L’unico ad ascoltare i nastri, oltre ai pm titolari dell’inchiesta, era stato il capo della procura di Palermo Francesco Messineo, che ne aveva valutato il contenuto comunque non rilevante ai fini dell’inchiesta sulla trattativa. E intervenendo nei giorni scorsi alla festa palermitana di Addiopizzo, il pm Di Matteo aveva sottolineato come il segreto di quelle conversazioni fosse stato tutelato “in pieno” dalla procura di Palermo, e come tuttavia era stato deciso di sollevare il conflitto di attribuzione. “In casi analoghi – aveva detto Di Matteo – in cui le conversazioni di capi dello Stato, e mi riferisco a quelle di Scalfaro, erano finite sui giornali, nessuno aveva ritenuto di sollevare la questione di legittimita’ costituzionale sulle intercettazioni”.
PER QUESTA vicenda Di Matteo è finito sotto inchiesta disciplinare con l’accusa di aver violato l’obbligo di riservatezza, da parte del pg di Cassazione Gianfanco Ciani, che peraltro è uno dei testi del processo. Insieme a Ciani, e al suo predecessore Vitaliano Esposito, la procura di Palermo ha citato anche il presidente del Senato Piero Grasso, ex capo della procura nazionale antimafia. Dopo il pressing telefonico di Mancino, che interpellava il Quirinale chiedendo protezione per “sfilarsi” dalle indagini sulla trattativa, Ciani convocò Grasso il 19 aprile dell’anno scorso, per discutere del coordinamento delle indagini delle procure siciliane. Alla fine della riunione, Grasso precisò in un verbale di non aver rilevato “violazioni tali da poter fondare un intervento di avocazione”. Nella lista dei testi “eccellenti” figurano, tra gli altri, l’ex capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, l’ex premier Giuliano Amato, e gli ex ministri Scotti, Martelli e Conso.

il Fatto 22.5.13
“Non ci fecero catturare Provenzano”


“IL COVO di Montagna dei Cavalli l'avevamo individuato già nel 2001, ma ci impedirono di metterlo sotto controllo”. In un’intervista che sarà trasmessa domani sera da Servizio Pubblico, il programma di Michele Santoro su La7, parla un carabiniere che per anni ha lavorato alla cattura del boss di Corleone. “A pochi giorni dall’inizio del processo sulla trattativa Stato-mafia, la testimonianza del militare dell’Arma – si legge in una nota di Servizio Pubblico – infittisce il mistero sulla lunghissima latitanza di Bernardo Provenzano, che ha portato all’incriminazione dei vertici del Ros dei Carabinieri”. “A portarci nel covo a pochi chilometri da Corleone era stata una confidente – racconta il militare – ma il rifugio non fu mai messo sotto controllo. All’epoca funzionava così: il colonnello Giammarco Sottili, l’attuale capo di Stato maggiore della Regione Sardegna, gestiva tutte le informazioni e diceva che non si doveva parlare, le nostre relazioni di servizio non arrivarono mai in Procura. Quando nel 2006 Provenzano fu arrestato proprio lì pensammo che era un vero schifo”.

il Fatto 22.5.13
“Ero molto scosso, consegnai la borsa a un uomo in divisa”
Giuseppe Ayale, ex Pm a Palermo, ricorda il suo arrivo sul luogo della strage


Giorgio Napolitano potrà deporre nel processo sulla trattativa Stato-mafia, ma al capo dello Stato i pm di Palermo non dovranno rivolgere domande sulle sue telefonate con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, recentemente distrutte sulla base di un decreto del gip Riccardo Ricciardi. LO HA DECISO ieri il presidente della Corte d’Assise Alfredo Montalto, con un ordinanza nella quale cita espressamente la sentenza della Consulta, stabilendo contestualmente che su tutti gli altri temi del capitolato l’audizione dell’inquilino del Quirinale può considerarsi invece pienamente “legittima”. Si tratta della prima scrematura della lista dei testimoni presentata dalle parti processuali, perché la decisione definitiva sull’ammissibilità della testimonianza del presidente della Repubblica dovrà essere sottoposta in udienza, a partire dal prossimo 27 maggio, al confronto tra le parti. “La decisione della Corte d’Assise non mi stupisce”, è la lapida-ria dichiarazione di Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso. Nessuna sorpresa neppure per Antonio Ingroia che si limita a dire: “Era scontato”. Al capo dello Stato, i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia intendono chiedere la sua opinione su quanto scrisse, un anno fa, poco prima di morire stroncato da un infarto, il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, in una lettera a lui indirizzata nella quale diceva di sentirsi “come un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, nel periodo tra l’89 e il ’93. Da parte sua, poche ore prima, Napolitano aveva fatto sapere, con una nota diffusa dal Quirinale, che era in attesa delle decisioni della corte d’Assise di Palermo, “nella più assoluta serenità”. OLTRE A NAPOLITANO, che sarà testimone anche nel nuovo processo su via D’Amelio in corso a Caltanissetta, sono 175 i testi citati dai pm di Palermo nel processo sulla trattativa. Anche nel dibattimento nisseno, il cosiddetto Borsellino-quater, la Corte ha accolto la richiesta di convocare il capo dello Stato, avanzata dall’avvocato Fabio Repici (parte civile per Salvatore Borsellino), specificando che nessuna domanda potrà essere posta sulle conversazioni con Mancino distrutte dal gip di Palermo. Resteranno dunque top secret, perché nessuna domanda potrà essere posta nei giudizi, le quattro telefonate intercettate sull’utenza di Mancino, nel periodo tra il novembre 2011 e il febbraio 2012, per le quali il Quirinale aveva sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Consulta. Con la sentenza del 4 dicembre scorso, la Corte Costituzionale aveva infatti ritenuto che i file-audio andassero distrutti senza contraddittorio delle parti, per tutelare la riservatezza delle comunicazioni del capo dello Stato. L’unico ad ascoltare i nastri, oltre ai pm titolari dell’inchiesta, era stato il capo della procura di Palermo Francesco Messineo, che ne aveva valutato il contenuto comunque non rilevante ai fini dell’inchiesta sulla trattativa. E intervenendo nei giorni scorsi alla festa palermitana di Addiopizzo, il pm Di Matteo aveva sottolineato come il segreto di quelle conversazioni fosse stato tutelato “in pieno” dalla procura di Palermo, e come tuttavia era stato deciso di sollevare il conflitto di attribuzione. “In casi analoghi – aveva detto Di Matteo – in cui le conversazioni di capi dello Stato, e mi riferisco a quelle di Scalfaro, erano finite sui giornali, nessuno aveva ritenuto di sollevare la questione di legittimita’ costituzionale sulle intercettazioni”. PER QUESTA vicenda Di Matteo è finito sotto inchiesta disciplinare con l’accusa di aver violato l’obbligo di riservatezza, da parte del pg di Cassazione Gianfanco Ciani, che peraltro è uno dei testi del processo. Insieme a Ciani, e al suo predecessore Vitaliano Esposito, la procura di Palermo ha citato anche il presidente del Senato Piero Grasso, ex capo della procura nazionale antimafia. Dopo il pressing telefonico di Mancino, che interpellava il Quirinale chiedendo protezione per “sfilarsi” dalle indagini sulla trattativa, Ciani convocò Grasso il 19 aprile dell’anno scorso, per discutere del coordinamento delle indagini delle procure siciliane. Alla fine della riunione, Grasso precisò in un verbale di non aver rilevato “violazioni tali da poter fondare un intervento di avocazione”. Nella lista dei testi “eccellenti” figurano, tra gli altri, l’ex capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, l’ex premier Giuliano Amato, e gli ex ministri Scotti, Martelli e Conso. “Ero nel pallone, sconvolto, piangevo come un vitello orfano: qualcuno, in borghese, dietro di me mi ha dato la borsa e io l’ho data ad un ufficiale dei carabinieri in divisa. Ero stato pm a Palermo, c’era stata la guerra di mafia con oltre 300 omicidi, l’intervento sui luoghi dei delitti avveniva in base ad un certo automatismo. Consegnando la borsa ad un ufficiale, ritenevo di averla messa in mani sicure’’. Seduto davanti alla corte di assise di Caltanissetta, Giuseppe Ayala ha ribadito ieri, di mattina e poi di pomeriggio, la sua versione sui movimenti attorno alla blindata di Paolo Borsellino, il pomeriggio del 19 luglio del ’92.
ACCANTO A LUI c’era il giornalista Felice Cavallaro (“ma con lui non avevamo frequentazioni e con lui non parlai dell’agenda’’) ma in via d’Amelio rimase solo pochi minuti perché proprio Cavallaro lo informò che a Palermo si era sparsa la voce che era lui la vittima della strage e che avrebbe dovuto rassicurare i suoi figli. Rispondendo alle domande dell’avvocato di Salvatore Borsellino, Fabio Repici, Ayala ha detto di non ricordare se la pagina del primo luglio dell’agenda che gli mostrò Nicola Mancino fosse interamente bianca (“lui era ansioso, ha ritenuto di farmela vedere, ma certamente il nome di Borsellino non c’era”), ed ha rivelato di essere stato convocato, dopo le stragi, dall’allora sottosegretario Fernanda Contri che gli suggerì di utilizzare a protezione della sua blindata uno strumento elettronico che avrebbe potuto rilevare a distanza e disinnescare l’innesco di un esplosivo. Gli fu detto, però, che avrebbe potuto anche interferire sul funzionamento di strumenti elettronici nei paraggi, in special modo con i pace makers, e non se ne fece nulla. In mattinata è stato sentito l’agente della Forestale Giovanni Citarda in servizio antincendio che ha deposto sui movimenti nel castello Utveggio il pomeriggio del 19 luglio, senza però aggiungere nulla a quanto già conosciuto. Il processo è stato rinviato all’11 giugno nell’aula bunker di Rebibbia per un’audizione che durerà cinque giorni dei collaboratori di giustizia Nino Giuffrè, Gaspare Spatuzza, Fabio Tranchina e Giovanni Brusca.

Questo non è un fatto locale, che riguarda Bologna: riguarda tutti
il Fatto 22.5.13
Bologna. Soldi alle private?
Ivano Marescotti: È un metodo incostituzionale, Merola si dimetta


Ivano Marescotti, attore bolognese, è stato uno dei primi sostenitori del referendum contro l’erogazione di finanziamenti pubblici alle scuole materne private.
Marescotti, lei è stato molto critico con Virginio Merola: “Non è il mio sindaco”, ha detto.
Ha più volte ribadito che tirerà avanti per la sua strada, qualunque sia l’esito del referendum. Che però, anche se ha valore consultivo, è nello statuto del Comune. Dice che non terrà in considerazione la volontà dei cittadini che lo hanno eletto, direttamente: dovrebbe dimettersi.
Il sindaco obietta: è nel mio programma, votato dai cittadini.
Ma se durante il mandato, che dura cinque anni, c’è un referendum che propone cose diverse, lui non può dire a priori che in ogni caso non ne terrà conto: siamo davanti a una scorrettezza istituzionale.
C’è un principio da difendere, giusto?
Tutti dicono: non facciamone un caso nazionale, è una questione burocratica. Ma quell’articolo 33 della Costituzione non è interpretabile. Dice che possono esistere le scuole private ma “senza oneri per lo Stato”. Questo è un tradimento della nostra Carta fondamentale.
Cosa si toglie alla scuola pubblica?
Innanzitutto un’idea. Bisogna dire che questo non è un fatto locale, che riguarda Bologna: riguarda tutti. Vede, a Bologna ci sono 27 scuole materne private, 25 sono cattoliche. Il trucco è chiamare scuola pubblica anche quella privata. Loro sostengono che è tutto servizio pubblico. Rodotà dice che è un sotterfugio vergognoso, e ha ragione. E poi attenzione: la scuola non è un servizio pubblico. La Carta dice espressamente che lo Stato costruisce scuole per garantire il diritto allo studio di tutti i cittadini. È un diritto esigibile.
Chi è a favore obietta che viene garantita la possibilità di scelta.
Ma le scuole private esistono, i cittadini che ritengono di fare questa scelta per i propri figli possono liberamente farla. Non a spese dello Stato, a spese loro. Dicono anche: siccome siamo in difficoltà economica, diamo soldi alle private. Mi pare un’enorme contraddizione. Tutti i soldi che ci sono devono essere indirizzati alla scuola pubblica. A mia figlia che frequenta un istituto pubblico, la prima cosa che hanno chiesto è di portare a scuola la carta igienica perché non ci sono soldi. E poi il Comune finanzia con un milione di euro le private? insostenibile. In più il Comune non può chiedere alle famiglie che non trovano posto nelle scuole pubbliche di rivolgersi alle private, pagando comunque la retta.
Non è strano che tutto ciò accada a Bologna, in una terra storicamente di sinistra e da sempre all’avanguardia nell’istruzione?
È stata un modello, le scuole per l’infanzia sono nate qui. Ma proprio a Bologna, a metà degli anni 90 si è invertita la tendenza con la concessione di finanziamenti alle scuole private, che sono cresciuti a dismisura. Di fronte a una diminuzione delle risorse per gli istituti pubblici. Le scuole private sono, come dicevo, spesso confessionali. E se io sono ateo? O musulmano? Non sono inclusive, ma esclusive. Costano, perché quei soldi non vanno alle famiglie per la retta, ma alle scuole. Che magari sì, potranno scegliere di fare uno sconto. Ma costano comunque.
Dicono che siete ideologici...
Se difendere la Costituzione è ideologico, ben venga l’ideologia. Io sono per una scuola gratuita, laica e aperta a tutti. SiT

Corriere 22.5.13
Bologna, maggioranza in bilico Tensioni a sinistra sulla scuola
Referendum, lite Pd-Sel. L'ex ministro Berlinguer lo boccia

di Francesco Alberti

BOLOGNA — Ma non si parlava di scuole d'infanzia e di soldi pubblici da abolire? Evidentemente no. Ormai anche i bambini hanno capito che, sotto la cenere referendaria, altro brucia. Come in tutte le guerre di religione, il clima si fa cattivo sotto le Due Torri in vista del referendum consultivo di domenica sull'abolizione o meno dei contributi comunali alle materne (un milione l'anno). Talmente aspro che rischia di farne le spese anche la giunta guidata dal pd Virginio Merola.
L'asse tra Democratici e Sel vacilla paurosamente, almeno a parole, sotto il peso di una partita che vede i due alleati, non solo su opposte posizioni (i primi a favore del mantenimento dei finanziamenti così come Pdl, Udc, Scelta Civica, Cei, Cisl, Industriali e Romano Prodi; i secondi per la soppressione assieme ai 5 Stelle, ad «Articolo '33» e a spezzoni dell'associazionismo), ma divisi da un crescente livore. A squarciare il velo su un duello che si gioca su un doppio binario, cercando di fare del referendum bolognese una sorta di test nazionale, è stato ieri il consigliere regionale di Sel, Gian Guido Naldi, che, dai microfoni di Radio Tau, ha accusato il sindaco «di volerci buttare fuori dalla giunta», addirittura «di voler fare un governissimo con il Pdl»: un sospetto, secondo l'esponente vendoliano, alimentato «da discorsi che ricalcano, sul tema dei privati, un'impostazione tipica della destra». Parole che, paradossalmente, consentono a Merola di ribadire ciò che sostiene da giorni e che ieri ha ripetuto: «C'è chi pensa di approfittare del referendum per colpire ulteriormente il Pd e per costruire una nuova sinistra. Ma prima vengono i nostri bambini». E in ogni caso, qualunque sia l'esito della consultazione, il sindaco ha già detto che non smantellerà quel sistema integrato tra scuole comunali, statali e paritarie che, come ha ricordato l'ex ministro dell'Istruzione, Luigi Berlinguer, «ha consentito alle materne di Bologna di coprire il 98,4% delle domande, un vero record». Ma è ormai guerra a tutto campo. E come spesso capita quando il confronto cede il passo al muro contro muro, qualcuno esagera. Come Maurizio Cecconi, leader dei referendari, che, prendendo spunto su Facebook dalla vicenda della suora preside di un istituto privato, condannata ieri dopo che un alunno si gettò dal suo ufficio, ha scritto: «Succede nelle scuole private cattoliche di Bologna che…». Seguito dal link della notizia della condanna. Subissato dalle critiche, anche dei suoi stessi compagni referendari, Cecconi prima ha provato a difendersi («Non c'è relazione con il referendum»), poi ha di fatto rincarato la dose: «Sarebbe opportuno riflettere se la cultura cattolica non possa avere effetti di rigetto negli educandi». Di effetti, ma di altro genere, parla invece Roberto Gontero, presidente dell'Associazione genitori scuole cattoliche: «La vittoria dei referendari esporrà le famiglie al rischio di non avere posti e ad un aumento delle rette». Sarà un weekend bollente.

