venerdì 24 maggio 2013

La Stampa 24.5.13
Pd-M5S: contatti tra i malpancisti. Rodotà: “Pronto a fare il premier”
L’idea nata nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica
I ribelli nel Movimento 5 Stelle si sono contati: sarebbero 20 alla Camera e 15 al Senato
Civati lavora alla mediazione. Progetto per tagliare fuori Berlusconi
di Andrea Malaguti


«D’Alema 2.0». O anche, più precisamente, «il partito di Rodotà». Che sembrano due cose diverse. E invece sono la stessa. Prima era un’idea confusa, presumibilmente figlia di una leggenda. Poi, nel corso delle settimane, è diventata uno strano sogno. Una discussione tra un piccolo pezzo del Pd e una parte minoritaria del Movimento 5 Stelle che con Grillo non si trova più in sintonia. Da ieri, dopo una telefonata, è diventato un minuscolo cantiere visionario, che vuole archiviare per sempre l’era berlusconiana, riconnettendo la sensibilità delusa della pancia del centrosinistra (a partire da OccupyPd) con la propria supposta classe dirigente. «Professore, le piacerebbe farci da premier? ». Rodotà, a Berlino per un convegno, non si sarebbe fatto trovare impreparato. Così si è schiuso l’embrione di un mondo. Un micro-universo parallelo, che fonda la sua esistenza su una domanda: se cade il governo, è inevitabile tornare a votare rischiando di riconsegnare l’Italia al Cavaliere?
Un passo indietro aiuta a capire il dibattito. Il punto di partenza è la leggenda. Una storia - infondata, secondo i presunti protagonisti - che ha galleggiato in transatlantico per settimane. Sono i giorni imbarazzanti che precedono l’elezione del Presidente della Repubblica. Il Pd è allo sbando. Un arcipelago di isole velenose.
In una notte shakespeariana Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani si scontrano. D’Alema chiede a Bersani di sostenere la candidatura Rodotà che porterebbe a un governo con l’appoggio dei 5 Stelle. «D’Alema 2.0», appunto. La risposta di Bersani, dipinto come un uomo che si mette in posizione di preghiera con l’aria di chi vuole imporre un superlavoro al suo rosario, è piccata. «Mai e poi mai». Fin qui il romanzo.
Poi comincia la vita vera, perché la mente è una minuziosa macchina da presa che entra in tutte le stanze del passato e ti costringe a rivedere le scelte fatte. Un gruppo di piddini cerca la parte dialogante del Movimento. A guidarli è Pippo Civati, convinto che le assemblee di piazza nate dalla candidatura Rodotà e i plateali mal di pancia dei militanti del suo partito per l’innaturale accordo con Berlusconi, non possano essere trascurati. Si muove riscuotendo l’attenzione di un gruppo sempre più folto di Cinque Stelle sia alla Camera sia al Senato. L’europarlamentare Sonia Alfano lo aiuta. E persino il sindaco di Napoli De Magistris non sarebbe estraneo alla partita.
Discorsi che cadono nel vuoto, un po’ perché l’impressione diffusa (e comprensibilmente molto forte) è che il governo non possa cadere perché sostenuto dal Quirinale, un po’ perché Civati ha bisogno di allargare la base del consenso interno e, infine, perché i grillinidialoganti non hanno la forza di contarsi fino a una cena chiarificatrice di poche sere fa. Davanti a una pizza e a una birra si ritrova un gruppo di dodici persone - deputati e senatori - che comincia a usare il pallottoliere. «Quanti di noi sarebbero disposti a fare un gruppo pronto ad appoggiare il Pd? ». La replica è: venti a Montecitorio, quindici a Palazzo Madama. Stima eccessiva? In ogni caso sono questi i numeri che vengono portati al Pd, dove anche qualche dalemiano ha fatto arrivare la propria adesione all’idea. A questo punto viene contattato Rodotà. E adesso? Civati la mette in questo modo: «Berlusconi sappia che se fa cadere il governo in modo strumentale - o ci costringe a prendere le distanze dall’esecutivo - potrebbero esserci conseguenze non banali. C’è un fronte in Parlamento, e ancor più nel Paese, che non ha nessuna intenzione di regalare l’Italia a chi si dovesse dimostrare irresponsabile, per altro dopo esserlo stato per vent’anni». È il primo abbozzo di Manifesto Costituivo. La voce gira. Il giovane turco Fausto Raciti, emergente ventinovenne siciliano, non crede tanto all’ipotesi di una crisi di governo. Eppure dice: «Se esiste questo elemento di novità è bene che il Pdl ne tenga conto ed eviti i dispetti che abbiamo visto in questi giorni. E forse tra i Cinque Stelle qualcuno ha i sensi di colpa perché si è reso conto che un accordo era possibile». Era o è? E quanti sono davvero i grillini pronti a salutare i vecchi amici nella certezza che il rigore trasformato in gabbia di se stesso diventa rifiuto di contaminarsi con la vita reale? Solo se Stefano Rodotà dovesse entrare ufficialmente in questo nuovo gioco arriverebbe la risposta.

il Fatto 24.5.13
Lavoro, sindacati vs il governo Letta:
“Con gli annunci non si creano posti di lavoro”
di Manolo Lanaro

qui

La Stampa 24.5.13
Ineleggibilità: l’imbarazzo avvelena il Pd
di Federico Geremicca


Un coro. Con qualche voce dissonante, certo, e qualche tono più basso, più imbarazzato di altri. Ma se si dovesse fotografare la reazione della cittadella politica romana alle motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Milano ha confermato la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni di carcere ed a cinque di interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale, quella del coro è un’immagine che regge a sufficienza. Il coro recita: per questa sentenza, nessuna ripercussione sul governo. Il Pdl lo annuncia senza tentennamenti; il Pd, invece, se lo augura. E in tutta evidenza, c’è qualcosa che non torna.
Non sorprende, naturalmente - un po’ perché non nuova, un po’ perché politicamente comprensibile - la posizione del partito di Berlusconi, da sempre schierato in difesa del proprio leader e in campo (fin dal 1994) contro la magistratura milanese, accusata di voler - né più né meno - liquidare il Cavaliere.
Diverso, invece, il discorso per quel che riguarda il Pd che - da quando ha assunto la guida del governo con Enrico Letta pare improntare la propria azione ad un «realismo» che - dall’Imu al «porcellinum» fino, appunto, alle vicende giudiziarie del leader del Pdl - rischia di apparire sempre meno comprensibile (e condivisibile) dall’elettorato democratico.
Nelle motivazioni di conferma della condanna di primo grado, infatti, i giudici milanesi scrivono - a proposito della frode fiscale nella vicenda dei diritti televisivi che Berlusconi avrebbe creato «un sistema portato avanti per molti anni... e proseguito nonostante i ruoli pubblici assunti. E condotto in posizione di assoluto vertice»: cioè da Presidente del Consiglio. In queste affermazioni si può ravvisare la conferma di due questioni sulle quali il centrosinistra ha per anni - con più o meno forza - molto polemizzato e attaccato Berlusconi: e cioè il suo essere, una volta al governo, quasi inevitabilmente in perenne conflitto di interessi; e la conferma del fatto che, al di là di escamotage societari, in realtà è lui il titolare di concessioni governative che lo renderebbero - per legge - ineleggibile.
Stando così le cose, ci si sarebbe attesi dopo quanto scritto dai giudici della Corte d’Appello di Milano - la riproposizione delle tesi fin qui sostenute: invece, molti silenzi e qualche dichiarazione tesa a sdrammatizzare ed a preservare la vita e la tenuta del governo. È una posizione che rivela, naturalmente, un palpabile imbarazzo: e che, soprattutto, espone il Pd a nuove fibrillazioni sia nel rapporto con il proprio elettorato, sia nella dialettica con le altre forze politiche, Movimento Cinque Stelle in testa a tutti.
È noto, infatti, che appena la Giunta per le elezioni sarà finalmente nella sua piena operatività, i parlamentari di Beppe Grillo chiederanno di discutere e decidere sulla presunta ineleggibilità di Silvio Berlusconi. Come si regolerà, il Pd, anche alla luce delle motivazioni dei giudici milanesi? È senz’altro vero, infatti, che è meglio - e democraticamente più normale - sconfiggere l’avversario politico nelle urne, piuttosto che per questo o quel cavillo giudiziario. Ma è anche vero che, come si dice, la legge è uguale per tutti: e si può arrivare al punto di transigere su questo principio in nome dell’alleanza di governo stipulata e di qualche mese di sopravvivenza in più?
Alle prese con divisioni interne sempre più insanabili e con un Congresso da avviare, è facile immaginare per il Partito democratico settimane non facili. Il problema, in apparenza semplice, sarebbe quello di darsi una rotta e seguirla con la necessaria coerenza. Ma darsi una rotta è difficile, quando a bordo ognuno rema in direzione diversa. Del resto, fosse stato facile decidere una linea su Berlusconi e poi seguirla, probabilmente si sarebbe già fatta - e da anni - una legge sensata sul conflitto di interessi. Col risultato di evitare al partito gli imbarazzi di oggi: e al Paese, quel che più conta, un clima di guerriglia del quale tra non molto festeggeremo addirittura il secondo decennio...

Repubblica 24.5.13
Il conflitto di interessi
Nel Pd si riapre il caso ineleggibilità Casson lancia il blocca-prescrizione
Il senatore democratico: dopo l’appello i processi non devono scadere
di Liana Milella


ROMA — «Potrebbe essere la chiave di volta». Dice così il senatore democratico Felice Casson quando legge la notizia delle motivazioni dei giudici di Milano sul caso Mediaset. Giusto in quei minuti è alle prese con la proposta di legge per cambiare radicalmente il meccanismo della prescrizione. Per bloccarne la corsa se, in un processo, è già stata pronunciata la sentenza di appello. Una proposta che, se fosse stata già legge, avrebbe cancellato subito la prescrizione del caso Mediaset, in scadenza nel giugno 2014.
Casson, componente della commissione Giustizia del Senato, ma anche della giunta per le autorizzazioni, convinto che la legge del ’57 sul conflitto d’interessi è da leggere in chiave anti- Berlusconi, resta fortemente impressionato dalla decisione di Milano. Non dice di più. Ma la sua reazione lascia intendere che, dopo quelle 194 pagine, anche la battaglia dell’ineleggibilità del Cavaliere al Senato potrebbe avere un corso diverso da quello disegnato fino a oggi. Soprattutto all’interno del Pd dove, negli ultimi due giorni e soprattutto dopo la presa di posizione del segretario Guglielmo Epifani, pareva prevalere la tesi che Berlusconi va combattuto sul piano politico e non su quello giudiziario. E soprattutto che i precedenti pronunciamenti su di lui alla Camera — ovviamente favorevoli alla sua eleggibilità — vanificano l’ulteriore tentativo su cui il partito di Grillo ha concentrato le energie al Senato.
Ma adesso la storia potrebbe cambiare. Le motivazioni di Milano potrebbero rappresentare quel «fatto nuovo» di cui andava in cerca la Pd Doris Lo Moro proprio per modificare indirizzo rispetto al passato. Ora, come lascia intendere Casson, è scritto nero su bianco in un atto giudiziario che, pur formalmente fuori dall’azienda, Berlusconi ha continuato a prendere le decisioni che contano. Tanto forte e documentata è questa convinzione da portare alla pesante condanna del Cavaliere in ben due gradi di giudizio. Un fatto nuovo, inequivocabile, destinato per forza a pesare sui delicati equilibri nella giunta. Dove, ovviamente, il Pdl respingerà la richiesta del M5s, ma dove tutto dipende da cosa farà il Pd.
Ovviamente, sul fronte Pdl, la valutazione di Casson viene stroncata come «il giudizio di una ex toga di sinistra che vuole a tutti i costi cacciare Berlusconi, tant’è che adesso modifica anche il meccanismo della prescrizione». Casson replica a stretto giro: «Non è affatto così, tant’è che la mia proposta contiene anche una norma transitoria che impedisce di applicare la futura legge ai processi “per i quali sia già stata pronunciata sentenza di primo grado”». Se, per ipotesi, la legge, che smonta del tutto la famosa legge Cirielli approvata nel 2005 dal governo Berlusconi per accorciare la prescrizione, fosse approvata prima della fine del caso Mediaset, essa comunque non avrebbe effetti, non fermerebbe l’orologio. Casson ha già depositato il testo in commissione Giustizia. Tre articoli, il primo sulle fasce temporali legate all’entità della pena, il secondo sui casi di sospensione, il terzo sulla norma transitoria. Il calendario dipende dal presidente Francesco Nitto Palma. Ma tutto lascia intendere che la trattazione non sarà sollecita.

Corriere 24.5.13
Porcellum, scontro sui «mini ritocchi»
il premio di maggioranza che sarebbe stato fissato al 40 per cento rende sostanzialmente impossibile il raggiungimento del quorum
«Manovra per mantenere il potere»
Segni: una vergogna Come cittadino mi sento offeso
di Daria Gorodisky


ROMA — «Il mio giudizio su questo tentativo di riforma elettorale? Una porcata al quadrato. Una manovra per mantenere il potere». Mario Segni, paladino del maggioritario, non può né vuole trattenere la sua indignazione per come la maggioranza di governo sta sostanzialmente cercando di fare sopravvivere il Porcellum dopo la bocciatura della Corte Costituzionale. «Vergogna, vergogna, vergogna - incalza - Ci vogliono condannare alle larghe intese per l'eternità. Come cittadino mi sento offeso».
La ritiene un'operazione di maquillage funzionale a evitare un vero cambiamento?
«Vedo una classe politica che per quasi dieci anni si è tenuta un sistema di voto che essa stessa ha definito porcata, e che da quasi dieci anni afferma di volerla riformare senza però fare mai niente. Da almeno due anni è stata depositata una proposta, la Parisi-Ceccanti sottoscritta da 150 parlamentari, che non è mai stata neppure discussa in Commissione. E ora ci vengono a raccontare che ci saranno piccoli aggiustamenti limitati nel tempo…»
Crede che invece saranno permanenti?
«È evidente che c'è una strategia precisa: con incredibile faccia di... bronzo, ci dicono legge transitoria, ma in realtà sarà definitiva. Una condanna alle larghe intese per sempre, il disegno scellerato di questa maggioranza per mantenere il potere. Togliendo il premio di maggioranza e lasciando le liste bloccate, si tornerebbe al proporzionale di 25 anni fa addirittura peggiorandolo: verrebbe tolta definitivamente agli italiani la possibilità di scegliere i parlamentari e il governo».
Strategia-inciucio?
«Voglia di mantenere il potere molto molto a lungo, altro che voglia di cambiamento... Almeno abbiano il coraggio di dirlo; e poi magari spieghino pure come pensano di poter governare… Se questa è la prima riforma, Dio ci scampi dal resto».
Parlano di sistema alla francese, però in realtà...
«Ma con che coraggio Quagliariello dice queste cose? Crede che tutti gli italiani siano imbecilli? Quello che propongono è l'opposto esatto. Non salvano neppure le apparenze. Vorrei fare una domanda...».
A chi?
«Mi domando come facciano a non arrossire il presidente del Consiglio Enrico Letta, il ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini: possono davvero pensare che anche un solo italiano, uno solo, creda che loro stanno lavorando per l'Italia? È lampante che si stanno muovendo soltanto per consolidare il potere loro e dei loro gruppetti».
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha più e più volte sollecitato il Parlamento a riformare la legge elettorale. Ritiene che potrebbe essere soddisfatto di quanto si sta elaborando?
«Non credo che un passo di tale importanza possa essere fatto senza l'assenso del capo dello Stato. Temo molto che Napolitano sia d'accordo, perché con la forza che esercita oggi ogni provvedimento deve avere la sua approvazione. Ma sarei felice di sbagliarmi: se vuole, Napolitano può fermarli; altrimenti, si fa complice di questo disegno».

Repubblica 24.5.13
L’amaca
di Michele Serra


Nel tentativo di giustificare il pavido sgorbio fin qui partorito in materia di riforma elettorale, il ministro Quagliariello ha detto una innegabile verità: «O vinciamo o perdiamo tutti insieme». Si intende che, per i fautori delle cosiddette larghe intese, quel “tutti insieme” sottenda “noi italiani”, compresa quella vastissima parte di Paese che aveva votato con tutt’altra intenzione o non aveva votato affatto, e deve prendere atto che il voto di febbraio è stato smentito e ribaltato nei suoi effetti. Molto più realisticamente, il “tutti insieme” di Quagliariello va invece riferito ai partiti della maggioranza stretti nella morsa di un comune destino. E viene da domandarsi se la frase del ministro assomigli più a una rivendicazione o più a una confessione di impotenza. Come gli evasi di Woody Allen in “Prendi i soldi e scappa”, il bianco e il nero incatenati tra loro, Pd e Pdl sono costretti a camminare insieme, ma è un’unione che non fa la forza e anzi li attarda. Quale riforma elettorale, e quali riforme in genere, potranno mai sortire da una così insincera alleanza, non si sa. Forse lo sa Quagliariello, e forse ostenta fiducia proprio perché sa che la riforma elettorale, del tutto indesiderata da Berlusconi, non si farà.

il Fatto 24.5.13
Larghissime intese
Intanto il governo pensa solo a “sminare”
di Fabrizio d’Esposito


Ogni giorno ha la sua “mina”, per Enrico Letta. E così nemmeno il tempo di respirare perché il prode Schifani l’altro giorno ha “sminato” il ddl del Pdl per dimezzare le pene del concorso esterno mafioso, ed ecco che arrivano le motivazioni della sentenza d’Appello del processo a B. per Mediaset. Il premier sminatore è entrato subito in azione, sul terreno più minato in assoluto: la giustizia. Prima una telefonata al vice Alfano: “Mi raccomando, ricordati dello spirito dell’abbazia di Spineto, i ministri parlano solo del loro lavoro”. Poi l’ordine al suo partito, il Pd, di tacere.
Sminare, sminare, sminare. Il risultato è che il Pdl, tranne il suo segretario Alfano, ha ovviamente attaccato a manetta i magistrati e gridato alla “persecuzione giudiziaria” del Cavaliere, con la rassicurazione però che “il governo non cadrà per le vicende giudiziarie di Berlusconi”. Tutto merito dello sminamento, che è ormai l’obiettivo principale dell’esecutivo delle larghe intese. L’importante non è governare ma sminare. Enrico Letta ha mutuato il verso dal suo padrino politico, il capo dello Stato. Sminare è la loro ossessione comune. Il motivo per cui Napolitano nominò i dieci saggi per guadagnare tempo? Semplice: “Sminare il campo tra le due coalizioni”. Ci sono verbi o parole che s’incollano come etichette insostituibili ai governi. Monti aveva la “sobrietà”, Letta ha lo “sminamento”.
SINORA, il premier ha sminato tutti i giorni, dall’Imu al comizio di B. a Brescia, dall’intercettazioni alla legge elettorale. L’epoca di Clinton e Blair, che D’Alema ha tentato maldestramente di imitare, ci ha consegnato l’agenda setting e la capacità dei politici di dettare le parole d’ordine all’opinione pubblica. Al contrario, l’esecutivo lettiano subisce, non detta. L’agenda la scrivono i seminatori di mine, o guastatori, che sono davvero tanti. Per un giorno intero, il governo ha inseguito il ddl di un senatore del Pdl, autodefinitosi “umile”, che voleva salvare Marcello Dell’Utri dal concorso esterno mafioso. E prima ancora c’erano stati la Finocchiaro e Zanda con il loro ddl anti-Grillo. Sminare, sminare, sminare. Nel Pdl i guastatori hanno il profilo dei falchi guidati dall’energico capogruppo alla Camera Renato Brunetta. Da lui mine a grappoli, sempre lì a fare il controcanto alle iniziative di un esecutivo considerato “amico”, come ai tempi dei governi deboli e passeggeri della Dc, e che lo stesso premier disconosce un giorno sì e l’altro pure con questa formula: “Questo non è il mio governo ideale”. La somma di tutti questi paradossi porta allo sminamento quotidiano. L’ultimo campo dove sono state sotterrate mine a iosa è il recinto della legge elettorale. In questo il vero problema del premier è il fuoco amico, anzi la mina amica del Pd. Il maquillage del Porcellum, che sia Porcellinum o Maialinum, non lo vuole nessuno. A partire da Matteo Renzi. Poi, giù giù tutti gli altri, compreso il neo-segretario Epifani.
In merito, le riunioni a vario titolo del Pd vengono ritenute “esplosive”, giusto per rimanere in tema. Tocca sminare a oltranza. Un compito che, sulla legge elettorale, si sono caricati sulle spalle i ministri Dario Franceschini e Gaetano Quagliariello. La condizione indispensabile chiesta dal premier è quella di “abbassare i toni”. Quando il tono si abbassa è più facile per lo sminatore mettersi all’opera. Alla Camera, inizia a prevalere la vulgata che la forza di Letta risieda nella sua estrema fragilità e che per questo andrà avanti per un bel po’. Assisteremo quindi a uno stillicidio perenne di mine seminate dall’assidua folla di guastatori. Ma l’importante è sminare, non governare.

il Fatto 24.5.13
Conflitto di attribuzioni
Consulta, il sonno di primavera
di A.Masc.


Si aspetta dal 24 aprile, ma neppure questa settimana la Corte costituzionale ha deciso sul conflitto di attribuzioni sollevato, nel 2011, da Silvio Berlusconi presidente del Consiglio e imputato, contro i giudici di primo grado del processo Mediaset.
Davvero singolare la decisione presa ormai un mese fa dalla Consulta: ha interrotto la camera di consiglio, rinviando la decisione a data da destinarsi. Le motivazioni sono tutte politiche: in quei giorni di aprile si stava consolidando la grande alleanza tra Pd e Pdl, Enrico Letta, presidente del Consiglio incaricato, era nel pieno delle consultazioni per formare il governo. E allora per “opportunità” la Corte ha deciso di rinviare una sentenza che coinvolge colui che ha nelle mani il destino di questo esecutivo tanto caro al Quirinale. Dunque, camera di consiglio interrotta e giudici, alcuni, presenti al lancio di un libro sul presidente Giorgio Napolitano.
“Entro giugno” ci sarà la sentenza, hanno fatto sapere fonti della Corte nei giorni scorsi. Ma la settimana prossima è “bianca”, cioè i lavori sono fermi, quindi potrebbe esserci una decisione dal 3 giugno in avanti.
AL CENTRO del conflitto lasciato in sospeso, un legittimo impedimento che i giudici milanesi, il primo marzo 2010, non riconobbero a Berlusconi: si era appellato a un Consiglio dei ministri inizialmente previsto per venerdì 26 febbraio e quel giorno stesso rinviato al lunedì successivo, proprio in coincidenza con l’udienza Media-set fissata già un mese e mezzo prima con il consenso degli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo.
Se la Corte costituzionale dovesse dare ragione a Berlusconi, secondo la difesa sarebbe nullo il processo .
In realtà potrebbe essere annullata solo l’ordinanza “incriminata” del Tribunale senza ripercussioni sulle sentenze di condanna in primo grado e in Appello.
Nel momento in cui la Consulta avrà deciso, la parola passerà alla Cassazione perché il processo Mediaset si troverà nell’ultima fase di giudizio. Un giudizio che Berlusconi teme fortemente non tanto per la pena carceraria (non andrà mai in cella) ma per i 5 anni di interdizione dai pubblici uffici che potrebbero diventare definitivi. In quel caso, se ci sarà ancora questo governo e questo Parlamento, sarà la Giunta del Senato per le elezioni a doversi pronunciare sulla sua decadenza da Palazzo Madama.

Corriere 24.5.13
Il contenuto della borsa dell’attentatore a Palazzo Chigi
Pistola e cartucce un set da full metal jacket nella borsa di Luigi Preiti

qui

La Stampa 24.5.13
Utile al Pd l’idea di Epifani di rinviare il congresso
di Marcello Sorgi


Paradossalmente, le motivazioni della sentenza dei giudici di Milano che hanno condannato in appello Berlusconi per la frode fiscale sui diritti cinematografici, appesantendo la posizione giudiziaria del leader del centrodestra, non aggraveranno più di tanto il cammino del governo. Finché il Cavaliere viene preso di mira con tanta durezza dai magistrati (nel testo reso noto ieri viene definito l’autore in prima persona del reato), e finchè l’orizzonte della Cassazione, a cui sono affidate le ultime sue speranze, non si rabbuia, far saltare le larghe intese sarà l’ultimo dei suoi pensieri. Ma proprio perchè il governo funzionerà per Berlusconi da scudo fino a quando ce ne sarà bisogno, è prevedibile che la collaborazione con il Pdl diventerà sempre più pesante da sopportare per il Pd, come facevano intuire ieri le uscite dell’ex-presidente Rosi Bindi e della giovane Pina Picierno.
Il partito del presidente del consiglio lascia emergere giorno dopo giorno una difficoltà crescente, sia nel sostegno all’esecutivo, sia nelle scadenze politiche che la legislatura appena cominciata va proponendo, si tratti della pressione del Movimento 5 Stelle sull’ineleggibilità di Berlusconi, o del problema della legge elettorale o delle riforme istituzionali. Dall’interno del partito si alzano continuamente voci dissonanti e l’unica invocazione condivisa è quella di accelerare la fase preparatoria del congresso. Ieri Epifani ha dovuto smentire di voler rinviare le assise, previste per ottobre. Ma un congresso nelle condizioni in cui il Pd continua a versare, dopo il fallimento del tentativo di Bersani di formare il suo governo di cambiamento e dopo il tragico doppio siluramento di Marini e Prodi nelle votazioni per il Presidente della Repubblica, è inutile nasconderlo, rappresenta un forte rischio. Proprio perché sembra impossibile trovare posizioni comuni alle dodici correnti sulle principali questioni aperte, la discussione in sede congressuale finirebbe con il concentrarsi in una sorta di referendum sul governo. E dati gli stati d’animo più diffusi, non è difficile prevedere che potrebbe concludersi con la decisione di aprire la crisi. Che questa sia l’aspirazione, neppure tanto nascosta, di Berlusconi, che mette in conto di scaricare sulle inquietudini del centrosinistra la responsabilità di interrompere dopo l’estate l’esperienza della larga coalizione, i dirigenti del Pd lo immaginano, ma non sanno come evitarlo. Forse l’idea di Epifani (ammesso che fosse sua) di rinviare il congresso a tempi migliori non era poi così peregrina.