Corriere 22.5.13
Banca e democratici in difficoltà E a Siena il voto vale doppio
Dietro la sfida per il Comune c'è la partita per il controllo di Mps

di Sergio Rizzo

SIENA — Otto candidati sindaci, sedici liste, quasi cinquecento aspiranti consiglieri. Forse un po' troppi, per un Comune con 53 mila abitanti. Ma anche questa è una faccia dell'eredità balcanica lasciata dalla tragedia del Monte dei Paschi a Siena, città un tempo opulenta, e oggi ridotta come un ex ricco costretto a chiedere l'elemosina. L'ultimo affronto è la retrocessione della squadra di calcio in serie B. Dove ai proprietari, i costruttori Mezzaroma, non mancheranno le difficoltà, senza gli 8 milioni che ogni anno le garantiva il Monte.
E di una cosa si può stare sicuri: dopo le elezioni di domenica e lunedì niente sarà più come prima. Non tanto per lo scontato ballottaggio, che non si verificava dal 1993. Ma questo è niente. Il fatto è che il partito da sempre qui al potere, oggi il Pd, sventrato dallo scandalo Mps e conseguente salasso grillino di 7 mila voti, praticamente non c'è più.
Se n'è avuta la dimostrazione alle primarie che hanno incoronato il candidato democratico Bruno Valentini, dipendente (in carriera) del Monte come i tre sindaci che si sono alternati al Comune dal 1989 al 2011, prima dell'arrivo di Franco Ceccuzzi, silurato dopo un anno da un pezzo del suo partito. Soprattutto, è stato l'ennesimo scontro nel Pd fra lo schieramento che fa capo al presidente del consiglio regionale toscano Alberto Monaci, ex Dc, dominus della fondazione che controlla il Monte, e il fronte sostenuto dall'ex segretario diessino Ceccuzzi. I 500 voti che hanno fatto prevalere Valentini su Alessandro Mugnaioli, ex assessore della giunta sfiduciata un anno fa dai margheritini, sono lo strascico di un conflitto insanabile. Mille i motivi: l'arrivo di Alessandro Profumo alla presidenza della banca, voluto dal sindaco e avversata da Monaci, la gestione «monaciana» della fondazione, reduce da due catastrofici aumenti di capitale per l'insensata acquisizione per cassa della banca Antonveneta (inizialmente, va detto, approvata anche dall'ex sindaco), fino alle nomine nella sanità. Una guerra con un esito imprevisto: perché Ceccuzzi, in procinto di riprendersi il Comune, è stato poi costretto in panchina da una inchiesta giudiziaria su un finanziamento del Monte. E ora Siena, sfiancata da un anno di commissariamento, è alla resa dei conti finale.
In ballo c'è molto più della poltrona del sindaco. Ad agosto si rinnova la fondazione e l'attuale blocco di potere punta sulla continuità. È già circolato il nome di Giovanni Minnucci, capo del comitato elettorale di Valentini stimatissimo da Monaci, mentre qualcuno ha fatto anche quello dell'ex manager del Monte, Divo Gronchi. Figura dietro alla quale c'è chi intravede la sagoma ingombrante del patron della fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti.
Le corazzate, insomma, stanno già manovrando. Il nuovo statuto ridimensiona le prerogative municipali, ma il Comune continuerà ad avere un peso rilevante sulle decisioni strategiche. E non è un dettaglio. Un esempio? Profumo vuole abolire la clausola statutaria che limita al 4% i diritti di voto dei soci diversi dalla fondazione, che però è contraria. Anche perché la sua quota scenderà prima o poi al di sotto del 10% (per coprire i debiti) e l'estinzione di quella clausola renderebbe realmente scalabile la banca. Non è più tempo di vacche grasse, certo. I soldi sono finiti. Negli ultimi due anni la fondazione ha perso 525 milioni e il patrimonio e sceso a 673. Ma in una città dove i dipendenti della banca sono l'8% degli abitanti e il Comune occupa quasi 900 persone (in proporzione ai residenti quasi il doppio di Roma) la cosa può avere ancora un senso. Il potere, diceva Giulio Andreotti logora chi non ce l'ha.
Non è forse un caso che tutti i candidati siano d'accordo per emarginare Profumo. L'afferma da sinistra Laura Vigni. La promette da destra Eugenio Neri, sostenuto dal Pdl di Denis Verdini ma espressione di un cartello di liste fra cui Siena Rinasce di Maurizio Cenni, l'ex sindaco (comunista) dipendente del Monte promosso quadro direttivo, e Nero su Bianco, che fa riferimento ad Alfredo Monaci, fratello di Alberto. Ma la minaccia anche il grillino Michele Pinassi, aspettando l'arrivo di Beppe Grillo, previsto per domani, in una città dove molti non hanno digerito i suoi commenti al drammatico suicidio di David Rossi. L'unico a non chiedere la cacciata di Profumo è Alessandro Corsini. Lavora alla compagnia di assicurazione del Monte e della francese Axa, ed è figlio dell'industriale del caffè Silvano Corsini. Guida una lista civica vicina a Ceccuzzi, ma dopo il patatrac ha deciso di andare avanti per conto suo. Dice che la commistione fra la banca e la fondazione è «inaccettabile»: praticamente un marziano. Per questo molti credono non possa arrivare al ballottaggio.

Walter Rizzetto, deputato friulano di 37 anni, è uno dei cosiddetti “dialoganti” del movimento 5 stelle
l’Unità 22.5.13
«Montato un caso eccessivo Gabanelli? È imparziale»
di Andrea Carugati


Io mi muovo in piena coerenza con la Costituzione, con l’esigenza di trasparenza e con i pronuciamenti della Corte dei conti europea. Grillo non vuole né il controllo né la democrazia interna».
Grillo risponde a modo suo: «Le cercano tutte per metterci fuori gioco. C’è anche questa legge stupenda del Pd, fatta da una signora che è lì da 25 anni con la scorta per andare all’Ikea», ha attaccato durante un comizio a Lodi. «Se usciamo dalla scena noi veramente ci sarà un’esplosione di violenza. Ci vorrebbero far sparire con una legge. E il presidente della Repubblica non dice niente...».
«Da noi nessun attacco strumentale ai 5 stelle, ma ora bisogna fermarci e fare un’ulteriore riflessione su questa proposta di legge», dice la deputata Alessandra Moretti. Giuliano Amato invece difende la ratio del provvedimento: «Dire che qualcuno vuole rendere ineleggibile il M5S è troppo rispetto al fatto che è stato presentato un disegno di legge che nella scorsa legislatura tutti avevano presentato per avere partiti più trasparenti e democratici rispetto a quelli che avevamo», ha detto a Ballarò. «Bisognerebbe capire come mai quella stessa cosa che era richiesta a furor di popolo oggi a furor di popolo venga ripudiata».
«La proposta di legge del Pd sui partiti? Sinceramente mi pare prematuro stracciarsi le vesti. Il caso che si è montato è eccessivo. Io non sono per niente preoccupato...». Walter Rizzetto, deputato friulano di 37 anni, è uno dei cosiddetti “dialoganti” del movimento 5 stelle.
È una iniziativa per farvi fuori?
«Quel testo era stato già presentato nella scorsa legislatura, diciamo che è stato ripresentato nel momento sbagliato, tanto da apparire come qualcosa contro di noi. Vedo che anche nel Pd sono stati espressi parecchi dubbi, si parla di ritiro... Diciamo è meglio per tutti occuparci di cose più importanti, come i provvedimenti sul lavoro».
Non potreste adeguarvi a quelle proposte, darvi uno statuto e così via?
«Se l’idea è quella di costringerci a diventare un partito come gli altri, rispondiamo “no grazie”. Se non potremo candidarci alle elezioni continueremo a lavorare sul territorio come abbiamo fatto per anni.».
Caso Gabanelli. La vincitrice delle vostre Quirinarie, dopo un servizio in cui vi ha chiesto trasparenza sui finanziamenti, è diventata di colpo una traditrice.
«Milena Gabanelli resta una delle mie giornaliste preferite e a Report ha fatto semplicemente il suo lavoro, dimostrando la sua imparzialità». Eppure sul blog sono partite le critiche dei militanti...
«Quelle frasi sulla traditrice mi hanno colpito molto. Report ha sempre fatto inchieste su tutti, è assurdo dire che se fa le pulci a noi è asservita a Pd o Pdl».
Nel merito delle domande che vi ha rivolto sui conti del blog lei cosa pensa? «Guardi, noi deputati non siamo dentro il blog, lo osserviamo dall’esterno. Il blog è una piccola azienda che ha i suoi costi e i suoi ricavi. Quando sarà pubblicato il bilancio vedremo i conti. Su una cosa però mi sento sicuro: sui soldi noi 5 stelle siamo i più onesti di tutti».
Casaleggio non ha voluto rispondere alle domande.
«Cosa vuole che le dica, io avrei risposto. Ma sono solo un deputato...» Un’altra accusa è che voi avete parlato solo di scontrini...
«Io preferisco parlare di temi del lavoro piuttosto che di ricevute. C’è qualcosa di un po’ voyeuristico nei nostri confronti da parte dei media.».
Non sarà colpa dell’ossessione con cui voi avete battuto sui costi della politica?
«Certamente la responsabilità è anche nostra. E capisco l’attenzione e il rigore dei nostri militanti su questo tema. Ma spero che verremo giudicati per quello che faremo...».
Sul caso diarie è esploso anche il tema del dissenso interno. Tutto risolto? «Non mi piacciono le liste nere e le gogne mediatiche e l’ho detto apertamente». Pensa che certi metodi saranno utilizzati o minacciati ancora? «Sinceramente non lo so, spero proprio di no. Guai se il dibattito interno fosse soffocato».
Vede il rischio che il M5S prosegua solo coi toni distruttivi?
«C’era bisogno di una scossa alle istituzioni, ora però è il momento di costruire. Vedo che Grillo si è rivolto ai giovani del Pd per fare qualcosa insieme. Mi sembra una buona idea. C’è tanto lavoro da fare...».

l’Unità 22.5.13
Grillo network. Non solo web
Tv e stampa nella fabbrica del consenso
di Michele Di Salvo e Roberto Rossi


DALLE SINERGIE, ANCHE SOCIETARIE, CON LA «TV» DI SANTORO E «IL FATTO» SI È CREATO UN TERZO POLO. CHE FA POLITICA A TUTTO TONDO E CHE PASSA DALLE MAGLIE DELL’ANTITRUST

Tra le tante leggende che aleggiano attorno alla figura politica di Beppe Grillo c’è n’è una che andrebbe smontata. Ed è quella che l’ascesa del movimento politico legato al comico genovese, il Movimento 5 Stelle, sia dovuta solo all’utilizzo di Internet e che la sua fortuna elettorale sia nata con un innovativo metodo di comunicazione.
Che all’origine del fenomeno ci sia cioè un metodo tutto centrato, come teorizzato da Gianroberto Casaleggio, guru e deus ex machina del movimento, sul web. La genesi del fenomeno Grillo, invece, è differente. La sua immagine è stata costruita e cementata nel tempo da una vera e propria fabbrica del consenso che è partita certamente dal web, ma ha utilizzato, per il grande salto, soprattutto televisione e carta stampata.
Con la creazione, alla fine, di un vero e proprio network ambientale legato e diretto in base a un’unica strategia.
Per capire la costruzione di un’opera fortificata nel corso degli anni bisogna ridisegnare il perimetro di quello che sino a ieri eravamo abituati a considerare come un normale network dell’informazione. Partendo dai criteri economici comuni, consideriamo un network di informazione quello che, in maniera diretta o indiretta, fa capo ad un unico soggetto proprietario. Ad esempio: il gruppo l’Espresso, quotato in Borsa, è nelle mani di De Benedetti, News Corp, invece, ha come principale azionista Rupert Murdoch. Questo modello, applicato all’informazione, prevede enormi investimenti, e vista la capitalizzazione corrente rende pressoché impossibile la formazione di nuovi gruppi editoriali di dimensioni adeguate per competere sui mercati.
IL NETWORK AMBIENTALE
Ma c’è un’altra via per raggiungere lo scopo. Creare una rete tra soggetti affini che si rilanciano i rispettivi contenuti. Senza intrecci azionari diretti o indiretti, se non minimi, senza accordi commerciali che prevedano posizioni di cartello. Il quadro normativo italiano, che considera solo gli aspetti societari e contrattuali, non prevede una simile fattispecie. La legge che regola l’editoria, dunque, mal si concilia con le nuove tecnologie di rete, che sono sempre più integrate tra loro con strumenti non solo interattivi e dinamici (per esempio i social network) ma in cui vi è una partecipazione diretta del pubblico nel fare la notizia (pensiamo allo street journalism o ai blog), che utilizza tutti i sistemi, dallo scritto all’audio al video alle immagini, e soprattutto che li integra, rendendo alle volte complesso definire cosa sia «tele-visione» da cosa sia giornale in senso tradizionale intesi. Dunque, al di fuori dei sistemi conosciuti e tradizionali, la nostra legge non prevede costrizioni particolari. E se questo è un bene per la capacità di creare network, non è detto che lo sia per la trasparenza del contenuto dell’informazione. Ed è qui che il sistema editoriale che fa riferimento a Grillo e gestito dalla Casaleggio e associati si muove. In compagnia di chi? Del giornale il Fatto Quotidiano e della televisione di Santoro, Servizio Pubblico.
Come si costruisce un sistema non tradizionale, «un network ambientale»? Il punto di partenza è la ricerca ed individuazione di un pubblico di riferimento. In Italia non è stato molto difficile. La crisi sistemica della nostra politica, ingigantita da quella economica, ha saldato una base di scontenti che prima di allora era spalmata e senza guida. L’impresa, ovviamente, ha richiesto intelligenza e professionalità, tuttavia alla fine si è catalizzato il malcontento e il pubblico di riferimento è stato trasformato in «base permanente», solida, quantificabile e valorizzabile. Il pubblico è audience, e in questa ottica genera risorse, che servono per rafforzare e finanziare il network. Per la prima volta quel pubblico si è sentito parte integrante di un progetto.
L’aggancio al network di Grillo è avvenuto con delle tecniche basilari nel mondo dell’informazione web. Le più diffusa è quella del rilancio dei rispettivi contenuti, in maniera da effettuare un travaso «spontaneo» più o meno fisso di lettori da un portale all’altro. È normale che ciò avvenga ad esempio tra soggetti facenti capo ad uno stesso gruppo editoriale, in maniera dichiarata, come ad esempio la Repubblica, che rilancia su carta e sul web contenuti de l’Espresso o di Radio Capital. Ed in questi casi al lettore è manifesta sia la linea editoriale sia le testate che il gruppo societario-editoriale di riferimento, ed al mercato è noto anche il soggetto che gestisce le inserzioni, siano esse esplicite o quelle editoriali-redazionali. Più complesso se ciò avviene senza questa stessa linea chiara e dichiarata. Naturalmente questo pubblico non deve uscire dal recinto delimitato. E come si fa? I contenuti del blog del comico genovese sono strutturati in modo da non portare traffico diretto all’esterno. Al massimo può generare accessi a siti a lui riconducibili: TzeTze, Cadoinpiedi, Chiarelettere, Movimento 5 Stelle e i social immediatamente riconducibili alla stessa gestione. Per fare questo si usano regole ferree e precise. Ad esempio: in qualsiasi articolo scritto, commento interno, video o altro contenuto, va evitato di pubblicare link esterni al network, e soprattutto va il più possibile evitato anche solo di citare soggetti esterni. Una seconda via riguarda l’indicizzazione dei contenuti. Basta, ad esempio, lasciare intuire che si parli di qualcuno senza citarlo che il sistema di indicizzazione della rete lo escluda dalle parole correlate. Facciamo un esempio: se Grillo scrivesse la parola Berlusconi, la rete darebbe risultati multipli e non sempre diretti al blog di Grillo; allora basta chiamarlo «psico-nano». E così con espressioni come «PDmenoL», che contribuiscono a non cedere traffico a soggetti che in maniera diretta o indiretta sono comunque attigui e limitrofi.
Questa rete di siti Internet ha generato un traffico complessivo di circa 3,5 milioni di accessi al giorno. Non sono poca roba. Il parco siti del gruppo l’Espresso (il più grande in Italia) ha accessi per 5 milioni di utenti al giorno. La differenza è che il gruppo ha un bilancio certificato e visibile che ha prodotto nel 2012 21 milioni di utili. Certo De Benedetti ha anche stampa e radio. E Grillo? Il comico genovese ha sempre detto che non ha giornali né televisioni, e che tutto il suo successo sarebbe da attribuire alla sola rete. Numericamente il suo solo blog tre anni fa generava 300mila accessi. Dopo tre anni si è arrivato a un milione e dato che certe cose in rete non avvengono per caso, come in nessuno strumento o canale di comunicazione, cosa è accaduto?
ARCHITETTURA DI RETE
La svolta coincide quando le sinergie di contenuto e di traffico si saldano con il Fatto Quotidiano. Basta dare un’occhiata ai dati di traffico di Alexa relativi ai flussi e agli accessi per farsi un’idea. In un primo tempo ciò avviene attraverso una serie di sinergie tra i giornalisti del Fatto, Chiarelettere, Cadoinpiedi, e soprattutto tramite il passaparola sul sito di Grillo. Attraverso questa cementazione di pubblico, anche il sito del giornale viene individuato come riferimento dal pubblico del blog di Grillo, che non solo interviene in maniera massiccia e crescente, ma che condiziona a livello ambientale la stessa linea editoriale, al punto che lo stesso Grillo che non apprezza alcun giornale dirà che «l’unico decente è il Fatto», e del resto l’unico che lo intervista è il vice-direttore Travaglio.
Il secondo passaggio è anche più significativo riguarda la trasmissione Servizio Pubblico che prende il via nell’autunno del 2011. La stessa nasce sulle stesse parole d’ordine di partecipazione diretta del pubblico, e per essere megafono della società civile. Ed ha come ospiti stabili proprio i giornalisti del Fatto. Anche qui: basta vedere le tabelle di «Click-stream» dei relativi siti per verificare da chi ricevono traffico e a chi lo cedono.
Se volessimo esaminare questo network secondo le logiche dell’azionariato diretto, come siamo abituati a fare per le aziende, sbaglieremo sia metro che parametro. Il vero patrimonio dei nuovi contenitori della comunicazione è il pubblico acquisito e semmai scambiato. Il patto, per competere, non è tanto sociale o parasociale, legato a un controllo preciso (e verrebbe da dire anche trasparente). Il collante delle strategie di rete nel web è la capacità virale di creare audience e accessi, e questa la si misura in altro modo e con gli strumenti adeguati e propri del web come vedremo.
Certo ci sono tuttavia alcuni elementi «old economy». Ad esempio, tra gli azionisti di Servizio Pubblico o, meglio della società che lo realizza, la Zerostudio’s, figura proprio il Fatto Quotidiano con una quota di azioni nominali pari a 45mila euro. Il Fatto è partecipato da Chiarelettere, ed è amministrato da Cinzia Monteverde, che poi guida anche la «tv» di Santoro.
Parlare di «tv» nel caso di Santoro non è fuorviante. Servizio Pubblico è identificata come società di produzione televisiva, e non ha concessioni dirette, limitandosi a «noleggiare» la banda da Sky prima e La7 adesso. Ma il sistema è molto border-line che sfrutta al massimo la vacatio legis per cui da un lato non puoi avere una televisione e un quotidiano ma nulla ti impedisce di produrre un contenuto e non «venderlo» a una televisione bensì noleggiare la banda di trasmissione di quella emittente senza che ciò sia incompatibile con la legge. Anche se di fatto questo configura che per almeno due ore a settimana tu sia a tutti gli effetti una televisione.
LA MASSA DI GRILLO
Dunque è grazie alla televisione e alla sinergia con un quotidiano che il fenomeno Grillo esce dalla rete e diventa «di massa». E ciò riguarda i soggetti, ed ancor più come vengono elaborati e gestiti i contenuti. Se ad esempio il VDay non fosse andato in onda, sarebbe rimasta una manifestazione di piazza, così come tutte le altre che sono seguite. Se ragioniamo in questa ottica possiamo anche scardinare il concetto della non-presenza in tv. Certo, Grillo non va ospite nei talk, ma questo conta in senso negativo o positivo? Se contiamo il minutaggio televisivo in cui Grillo è stato presente nei tg, scopriamo che ha superato quello dei leader, ad esempio del Pd (indagine statistica indipendente di CrossMedia Ltd mediante un controllo a campione di 12 tg e 24 trasmissioni di approfondimento pre elezioni e pre par condicio: Grillo va dal 35% dei tg al 53% negli approfondimenti alcuni monotematici su di lui). Quanto regge davvero la tesi secondo cui «solo web e niente tv»?
Non da ultimo va considerato quanto Grillo usi e riusi i contenuti tv e video, attraverso il proprio blog e soprattutto attraverso un vero e proprio archivio di oltre 4mila contenuti presenti sul suo canale youtube, che se considerassimo i dati dichiarati, ha un pubblico fidelizzato di circa 300mila spettatori e ha avuto uno share di oltre 103milioni di visualizzazioni. Se consideriamo che la tutta la Rai complessivamente arriva a 570milioni e La7 è «ferma» a 46milioni, i conti sono presto fatti. Se però volessimo considerare l’intera architettura di rete, includendo nei numeri di prima, anche il traffico, il pubblico, e le relative interazioni, de Il Fatto Quotidiano e Servizio Pubblico, ci accorgeremo che, complessivamente inteso, il network ambientale raggiunge oltre 5milioni di accessi quotidiani.
Per dimostrare questa architettura di rete occorrono dati. Un network di primo livello, solo web, lo si dimostra semplicemente verificando chi materialmente gestisce i siti. Ed in maniera palese sappiamo che la Casaleggio Associati gestisce TzeTze, Cadoinpiedi, Chiarelettere, Beppegrillo, Movimentocinquestelle, Lacosa, i profili social, tra cui non ultimi il canale Youtube e lo streaming parlamentare...
Questo significa, però, anche gestire tutta la macchina di pubblicità diretta (ad esempio le inserzioni «adesense») quella indiretta (ad esempio il merchandising di Grillo, ma anche le affiliazioni come quella con Amazon) ed una terza, molto interessante, che riguarda le «campagne dirette», di cui troviamo notizia qui www.beppegrillo. it/adv. Anche se dei ricavi e di quanto si incassa, per ora, non abbiamo notizia.
Per quanto riguarda invece un network, che potremo chiamare allargato, dobbiamo affidarci un po’ più alla tecnologia ed entrare nel mondo della rete, anche con il lessico e con le relative categorie semantiche. Tutte le attività che abbiamo descritto all’inizio, dal semplice commento ai re-link diretti, alle condivisioni social, hanno come obiettivo quello di spostare traffico, e direzionarlo.
IL TRAFFICO
Per dimostrarlo ci basta «misurare» il traffico, in termini di provenienza, e in termini di uscita. Utilizzando semplicissime tabelle (pubblicate qui a fianco), espresse in dati percentuali, possiamo facilmente rilevare «da dove» il Blog beppegrillo.it riceva la maggiore percentuale di visitatori. Contemporaneamente possiamo vedere con una tabella parallela «dove vanno» quei visitatori successivamente, ovvero a chi il blog «cede» traffico. Scopriamo ad esempio che moltissimi visitatori «cliccano» sulla pubblicità (unico modo per comprendere tanti click su Google e Amazon in uscita) e possiamo verificare anche che la crescita del sito è essenzialmente data dalla forte attività sui social network. Quanto al resto notiamo come il traffico si muova all’interno del network, mentre certamente prende pubblico, più di quanto non ne restituisca, a repubblica.it e corriere.it. Le stesse tabelle sono state elaborate sugli altri principali siti del network. E questo mostra essenzialmente come si tratti di una strategia unica e precisa e non di una casualità.
Facciamo ora un’analisi più profonda. Una sorta di «prova del nove» del fatto che si tratta dello stesso pubblico. Per farlo usiamo le «descrizioni ambientali», ovvero cerchiamo di capire le caratteristiche di chi visita il sito di Grillo e le paragoniamo alla stessa schematizzazione di altri siti di riferimento. Queste tabelle (in basso) ci mostrano come il pubblico sia lo stesso, sotto ogni punto di vista.
Nessun network può dirsi «finito». Non è una questione di non darsi limiti di crescita, ma semplicemente fare i conti con la realtà della competitività sui contenuti, e soprattutto perché maggiore è il pubblico del tuo competitor e maggiori sono i rischi di perdere il terreno acquisito. Se vogliamo avere un’idea, almeno tendenziale, di dove verrà acquisito nuovo pubblico, ci basta vedere la «rilevant list» dei siti che secondo Google e Alexa sono in qualche modo affini alla rete di Grillo: repubblica.it, arsbloggandi.blog.excite.it, unita.it, punto-informatico.it, poliziadistato.it, partitodemocratico.it, lastampa.it, ilsole24ore. com, ilgiornale.it.
E quindi non stupisce, ed acquista un senso tecnico preciso, che i contenuti del blog di Grillo (ma anche la linea editoriale de il Fatto o le trasmissioni di Santoro) e le sue posizioni politiche, si spostino su temi come la sicurezza informatica, la legalità in rete, e che vi siano attacchi sistematici alla stampa «canonica».
In termini di elettorato chiaramente questo bacino di utenza è nel centrosinistra, e la strategia è quella sin qui vincente, del commento almeno in parte spontaneo a qualsiasi articolo rilevante in termini di letture (indipendentemente dal tema). Strategia ovviamente inimmaginabile in una blogosfera matura, ma perfettamente funzionale in un panorama in cui anche i grandi gruppi editoriali non si dotano di una strategia, e quindi di una struttura, di reazione.
Grillo la ha fatto, con stampa e tv.