Corriere 24.5.13
Rebus segreteria per i democratici. E si salda il fronte «antigovernativo»
Epifani sceglie lettiani e bersaniani. Orfini: no al rinvio del congresso
di Monica Guerzoni


ROMA — Può sembrare paradossale, ma le preoccupazioni più forti per Enrico Letta arrivano dal suo partito. Il Pd non trova pace, sia sul fronte interno sia nel rapporto con il governo. La «clausola di salvaguardia» della legge elettorale scatena sospetti e veleni e le correnti, che per anni si sono combattute, cominciano a parlarsi. Il timore di Palazzo Chigi è che possa, prima o poi, saldarsi un fronte antigovernativo guidato da alcune delle personalità che hanno fatto la storia del Pd.
Al premier e al ministro Dario Franceschini non è certo sfuggita la recente sintonia tra renziani, dalemiani, veltroniani, fioroniani e bindiani, sulla legge elettorale e non solo. Non è ancora un'intesa, ma potrebbe diventarlo se è vero che Guglielmo Epifani medita di chiamare nella sua segreteria solo esponenti delle aree filo governative, come il lettiano Marco Meloni, il franceschiniano Alberto Losacco, il bersaniano Stefano Di Traglia. Epifani ha contattato anche il renziano Angelo Rughetti, è vero, ma molti pensano che sia solo «la foglia di fico» di una gestione che non si annuncia unitaria. «Mi auguro che Epifani costruisca un percorso collegiale da qui al congresso» spera Beppe Fioroni.
L'incertezza regna. La direzione nazionale, che sembrava in agenda per martedì 28, non sarà convocata prima della settimana successiva. E i democratici non sanno ancora se il congresso si terrà in autunno o no. Le assise rischiano di terremotare l'esecutivo ed è chiaro che Letta e Franceschini vogliano prendere tempo. Anche Epifani non ha fretta: «Rinvio? No, no... È un processo. Si parte e dopo si arriva. Pensiamo a prepararlo bene». I Giovani turchi però non si arrendono. «Questa storia del rinvio è assurda — attacca Matteo Orfini —. Discutere seriamente è l'unico modo per ripartire davvero». E Gianni Cuperlo, in corsa per la segreteria: «Posticiparlo all'anno prossimo non aiuterebbe a risolvere i problemi».
Le carte si stanno rimescolando. Beppe Fioroni ha ripreso a parlare con Massimo D'Alema e starebbe considerando l'idea di sostenere la leadership di Cuperlo. Gli opposti si attraggono, la sinistra potrebbe saldarsi con i moderati, confermando la rivoluzione in atto... E cosa succederebbe se Matteo Renzi finisse per ritrovarsi alla guida di tutte le anime che non vogliono saperne delle larghe intese? Il sindaco ha promesso lealtà, ma Letta è il primo a sapere che il patto di non belligeranza non durerà molto. La sfida tra Enrico e Matteo è nelle cose. «Quando arriverà la prossima occasione, vincendo, non perdendo, probabilmente me la gioco». Così ha parlato ieri Renzi con Alfonso Signorini, su Rmc, confermando la volontà di correre per Palazzo Chigi. E a Imola, durante un comizio: «Quando hai valori puoi concederti il lusso di fare battaglia. E ve lo dice uno che la battaglia l'ha fatta e continuerà a farla nelle prossime settimane e nei prossimi mesi». Le sue mosse preoccupano il governo. Su Avvenire il ministro del Pdl Maurizio Lupi lo accusa di voler riaprire lo scontro e avverte: «Il fallimento del governo sarebbe quello dell'Italia». Ma il sindaco non intende ancora aprire ufficialmente le danze. Gli chiedono se si ricandiderà a Firenze e lui prende tempo: «Sì, ma c'è ancora un anno davanti per lavorare...». Nell'attesa dà una mano in campagna elettorale e prova a riconciliarsi con il Pd. «Un partito che, se starà unito, vincerà le prossime elezioni».

l'applicazione della Costituzione repubblicana, secondo il ministro del governo Berlusconi-Letta sarebbe una questione ideologica...
l’Unità 24.5.13
Un referendum ideologico
Un quesito ideologico che non aiuta la scuola pubblica
di Maria Chiara Carrozza

Ministro dell’Istruzione

L’ultimo rapporto Istat ci consegna il triste primato di Paese con la quota più alta in Europa di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non partecipano ad attività formative: come si capisce da una lettura attenta del rapporto, l’investimento in istruzione, nel solco della Strategia Europa 2020, è fondamentale per cambiare la situazione.
E per fare questo abbiamo bisogno soprattutto di una scuola pubblica più forte.
Come ha detto il presidente Letta, la società della conoscenza e dell’integrazione si costruisce sui banchi di scuola e nelle università. Si dirà: non basta, è necessario andare dalle parole ai fatti. Bene, questo vuol dire esattamente affrontare con serietà i temi veri, parlare di competenze degli alunni, di cultura formativa, di investimenti. E questo significa mettere davanti a tutto le esigenze dei bambini, perché dobbiamo avere a cuore una scuola che dia opportunità a tutti loro. Una scuola che non escluda nessuno. Dare risposte a tutti i bambini è l’esigenza pubblica per eccellenza, in cui i beni comuni sono tutte le realtà educative che, in un sistema integrato, sanno mettersi al servizio della formazione dei nostri figli nel rispetto dell’interesse collettivo. Infatti, secondo la legge 62 del 2000, nota come legge Berlinguer, il sistema d’istruzione nazionale integrato è costituito da scuole comunali, scuole nazionali e scuole paritarie, che svolgono tutte un servizio pubblico.
Davanti a queste esigenze pressanti, e davanti a un sistema educativo come quello bolognese che in una sussidiarietà positiva ha trovato un’occasione di allargamento di opportunità per tutti, con risultati di eccellenza testimoniati dalle esperienze e dalle statistiche, il dibattito sul referendum di domenica 26 maggio di Bologna sembra privilegiare soprattutto le esigenze politiche e i diversi posizionamenti ideologici, piuttosto che gli interessi dei bambini. A volte, in queste discussioni, la prima impressione è che ci si dimentichi di loro con troppa leggerezza: la sacrosanta battaglia per una scuola pubblica più forte non si può vincere mettendosi contro chi cerca di dare un posto a tutti i bambini. Peraltro, come ricordato da studiosi tra cui Giulio Sapelli e Stefano Zamagni, la stessa teoria
dei beni comuni prevede che forme educative non statali adempiano a fini pubblici.
Su questo è necessario fare chiarezza. La sussidiarietà, nell’ambito del sistema bolognese e della legge 62/2000, non è in nessuna maniera una forma di privatizzazione, ma un modo con cui l’organizzazione delle persone risponde a una domanda della società, realizzando un contributo dal basso che è in linea con gli standard europei.
Penso che dovremmo tutti imparare, in questi giorni, dal buon senso che Romano Prodi ha espresso nella sua posizione, evidenziando che l’accordo attuale ha funzionato per anni e ha permesso di ampliare il numero di bambini ammessi alla scuola dell’infanzia, che nel sistema integrato bolognese fra scuole comunali, scuole statali e paritarie riesce a coprire ben il 98% della domanda. Per queste ragioni, pur nel rispetto di tutte le posizioni, come ministro dell’Istruzione punto a un buon governo pubblico del sistema attuale. Inoltre, non ritengo che la vicenda bolognese debba essere trasformata in una bandiera nazionale.
In questa posizione non c’è nessuna diminuzione dell’attenzione per la scuola pubblica. Il fine di questo governo e del Ministero dell’Istruzione è esattamente l’opposto. Nelle manifestazioni di Brindisi e a Palermo, a cui ho partecipato con emozione negli ultimi giorni, ho potuto toccare con mano quanto la scuola svolga un ruolo essenziale come laboratorio di una cittadinanza responsabile, grazie al coraggio degli insegnanti. Sappiamo che il mondo dell’istruzione pubblica ha bisogno di investimenti, di fiducia e di buon senso. Ha bisogno di dare risposte alle domande giuste: sul personale, sulla dispersione e sull’edilizia scolastica. Pensiamo che molte di queste giuste domande italiane possano avere, nelle prossime settimane, risposte concrete europee e siamo al lavoro, con il massimo impegno, per garantire i diritti di tutti i bambini.
*Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Corriere 24.5.13
Morrone: le scuole private né laiche né pluraliste
di Francesco Alberti


BOLOGNA — «Nessuno demonizza il privato. Il punto è un altro: la Costituzione stabilisce che è obbligo della Repubblica istituire scuole per tutti. Il dovere del pubblico è offrire istruzione a chi lo chiede. E anche a Bologna, spesso presa a modello, questo non avviene». Andrea Morrone, 42 anni, docente di Diritto costituzionale, si definisce «un moderato» nell'eterogeneo arcipelago (Sel, 5 Stelle, Fiom, associazionismo) dell'opzione A, quella per l'abrogazione dei contributi comunali alle private.
Professore, perché togliere i fondi alle paritarie?
«Noi partiamo dalla convinzione che gli istituti privati, in quanto scuole di tendenza, non offrono, a differenza del pubblico, un'istruzione laica, pluralista e volta all'integrazione dell'altro».
A detta di molti, il sistema integrato ha consentito di sopperire a numerose lacune: non è d'accordo?
«Sotto il profilo dei numeri, il sistema ha risposto in modo sufficiente. Ma negli ultimi tempi il problema delle liste d'attesa si è fatto più pesante. A Bologna tante famiglie, non trovando posto, sono state dirottate verso il privato, senza poter scegliere».
Ma se vince l'opzione A, non c'è il rischio che i soldi al pubblico non arrivino e che si perdano posti?
«L'obiettivo del referendum è andare verso una rinegoziazione delle convenzioni».
Per modificare cosa?
«Occorrono più controlli da parte del Comune».
Il sindaco Merola difende il sistema integrato: ha sbagliato?
«Quando si riveste un ruolo istituzionale si ha il dovere di tenere conto degli interessi di tutti. Avrei preferito che Merola, pur ritenendo il referendum sbagliato, avesse dimostrato una maggiore apertura verso chi considera importante un pronunciamento».
C'è chi accusa i referendari di voler far male al Pd in nome di una sinistra cosiddetta nuova.
«Mi pare che da tempo non ci siano più né sinistra, né destra. Ma giudico positivo che su temi spesso dimenticati si affaccino nuove istanze».

l’Unità 24.5.13
Il Fatto affianca i 5 Stelle ma non si può dire
I rapporti tra Casaleggio e Chiarelettere sono stati segnalati e non smentiti già un anno fa
La vicinanza tra i siti del giornale e di Grillo è confermata dai dati dei flussi dei visitatori
di Roberto Rossi Michele Di Salvo


ESISTE O MENO UN NETWORK AMBIENTALE CHE LEGA GRILLO CON IL FATTO QUOTIDIANO E LA TV DI SANTORO, SERVIZIO PUBBLICO? Un terreno comune, un pubblico simile, coltivato con bravura e coscienza dagli interessati? Secondo noi, sì. Ed è quello che abbiamo cercato di spiegare nell’inchiesta di mercoledì. Secondo Il Fatto, che ieri si è difeso insultando giornale, giornalisti e direttore, invece, no.
Eppure nel maggio 2012 uno degli estensori dell’inchiesta, Michele Di Salvo, scriveva più o meno gli stessi concetti nell’ebook «La menzogna della rete, chi e cosa c’è dietro Grillo e il Movimento 5 Stelle». In quell’ebook, che nessuno ha mai smentito, c’è un intero capitolo (il 15) intitolato «Lo strano rapporto con Il Fatto Quotidiano e Chiarelettere».
Cosa si dice in quel capitolo? Si accenna al rapporto tra Casaleggio e Chiarelettere, al fatto che quest’ultima fa parte dell’azionariato del giornale, guidato dall’ex direttore de l’Unità, Antonio Padellaro, e, infine, si fa riferimento al come è stata creata una cornice comune all’interno della quale si ritrova uno stesso pubblico di riferimento tra giornale e movimento politico.
E per spiegare di cosa si sta parlando si riporta un piccolo esempio che qui accenneremo: riguarda la gestione della moderazione dei commenti sul sito del giornale, collocato a Milano e diretto da Peter Gomez. Moderazione affidata, un anno fa, a una società esterna la I-Side, specializzata in marketing virale, e resa necessaria proprio per la presenza massiccia sul sito del giornale di influencer (persone che indirizzano la discussione di rete utilizzando profili falsi) o veri e propri fake e troll pro Grillo.
Nel capitolo in questione vi è una lunga ricerca e dimostrazione di anomalie nel flusso dei commenti e sulla presenza di fake e troll, e di come la linea delle discussioni finisse con l’essere direzionata e condizionata mediante delle semplici tecniche di marketing virale come quelle adottate proprio da Casaleggio. In questo modo il sito del noto giornale è diventato praticamente una delle piattaforme prescelte dai commentatori del Movimento 5 Stelle. Un luogo comune e amico dove incontrarsi. «Basta visitarlo è scritto nel capitolo per accorgersi della quantità di commenti che venivano cancellati e della quantità di quelli che venivano invece rilanciati ed esaltati. Quando si sono resi conto di questa cosa, molti lettori hanno cercato di contattare in tutti i modi la redazione, per avvertirli e chiedere conto in ogni caso dell’opprimente censura che secondo loro anche per l’utilizzo dei mezzi scelti veniva perpetrata anche dalla moderazione ufficiale del sito».
Di Salvo allora contatta la I-Side. Gli risponde il direttore editoriale del sito, Peter Gomez. Che nei numerosi scambi di mail rivendica l’autonomia editoriale della testata, precisando come quella società di moderazione l’avesse scelta lui e che tra lui e la Casaleggio non c’era alcuna connessione. Vero. Come abbiamo detto e ripetuto fino alla
noia nell’inchiesta, nel caso specifico non c’è una correlazione societaria.
Ma non solo per questa via si «condiziona un giornale». Ve ne è una forse più forte, ed è la vicinanza e contiguità degli spazi ed in qualche modo del pubblico. Laddove «essere critici» verso Grillo non tocca più di tanto altre testate, proprio per la contiguità dei lettori, è probabile che esserlo per Il Fatto possa essere più delicato.
E non ci sembra di minare in alcun modo alcun fondamento del lavoro giornalistico de Il Fatto Quotidiano semplicemente affermando quanto si legge con chiarezza ogni giorno, ovvero una vicinanza editoriale a Beppe Grillo (basterebbe rileggersi l’intervista fatta al leader dei 5 Stelle dal vice direttore Marco Travaglio nel giugno dl 2012). Né appare possibile alla luce dei dati di flussi di visitatori, riportati nell’inchiesta, negare che ci sia tale confluenza e convergenza.

«Goffredo Bettini amico di tutti i Caltagirone della capitale, ha fatto e disfatto sindaci e giunte e ha dato la spinta necessaria a Ignazio Marino, l’ultimo prescelto»
il Fatto 24.5.13
Da Walter a Ignazio. Potere all’ombra del Colosseo
Filosofia Bettini: senza i costruttori dove vai?
di Antonello Caporale


La pancia di Goffredo Bettini contiene tutta la sinistra romana. È il depositario di ogni accordo che su Roma, ai suoi lati (potremmo dire ai suoi fianchi) negli ultimi vent’anni si sono conclusi. È un uomo di potere intelligente, ama i libri, ha amato il Pci fino a patirne fisicamente la scomparsa (“mi venne la depressione e durò tre anni”). Ama la classe operaia ma gli ispira tanto stare al fianco dei costruttori. Discepolo di Berlinguer, amico di tutti i Caltagirone della capitale, ha fatto e disfatto sindaci e giunte e ha dato la spinta necessaria a Ignazio Marino, l’ultimo prescelto. Ritrovarlo con la maglietta della salute e la barba di qualche giorno nel salottino della casa “che divido con una famiglia marocchina in difficoltà”, e l’aria dell’osservatore partecipe ma sfaccendato è insieme utile e singolare. “Ignazio sarà un ottimo sindaco. Ha dato prova di grande spessore etico, è un Argan della scienza, un bel tipo”.
GALOPPA in solitaria, corre da un giardinetto all’altro, un po’ alla rinfusa. “Sta facendo una campagna elettorale guascona” (ride). Non è romano e si vede, e sembra che patisca l’assenza di una qualche connessione sentimentale con la città: “È un irregolare, vero”. Lui irregolare, il partito defunto. Non è che l’ha invece mandato contro un muro? “Andiamo per ordine: Nicola Zingaretti, il più bravo di tutti, ha scelto la Regione Lazio. Paolo Gentiloni ha la competenza e la conoscenza, ma gli faceva difetto una capacità di coinvolgere tutta Roma nel suo progetto. David Sassoli, idem. Ignazio Marino è il meglio. Gli manca quel po’ di ansia che fece dire a Francesco Rutelli, quando gli comunicai che sarebbe stato lui il nostro candidato: se faccio il sindaco di Roma andrò a piedi fino a Milano. Non ci è andato, ma ha scarpinato in città per l’equivalente dei chilometri promessi come atto di gratitudine”. Con i costruttori ha costruito le vittorie di Rutelli, ha gestito il potere con Veltroni, con Gianni Letta ha pianificato le opere-simbolo della capitale, una su tutte: l’Auditorium della Musica. Un concentrato di amicizie affluenti che adesso sembra svanito nel nulla. “Roma è una città di destra. E se la sinistra voleva governarla doveva allargare il proprio campo. Era e resta il mio pensiero. Posso convenire con lei su un punto: ho esercitato un’influenza morale su questa città, mi hanno riconosciuto come rappresentante di un potere politico forte, limpido, identificabile. Ho sempre parlato con loro sentendomi alla pari. La nostra visione, le nostre suggestioni e anche la qualità del ceto politico che con me è cresciuto e si è affermato ha prodotto rispetto nei nostri interlocutori”. Ora zero. “Mi pare che si sian messi di traverso”. Il Pd non esiste. “Un partito personale che genera tanti partitini personali. Una matrioska che contiene micro potentati, con uno sviluppo autarchico, disordinato. Non c’è nessuno che domanda, nessuno che risponda, nessuno che renda conto. Per questo ho deciso di promuovere una mozione congressuale”.
E UN GOVERNO da tenere in vita: “Mi sembra che Letta nella sua pancia abbia un ordigno di autodistruzione. Le caratteristiche dell’esecutivo sono note e la sua eccezionalità conosciuta a tutti”. Bettini è fuori la politica ma è dentro. “Ancora sono nel coordinamento nazionale del partito, ammesso che valga”. Non più parlamentare. “Dimessomi con onore”. Con la testa un po’ in Thailandia: “Vivo lì almeno sei mesi all’anno. Organizzo il festival Movie Mov, una grande rassegna cinematografica sui talenti italiani tra Manila, Bangkok e la Birmania. Sa, devo pur vivere”. Tre legislature se le è fatte: “La pensione è di sei mila euro al mese. Che divido con la mia mamma novantaduenne”. Ma Roma resiste nel cuor: “Al mio sessantesimo compleanno ho voluto invitare anche personalità distanti dal nostro mondo, ma che a mio avviso hanno segnato la crescita di Roma”. Puntuale si è presentato Caltagirone. “E con lui Toti e Parnasi. E basta”. Basta? “Le ripeto: legami instaurati alla luce del sole, rapporti alla pari, potenze che si riconoscono”. Riporto la denuncia di un architetto: Bettini è stato il regista delle nefandezze urbanistiche di Roma. “Quel tizio è stato querelato”. Marino ce la fa? “Alemanno è partito male, al secondo turno non vedo gara”.

il Fatto 24.5.13
A Siena la sfida di piazze tra Grillo e Renzi
di Enrico Fierro


IL LEADER DI M5S PROPONE DI NAZIONALIZZARE MPS, IL SINDACO FIORENTINO ACCUSA LA BANCA D’ITALIA: “DORMIVA”

Uno vuole rottamare, ma con prudenza. L’altro vuole sfasciare tutto. Di là un sistema di potere agli sgoccioli che cerca di sopravvivere riaggiustandosi. Di qua una rivoluzione urlata, con tante idee anche buone, ma moltissima confusione. Beppe e Matteo. Grillo e Renzi, un ex comico e un politico in ascesa che ama vestirsi come i vecchi personaggi della tv americana. Siena degli scandali come palcoscenico. Per Beppe Grillo che sale sul palco nei Giardini Lizza, dove già parlò nella campagna elettorale per le politiche regalandosi un tondo 22%, Renzi è “l’ebetino di Firenze”. Il “povero ebetino” che nel suo discorso a sostegno della candidatura di Bruno Valentini, un suo fedelissimo candidato alla carica di sindaco dal Pd, aveva detto che “non si può fare una legge per dire che Berlusconi è ineleggibile dopo 19 anni che sta in Parlamento”. Grillo è feroce nella risposta: “Ebetino, quella legge esiste già, informati, basta solo applicarla”. Volano stracci nella Siena del Monte.
Se Matteo Renzi, galvanizzato dallla gente che affolla la sala dell’Università per stranieri (200 posti a sedere, semivuota quando parlò Epifani, zeppa con il sindaco di Firenze) dice che “le banche devono stare fuori dalla politica”, che “ a Siena si è sbagliato ma si è avuto il coraggio di mettere un punto e ripartire”, Grillo spara ad alzo zero. “O avrete il coraggio di dire basta a quella banca, o avrete quel piede sporco che vi schiaccia la testa per sempre”. In mattinata i deputati del M5s hanno presentato una proposta di legge per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Banca più antica d’Italia. A Siena il Monte è tutto, 4mila posti di lavoro in città, 33mila in tutta Italia. L’iniziativa può diventare un boomerang in campagna elettorale.
“Sento una città in bilico – dice l’ex comico – incerta se fare scelte contro se stessa o cambiare. Qui non c’è da chiudere una banca, qui dobbiamo fare una rivoluzione”. E allora la proposta è quella detta, ripetuta, urlata in tutti i comizi del tour: “Nazionalizzare”. “C’è un buco di 14 miliardi, voglio sapere dove sono finiti i soldi, voglio che i responsabili dello sfascio paghino tutto. E voglio che la banca torni ai cittadini di Siena. Se non si nazionalizza arrivano i russi, Caltagirone al quale avete venduto tutto, anche l’acqua”. Grillo ricorda il suo ingresso come piccolo azionista nell’assemblea della Banca. “Profumo, uno che a Unicredit guadagnava 1400 volte più di un suo impiegato, mi guardava e ridacchiava Voglio sapere dove sono finiti 21 miliardi, prendeteli dallo scudo fiscale, sono lì”. Parla sotto la statua equestre di un Garibaldi perplesso e con la spada nel fodero, Beppe-Beppe, come lo incitano i suoi, “di questo Paese dove ormai siamo invisibili, non contiamo più un cazzo”. E allora “referendum sull’euro”, ricontrattazione con l’Europa, protezionismo laddove serve e sgradevoli attacchi alle tv e ai giornali. “Gentaglia, Ballarò ha mandato le telecamere sotto casa mia”.
La gente si spella le mani. Sul palco il candidato sindaco Michele Pinassi (classe 1978) laureato in storia e impiegato all’università e gli altri suoi candidati, 13 donne e 19 uomini. Giovani e meno giovani, attivisti di movimenti ed ex comunisti, che vogliono ripetere “il miracolo di Parma”. “Si può fare, può succedere se negli ultimi giorni del voto i padroni della città non fanno strani accordi”, ci dice il giovane parlamentare Massimo Artini. “E’ dura, durissima, qui hanno distrutto secoli di storia. Siena ha da sempre privilegiato il bene comune. Trentamila persone lavorano al Monte Paschi, nell’Università fondata nel 1248 ci sono 25mila studenti per una città di 56mila abitanti. Dati straordinari, ma i nuovi feudatari, i Luigi Berlinguer, i Pierluigi Piccini (ex sindaco, ndr), hanno rovinato tutto”. Chi ci parla è Mauro Aurigi, bestia nera del Mps, ultima tessera del Pci datata 1984, morte di Enrico Berlinguer. Siena assiste trepidante alla disfida, in bilico tra il rinnovare la fiducia ad un vecchio e radicato sistema di potere e l’avventura del cambiamento. Alle ultime politiche i senesi hanno mandato un messaggio durissimo al Pd e al centrosinistra bloccato al 45% e nostalgico del 56 conquistato nel 2008. Oggi la lotta è durissima: otto candidati a sindaco, 16 liste, il Pd dilaniato da lotte di gruppi di potere che qui navigano dentro gli agi delle grandi famiglie e i misteri delle massonerie. Grillo tenta i senesi, li provoca quando gli ricorda che “è una balla quella del Monte dei Paschi come banca più antica del mondo. Non è così la banca più antica è genovese, la San Giorgio, la fondammo 70 anni prima”, ma sa anche coccolarli. “Hanno una paura fottuta, temono che arriviamo noi, per questo hanno fatto una leggina che cancella i rappresentanti del Comune di Siena dal cda della Fondazione dell’Mps”. E’ “un golpe continuo, fanno di tutto per tenerci fuori”, urla dal palco. Renzi tende la mano, “è allucinante che si faccia una legge per dire che i movimenti non possono correre alle elezioni, se vogliamo vincere non possiamo squalificare”, ma Grillo non lo sente. Renzi è sempre “l’ebetino”, perché il leader del M5s sa che la partita è tra loro due. Uno vuole dare una lucidatina ad un sistema di consenso e potere malconcio, l’altro vuole mandarli tutti a casa.

Repubblica 24.5.13
In Italia torna l'aborto clandestino. Otto medici su dieci sono obiettori
Così muore la 194: i dati per regione
di Maria Novella De Luca

qui

l’Unità 24.5.13
Un’Alleanza per i 150 anni Spd
Dai socialdemocratici tedeschi parte la spinta per superare l’Internazionale socialista
La posta in gioco è l’Europa: molto dipenderà dal voto tedesco di settembre
Gli auguri di Merkel per l’anniversario, celebrato alla presenza di leader stranieri e di 30 partiti «fratelli»
Hollande elogia l’agenda Schröder
di Paolo Soldini


La cronaca d’una giornata importante può cominciare da un dettaglio minimo che pure, a suo modo, dice molto. Quando il presidente della Spd Sigmar Gabriel saluta Angela Merkel, seduta in prima fila, non la chiama «signora cancelliera» ma «signora presidente», e poi si scusa: «Ho anticipato un po’ i tempi». La cancelliera sorride, ma apprezza. La piccola gaffe delinea bene il clima in cui si tiene, a Lipsia, la celebrazione dei 150 anni dal 23 maggio del 1863, quando Ferdinand Lassalle fondò proprio qui la sua Allgemeine Arbeiter Verband, la Lega generale dei lavoratori che sarebbe poi diventata la Sozialdemokratische Partei Deutschland. La cancelliera-non-ancora-presidente ha fatto, sul giornale cittadino, l’elogio della «combattiva e indomita voce della democrazia» che la Spd è stata ed è ancora. Il presidente della Repubblica Joachim Gauck ha detto di «inchinarsi» di fronte al partito che ha fatto un bel pezzo della storia del Paese. Anche dagli altri partiti sono venute lodi e riconoscimenti. Un clima di concordia dominato da quello che dall’altra parte del Reno chiamano l’esprit républicain, ovvero la comune consapevolezza della convivenza nella democrazia al di là delle differenze e dei contrasti politici. Qualcosa di cui ci sarebbe un gran bisogno anche a sud delle Alpi.
La nota scherzosa di Gabriel ha alleggerito una cerimonia che ha corso, inevitabilmente, il rischio della retorica. Non solo perché quando si celebra un partito così vecchio e così importante si sente, per così dire, l’alito della Storia. Ma anche perché il momento in cui questa ricorrenza è caduta ha anch’esso un suo proprio spessore storico. A Lipsia si celebra un partito, ma la posta in gioco è l’Europa, il suo futuro. La Spd ha di fronte a sé un appuntamento elettorale decisivo, perché da come andrà avanti la politica tedesca dopo il 22 settembre dipenderà una parte grossa del destino del Paese che ha la responsabilità più grossa per il futuro del continente, della sua economia, del suo benessere, del suo assetto istituzionale.
Ma insieme con tutti gli altri partiti e movimenti che hanno invitato qui a Lipsia a festeggiare i socialdemocratici tedeschi debbono già guardare alle elezioni europee che avranno luogo quasi esattamente tra un anno e nelle quali si confronteranno diverse e alternative concezioni dell’Unione e del suo sviluppo. C’è una scommessa, ed è un appuntamento: a febbraio tutti i partiti socialisti e progressisti europei dovrebbero decidere insieme chi candidare alla presidenza della Commissione Ue e farlo, se ci riusciranno, sulla base di una piattaforma che contenga almeno il bozzolo di un programma comune. Nella nebbia delle difficoltà attuali, quando l’iniziativa politica appare nelle mani della destra e la sinistra fatica penosamente a liberarsi dal pensiero unico economico e a ritrovare la propria capacità di esercitare egemonia, culturale prima ancora che politica, può apparire un’impresa disperata. Di quelle che, come si sarebbe detto un tempo, vanno affrontate con l’ottimismo della volontà.
Intanto a Lipsia la Spd ha invitato mezzo mondo, ed è più di un modo di dire. Ci sono i leader di trenta partiti «fratelli» per il Pd hanno partecipato Bersani e D’Alema, mentre Letta ha presenziato alla cena dei leader progressisti tutti esponenti di quella Internazionale Socialista che muore dopo una lunga storia per rivivere, così almeno si spera, in una forma più moderna, più aperta e soprattutto più capace di aderire alle pieghe di un mondo che è cambiato e cambia profondamente, nelle nazioni e fra le nazioni.
La «Alleanza progressista» ha un riferimento semantico abbastanza vago e forse non del tutto a torto qualche commentatore vi legge dietro una pruderie, una colpevole ritrosia ad evocare il socialismo, e anche quello che il giurista e filosofo cattolico Heribert Prantl chiama la «Sozialisterei»: il «socialisteggiamento», si potrebbe tradurre. I motivi per cui si è dichiarata morta l’Internazionale sono molti e alcuni sacrosanti, come quello della estrema ambiguità di un termine che copriva cose diversissime e non sempre commendevoli, dal «socialismo reale» dei paesi comunisti alle più varie e deleterie connotazioni di regimi illiberali e dittatoriali in vari angoli del mondo. «Socialismo», non c’è dubbio, è un’espressione troppo larga, che andrebbe quanto meno «disambiguated», come si dice nell’orrido inglese dei tempi che corrono. E comunque a Lipsia ci sono, a pienissimo titolo, anche quelli che socialisti o socialdemocratici non sono mai stati, e neppure laburisti. Ci sono i democratici americani, finora alleati ma estranei e ci sono i partiti nuovi, quelli che hanno cercato di fondere le diverse culture progressiste che vivevano nei propri paesi, come i democratici italiani.
«CULTURA DEL COMPROMESSO»
I leader stranieri sono stati accolti con tutti gli onori, ma quello che ha galvanizzato la platea è stato François Hollande. Il presidente francese ha fatto un discorso politico, in cui ha lodato la Spd per aver trovato, con il famoso programma di Bad Godesberg del 1959, una «cultura del compromesso» che le ha permesso di consolidare il suo potere politico e di promuovere poi, con Gerhard Schröder, le riforme che hanno messo al sicuro il welfare quando è arrivata come una tempesta la crisi. Negli altri grandi paesi dell’Unione non è stato fatto e questa è una delle ragioni delle terribili sofferenze sociali di cui siamo testimoni. Hollande ha incassato molti applausi quando ha ribadito l’intenzione di battersi per modificare la strategia dell’austerità e di riorientare l’asse con la Germania su una chiara politica per l’occupazione. Angela Merkel una qualche risposta l’ha data, annunciando la riunione dei ministri del Lavoro Ue all’inizio di luglio a Berlino. Ma è chiaro che le possibilità di riformare davvero la strategia europea passano tutte per i due appuntamenti storici che la Spd ha davanti. Vincere le elezioni. Le prospettive, oggi, non sono esaltanti, ma forse a Lipsia un passo avanti s’è fatto.

l’Unità 24.5.13
Welfare e crescita, la nuova sfida dei socialisti europei
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento tenuto alle celebrazioni di Lipsia. «L’austerità ha ormai mostrato tutti i suoi limiti»
di Massimo D’Alema


Noi continuiamo a parlare dei problemi delle banche, dei debiti sovrani e degli spread, ma non dobbiamo mai dimenticare, neanche per un momento, che questa crisi incide prima di tutto sulle persone comuni, sui nostri vicini, sui nostri giovani. Che, al di là delle cifre, ci sono giovani adulti che non riescono a trovare un lavoro, pensionati che non arrivano a fine mese, donne che rimangono fuori dal mercato del lavoro, famiglie il cui reddito si è costantemente ridotto nel corso degli ultimi anni (...). È davvero questa l’Europa che vogliamo lasciare alle prossime generazioni? Il progetto europeo è stato immaginato e delineato con obiettivi molto diversi. Negli anni 50, quando fu avviato il processo di integrazione, la parola d’ordine era «solidarietà». E la solidarietà era uno dei valori fondanti delle Comunità europee che furono costruite sulle ceneri della guerra per prevenire nuovi conflitti, garantire la cooperazione tra i Paesi che vollero prendere parte a questo impegno e raggiungere un nuovo mix originale tra capitalismo, da un lato, e politiche sociali, dall’altro.
L’espressione «economia sociale di mercato» trasmette quest’idea di compromesso tra l’economia di mercato e la domanda di solidarietà che si realizzò in Europa, in forme diverse, negli anni del dopoguerra. Oggi, la crisi e le misure di austerità finora introdotte per affrontarla si ripercuotono nel fallimento di questo equilibrio, perché mettono in discussione la stessa fattibilità dei modelli di welfare che si sono sviluppati in tutta Europa negli ultimi sessant’anni. I meccanismi di inclusione sociale e di solidarietà si stanno gradualmente indebolendo e un altro paradigma ideologico sta prevalendo: quello neoliberale. Il welfare state è oggi sempre più considerato come un lusso che l’Europa non può più permettersi. Il risultato di questa tendenza è l’aumento delle diseguaglianze. Diseguaglianze tra Stati membri, con la conseguente diffusione di risentimenti nazionalistici tra Paesi Paesi del Nord e Paesi creditori contro Paesi del Sud e Paesi debitori ma anche diseguaglianze all’interno dei Paesi stessi, nelle loro società (...). È evidente che l’Europa ha mostrato finora una seria incapacità ad affrontare questi fenomeni e garantire una protezione adeguata ai propri cittadini. Alla fine degli anni ’90 è stato promesso che proprio l’Unione europea e il suo modello sociale avrebbero costituito la cornice di protezione dei cittadini di fronte alla globalizzazione, consentendo, allo stesso tempo, all’Europa di accedere e vincere la competizione globale. Quella promessa non è stata mantenuta e i partiti europei di centrosinistra sono quelli che, alla fine, stanno pagando il prezzo più alto per quel fallimento, perché era soprattutto da noi che i cittadini si aspettavano la capacità e la volontà di difendere i loro diritti e le conquiste sociali degli ultimi decenni.
Sono convinto che oggi non possiamo pensare di rilanciare il progetto europeo senza rilanciare allo stesso tempo la dimensione sociale dell’Europa, sapendo tuttavia che non usciremo dalla crisi semplicemente tornando alla situazione precedente. Questo non è possibile. Negli ultimi vent’anni, una parte del movimento socialista ha aderito al paradigma neoliberista. Un’altra parte, invece, si è illusa che sarebbe stato possibile preservare il tradizionale modello di welfare europeo, non comprendendo che questo non era più sostenibile nelle nuove condizioni determinate dalla competizione globale. Oggi la questione dello sviluppo di un nuovo sistema di welfare può essere af-
frontata soltanto al livello europeo, non può essere più demandata a strumenti nazionali (...)
Per affrontare questo problema e offrire soluzioni praticabili, sarà essenziale concentrarsi sul lavoro e sull’economia reale. Questo vuol dire che dovremo ridurre il peso dei redditi da capitale e regolare i mercati finanziari. Allo stesso tempo, dovremo lanciare una strategia per la crescita che non può e non deve basarsi sulla formula «austerità più riforme strutturali», che ha ampiamente mostrato i suoi limiti. Ma non ci sarà crescita senza alcune condizioni fondamentali: innanzitutto, la messa in campo di un’ampia strategia europea di investimento; in secondo luogo, un’interpretazione flessibile del Fiscal compact che consenta misure nazionali di investimento, in particolare nei settori dell’innovazione e della ricerca, allo scopo di aumentare la produttività e la competitività dell’Europa; in terzo luogo, una più equa redistribuzione delle risorse per stimolare i consumi interni (...). Per raggiungere tale obiettivo abbiamo bisogno di una forte solidarietà europea. La competizione tra idee progressiste e conservatrici deve esistere su questo non c’è dubbio ma dobbiamo evitare che degeneri in forme di reciproche incomprensioni nazionalistiche. Fenomeni che il nostro continente ha tragicamente conosciuto in passato e che ci siamo lasciati alle spalle quando abbiamo intrapreso il processo di integrazione. Sono fermamente convinto che un’Europa federale, basata sul principio di sussidiarietà quindi non un «super-Stato», ma una forte unione politica sia essenziale se vogliamo ottenere una vera svolta e muoverci in direzione di maggiore solidarietà e sviluppo. Spetta a noi socialisti essere alla testa di questa unione politica. Non possiamo lasciare l’iniziativa nelle mani della signora Merkel. Da quella posizione sarà più facile criticarne le politiche, perché sono esattamente quelle che stanno rallentando lo sviluppo e la crescita dell’Europa e finiranno per danneggiare la stessa industria tedesca e i suoi lavoratori (...).
Questo è esattamente lo stesso spirito che ha ispirato il bellissimo discorso di Helmut Schmidt al Congresso della Spd il 4 dicembre 2011. In quel discorso, Helmut Schmidt ha difeso con forza la democrazia europea, sottolineando che «migliaia di trader finanziari negli Usa e in Europa, oltre a un numero di agenzie di rating, sono riusciti a trarre in ostaggio i governi europei». Ma, soprattutto, Schmidt ha evidenziato quale deve essere il livello della responsabilità tedesca nella difesa dell’unità dell’Europa e l’importanza del principio di solidarietà. «Noi tedeschi ha detto abbiamo ogni ragione per essere grati. Allo stesso tempo, abbiamo il dovere di mostrarci meritevoli della solidarietà che abbiamo ricevuto, esercitandola noi stessi con i nostri vicini».

Corriere 24.5.13
Storia e Spirito bipartisan della Spd avvicinano Hollande alla Germania
di Paolo Lepri


Il «modello tedesco» ha trovato un nuovo, inaspettato ammiratore. Si tratta di François Hollande. Parlando a Lipsia durante le celebrazioni per i centocinquanta anni della Spd, il presidente francese ha detto che «progresso vuol dire anche fare scelte coraggiose nei momenti difficili per preservare l'occupazione e anticipare i mutamenti industriali». Il riferimento è all'Agenda 2010, voluta nel 2003 dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder: una serie di misure per rendere più flessibile il mercato del lavoro che non piacquero a larga parte della sinistra tedesca e che non sono mai state nella lista dei desideri dei socialisti francesi. Secondo Hollande la determinazione che ha ispirato quelle decisioni «non facili da prendere» ha permesso alla Germania di essere ora «davanti agli altri». La stessa Angela Merkel ha ammesso in varie occasioni che il governo da lei guidato ha poi beneficiato della svolta imposta dal suo predecessore.
Probabilmente il presidente francese non avrebbe mai detto quelle parole se non avesse avuto di fronte a sé, nella grande sala del Gewandhaus, lo stesso Schröder e tutto lo stato maggiore della Spd. Questa è la forza dei partiti, quando hanno una storia, una ragione, un radicamento nella società, sia pur difficile da conservare interamente, come accade anche in Germania. Le «famiglie» politiche europee possono essere ancora un luogo in cui i cambiamenti maturano dal confronto delle opinioni, in una prospettiva condivisa.
Elogiando il «realismo», caratteristico della Spd, Hollande ha lodato nello stesso tempo un Paese da cui lo dividono ancora molte cose. Anche se alcuni spiragli si stanno aprendo. È normale che sia così. A Lipsia, in una impressionante dimostrazione di spirito bipartisan, c'era tutto il mondo della politica tedesca. E la cancelliera ha reso omaggio agli avversari nelle elezioni di settembre definendoli «una voce combattiva e inflessibile della democrazia». Non è forse un caso che il leader della Spd Sigmar Gabriel abbia fatto un curioso errore ringraziando della sua presenza la «presidentessa federale». Poi si è corretto, con un sorriso, dicendosi «in anticipo sui tempi». Ma ieri erano in molti ad esserlo, nell'attuale Europa delle contrapposizioni.

il Fatto 24.5.13
Il rogo della via svedese all’integrazione
Cinque giorni di fuoco per la ribellione degli stranieri di Stoccolma, prime vittime della crisi
di Alessandro Oppes


Dopo cinque giorni - anzi cinque notti - infiammate dalla violenza, il vero incubo della Svezia è che si ripeta, con la stessa tragica intensità, l'esplosione di protesta sociale che nel 2005 sconvolse le banlieue parigine e le periferie di altri grandi centri francesi. I problemi, e la rabbia, sono gli stessi: quelli delle giovani generazioni di immigrati che vedono sfuggire, ogni giorno di più, la prospettiva di un lavoro e di una piena integrazione sociale. Proprio nel paese che, per decenni, è stato considerato a ragione il vero paradiso del welfare, e in più la terra dell'accoglienza per eccellenza. Ma l'equilibrio si è rotto da tempo, il “modello svedese” è in crisi. E la battaglia campale permanente che dallo scorso fine settimana tiene in scacco le autorità locali ne è solo la riprova più clamorosa. Decine di arresti tra i giovani e giovanissimi (parecchi sono minorenni), centinaia di auto date alle fiamme, vetrine in frantumi, l'assalto a una stazione di polizia, un ristorante incendiato. Dai quartieri marginali di Stoccolma a quelli di Malmoe, terza città del paese, è un ripetersi incessante di scene di guerriglia urbana, con il lavoro dei vigili del fuoco ostacolato in continuazione da gruppi di teppisti che accolgono i soccorritori con fitte sassaiole.
SIN DA DOMENICA, il centro della contestazione resta Husby, 17 chilometri a nord-ovest della capitale, un quartiere dormitorio di 12mila abitanti dove l'85% della popolazione è formato da immigrati di prima o seconda generazione. È qui che, lunedì 13 scoppiò la scintilla che ha provocato la sollevazione: un anziano migrante di 69 anni, con problemi psichici, abbattuto a colpi di pistola dalla polizia nel suo appartamento perché aveva miinacciato gli agenti con un machete.
Nei giorni successivi, la tensione nel quartiere andò crescendo fino a quando, domenica, un gruppo di una cinquantina di giovani cominciò a dare fuoco alle auto in sosta, rispondendo poi con il lancio di pietre all'arrivo della polizia. Invano, prima che fosse troppo tardi, e temendo quello che poi sarebbe accaduto, per giorni l'ong Megafonen, molto attiva nelle zone marginali della capitale, aveva chiesto che la polizia si scusasse con la vedova dell'anziano ucciso e che venisse aperta un'indagine sui poliziotti che avevano sparato.
Tutto inutile. Anzi, secondo numerose testimonianze, le forze dell'ordine non farebbero altro che inasprire le tensioni, rivolgendosi spesso agli immigrati con espressioni sprezzanti, come “negri”, “topi” o “scimmie”.
Ulteriore benzina sul fuoco nella situazione esplosiva di un quartiere, come Husby dove, secondo le statistiche ufficiali, un giovane su cinque nè studia nè lavoro, mentre l'8,8% ricevono il sussidio di disoccupazione e il 12% vivono degli aiuti sociali. Difficile, dunque, credere al ministro dell'Integrazione del governo di centro-destra, Erik Ullenhag, quando sostiene che ciò che sta accadendo in questi giorni in Svezia è solo “un problema di ordine pubblico”.
In crescente difficoltà, il premier Fredrik Reinfeldt lancia, inascoltato, un appello alla calma. Il tabloid di sinistra Aftonbladet gli risponde che gli scontri rappresentano “un gigantesco fallimento” della politica di un governo che ha portato a incrementare la ghettizzazione delle periferie urbane. In ascesa nei sondaggi, il partito di estrema destra Democratici di Svezia cerca di cavalcare la situazione dicendo “basta all'immigrazione e al multiculturalismo”.

Corriere 24.5.13
Gramsci, le etichette dicono che manca un quaderno
di Luciano Canfora


È apparso ieri sulla «Repubblica» un brevissimo trafiletto anonimo che fa riferimento alla perizia svolta — su mia proposta — dall'Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario (Icrcpal), per conto della commissione di studio nominata dalla Fondazione Istituto Gramsci, su quattro Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Tale trafiletto non firmato contiene una falsa notizia.
In quanto componente di tale commissione, nonché promotore del ricorso all'Icrcpal, ho avuto accesso all'intera documentazione — ormai consultabile in Rete, www.fondazionegramsci.org — prodotta dal benemerito istituto, luogo di assoluta eccellenza nel panorama dei nostri istituti di ricerca. E si può documentare che le cose stanno esattamente all'opposto di come recita il trafiletto anonimo apparso sulla «Repubblica». Le immagini che illustrano questo articolo mostrano infatti, al di là di ogni dubbio, che i Quaderni all'indomani della morte di Gramsci erano 34. Attualmente se ne conoscono 33! È un bel successo della filologia. Non accade infatti tanto spesso che una congettura, in questo caso la mancanza all'appello di un quaderno, trovi conforto fattuale. Chi lavora sui testi lo sa e dovrebbe gioire di questo successo.
Vediamo di che si tratta. All'indomani della morte di Gramsci il 27 aprile 1937, i Quaderni passano in mano di Tania Schucht (cognata e assistente del grande detenuto), che provvede ad apporre una etichetta su ciascun quaderno. Ma c'è un quaderno su cui manca qualunque etichetta: è il più compiuto, il più elaborato, il più significativo, quello che nel dopoguerra (1948) sarà edito per primo, La filosofia di Benedetto Croce. Era per Gramsci stesso il cuore dell'intera sua costruzione intellettuale.
L'assenza di qualunque etichetta di Tania su quel quaderno fu dichiarata sin da subito da Felice Platone («Rinascita», aprile 1946) e poi da Valentino Gerratana (ed. Einaudi dei Quaderni del carcere, 1975, vol. IV, p. 2404). Lo stesso Gerratana dichiara (vol. I, p. XXXV, nota 1) di aver messo lui per completezza (!) un tassellino su quel quaderno. L'esemplare fotografico dei Quaderni realizzato a Mosca nel 1939-40 documenta in modo oggettivo che sulla copertina del quaderno intitolato La filosofia di Benedetto Croce non vi era sin dal primo momento alcuna etichetta.
Dunque quel quaderno non fu, sin dal primo momento, tra quelli in possesso di Tania, per ragioni che potremo approfondire in altra sede.
La perizia attuata dall'Icrcpal ha svelato che, dal quaderno 29 in avanti, vi è una etichetta sottostante diversa rispetto a quella visibile: sotto XXIX c'è XXXII, sotto XXX c'è XXXI, sotto XXXI c'è XXXIII. Le immagini documentano lo splendido lavoro compiuto dall'istituto. È evidente che siamo di fronte a una rinumerazione consapevole: cavarsela dichiarando Tania pasticciona è puerile.
La deduzione unica possibile è dunque palmare: Tania ha avuto accesso a 33 Quaderni, non a quello su Croce. In tutto dunque i Quaderni erano 34, come ben sapeva il viceministro degli Esteri sovietico Dekanozov quando scrisse al suo superiore gerarchico di aver consegnato «al compagno Ercoli 34 quaderni di Antonio Gramsci, il 3 marzo 1945» (Vacca-Daniele, Togliatti editore di Gramsci, Carocci, p. 73). Ut erat demonstrandum. Altre considerazioni ormai fondate su dati di fatto si potranno aggiungere, quando — come previsto — la commissione tornerà a riunirsi.

Repubblica 24.5.13
Quando Stalin e Churchill si allearono con una sbronza
di Enrico Franceschini


Il rapporto sull’incontro è stato diffuso dagli Archivi britannici insieme ad altri documenti sinora segreti
Come la lettera scritta al premier inglese da Ciano su Mussolini o le telefonate intercettate di Edoardo VIII

LONDRA «Bere è la nostra gioia, non possiamo vivere senza», diceva intorno all’anno mille il principe Vladimir, fondatore della Russia. Ma anche gli inglesi non scherzano, da questo punto di vista. E fu proprio la comune propensione per l’alcol a rompere il ghiaccio tra un russo e un inglese dai quali dipendevano non poco le sorti della seconda guerra mondiale. Josif Stalin e Winston Churchill, durante una visita a Mosca del primo ministro britannico nel 1942, non s’intendevano per niente. La missione sembrava sul punto di concludersi con un fiasco, quando Churchill ebbe l’idea di proporre una serata a tu per tu con il dittatore sovietico. E mangiando a profusione, o più precisamente svuotando un bel po’ di bottiglie, si presume di vodka e di whisky per mantenere un’eguaglianza etilica, i due leader si scoprirono amici. Quando quella sbronza congiunta in una sala del Cremlino finalmente volse al termine, alle 3 del mattino un collaboratore di Churchill li trovò «in preda a un umore gioioso come a una festa di matrimonio»,
scrisse nel suo rapporto.
Ora quel documento è uscito dagli archivi di Londra, insieme ad altri segreti della stessa epoca: una lettera scritta al premier britannico dal conte Galeazzo Ciano, pochi giorni prima di essere fucilato in Italia, in cui descriveva Mussolini come «un ignobile pagliaccio»; la decisione del governo britannico di ascoltare le telefonate di re Edoardo VIII, di cui non si fidava più, nei giorni precedenti la sua abdicazione dal trono per poter sposare la divorziata americana Wally Simpson; l’arresto nel 1941 di un agente dell’MI6 in Spagna, completamente travestito da donna; un piano per eliminare il generale nazista Rommel, «la volpe del deserto».
Churchill era arrivato a Mosca per concordare una strategia comune contro Hitler con l’alleato sovietico, nei confronti del quale nutriva profonda diffidenza. E il negoziato non era andato bene, annota sir Alexander Cadogan, sottosegretario permanente del Foreign Office, che lo accompagnava. Nemmeno un banchetto al Cremlino per le due delegazioni era servito a migliorare l’atmosfera. La svolta giunge la sera successiva. Churchill chiede di cenare da soli con Stalin. Il pasto comincia alle 7. La delegazione inglese aspetta notizie in albergo. E aspetta. E aspetta. All’1 di notte, quando già trapela qualche preoccupazione per la sorte del primo ministro, Cadogan viene convocato al Cremlino. Ed ecco quel che vede: «Là ho trovato Winston e Stalin, più Molotov (il ministro degli Esteri sovietico, ndr) che li aveva raggiunti, seduti a una tavola ricoperta da ogni tipo di cibo, coronato da un maiale arrosto, e da innumerevoli bottiglie. Quello che Stalin mi fece bere sembrò piuttosto estremo; Winston, che si lamentava di un leggero mal di testa, preferiva saggiamente limitarsi a un vinello frizzante del Caucaso, innocuo al confronto». Il clima è cambiato. I due leader ora si intendono come sposini. Il dittatore sovietico si spinge a dire al suo ospite, «non sono d’accordo sulla tua opinione, ma ne apprezzo lo spirito». Insomma, missione compiuta. Churchill e Cadogan rientrano in albergo alle 3, «appena in tempo per fare le valige e partire per l’aeroporto alle 4 e 15», nota il consigliere del premier. Così concludendo il suo rapporto scritto a macchina: «Si sono create le condizioni per cui ogni futuro messaggio tra i due leader avrà il doppio del valore che aveva in precedenza». Bevitori di tutto il mondo, unitevi.

Repubblica 24.5.13
Così vicini così lontani
Il flusso delle idee in giro per il mondo
I modelli culturali si muovono a velocità sempre più accelerata
Producono sia l’omologazione, sia gli ostacoli ad essa
La riflessione di un grande antropologo
di Arjun Appadurai


Viviamo in un mondo in cui siamo al tempo stesso troppo vicini e troppo lontani gli uni dagli altri. Siamo troppo vicini perché le forze della globalizzazione, della guerra, della spartizione e dei media producono quegli “effetti-farfalla” grazie ai quali anche le cose più lontane ce le ritroviamo ogni giorno davanti agli occhi e davanti alla porta di casa. Al tempo stesso siamo anche troppo lontani gli uni dagli altri, perché in gran parte delle regioni urbane, delle regioni di confine e dei luoghi di passaggio del mondo odierno abbiamo perso il senso della familiarità sociale.
Oggigiorno gli oggetti culturali (che comprendono le immagini, i linguaggi, i valori, ma anche le acconciature), viaggiano sempre più rapidamente, superando i confini fra nazioni e fra regioni. Quest’accelerazione è conseguenza della velocità e della diffusione di internet e della concomitante espansione dei viaggi, dei media interculturali e della pubblicità globale. Ora che i grandi gruppi industriali globali possono esternalizzare vari aspetti delle loro attività, dalla manifattura e dalla distribuzione fino alla pubblicità e alla finanza, la potenza del capitale globale viene moltiplicata da un’opportunistica commistione di idiomi culturali, simboli, gruppi di lavoro e atteggiamenti verso il profitto e verso il rischio. Infine, a questo traffico di merci, stili e informazioni, così instabile e in esplosivo aumento, si abbina la crescita di forme globalizzate di politica culturale.
Per giunta, la complessità dei flussi culturali globali ha avuto effetti profondi sulla produzione di località (Appadurai 1996) e di soggettività locale (Das 2007). Questi flussi e queste reti non si manifestano più soltanto nella rapida diffusione e adozione di elementi culturali provenienti da mondi culturali “altri”, che in passato erano più o meno separati. Oggi sconvolgono addirittura i vecchi modelli di acculturazione, di contatto culturale e di commistione culturale, in quanto forniscono anche nuovi materiali per costruire soggettività. Per esempio, il traffico di immagini di sofferenza globale crea nuove comunità affettive tenute insieme da un’empatia, un’immedesimazione e una rabbia che superano grandi distanze culturali. Lo dimostra la vicenda del velo islamico in Europa: questo accessorio di abbigliamento, in se stesso assai differenziato a seconda delle varie regioni del mondo islamico, è divenuto un terreno di scontro per la scuola pubblica, la moda e le autorità dello Stato in paesi che in passato, come la Francia, non avevano proprio niente contro certi simboli esteriori di identità religiosa.
In breve, i flussi culturali globali hanno perso le caratteristiche selettive e ingombranti che hanno conservato tanto a lungo nella storia del genere umano, durante la quale molte società hanno trovato vari modi per accogliere sistemi di senso esterni entro le proprie cornici cosmologiche, e ciò facendo hanno prodotto cambiamenti per incidente dialettico e per accomodamento strutturale (Sahlins 1985). Oggi questi flussi culturali globali, siano essi religiosi, politici o di mercato, sono addirittura entrati nella produzione di soggettività locali, cambiando così sia i macchinari per la fabbricazione di senso locale, sia i materiali lavorati da quei macchinari.
Analogamente, questo periodo è caratterizzato dal flusso non soltanto di sostanze culturali, ma anche di forme culturali, quali il romanzo, il balletto, le costituzioni in senso politico e il divorzio. Il flusso di queste forme ha influenzato grandi processi storici mondiali come il nazionalismo (Anderson 1993), ma oggi che intere discipline, tecniche e modi di pensare si spostano e subiscono trasformazioni, esso influenza anche la natura stessa della conoscenza. Alcuni esempi dei flussi globali di queste forme di conoscenza sono la diffusione dei giochi online in Cina o l’espansione del day-trading di prodotti finanziari nelle economie emergenti. Ciò che qui importa è il rapporto fra forme di circolazione e circolazione delle forme. Così, forme quali il romanzo, il film e il giornale cartaceo possono fluire lungo circuiti ormai consolidati perché prodotti da circuiti preesistenti, come la religione, le migrazioni e il commercio. Invece altre forme culturali, quali il balletto, l’animazione, la fotografia di moda e l’attivismo politico di base danno vita a forme e circuiti circolatori nuovi, che prima non esistevano. Nel XXI secolo assistiamo quindi a nuove tensioni fra le forme culturali effettivamente in circolazione e i circuiti o reti emergenti – in parte culturalmente determinati – che plasmano e governano i molteplici circuiti di circolazione.
Questa duplice struttura dei flussi culturali globali crea anche dei “dossi”, cioè degli ostacoli. Ad esempio, in Cina lo Stato fa di tutto per ostacolare la diffusione di internet, rivendicando il diritto di regolamentare l’informazione e di far rispettare una certa morale sociale; allo stesso modo il movimento Falun Gong utilizza tecniche di protesta e di comunicazione per contestare la legittimità dello Stato. E ancora: chi si oppone alla demolizione delle bidonville si avvale appieno della forza di alleati e circuiti globali per ostacolare lo sgombero degli abitanti delle bidonville da parte di amministrazioni locali e municipali. Infine, i paladini dei diritti delle donne conducono quotidianamente la loro battaglia contro chi utilizza circuiti culturali globali per sostenere e legittimare vedute opposte in nome del valore noto come differenza culturale (Keck e Sikkink 1998).
Insomma, gli odierni flussi culturali globali sono caratterizzati da una curiosa contraddizione interna: creano essi stessi alcuni degli ostacoli che intralciano la loro completa libertà di movimento, e così facendo sono essi stessi a regolare la facilità con cui varcano i confini culturali. In una prospettiva storica di lungo periodo, e tenendo conto che nella storia umana vi sono sempre stati flussi, scambi e commistioni che varcano le frontiere culturali, nell’era della globalizzazione la novità più interessante è che la stessa dinamica produce sia i flussi culturali, sia gli ostacoli – i dossi e le cunette – che ne minacciano la libertà di movimento. Questa constatazione di fatto non mancherà di rassicurare quanti temono che questi flussi globali possano dar luogo a un regime culturale unico e omogeneo che finirebbe per ricoprire l’intera superficie del pianeta.
Traduzione di Marina Astrologo

Repubblica 24.5.13
Il caos calmo della nuova Cina
Nel saggio di Renata Pisu la storia di una cultura ancora regolata dall’“armonia”
di Umberto Galimberti