La Stampa 22.5.13
Più controllo sui deputati M5S. Arriva la “scorta” per le interviste
L’invito ai parlamentari: fatevi affiancare dai comunicatori
di Andrea Malaguti

qui

Corriere 22.5.13
I Cinquestelle dipendenti dal Capo ma la Costituzione vale anche per loro
di Massimo Teodori


Indipendentemente dal giudizio generale sul Movimento 5 Stelle, a me pare che molti suoi atti si qualifichino da soli in senso grottesco. È il caso dei 162 parlamentari che per giorni hanno discusso se tenere per sé 2.500 o 3.000 euro della diaria, se consegnare gli scontrini delle consumazioni, e se rendere conto della loro vita quotidiana a Roma. Del resto è noto che le retribuzioni dei parlamentari italiani sono tra le più alte d'Europa perché una parte di quel denaro prende la via dei partiti di appartenenza, secondo una regola largamente praticata soprattutto dalla sinistra prima comunista e poi democratica.
La vera contraddizione di Grillo, però, è tra le roboanti proclamazioni di trasparente democrazia e le effettive pratiche di una opaca gestione, come ha messo in rilievo Report di Milena Gabanelli. Che il rapporto tra il capo e gli eletti si incentri sulla quantità di denaro che questi possono tenere per sé non ha dunque soltanto un sapore demagogico, ma nasconde anche il sotterfugio autoritario con cui la diarchia Grillo-Casaleggio tiene al guinzaglio la schiera dei parlamentari privandoli d'ogni forma d'autonomia. È perciò un errore l'iniziativa dei Democratici di imporre la messa al bando del movimento con una discutibile legge d'impronta statalista sui partiti. Il ridimensionamento del grillismo avverrà solo quando la buona politica saprà prendere onesti provvedimenti per il Paese e per se stessa. Il sequestro del denaro degli eletti pentastellati, il legame forzoso con le parole d'ordine del capo, e il trasferimento del denaro pubblico verso le attività del supremo controllore, sono tutti atti di una schiavitù politica alla 1984 di Orwell.
Ma tale autoritarismo non si combatte con contro-provvedimenti autoritari: anche per i grillini dovrebbe valere la bussola della Costituzione che all'articolo 67 recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», e al 68 prevede che «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni».

Corriere 22.5.13
Come è ricordato il passato in Germania e in Italia
risponde Sergio Romano


Sono stato a Berlino e mi ha stupito come la città dia spazio al ricordo del tragico periodo nazista. Tra la porta di Brandeburgo e il Reichstag c'è un memoriale delle vittime dell'Olocausto; dinanzi all'ingresso dei musei ci sono gigantografie dei personaggi deceduti o perseguitati dal regime; un altro memoriale spiega attraverso un dettagliato percorso fotografico, a volte anche duro, come Hitler conquistò il potere fino a scatenare la seconda guerra mondiale; c'è persino un cartello che segnala dove era situato il bunker in cui si consumò la fine del regime. Molte le scolaresche in visita composta, molti i turisti e i tedeschi stessi osservavano in rispettoso silenzio. L'impressione è che la Germania abbia saputo storicizzare il suo passato scomodo, anziché prendere la pericolosa scorciatoia dell'oblio. Mi chiedo perché in Italia non sia ancora possibile un simile atteggiamento nei confronti del fascismo, che invece ancora divide l'opinione pubblica. Sarà mai possibile avere anche a Roma, magari a piazza Venezia, un luogo permanente che ricordi il ventennio, come Berlino ha fatto col nazismo, o la nostra coscienza non sarà mai matura per una tale iniziativa?
Francesco Valsecchi

Caro Valsecchi,
Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Germania scelse risolutamente la democrazia e fece del suo meglio per meritare la fiducia dei Paesi contro i quali aveva combattuto sino al 1945. Ma preferì parlare del suo passato nazista il meno possibile. Il cancelliere Adenauer scelse alcuni dei suoi collaboratori fra persone che avevano servito il regime e vi fu persino l'affare del capo dei servizi di sicurezza (Otto John) che fuggì nella Germania comunista per denunciare la freddezza con cui le autorità della Repubblica federale commemoravano l'eroica congiura contro Hitler del luglio 1944. Il grande processo al passato e il mea culpa collettivo cominciarono con l'ingresso del social-democratico Willy Brandt nel governo (1966) e soprattutto con i moti studenteschi degli anni seguenti. Una nuova classe dirigente e una nuova generazione erano pronte ad affrontare un problema etico e politico che la generazione precedente aveva prudentemente accantonato.
La situazione italiana fu alquanto diversa. L'antifascismo divenne subito l'ideologia ufficiale della Repubblica e fu celebrato con una festa nazionale (il 25 aprile), commemorazioni annuali di particolari ricorrenze, monumenti, targhe, lapidi, modifiche della toponomastica, fondazione di istituti per gli studi sulla Resistenza. Ma fu subito evidente che l'Italia presentava, rispetto alla Germania, parecchie differenze. Il periodo fascista era stato più lungo e il regime non si era macchiato delle colpe imputabili al nazismo (Paolo Mieli ricordò qualche anno fa che i comunisti italiani «giustiziati» in Unione Sovietica furono più numerosi degli oppositori condannati a morte dal regime fascista). Il confino non era il lager, la guerra d'Etiopia era piaciuta agli italiani, la guerra di Spagna era piaciuta alla Chiesa e molte delle istituzioni economiche e sociali create dal regime, dall'Inps all'Iri, erano state adottate dall'Italia repubblicana. Questa contraddizione italiana è ancora più evidente quando constatiamo che alcune città impeccabilmente antifasciste vanno orgogliose delle iniziative urbanistiche, artistiche e architettoniche realizzate dal «ras» fascista che fu il loro protettore negli anni del regime: Italo Balbo a Ferrara, Roberto Farinacci a Cremona, Giuseppe Volpi a Venezia, Araldo di Crollalanza a Bari. Fu questa, caro Valsecchi, la ragione per cui il Guardasigilli Palmiro Togliatti si affrettò a promulgare una generosa amnistia e la classe politica, a dispetto della legge che lo vietava, chiuse gli occhi sulla rinascita di un partito fascista.

l’Unità 22.5.13
Sant’Anna di Stazzema
La Germania archivia la strage. L’Anpi: indignati


La Procura generale di Stoccarda ha respinto il ricorso contro l’archiviazione del massacro nazista di Sant’Anna di Stazzema, in cui furono uccisi 560 civili italiani durante la Seconda Guerra Mondiale. Il primo ottobre scorso la giustizia tedesca aveva deciso di archiviare l’inchiesta nei confronti di otto ex funzionari delle SS, accusati di avere partecipato al massacro, a causa di «elementi insufficienti». Ieri la Procura generale di Stoccarda ha ribadito che non ci saranno ulteriori indagini, respingendo così la richiesta della legale Gabriele Heinecke, che rappresenta Enrico Pieri, presidente dell’Associazione Martiri di Sant’Anna e sopravvissuto della strage avvenuta il
12 agosto 1944. Ultima spiaggia è ora la Corte costituzionale di Karlsruhe, più alta istanza giudiziaria in Germania. «Per la strage in questione ricorda Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi alcuni responsabili sono stati condannati, in Italia, all’ergastolo, con sentenza divenuta definitiva. Possibile che non se ne tenga conto e che si pensi di chiudere la vicenda con un tratto di penna? Ciò che colpisce è che il presidente tedesco è andato quest’estate a Sant’Anna, ha fatto un bel discorso, si è rammaricato di quanto accadde e ha parlato della necessità di una memoria condivisa. Ma come sarà possibile dopo questa sentenza? Sono indignato».

l’Unità 22.5.13
L’Spd compie 150 anni I riflessi per l’Europa
di Giacomo Filibeck


IL 150° ANNIVERSARIO DEL PARTITO SOCIALDEMOCRATICO TEDESCO È UN APPUNTAMENTO CARICO DI SIGNIFICATO sia per la sua portata storica che per il messaggio politico che vuole trasmettere in Europa e oltre. Innanzitutto c’è l’orgoglio dell’appartenenza a un partito nazionale le cui idee e il cui protagonismo hanno segnato intere pagine sia del pensiero politico internazionale che della storia del nostro continente. Ci basti pensare al ripensamento ideologico nel congresso di Bad Godesberg nel ’59 o all’ostpolitik voluta dal cancelliere, e premio nobel della pace, Willy Brandt.
Oggi a Lipsia riscontriamo però che nelle intenzioni degli organizzatori c’è la volontà di andare oltre la commemorazione celebrativa. Il programma dei festeggiamenti è stato infatti pensato per sfruttare al meglio l’occasione, affrontando il presente della crisi europea e guardando, oltre il nostro continente, alla sostenibilità futura di una rinnovata agenda progressista globale. La profonda difficoltà dell’Unione Europea a riscoprire lo slancio ideale della propria missione e a condividerne le motivazioni con una cittadinanza sempre più scettica rispetto al processo d’integrazione, coincide con la decennale fase di perdurante incapacità della sinistra europea a riconquistare stabilmente i consensi elettorali del passato. Evito di passare in rassegna il radicale capovolgimento degli equilibri in seno al Consiglio Europeo dalla fine degli anni 90 a oggi e mi limito all’attualità dei tre grandi Paesi del continente. Non possiamo nasconderci che l’entusiasmo per aver portato Hollande all’Eliseo nella primavera dello scorso anno è stato facilmente minato dalle crescenti difficoltà del governo francese e dalla nostra non-vittoria elettorale. Se poi volgiamo lo sguardo a Berlino, dove ci si avvicina alle elezioni federali di settembre, vediamo una cancelliera salda nei sondaggi e un’opposizione che a detta degli osservatori più cinici altro non spera che nella possibilità di una junior partnership nella grosse koalition.
È in questo delicato contesto che la riunione del Pes tra capi di partito e primi ministri di questa sera assumerà una nuova centralità. Oltre a essere un momento di confronto e preparazione per il decisivo Consiglio Europeo di giugno prossimo, la presenza di Letta e l’asse con i francesi per rilanciare la crescita abbandonando politiche di austerità fine a se stesse, saranno infatti elementi di novità molto attesi da tutti i partner, l’incontro sarà anche la cornice entro cui si delineeranno i primi passi di un’iniziativa politica da tempo invocata nel campo dei progressisti: l’elaborazione di un progetto e di una candidatura comune per la presidenza della Commissione Ue. L’Spd lancerà il nome di Martin Schulz, dimostrando così di saper immaginare il proprio ruolo al di là della sfida interna con la Merkel e rendendosi protagonista del cambio di paradigma necessario nella partita delle elezioni europee del 2014. Offrire alternative chiare agli elettori e fare finalmente della competizione per il parlamento di Strasburgo una vera sfida politica sul destino dell’europea e non solo il classico referendum sul gradimento dei governi in carica a livello nazionale potrà essere un’occasione di rinascita per l’Unione stessa.
L’obiettivo di un’Europa diversa da quella a maggioranza conservatrice non è però di per sé sufficiente. Le cause dei nostri problemi odierni non derivano esclusivamente dagli errori del passato ma anche dagli squilibri che affliggono tutto il sistema internazionale.
Siano essi di natura economica e sociale, ambientale o politica, è evidente a occhio nudo il disordine in cui ci si muove sul piano globale. Da qui la decisione di Sigmar Gabriel di voler aprire oggi i festeggiamenti del 150° con la fondazione ufficiale della Progressive Alliance. L’esigenza di un’alleanza globale tra partiti progressisti non necessariamente di matrice socialista, social democratica o laburista, deriva in primis dalla necessità di far incontrare movimenti politici alternativi ai conservatori e alle forze liberiste, per condividere battaglie, riconoscersi in valori comuni e aiutarsi reciprocamente nelle competizioni elettorali.
Il Pd è stato in questi anni in prima linea nel promuovere la creazione di una piattaforma più ampia del perimetro tradizionale dell’Internazionale Socialista e con una membership meglio selezionata per evitare di ritrovarsi nella stessa organizzazione con partiti che avessero smarrito negli anni l’ancoraggio ai valori di libertà e democrazia originariamente propri dell’Is (vedi l’Npd di Mubarak o l’Rcd di Ben Ali). Ritengo sia giusto ricordare che il dipartimento esteri guidato da Lapo Pistelli, in piena sintonia con Pier Luigi Bersani e grazie anche alla fruttuosa collaborazione con Dario Franceschini, allora capogruppo alla Camera, ha organizzato a Roma negli ultimi due anni regolari appuntamenti tra i leader parlamentari progressisti di ogni regione del mondo e nello scorso dicembre la prima riunione mondiale della Progressive Alliance.
Pur nella complessità della fase che attraversiamo dobbiamo esser fieri di questo lavoro svolto poiché un vero partito politico, quale siamo e possiamo continuare a essere, ha anche l’obbligo di perseguire il proprio ruolo e vocazione sul piano europeo e internazionale oltre che su quello nazionale. Non avremo certamente la solidità di 150 anni di storia ma l’esperienza degli amici tedeschi è utile a rammentarci che i progetti politici durano nel tempo solo se alla base vi sono sia solidi convincimenti collettivi che il senso di appartenenza a un destino comune e non di certo meri interessi tattici, estemporanei e individuali.

La Stampa 22.5.13
I socialdemocratici europei lanciano l’Alleanza Progressista
Oggi l’incontro a Lipsia per andare oltre l’Internazionale socialista
L’obiettivo è coinvolgere anche i partiti dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina"
Il comppleanno dell’Spd è l’occasione per il meeting odierno: ci saranno anche Letta, Bersani e D’Alema
di Antonella Rampino


L’ Europa socialdemocratica e center-left manda in soffitta l’Internazionale socialista. Enrico Letta da Bruxelles dove si discute di politica energetica comune europea - «O adesso, o mai più» ha messo per iscritto Jacques Delors oggi pomeriggio volerà a Lipsia, la città che darà i natali all’«Alleanza Progressista». Un club molto meno ottocentesco della vecchia Internazionale - nella quale il Pds di Occhetto entrò solo con il via libera, per il Psi, di Gianni De Michelis - nel quale i socialisti del Vecchio Continente - praticamente tutti, a Lipsia ci sarà anche il labour di Ed Miliband che col premier italiano avrà un faccia a faccia - contano però di annoverare, se non proprio il Terzo Mondo, che dell’Is è residenza stabile, almeno i paesi cosiddetti Brics, i latino-americano, gli asiatici, anche gli africani che hanno imboccato la via dello sviluppo.
Le ragioni della nuova configurazione internazionale della sinistra sono presto dette: coordinare e cercare piattaforme comuni (come si chiamano in gergo i profili di programma) prima di andare al governo, e fare in modo che quelle ragioni e tensioni ideali non finiscano nel sottoscala - com’è sempre stato - appena al governo ci si arriva, salvo poi magari perdere la volta dopo le elezioni. Il legame tra elezioni e politica nell’associazione di raccordo internazionale - che come si può capire interessa particolarmente i democrats statunitensi, tanto che a Lipsia arriverà anche Howard Dean serve particolarmente a dare omogeneità alle configurazioni di centrosinistra europee, a fare squadra comune, ad affrontare insieme i problemi e a mettere in comune le «issue», le soluzioni: e come è noto, sempre più nella Ue i problemi sono comuni. Ed è tale che tatticamente questi vertici tra socialisti europei sono stati praticati prima della vittoria di Hollande in Francia, e così avrebbe dovuto essere anche nelle riunioni - le «dalemeidi» furono ribattezzate in casa Pd - di Torino, che celebrarono anticipatamente l’arrivo di Bersani a Palazzo «Pigi». Così, come è noto, non fu. Ma, ci disse in quell’occasione Massimo D’Alema, «a Lipsia ci sarà un’ulteriore riunione, siamo impegnati per la vittoria dei progressisti ovunque in Europa». Oggi a Lipsia comunque D’Alema ci sarà, da presidente del rassemblement delle fondazioni europee di sinistra che offre stasera la cena di gala. A quell’ora, terminati gli incontri dell’Alliance, Letta sarà gia sull’aereo di rientro a Roma.
L’iniziativa l’hanno presa i tedeschi, la Spd. Ma è anche un po’ un effetto ottico: a Lipsia arriverà Hollande, il segretario Psf Harlem Désir (che al «Monde» ha confidato all’inizio del mese di essere ancora affezionato, da socialista ancorché giovane, alla vecchia Internazionale) e perfino la cristiano-democratica Angela Merkel perché l’invito - e l’occasione - è il compleanno della Spd: i socialdemocratici di Berlino compiono 150 anni. Un evento, per l’intera Europa: il clou sarà nella giornata del 23, con tanto di festa nella piazza del mercato. Invitato personale di Steinbrueck, il candidato Spd che deve contendere in ottobre il cancellierato a Merkel, anche Pierluigi Bersani, mentre l’appena nominato segretario Pd Guglielmo Epifani non ha fatto in tempo ad inserirlo nell’agenda.
«Ecco, noi festeggiamo i 150 anni dell’unità d’Italia, loro hanno partiti che hanno la stessa età dell’Italia» nota Lapo Pistelli, oggi viceministro degli Esteri, in realtà lo sherpa che - in giro per mezzo mondo - ha tessuto per tre anni l’Alliance, secondo quella che - va detto - fu una troppo precoce intuizione di Rutelli ai tempi della Margherita. Tre anni di riunioni tra Roma, Parigi, Londra, Oslo, convincendo anche i Democratici Usa. Adesso, si apre la corsa alla segreteria dell’Alliance, in forma di board internazionale. E alla sede stabile: Londra no, perché c’è già l’Is. Ma nemmeno Roma, non ci sono i fondi. Forse, potrebbe dunque essere Washington.

l’Unità 22.5.13
Perché il Mediterraneo ha bisogno di politica
di Umberto De Giovannangeli


Se fino a poco tempo fa era una prospettiva suggestiva, ora è una necessità vitale. Con l’Italia direttamente chiamata in causa. Dalla Libia alla Siria, dal Maghreb al Medio Oriente, la sponda Sud del Mediterraneo rischia di trasformarsi in un’immensa area destabilizzata.
La «nuova Libia» del dopo-Gheddafi sembra essere diventata la nuova trincea africana di al-Qaeda. La guerra in Siria si va sempre più trasformando in un conflitto regionale che potrebbe estendersi, in tempi rapidi, anche al Libano e a Israele. Il coinvolgimento di miliziani hezbollah nella cruciale battaglia di Qusayr, come il primo attacco ad un blindato israeliano nel Golan rivendicato da Damasco, danno conto di una situazione esplosiva. L’Italia è dentro questo scenario. Lo è perché nel sud del Libano è impegnata in una missione Onu (Unifil 2) di cui abbiamo la guida e che vede impegnati tremila nostri militari. Lo è perché siamo il primo Paese euromediterraneo che, per collocazione geografica e non solo per questo, è investito, il passato insegna, da una umanità sofferente che fugge dall’inferno delle guerre e delle pulizie etniche cercando rifugio, spesso negato, in Italia. È la tragedia delle «carrette del mare» che in questi anni hanno solcato, e in tanti, troppi casi, si sono inabissati sui fondali del Mediterraneo: i morti sono migliaia, e molti tra questi erano donne e bambini.
Barack Obama ha investito sull’Italia. Non si tratta solo di uno stato di necessità. L’amministrazione Usa investe sulla vocazione mediterranea del nostro Paese, quella vocazione che ha rappresentato il meglio della nostra tradizione diplomatica. Una vocazione che ora va proiettata in Europa, sull’Europa, rilanciando con forza quel «patto euromediterraneo» che guarda a Parigi e Madrid come partner coinvolgibili perché interessati. All’Italia, il capo della Casa Bianca, nel suo colloquio telefonico dell’altro ieri con il presidente del Consiglio Enrico Letta, ha chiesto di essere parte attiva di una iniziativa che possa salvare la Libia dal caos (armato) ed evitare che il Libano divenga di nuovo il teatro di una guerra ancor più devastante di quella che segnò l’estate del 2006. Questa iniziativa non può essere coniugata solo in termini di sicurezza, di intelligence, e di rafforzamento della presenza militare Usa nella base di Sigonella.
Il «patto euromediterraneo» deve essere molto di più. Una visione delle relazioni con il mondo arabo, che salvaguardi ciò che resta, e non è poco, di quelle istanze di libertà che sono state alla base delle «Primavere arabe». Sviluppare, in chiave europea, una vocazione mediterranea, vuol dire anche riportare al centro dell’agenda internazionale, e di una rinnovata partnership politica e di sicurezza Europa-Usa, la questione israelo-palestinese, dando sostanza al principio condiviso a Washington come nelle più importanti cancellerie europee, di una soluzione «a due Stati». Il fattore tempo è decisivo, perché Siria docet il tempo non lavora per la pace. Così come sarebbe un errore, un tragico errore, coltivare l’illusione di poter mantenere uno status quo, in Nord Africa e in Medio Oriente, che prima che dai jihadisti, è stato messo in crisi dai giovani della «rivoluzione jasmine», tunisina e dai loro coetanei egiziani di Piazza Tahrir.
Nel Mediterraneo c’è bisogno di politica, di una buona, lungimirante, politica. La cooperazione strategica tra Usa e Italia comincia dal Nord Africa. Ed è in questo contesto mediterraneo che l’Italia, e il suo premier possono conquistare quella forza e quel credito internazionale «spendibile» su altri, cruciali tavoli: come quello di una lotta alla disoccupazione giovanile che porta con sé un allentamento dei vincoli di bilancio (almeno di quelli temporali) e di un rafforzamento delle politiche di crescita. Concentrare la nostra azione nel Mediterraneo non è una concessione a un generico, quanto nobile, principio di dialogo e di solidarietà. È difendere i nostri interessi nazionali. Che, in questo caso, coincidono con quelli dell’Europa.
Perché un Mediterraneo in fiamme, con milioni di profughi, in balìa delle bande qaediste, imporrebbe a tutti i leader occidentali una nuova agenda di priorità, che avrebbe al primo posto la sicurezza e non lo svillupo, le armi e non la politica. Obama lo ha capito. E l’Europa?

l’Unità 22.5.13
Parigi.  Suicidio nella cattedrale: «No a nozze gay»
Scrittore francese si spara a Notre-Dame per protesta contro le nozze gay
Dominique Venner saggista francese di estrema destra aveva anticipato sul suo blog un «gesto spettacolare»
Ha lasciato una lettera Nei suoi scritti denunciava il rischio islamico
Marine Le Pen: «Un gesto eminentemente politico, ha tentato di risvegliare il popolo di Francia»
di Gabriel Bertinetto


Lo aveva annunciato nel suo blog. Dominique Venner, 78 anni, saggista e militante dell’estrema destra francese si è sparato ieri a Parigi all’interno di Notre-Dame: un gesto di estrema protesta contro la legge appena entrata in vigore che riconosce i matrimoni omosessuali.
In pieno giorno, in mezzo alla folla. Un uomo estrae di tasca una pistola, infila la canna in bocca, preme il grilletto. Sotto gli archi di Notre Dame il rumore dello sparo echeggia come un grido rabbioso. La rabbia di Dominique Venner, 78 anni, scrittore, storico e militante dell’estrema destra francese. Un suicidio per testimoniare in maniera disperata il proprio no alla legge appena entrata in vigore in Francia, che riconosce i matrimoni omosessuali, e protestare contro le derive islamiche del Paese.
Accade alle quattro del pomeriggio in uno dei più frequentati luoghi di Parigi. Meta di pellegrinaggi religiosi e di visite turistiche. Una cattedrale in cui entrano ogni anno tredici milioni di persone. In quel momento ce ne sono 1500. Venner ha con sé un’arma di marca Herstal e una lettera per spiegare le ragioni della terribile scelta. Il contenuto non è trapelato, ma probabilmente ricalca i ragionamenti espressi in un messaggio che lui stesso ha diffuso via internet poche ore prima.
«Ci vorrà certamente un gesto nuovo, spettacolare e simbolico per scuotere la sonnolenza, scrollare le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini», si legge su quello che possiamo considerare il testamento spirituale di Venner. Ed è probabilissimo che nel momento in cui scrive sul suo blog, abbia già deciso che sarà lui l’autore di quel «gesto».
Nel testo definisce «infame» la legge che autorizza le nozze fra gay. Ricorda che «può essere sempre abrogata», ma per raggiungere lo scopo «non basterà organizzare gentili manifestazioni di strada», come quella già programmata dai movimenti omofobi per domenica prossima. Verso di loro Venner esprime solidarietà: «Hanno ragione di gridare la loro collera». Ma oltre ai cortei servirà «una riforma intellettuale morale». Ed evidentemente lui crede di contribuirvi con l’effetto shock del suo suicidio nella cattedrale.
Notre Dame viene evacuata, arriva il ministro degli Interni Manuel Valls. Parla di «un dramma senza precedenti». Dice di essere venuto per «testimoniare il dolore e la solidarietà della Francia alla Chiesa cattolica». Definisce il tragico episodio come «il suicidio di un uomo disperato».
«MANIFESTARE NON BASTA»
Nel testo pubblicato sul blog, Venner, che all’epoca della guerra d'Algeria appartenne all’organizzazione razzista Oas, si scaglia anche contro gli immigrati, sviluppando un cervellotico accostamento fra la propria omofobia e quella degli estremisti islamici. «Bisogna rendersi conto che una Francia nelle mani degli islamisti fa parte delle probabilità afferma nel testo -. Ho appena letto un blogger algerino secondo il quale fra quindici anni gli islamisti saranno al potere in Francia e sopprimeranno la legge (sui matrimoni omosessuali). Non per fare piacere a noi, ma perché la legge è contraria alla sharia». Dunque, conclude Veller, «i manifestanti del 26 maggio non possono ignorare questa realtà. La loro lotta non può limitarsi al rifiuto del matrimonio gay». Insomma bisogna mobilitarsi sia contro i diritti dei gay sia contro i musulmani immigrati in Francia.
Da persona colta, Venner, che undici anni fa fondò la rivista Nouvelle Revue d’histoire, cita il filosofo Heidegger per ricordare che «l’essenza dell’uomo sta nella sua esistenza e non in un altro mondo». Dunque «è qui e ora che si gioca il nostro destino, fino all'ultimo secondo. Decidendo noi il nostro destino, si è vincitori del nulla». E come gesto politico il suo suicidio è stato interpretato da Marine Le Pen, leader del Front nationale, unica forza politica risparmiata dagli strali polemici di Venner. «Tutto il nostro rispetto a Dominique Venner il cui ultimo gesto, eminentemente politico, ha voluto tentare di risvegliare il popolo di Francia», scrive su Twitter.
Solo pochi giorni fa la Francia è diventata il quattordicesimo Paese al mondo nono in Europa a legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il presidente Hollande ha ufficialmente promulgato la legge che il Parlamento aveva approvato il 23 aprile e che il Consiglio costituzionale aveva poi ammesso come valida il 17 maggio, proprio nella giornata mondiale della lotta all’omofobia, dopo avere respinto i ricorsi depositati da alcuni parlamentari dell’opposizione di destra. La legge, che autorizza anche le adozioni da parte di coppie omosessuali, era stata uno dei cavalli di battaglia di Hollande durante la campagna elettorale.