Non basta sapere l’inglese per intendersi con i popoli lontani da noi. Occorre conoscere la loro simbolica, ovvero il modo con cui pensano, credono, concepiscono il mondo e il rapporto che hanno con uomini e cose. Non solo quindi gli usi e i costumi, ma la loro visione del modo da cui gli usi e i costumi discendono. In questo senso il libro di Renata Pisu, Né Dio né Legge. La Cina e il caos armonioso (Laterza, pagg. 154, euro 15,00) è un libro utilissimo, anche per la grande esperienza che la giornalista ha maturato in quella terra, dopo aver frequentato per quattro anni l’Università di Pechino e dopo essere stata corrispondente da quelle terre a partire dal 1984, prima per La Stampa e poi per Repubblica.
I cinesi non pensano come noi. Non hanno mai adottato la nostra logica dualistica che distingue l’essere dal non essere, Dio dal mondo, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, l’anima dal corpo, e nonostante tutti gli sforzi dei missionari, che a più riprese, a
partire dal Cinquecento, cercarono di parlare a loro con le nostre parole, ogni tentativo fallì, perché per i cinesi non c’è un cielo al di là della terra, un’anima che sopravvive al corpo, una legge che regola le condotte, ma solo un’“armonia” che lega gli uomini alle cose e ai propri simili e che, quando è infranta, è la vera causa della sofferenza
e dell’infelicità.
K’ung-fu-tzu, che noi abbiamo latinizzato con il nome di Confucio, non proponeva una dottrina, ma la semplice “Rettificazione dei nomi” per cui: «Un sovrano è un sovrano, un suddito è un suddito, un padre è un padre, un figlio è un figlio», e se ciascuno si attiene al suo nome e ai compiti che gli derivano, l’ordine sociale e politico risulta perfettamente adeguato all’ordine cosmico e l’armonia si compie. Questa armonia viene ribadita anche dal taoismo, che la tradizione fa risalire al Lao Tzu (IV secolo a. C.), il quale, con il libro delle “cinquemila parole” (Tao-tê-Ching), supera la dottrina confuciana dei “nomi” perché, in un mondo dove tutto diviene e nulla permane, ogni tentativo di fissare in un nome il senso delle cose, naufraga. «Il Tao che tutto presiede è senza nome e ogni nome che gli viene attribuito non è il suo nome. Il Senza-nome è origine del mondo celeste e terrestre». Così recita il taoismo che sposta l’armonia dal mondo umano a quello cosmico, dove i due principi dello yin e dello yang ne regolano il ciclo. Seguendo questo movimento naturale senza ostacolarlo, l’uomo raggiunge quell’armonia in cui consiste la felicità.
Sia il confucianesimo, sia il taoismo esprimono una simbolica che è l’esatta antitesi di quella occidentale, la cui caratteristica peculiare si manifesta proprio nell’intervento umano sullo svolgimento naturale delle cose per piegarle al proprio volere. Questo tratto, che Nietzsche segnalerà come «volontà di potenza», caratterizza il modo occidentale di pensare che, articolandosi per concetti (cum-capio), rivela la sua natura prensile (ribadita anche dal tedesco “ Be-griff”, da “ greifen”, afferrare). Da questo modo di pensare non poteva non seguirne quell’agire che è un conquistare, un infrangere l’armonia del mondo per imporre il proprio ordine. Un ordine che oggi rivela tutta la sua incertezza e soprattutto la sua imprevedibi-lità, per cui guardiamo il cielo e ci affidiamo ai suoi presagi per conoscere il futuro. Anche l’antica cultura cinese, come opportunamente ci ricorda Renata Pisu, guardava il cielo e la cosmica armonia, ma non per conoscere il loro futuro, ma per vedere se le loro parole, i loro gesti, lenti, agili, violenti, modificavano le stelle, il loro equilibrio, la loro luce, il loro giro. Perché anche il gesto dell’uomo, anche il più segreto come il gesto sessuale, produce armonia o disarmonia nel cosmo che non ci ignora.
E allora anche nell’incontro sessuale come scrive Renata Pisu: «Bisogna seguire la legge dell’unità degli opposti che si alternano ritmicamente, perché niente è mai tutto yin come niente è mai tutto yang.
Sessualmente parlando non c’è uomo che non sia anche un po’ donna e non c’è donna che non sia anche un po’ uomo». E questa è la ragione per il maestro Tung-Husüan osserva che: «Se l’uomo si muove e la donna non risponde, o se la donna è eccitata e l’uomo non accondiscende, allora l’atto sessuale danneggia non soltanto l’uomo, ma anche la donna, perché una simile unione, contraria al rapporto stabilito da lo yin e lo yang, infrange il perfetto equilibrio che esiste tra il Cielo e la Terra».
A questo punto resta da chiedere a Renata Pisu se di questa antica simbolica confuciana e taoista c’è ancora traccia nella Cina di oggi e più in generale in quell’Estremo Oriente, che a me pare abbia assimilato per intero la simbolica dell’Occidente che ha nella volontà di potenza il suo tratto specifico. Che ne è infatti del rispetto della natura in quella terra? Che ne è dell’aria negli immensi agglomerati umani? Che ne è delle condizioni e degli orari di lavoro? Che ne è dell’ “armonia” che lo governava senza bisogno di un Dio o di una Legge? Non è che la legge occidentale del mercato ha spezzato quell’ “armonia” dove l’antica sapienza cinese collocava la felicità dell’uomo?

IL LIBRO: Né Dio né Legge. La Cina e il caos armonioso di Renata Pisu Laterza pagg. 154 euro 15

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giovedì 23 maggio 2013

Corriere 23.7.13
I 150 anni della Spd La nuova svolta: addio Internazionale
Da Lipsia un modello anche per il Pd?
di Paolo Lepri


LIPSIA — Per il futuro del Partito democratico, travolto dalla «non vittoria» elettorale, la nascita dell'Alleanza progressista è sicuramente un aiuto. Ma non è comunque una strada facile, anche questa, per chi governa con gli ex nemici di un tempo ed è chiamato a ridefinire la propria linea scegliendo tra solidarietà antiche e nuove responsabilità. Il battesimo è stato celebrato a Lipsia, dove i socialdemocratici tedeschi hanno festeggiato il loro centocinquantesimo anniversario senza guardare al passato. Orgogliosi però della loro lunga storia, hanno chiamato gli amici, come il presidente francese François Hollande (che parlerà oggi) e gli avversari, come la cancelliera Angela Merkel. Lei ha accettato l'invito. Non sono più i tempi di Konrad Adenauer, che cinquant'anni fa, in una occasione analoga, se ne restò a casa.
Mettendo in conto le reazioni negative di chi rimane legato al ruolo dell'Internazionale socialista, la Spd ha riunito culture differenti nella prospettiva della globalizzazione. A Lipsia c'erano i rappresentanti di ottanta partiti, provenienti da ogni parte del mondo. «Gli europei non devono credere che tutti debbano fare propri i loro valori», ha detto al Corriere il presidente socialdemocratico Sigmar Gabriel, l'uomo che per realizzare l'Alleanza di Lipsia si è attirato i fulmini di leader come il greco George Papandreou. Dall'Italia è venuta, nei mesi scorsi, una collaborazione preziosa per concretizzare questo obiettivo. E sono arrivati ieri anche Enrico Letta, Massimo D'Alema, Pierluigi Bersani. E il socialista Riccardo Nencini, critico, invece, con la decisione di mettere in soffitta l'Internazionale. «Il tema della sua riforma e dell'allargamento alle tradizioni democratica e riformista — osserva — era sul tavolo da tempo».
Reduce dal vertice di Bruxelles, il presidente del Consiglio non ha voluto mancare alla cena dei leader, anche se il Pd non fa parte del Pse, il Partito socialista europeo. «La sua presenza apre un nuovo capitolo della cooperazione tra forze socialiste e democratiche in Europa», ha detto il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, socialdemocratico, che ha ottenuto ampi consensi come futuro candidato comune per la guida della Commissione. Letta guarda con grande interesse, inoltre, alla nascita dell'Alleanza progressista perché è chiara la sua simpatia, dicono a Palazzo Chigi, per «il giusto superamento di divisioni che facevano parte di un'altra stagione».
Prima che arrivasse Letta, D'Alema aveva parlato di un «programma progressista comune» per guidare un'Europa «forte» in grado di andare nella direzione di «maggiore solidarietà e sviluppo». «Spetta a noi socialisti — ha detto, concludendo i lavori del seminario della Fondazione per gli studi progressisti — essere alla testa di questa unione politica. Non possiamo lasciare l'iniziativa nelle mani della signora Merkel. Da quella posizione sarà più facile criticarne le politiche, perché sono esattamente quelle che stanno rallentando lo sviluppo e la crescita». Un chiaro sostegno a chi sfiderà la donna più potente del mondo, l'ex ministro delle Finanze socialdemocratico Peer Steinbrück.
E Bersani? Ha messo la firma su un grande cartellone bianco dove campeggiavano tre parole: libertà, giustizia, solidarietà. Poi si sono aggiunti tanti altri, come il francese Harlem Désir, l'americano Howard Dean, il serbo Boris Tadic. In pochi minuti tutto lo spazio era pieno di nomi. Nel discorso di apertura, Gabriel ha ringraziato l'ex segretario del Pd per il contributo dato al progetto dell'Alleanza. Ma un altro progetto, il suo, è fallito. Ora, in Italia, c'è un governo di larghe intese. Fu proprio Letta, a Berlino, ad affermare con un po' di ironia che avrebbe chiesto consigli alla cancelliera sul modo migliore di guidare una grande coalizione. Una formula, questa, che potrebbe tornare ancora in Germania. I socialdemocratici temono un po', in fondo, che gli ecumenici festeggiamenti di Lipsia possano rendere una prospettiva del genere più comprensibile. Non a caso, Gabriel dice che quanto è accaduto in Italia affonda invece le sue radici «in una specifica situazione politica». «Adesso — ha osservato — il compromesso storico è stato realizzato all'interno del Partito democratico». Forse non ha tutti i torti.

L’articolo in pdf qui

Corriere 23.5.13
La Spd guarda oltre l'Internazionale
di Paolo Franchi


I sondaggi, si sa, valgono quello che valgono. Specie in Germania, dove sono particolarmente ballerini. Ma il 24 per cento che le ultimissime rilevazioni assegnano ai socialdemocratici (appena un punto in più rispetto al minimo storico del 2009) suona, a quattro mesi dalle elezioni, a dir poco sconfortante. Specie nel giorno in cui, a Lipsia, la Spd celebra il suo centocinquantesimo compleanno: anche se nel 1863, su ispirazione di Ferdinand Lassalle, nacque l'Associazione generale degli operai tedeschi, duramente criticata da Karl Marx, e il Partito socialdemocratico tedesco prese ufficialmente corpo, grazie alla fusione tra l'Associazione e il Partito socialista dei lavoratori, solo nel 1890.
È stata per un secolo e passa, la Spd, il modello quasi paradigmatico del partito di massa, il cosiddetto «partito pesante», strutturato, organizzato, forte di un rapporto assai stretto con potenti organizzazioni sindacali, con un radicamento nella società e nella storia della Germania così profondo da consentirgli di risorgere prepotentemente, dopo tredici anni di feroci persecuzioni, all'indomani della caduta del nazismo. E il confronto politico e teorico al suo interno ha appassionato e diviso a lungo tutta la sinistra europea di ispirazione socialista, socialdemocratica e comunista: dalla Bernstein Debatte che, a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, contrappose gli ortodossi ai revisionisti via via fino alla svolta di Bad Godesberg, nel 1958. Non solo. Almeno in Europa, la Spd è rimasta a lungo, anche dopo la caduta del Muro che la colse quasi di sorpresa, il partito cardine dell'Internazionale socialista. Ne sanno qualcosa i comunisti italiani, che con la socialdemocrazia tedesca hanno avuto un buon rapporto fin dai tempi della Ostpolitik di Willy Brandt: fu soprattutto grazie ai buoni uffici del vecchio Cancelliere, oltre che al via libera concesso in extremis da Bettino Craxi, che il Pds riuscì, nel 1992, a varcarne ufficialmente la soglia, mettendo a segno un colpo molto rilevante sul piano simbolico, un po' meno su quello politico.
Di tutta questa storia il più antico partito tedesco può legittimamente andar fiero. Tanto è vero che non gli è passato nemmeno per l'anticamera del cervello di cambiare nome nemmeno quando l'ultimo Cancelliere socialdemocratico, Gerhard Schröder, per definire la collocazione strategica della Spd non parlava di sinistra, ma di Nuovo centro, Neue Mitte. Ma intanto è proprio l'Internazionale che comincia ad andargli stretta. Molto stretta. Non tanto perché sia prigioniera di un'ortodossia socialdemocratica che nessuno, oltretutto, saprebbe dire in cosa possa mai consistere, quanto piuttosto perché si è trasformata da anni in un'organizzazione burocratica, chiusa, costosa, politicamente ininfluente, dove non mancano presenze peggio che imbarazzanti e non ci sono, invece, forze di sinistra e di centrosinistra importantissime, a cominciare dal Partido dos Trabahadores del Brasile e dal Partito del Congresso indiano, per non dire dei Democratici americani. Non solo il Pd, ma i principali partiti socialisti e socialdemocratici europei, con la parziale eccezione dei francesi, la pensano allo stesso modo. E i loro leader (da François Hollande a Ed Miliband, passando per Enrico Letta, Massimo D'Alema e Pierluigi Bersani) sono volati a Lipsia per festeggiare i compagni tedeschi, naturalmente, ma soprattutto per tenere a battesimo con loro un'Alleanza progressista destinata, nelle intenzioni, ad andare oltre la vecchia Internazionale socialista, se non proprio a contrapporvisi. Resta tutto da stabilire, naturalmente, se riuscirà mai a mettere a punto quel minimo di strategie comuni di cui sinistre incapaci di uscire dal loro orto nazionale sono state sin qui desolatamente prive. Ma è certo che, in sua assenza, non si vince; o, se si vince, si è destinati a tornare rapidamente a perdere. Poco più di un anno fa, al Cirque d'Hiver, Hollande, Bersani e Sigmar Gabriel fissarono il piano della riconquista: prima Parigi, poi Roma, e infine, dulcis in fundo, Berlino. Hollande ha vinto, ma continua a non convincere. A Bersani le cose sono andate come sono andate. Adesso tocca a Peer Steinbrück. Ma sono in pochi a credere che, da qui a settembre, possa recuperare molti di quei diciassette punti che lo separano dalla Merkel.

Repubblica 23.5.13
“Un’alleanza dei progressisti” La scommessa della Spd spacca l’Internazionale socialista
I tedeschi celebrano 150 anni di storia: “Un nuovo inizio”
di Andrea Tarquini


LIPSIA — Te lo ricordano appena arrivi: ci volle coraggio qui a Lipsia 150 anni fa, quando Ferdinand Lassalle, August Bebel e pochi altri fondarono la Spd: rischiavano il carcere, lottavano per libertà e giustizia e parità delle donne in un Impero in cui il Kaiser chiamava il Parlamento “gabbia delle scimmie”. Oggi proprio una Spd in crisi, che non sa dove andare per rilanciarsi, cerca coraggio qui nel luogo della memoria: fonda proprio a Lipsia la Progressive alliance, scommette nella forza d’un nuovo inizio. È lo strappo con la vecchia internazionale socialista, una sua severa e moderna rifondazione, proprio mentre i nipoti di Lassalle e di Bebel, di Willy Brandt e di Helmut Schmidt sono come tutte le sinistre europee sotto il tiro incrociato delle sfide: conservatori moderni, il centro soft di Angela Merkel, e i nuovi populisti. L’emozione del ricordo contagia tutti - gli italiani del Pd come i francesi, i brasiliani inviati dalla presidente Dilma Rousseff e gli ungheresi che a casa affrontano Orbàn – qui nella piscina monumentale voluta dagli Hohenzollern, ma non basta a creare certezze.
Volti tesi lo celano appena: è nel momento più difficile che la Spd, madre di tutte le sinistre, si è decisa al grande passo. Ha chiamato al suo fianco anche il Pd italiano – a dicembre coautore dell’idea della Progressive international, ora in crisi – a rilanciarsi con la scommessa rifondatrice. Un passo che spinge ortodossi come l’ex premier greco Andreas Papandreou e i compagni cileni a gridare al tradimento. Nasce in tensione, la nuova “cosa” globale. Dobbiamo rincorrere il mondo, insistono il leader spd Sigmar Gabriel, e l’inviato di Obama, Howard Dean. Invito alla lotta, e insieme autocritica. «La Spd è sempre stata in Germania il partito più degno, non ha dovuto rifondarsi né dopo il nazismo come fecero invece conservatori e liberali, né dopo la caduta del Muro nell’89 come toccò ai postcomunisti, ma ora deve reinventarsi, tornare un partito che pensa a libertà e giustizia nel modo più moderno», dice lo scrittore Peter Schneider. Sull’altro fronte, incalza un grande liberalconservatore illuminato, il direttore di Die Welt Thomas Schmid: «Con le sue grandi tradizioni, la Spd può e deve tornare a essere il partito delle idee più moderne per la società, come fu con Bebel».
«Senza la socialdemocrazia l’Europa e il mondo non sarebbero oggi come sono», ammonisce Howard Dean, l’inviato di Obama. 150 anni gloriosi, i ricordi scorrono su uno schermo: cortei operai nella Ruhr, la Repubblica di Weimar, gli anni Trenta con Stalin che indicò il nemico di classe nella Spd e non in Hitler, il partito decimato nei Lager. Memorie tragiche per darsi coraggio oggi, dirsi “yes, we can”: Willy Brandt partigiano in Norvegia contro Hitler. Poi il dopoguerra, Schumacher cofondatore della democrazia con Adenauer, Brandt, cancelliere in ginocchio al Ghetto di Varsavia, Helmut Schmidt che con Giscard d’Estaing lancia i prodromi dell’euro, Schroeder che riforma il welfare e dice no alla guerra irachena di Bush.
La socialdemocrazia mondiale va ripensata, insistono i compagni tedeschi: la vecchia internazionale è inetta e corrotta, «con troppi partiti autoritari e proni al socialismo reale già fallito», insiste Schneider. Orgoglio, ma misto a incertezza negli animi. In Italia il Pd sta come sta, qui in Germania Merkel vince nei sondaggi, 41 contro 24, «copiando col salario minimo, nuovi assegni familiari, spese per l’istruzione e apertura alle unioni gay valori costitutivi nostri», nota lo scrittore. Sull’altro fronte i nuovi populismi, francesi e italiani, magiari ma anche tedeschi col minaccioso partito “Alternativa per la Germania” che vuole spaccare l’eurozona. Troppe prove inquietano, dal crollo di popo-larità di Hollande, al futuro del Pd, alle elezioni qui a settembre. Non a caso, vengono dal senior democratico americano Howard Dean le parole più rincuoranti: «Siamo noi, progressisti moderni, gli alfieri della vera libertà, quella che ti dà non solo diritti, ma anche doveri davanti alla gente, a ogni “paese reale” del mondo globale». Oggi alla festa finale l’ospite d’onore sarà François Hollande, ma dopo il suo discorso è con Angela Merkel – presente all’evento del partito rivale, lo vuole il costume della democrazia tedesca – che oggi qui e il 30 a Parigi tratterà di salvezza dell’Europa.

Repubblica 23.5.13
Sigmar Gabriel, presidente del partito: “Non si vendono valori in cambio di incarichi di governo”
“Molta gente comincia a pensare che il mercato non garantisce istruzione né lavoro e pensione sicura. Ciò può darci molti consensi”
“Non dobbiamo pensare al potere solo così la sinistra può rinascere”
intervista di A. T.


LIPSIA — Sigmar Gabriel, presidente Spd, Angela Merkel fa politiche socialdemocratiche, i nuovi populisti vi sfidano. Come risponderà la Progressive alliance?
«L’idea dei progressisti in tutto il mondo è battersi per regole del gioco sociali ed ecologiche, e chance di vita uguali per tutti, compresi i nostri figli. Non possiamo imporle a livello nazionale a fronte di un capitalismo finanziario globale che governa il mondo. I governi democratici non sono più padroni a casa loro. Ci servono regole del gioco internazionali del gioco per domare il capitalismo finanziario e migliorare i rapporti internazionali: ecco l’obiettivo della Progressive alliance».
È una Bad Godesberg a livello globale?
«La Spd torna alle origini. Alla nascita l’idea dell’internazionalismo la influenzò molto, ma negli ultimi decenni i socialdemocratici hanno fatto più politica nazionale».
I conservatori si sono globalizzati di più?
«Il capitalismo prima di tutto si è globalizzato. I conservatori con le loro idee
neoliberali hanno gioco più facile nella globalizzazione. Il nuovo movimento punta a un riequilibrio, tra mercato e regole formulate da forze politiche e sociali. Credo che molta gente cominci a pensare che il mercato da solo non garantisce né istruzione adeguata ai loro figli né lavoro e pensione sicura. Ciò può darci molti consensi».
Quali errori deve evitare la Progressive alliance?
«Deve essere tollerante verso altre culture politiche. Gli europei non devono agire come se la loro sia universale. Dobbiamo aprirci alla società civile, non essere club di soli partiti».
Quanto teme i populismi, che conquistano potenziali elettori di sinistra?
«L’Italia è un caso estremo, ma abbiamo esempi anche in Germania: il pericolo maggiore per i socialdemocratici è la delusione della gente, l’idea che i partiti sono tutti uguali e pensano solo a se stessi. Reagire solo condannando i populisti è inutile. Urge un lavoro quotidiano per riconquistare la fiducia perduta. I politici di sinistra devono sempre darsi standard morali superiori rispetto agli altri, non creare fratture tra parole e prassi politica, non vendere valori in cambio di incarichi nei governi: le sinistre non devono mai avere la priorità fine a se stessa di conquistare il potere, bensì voler governare per migliorare la società. A volte è importante dire di no, non lasciarsi sedurre dal potere».
La coalizione italiana è un esempio per tutti i socialdemocratici?
«No, ha le sue radici particolari. Da voi è crollato tutto il sistema dei partiti tradizionali, non è paragonabile con Germania o Francia: non abbiamo vissuto il crollo delle vecchie élite – socialisti e dc – né la nascita di un populismo alla Berlusconi. Adesso il compromesso storico vive all’interno del Pd».
(a.t.)

Corriere della Sera 23.5.13
Il rapporto 2013 di Amnesty International
«In Italia erosione dei diritti umani. La crisi non può essere un alibi»
di Monica Ricci Sargentini

qui

l’Unità 23.5.13
Amnesty denuncia: «Mondo pericoloso per rifugiati»
Rapporto annuale 2013: «L’assenza di soluzioni dei conflitti sta creando una sottoclasse globale»
di U.D.G.


La mancanza d’azione a livello globale in favore dei diritti umani sta rendendo il mondo sempre più pericoloso per i rifugiati e i migranti. È questo l’argomentato j’accuse lanciato da Amnesty International in occasione della presentazione del suo Rapporto annuale 2013, che descrive la situazione dei diritti umani in 159 Paesi e territori, nel periodo tra gennaio e dicembre 2012. I diritti di milioni di persone in fuga da conflitti e persecuzioni, o in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita per se stesse e le loro famiglie, sono stati violati da governi che hanno mostrato di essere interessati più alla protezione delle frontiere nazionali che a quella dei loro cittadini o di chi quelle frontiere oltrepassava chiedendo un riparo o migliori opportunità. «L’assenza di soluzioni efficaci per fermare i conflitti sta creando una sottoclasse globale. I diritti di chi fugge da quei conflitti non vengono protetti. Troppi governi stanno violando i diritti umani in nome del controllo dell’immigrazione, agendo ben al di là delle legittime misure di controllo alle frontiere», sottolinea Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia, presentando a Roma l’edizione italiana del Rapporto pubblicata da FandangoLibri. «Queste misure – aggiunge non colpiscono solo le persone in fuga dai conflitti. Milioni di migranti sono trascinati in un ciclo di sfruttamento, lavori forzati e abusi sessuali dalle politiche contro l’immigrazione». Gran parte dei 214 milioni di migranti hanno lavorato in condizioni che possono essere definite di lavoro forzato o assimilabili alla schiavitù, poiché i governi li hanno trattati da criminali e le grandi aziende erano interessate più ai profitti che ai diritti dei lavoratori.
J’ACCUSE
Nel 2012, una lunga serie di emergenze dei diritti umani ha spinto alla fuga numerosissime persone, dalla Corea del Nord al Mali, dalla Repubblica Democratica del Congo al Sudan, costrette a cercare riparo all’interno dei loro Stati od oltrefrontiera. Un altro anno è andato perso per la popolazione della Siria, dove poco o nulla è cambiato se non il sempre più alto numero delle vite perse o distrutte. Milioni di siriani sono stati costretti a fuggire dal conflitto. Il mondo è stato a guardare, mentre le forze armate e di sicurezza di Damasco continuavano a compiere attacchi indiscriminati e mirati contro i civili e a sottoporre a sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziarie sospetti oppositori e, a loro volta, i gruppi armati proseguivano a catturare ostaggi e a compiere esecuzioni sommarie e torture, seppur su scala minore. «Il rispetto per la sovranità degli Stati – afferma ancora Sami non può essere usato come scusa per non agire. Il Consiglio di sicurezza deve adoperarsi per fermare gli abusi che distruggono le vite umane e costringono le persone a lasciare le loro case. Deve farlo, rigettando la teoria, ormai logora e moralmente corrotta, che gli omicidi di massa, la tortura e le morti per fame non devono riguardare nessun altro Stato». Nel corso del 2012, Amnesty International ha documentato specifiche restrizioni alla libertà d’espressione in almeno 101 Paesi, torture e maltrattamenti in 112 Paesi. Metà degli abitanti del pianeta è costituita da cittadini di seconda classe per quanto riguarda la realizzazione dei loro diritti, poiché molti Paesi non hanno agito nei confronti della violenza basata sul genere. Alcuni, tragici indicatori: militari e gruppi armati hanno commesso stupri in Ciad, Mali e Repubblica Democratica del Congo; i talebani in Afghanistan e Pakistan hanno ucciso donne e ragazze; in Cile, El Salvador, Nicaragua e Repubblica Dominicana, a donne e ragazze rimaste incinte dopo stupri o la cui gravidanza poneva a rischio la loro salute è stato negato l’accesso a servizi sicuri di aborto. In tutta l’Africa conflitti, povertà e violazioni dei diritti umani da parte di forze di sicurezza e gruppi armati hanno messo in evidenza la debolezza degli strumenti regionali e internazionali per la difesa dei diritti umani. Nella regione Asia e Pacifico la libertà d’espressione è stata repressa in Cambogia, India, Maldive e Sri Lanka e i conflitti armati hanno danneggiato la vita di decine di migliaia di persone in Afghanistan, Myanmar, Pakistan e Thailandia. In Medio Oriente e Africa del Nord, nei Paesi in cui sono terminati regimi autocratici si è assistito a un aumento della libertà d’informazione, a crescenti opportunità per la società civile, ma anche ad attacchi alla libertà d’espressione per motivi legati a morale e religione. In tutta la regione, attivisti politici e per i diritti umani hanno continuato a subire la repressione, tra cui arresti e torture.