Corriere 22.5.13
Dalla guerra d'Algeria alla Nuova Destra Lo storico militante che ammirava i samurai
di Antonio Carioti


Come storico prediligeva le cause degli sconfitti, Dominique Venner, forse perché lui stesso veniva da un'esperienza del genere. Figlio di un collaborazionista, si era arruolato giovanissimo nell'esercito e poi si era battuto per l'Algeria francese contro la scelta gollista della decolonizzazione, tanto da finire in carcere un anno e mezzo per la sua appartenenza al movimento armato Oas.
Non a caso s'intitola Il bianco sole dei vinti uno dei suoi libri tradotti in italiano (Akropolis, 1980): una storia della guerra di Secessione americana vista dalla parte dei sudisti, presentati come i difensori di una visione aristocratica della vita di fronte all'avanzare della società industriale di massa, fondata sul primato del profitto. E anche il suo saggio Baltikum (Ciarrapico, 1978) racconta le vicende di combattenti sconfitti: i reduci tedeschi della Prima guerra mondiale che andarono a formare i Corpi franchi di estrema destra (molti poi finirono al fianco di Hitler) per contrastare in primo luogo i comunisti, ma anche democratici come il ministro degli Esteri Walther Rathenau, assassinato nel 1922.
In Venner convivevano lo spirito del militante politico e la vocazione del narratore di storia. In gioventù aveva prevalso il primo aspetto, che nel libro Pour une critique positive lo aveva visto teorizzare la necessità, per la destra nazionalista, di imitare i modelli organizzativi dei comunisti e anche la strategia egemonica gramsciana. Poi si era dedicato soprattutto alla storiografia, con una produzione copiosa: non era un frequentatore di archivi, ma era dotato di una scrittura limpida e coinvolgente, capace di tenere inchiodato il lettore. Il bimestrale da lui fondato nel 2002, La Nouvelle Revue d'Histoire, gode di una discreta popolarità ed esce anche in edicola.
Venner era un fervido appassionato di armi e di caccia, su cui aveva scritto molto. Per esempio un altro dei suoi libri editi in Italia è Un certo signor… Colt (Ciarrapico, 1973), una biografia dell'uomo che inventò la pistola più famosa del West. Sarebbe però sbagliato considerarlo soltanto un divulgatore, perché ad alcuni suoi lavori è stato riconosciuto un rilevante valore scientifico: con un saggio sulla guerra civile russa seguita alla rivoluzione bolscevica aveva vinto nel 1981 il premio Broquette-Gonin dell'Académie française. Ma i suoi studi, soprattutto quelli sulla Resistenza e Vichy, erano stati anche oggetto di forti critiche per la loro impostazione ideologica.
D'altronde Venner non aveva mai nascosto le posizioni che ne avevano fatto uno degli ispiratori della Nuova Destra francese. Le aveva esposte nella sua autobiografia intellettuale Le coeur rebelle, uscita nel 1994 presso il prestigioso editore Les Belles Lettres, mentre è atteso in giugno un altro volume che sarà una sorta di testamento spirituale. Il titolo, Un samourai d'Occident, richiama l'ammirazione di Venner per il Sol Levante e per Yukio Mishima, scrittore giapponese morto anch'egli suicida nel 1970.

Repubblica 22.5.13
Il delirio finale della destra pagana
Quel cattolico senza dio prigioniero dell’odio
di Michela Marzano


«CI VORRANNO gesti nuovi, spettacolari e simbolici per scuotere le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini». È con queste parole che Dominique Venner, storico francese di estrema destra, annuncia sul proprio blog il suicidio di ieri. Dopo essersi recato alla cattedrale di Notre-Dame, Venner si è tirato un colpo di pistola in bocca davanti all’altare. Un gesto estremo e scioccante. Il cui valore simbolico, però, è estremamente ambiguo, soprattutto quando si pensa che i destinatari del messaggio eversivo sarebbero dovuti essere i militanti cattolici che si sono schierati in questi ultimi mesi contro la legge sul matrimonio gay. Di cattolico, d’altronde, lo storico e saggista francese aveva molto poco. Radicale ed estremista lo era senz’ombra di dubbio. Ma non nel nome di Dio o della fede.
IL SUO estremismo aveva radici atee e si nutriva di quell’odio per gli “altri” che in questi ultimi tempi, in Francia, si coniuga spesso e volentieri con l’omofobia e il razzismo. Venner era soprattutto noto come esponente di punta di quella “destra pagana” che rivendica non tanto le origini Cristiane dell’Occidente, quanto quelle Greco- Romane iscrivendosi esplicitamente nella linea di pensiero di autori come Drieu La Rochelle e Henry de Montherlant. Ecco perché, per Dominque Venner, le proteste contro la possibilità per le coppie omosessuali di accedere al matrimonio rappresentavano in fondo solo un pretesto per ricordare ai suoi concittadini il vero problema della contemporaneità, ossia la perdita delle tradizioni. Quelle tradizioni della “France éternelle” che si sarebbero dovute rispolverare anche utilizzando la violenza, perché per coloro che rimpiangono il passato è sempre meglio morire da eroi che soccombere alla decadenza contemporanea. Noto per le sue posizioni radicali, Venner dirigeva dal 2002 la Nouvelle Revue d’Histoire, rivendicando in modo anche virulento la difesa del nazionalismo. La Francia, secondo quest’intellettuale, aveva il dovere morale di non capitolare di fronte allo strapotere dell’Islam, anche a costo di utilizzare la violenza. Prima di tutto quella forma di violenza che è il rifiuto: rifiuto dell’alterità e del multiculturalismo; rifiuto delle differenze e degli stranieri; rifiuto dell’omosessualità e della decadenza. La violenza delle azioni in secondo luogo, perché, prima o poi, arriva il momento in cui le parole devono essere autentificate dai fatti. Come non vedere allora nelle grandi manifestazioni contro il matrimonio gay uno spunto per ricordare a tutti la necessità della difesa dell’entre-nous, di un’identità monolitica che non accetta compromessi con l’alterità? Come non fare alleanza con quei cattolici di destra, nonostante il rifiuto personale della religione cattolica?
Il gesto di Venner è stato sicuramente spettacolare e scioccante. Ma molto probabilmente anche inutile, come accade quando si agisce in modo estremo per difendere valori estremi. Nessun cattolico dovrebbe poter condividere un gesto come questo, non solo per la violenza estrema e distruttiva del suicidio in un luogo pubblico, ma anche per la scelta particolare del luogo dove compierlo. Che senso
può avere il fatto di tirarsi un colpo di pistola in bocca davanti all’Altare di Notre-Dame se non quello di provocare in modo oltraggioso chi considera la Chiesa come la casa di Dio?
Certo, quando si assolutizzano i propri valori si rischia poi di perdere di vista il fatto che i valori sono sempre e comunque al servizio dell’umano. Quando si pensa che la difesa delle tradizioni implica il rifiuto di ogni altra cultura si rischia poi di smarrire il senso stesso delle tradizioni. Ma per rendersene conto, forse, si dovrebbe essere capaci di accettare il dialogo e la differenza, aprirsi all’alterità che alimenta lo spirito critico — che è poi il cuore stesso del Cattolicesimo — e non ritrovarsi al fianco di chi eroicizza la violenza come unico mezzo per difendere le proprie idee.

Repubblica 22.5.13
“In Francia c’è un clima isterico i reazionari cercano un martire”
L’esperto Camus: resistenza enorme su molte riforme
di Anais Ginori


«E’ un gesto eccezionale che non si era mai visto nella storia politica francese contemporanea». Per uno studioso dell’estrema destra come Jean-Yves Camus, il nome di Dominique Venner non è certo nuovo. «Veniva considerato una figura mitica dentro a certi ambienti. E’ diventato il riferimento ideologico di molti gruppi della ‘nuova destra’ negli anni Ottanta. Negli ultimi tempi aveva saputo anche costruirsi un seguito tra i giovani grazie al web» racconta Camus, che ha firmato diversi saggi sul Front National ed è tra gli autori del “Dizionario critico del razzismo” appena pubblicato in Francia.
La battaglia contro il matrimonio delle coppie gay è davvero la causa di questo gesto estremo?
«Seguivo Venner sul suo blog, aveva anche una pagina Facebook molto frequentata. E’ vero che nelle ultime settimane i suoi toni contro la riforma del governo erano diventati più virulenti. Era favorevolmente colpito da questa ‘primavera’ di mobilitazione in difesa di valori che lui ovviamente condivideva».
Una Francia reazionaria che si è improvvisamente risvegliata?
«Non credo che si possa dire con certezza che la riforma del governo sia stata l’unica motivazione di Venner. Bisognerebbe essere prudenti prima di trarre facili conclusioni perché, come dicevo, si tratta di un gesto eccezionale, qualcosa di mai visto prima nel nostro paese. Ogni paragone è fuorviante. Anche i suoi amici e il suo editore sono stati colti di sorpresa. Tutti quelli che gli erano vicini ora rilasciano dichiarazioni contraddittorie».
Ha letto il suo ultimo post?
«Il matrimonio gay è uno dei suoi tanti bersagli. Ma non si limita a questo. Parla anche molto di immigrazione, della cosiddetta identità nazionale. Di sicuro, Venner si era convinto che la Francia era ormai entrata in una fase di decadenza irreversibile. Una situazione che lui, avendo alle spalle un certo tipo di passato, considerava intollerabile. Ma era anche un uomo malato e molto orgoglioso, non escluderei che abbia compiuto il suicidio anche per ragioni personali».
Non era comunque un folle.
«Nella lettera che ha lasciato, avrebbe rivendicato di agire nel pieno delle sue facoltà. Su questo non possiamo speculare. I contenuti di una o più missive sono ancora segreti. Ci sarà un’inchiesta e ne sapremo di più nelle prossime ore. Intanto, però, molti gruppi dell’estrema destra cercano di farne un martire. Non mi stupisce: fa parte del clima di isteria dentro al quale la Francia è precipitata negli ultimi mesi».
Marine Le Pen ha subito elogiato Venner.
«E’ una dichiarazione grave e tra l’altro inesatta. Venner disprezzava l’attuale Front National, dal quale si era da tempo allontanato. Non apparteneva a nessun partito. Era un tipico esponente della generazione formata politicamente negli anni Sessanta per la difesa dell’Algeria francese, e poi ha elaborato la ‘nuova destra’ che ha i suoi riferimenti culturali non solo in Francia, ma anche in Italia. Per come l’ho conosciuto e per quello che scriveva nei suoi libri, si riteneva intellettualmente superiore agli attuali dirigenti del Front National».
I suoi appelli sono un tentativo di fomentare un clima d’odio?
«Venner era un punto di riferimento per una vecchia guardia dell’estrema destra francese. Ma nonostante i suoi 78 anni era tutt’altro che marginale, come ora sostengono alcuni. Attraverso Internet, era riuscito a far circolare le sue idee anche tra i più giovani, che compravano persino i suoi libri».
La contestazione rischia di radicalizzarsi?
«Purtroppo, durante le ultime manifestazioni contro i matrimoni gay abbiamo assistito a scontri sempre più frequenti con la polizia. Non è una buona immagine per una destra che, almeno a parole, dovrebbe essere ‘legge e ordine’».
François Hollande non aveva previsto questa escalation?
«Più che per la sinistra, ritengo sia scattata una trappola per la destra che ha irresponsabilmente lasciato campo libero ad alcuni gruppi radicali. Ora la situazione rischia di sfuggire di mano. Il segretario dell’Ump, Jean-François Copé, è stato costretto ad annullare la sua partecipazione alla nuova manifestazione contro i matrimoni gay, prevista domenica. E’ quel che succede quando si innesca un ingranaggio, senza preoccuparsi di come sarà possibile poi fermarlo».

l’Unità 22.5.13
Argentina
Videla, nessuno vuole la salma dell’ex dittatore


È ancora incerto il luogo di sepoltura dell’ex dittatore Jorge Videla dopo che gli abitanti della sua città natale, Mercedes, hanno espresso la loro netta opposizione alla sepoltura del dittatore in questa cittadina della Pampa argentina. «Che lo buttino a mare, come ha fatto lui con noi», ha gridato Ayelen Mainery, una giovane abitante di Mercedes, riferendosi alle centinaia di oppositori che vennero fatti scomparire dalla dittatura militare argentina, lanciati nel mare  dagli aerei. Dalla morte di Videla, venerdì scorso, diverse città sono state indicate per accogliere la tomba: Mercedès, la città di Pilar, la provincia di San Luis, di cui è originaria la famiglia dell’ex dittatore.
All’ingresso del cimitero di Mercedes sono stati attaccati dei manifesti per rendere omaggio ai desaparecidos della dittatura (1976-1983): su ognuno si possono leggere nome, cognome e circostanze della scomparsa. Per non dimenticare.

il Fato 22.5.13
Sulle alture del Golan dove la Siria spaventa Israele
di Roberta Zunini


Monte Hermon (Israele) Galoppano indifferenti in sella a robusti cavalli mentre i lunghi strascichi bianchi dei veli, legati ben stretti sulla fronte, disegnano punti interrogativi nell'aria tersa. I giovani drusi che abitano i villaggi israeliani delle alture del Golan -la zona montuosa che fino al 1967 apparteneva completamente alla Siria e in seguito alla Guerra dei 6 giorni è stata annessa da Israele - sembrano ignorare le jeep dell'Onu, i soldati di leva ragazzini, che aspettano l'autobus e i riservisti che scendono dagli stessi autobus. Ed evitano di posare lo sguardo anche sui blindati di Tshal (l'esercito israeliano) che si dirigono verso la buffer zone, la zona di sicurezza tra Israele e Siria, a pochi chilometri dai loro frutteti. A loro interessa continuare a coltivare e vendere i frutti del loro lavoro. Soprattutto chi ha accettato la cittadinanza israeliana, e prestato servizio militare nelle Forze di difesa israeliane (Idf), non intende dire una parola sulla tensione ormai alle stelle tra Siria e Israele.
WAEL, INVECE non ha voluto la cittadinanza perché sperava che Assad avrebbe ottenuto, prima o poi, la restituzione dell'area annessa e lui e la sua famiglia avrebbero potuto ricongiungersi con i parenti che vivono appena oltre il confine. “Ora non ho più speranze, la Siria secondo me si spaccherà in tanti piccoli protettorati e forse i miei parenti non sopravvive-ranno visto che, per quanto mi sembra di capire, la guerra civile andrà ancora avanti per almeno un anno, fino alle elezioni dell'anno prossimo. Ora spero solo che non scoppi una guerra anche tra Israele e Siria perché i miei bambini non devono patire quello che abbiamo subito noi”, dice mettendosi a posto il copricapo a forma di piramide tronca sormontato da un velo. Il tutto rigorosamente bianco, come prevede la religione drusa, un culto esoterico islamico che non ha come obiettivo il proselitismo: coloro che rivestono una carica religiosa indossano copri-capi bianchi, la forma indica il grado ottenuto.
Suo padre, con i pantaloni alla turca, si muove all'interno del chiosco di frutta, costruito all'ingresso della coltivazione, scuotendo la testa. La situazione, secondo lui, è davvero un punto interrogativo. “Va bene la Russia che fa ostruzionismo contro l'intervento dell'Occidente, va bene la Cina che ha detto a Netanyahu che non può bombardare i depositi di armi siriane, ma qui bisogna che si capisca che Israele a un certo punto non sopporterà più che Assad, e dietro di lui l'Iran, dia missili potenti a Hezbollah per colpire Israele o aspetti che i suoi soldati sparino qui sulle alture”, dice la sorella di Wael, mentre aiuta l'anziano padre a vendere ciliegie enormi, dolcissime e albicocche sapide.
LASCIAMO la famiglia con i suoi e i nostri interrogativi e ci spostiamo verso ovest, per andare sul Monte Hermon, il punto più alto di Israele, davanti alle rovine della fortezza di Nimrod, costruita nel 1200. “La Grande Siria e Heretz, la terra di Israele. Più antica dell'antichità, prima di tutto, fragile e fortissima, dolce e violenta”. Abigail, una diciottenne “scout”, nel senso di volontaria, guarda il leone in bassorilievo e ciò che rimane della fortezza fatta edificare a 1200 metri di altezza dal nipote di Saladino. “Prima di fare il servizio militare l'anno prossimo, la regola non scritta vuole che si faccia un anno di volontariato. Mi sembra giusto e oggi con i miei compagni siamo venuti qua per conoscere una zona del nostro Paese dove non eravao mai stati e dove tanti nostri sodati rischiano la vita per difenderci”, conclude con un sorriso triste la studentessa di biologia.
Il giorno dopo, le visite al Monte Hermon sono state proibite perché alcuni colpi di mortaio sparati dal territorio siriano sono caduti nei dintorni. Ieri invece, per la terza volta in poco più di una settimana, proiettili e colpi di artiglieria sono stati sparati contro una jeep militare israeliana. I militari hanno avuto l'ordine di reagire immediatamente e con un razzo terra -terra hanno distrutto la postazione siriana da cui era arrivato l'attacco. Il presidente siriano Assad ha detto che la jeep è stata distrutta, fatto smentito dal portavoce dell'Idf. Sulle alture ieri è arrivato anche il capo di stato maggiore israeliano, Beny Gantz che è stato lapidario: “Se il presidente Assad deteriorà la situazione nelle alture del Golan, pagherà il prezzo”. Parola di generale.