Repubblica 23.5.13
Il conflitto d’interessi
Epifani apre a Berlusconi “Non è ineleggibile” e nel Pd scoppia la fronda
“Il congresso? Rinviamolo o sarà guerra tra bande”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — La base, è probabile, non gradirà. Ma Guglielmo Epifani è convinto che Silvio Berlusconi sia eleggibile. E, soprattutto, che il Pd debba votare contro l’esclusione del Cavaliere nella giunta per le elezioni. Perché il nodo, ricorda il segretario parlando al gruppo dem della Camera, «è già stato affrontato altre volte» e i democratici non possono che attestarsi sulle posizioni assunte già in passato. Senza «fragilità identitarie». Non tutti però apprezzano, a partire da Felice Casson e Stefania Pezzopane, due dei membri Pd che decideranno il destino dell’ex premier.
La linea del segretario interpreta l’anima maggioritaria tra i parlamentari. Nonostante le proteste sul web e nonostante l’allergia dei militanti verso il ventennale avversario di Arcore. Nicola Latorre, ad esempio, si incarica di indicare le priorità. Fra le quali non emerge l’ineleggibi-lità: «È ormai acclarato che Berlusconi è il titolare di Mediaset. Ma l’attuale sistema di verifica che la legge costituzionale affida al Parlamento ha consentito in tutti questi anni di considerarlo eleggibile. Noi esamineremo con rigore anche questa ulteriore richiesta — promette — tenendo conto della prassi fin qui seguita. Ma è chiaro che occorre con urgenza una legge sul conflitto di interessi». Sconsolata, Laura Puppato ammette: «Il problema di Berlusconi in Parlamento non esiste, perché lui in Parlamento non c’è mai: è un assenteista cronico».
Come se non bastasse, i democratici sono alle prese anche con una delicata vigilia congressuale. L’ultima assemblea ha sancito con un voto che l’assise debba tenersi entro ottobre. Eppure potrebbe slittare, forse al 2014. Un cenno l’ha fatto ieri Epifani, rivolgendosi ai deputati e chiedendo di non comprimere i tempi del tesseramento. In privato, poi, il segretario è stato ancora più esplicito: «Dobbiamo affrontare un’ampia discussione politica. E solo dopo mettere in campo i nomi, perché farlo subito significherebbe innescare una guerra tra bande. Non è quello di cui il Pd ha bisogno».
Nel partito Matteo Renzi non si metterà di traverso, né Enrico Letta ha interesse a bruciare le tappe. I giovani turchi, invece, non gradiranno. Pronti con Gianni Cuperlo a tentare la scalata alla segreteria, insisteranno per rispettare gli impegni già assunti. Proprio Cuperlo mette in chiaro: «Il congresso si deve tenere al più presto. Nei circoli c’è delusione e sconcerto. Ma è assurdo aspettare che la rabbia si plachi. E comunque meglio militanti arrabbiati che abbandoni silenziosi». E anche Enzo Amendola si schiera: «Sono contrario al rinvio».
Prima di stabilire una data congressuale, comunque, il board democratico dovrà decidere se sdoppiare le figure di segretario e candidato premier. Se i veltroniani vogliono mantenere lo schema attuale — come anche D’Alema e Renzi — i giovani turchi spingono per dividere i destini dei due ruoli chiave. Davanti ai suoi deputati anche Epifani si è speso per questa seconda tesi, mostrandosi disponibile anche a ragionare sulla possibilità di non far votare solo gli iscritti. Magari attraverso una registrazione.
In attesa della decisiva direzione di martedì, nella quale il Pd è chiamato a sciogliere il rebus della riforma elettorale, Epifani ha cercato di motivare un gruppo parlamentare ancora scosso dal complicatissimo avvio di legislatura: «Dobbiamo avere più fiducia in noi stessi — ha detto — Il governo non può fare miracoli, non ha un euro, bisogna che lo dica. Il quadro economico è difficilissimo. Non siamo alla fine di un tunnel ma ad un bivio». Non è mancato neanche un richiamo tutto interno, dopo l’incidente sul provvedimento sui partiti presentato da Zanda e Finocchiaro: «Andiamo subito in crisi per qualunque pressione esterna. La vicenda di ieri al Senato è emblematica, prima di presentare i provvedimenti pensiamoci bene. Se li presentiamo, difendiamoli».

Repubblica 23.5.13
L’intervista
“Il segretario ha cambiato idea si vede che teme per il governo”
Civati: vittime del pasticcio in cui ci siamo cacciati
di Umberto Rosso


ROMA — Per Epifani il caso ineleggibilità di Berlusconi è stato già affrontato in passato, e quindi non è il caso di tornarci su. E Per lei, onorevole Civati?
«Dipendesse da me, con la macchina del tempo quella decisione l’avrei presa in modo un po’ diverso».
Fuori dal Parlamento Berlusconi, in base alla legge del ‘57?
«Esattamente. Tra l’altro, il segretario del Pd ancora qualche giorno fa mi pareva dicesse cose diverse».
E cioè?
«Mah, rimandava alle decisioni dei commissari pd nella giunta per le elezioni, pur precisando che non si tratta di questione da poter risolvere con un colpo d’accetta, con un sì o con no».
Il segretario ha cambiato idea, lo trova ora troppo rinunciatario?
«Non so dire se in 48 ore è cambiato qualcosa. Capisco l’imbarazzo politico e le difficoltà. Ma il problema è che non possiamo fare le discussioni al rovescio».
Ovvero?
«Evitiamo le ipocrisie, e diciamo le cose come stanno. La verità è che non si può affrontare l’ineleggibilità di Berlusconi perché se no cade il governo Letta. Ed è così, purtroppo, quasi per tutto. E quindi il Pd non riesce a discutere quasi di niente».
Sarà per questo che fra i democratici quasi nessuno, sinistra compresa, e a parte Zanda
che parla a titolo personale, reclama la non eleggibilità del Cavaliere?
«Anche i giovani turchi sono al governo. E siccome, come dicevo, si parte sempre dal must della sopravvivenza dell’esecutivo prima di affrontare qualunque nodo, temo che non ne usciamo. E non solo sulla ineleggibilità».
Su che altro?
«Se Berlusconi occupa il palazzo di Giustizia di Milano, che facciamo? Facciamo finta di niente perché se protestiamo cade il governo? E se lo condannano? Ci giriamo dall’altra parte per la stessa ragione? Purtroppo siamo vittime di noi stessi».
Di cosa esattamente?
«Del pasticcio in cui ci siamo cacciati, a causa dei nostri errori, che ci ha portato al governo delle larghe intese».
Teme la spina Grillo che invece martella per cacciare Berlusconi dal Parlamento?
«Una spina più o meno, con tutte quelle che abbiamo addosso, francamente non fa differenza».
Ma, come dice Renzi, non è assurdo cavalcare ora l’ineleggibilità visto che da 20 anni gli italiani mandano regolarmente Berlusconi in Parlamento?
«L’obiezione ha un fondamento. Ma secondo me dovrebbe essere proprio l’oggetto di una discussione libera e aperta in giunta delle elezioni. Anche sul nodo più generale del conflitto di interessi, a prescindere da Berlusconi. Partiamo da qui, rimettiamo il confronto sul binari giusti. Partiamo dalla testa e non dal fondo».
Solo che la giunta non decolla.
«Guarda un po’ che strano... Ma è chiaro, se tocchi i fili il governo casca. Però io vorrei sapere: il passato è andato, ma per il futuro che fa il Pd? Una legge sul conflitto di interessi che regoli il rapporto fra affari privati e politica, e che riguardi nuovi possibili casi, la vogliamo o no?».
Ma fra crisi di governo e Berlusconi che decade, cos’è più importante?
«Ecco, appunto. L’aut aut. Il diktat. La scelta obbligata. Col governissimo nel Pd non discutiamo più».

Repubblica 23.5.13
Progetto di legge del Pdl
“Sanzionare con il carcere chi disturba le manifestazioni”


ROMA — Sanzionare, anche con il carcere, chi disturba le manifestazioni politiche in piazza. E' questo il cuore del progetto di legge al quale sta lavorando il gruppo del Pdl alla Camera. Ad occuparsene è il parlamentare berlusconiano Ignazio Abrignani, che sta limando un testo da presentare nei prossimi giorni in commissione. L'iniziativa nasce dopo le contestazioni verificatesi durante il comizio dell’ex premier Silvio Berlusconi a Brescia. «Si tratta di garantire la libertà di manifestare , garantita dalla Costituzione», spiega Abrignani. L’idea è di estendere a tutte le manifestazioni la normativa prevista per i comizi per le elezioni politiche, che impone l'obbligo di non recare disturbo al comizio e distribuire volantini di diverso orientamento politico.

il Fatto 23.5.13
Gaffe con la Merkel
L’esordio di Letta al vertice acqua fresca
di Giampiero Gramaglia


Bruxelles D’accordo per agire, ma non subito, sul fisco, accelerando la lotta contro l’evasione, e l’energia. E d’accordo per vedersi di nuovo e decidere –allora o più tardi- sulla crescita e l’occupazione. Sarà vero, come dice Enrico Letta, premier esordiente, ma già con il lessico del veterano, che la sua linea “è passata”, ma misure concrete per la “massima priorità” dell’Italia e dell’Unione, cioè il lavoro dei giovani, non ce ne sono –né, a dire il vero, erano attese. Il Vertice straordinario sforna, come spesso accade, un calendario di appuntamenti: i leader hanno di nuovo appuntamento a Bruxelles a fine giugno, per parlare –allora sì - di crescita e occupazione; e inoltre ordinano ai ministri del lavoro dei 27 di vedersi a Berlino il 3 luglio per mettere a confronto “le migliori pratiche” per il lavoro giovanile. L’incontro in Germania, al di fuori delle liturgie comunitarie, appare un artificio per mascherare, con la frequenza delle riunioni, la rarefazione e l’inconsistenza delle decisioni prese (o, meglio, rinviate). Perché tutti sanno che, almeno fino alle elezioni tedesche del 22 settembre, è difficile immaginare un’azione europea di ampio respiro su crescita e occupazione. La cancelliera Merkel e il presidente Hollande ne parleranno a tu per tu prima della prossima ‘messa cantata’ corale. A conti fatti, il Consiglio europeo del debutto del premier Letta è stato poco più che acqua fresca, pur se i leader sono concordi nel darne giudizi positivi. Letta ammette “l’emozione del battesimo”; dice di non temere le “fibrillazioni della maggioranza”; spera di evitare “l’aumento dell’Iva”; e, soprattutto, aspetta, facendo melina, che la Commissione europea, il 29 maggio, chiuda la procedura d’infrazione contro l’Italia per eccesso di deficit. A quel punto, forse qualche soldo potrà spenderlo.
Le conclusioni del Vertice erano già pronte e dovevano solo essere approvate, indicano l’intenzione d’accelerare la lotta all’evasione, adottando “entro la fine dell’anno” una direttiva sui risparmi, finora frenata da Austria e Lussemburgo, e d’avviare “il prima possibile” negoziati con la Svizzera: l’obiettivo è quello di condividere le informazioni sui depositi bancari e di fare emergere evasione, o elusione, fiscale per –dicono alcune stime - 500 miliardi di euro. Il presidente della Commissione Barroso giudica, però, gli impegni “poco espliciti”, mentre il presidente del Parlamento Schulz crede possibile dimezzare l’evasione entro il 2020. Sull’energia, l’altro tema nella loro agenda, i leader dei 27 confermano l’impegno, preso nel 2011, di completare entro il 2014 il mercato unico del settore; e aprono cautamente allo sfruttamento del gas di scisto nell’Ue.
IL PROGRAMMA del Vertice prevedeva due ore di lavori e due ore sono state: l’inizio alle 15.00, preceduto da qualche bilaterale –Letta vede il lussemburghese Juncker e il britannico Cameron-; e la chiusura poco dopo le 17.00; nessun intoppo, nessuna ‘maratona’. Con Cameron il premier parla soprattutto di occupazione: la ricetta britannica è meno tasse alle imprese uguale più lavoro. Letta torna a casa con un carnet da debuttante al ballo: a fine maggio, riceverà a Roma il presidente del Consiglio Van Rompuy; poi, lui andrà a Londra.
Ai partner, Letta dice che la priorità dell’Ue deve essere il lavoro ai giovani. Ai giornalisti riferisce che la linea italiana “è stata accolta”: giudica “un buon inizio” il suo esordio, nonostante un incertezza da debuttante gli faccia mancare la stretta di mano della Merkel. Ma mentre negli Stati Uniti il presidente della Fed Bernanke afferma che “la ripresa va aiutata” e s’impegna a non ridurre gli stimoli, a Bruxelles i leader dell’Ue s’accontentano di inanellare le riunioni.

Corriere 23.5.13
La fiducia nei partiti politici ai minimi: 2,3 punti su 10


Lo sapevamo, in qualche modo era ben più che evidente. Del resto si percepisce con chiarezza nelle cifre dell'astensionismo alle elezioni e nel voto di protesta. Ma quello che certifica l'Istat nel suo rapporto del 2013 è qualcosa di assolutamente misurabile: la fiducia nei partiti politici in Italia ha raggiunto il minimo storico.
Per capire meglio: in una scala di valori da 0 a 10 i partiti ricevono un punteggio medio che supera di poco un secco 2, ovvero: 2,3. Si legge nel rapporto del nostro Istituto di statistica: «Il Paese è attraversato non soltanto da una profonda crisi economica, ma anche (e soprattutto) da una diffusa insoddisfazione dei cittadini verso la politica».

Corriere 23.5.13
Prescrizione per Filippo Penati così l'ex ds non mantiene la parola
di Luigi Ferrarella


L'ex ds Filippo Penati era ieri, e resta anche dopo ieri, imputato di 2 ipotesi di corruzione (tra cui quella politicamente più sensibile attorno all'affare Serravalle) e altre 2 di violazione della legge sul finanziamento dei partiti per le quali continuerà a essere processato almeno fino al 2016-2017. Ma intanto ieri in Tribunale a Monza è venuto meno alla parola data: alla parola che proprio lui aveva sbandierato a giornali e tv, assicurando che non si sarebbe giovato — come effetto indotto dalla legge Severino del 2012 sul segmento più antico del suo processo — della prescrizione di altre 3 accuse inquadrate come concussione. È inutile che Penati fuori dall'aula ora prometta avventurosi ricorsi in Cassazione contro una prescrizione asseritamente non voluta, ma che gli sarebbe bastato rifiutare al momento giusto (ieri) nel posto giusto (in aula), dove invece è andata in scena la surreale telefonata a vuoto del suo legale davanti ai giudici in attesa di una risposta dell'imputato. Peraltro nella sostanza del processo, come già si era rilevato prima dell'approvazione della legge, anche per Penati non cambia tantissimo, proprio come per Berlusconi nel caso Ruby, dove infatti i pm hanno potuto fare le loro richieste di condanna (scadenza 2020) senza quei disastri che opposte tifoserie per mesi profetizzavano come conseguenza e anzi motivo della nuova legge.
I due episodi contestati a Penati per l'area ex Ercole Marelli a Sesto risalgono al 2000 e già con le vecchie regole non sarebbero mai arrivati in Cassazione; e onestà intellettuale impone di ricordare che la terza concussione (nel 2003 per l'area ex Falck) era già stata bocciata sia dal gip sia dal Tribunale del Riesame, che avevano riqualificato i fatti come corruzione, dunque anche con le vecchie norme già prescritte addirittura nel 2011. Ma ciò non cancella la figuraccia di Penati. E, soprattutto, non deve fare dimenticare il vero difetto della legge Severino. Che non sta negli inventati salvaBerlusconi o salvaPenati, ma in ciò che non contiene e che neppure il nuovo governo sembra volere: una generale riforma della prescrizione almeno dopo la prima sentenza, l'introduzione dell'autoriciclaggio, norme più serie su falso in bilancio e voto di scambio.

Corriere 23.5.13
Modeste proposte per tirare a campare
Riforma della legge elettorale. L’eventualità che un partito raggiunga il 40 per cento è improbabile
Ciò ha la conseguenza di stabilizzare questo governo
di Michele Salvati


«Mai più alle elezioni con questa legge elettorale»: per ora è uno dei due punti sui quali Pdl e il Pd si sono messi d'accordo. L'altro è quello di fare in fretta, anche se la fretta costringesse a fare una legge elettorale provvisoria, da ridiscutere quando saranno messe in agenda le riforme costituzionali. E la fretta è giustificata dal prossimo giudizio della Consulta, che potrebbe muovere obiezioni forti alla legge in vigore. Soprattutto l'obiezione che, in presenza di tre o più liste che ottengono un consenso elettorale simile, verrebbe comunque concesso un numero di seggi sufficiente a dare la maggioranza in Parlamento a quella che avesse ottenuto un solo voto in più delle altre, anche se i voti ottenuti fossero una netta minoranza di quelli espressi.
Il Porcellum non ha soglie, mentre persino la «fascistissima» legge Acerbo prevedeva una soglia (il 25%) al di sotto della quale il premio di maggioranza non scattava.
Il Porcellum è sempre stato una cattiva legge elettorale, per tanti motivi, ma fino alle ultime politiche il problema non si poneva perché i due poli principali raccoglievano insieme tra il 70 o l'80 per cento dei voti e chi prevaleva ne otteneva almeno più di 40: una correzione maggioritaria che lo portasse alla maggioranza dei seggi non appariva scandalosa e di fatto era inferiore a quella che il partito vincente ottiene in molti altri sistemi maggioritari. Si pone adesso dopo lo straordinario successo del Movimento 5 Stelle. A quanto sembra il Pdl, sempre per la fretta e in via provvisoria, come affermano i suoi esponenti, insiste per una sola e semplice modifica della legge in vigore, inserendo una soglia elevata per far scattare il premio: si parla del 40% (ma perché non il 35 o il 45?). Ammesso che tale soglia sia superata, e che i risultati del Senato non contraddicano quelli della Camera — la riforma del Senato che impedirebbe questo esito deve attendere il momento delle riforme costituzionali — ci troveremmo in un sistema elettorale maggioritario. Se la soglia non è superata saremmo in un sistema proporzionale. Come al solito, nel Pd ci sono voci discordanti, anche se molti insistono per un ritorno al Mattarellum, il sistema con il quale si è votato dal 1994 al 2001: il Pdl sembra però fortemente contrario e vedremo che cosa succederà.
Nella situazione in cui siamo, l'eventualità che un partito (o una lista di partiti: altro oggetto di scontro) superi il 40% è piuttosto improbabile e quindi la prospettiva di fronte alla quale si trovano i politici è quella di un sistema proporzionale. Questa ha una conseguenza importante, la stabilizzazione dell'attuale governo: in assenza di una prospettiva realistica di ottenere un premio elettorale che assicuri loro la maggioranza nei due rami del Parlamento, nessuno dei partiti che sostengono il governo ha la convenienza a ritirare il proprio sostegno, se la distribuzione dei consensi elettorali rimane quella rivelata dalle ultime elezioni. Berlusconi vanta una consistente ripresa di consensi, ma è il primo a sapere che è improbabile possa ottenere un risultato superiore al 40% — se questa sarà la soglia — nelle prossime consultazioni. Che faccia bene o che faccia male, che faccia le riforme necessarie al Paese o non le faccia, con una riforma elettorale di questo genere, se passerà, il governo Letta firma una conveniente polizza di assicurazione.
Se poi questa polizza sia conveniente anche per il Paese, è un altro problema. Le attuali preferenze degli elettori ci hanno lasciato in una situazione nella quale il governo è sostenuto da due grandi partiti che si guardano in cagnesco, e da un terzo, più piccolo, che non è in grado di cambiare la natura del gioco. Un quarto grande partito — o movimento, come preferisce chiamarsi — sta all'opposizione, insieme a partiti minori, ma non sembra in grado, o abbia l'intenzione, di presentare una proposta politica credibile o voglia allearsi con altri partiti. Se l'offerta da parte di uno o più di questi soggetti politici non cambia o se non cambiano molto le loro dimensioni relative, non c'è legge elettorale che possa cavarci d'impaccio, a meno di pensare a un mostro che sfidi i più elementari criteri della rappresentanza democratica. Ovviamente auguriamo a Letta di durare quanto basta per fare riforme importanti sia in materia economica sia costituzionale. Ma il rischio che ci si ritrovi dopo le prossime elezioni in una situazione simile a quella in cui ci siamo trovati dopo le ultime, e con esso il rischio di una nuova grande coalizione, è sempre incombente.

Repubblica 23.5.13
Dal Porcellum al Porcellinum
Apprendisti stregoni delle larghe intese
È solo un altro sacrificio estremo, da offrire sull’altare della «pacificazione»
di Massimo Giannini


Il presunto accordo Pd-Pdl sulle modifiche alla legge elettorale è un fumoso esempio di equilibrismo politico, oltre che un penoso esercizio di minimalismo giuridico. Il Porcellum, invece di finire al meritato macello, figlia il «Porcellinum». Un altro mostro, appena un po’ più piccolo, che ancora una volta non esiste in natura ma esiste in Italia. Un altro pasticcio, concepito per aiutare i partiti allo stremo e far durare il «governo di servizio». Non per restituire agli elettori il diritto di scegliere i propri eletti, e nemmeno per garantire al Paese un sistema democratico solido ed efficiente. Non per ristabilire i principi di costituzionalità invocati dalla Corte di Cassazione che rimanda al giudizio della Consulta, ma per perpetuare i rischi di un’ingovernabilità che è funzionale alla conservazione del nuovo assetto politico. Dal quale l’unico a trarre vantaggio, fino ad ora, è con tutta evidenza solo Silvio Berlusconi.
Come ormai succede su quasi tutte le misure annunciate o avviate dallo «strano» governo, dall’Imu allo Ius soli, anche l’intesa bipartisan raggiunta sul posticcio maquillage della legge elettorale vigente si presta a letture partigiane e tutt’altro che condivise. Secondo il Pdl si tratta di piccoli correttivi, ma tutti di nessuna importanza (versione Brunetta: «Eliminiamo solo gli aspetti macroscopicamente incostituzionali»). Secondo il Pd si tratta di grandi cambiamenti, ma ancora tutti da scrivere (versione Franceschini: «Abbiamo concordato la norma di salvaguardia: non voteremo mai più con la porcata di Calderoli»). Già questo cortocircuito ermeneutico basterebbe per rendersi conto che siamo di fronte a un patto comunque scellerato. Nei prossimi giorni ne capiremo meglio la natura e la portata.
Ma nel frattempo quel poco che si evince dalle indiscrezioni politiche e dalle ricostruzioni giornalistiche è che nessuna delle rovinose e scandalose nefandezze del Porcellum viene superata. Nella migliore delle ipotesi, il nuovo papocchio serve solo a comprare tempo. Nella peggiore, finge di «ridurre il danno» ma in realtà lo amplifica.
Il meccanismo infernale delle «liste bloccate» non viene smontato. Con buona pace dei cittadini, che si devono rassegnare al ruolo gregario di semplici «sudditi» sottoposti allo strapotere delle segreterie di partito. E con buona pace del parere della Cassazione e del presidente della Consulta Gallo, che indicano nei collegi uninominali previsti dal vecchio Mattarellum una corretta espressione del principio costituzionale del «voto libero e diretto».
Nel marasma successivo al vertice della «stranissima maggioranza», c’è chi non esclude del tutto l’ipotesi che in realtà si possano reintrodurre le preferenze. Ma se fosse vero, anche questo finirebbe per essere un rimedio peggiore del male, vista la palude di corruzione nel quale il sistema sta lentamente sprofondando.
Il titanismo micidiale del premio di maggioranza non viene ricondotto nel solco della realtà, ma paradossalmente ancora più proiettato nella dimensione dell’irrealtà. Non si scardina l’ingranaggio che consente a chi arriva primo alle elezioni di incassare un bottino abnorme, portando a casa il 55% dei seggi. Si alza invece al 40% la soglia minima di consensi oltre la quale scatta il premio. Un tetto iperuranico, che allo stato attuale Pd e Pdl supererebbero a stento solo se si fondessero in una sola lista. Anche questo è un modo surrettizio per aggirare l’ostacolo dell’incostituzionalità, e al tempo stesso per rendere cogente la formula delle Grandi Coalizioni per via legislativa.
Ecco, dunque, il magma che ribolle nell’officina delle istituzioni. Una mini-riforma che non riforma nulla, e che rappresenta solo una momentanea polizza vita per il governo in carica. Invece di scegliere la via più breve e più logica, cioè un decreto legge che in due righe abroga il Porcellum e ripristina il Mattarellum, gli «apprendisti stregoni» delle Larghe Intese aprono un cantiere perenne che ha il solo scopo di durare molti mesi. In questo cantiere la riforma della legge elettorale deve accompagnare la riforma costituzionale, affidata alle cure di un Comitato dei 40 che raggruppa i membri delle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato, stende un articolato di proposte e le sottopone a una Convenzione, nel frattempo approvata ed eletta secondo i criteri di un’ulteriore revisione costituzionale varata ai sensi dell’articolo 138. Una costruzione barocca, arzigogolata ed eterna. Difficile persino da riassumere in italiano.
Qualche anima bella sostiene che il ripristino del Mattarellum, o comunque una seria riforma elettorale, sono impossibili o comunque sconsigliabili, perché un attimo dopo il governo Letta-Alfano cadrebbe e si tornerebbe immediatamente a votare. Ma se il marchio di qualità dell’azione dell’esecutivo è questo inconcludente «Lodo Quagliariello», allora c’è poco da sperare per l’Italia che aspetta riforme e chiede stabilità. È solo un altro sacrificio estremo, da offrire sull’altare della «pacificazione».

La Stampa 23.5.13
Il referendum a Bologna per la scuola pubblica
Mila Spicola: “Ricatto inaccettabile Intervenga loStato”
di Fla. Ama.


Mila Spicola, insegnante delle scuole medie a Palermo e autrice di libri sulla scuola, finanziamento pubblico alle paritarie e private: sì o no?
«Se ci riferiamo alle scuole medie, il mio no al finanziamento è totale. Finanziamo una scuola privata che ha livelli di rendimento peggiori ed è l’unico caso al mondo in cui si verifica. Quindi il mio no è totale. Anche perché alle medie la scuola statale accoglie e può accogliere tutti».
Non è così alla materna, però, dove sono in tanti a rimanere fuori e a costringere le mamme a non poter lavorare.
«Infatti in questo caso il mio no è totale, anche sapendo che purtroppo gli asili statali non riescono ad accogliere tutti perché non ce ne sono. Diventa una sorta di ricatto, ma non è tollerabile. Lo Stato deve provvedere a finanziare le scuole in modo da garantire che tutti possano studiare. E la politica deve risolvere questo problema a monte finanziando la costruzione di asili dello Stato. Nessun altro può farlo. È previsto dalla Costituzione. Persino i sindaci devono lavarsene le mani, è un compito dello Stato».
Non tutti interpretano l’articolo 33 in questo senso.
«L’articolo 33 è chiarissimo. C’è scritto “senza oneri per lo Stato”. È un principio costituzionale, non di parte politica o confessionale».
Costa di meno finanziare una scuola privata che mantenerla direttamente.
«La Costituzione recita senza oneri per lo Stato. E anche se costa meno è più scarso».