il Fatto 22.5.13
La rivoluzione borghese della Cina
La classe media moltiplica le proteste: oltre al benessere ci sono i diritti
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino La classe media cinese è tra le più giovani e arrabbiate del mondo. E cresce, in maniera proporzionale a quanto cresce l'economia del paese. Nel 2002, quando la Cina era appena entrata nel Wto, l'allora presidente Jiang Zemin fu costretto a inventarsi un termine che non andasse a collidere con cinquant'anni di accese lotte politiche contro i “valori decadenti borghesi”. Ora che il Partito comunista cinese aveva garantito la famosa ciotola di riso a tutti bisognava promuovere “il nuovo strato dei medi possidenti”. Da allora l'implicito contratto sociale tra Partito e borghesia fu chiaro: lasciateci governare e vi permetteremo di arricchirvi. Oggi è considerato ceto medio il 10% della popolazione e si prevede che nel 2020 sarà il 40%. Forse.
Come spiega Shaun Rein, autore di End of Cheap China ormai nell'ex Impero di mezzo i ricchi possono permettersi di vivere ovunque e i poveri vedono i propri stipendi aumentare di due cifre ogni anno. Solo la classe media, che anela al giorno in cui avrà un’auto e un appartamento di proprietà, è sempre più consapevole che difficilmente riuscirà a realizzare il proprio sogno. Ancora non è pronta a rinunciare a quello che si è faticosamente conquistata, ma intanto usa i social media per informarsi e diffondere notizie, individua gli obiettivi su cui è possibile lottare e si organizza.
PERCHÉ nel frattempo anche il mondo è cambiato. Aumentano i salari e le multinazionali spostano le produzioni in paesi più poveri, cresce la ricchezza ed esplodono le ingiustizie sociali, migliorano le infrastrutture ma sempre meno persone possono usarle. Negli ultimi cinque anni, le proteste che dal web si sono spostate in strada sono diventate più frequenti. Dei 180mila “incidenti di massa” che avvengono in Cina ogni anno, le proteste legate alla tutela dell'ambiente hanno ormai superato quelle scatenate da rivendicazioni legate al lavoro o agli espropri forzati. Xiamen (2007), Dalian (2011), Ningbo (2012) e Kunming (oggi) ne sono gli esempi più noti. Serve internet per arrivare a questi risultati .
Per anni si è parlato del fenomeno della “nascente” borghesia cinese in maniera bipolare. Secondo alcuni sarebbe stata la garanzia dello status quo politico, per altri si trattava invece di una bomba a orologeria pronta a far esplodere il sistema. Ma, come sempre in Cina, le cose sono più complicate. I problemi del ceto medio non si limitano all'aumento del caro vita come nelle altre metropoli occidentali. Qui, diritti base come aria pulita, sicurezza alimentare, scuole e sanità di alto livello, sono preclusi ai più. L'ingiustizia è palese. Ormai non sono solo gli internauti più esperti a sapere che nella Grande sala del popolo, quella dove i legislatori si riuniscono, sono installati i migliori purificatori d'aria di tutta la Cina. Meno dell'un per cento dei 560 milioni di residenti urbani del paese può respirare aria che soddisfa gli standard europei. E governare limitandosi a soddisfare le necessità dell'un per cento della popolazione vuol dire assumersi un grosso rischio.
IL REGIME è sempre più esposto alle proteste per la corruzione dei funzionari, la crescente disparità tra ricchi e poveri e la relativa libertà di espressione. Ma il tema dell'inquinamento è traversale e, in qualche modo, apolitico. Non passa giorno senza che uno scandalo mini la fiducia dei cinesi nel futuro. Villaggi del cancro, acqua al cadmio, fiumi improvvisamente rossi o pieni di migliaia di maiali in decomposizione, infarti durante maratone cittadine a causa dell'inquinamento atmosferico, olio di scolo riutilizzato nei ristoranti, latte in polvere avvelenato... Nessuno vuole sottoporre i propri figli a questi rischi. Tanto più se il figlio è uno, per legge.

La Stampa 22.5.13
Cibi e terra contaminata. I cinesi non si fidano più
Cadmio nel riso, ma a Pechino i dati sull’inquinamento sono top secret
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 22.5.13
La rete cinese dall'India fino ai Caraibi
di Guido Santevecchi


PECHINO — C'è un nuovo «consenso strategico» tra la Cina e l'India, come annuncia il premier Li Keqiang di fronte al suo collega di New Delhi Manmohan Singh? Di fatto, il capo del governo cinese ha scelto il vicino-rivale per la sua prima missione all'estero; il tradizionale alleato Pakistan è solo la seconda tappa del viaggio. E i due Paesi sono già partner nel club dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che riunisce il gruppo di economie che crescono più rapidamente in un mondo ancora investito dalla crisi globalizzata.
Però i rapporti per decenni sono stati tesi. Ancora all'inizio di maggio, i militari cinesi e indiani si sono sfidati per tre settimane nella regione himalayana, dove nel 1962 i due Paesi si fecero guerra. Reparti dell'Esercito di Liberazione Popolare si sono spinti per 18 km in territorio controllato dagli indiani. Poi c'è il disappunto di Pechino perché New Delhi ospita il Dalai Lama, leader tibetano in esilio.
E soprattutto, c'è la rivalità economica. Il Prodotto interno lordo della Cina è sei volte più grande di quello indiano, l'interscambio commerciale vale oltre 66 miliardi di dollari l'anno, ma è sbilanciato a favore dei cinesi, che hanno un surplus di 28 miliardi. La Cina è il secondo partner dell'India, che rappresenta per Pechino solo il 12°. Ma i due giganti non si possono ignorare, i loro sistemi produttivi hanno bisogno l'uno dell'altro per bilanciare la crisi dell'Europa e la lentezza della ripresa Usa.
Così Li Keqiang ha giocato la carta dell'umiltà, tattica preferita della Cina che ama ancora definirsi «Paese in via di sviluppo». Il premier si è presentato portando «a un popolo di 1,2 miliardi di persone il saluto di un popolo di 1,3 miliardi di persone» e ha insistito che l'obiettivo di Pechino «è sempre di soddisfare le sette necessità di base quotidiane dei cinesi che sono: legna, riso, olio per cucinare, sale, salsa di soia, aceto e tè». Poi ha detto di capire le preoccupazioni indiane per lo squilibrio nella bilancia commerciale e ha promesso che l'accesso delle merci di New Delhi sarà facilitato, per raggiungere quota 100 miliardi di dollari di scambi nel 2015. Sono seguiti accordi sull'agricoltura, le risorse idriche, per lo sviluppo di zone industriali e la costruzione di infrastrutture. Si è discusso del progetto di aprire un corridoio commerciale attraverso Birmania e Bangladesh.
Non sembra un caso che proprio nel corso di queste cerimonie da Washington sia arrivato l'annuncio che il 7 e l'8 giugno Obama incontrerà il presidente Xi Jinping in California per un vertice tra la prima e la seconda economia del mondo.
Ma intanto Pechino continua ad allargare la sua rete, fino ai Caraibi: gli inviati (e i miliardi) cinesi sono arrivati in quello che George Bush chiamava «il terzo confine» degli Stati Uniti. Hanno stretto accordi con Grenada, Barbados, Giamaica. Il primo ministro di Grenada ha detto al Financial Times che «Pechino aiuta i Caraibi perché ha colto la frustrazione della regione per il disinteresse Usa». Colpisce questa avanzata cinese a Grenada: nel 1983 Ronald Reagan spedì nell'isola i Rangers dopo aver accusato il governo (golpista) locale di essersi venduto a cubani e sovietici. Ora la Cina compra tutto in blocco.
Alle Bahamas i cinesi stanno costruendo un resort da diversi miliardi di dollari; alla Giamaica hanno concesso 300 milioni per strade e ponti; ad Antigua hanno costruito uno stadio per il cricket. Questi investimenti non hanno significato economico per la Cina, perché i Caraibi non sono un gran mercato e non hanno particolari risorse naturali: si tratta di espansione politica.
La partita è appena all'inizio e la Cina conosce l'arte dell'attesa.

Repubblica 22.5.13
Immigrazione Usa, primo sì alla legge di Obama
Undici milioni di immigrati illegali potranno chiedere la cittadinanza

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La Stampa 22.5.13
Il governo turco: “Fate sesso, fa bene”
Ankara, il ministro della Famiglia distribuisce ai cittadini una specie  di guida sui “vantaggi” dell’amore:
«Aiuta il benessere fisico e mentale ma massima attenzione alla pulizia»
di Francesca Paci

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La Stampa 22.5.13
Gli autistici, nuovi maghi del software
Il colosso tedesco Sap ne assumerà centinaia: “Vogliamo persone che pensano in modo differente”
di Alessandro Alviani

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La Stampa 22.5.13
Mondi sospesi tra genio e disabilità
di Gianluca Nuvoletti


Il libro «Una notte ho sognato che parlavi» (Mondadori) è il libro con cui Gianluca Nicoletti racconta la vita di una famiglia con un figlio affetto da autismo

Chiunque conosca di persona l’autismo, in una qualsiasi delle sue infinite varianti, non può che essere contento per quanto promette il colosso tedesco del software. Sono più che convinto che quel centinaio di persone saranno ottimi programmatori e sicuramente porteranno idee di sviluppo software che poco avranno di convenzionale. È facile che la signora capo del personale della Sap conosca molto bene gli studi, che da anni si fanno in accreditati ambienti scientifici, sui legami tra alcuni geni che determinano l’autismo e comportamenti o attitudini non solamente legati a uno stato di disabilità.
In particolare esiste un’infinità d’individui con particolari talenti in campi come la fisica, l’ingegneria, la matematica e, appunto, l’informatica che possono essere ascritti ai così detti autistici ad alto funzionamento. Lo stesso vale per coloro che appartengono alla «famiglia» della sindrome di Asperger, molto simili per natura agli autistici per l’aspetto relazionale, ma che non hanno ritardi linguistici e cognitivi.
È chiaro quindi che se, una volta tanto, non si parla di una disabilità come limite, ma piuttosto come un’ opportunità maggiore, la soddisfazione non può che essere altissima. Esiste però un aspetto che è necessario puntualizzare, proprio perché nella notizia si parla di «cento autistici» e ogni volta che il termine autistico compare in un medium d’informazione è sempre bene specificare di cosa si tratti.
Si conosce una molteplicità di autismi, uno spettro ampissimo che è compreso tra un ragazzo molto intelligente, imbattibile nei calcoli matematici, che parla senza mai fermarsi toccando un numero impressionante di campi dello scibile umano, dalla fisica quantistica, alla teologia, alla meccanica, all’astronomia…Ma all’estremo opposto ce ne è un altro che presenta scarsissima o inesistente capacità verbale, grossissimi limiti cognitivi e soprattutto ha bisogno di essere seguito costantemente nel corso della giornata perché il suo comportarsi «balzano» può esser causa di seri problemi per sé e per chi gli sta vicino.
È comunque una caratteristica costante, degli individui inseribili nello spettro autistico, quella di sorprendere per l’eccentricità di punti di vista, oltre ogni loro reale capacità di esprimerli compiutamente, almeno attraverso gli strumenti convenzionali che l’umanità neuro tipica usa per relazionarsi. È importante che si consideri che hanno diritto ad esistere anche gli autistici che nessuno chiamerà a fare un lavoro complesso, anche se non assomigliano per nulla a Rain Man, ma tanto meno al piccolo Martin della serie televisiva «Touch», genio matematico e veggente, nonché ultima declinazione dei fantastici «savant», protagonisti molto poco realistici della più ricca fanta-letteratura sull’autismo.

l’Unità 22.5.13
Dilemma nucleare
Tra domande della scienza e paure della società civile
di Pietro Greco


LA VICENDA DELL’«ATOMO DIVISO» È QUELLA CHE HA FORSE CARATTERIZZATO DI PIÙ la nostra epoca. Certo è la vicenda che ha modificato nel profondo il rapporto tra la scienza e la società. Da quando, alla fine di dicembre del 1938, il chimico Otto Hahn a Berlino ha scoperto che l’atomo si può dividere – e che l’uomo può dividere l’atomo – fino all’incidente di Fukushima, in Giappone, nel marzo 2011, quello dell’energia nucleare è stato un (il) tema dominante.
Per decenni l’«atomo diviso» ha diviso il mondo. Ha assorbito la politica, l’ha rimodellata e mortificata, obbligandola lungo quel confine in cui capitalismo e comunismo hanno combattuto una guerra fredda eppure intensissima. Per decenni l’«atomo diviso» ha dato all’umanità la sensazione – oggi l’abbiamo un po’ rimossa –non infondata e non piacevole, di poter distruggere se stessa.
Ma nel medesimo tempo, per tutti questi decenni, l’«atomo diviso» ha acceso anche «speranze enormi». Negli anni ’50 non erano davvero pochi né sprovveduti coloro che immaginavano un futuro libero dal problema dell’energia, perché l’«atomo diviso» e ben controllato ne avrebbe prodotto in quantità illimitata e in maniera pressoché gratuita. Poi sono intervenuti alcuni incidenti – Three Miles Island negli Stati Uniti (1979), Chernobyl in Unione Sovietica (1986) e, appunto, Fukushima in Giappone (2011) – e sono inter-
venuti alcuni conti – l’uranio non è una risorsa illimitata e rinnovabile, e produrre energia con l’atomo alla fin fine costa – che hanno creato qualche dubbio e, ancora una volta, diviso il mondo in due: i favorevoli e i contrari al nucleare civile che si guardano tra loro, tuttora, in gran cagnesco. Quasi che una tecnologia potesse essere buona o cattiva in assoluto.
Per tutte queste ragioni e altre ancora, la letteratura sul nucleare è davvero sterminata. Eppure il nuovo libro, L’atomo diviso, Sironi editore, che Giancarlo Sturloni, fisico ed esperto di comunicazione del rischio, dedica al nucleare merita di essere letto. Perché in questa variegata e complessa storia Sturloni individua un filo rosso che ci propone un percorso originale e insieme generale. Il filo della domanda di nuovi diritti – i diritti di cittadinanza scientifica – che i cittadini del mondo hanno imparato a proporre. Il diritto di dire la propria sul nostro destino. Il diritto di partecipare alla costruzione di un futuro desiderabile. Il diritto a un’informazione limpida e trasparente.

L’atomo diviso, Giancarlo Sturloni pagine 160 euro 18 Sironi Editore

La Stampa TuttoScienze 22.5.13
Ian Tattersall
“Prima il corpo, poi la mente. La doppia genesi dell’uomo”
di Gabriele Beccaria


Ian Tattersall è paleo­ antropologo e curatore al Museo di storia naturale di New York

Immaginiamo il nostro cervello come le piume dei dinosauri, prima, e degli uccelli, poi. Non c’era proprio niente di prevedibile in ciò che è diventato e che ora ci troviamo intrappolato nella scatola cranica.
Ci siamo trasformati nei «signori del pianeta» - dice il celebre paleoantropologo Ian Tattersall - dopo una rivoluzione improvvisa e tutt’altro che scontata: è secondo queste due declinazioni che dobbiamo pensare alla nostra specie, se vogliamo credere alle ricerche più recenti, sparse tra l’analisi dei resti fossili e le decifrazioni del Dna. Siamo comparsi 200 mila anni fa, eppure, se tornassimo indietro a quei momenti, faticheremmo a riconoscerci, come se incontrassimo un fratello tonto. Per immedesimarci (e provare un’esplosione liberatoria di empatia) dovremmo aspettare e approdare a tempi recenti. Solo 60 mila anni fa - spiega il curatore del Museo di storia naturale di New York - siamo diventati pienamente umani. Per decine di migliaia di anni abbiamo continuato a comportarci come gli altri ominidi, per esempio i Neanderthal. Laboriosi, piuttosto socievoli, ma poco ciarlieri e quasi per nulla creativi. Poi, di colpo, siamo diventati gli esseri simbolici che siamo.
Tattersall ha scritto un saggio («I signori del pianeta», edito da Codice) per indagare il mistero. E a Torino, al Salone del Libro, ha tenuto una conferenza per raccontare questo viaggio a ritroso nel tempo e nei neuroni. Gli universi alternativi che rielaboriamo continuamente nella mente - ha spiegato - non sono «la glassa sulla torta», ma «la perlina di zucchero che sta in cima alla ciliegia sopra la glassa». Una metafora di pasticceria che serve a rimettere in discussione le idee preconcette sulla nostra evoluzione. Che è stata tormentata: invece di un’esplosione lineare di metamorfosi, il sempre citato «albero della vita» equivale a una folla di ominidi diversi, che per milioni di anni si sono succeduti (e spesso hanno convissuto), sperimentando sulla propria pelle, e nel cranio, tanti esperimenti, alcuni imperfetti e altri meglio riusciti. E infatti ciò che oggi è il cervello è - probabilmente - il risultato di tante proprietà emergenti, frutto di modificazioni e aggiunte, piccole e accidentali, di una struttura che era già pronta (o quasi) a sviluppare il pensiero simbolico. Per molto tempo siamo stati sulla soglia del pensiero vero e proprio, come indecisi, prima di compiere l’ultimo e decisivo passo.
Non è successo per «adaptation», cioè per adattamento, ma - sottolinea Tattersall - per un altro processo, tempestoso, che gli studiosi chiamano «exaptation», exattamento. La spettacolare riorganizzazione dei neuroni, infatti, non è stato un adeguamento puro e semplice, semmai un recupero e una cooptazione. Ciò che era nato per una certa funzione ha finito per assolverne un’altra, inedita. Esattamente come le piume termoregolatrici dei dinosauri, diventate strumenti per spiccare il volo negli uccelli. Le cellule nervose, inizialmente ideate per trasformare in astuto cacciatore l’Homo Ergaster, tra 2 milioni e un milione di anni fa, sono servite ai Sapiens di 77 mila anni fa come scintilla intellettuale per intagliare motivi geometrici su una placca d’ocra, rinvenuta nella Grotta di Blombos in Sud Africa: è questo il manufatto più antico che testimonia il raggiungimento di un nuovo mondo simbolico. Mai esistito prima.
Il «silver bullet», così lo chiama Tattersall - l’evento che ha fatto deflagrare tutto - sarebbe stato il linguaggio: «Lo concepiamo sempre come sinonimo di comunicazione. Provate invece a immaginarlo come il portale d’accesso all’io interiore. Si pensa anche con le mani, mentre si fanno le cose». Inventando e manipolando parole. Così abbiamo spalancato la mente, che - ammonisce il paleoantropologo - proprio per la sua doppia genesi, 200 mila e 60 mila anni fa, resta un groviglio irrisolto. Di bene e di male.

La Stampa TuttoScienze 22.5.13
Un “elettricista” alle origini della vita


Ricostruite le condizioni biochimiche presenti sulla Terra all’epoca delle prime forme di vita, 3 miliardi di anni fa: è così emerso un ruolo finora insospettato dell’Rna, essenziale per la sintesi delle proteine. Quando viene immerso in un ambiente privo di ossigeno e ricco di ferro, proprio come quello del «baby» Pianeta, si trasforma in un «elettricista molecolare», favorendo reazioni complesse. I test - realizzati all’Istituto di Astrobiologia della Nasa al Georgia Institute of Technology - hanno rivelato che l’acido ribonucleico favorisce il passaggio di elettroni da una specie chimica all’altra: si tratta di un processo-chiave nella biologia, presente nella produzione di energia delle cellule e nella fotosintesi.

La Stampa TuttoScienze 22.5.13
Svelato il segreto della longevità femminile
di Paola Mariano


Ecco il segreto della longevità femminile: il sistema immuni­ tario delle donne invecchia più lentamente di quello dei maschi e per questo lei vive più a lungo di lui. Riportata sulla rivista «Immunity & Ageing», la scoperta è di Katsuiku Hirokawa dell’Università di Tokyo. In Italia, stando ai dati del Rapporto Osservasalute dell’Università Cattolica di Roma, la speranza di vita media per una donna è di 84,5 anni, mentre per un uomo si ferma a 79,4. Gli esperti, in questo caso, hanno ese­ guito prelievi di sangue su un campione di individui dai 20 ai 90 anni ed esaminato lo «stato di salute» del loro sistema immu­ nitario, misurando la concentrazione di varie famiglie di «cellule di difesa» (i linfociti) e di molecole protettive con azione infiammatoria (le interleuchine). Invecchiando, la concentrazione delle une e delle altre si riduce in entrambi i sessi ed è per questo che con l’età si diven­ ta più sensibili alle infezioni. Ma ciò che hanno riscontrato i ricercatori è che nelle donne il processo di impoverimento delle difese immuni­ tarie è più lento e le difese di una donna anziana somigliano molto più a quelle di un maschio giovane che non a quelle di uno anziano. E infatti anche i globuli rossi nella donna si riducono meno che nell’uo­ mo. Questa differenza nella trasformazione del sistema immunitario di maschi e femmine è uno dei tanti processi che influenza il modo in cui affrontiamo il passare del tempo, spiega Hirokawa. «Il processo di invecchiamento è diverso per molti motivi ­ precisa ­: le donne, non a caso, hanno più ormoni estrogeni e proprio questo sembra proteg­ gerle dalle malattie cardiovascolari, almeno fino alla menopausa». Ecco una strada per determinare la vera età biologica di un individuo.

La Stampa 22.5.13
Hillman, profeta del tip tap
Studiosi, poeti, musicisti e un gallo nella Grande Mela per una straordinaria performance di controcultura in memoria del grande psicoanalista
Il filosofo e psicoanalista junghiano è morto a 85 anni il 27 ottobre 2011
di Silvia Ronchey


«Il teschio di mio padre / sorride alla luna del Mississippi / dal fondo del fiume Tallahatchie. / Le ossa di mio padre / sono sepolte nel fango di anse che snodano / i loro segreti verso il mare». Codino grigio e stivali, John Densmore, il batterista dei Doors, scandiva i versi di Etheridge Knight, il grande poeta afroamericano, accompagnandosi con il tamburo tribale che stringeva tra le ginocchia, accovacciato sul grande palcoscenico tra centinaia di piccole candele. Nel building della New York Society for Ethical Culture, affacciato su un Central Park sfolgorante nel sole primaverile, la penombra delle vetrate Art déco avvolgeva la platea gremita da un pubblico multietnico e multiforme di spettatori venuti da ogni parte dell’America e del mondo per onorare il loro maestro nel meno convenzionale dei riti.
Il primo tributo ufficiale a James Hillman, voluto da Margot, la sua vedova, e dal più stretto milieu di amici e seguaci, si è tenuto a New York qualche giorno fa, dopo un adeguato periodo di lutto, nella stagione del suo compleanno. Hillman, da grande laico, aveva sempre deplorato le celebrazioni in mortem, come quelle per il suo maestro Jung: «Come può non rivoltarsi nella tomba chi viene festeggiato dal mondo nell’anniversario del giorno in cui lo ha lasciato? ». Così, Hillman è stato ricordato in maggio, un mese che amava quanto il dispiegarsi, nel fiorire della natura, dell’Anima del Mondo.
Tra le decine di voci - di psicologi e filosofi, come Richard Tarnas o Ed Casey o Sonu Shamdhasani, di letterati e teologi e mitografi, come Michael Ventura o David Miller o Michael Meade, il leader del Men’s Movement cui Hillman si era unito negli anni 80 assieme a Robert Bly, di attori come Helen Hunt, che al saggio di Hillman Sul tradimento si è ispirata per uno dei suoi ultimi film c’era anche quella di Arthur, il gallo della farm di Hillman nel Connecticut, che aveva cantato due volte, la mattina del 27 ottobre 2011, nell’istante esatto della morte del padrone di casa. E c’era la voce studiatamente ferina di un Calibano interpretato da Enrique Pardo, il fondatore del Panthéâtre francese, il Teatro di Pan, e quella pacatamente britannica di Richard Olivier, il regista s h a ke s p e a r i a n o del Globe Theatre, che evocava l’amore di Hillman per la Tempesta: «La recita è finita, noi attori siamo spiriti rifusi nell’aria sottile, fatti della materia di cui sono fatti i sogni».
Le opere di Hillman sono state citate e recitate nelle varie lingue in cui sono tradotte, lette e amate. Dal Giappone al Venezuela, dal Brasile all’Italia, le definizioni dell’anima - «quel fattore umano ignoto che rende possibile il significato, trasforma gli eventi in esperienza e si comunica attraverso l’amore» -, dell’hillmaniano Fare anima («chiamate vi prego il mondo / la valle del fare anima», secondo i versi di John Keats, che introducono per Hillman alla comprensione della condizione patologica cronica della vita) e degli altri concetti chiave dell’«eresia» junghiana che sostanzia il pensiero originale del massimo pensatore americano del nostro tempo, sono stati restituiti al cuore dell’America più intellettuale, tra gli scintillanti monoliti di Manhattan, attraverso le loro emanazioni nelle altre culture.
Grandi poeti hanno raccontato i loro ricordi di Hillman e gli hanno dedicato versi inediti: i vegliardi Robert Bly, Louis Jenkins, Coleman Barks; e un’accorata Mermer Blakeslee: «Il tuo gallo canta ancora: / quel che non riusciamo a vedere / importa». Hillman stesso non aveva mai cessato, per tutta la vita, di scrivere poesie, tenendole nel cassetto. L’ultima, composta a Thompson poco prima della morte, breve e intensa come un haiku, è stata letta da Margot a chiusura.
Le basi del pensiero hillmaniano, per cui la psicologia non può non coniugarsi con l’arte, erano presenti anche, e altrettanto intensamente, sotto forma di note, ritmi, canzoni. Se l’ingresso del pubblico in sala era stato accompagnato da antiche ballate irlandesi per chitarra e violino e le immagini dell’infanzia ad Atlantic City da Under the Boardwalk, cantata da Ian Magilton e Ellen Hemphill, se They can’t take that away from me di Gershwin e la September Song di Kurt Weill raccontavano rispettivamente gli anni dell’amore e quelli della vecchiaia, il centro era la danza. Hillman era uno straordinario ballerino di tip tap. Il ritmo dei suoi passi, perfettamente inquieti e armoniosi, testimoniato dal grande schermo sullo sfondo, ripreso dal ballerino nero sul proscenio, sfumava nel ticchettio dei tasti dell’instancabile macchina da scrivere che ha prodotto il Saggio su Pan, Il mito dell’analisi, Il codice dell’anima .
Il Tribute per Hillman è stato una performance di controcultura, un musical straziante, un atto artisticoletterario di forza e solennità atipica, anticonformista e profonda quanto lo era Hillman. Un ritratto tracciato da una patria in cui è stato ed è - contrariamente al detto - profeta.

Repubblica 22.5.13
L’ayatollah sul lettino
Psicoanalisi e Islam, parlare di Freud a Teheran
di Vanna Vannuccini


Gohar Homayounpour racconta in un libro la sua esperienza di terapeuta in Iran Storie di pazienti laici e religiosi, tradizionalisti e modernizzatori, fedelissimi al regime e accesi dissidenti

Pochi paesi al mondo hanno una reputazione internazionale peggiore di quella dell’Iran. Almeno da quando Bush lo inserì nell’Asse del Male, il nome del-l’Iran è associato a uno Stato guidato da fanatici religiosi e retrogradi, a un nuovo medioevo, ogni volta rinfocolato dalle sentenze che il presidente Ahmadinejad non ci fa mai mancare, tanto da essersi conquistato il titolo di «uomo più pericoloso al mondo».
Accanto a questa corrente maggioritaria c’è poi un gruppo ristretto di occidentali “illuminati”, per i quali gli iraniani sono in blocco un popolo oppresso che aspetta solo di liberarsi da una dittatura religiosa. Non abbiamo visto tutti le foto di ragazze truccatissime e poco vestite che ballano in party sfrenati in qualche casa di Teheran? Non abbiamo letto che i conducenti di taxi collettivi quando possono evitano di prendere a bordo un mullah? Gli iraniani non hanno più nulla a che vedere con la religione, concludono. Ebbene, entrambi hanno torto, ci fa capire il libro — uscito da Cortina — di Gohar Homayounpour, che da sei anni fa l’analista a Teheran e insegna psicologia all’Università Shahid Beheshti della capitale. Non che tutte le idee che l’Occidente si fa dell’Iran siano false, ma spesso sono così incomplete da travisare la realtà.
Il libro è di per sé una sfida alle percezioni occidentali.
Una psicoanalista a Teheran?
Gli ayatollah sul lettino? Le teorie freudiane sulla sessualità e l’islam? Ma non sapevamo che la psicoanalisi cozza contro ogni mondo religioso determinato, e non è allo stesso tempo la religione una delle fonti dei più violenti problemi psichici? Una amica a cui Homayounpour aveva fatto leggere una prima bozza le aveva risposto: ma gli ayatollah dove sono? E le aveva proposto di cambiare il titolo in Diventare matti a Teheran.
In realtà la psicoanalisi in Iran ha una storia breve ma un lungo passato, dicono gli iraniani. Già Avicenna aveva scoperto l’effetto delle emozioni sulla salute fisica e raccontava la storia di un principe la cui febbre nessuno riusciva a curare finché, pronunciando nomi di città e strade e fanciulle, il medico scoprì chi era la bella di cui il principe non voleva fare il nome; consigliò al re di consentire al matrimonio e la febbre sparì. Anche i mistici iraniani come Hafez e Rumi hanno espresso molte idee sulla psiche e il maestro sufi è in fondo una specie di psicoanalista.
Subito dopo la rivoluzione la psicoanalisi fu vista negativamente, come tutto ciò che veniva dall’Occidente, ma già verso la fine degli anni Ottanta riebbe un posto nell’Università di Teheran e perfino in una serie di programmi televisivi e radiofonici. Oggi le pratiche psicoterapeutiche negli ospedali includono analisi transazionale e cognitiva-comportamentale, terapia di gruppo, terapia sessuale e familiare e terapia di coppia (i divorzi sono saliti in Iran da 50.000 nel 2000 a più di 150.000 nel 2010 e “La Giornata del Matrimonio”, in cui si ricorda il matrimonio di Zarah, la figlia del Profeta, con l’Imam Ali più di 1400 anni fa, è stata rinominata “Giornata contro il Divorzio”). Le cause principali di disagio psichico per i giovani sono di origine economica: disoccupazione, povertà, mancanza di prospettive.
Nei suoi anni di pratica psicoanalitica Homayounpour ha visto arrivare nel suo studio religiosi e laici, tradizionalisti e modernizzatori, uomini e donne (pare in numero piuttosto equilibrato, tranne che nelle terapie di gruppo, dove le donne prevalgono), fedeli al regime e dissidenti, e soprattutto persone che non si lasciano inquadrare in nessuna di queste categorie. Queste persone coesistono nella società iraniana come nello studio di Gohar, gli uni accanto agli altri. C’è la ragazza di ventiquattro anni di famiglia tradizionalista che ha perso “l’unica cosa che una donna non dovrebbe mai perdere” e perciò vuole abbandonare la casa paterna per non disonorarla, e Homayounpour, arrivata a Teheran dopo vent’anni passati in Occidente, lì per lì non capisce a che cosa la ragazza si riferisca — evidentemente non ha fatto caso al numero di cliniche specializzate nel restituire la verginità che ci sono a Teheran.
C’è anche la studentessa di Isfahan a cui piace molto fare sesso ma solo se prende lei l’iniziativa e «non lo fa in posizione passiva». Non deve essere una rarità a sentire quanti occidentali al loro arrivo in Iran ti raccontano degli occhi di fuoco con cui si sentono guardati dalle signore in chador. Ma pare che agli uomini iraniani l’intraprendenza femminile non piaccia perché pensano che si adatti solo alle prostitute (così aveva detto alla studentessa il fidanzato ormai perduto). C’è perfino un camionista macho da cui Homayounpour — colpevolizzandosi per dare a prima vista un così avventato giudizio di valore — non si aspetta che «voglia capire meglio se stesso». Lui ha paura del buio e sogna di andare a letto con la madre (anche con la sorella e la cognata). E c’è un giovane intellettuale a cui l’amata (sposata) permette ad ogni incontro di conquistare solo qualche centimetro del proprio corpo.
I pazienti diventano narratori di storie che svelano realtà non dette e s’intrecciano con la storia personale dell’autrice, come in una seduta psicoanalitica. Homayounpour racconta il piacere e la sofferenza del proprio ritorno nella madrepatria. Era nata a Parigi da genitori iraniani che si erano poi trasferiti in Canada, e come succede in questi casi ha un dilemma d’identità. «Lontana dall’Iran, nessuno era più iraniano di me; qui in Iran, nessuno lo è di meno». Una vecchia storia, di cui discute con una paziente, bellissima e famosa pittrice, che in Occidente aveva vissuto come l’analista in una penombra di esotismo lamentandosi della «solitudine e della mancanza di relazioni umane».
Homayounpour cerca conforto nella lettura di Kundera (e non resiste alla tentazione di impelagarsi in una dotta critica letteraria dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, a imitazione di Leggere Lolita a Teheran, cosa che le si perdona solo perché il padre è stato il traduttore in persiano di Kundera, e quindi rientriamo in ambito psicoanalitico).
Di complessi di Edipo e sogni incestuosi l’autrice ne ha analizzati a decine. Il complesso di Edipo è rovesciato nei miti iraniani, sono i padri a uccidere i figli. «La fantasia collettiva iraniana è fissata in un’angoscia di disobbedienza che desidera l’obbedienza assoluta. Nel momento in cui desiderano ribellarsi i figli sanno inconsapevolmente che ponendo in essere quel desiderio saranno probabilmente uccisi… La cultura greca, viceversa, sembra incentrata sulla conquista e il rovesciamento del potere, e la fantasia collettiva reagisce alla paura della castrazione consentendo di prendere le distanze dal padre e eliminarlo, al fine di assumere potere e controllo». Alla fine occorrerà ricordare che al di là delle sanzioni e delle minacce di guerra gli iraniani vivono vite che si lasciano analizzare con gli stessi strumenti di quelle degli occidentali, e che l’orizzonte sociale, culturale e perfino religioso di una famiglia borghese a Teheran — i film, i programmi tv, i temi di cui si discute in privato, le automobili, le droghe, i fanatismi politici, le professioni, i rapporti tra i sessi — è meno lontano da quello di una famiglia borghese europea di quello di chi vive in uno slum a mezz’ora di distanza in automobile dalla casa dell’autrice.