Repubblica 23.5.13
Pd e Pdl contro Sel e 5Stelle sul voto di Bologna per la scuola l’ombra delle larghe intese
Il ministro Carrozza: sì agli accordi con le paritarie
di Michele Smargiassi


BOLOGNA — I banchi (di scuola) possono far saltare il banco (della politica). Domenica i bolognesi decideranno se è giusto che il Comune finanzi con un milione di euro all’anno ventisette scuole materne private (di cui 25 cattoliche); ma le urne del referendum su una questione apparentemente civica sono molto più calde, perfino più di quelle delle concomitanti comunali di Roma. Il sindaco Virginio Merola l’ha capito al volo: «Non permetterò che Bologna faccia da cavia per un esperimento politico nazionale». Di che parla? Ma è lampante. Se si guarda lo schieramento in campo, quello di Bologna è il primo voto nella stagione delle larghe intese: Pd e Pdl da una parte (opzione B, difesa delle convenzioni con le paritarie), Sel e 5Stelle dall’altra (opzione A, soldi solo alle materne pubbliche). Governissimo contro opposizione. Non è un caso che il governo stesso, nella persona del ministro per l’Istruzione Maria Chiara Carrozza, fa irruzione nella disputa bolognese schierandosi: «L’interesse mio e del Ministero è appoggiare gli accordi che vedono il ruolo delle paritarie per coprire tutti i posti per i bambini».
«Da un mese il senso di questo voto è cambiato», lamenta anche Stefano Zamagni, l’economista cattolico che guida il fronte antireferendario; intende che le elezioni politiche e quel che ne è seguito hanno trasformato una battaglia cittadina sul sistema scolastico in un test nazionale che mobilita gli umori e i malumori della nuova, liquida geografia politica italiana. Lo scontro tra Merola e Nichi Vendola lo dimostra. È «vergognosa», per il sindaco, l’invasione di campo del governatore della Puglia, regione che «prevede i finanziamenti alle paritarie». «Non sono il dittatore della Puglia, spesso le mie opinioni non coincidono con le scelte del mio Consiglio regionale», abbozza il leader di Sel, e in una lettera a Repubblica avverte: «Bologna rischia di essere il campo di un gioco al massacro».
La temperatura sale, lo scontro si fa politico, l’alleanza in Comune vacilla, «Merola vuole cacciare Sel dalla giunta», denuncia il vendoliano Gian Guido Naldi, e il sindaco non fa molto per smentirlo: «Che sinistra è quella che ha un’idea di servizio pubblico che neanche a Cuba?». Nel Pd non si registrano illustri ammutinamenti alla linea ufficiale, ma l’incognita è la reazione del suo elettorato, sottoposto da un mese allo stress di un’alleanza difficile da digerire, tentato di inviare un messaggio “di sinistra” ai vertici del partito. «La vostra gente vota A, tornate a bordo, cazzo!», è il sarcasmo di Ivano Marescotti, attore-portabandiera dei referendari.
Neppure i richiami al merito sembrano raffreddare gli animi. Facendo soffrire i referendari, Romano Prodi si schiera pragmaticamente per l’opzione B: «Perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tanti anni?», ma trova sul fronte opposto un amico fraterno, Francesco Guccini, schierato per «una scuola dell’infanzia pubblica laica e plurale». Difficile mantenere locale la disfida delle materne, quando entrambi i fronti mobilitano condottieri di rinomanza nazionale, più eclettici quelli sotto le bandiere dell’A (da Rodotà a Scamarcio, da Strada a Hack, da Fo alla Golino), più potenti quelli del B, a partire dal presidente della Cei Bagnasco, la cui scesa in campo ha il pregio di chiarire che la battaglia per le scuole paritarie è in realtà una battaglia per le scuole cattoliche. Il cui argomento principe, la “libertà di scelta educativa”, potrebbe però rivelarsi un boomerang a Bologna, dove centinaia di famiglie che vorrebbero iscrivere i figli alle materne comunali di nota eccellenza restano escluse dalle liste e vengono dirottate (pagando rette costose) sulle materne confessionali: «Dov’è la libertà di scelta di queste famiglie?», incalza Stefano Bonaga, portavoce dell’A, in un forum a Repubblica.
«Colpa dello Stato che non apre abbastanza scuole a Bologna», para il colpo Zamagni, ma annuncia che «dopo il voto, bisognerà rivedere i termini della convenzione».
Nelle piazze, la trasversalità del fronte B (Pd, Pdl, Lega, Udc, Curia, Cl, Cisl, cooperative bianche e rosse, commercianti) è imponente: gazebo, volantini, slogan efficaci: «B come Bambini», «B come Bologna», e anche come Berlinguer, inteso come Luigi, padre della legge sulle paritarie, ma che citato per solo cognome fa il suo effetto nell’elettorato ex-rosso. Coi referendari, invece, un po’ di Cgil, Fiom, Cobas, la scuola di Barbiana di don Milani, gli ultras del Bologna calcio, ma soprattutto la sinistra dispersa che in un mese di passione si è aggrappata a Stefano Rodotà, primo firmatario del referendum. Tutto sommato una minoranza: lo scontro, sulla carta, sembra impari. Ma la fantasia epica del collettivo di scrittori Wu Ming forgia l’arma che galvanizza il fronte laico: «Anche gli spartani erano solo trecento. Domenica benvenuti alle Termopili, e che il cozzare del ferro produca tante scintille».

Repubblica 23.5.13
Nadia Urbinati, docente: la disputa è diventata troppo ideologica
“Niente soldi pubblici ai privati Bagnasco sbaglia a radicalizzare”
“Si tratta di una scelta politica: se la scuola pubblica è una priorità i finanziamenti si trovano. I diritti costano”
di Valerio Varesi


BOLOGNA — «I soldi pubblici devono andare alla scuola pubblica che è la scuola di tutti» spiega Nadia Urbinati, docente di Scienze politiche alla Columbia university.
Il principio è chiaro, ma non pensa che la contingenza possa autorizzare l’integrazione con gli istituti privati?
«Si tratta di una scelta politica: se la scuola pubblica è una priorità i finanziamenti si trovano. La Francia, pur in crisi, ha continuato a investire sulla scuola pubblica anche con Sarkozy. Il diritto all’istruzione è costoso, tutti i diritti lo sono e se li mettiamo in discussione cedendo all’emergenza economica, allora dovremmo negare anche molti altri diritti. Quella di finanziare la scuola privata è una scelta politica che si maschera dietro una necessità economica».
Ma il Comune di Bologna cosa dovrebbe fare se non riesce a garantire i posti per tutti nella scuola d’infanzia?
«Per esempio rinegoziare con lo Stato la presenza delle materne statali che è largamente insufficiente al contrario dell’offerta comunale. Lo si inviti a sopperire non a scaricare le responsabilità sugli enti locali».
Che ruolo attribuisce alle scuole private?
«Le private sono tali fino a quando non sono finanziate dallo Stato. Dal momento in cui ricevono dei soldi dal pubblico, quest’ultimo impone delle regole che contraddicono il principio del privato libero».
Crede che ci sia troppo scontro ideologico e poco nel merito?
«Sì, la disputa è stata troppo ideologica. L’intervento del cardinal Bagnasco ha radicalizzato il contendere in una disputa tra chi sta con la Chiesa e chi coi castigatori delle scuole cattoliche».

Repubblica 23.5.13
L’intervista
“Sì, a Milano l’emergenza sociale fa aumentare i furti e le rapine ma guai a speculare sull’odio”
Pisapia: la sicurezza è una priorità, giusto usare anche i militari
di Rodolfo Sala


MILANO — Picconate e rapine con molotov, ieri gli scontri davanti a Palazzo Marino dopo lo sgombero di un centro sociale. Sindaco Pisapia secondo lei esiste o no un’emergenza sicurezza a Milano?
«Quegli scontri nulla hanno a che vedere con il tema della sicurezza. Lo sgombero non è stato voluto né deciso dal Comune. Ai ragazzi dello Zam, che hanno fatto un buon lavoro di coesione sociale nel loro quartiere, voglio dire una cosa, anzi due».
La prima?
«Hanno sbagliato a individuare Palazzo Marino come un avversario».
La seconda?
«La violenza non è, non può mai essere di sinistra».
Per il resto?
«C’è un’emergenza sociale aggravata dalla crisi economica che incide sulla vita di tutti i cittadini. E inevitabilmente anche sulla sicurezza. Non possiamo accontentarci dei dati che a Milano fanno registrare una diminuzione dei reati in generale, ma anche un incremento di quelli predatori. Io ho una convinzione».
Quale?
«Non bisogna speculare sull’odio. Dopo i fatti gravissimi successi dobbiamo somministrare una medicina giusta. Risolvere i problemi, non aggravarli».
E qual è questa medicina?
«Quella a cui abbiamo pensato l’altro giorno in Prefettura, nel vertice con il ministro Alfano. Cose concrete: la centrale operativa unificata, il numero unico per qualsiasi necessità (lo avremo a breve), l’accordo con i Comuni limitrofi per il controllo del territorio, anche in relazione all’Expo e al rischio infiltrazioni».
Modello Milano?
«Insomma, le cose le stiamo facendo. C’è una grande cooperazione tra forze dell’ordine e polizia locale, i cui responsabili si ritrovano ogni 15 giorni. In altre città della Lombardia questo non c’è ancora. Come ha giustamente sottolineato il governatore Maroni, che ha chiesto di estendere a tutta la Regione questo modo di procedere».
A Milano arriveranno presto 140 agenti in più. E anche i militari, che però potranno solo presidiare i posti fissi.
«È giusto così. Il pattugliamento delle strade, che comprende anche le operazioni di identificazione e arresto, lo possono fare solo le forze dell’ordine. L’ho sempre sostenuto, su questo siamo stati tutti d’accordo. Però...».
Però?
«Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, sulla base delle competenze che ha. Quelle di un sindaco non riguardano l’ordine pubblico, tuttavia ho lavorato perché ci fosse la massima collaborazione anche in questo settore».
Collaborazione, concordia. Ma le polemiche sono roventi, e non risparmiano certo il sindaco. Accusato (dai leghisti) di essere «totalmente inadatto». Mentre qualcuno del Pdl ha diffuso un volantino che invita a «picconare» Pisapia...
«Fa parte della strumentalizzazione. Sarebbe come se io polemizzassi con qualche mio collega su episodi di sangue avvenuti nell’hinterland. Non l’ho mai fatto, e mai lo farò».
Gliel’ha detto a Maroni?
«Lui è un segretario di partito con un importante ruolo istituzionale. E dice che sulla sicurezza non ci si può dividere. Però tra i suoi c’è chi soffia sul fuoco, e questo certo non aiuta. Quando parlo di rispetto delle competenze, non voglio tirarmi indietro. Io sulla sicurezza voglio esserci».
C’è un modo specifico di «esserci» per un sindaco di sinistra?
«Bisogna innanzitutto far capire che la sicurezza, il diritto a stare tranquilli sono qualcosa su cui impegnarci con forza. La differenza è che noi per salvaguardare questo diritto non vogliamo lederne altri. Com’è successo con le ordinanze sindacali, poi dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, che portavano il coprifuoco in alcuni quartieri».
Ci sono resistenze a sinistra sul tema della sicurezza?
«Talvolta non la si considera una priorità, perché in tempi di crisi le priorità sono tante. Comunque noi, a differenza di chi ci ha preceduto, sull’ordine pubblico non abbiamo tagliato nulla. Ma anche i cittadini devono fare la loro parte».
In che senso?
«Se ci fosse una maggiore fiducia nelle forze dell’ordine e nelle istituzioni, aumenterebbero la solidarietà nei rapporti sociali e anche la possibilità di intervenire prima, anziché dopo, per prevenire fatti come quelli accaduti».

l’Unità 23.5.13
Parlamento europeo
Borghezio cacciato per gli insulti a Kyenge
Il gruppo Efd sospende il leghista per le frasi volgari e pesanti
La scelta dopo l’iniziativa di Articolo 21
di Federico Ferrero


L’europarlamentare Mario Borghezio è stato indotto a sospendersi dal gruppo Efd (Europa della libertà e della democrazia) dopo le reazioni a Strasburgo alle sue parole contro Cecile Kyenge e la dura reazione del presidente del Palamento europeo Martin Schulz che aveva parlato di «affermazioni vergognose».

Pensava di averla fatta franca anche questa volta, Mario Borghezio, con il suo credo razzista stemperato in salsa folkloristica. Ma in Europa la pensano diversamente, a partire dal presidente del Parlamento Martin Schulz, che l’altro giorno ha bollato le dichiarazioni dell’esponente leghista sul ministro Cécile Kyenge come «affermazioni vergognose».
Borghezio, la cui carriera pubblica ha trovato ispirazione fondante nella teoria della supremazia della razza bianca, aveva sciolto le briglie contro il ministro dell'Integrazione in una serie di interventi radiofonici, bollando la nomina voluta da Enrico Letta come «una scelta del cazzo», trattandosi di medico arruolato «togliendo il posto in una Asl a qualche collega italiano», per di più incompetente in materia di lavoro e «con l'aria da casalinga». Una donna di colore al potere, intenzionata a «cambiare la legge sulla cittadinanza con lo ius soli e a imporre le tradizioni tribali del Congo». Secondo l’anima xenofoba del Carroccio, questo «governo del bonga bonga» la Lega non si è peritata di accusare la Kyenge di aver istigato il picconatore Kabobo si è assunto la responsabilità di una scelta molesta: l’aver imposto una personalità non conforme ai canoni della razza padana, giacché «gli africani sono africani, appartengono a un'etnia molto diversa dalla nostra, né hanno prodotto grandi geni: basta consultare l'enciclopedia di Topolino».
Di convogliare l’indignazione in un’iniziativa popolare si è occupato il direttore di Articolo21, Stefano Corradino, che in pochi giorni ha raccolto 130mila firme sul portale change.org e martedì ha provveduto a consegnarle nelle mani del presidente Schulz a Strasburgo, alla presenza dei capigruppo di cinque schieramenti (socialisti e democratici, popolari, liberali, verdi e comunisti), cui ha rappresentato l’opportunità di favorire l’emarginazione politica di Borghezio o, quantomeno, di procedere con sanzioni disciplinari. L’impulso della petizione ha indotto a reagire i maggiorenti dell’Efd, il gruppo euroscettico “Europa della libertà e democrazia”: secondo Corradino, il leader dell’Ukip Nigel Farage «avrebbe chiesto con decisione l'espulsione di Borghezio. Ma per adesso si sarebbe deciso solo per la sospensione». Del resto l’Ukip non aveva nascosto la difficile convivenza con le tesi imbarazzanti del veteroleghista Borghezio già ai tempi della strage di Utoya, quando l’ex sottosegratario del governo Berlusconi I aveva ritenuto responsabile del massacro non tanto Anders Breivik, quanto quella «società multirazziale che fa schifo».
Altra è la versione del vice segretario della Lega, Matteo Salvini, a detta del quale Mario Borghezio si sarebbe sospeso dal gruppo Efd con una mossa non imposta ma cautelativa, in attesa «di offrire chiarimenti» a proposito delle sue uscite: «Il presidente Schulz ha chiesto spiegazioni, così come gli inglesi, e Borghezio le offrirà nella prossima riunione del gruppo», programmata per la seconda settimana di giugno. Salvo intervenire già ieri, nella sessione plenaria dell’Aula, con l’intenzione dichiarata di scusarsi ma limitatamente «all'unico appellativo che ho utilizzato, quello di casalinga, per il quale comprendo possa essersi sentita offesa». E per avanzare, più tardi, un provocatorio invito a cena a Cécile Kyenge «cui voglio stringere la mano, la dovessi incontrare, anche volesse rifiutarla come ha fatto con il capogruppo della Lega Nord a Milano»: una glossa inopportuna sul recente episodio in cui il leghista Alessandro Morelli era stato bloccato dalla sicurezza prima di raggiungere il ministro, in visita a Milano.
Quale che sia la risoluzione del Parlamento, si tratti di una sanzione autoinflitta o dell’anticamera di un’espulsione verso cui gli stessi compagni di gruppo ormai paiono orientati, l’impressione è che l’ala destra del Carroccio abbia esaurito il credito di sopportazione che le istituzioni hanno inteso concedergli. Sempre pronto a saltellare sul crinale che l’ha reso personaggio, tra provocazioni estreme e sparate inaccettabili, dopo la raffica di offese al ministro Kyenge Borghezio si è ritrovato solo come non mai. Ostracizzato anche dalla rappresentanza politica più affine alle sue dottrine, una letterina di scuse raffazzonata e grossolana non potrà bastare a salvarlo.

l’Unità 23.5.13
La lezione di Strasburgo
di Luca Landò


LA SOSPENSIONE DI MARIO BORGHEZIO DAL PARLAMENTO EUROPEO È UNA NOTIZIA TALMENTE BUONA CHE È QUASI PESSIMA. Buona perché il coro di proteste dopo le ignobili frasi pronunciate contro la ministra Kyenge dimostra che non c’è solo un giudice a Berlino: c’è anche un Parlamento in Europa per il quale democrazia, diritti e lotta contro il razzismo non sono parole da pronunciare ma politiche da difendere e applicare. Pessima, perché è triste che a costringere l’europarlamentare a chiedere scusa sia stata l’Europa e non l’Italia.
È vero, la slavina europea che è scivolata addosso a Borghezio è nata, firma dopo firma, da una petizione lanciata sul sito Change.org dall’associazione italiana Articolo 21 per chiedere l’espulsione di Borghezio dal Parlamento europeo e che nel giro di poche ore ha raccolto oltre 130 mila adesioni. Ma la svolta, come altro chiamarla, è arrivata dopo che quelle firme sono state portate e consegnate ai parlamentari europei di varie nazioni e dopo che Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, ha parlato espressamente di parole inaccettabili. È allora, solo allora che Borghezio ha fatto marcia indietro, per quanto sia possibile cancellare frasi come «governo del bonga bonga» e «nominarla è stata una scelta del cazzo» rivolte dalla radio pubblica italiana alla ministra della Repubblica italiana Cecile Kyenge.
Perché l’Europa e non l’Italia, dunque? Perché Borghezio, a Roma o Milano, è un personaggio colorito da intervistare, mentre a Strasburgo è un politico da censurare? Il sospetto ma vorremmo che qualcuno lo fugasse per davvero è che il razzismo, da noi, è ancora una zona grigia dove tutto è permesso, dove la battuta da bar alla fine arriva sempre, dove dire «neger» all’immigrato o «negretto» a Balotelli fa tanta simpatia.
La notizia bella, anzi ottima, è che l’Europa ci ha ricordato che non è così, che il razzismo non è uno scherzo e non fa per nulla simpatia. La notizia brutta, anzi pessima, è l’aver avuto bisogno dell’Europa. E si eviti, per carità, di dire che il leghista Borghezio è un europarlamentare che risponde solo alle regole del Parlamento europeo.
C’è un altro punto che non può essere ignorato. Nel presentare il suo «ravvedimento», Borghezio ha detto testualmente che «se la signora si è sentita offesa per il contesto o come donna perché ho usato il termine “casalinga”, le chiedo scusa». Un modo sprezzante, diciamo pure fascista, per ribadire il proprio disgusto nei confronti di una donna per di più nera (ma come, ti offendi?).
Già, perché Borghezio è uno che non molla mai, in pieno accordo con quel celodurismo che per decenni (ora un po’ meno) ha fatto le fortune di quel partito, la Lega, che lo ha spedito in Europa anche grazie a quelle frasi che ha collezionato anno dopo anno e che Corradino ha ricordato proprio ieri su queste colonne: «Noi ai clandestini bastardi gli diamo il mille per mille di calci in culo con la legge Bossi-Fini», «Per noi il Meridione esiste solo come palla al piede che portiamo dolorosamente appresso da 150 anni», fino all’indimenticabile: «Quelle espresse da Breivik sono parole condivisibili» con riferimento all’estremista di destra che nel 2011 in Norvegia uccise 77 ragazzi. L’ultima frase l’ha pronunciata pochi giorni fa alla radio, ma questa volta ad ascoltare non c’era solo l’Italia. C’era anche l’Europa.

Corriere 23.5.13
La legge sulla cittadinanza, bambini in sala d’aspetto
Risponde Sergio Romano


Le scrivo a proposito del dibattito in corso sullo «ius soli» da introdurre in Italia, al quale lei era apparso favorevole argomentandone in una delle sue recenti risposte. Anche se personalmente ritengo che sia una delle questioni meno urgenti da affrontare dall'attuale governo (visti i gravissimi problemi che invece farebbe meglio a gestire), mi chiedo che cosa ne direbbero gli altri Paesi dell'Unione Europea. Concedere la cittadinanza italiana a bambini nati sul nostro territorio, infatti, significherebbe automaticamente che essi saranno cittadini europei, quindi potranno trasferirsi in un qualsiasi Stato dell'Unione. Migliaia di immigrati che potrebbero arrivare senza nessun problema in Germania, Francia, Spagna, Olanda, Belgio ecc. Che cosa ne direbbero i nostri partner europei di questa possibilità?
Chiara Giacomini, Milano

Cara Signora,
Quella dello «ius sanguinis» è una categoria piuttosto semplice. Nasce «nazionale» il bambino che viene al mondo nel Paese di cui i suoi genitori (o almeno il padre) sono cittadini; ed è «nazionale», generalmente, anche se la famiglia, in quel momento, vive in un altro Paese. Nel caso dello ius soli tutto è molto più complicato. Come ha già spiegato Gian Antonio Stella sul Corriere del 7 maggio, molti Paesi, in questi ultimi anni, hanno adottato lo ius soli e hanno riconosciuto ai bambini, in linea di principio, il diritto alla cittadinanza del Paese natale. Ma hanno disegnato percorsi che variano da uno Stato all'altro. Accanto all'articolo di Stella, il Corriere ha pubblicato uno schema da cui risultano alcuni dei criteri adottati nei Paesi dell'Unione Europea. In Spagna è cittadino chi nasce nel Paese da genitori di cui almeno uno è nato sul posto; ma si può acquisire la cittadinanza anche dopo dieci anni di residenza o un anno dal matrimonio con un cittadino spagnolo. In Irlanda è cittadino il figlio di genitori stranieri che risiedono nel Paese da almeno tre anni. Nei Paesi Bassi la cittadinanza si acquista al compimento dei diciotto anni. In Francia il bambino è immediatamente francese se nasce da genitori stranieri ma nati in Francia. In Germania, vale a dire nel Paese che in passato fu maggiormente caratterizzato dallo ius sanguinis, il bambino è tedesco se uno dei genitori vive nel Paese da almeno otto anni e ha un permesso di soggiorno da tre. In Italia, infine, vale la regola dei diciotto anni, come nei Paesi Bassi, ma l'apolide e il rifugiato politico possono ottenere la cittadinanza entro cinque anni e i figli di cittadini della Ue entro quattro.
Per lo Stato italiano, quindi, il problema non è quello di passare dallo ius sanguinis alla ius soli, ma di rendere quest'ultima categoria meno restrittiva di quanto sia attualmente. Certo, come lei scrive, i problemi più urgenti del Paese sono altri. Ma non vedo perché il ministro dall'Integrazione (quando esiste, come nel caso del governo italiano) dovrebbe rinunciare ad aggiustare una legge che non risponde più alle caratteristiche di un Paese in cui la popolazione cresce ormai soltanto grazie alla presenza di una forte comunità straniera.

Repubblica 23.5.13
Buu! Quelle curve della vergogna dove il razzismo è di casa
Gli ululati contro Balotelli riportano d’attualità il tema dell’intolleranza nello sport
Proprio mentre si riapre il dibattito sulla cittadinanza attraverso lo “Ius soli”
di Michele Serra


La multietnicità è un fatto un fenomeno ineludibile frutto di movimenti globali che non si può contestare come se fosse un’opinione
Uno degli obiettivi reconditi di tutte le sconcezze e scemenze che piovono dagli spalti è quello di far girare le telecamere dal campo verso di loro

Lo slogan “non esistono negri italiani”, tra i prediletti degli ultras di estrema destra che seguono la Nazionale azzurra, esprime con involontaria ma a suo modo magistrale precisione la matrice profonda del razzismo, che è il ripudio della realtà come dimensione sgradita, come luogo inospitale.
In questo senso il razzismo, psicologicamente e culturalmente, è apparentabile a quel più vasto fenomeno psicologico, difensivo a oltranza, che è la negazione dell’evidenza. Tecnicamente, lo slogan “non esistono negri italiani”, specie se pronunciato in presenza di un “negro italiano” di innegabile consistenza come Mario Balotelli, rimanda a quei pittoreschi circoli inglesi anticopernicani – chissà se di buontemponi o di mattoidi – sostenitori che la Terra è piatta e non sferica (risate!); o alla composita galassia dei negazionismi odiosi (non c’è mai stato lo sterminio degli ebrei) o ridicoli (non c’è mai stato lo sbarco sulla Luna). Chi per reale sofferenza sociale – non è attrezzato per capire e dunque accettare la realtà – chi per stravaganza o sfizio, sono molti gli umani, individui e gruppi, che decidono di NON assumere la realtà come terreno del comune sentire, o anche del comune dissentire.
Esempio: se il multiculturalismo è un’opzione politica tra le tante, dunque legittimamente contrastabile, la multietnicità non lo è. La multietnicità (compresi ovviamente i “negri italiani”) è un fatto, un fenomeno ineludibile, il prodotto degli spostamenti umani sul pianeta (plurimillenari, e oggi accelerati). E dunque, se è lecito dissentire dal multiculturalismo, per esempio pretendendo, come in Francia, che le leggi dello Stato debbano sempre prevalere sugli orientamenti religiosi delle singole etnie; non è lecito, invece, negare la multietnicità, che è un fatto e non un’opinione.
Anche l’afroitaliano Mario Balotelli è un fatto e non un’opinione. Afroitaliano: come afroamericano o come italoamericano, il più facile, il meno forzato tra i tanti neologismi cui ci costringono i mutamenti della storia e degli assetti sociali. Ma in quel laboratorio del peggio che sono, da molti anni, gli stadi italiani, ricettore e al tempo stesso fonte degli umori (specie giovanili) più grezzi e offensivi, possiamo ben dire che quel fatto (la Terra è rotonda) è troppo evidente e di conseguenza troppo disturbante per essere accettato.
Nei nostri stadi la Terra è ancora piatta, così come è piatto l’espediente polemico (da scuola materna) di ritorcere attraverso il “buu” la presunta minorità di linguaggio del “negro”, in molti casi (Seedorf, Eto’o, Zebina, Thuram) molto più evoluto culturalmente dei suoi odiatori. L’italiano di curva degli indigeni italiani è molto più rudimentale dell’italiano eloquente di parecchi immigrati. E dunque, come è già stato osservato, il “buu” risuona come una confessione: attraverso il buu, le nostre curve di stadio mettono in scena se stesse, la loro impotenza, il loro disadattamento. E il giovane signore dalla pelle scura ricco, integrato e in genere con molte fidanzate che corre sul prato verde è il destinatario più illogico per il dileggio dei disadattati. Se davvero volessero e sapessero dare una forma compiuta alla loro frustrazione e alla loro impotenza, dovrebbero rivolgere la loro ostilità non al nero, ma al ricco (nero e bianco).
Il ghetto è la curva, non il campo di gioco dove tutti i protagonisti, di ogni colore, sono illuminati da cento telecamere. Al punto da far sospettare che uno degli obiettivi reconditi dei “buu”, e di tutte le altre scemenze o sconcezze che piovono dalle curve, sia far girare verso quei ghetti almeno qualche telecamera.
Quanto a lui, Mario, che pure non ha il piglio intellettuale di un Thuram e non si occupa di arte contemporanea come Zebina, e tra le librerie e le discoteche non si dubita che preferisca le seconde, si esprime, anche su Twitter, con una complessità che non è alla portata delle bande sue nemiche. Spiega l’assurdo non-luogo etico e giuridico nel quale il pavido, debole governo del calcio lo ha ficcato: se resto in campo quando sento gli insulti razzisti, non mi sento a posto con la mia coscienza. Ma se me ne vado, danneggio la mia squadra. Che devo fare, allora?
Che debba decidere lui per tutti, a ventidue anni, non è normale e non è giusto. Come non è normale e non è giusto che alle curve che gli latrano contro si conceda il dubbio che non è il “negro” che stanno fischiando, ma il calciatore Balotelli spesso incline a comportamenti poco sportivi. Dice la vecchia e precisa battuta di un comico americano: «il razzismo sarà finito quando potremo dire che anche un negro è stronzo». Dunque il razzismo, almeno in Italia, non è finito.

Repubblica 23.5.13
Parla Lilian Thuram, campione e autore di un libro sul tema
“Tifosi da pnire senza se e senza ma”
di Anais Ginori


Lo spettacolo non deve continuare a ogni costo sospendere la partita Roma-Napoli e sanzionare la società è stato un buon segnale. Ma deve diventare una regola applicata sempre e dovunque

«Il gioco non deve, e non può continuare ad ogni costo». A suo tempo, quando viveva in Italia alla fine degli anni Novanta, Lilian Thuram era bersaglio di cori razzisti negli stadi, quegli stessi buu che oggi perseguitano Mario Balotelli. «Ora però mi pare di intravedere una graduale presa di coscienza sul problema, sembra persino che stia finendo una ambiguità dei dirigenti sportivi rispetto a questi episodi», commenta Thuram che alla battaglia contro il razzismo ha dedicato Le mie stelle nere, appena pubblicato da Add editore e del quale discuterà al Festival di Repubblica a Firenze, il 9 giugno.
Di quale ambiguità sta parlando?
«Qui non si tratta di dare opinioni su quel che è accaduto ma di stabilire regole chiare. Ci sono cori razzisti? Bene, anzi male: si sospende la partita, come è stato giustamente deciso durante Milan- Roma. Lo considero un ottimo segnale e speriamo sia d’insegnamento per tutti gli arbitri. È stato positivo anche che i giudici sportivi abbiano chiesto una sanzione per la curva Sud della Roma, con la sospensione di un turno. So benissimo che gli interessi economici sono tanti, le esigenze del business premono.
Ma lo spettacolo non può continuare ad ogni costo».
Dunque serve maggiore repressione?
«Tutte le persone che sono dentro il mondo del calcio devono riflettere a quali sono i modi migliori di punire questi atteggiamenti dei tifosi. Intanto parlarne, denunciare ogni singolo episodio di intolleranza, come accade oggi, è già un modo di cambiare le mentalità. E’ un lungo cammino. A poco a poco, le società, gli arbitri, i giocatori, la stampa saranno costretti essere inflessibili. La repressione deve essere accompagnata dal dibattito pubblico e da un cambiamento culturale: nessuno nasce razzista».
Intanto Balotelli vuole abbandonare il campo in caso di nuovi insulti e sostiene che è “inumano” impedirglielo.
«Il problema non è decidere se lui ha diritto o meno di disertare il gioco ma eliminare le condizioni che possono provocare una tale scelta. Anziché richiamare Balotelli al suo dovere di rimanere in campo, l’arbitro deve sospendere la partita, o comunque prendere i provvedimenti necessari contro i tifosi che lo insultano. Non spetta certo alle vittime del razzismo far rispettare le leggi. È compito di un garante superiore, ovvero dell’arbitro in campo e poi del giudice sportivo dopo la partita. Se ci saranno misure severe ogni volta che accade, Balotelli non avrà più ragioni di abbandonare la partita».
Il ministro per l’Integrazione, Cécile Kyenge, sostiene che i cori contro Balotelli non sono sempre dovuti al razzismo. C’è il rischio di vittimizzare troppo il calciatore?
«Mi sembra l’ennesima ipocrisia. Certo, bisogna fare chiarezza su ogni episodio, capire quali sono i contenuti degli insulti, senza generalizzare. Esiste il diritto di contestare un giocatore per la sua prestazione sportiva, comunque con rispetto. Ma quando i tifosi fanno a Balotelli il verso della scimmia significa una cosa precisa: si tenta di riproporre una visione storica, una presunta inferiorità di alcune razze».
Il fatto che il campione del Milan abbia comportamenti poco sportivi, talvolta provocatori, complica ulteriormente la faccenda?
«Ci sono tanti giocatori che non si comportano bene ma non vengono attaccati per il loro colore della pelle. Bisogna avere l’onestà di riconoscere che la maniera di contestare un calciatore nero non è la stessa di quella che tocca a un giocatore bianco. Le parole hanno un significato. Se si fa buu, imitando il verso della scimmia, oppure si dice “sporco negro”, allora si sta facendo riferimento al colore della pelle. Provare a dire, come ha fatto Zeman, che Balotelli è contestato per colpa dei suoi atteggiamenti, e non per razzismo, è molto pericoloso: non si può mascherare la discriminazione con motivazioni caratteriali o soggettive. Il razzismo, invece, è qualcosa di oggettivo. Semplificando al massimo si può definire come il tentativo di classificare le persone in base al colore della pelle».
Balotelli ha dovuto aspettare 18 anni prima di poter essere “italiano”. La mancanza dello
ius soli nel nostro paese rende più difficile il cambiamento culturale?
«Sarebbe più corretto dire che Balotelli era già italiano e ha ottenuto la cittadinanza solo a 18 anni. La nazionalità non si passa attraverso il sangue. Spero che l’Italia approverà la legge sullo ius soli. È una scelta di buon senso. Anche chi è contrario non sa spiegare bene perché, ha argomenti spesso confusi. La verità è che ognuno di noi ha bisogno di essere riconosciuto dalla propria comunità. La cosa peggiore che possa capitare è sentirsi esclusi. L’esclusione provoca la rabbia. Dare la cittadinanza a chi, nei fatti, è già italiano è un modo di costruire una società più giusta e pacifica».

il Fatto 23.5.13
La black list dei giornalisti spacca i Cinque Stelle
di Emiliano Liuzzi


I RESPONSABILI PER LA COMUNICAZIONE STILANO LA LISTA DELLA STAMPA SGRADITA E I DEPUTATI NON SANNO COSA FARE

A volte i nemici del Movimento 5 Stelle ritornano. Talvolta è il “pd meno elle” o più semplicemente il Pdl, talvolta sono i giornalisti. Come in un gioco allo scaricabarile c'è sempre qualcuno su cui far gravare le responsabilità. Nessuno si pone il dubbio se sia scappata o meno una fesseria al cittadino tale, il problema è chi la racconta. È con questo spirito che, nonostante Vito Crimi neghi con tutte le sue forze, è nata la black list dei giornalisti “non affidabili” o “addirittura in malafede”.
È una proposta che il gruppo di comunicazione alla Camera ha messo nero su bianco e ha fatto girare in una lunga mail. Un report nel quale ribadisce non solo il divieto di andare nei talk show, disposizione scritta nel codice di comportamento, ma anche di evitare alcune testate giornalistiche.
L’IDEA sarebbe quella di concedere una sola intervista che poi “se la facessero girare tra loro. Non dobbiamo parlare con chiunque lo chieda”.
Decisamente un passo indietro nella strategia. I primi giorni immediatamente dopo l'insediamento furono Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio a chiedere ai loro parlamentari di tacere con la stampa. Un niet durato lo spazio di qualche giorno. Ora l'argomento interviste torna sul tavolo: “Sbagliate il modo di comunicare”, ha detto 20 giorni fa Casaleggio allo staff di addetti stampa messo in piedi in fretta e furia da lui stesso. La conseguenza all’osservazione è stata la stravagante idea di scegliere la strada della lista di giornalisti coi quali parlare. “Dopo diversi problemi sorti in proposito, intensificheremo la presenza dei componenti del gruppo comunicazione in Transatlantico e nell’atrio del palazzo. Non per un’esigenza di controllo, ma a garanzia dei deputati”. E ancora: “Oltre l’aspetto psicologico del giocare in casa, sarà possibile registrare le interviste per ovviare così ai tanti problemi sorti in merito”.
Questo è stato scritto. E non esistono dubbi. Ieri Crimi ha cercato di riportare la questione su binari più corretti: “Noi abbiamo due gruppi di comunicazione, uno alla Camera e uno al Senato, che ci danno supporto e suggerimenti. Questo è quello che fanno e nient'altro. Non danno un indirizzo politico. E queste delle liste sono indicazioni che non ho letto”, prosegue Crimi. “Ma chi l’ha chiamata Fase 2? Chiamiamola fase di maturazione. Siamo passati da una comunicazione passiva a una più attiva. Diciamo che le colpe sono un po' di entrambi - aggiunge rivolgendosi ai cronisti - Abbiamo dovuto rincorrere, anche per colpe nostre, i vostri temi che mettevate nel-l’agenda politica”. Per chiudere: “Mi spiace che un'indicazione interna venga data in pasto alla stampa”.
Il clima, però, resta teso.
I giornalisti parlamentari e i grillini non si sono mai presi. Così, ieri, nella conferenza stampa per illustrare l'iniziativa che propone di abrogare il quorum per il referendum, è nato un battibecco. I giornalisti a fare domande, i parlamentari a interrogare a loro volta i giornalisti. “Ci avete ascoltato? ”, ha chiesto uno dei relatori. “Forte e chiaro”, è stata la risposta. “Allora alzi la mano chi non è d'accordo con la nostra iniziativa, ha detto il deputato Riccardo Fraccaro. “Noi facciamo domande, non esplicitiamo il nostro favore. Non applaudiamo mai”. Un teatrino durato lo spazio di qualche minuto.
RESTA da capire se la blacklist avrà un seguito. Roberto Fico, eletto a Napoli, assicura di no. Lo stesso dicono Mattia Fantinati, eletto in Veneto, e Rocco Casalino, uno degli addetti alla comunicazione. L'ultima parola, in casi come questi, resta ovviamente a Grillo e Casaleggio che, sulla questione, hanno evitato di esprimersi. Sempre nella giornata di ieri, un mezzo polverone, si è sollevato dai banchi del Pdl, quando qualcuno dei deputati sostiene di aver sentito, in merito al dibattito sulla Tav, un deputato del Movimento 5 Stelle (non meglio identificato) dire "bombardiamola". I grillini negano, il Pdl rincara la dose: "È inammissibile che a un ministro venga gridato un bombardiamolo in un’aula parlamentare solo perché in disaccordo sulla questione Tav. Credo che la condanna e la censura di tale episodio debba essere unanime", dice la deputata berlusconiana, Dorina Bianchi.
Il problema è che nessuno quel bombardiamolo è sicuro di averlo sentito. Il misterioso episodio si avvia così verso l'archivio.

Corriere 23.5.13
I 5 Stelle «spiati» in corridoio e la black list dei cronisti
Il controllo dello staff sugli eletti ottiene il via libera dall'assemblea
di Fabrizio Roncone


ROMA — Nessuno di noi cronisti può sapere se è già stato inserito nella black list, la lista nera del Movimento 5 Stelle. La lista dei cronisti sgraditi, per adesso, è chiusa in un cassetto, o galleggia ancora solo nella mente di qualcuno. Però c'è, esiste.
Montecitorio, ieri mattina.
Le indiscrezioni di qualche ora fa diventano certezza. Ricapitolando: il gruppo comunicazione del Movimento ha davvero predisposto un piano per controllare meglio il flusso di dichiarazioni dei propri deputati.
Il piano, dettagliato in una email inviata agli onorevoli cittadini, ha tre punti. Primo: declinare le richieste di colloqui o interviste da parte di giornalisti che si sono dimostrati «inaffidabili». Secondo: intensificare la presenza degli addetti stampa in Transatlantico e alla buvette (se le ronde vedono che un giornalista si avvicina a un deputato, devono essere pronte ad affiancare il deputato). Terzo: se il deputato decide di rilasciare l'intervista, allora è meglio andare in via Uffici del Vicario, nel palazzo che ospita i gruppi parlamentari, chiudersi in una stanza e parlare davanti a una telecamera che registra immagini e voci, risposte e domande (per ora, ai cronisti non verrebbero comunque chieste le impronte digitali).
Gli uffici del M5S sono al quarto piano. Andrea Cottone è uno degli addetti stampa (il coordinatore è Nicola Biondo). Cottone scriveva sul Fatto, si è a lungo occupato di cronaca giudiziaria in Sicilia, è molto gentile al telefono.
«Ah ah ah!...».
Ti viene da ridere?
«Ma sì, dai... State pompando questa cosa delle liste nere, come sempre volete farla passare per una cosa dittatoriale...».
Veramente, io vorrei solo capire meglio.
«Okay, va bene, te lo spiego meglio... Allora: tanto per cominciare, noi siamo liberi di scrivere ai nostri deputati tutto quello che ci pare, fornendogli tutti i suggerimenti che ci paiono opportuni...».
Prosegui.
«Poi, se vogliamo entrare nel dettaglio, beh, crediamo sia ora di farla finita con il gossip, perché è chiaro che anche la storia della diaria l'avete trasformata in gossip...».
No, scusa: quello non era gossip, era politica. Ci avete vinto le elezioni sostenendo che non vi sareste messi in tasca un euro in più del necessario. Ma poi, come sappiamo, visto lo stipendio accreditato sul conto corrente, qualche onorevole cittadino ha vacillato. Comunque non è questo il punto. Voi del gruppo comunicazione...
«Noi riteniamo sia arrivato il momento di parlare dei contenuti. Tu vuoi parlare di un certo argomento? E noi ti indichiamo il deputato più giusto...».
Avete immaginato la reazione di uno come l'onorevole cittadino Di Battista, sempre molto propenso a dichiarare su qualsiasi argomento?
«Eh... Di Battista... lo sappiamo lo sappiamo... Comunque non è che ti spariamo se ti avvicini a Di Battista... Solo che...».
Solo che?
«Tutti i deputati sanno perfettamente che alcuni giornalisti sono corretti, e altri meno, molto meno».
L'onorevole cittadino Roberto Fico da Napoli è uno di quelli che, quasi ogni giorno, finisce sui giornali o alla tivù con qualche dichiarazione. Rispetterà i consigli del gruppo comunicazione? Sentite cosa dice in questa sua dichiarazione che subito gira sul web.
«Quello che è arrivato in mano ai giornalisti, prima di essere al solito stravolto, è un report che il gruppo comunicazione ci fa periodicamente. Fanno il loro lavoro, ci danno consigli. Nessun obbligo».
Punti di vista.
Luigi Di Maio, 26 anni, vicepresidente della Camera, è invece assai soddisfatto delle indicazioni ricevute.
«Detto che io sto parlando tranquillamente con lei...».
Detto questo?
«È innegabile che abbiamo avuto alcuni problemi di comunicazione. Qualche giornalista ci ha strumentalizzato e... beh, forse se qualcuno ci indicasse anche quali sono i giornalisti di cui ci si può fidare, sarebbe cosa buona e utile».
Giornalisti buoni, cattivi, attenti e disattenti. A metà pomeriggio c'è una conferenza stampa. E che fanno i deputati del M5S? Decidono di fare — loro — le domande.
«Mhmmm... adesso, cari giornalisti, vediamo se avete seguito bene quello che abbiamo detto... Forza, rispondete!» (giornalisti muti e increduli).
Segue assemblea del gruppo dei deputati piuttosto tesa. Ribadita fiducia allo staff della comunicazione (73 sì, 1 contrario, 5 astenuti). Però molti malumori, rancori, voglia di libertà d'azione (proprio così: voglia di poter parlare liberamente).
Qualcuno telefoni a Beppe Grillo.

Repubblica 23.5.13
Sul forum online di Roma sospetti sulle assunzioni dei collaboratori parlamentari
La deputata Daga interviene e promette: presto faremo tutti i nomi
“Assistenti raccomandati”. La base contro tre onorevoli
di Gabriele Isman


ROMA — Avevano promesso di scegliere i collaboratori parlamentari con i curricula e di rendere pubblici tutti i nomi, ma invece dai loro stessi attivisti sono arrivate accuse di mancata trasparenza, richieste di spiegazioni, sospetti sulle assunzioni e la più classica delle lettere di raccomandazione. Dodici pagine di interventi: il dibattito sul forum romano del Movimento 5 Stelle è aperto da cinque giorni. Un attivista lancia un appello per avere chiarezza sulle assunzioni e chiede la lista di tutti i collaboratori parlamentari dei gruppi M5s. Come risposta, Roberto Motta, cita una serie di nomi collegati a tre onorevoli del Movimento: «I due candidati al Comune Roberto Salviani accreditato al Deputato a Max Ciccio Baroni e Francesco Silvestri con la Senatrice Paola Taverna» e «la non eletta, candidata portavoce alla Regione Lazio, Selena Caputo con il deputato Alessandro Di Battista». Alfonso Tinari si dice certo che dopo le amministrative «tutti i parlamentari M5s renderanno pubblico un elenco con tutti i nominativi degli assistenti parlamentari, la loro retribuzione e le modalità di selezione, in ogni caso verrà richiesto l'elenco perchè è un elemento di trasparenza». A lui risponde duro Maurizio Gaibisso: «Qui è tutto così nebuloso alla faccia della trasparenza! Perchè non farlo prima delle amministrative? Io la trasparenza la voglio subito, adesso».
Spuntano l’incubo del “troll” così viene indicato l’infiltrato - e una classica lettera di raccomandazione indirizzata anche ai capigruppo di Senato e Camera firmata Gli attivisti del CM5S.it e del M5SRoma MuniX: “Vi scriviamo queste poche righe perché ci nasce spontanea la voglia di tessere le lodi di una cittadina che conosciamo da tempo e della quale apprezziamo la grandissima preparazione, l'umiltà e la dedizione al proprio lavoro e impegno sociale. Parliamo di Lidia Undiemi, studiosa d'economia e diritto del lavoro... In questi giorni state ricevendo decine, forse centinaia, di curricula. Sappiamo anche che Lidia vi ha sottoposto il suo. Con questo messaggio non intendiamo creare una corsia preferenziale per nessuno ma semplicemente riconoscere il talento e le capacità di Lidia nella speranza di vedere realizzata al più presto una squadra di esperti a supporto dei nostri parlamentari, all'insegna della trasparenza e degli interessi del Paese”.
Nella discussione online interviene la parlamentare Federica Daga: «La lista completa dei legislativi, segreterie varie eccetera, nomi cognomi ruoli, del gruppo parlamentare sarà pubblicata non appena sarà definitiva». Roberto Motta - che aveva fatto i primi nomi - critica Daga, ma il suo intervento è oscurato con un richiamo alla moderazione. Quattro attivisti vengono bannati, impossibilitati a scrivere: alla fine interviene anche Luca Marsico, vittima a fine gennaio di un contestatissimo sondaggio tra gli attivisti per escluderlo dalla corsa al Campidoglio. E la polemica è destinata a continuare.

La Stampa 23.5.13
“La mail ai 5 Stelle un errore, i parlamentari parlino con chi vogliono”
Messora, capo comunicazione al Senato, contro il collega della Camera
di Andrea Malaguti


«Siamo tutti nuovi e i media con noi non sono teneri» Alla Camera sono più giovani e lì si esprime con più forza la pancia del Paese Accettiamo le regole Se avessimo voluto fare la rivoluzione saremmo rimasti fuori dal Palazzo
Casaleggio è lo stratega di questa avventura mentre Beppe è l’uomo che parla all’Italia»
«Il nostro è un ruolo di supporto, ci mettiamo a disposizione, li aiutiamo»

Palazzo Madama, ufficio di Claudio Messora, responsabile della comunicazione al Senato del Movimento 5 Stelle, l’uomo più vicino a Gianroberto Casaleggio in Parlamento. Si parla della mail inviata da Nicola Biondo, suo omologo alla Camera, ai deputati grillini. Consigli (regole? ammonimenti?) sulle interviste, da rilasciare solo in presenza dell’addetto stampa. Suggerimenti contro i giornalisti in malafede, ronde in transatlantico per ridurre al minimo i contatti fuori controllo. Un testo nordcoreano. Certo che le cose più utili sono le più ovvie, quando vengono da un’altra persona e vengono dette col tono giusto, Messora decide di commentarlo. «Io e Biondo abbiamo storie, percorsi e modi diversi. Qui al Senato non esiste nessuna fase due dell’informazione, la nostra gestione dei rapporti con i media è differente».
Ovvero?
«I senatori sono stati eletti dal popolo e hanno il diritto di parlare dove vogliono, quando vogliono e con chi vogliono. Con Biondo ci sentiamo, ma spesso è difficile trovare una sintesi».
Quando si parla di comunicazione 5 Stelle il primo nome che viene in mente è il suo.
«Purtroppo questo è un problema. E’ difficile spiegare all’esterno che esistono due gruppi autonomi».
Perché alla Camera la situazione è più tesa?
«Alla Camera ci sono 109 deputati. Noi qui siamo in 53. A Montecitorio sono più giovani e tradizionalmente la Camera è il luogo in cui si esprime con più forza la pancia del Paese. La pressione è molto forte».
E’ normale, anche se in una comunicazione interna, usare toni così duri?
«Uno non può dimenticarsi che oggi siamo dentro l’istituzione. La vogliamo cambiare, ma ne rispettiamo le regole. Se avessimo voluto fare la rivoluzione col forcone saremmo rimasti fuori dal Palazzo».
In sostanza, lei avrebbe scritto la mail inviata da Biondo?
«No. Per altro era prevedibile che il testo sarebbe uscito».
E’ grave?
«Assolutamente no. Io sono sempre stato un teorico del politico che gira con una telecamerina in testa. Fa vedere ogni cosa. Pubblica ogni singolo atto. Vive in diretta».
Dunque?
«Dunque i parlamentari del M5S sono alla loro prima esperienza. E i media con noi non sono mai stati morbidi, questo è giusto sottolinearlo».
Perché è impossibile parlare con Casaleggio se la trasparenza è così importante?
«Casaleggio è un uomo riservato, un manager rigoroso, lucido, poco interessato alla comunicazione su se stesso e molto alla comunicazione del progetto. E’ un visionario. Per lui il metodo è decisivo e vuole che sia declinato con purezza».
Il metodo conta più dei contenuti?
«In qualche modo sì. Faccio l’esempio del caso Grasso-Schifani. Avendo la maggioranza votato per l’astensione, i senatori si sarebbero dovuti attenere a quella indicazione e basta».
Avrebbe preferito Schifani presidente del Senato?
«Personalmente no. Ma non importa. Dopo anni di bunga bunga e di avvisi di garanzia l’unica possibilità di un cambiamento è rimanere fedeli all’idea del coinvolgimento dei cittadini. Siamo un grande esperimento mondiale di democrazia partecipata».
Per Grillo e Casaleggio la regola del metodo non vale?
«In che senso? ».
Che si occupino di contenuti è piuttosto chiaro.
«E’ ovvio che loro abbiano un ruolo diverso. Casaleggio è lo stratega di questa avventura, l’ha immaginata, e senza di lui il M5S non ci sarebbe. Grillo è l’uomo che parla all’Italia».
Il cervello e la voce.
«La sintonia tra i due è davvero fortissima».
Il rapporto con i parlamentari si è complicato?
«Diciamo che per Grillo e Casaleggio i parlamentari sono portavoce dei cittadini e che dovrebbero occuparsi dei punti del programma condiviso, non della diaria o della legge sulle unioni omosessuali. Legge per altro più che condivisibile, ma che non appare nel programma e dunque non è una priorità».
In Parlamento conta di più la comunicazione o gli eletti?
«Gli eletti. Il nostro è un ruolo di supporto. Li ascoltiamo, cerchiamo di aiutarli, ci mettiamo a disposizione. Ma se dicessimo loro che cosa fare giustamente ci mangerebbero vivi. Anche per questo io quella mail non l’avrei scritta».

il Fatto 23.5.13
Deliri di fine stagione
Il Fatto e l’Unità: Antitrust e antidoping


L’Unità, giornale fondato da Antonio Gramsci e sfondato da Claudio Sardo, dedica due paginoni a un’inchiesta-scoop dal titolo “Non solo web: tutti i soci del network di Grillo”. Il fotomontaggio in prima pagina ritrae il comico genovese con Travaglio e Santoro. Il team investigativo di via Ostiense ha scoperto “sinergie anche societarie” fra M5S, “la tv di Santoro e il Fatto”, insomma “un terzo polo che fa politica a tutto tondo e passa dalle maglie dell’Antitrust”. Data la natura demenziale dell’articolo, peraltro in perfetta coerenza con la linea direttoriale, verrebbe voglia di aggiungere i nomi degli altri soci della Spectre: Pietro Gambadilegno, Macchianera, Peperoga, Dylan Dog, Giovanni Rana e Francesco Amadori. Ma, trattandosi di una testata lautamente foraggiata dai contribuenti, la questione è un po’ più seria. Se noi dobbiamo comparire dinanzi all’Antitrust, per questi signori basta l’Antidoping.

l’Unità 23.5.13
Parla Basma Belaid
«In Tunisia non è finita la rivoluzione dei gelsomini»
La vedova di Chokri Belaid, leader dell’opposizione laica tunisina assassinato il 6 febbraio scorso: «Dico no a una dittatura della Sharia»
intervista di Umberto De Giovannangeli


Da quell’8 febbraio 2013, quando prese la parola davanti a oltre un milione di persone, è diventata, al di là delle sue stesse intenzioni, il simbolo della Tunisia che non si arrende, la Tunisia protagonista di quella «rivoluzione dei gelsomini» che dette il via alla straordinaria stagione delle «Primavere arabe». Basma Khalfaoui Belaid, 42 anni, vedova di Chokri Belaid, il leader dell’opposizione laica tunisina assassinato il 6 febbraio scorso, ha saputo trasformare un dolore personale, indicibile, incancellabile, in una richiesta di verità e di giustizia che va anche oltre l’individuazione dei mandanti, e non solo degli esecutori, dell’assassinio di suo marito. «Mi sono esposta come avrebbe fatto e voluto Chokri. La situazione del Paese era ed è cosi critica che non ho avuto scelta», afferma la donna.
La lotta che Basma Khalfaoui intende continuare è quella per l’affermazione della libertà, della giustizia, della dignità e della democrazia. Il momento con cui ha voluto battezzare questo suo ingresso nella militanza politica è stato il corteo funebre di Belaid, durante il quale ha rivolto un appello accorato alle donne tunisine, per perseguire insieme l’emancipazione femminile.
Ai funerali, peraltro, Basma non ha voluto che partecipasse nessun membro di Ennahda, il partito islamico del Paese, né alcun rappresentante della Troika che guida il governo di Tunisi. Basma Khalfaoui fa parte dell’Associazione tunisina delle donne democratiche già dal 1995 e al suo fianco ha combattuto anche durante il regime di Ben Ali, sostenendo che le donne sono state e rimangono i soggetti più deboli e più penalizzati dagli squilibri sociopolitici del Paese. Prima ancora, Basma fu protagonista delle battaglie dell’Unione generale degli studenti tunisini (Uget), alla facoltà di giurisprudenza di Tunisi, negli anni Novanta.
Figlia di genitori umili, ha respirato sin da bambina i valori dell’indipendenza e della libertà come tutte le donne della sua generazione. Nel 1999 ha conosciuto Belaid, con il quale ha condiviso idee politiche per la Tunisia e, più in generale, l’ideologia internazionalista di sinistra. Una donna decisa, indomita, che è andata a ripetere le sue accuse al magistrato che indaga, agli investigatori dell’unità anti-terrorismo. Che è andata davanti al palazzo dell’Assemblea costituente per chiedere, lei ormai solo una vedova con due figlie piccolissime, che il governo si dimetta davanti all’enormità della sottovalutazione delle minacce al marito. Oggi Basma è emblema di due lotte, una per la giustizia nei confronti del suo ex marito e una per la libertà e la democrazia in Tunisia.
Libertà e democrazia che oggi sembrano sempre più a rischio, in una Tunisia segnata dalla rivolta salafita e da un potere islamista che non ha saputo, o voluto, portare avanti le istanze che segnarono la «rivoluzione dei gelsomini». Quella speranza di cambiamento è definitivamente naufragata?
«No, la rivoluzione non è morta. La Tunisia che ha accompagnato in massa Chokri Belaid nel suo ultimo viaggio, non si è arresa. Fino all’ultimo giorno della sua vita, Chokri si è battuto per quegli ideali che sono condivisi da tanti tunisini: il riscatto sociale, l’uguaglianza di genere, una vera libertà d’informazione, il lavoro ai giovani, il rifiuto di passare da un regime corrotto, quello di Ben Ali, a una sorta di dittatura della sharia. Questa Tunisia è viva, e vive nei sindacati, nelle associazioni delle donne, nelle organizzazioni studentesche che si oppongono all’oscurantismo salafita. Le difficoltà sono evidenti, come i pericoli. Ma la speranza quella no, non è tramontata».
La parola «giustizia» si coniuga anche con una vicenda personale: l’assassinio di suo marito. Le autorità tunisine, una settimana dopo l’attentato a Chokri Benaid, hanno arrestato un estremista islamico, presunto killer. Lei, però, ha continuato a battersi perché sia fatta piena luce su quello «omicidio di Stato». «Questa battaglia continua. L’arresto dei presunti esecutori è un fatto importante, ma non certamente esaustivo. Voglio sapere chi ha ordinato l’assassinio, è evidente che tutto era stato organizzato molto bene, pianificato nei minimi dettagli. Cosa impossibile senza importanti coperture. Ciò che chiedo è un processo ma anche di ulteriori indagini che facciano chiarezza su tutto».
Il presente della Tunisia sembra caratterizzato da una volontà di restaurazione, non solo politica, ma culturale, identitaria. I salafiti e non solo. Nel mirino sono soprattutto le donne. Perché?
«Perché le donne lottano contro una doppia oppressione, eredità non solo di un regime dispotico ma anche di una società patriarcale, e perché le donne tunisine hanno dimostrato una determinazione e una concretezza che viene percepita dal potere come una minaccia. Vede, non è un caso che sia stata una giovane universitaria, Khaoula Rchidi, l'unica ad aver avuto il coraggio di affrontare un fondamentalista che aveva sostituito la bandiera tunisina con il drappo nero salafita sul tetto dell' Università della Manouba. E davanti ai tribunali militari sono sempre loro in maggioranza, madri, mogli e sorelle delle vittime della rivoluzione che ormai da quasi due anni reclamano giustizia e verità per i loro cari. Le milizie salafite sono l’espressione più truce di questa volontà restauratrice. Ma è bene ricordare che una delle più imponenti manifestazioni popolari degli ultimi tempi, è stata quella del 13 agosto 2012. Quella prova di forza democratica ha fatto ritirare una proposta di Ennahda di introdurre nella nuova Costituzione il concetto di complementarietà della donna nei confronti dell'uomo, emanazione di una lettura letterale del Corano. In quella manifestazione, le donne furono in prima fila, protagoniste di una battaglia di libertà che continua».