Il libro: Una psicoanalista a Teheran di Gohar Homayounpour Con una prefazione del regista iraniano Abbas Kiarostami e una postfazione dell’analista Lorena Preta (Cortina pagg. 148 euro 13.50)

Corriere 22.5.13
La Arendt di fronte a Eichmann Lo scandalo del mostro banale
Per la filosofa il processo riguardava lui, non l'ideologia nazista
di Corrado Stajano


Un gran libro del Novecento, La banalità del male, di Hannah Arendt, compie quest'anno mezzo secolo e non ha perso nulla della sua forza morale e politica. Quando fu pubblicato provocò scandalo in tutto il mondo, rotture di antiche amicizie, conflitti non sopiti (insulti ancora oggi del regista Lanzmann al Festival di Cannes), ma anche un'ampia condivisione di chi si ritrovava e si ritrova in quelle idee, espressione di profonda libertà intellettuale, razionali e insieme amaramente appassionate. Negli anni diede vita ad almeno un migliaio di pubblicazioni sull'orrore della Shoah e sulle sue interpretazioni. Ha avuto insomma una funzione stimolatrice. Che continua.
Dalla casa editrice Giuntina sta ora per uscire Eichmann o la banalità del male, di Hannah Arendt e Joachim Fest, un libro intelligente che serve a fare il punto su quella questione controversa e sulla polemica che ne seguì. Il libro raccoglie la preziosa intervista andata perduta e ritrovata di recente della Arendt allo storico tedesco Joachim Fest, trasmessa nel 1964 da una radio bavarese; il carteggio inedito fra i due; lettere; documenti; la feroce stroncatura di Golo Mann; il saggio di Mary McCarthy consonante con le opinioni della filosofa tedesca; un'accurata bibliografia.
La banalità del male uscì nel 1963 in Israele, l'anno seguente in Germania e in Italia (Feltrinelli). Questo della Giuntina è un libro utile a raccogliere le idee per chi sa e a suscitare desiderio di sapere per chi non sa.
Hannah Arendt, filosofa della politica (1906-1975), ebrea tedesca, lasciò la Germania nel 1933, all'avvento del nazismo. Autrice, tra l'altro, di un'opera di grande rilievo, Le origini del totalitarismo, visse esule a Parigi e poi negli Stati Uniti, dove insegnò nelle più rinomate università.
Nel 1961 accettò, non a cuor leggero, la proposta del «New Yorker» di seguire a Gerusalemme il processo contro il criminale di guerra Adolf Eichmann, capo della sezione ebraica della Gestapo, esecutore degli ordini di Heydrich, catturato nel 1960 dal Mossad israeliano in Argentina. (Il processo finì con la condanna a morte di Eichmann impiccato nel 1962).
Che cosa provocò la polemica contro La banalità del male? La Arendt scrisse sul settimanale americano una serie di reportage, li arricchì e ne trasse poi il libro con quel titolo che offese molti. Ma, come scriverà Joachim Fest, biografo di Hitler e di Speer, in una raccolta di ritratti, Incontri da vicino e da lontano, pubblicata, come gli altri suoi libri, dalla Garzanti, la Arendt «non aveva minimamente inteso definire banale lo sterminio, né tantomeno il male in sé. Aveva semmai voluto descrivere quel male, nella sua terribile incarnazione in uno squallido personaggio».
Hannah Arendt aveva le carte in regola per scrivere quel che vide e quel che sentì: Eichmann visto da vicino non era un angelo caduto, ma un uomo meschino, mediocre, bugiardo, privo di ogni morale, un millantatore. Il suo grado nella gerarchia di comando non era elevato, tenente colonnello. Ubbidiva, felice di farlo, sofferente se gli mancavano gli ordini. Sapeva organizzare e negoziare, fu impeccabile nel far funzionare i trasporti della morte, il suo compito.
Era un «depositario dei segreti della soluzione finale», aveva visto con i propri occhi quel che bastava per conoscere bene quella terribile macchina di distruzione. Non aveva ucciso con le proprie mani, non aveva di certo il potere e l'autorità di Hitler o di Himmler. Quel che a lui interessava era la carriera e per farla era necessario che fosse il proprio gruppo a uccidere il maggior numero possibile di ebrei. L'azienda della morte.
Era un uomo comune, «normale»: «nel senso che non era un'eccezione nel contesto del Terzo Reich». Quella «normalità» di Eichmann faceva gelare il sangue alla filosofa-giornalista che aveva potuto verificarla durante le 121 udienze del processo.
Con il suo libro la Arendt ruppe ogni schema. Il procuratore generale (e il primo ministro Ben Gurion) avrebbero voluto che quello diventasse il processo al nazismo. Secondo la scrittrice, invece, il processo doveva fondarsi su quel che Eichmann aveva fatto, non su quel che gli ebrei avevano sofferto e atrocemente pagato. Era necessario che stessero fuori dal dibattimento le domande senza risposta: «Com'è potuto accadere?»; «Perché gli ebrei andavano alla morte come agnelli al macello?». E anche: «Come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli ebrei?».
L'accenno alla correità dei consigli ebraici nella Shoah, per evitare mali peggiori, naturalmente, scatenò aspri risentimenti. La Arendt fu accusata di essere incapace di amore per il suo popolo, ci fu anche chi disse che aveva calunniato le vittime e scagionato la Gestapo. La verità fa male, in ogni epoca.
Nell'intervista a Fest, la Arendt difende se stessa soprattutto con ironia sull'ipocrita commedia degli intellettuali. Preferisce affrontare i temi nodali: il potere che è più forte del crimine; l'incapacità di immaginarsi nella mente degli altri; se si può essere innocenti in un regime totalitario; la tipologia degli assassini privi di un movente, «incomparabilmente più terribili di qualsiasi altro assassino»; i nazisti che non si sono per nulla pentiti; la mentalità del funzionario parossisticamente ubbidiente anche agli ordini più malvagi. «Ma in nome di Dio — esplode la Arendt —, fate che sia un altro a sporcarsi con questa faccenda! Tornate a essere uomini».
Il passato irrisolto, il passato che non passa.

Corriere 22.5.13
Wilhelm Furtwängler
Il maestro custode della cultura tedesca e quel rapporto ambiguo con il nazismo
di Matteo Persivale


«La questione dell'interpretazione è, allo stesso tempo, complessa e semplice. Come in tutti i casi nei quali l'amore gioca un ruolo fondamentale. Fare musica — come compositore o come interprete — è soprattutto un atto d'amore». Così parlò — «Also sprach», come avrebbe preferito lui, uomo dalle sentenze oracolari — Wilhelm Furtwängler, direttore musicale dei Berliner Philharmoniker dal 1922 al 1945 e dal 1952 fino alla morte (avvenuta due anni dopo).
La fama di intellettuale raffinatissimo cresciuto fin da tenera età a contatto con artisti e filosofi e storici, il meglio della cultura tedesca tra Ottocento e Novecento nel salotto di casa (era figlio di Adolf, il sommo archeologo), le filippiche a alta voce contro i direttori (generalmente si riferiva a von Karajan) che secondo lui non conoscevano l'Idealismo tedesco abbastanza bene da poter dirigere Beethoven. Tutta la mitologia nata intorno a Furtwängler: quell'apparentemente gelido maestro autore di interpretazioni tra le più «calde» e dall'impatto emotivo più sconvolgente. Le scelte di tempi inconsuete, il suono orchestrale inimitabile, la capacità analitica. Ma se la magia del Furtwängler direttore ha un che di inafferrabile, è sfuggente anche la scelta centrale della sua vita e della sua carriera.
Quella di restare in Germania dopo il 1933, sotto il Reich: perché al contrario di grandi colleghi come Erich Kleiber (che andò in Sudamerica, dove suo figlio Karl divenne Carlos), Furtwängler scelse di restare. Senza tessera del partito, certo. Presentando certificati medici fasulli per essere esentato dagli eventi di partito. Non facendo, di regola, il saluto nazista. Evitando di aggiungere alle lettere il post scriptum «Heil Hitler». Non amato dai vertici del partito (dei quali lui, per nascita e cultura prima ancora che per questioni politiche o etiche, disprezzava la volgarità). Ma scelse di restare fino all'ultimo, finendo processato dopo la guerra nella sua Germania denazificata, assolto dopo un'inchiesta umiliante che ha dato vita a una piéce e un film appassionanti (Taking Sides del drammaturgo Ron Harwood: il film si chiama A torto o a ragione, la piéce in Italia è stata portata in scena da Luca Zingaretti col titolo La torre d'avorio).
Perché la questione irrisolta è proprio che uno dei dati incontrovertibili — il maestro protesse musicisti ebrei — è anche l'accusa più pesante: da che cosa voleva proteggerli, se davvero non aveva idea delle mostruosità hitleriane? Perché accettò di conferire il suo immenso prestigio al regime? Perché diresse concerti nelle fabbriche belliche sotto una gigantesca svastica, per i gerarchi? I suoi difensori — subito dopo la guerra, Menuhin e Schönberg; in anni recenti, Barenboim e Gergiev — sostennero e sostengono che il quarto direttore della storia dei Berliner (prima di lui soltanto i più grandi, nel Valhalla: von Brenner, von Bülow, e Nikisch) non voleva lasciare l'orchestra in mani indegne, a un pupazzo del Führer.
Chi in quegli anni, per sua fortuna, non c'era, ammira il coraggio luminoso della scelta di Kleiber padre (e di Toscanini che lasciò l'Italia), ma sa anche che condannare è sempre più facile che cercare di capire, ha una via d'uscita. Ascoltare una delle ultime esecuzioni del maestro, malato e prossimo all'addio. Lucerna, 22 agosto 1954. La Nona di Beethoven, con la Philharmonia. A chi ama Beethoven, generalmente basta dire «la Nona di Lucerna», non c'è bisogno di nominare il compositore, né il direttore, l'orchestra o la data. La Nona di Lucerna. Immortale. Senza bisogno di processi. O di scegliere da che parte stare.

Repubblica 22.5.13
Arabia segreta
Mille meraviglie nascoste sotto il velo
di Francesca Caferri


GEDDA A poca distanza dalla Corniche di Gedda, il signor Mohammed sistema maschere e pinne nel suo negozio di noleggio di attrezzature subacquee. «Non ci sono molti clienti in questi giorni — racconta — i sauditi che vogliono fare snorkeling vengono soprattutto nel fine settimana. Gli altri giorni facciamo scarsi affari. Di stranieri qui se ne vedono pochissimi: ed è un peccato. Siamo sul Mar Rosso e la nostra barriera corallina è intatta: per gli amanti del mare questo è un paradiso ». Gli appassionati che volessero verificare di persona le parole del signor Mohammed, si troverebbero di fronte a un fermo, ma cortese “no grazie: non vogliamo troppi turisti qui”. Anche in questo si misura l’unicità dell’Arabia Saudita, uno dei Paesi più chiusi al mondo, di quelli che i viaggiatori segnano con il pennarello rosso nell’agenda: come a dire destinazione difficile da raggiungere.
Meta di cinque milioni di pellegrini che ogni anno da tutti gli angoli del mondo musulmano confluiscono verso La Mecca per il pellegrinaggio, l’Arabia Saudita risponde con un diniego a tutti gli altri turisti interessati a visitare le sue bellezze. I motivi sono diversi, ma il principale è senza dubbio l’estremo conservatorismo del Paese, dove vige una rigida separazione fra i sessi e le regole sociali mal si sposano con quelle occidentali. Così recarsi nel Regno è un privilegio riservato a pochi: uomini (e
qualche donna) d’affari che posso richiedere un visto di lavoro. Oppure familiari e amici di persone che risiedono qui (stranieri o sauditi) e possono farsi garanti di un invito. “È un vero peccato, abbiamo tesori meravigliosi ma molti neanche lo sanno”, conclude Mohammed.
E ha ragione: da un paio d’anni, la mostra Roads of Arabia sta facendo il giro d’Europa e degli Stati Uniti per mostrare le bellezze dell’Arabia Saudita, la sua storia religiosa ma anche la sua ricca civiltà. Ovunque registra il tutto esaurito e le autorità che l’accompagnano si sentono rivolgere la stessa domanda: «Sarà possibile venire un giorno a visitare il vostro Paese? ». «Ci stiamo preparando, ma non vogliamo essere frettolosi», risponde dal suo ufficio di Ryad il principe Sultan bin Salman, presidente della Commissione saudita per il turismo.
Un diniego gentile ma fermo, che contrasta con la voglia del negoziante di Gedda di mostrare al mondo la sua città. Quanto ci sia da scoprire qui i pochi visitatori fanno presto a capirlo: a poca distanza dal negozio di Mohammed, c’è il Balad, il cuore antico della città, il villaggio dei pescatori che per primi si stabilirono nell’area. Le antiche case sono un tesoro unico, in tutto il Medio Oriente non ce ne sono di simili: costruite in legno e corallo, adornate da ricche finestre, sono la testimonianza vivente del passato glorioso di Gedda, porto fondamentale per il commercio fra l’Oriente e l’Europa. Oggi sono circondate da palazzoni di vetro e acciaio, ma raccontano ancora un mondo lontanissimo dall’Arabia Saudita contemporanea, tutta petrolio e modernità.
Messo da parte il sogno di visitare La Mecca — l’ingresso nella città sacra dell’Islam è riservato ai soli musulmani — il luogo migliore per continuare a scoprire questo misterioso Paese è senza dubbio Mada’in Saleh. Classificata come patrimonio mondiale
dell’umanità dall’Unesco, la città è la gemella di Petra, in Giordania: gli edifici scavati nella roccia portano l’impronta inconfondibile dei Nabatei, l’antico popolo dei commercianti che dominava la regione. In qualunque altro Paese del mondo un luogo come questo sarebbe sommerso dai turisti: invece a Mada’in Saleh e nella vicina Ula il silenzio accompagna i visitatori. E la bellezza del paesaggio fa dimenticare alle signore la scomodità di arrampicarsi fra le rocce con l’abaya, la lunga tunica nera che ogni donna — straniere comprese — deve indossare in Arabia Saudita.
Chi non riesce ad arrivare fino a Mada’in Saleh — la distanza da Gedda è un’ora e mezza di aereo — potrà avere un’idea della bellezza di questo e degli altri tesori nascosti visitando il Museo nazionale di Ryad, dove la storia dell’Arabia Saudita si intreccia con quella dell’Islam e di Maometto, oppure Addiriyah, la prima capitale del Regno, a poca distanza da Ryad. Qui, da tempo sono in corso imponenti lavori di restauro: la località si fa bella per accogliere i sauditi che la visitano, come precisano le guide. Agli altri non resta che aspettare qualche tempo: Inshallah, come si dice da queste parti.

Repubblica 22.5.13
Reale e Veronesi, dialogo laico sulla fine della vita
Il confronto tra il filosofo credente e il medico ateo
di Michela Marzano


«Nessuno può decidere sulla vita di un uomo, e meno che mai può decidere lo Stato per legge. L’autodecisione, per quanto riguarda la vita, è irrinunciabile». Sono queste le conclusioni dell’ultimo saggio di Giovanni Reale e Umberto Veronesi, Responsabilità della vita, appena pubblicato da Bompiani. Un dialogo intenso e straordinario tra un credente e un non credente sui temi forse più complessi e controversi dell’esistenza, come il senso della morte, delle malattie e della sofferenza. Un dialogo tra uno dei massimi studiosi del pensiero filosofico antico e un medico conosciuto a livello mondiale per aver tra l’altro introdotto la chirurgia conservativa per il tumore della mammella. Un dialogo che incrocia la riflessione morale all’esperienza di tutti i giorni e che è capace di far emergere con forza alcuni tra i dilemmi etici più drammatici con cui ci si confronta in quanto esseri umani, senza mai irrigidirsi nella difesa ideologica di posizioni non conciliabili.
Un dialogo, appunto. Cosa ormai rara in un’epoca come la nostra, in cui sembra molto difficile confrontarsi con gli altri, rimettersi in discussione. Eppure è solo attraverso il dialogo che il pensiero evolve e che si possono affrontare temi come la dignità della vita, e l’eutanasia senza scadere nei luoghi comuni o nelle polemiche, come fanno appunto Giovanni Reale e Umberto Veronesi.
Certo, Reale è un filosofo credente che valorizza la sacralità della vita. Ma difendere la vita non significa mai farne un «feticcio ». Anzi, come scrive il filosofo, bisognerebbe stare attenti a non passare dalla «sacralità della vita » alla «sacralità della tecnica», visto che la vita deve poter avere la sua dignità anche e soprattutto nel suo momento finale e che essere credente non significa poi essere «clericalista». Quanto a Umberto Veronesi, si tratta certo di un ateo che difende il principio di autonomia e di autodeterminazione dei pazienti, contestando ogni forma di paternalismo morale. Ma difendere questo principio non significa poi che i medici debbano venir meno alla propria vocazione e abbandonare i malati alla solitudine delle proprie scelte: un medico deve essere capace di adottare il punto di vista altrui, rispettarne le differenze specifiche e sapere che la «cura del corpo» non può mai prescindere dalla consapevolezza delle sofferenze psicologiche legate ai mali fisici.
Discutendo alcuni casi che hanno animato molti dibattiti recenti, come quello di Piergiorgio Welby o quello di Eluana Englaro, il credente e il non credente arrivano a molte conclusioni condivise: nessuno può decidere al posto di un’altra persona quando è in gioco la dignità della propria vita; rispettare un essere umano significa rispettarlo sempre e non imporgli la propria visione del mondo e della vita. Per un filosofo cattolico come Reale il modo migliore per accompagnare una persona in fin di vita non è l’eutanasia ma le cure palliative. Nessuno può però arrogarsi il diritto, dice sempre Giovanni Reale, di far passare per cure palliative l’accanimento terapeutico; curarsi non significa rifiutare la vulnerabilità della condizione umana. Per un medico non credente come Veronesi la vita resta un “bene disponibile” per ogni persona. Ma questo non significa che si debba poi rinunciare a riflettere su un’etica della morte. Come direbbe Jürgen Habermas, attraverso la forma dialogica dell’argomentazione si riesce a raggiungere un consenso anche quando si parte da punti di vista molto diversi. Riuscendo così a sormontare la barriera dell’incomunicabilità che impedisce tante volte di trovare una via di uscita di fronte ai dilemmi morali.

IL LIBRO Responsabilità della vita di Giovanni Reale e Umberto Veronesi (Bompiani pagg. 272 euro 13)