La Stampa 23.5.13
Centinaia di giovani danno a fuoco auto e scuole e attaccano la polizia
Stoccolma, terza notte di scontri
La rivolta contagia altri sobborghi della capitale svedese
di Monica Perosino

qui

Repubblica 23.5.13
Dietro la solidarietà agli immigrati si nascondono episodi d’intolleranza
Come dimostrano le tre notti di guerriglia nei sobborghi della capitale
Il mito della Svezia felix brucia con le banlieue
di Anais Ginori


Non ci sono più favole da raccontare, come quella del piccolo “yugo” che molti disprezzavano nel sobborgo di Malmo e poi, magicamente, è diventato un campione miliardario con bionda moglie al seguito. L’icona di Zlatan Ibrahimovic, seppur con molte contraddizioni, sbiadisce ogni giorno nelle nuove periferie-ghetto della Svezia. «Veniamo chiamati “scimmie”, “ratti”, “negri”, siamo continuamente sottoposti a insulti razzisti» racconta Rami al-Khamisi, studente in legge che ha fondato la controversa organizzazione Megafonen per difendere i diritti degli immigrati ma è sospettato di aizzare gli scontri con le forze dell’ordine.
È stata la terza notte di battaglia urbana intorno a Stoccolma, e nessuno sa ancora prevedere come andrà a finire. La capitale è ormai circondata da rivolte di bande di giovani incappucciati. Nell’ultima notte, tra martedì e mercoledì, i ragazzi senza volto né
speranza hanno incendiato una trentina di automobili, assaltando con molotov persino scuole e un centro culturale. Tutto è cominciato a Husby, anonima periferia a nord della città, abitata dai tanti immigrati che il paese scandinavo ha generosamente accolto in diverse ondate, seguendo le guerre degli ultimi vent’anni: prima dai Balcani, poi dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Somalia, dalla Libia, ora dalla Siria. Nessun altro paese al mondo ha la stessa concentrazione di culture e origini in così poco spazio.
Ma come insegnano i noir scandinavi che sbancano in libreria, dietro all’idilliaca cartolina, a quell’utopia di tolleranza e fratellanza, si nasconde anche un lato oscuro. A Husby, il 13 maggio la polizia ha ucciso un sessantenne che era asserragliato dentro al suo appartamento. Secondo le autorità, l’uomo minacciava gli agenti con un machete, ma i rivoltosi sostengono invece che si stava ribellando alla “brutalità” delle forze dell’ordine. La magistratura locale ha aperto un’inchiesta. I risultati rischiano di arrivare comunque troppo tardi per i ragazzi di Husby, e di altri nove sobborghi toccati dagli scontri nelle ultime ore.
Dopo Parigi e Londra, ora un’altra capitale europea rischia di non controllare la rivolta della gioventù no-future delle periferie. Il livello di intensità degli scontri non raggiunge ancora quelli che ha conosciuto la Francia con le banlieue nel 2005. In questo caso, però, accade nel paese un tempo ammirato come modello di integrazione in Europa. Negli ultimi anni, episodi di intolleranza e conflitto tra immigrati e forze dell’ordine si sono moltiplicati, soprattutto nel sud, a Malmo. Le violenze nei dintorni della capitale sono il segnale di un’ulteriore escalation. «Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima», minaccia il rappresentante di Megafonen. «È quel che accade quando non c’è eguaglianza tra i cittadini». Husby, che ha solo 12mila abitanti, è uno dei quartieri con il tasso di disoccupazione giovanile più alto della Svezia: un ragazzo su cinque non studia e non lavora.Dopo Parigi e Londra, ora un’altra capitale europea rischia di non controllare la rivolta della gioventù no-future delle periferie. Il livello di intensità degli scontri non raggiunge ancora quelli che ha conosciuto la Francia con le banlieue nel 2005. In questo caso, però, accade nel paese un tempo ammirato come modello di integrazione in Europa. Negli ultimi anni, episodi di intolleranza e conflitto tra immigrati e forze dell’ordine si sono moltiplicati, soprattutto nel sud, a Malmo. Le violenze nei dintorni della capitale sono il segnale di un’ulteriore escalation. «Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima», minaccia il rappresentante di Megafonen. «È quel che accade quando non c’è eguaglianza tra i cittadini». Husby, che ha solo 12mila abitanti, è uno dei quartieri con il tasso di disoccupazione giovanile più alto della Svezia: un ragazzo su cinque non studia e non lavora.
Il primo ministro Fredrik Reinfeldt ha convocato una conferenza stampa per smentire qualsiasi alibi politico o sociale alle violenze. «Sono solo teppisti» ha detto Reinfeldt, liberale che dal 2006 ha spodestato la lunga egemonia del partito socialdemocratico.
Dal 2010 il governo conservatore deve fare i conti con l’ascesa dei Democratici svedesi, partito xenofobo che è riuscito a entrare nel parlamento con il 5% dei seggi, quota già raddoppiata nei sondaggi. «Abbiamo una tradizione di accoglienza di cui sono fiero» ha spiegato Reinfeldt. L’anno scorso, la Svezia ha dato asilo a oltre 44mila profughi. In proporzione alla popolazione, è un record mondiale. Ma secondo l’Ocse, il paese scandinavo è anche tra quelli che ha più aumentato le disuguaglianze. Negli ultimi quindici anni, la povertà è salita dal 4 al 9%. Il governo deve reinventare il suo modello di integrazione e nel frattempo barcamenarsi tra opposti estremismi. Un compromesso non facile. Qualche mese fa, il ministro dell’Immigrazione, Tobias Billstrom, è stato protagonista di una clamorosa gaffe. «Gli immigrati — ha detto — non sono tutti biondi con gli occhi azzurri». Poi si è corretto e scusato. Ma intanto lo squarcio sul lato oscuro della Svezia si è aperto un po’ di più.

La Stampa 23.5.13
Accordo bipartisan dopo le pressioni dei giganti dell’hi-tech
Usa, più immigrati Vince la lobby della Silicon Valley
Via libera all’arrivo di stranieri qualificati
di Maurizio Molinari


La commissione Giustizia del Senato di Washington approva il testo della riforma dell’immigrazione e a vincere sono i giganti della Silicon Valley. La bozza di legge che a inizio giugno arriverà in aula del Senato contiene infatti un emendamento che consente alle roccaforti dell’hi-tech di assumere manodopera altamente qualificata dall’estero senza prima dover offrire tali posti di lavoro a cittadini americani. Colossi del peso di Facebook, Yahoo, Google, Aol, Microsoft e, per ultima, anche Laurene Powell Jobs, moglie del fondatore di Apple, da mesi esercitavano una pressione convergente sulla commissione per non ostacolare l’assunzione di giovani intelligenze dell’«Information Technology» provenienti dall’estero ma sul fronte opposto i repubblicani sostenevano la necessità di «non danneggiare i lavoratori americani» registrando una rara alleanza con le lobby dei sindacati.
A risolvere lo scontro a favore di Silicon Valley, dove hanno sede gran parte delle aziende hi-tech, è stato il senatore repubblicano dello Utah, Orrin Hatch, redigendo assieme a Chuck Schumer, democratico di New York, l’emendamento sui visti H-1B per dipendenti molto qualificati: prevede l’obbligo dell’offerta prioritaria dei posti disponibili agli americani solo a quelle aziende che hanno già il 15 per cento dei dipendenti titolari dei medesimi visti. In questa maniera il principio che privilegia i cittadini americani è salvo ma non si applica alle industrie leader dell’hi-tech, tutte ben al di sotto di tale quota.
Fra i primi a gioire è stato Steve Case, co-fondatore di Aol, parlando di «grande svolta» a favore dell’immigrazione in quanto «non vi saranno ostacoli all’arrivo in America delle migliori intelligenze presenti sul mercato globale» mentre sul fronte opposto Richard Trumka, presidente dei sindacati Afl-Cio, ha tuonato: «Il possimo Sergey Brin, fondatore di Google, forse oggi siede in una classe americana ma potrebbe non trovare lavoro nell’hi-tech a causa dell’importazione di lavoratori temporanei dall’estero».
Grazie all’emendamento pro-Silicon Valley Hatch ha votato, assieme ad altri due repubblicani, a favore della bozza unendosi ai 10 democratici per un risultato finale di 13 a 5 che promette bene in vista dell’aula. Non a caso Mitch McConnell, leader della minoranza repubblicana, fa sapere che «non vi saranno ostacoli al voto», dunque niente ostruzionismo né quorum di 60 voti ovvero approvazione quasi certa al Senato prima della dura battaglia alla Camera. Per questo il presidente americano, Barack Obama, plaude ad un testo «frutto di un compromesso bipartisan a favore del popolo americano».
Parte di tale compromesso è la marcia indietro dei democratici sulla clausola che garantiva pari benefici alle coppie gay. È stato Patrick Leahy, presidente democratico della commissione Giustizia, a ritirarla ammettendo «amarezza personale» ma anche consapevolezza che, se fosse stata aggiunta al testo lo avrebbe probabilmente condannato alla bocciatura. Per i gruppi gay si tratta di una cocente sconfitta. "Sono soprattutto indiani e cinesi ad alimentare il flusso continuo di talenti"

La Stampa 23.5.13
Cina-India, il confine invisibile della guerra
di Jaswant Singh
*

Mezzo secolo dopo la guerra sino-indiana del 1962, il confine tra la Cina e l’India rimane indefinito ed è una costante fonte di attrito tra i due Paesi più popolosi del mondo. Nel 1962, dopo tre settimane di combattimenti, si concordò una linea di controllo effettivo (Lac). Ma, dopo cinque decenni, la mappa dev’essere ancora tracciata. Di conseguenza, entrambe le parti inviano sistematicamente pattuglie fino al punto in cui ritengono passi il confine. L’ultimo episodio è un’incursione di tre settimane delle truppe cinesi in territorio indiano che ha avuto inizio ad aprile.
Trovarsi faccia a faccia nella terra di nessuno tra le due linee di confine riconosciute dalla Cina e dall’India è così comune che i militari dei due Paesi hanno sviluppato un modus vivendi e in genere invitano l’altro a ritirarsi pacificamente. Entrambe le parti hanno regolarmente rispettato il protocollo informale che si è evoluto nel corso degli anni.
Ma non questa volta. Nella zona di Daulat Beg Oldie, vicino all’altopiano di Depsang, nella regione del Ladakh dello stato di Jammu e Kashmir, una pattuglia di circa 15 soldati dell’Esercito di Liberazione Popolare è entrata nel territorio controllato dall’India e ha costruito un accampamento, preparandosi per un soggiorno prolungato.
Dallo strategico passo del Karakorum, nel Nord, vicino al Pakistan, la Lac si estende verso sud, lungo i crinali della catena dell’Himalaya orientale fino all’antica città monastica buddista di Tawang. Poi, ripercorre la vecchia linea McMahon tracciata nel 1914 - e respinta dalla Cina come un dettato imperiale - per separare l’India britannica da quello che allora era il Tibet. La LAC quindi serpeggia fino al punto in cui s’incontrano l’India, la Cina e la Birmania.
L’interesse strategico della Cina nel confine che separa l’India dall’irrequieto e dalla provincia ribelle dello Xinjiang è semplice da capire. Per l’India, Daulat Beg Oldie è un importante avamposto vicino all’ingresso del passo di Karakorum e la regione del ghiacciaio Siachen. Quindi, l’incursione della Cina in territorio indiano è stato l’errore di un comandante locale? O si tratta di un calcolo più complesso?
Il torreggiante passo del Karakorum faceva parte della vecchia via della seta che collegava il Ladakh e il Kashmir con lo Xinjiang – che ora è, come il Tibet, una «regione autonoma» della Cina. Come hanno di recente detto due osservatori, Daulat Beg Oldie era una sorta di punto di trasferimento delle merci da caricare sui pony «per il crudele viaggio attraverso il Saser La fino alla più ospitale valle del fiume Shyok» per arrivare a «Leh, Turtok, o Srinagar [in Kashmir]».
Non a caso il Parlamento indiano ha condannato severamente l’incursione cinese. Il governo, dopo un’iniziale perplessità, ha cercato invano di fare luce sulla presenza delle truppe cinesi. E ne è seguita un’escalation e l’India ha rilanciato. Il Financial Times ha citato Sun Hongnian, un esperto dei confini cinesi: «Per l’India, ogni metro di strada e ogni bunker in quella zona è una vittoria strategica sul territorio» che li porta «più vicino alla strada principale dalla nostra parte».
Il braccio di ferro si è concluso il 6 maggio, improvvisamente com’era iniziato. Il ministro degli Esteri indiano, dopo aver inizialmente definito l’incursione un «incidente localizzato», ha dovuto cambiare tono sotto la pressione parlamentare, ammonendo la Cina che l’India potrebbe dover riconsiderare la sua progettata visita a Pechino.
Tutto ciò è stato un tentativo cinese di ottenere, nelle parole di Henry Kissinger, una «deterrenza strategica»? O un passo deliberato verso la realizzazione della proposta fatta dal presidente cinese Xi Jinping al primo ministro indiano Manmohan Singh a marzo, a margine del vertice Brics in Sudafrica? Xi aveva detto a Singh di stare cercando «una soluzione equa, ragionevole e reciprocamente accettabile basata sulla reciproca comprensione e accettazione», aggiungendo significativamente: «Stabiliamo in tempi brevi un accordo di massima sui confini». L’incursione cinese era destinata a servire come una sorta di acceleratore diplomatico?
L’India dovrebbe fare tesoro della preveggente osservazione dell’ex primo ministro australiano Kevin Rudd: «La Cina, una nazione di realisti in materia di politica estera e di sicurezza, rispetta la forza strategica e disprezza l’indecisione e la debolezza». Dopotutto, una delle lezioni della guerra del 1962 è stata che una risposta incerta all’aggressione cinese è controproducente, soprattutto in situazioni come quella posta dall’incursione a Daulat Beg Oldie.
Una cosa sembra emergere in modo chiaro dal recente incidente: una nuova disposizione d’animo regna in Cina e continuerà a guidare la politica per i prossimi dieci anni sotto la guida di Xi. Le truppe cinesi a Daulat Beg Oldie servono a ricordare che la Cina non ha alcuna intenzione di permettere che questioni irrisolte di confine restino ignorate. Infatti, quasi in contemporanea con l’incursione dell’esercito, gli studiosi di un simposio cinese hanno messo in discussione la sovranità giapponese su Okinawa.
Sia che l’appello di Xi all’India per «definire rapidamente la questione dei confini» fosse solo un’esortazione o piuttosto un avvertimento, gli altri paesi asiatici non possono più permettersi di ignorare le proprie dispute di confine con la Cina. Come dimostra quello che è successo a Daulat Beg Oldie, i nuovi leader cinesi non sono interessati a mantenere lo status quo.

*Ex ministro indiano delle Finanze, degli Esteri e della Difesa, è l’autore di Jinnah: India - Partition – Indipendence Copyright: Project Syndicate, 2013. www.project-syndicate.org Traduzione di Carla Reschia

l’Unità 23.5.13
Papa Francesco: anche gli atei sono per il bene


Anche gli «atei» devono poter contribuire al bene di tutti. Invita a non avere preclusioni papa Francesco che ieri mattina, nell’omelia pronunciata alla messa celebrata nella residenza di Santa Marta, ha ricordato come «il Signore abbia redenti tutti: non soltanto i cattolici». E che «tutti hanno il dovere di fare il bene agli altri». È così che si costruisce «una bella strada verso la pace» e si realizza «la cultura dell’incontro di cui assicura c’è tanto bisogno». Ribadendo che «fare il bene» non è una questione di fede, ma «un dovere che il nostro Padre ha dato a tutti, perché ci ha fatti a sua immagine e somiglianza». «È un principio ha aggiunto che unisce tutta l’umanità, al di là della diversità di ideologie e religioni». Bergoglio ricorda la risposta data da Gesù agli apostoli che volevano impedire a una persona «esterna» di fare il bene. «Non glielo impedite. Lasciate che lui faccia il bene».

Repubblica 23.5.13
Il viaggio dell’eroe
Così Odisseo tornato a Itaca scoprì la saggezza e la pietà
Un libro di Matteo Nucci, mescolando scrittura saggistica e narrativa, racconta la civiltà greca. Da Pericle a Omero
Al centro della ricostruzione l’atto del piangere e la trasformazione vissuta da Ulisse al rientro in patria
di Eugenio Scalfari


Ci sono molti modi di scrivere un romanzo e anche molti modi di scrivere un saggio. Matteo Nucci sta a cavallo tra i due generi letterari, ripassa e reinterpreta la storia della civiltà ellenica scegliendo, prima ancora delle idee dalle quali è intrisa, i personaggi, i luoghi, le strade, gli alberi, gli animali; ma non soltanto quelli che esistevano o si pensa che esistessero tremila anni fa, ma quelli di oggi da lui rivisitati e dai quali il libro comincia.
Infatti è l’autore che, dopo aver visitato l’Acropoli e il Ceramico racconta di Pericle. Il principe degli ateniesi, quello che per trent’anni aveva custodito la democrazia confiscandola nelle proprie mani, quello che aveva creato un impero navale che si estendeva su tutto il Mediterraneo, era alla fine inciampato su Sparta, alleata prima e nemica mortale poi. Il disastro aveva colpito Atene e da ultimo la peste si era abbattuta sulla città seminando ovunque la morte nera.
«Sulla Porta Sacra e sul Dipylon il cielo era terso. Tutti gli occhi della folla assiepata erano puntati sull’uomo che avanzava a piccoli passi portando una corona sulle braccia, il volto scolpito in linee regolari, quasi fosse pronto a servire da modello per le innumerevoli statue che lo avrebbero ritratto in una posa immortale... Lo guardavano quasi senza respirare, in un silenzio assoluto, mentre avanzava verso l’ultimo dei suoi caduti, Paralo, l’ultima manciata di metri con lentezza, poi, arrivato dinanzi al corpo, si fermò. La peste gli aveva portato via la sorella, il primo figlio Santippo, i migliori amici e molti parenti, ma lui non aveva mai ceduto. La famosa fierezza, la forza d’animo che era il suo vanto. Atene aveva sempre ammirato quella specie di eroe... Depose la corona, strinse i pugni sulle tempie, chiusi gli occhi. Fece per rialzarsi ma non ci riuscì. Poi si sentì un sibilo che si trasformò in una specie di muggito mentre il corpo di Pericle cadeva sul corpo di Paralo. Un urlo devastò la quiete del Ceramico e Pericle per la prima volta pianse».
Morì poco dopo. Era il 429 a.C. e da quel giorno la storia di Atene e della Grecia cambiò, ma la sua cultura, la sua scienza, la sua filosofia, crebbero e diventarono nei secoli che seguirono il lascito di tutta la storia dell’Occidente e del mondo.
Ma perché il libro ha inizio in questo modo, con Pericle colto alla fine dei suoi giorni e Atene prostrata dalla guerra perduta e da una mortale epidemia? Perché Pericle piange sul corpo del figlio e sulle sorti della città e il libro si intitola Le lacrime degli eroi ed è attraverso le lacrime che l’autore racconta la storia dell’Ellade, dei suoi eroi, dei miti, delle filosofie, delle guerre, dei poemi, delle tragedie, degli amori, dei lutti, dei misteri.
* * *
Dopo il pianto di Pericle che funge da introduzione, il primo personaggio di questa storiaromanzo è Platone, lo scrittore-filosofo della Repubblica, del Simposio e del Fedro. Nucci se ne serve per parlare dell’amore-odio che lega Platone ad Omero, ma in realtà è il cantore cieco degli eroi che viene messo al centro della narrazione e attraverso i suoi poemi, le figure di Odisseo e di Achille con il loro contorno di compagni di guerra, di ninfe, di dei, di mostri e di destino. E naturalmente con le loro lacrime.
Nella gara del pianto i due rivaleggiano, ma Achille ha largamente la meglio sul figlio di Laerte anche perché è profondamente diversa la struttura dei due poemi epici. L’Iliade racconta pochissimi fatti: il duello tra Patroclo ed Ettore, il duello tra Ettore e Achille, l’assalto dei Teucri al campo degli Achei, la visita di Priamo al Pelide. Tutto il resto dei ventiquattro libri non è un racconto ma l’analisi dei sentimenti che animano i personaggi e soprattutto il protagonista del poema e il suo pianto, suscitato dalla sua ira, dal suo lutto, dai suoi sogni, dai suoi presagi, dalla sua impotenza di fronte alla morte e dal suo amore per il corpo dell’amico che ormai è soltanto una spoglia.
L’Odissea ha tutt’altro andamento, il vero romanzo è quello ed è un tipico romanzo d’avventura, il primo e sicuramente il più bello che sia mai stato scritto. Anche il montaggio anticipa a tremila anni di distanza il linguaggio cinematografico del “flashback”: dopo l’episodio di Polifemo, Odisseo smarrisce la rotta ed entra in un mare con correnti sconosciute e sotto un cielo dove le stelle sono ignote al navigante. È il dio del mare, Poseidon, ad averlo trascinato fuori dal mondo nel misterioso oceano che circonda le terre emerse ed è popolato da misteriose presenze: Circe la maga, la bocca degli Inferi, Calipso la bella e l’isola di Ogigia, Nausicaa la vergine e l’isola dei Feaci, anch’essa fuori dal tempo e dallo spazio.
Quella sarà l’ultima tappa, prima di tornare finalmente ad Itaca, nel mondo della realtà. Ma è proprio lì, nel palazzo di Alcinoo, che il “flashback” si verifica: uno degli aedi canta ciò che avvenne sotto le mura di Troia e la parte che in quella guerra impietosa vi ebbe Odisseo e che cosa accadde dopo. L’eroe, di cui nessuno alla corte di Alcinoo conosceva ancora l’identità ed è onorato come ospite sacro, ascoltando quel canto si copre il volto col mantello e piange al ricordo, mentre il racconto procede incalzante, le gesta degli eroi e dei numi che combattono tra loro e insieme a loro, il Fato che domina gli eventi mentre le Parche tessono il filo della vita. Ma prima ancora che il viaggio di Odisseo sia narrato dall’aedo, Omero lo fa precedere dal viaggio del figlio Telemaco che per salvare se stesso e la madre Penelope dalla prepotenza dei Proci, attraversa il mare e sbarca nelle terre di Pilo, di Argo e di Micene in cerca dei compagni del padre, affinché gli diano notizie di lui, se sanno dove si trova e perché non ritorna a casa, ultimo errabondo da dieci anni, dopo i dieci della guerra contro Ilio.
Quattro libri dedica Omero al viaggio di Telemaco e il racconto è pieno di personaggi ed avvenimenti. Nestore informa il giovane della drammatica morte di Agamennone per mano di Egisto e della moglie Clitemnestra. Menelao ed Elena lo ospitano come fosse un giovane principe e Menelao gli racconta le sue imprese a Troia e il suo movimentato viaggio di ritorno.
Mentre i mortali e gli dei che incontrano sulla terra vivono le loro avventure, sulle vette dell’Olimpo gli stessi dei si riuniscono e prendono le loro decisioni in obbedienza ai voleri del Fato, Atena si impone a Poseidon, Zeus comanda ad Ermes di trasmettere i suoi voleri, la favola degli immortali si intreccia con quella dei mortali arricchendo il romanzo; l’epica trascolora in una splendida fiaba nel corso della quale avviene un fatto strano: cambia il carattere del protagonista ed anche quello del figlio Telemaco. Quest’ultimo da adolescente diventa uomo e il suo mutamento è un fatto di natura, ma diverso è il caso di Odisseo: era maestro di inganni quando combatteva sotto le mura di Troia, furbo quanto nessuno, suadente per ingannare o convincere; è lui che guida le decisioni di Agamennone, è lui che ricostruisce un rapporto tra il re di Argo e Achille ed infine sarà lui a immaginare il cavallo, la trappola mortale per Ilio e la sua gente. Ma l’uomo che torna a Itaca è diverso da quello che vent’anni prima ne era partito. La capacità di ingannare e mentire non l’ha perduta, anzi è ancor più vigile, ma ad essa si è aggiunta un’esperienza e una saggezza che prima non aveva ed è l’incontro con Atena che ne fa il primo eroe della modernità, non a caso cantato da Dante come maestro di anime. Ricordate? «Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza».
Ho la sensazione che il bravissimo Nucci non colga quest’aspetto, il mutamento del personaggio suscitato dalla sua insaziabile curiosità. Del resto è lui stesso ad annunciare a Penelope, quando finalmente si ricongiunge con lei nel letto nuziale che aveva costruito sulla base d’un ulivo secolare, che dovrà ripartire per trovare la gente «che non conosce il sale» e soltanto dopo quell’ultimo viaggio tornerà per sempre ad Itaca.
Credo che Nucci non veda il mutamento perché il ritorno a Itaca è dominato dalle menzogne che Odisseo è costretto a dire per non farsi riconoscere e ci riesce perfettamente con l’aiuto di Atena, salvo che con la vecchia nutrice e il vecchio cane Argo. Menzogne e infine strage, non solo dei Proci ma dei servi e delle ancelle che ad essi si erano venduti. Strage e menzogne: dove è dunque la differenza dal maestro di inganni e di strage quando combatteva a Troia della cui guerra è lui e non Achille il vero vincitore?
Capisco l’obiezione, ma la differenza c’è ed appare chiaramente nel colloquio che ha con Penelope nella lunga notte di racconti e d’amore e poi, nei giorni successivi, quando si rappacifica con i parenti delle vittime della strage, riconquista l’amore di tutto il popolo dell’isola e lascia al figlio il governo della comunità. Odisseo ha scoperto la pietà, un sentimento che prima del viaggio di ritorno gli era del tutto ignoto. La strage dei Proci fa parte della natura umana nella quale la vendetta per un torto subìto è un sentimento ineliminabile. Del resto Odisseo aveva acquisito una quantità di crediti verso gli dei e verso il Fato perché per dieci anni era stato un fuscello e un trastullo nelle mani d’un ignoto destino. L’ultimo sopruso era stato quello dei Proci ai quali aveva offerto di lasciare il suo palazzo ed andarsene. Ciò che accade subito dopo è la natura offesa a reclamarlo e dura fin quando Atena ne impone la fine. Quanto al suo pianto, l’autore del libro lo attribuisce alla nostalgia. Gli altri pianti degli altri eroi sono dovuti all’ira, al dolore, all’amore. La nostalgia è sentimento delicatissimo, viene da Memosine, la dea che governa i ricordi, madre delle nove Muse.
Basterebbe questo a rivelarci che la natura di Odisseo non è più e soltanto quella dell’eroe ma quella dell’uomo ed è questa la novità che l’Omero dell’Odissea ci ha consegnato.
* * *
Tralascio di raccontare il resto del libro che raccomando ai lettori di seguire fino in fondo anche se – a mio avviso – il vero nucleo di questo viaggio si conclude a pagina 174. Ciò che viene dopo è un saggio acuto e sapiente, ma non più il romanzo che fin lì si è svolto. Voglio qui trascrivere le parole con cui Nucci si accomiata dai suoi lettori e che rappresentano in poche righe il compendio dell’opera: «Nell’Ade non c’è ombra. Nessuno può tornare tra i vivi. E il mondo è invece quello dei vivi perché soltanto lì c’è la vita: sofferenze, patimenti, piccole gioie, felicità, lacrime di nostalgia e di rabbia. E la morte. Altre prospettive per Omero non esistono. C’è soltanto Niobe e il suo melograno, un melograno che non cresce all’ombra ma sotto il sole».
Grazie, caro Nucci, per questa appassionante lettura.

Le lacrime degli eroi, di Matteo Nucci Einaudi pagg. 216 euro 11,50

Repubblica 23.5.13
Il quaderno mancante
Gramsci, perizia boccia tesi Lo Piparo


ROMA — Nuova puntata per il caso del quaderno scomparso. Oggi sul sito della Fondazione Gramsci si potranno leggere gli esiti dell’inchiesta svolta dall’Istituto del Restauro sulle etichette nascoste dei Quaderni.
La relazione smentisce la numerazione supposta da Franco Lo Piparo nel volumetto
L’Enigma del Quaderno, tesa a dimostrare l’esistenza di un quaderno segreto. Ma secondo lo studioso la mancata coincidenza tra la sua congettura e i risultati dell’indagine non è rilevante. «L’esito dell’inchiesta rafforza i miei dubbi: ora i quaderni mancanti all’appello sono due, non più uno. E sono contento di essere stato il primo a porre la questione».