domenica 26 maggio 2013

il Fatto 26.5.13
Vagone Letta
Ma questo è il governo delle larghe attese
di Furio Colombo


La stazione Italia da cui parte il treno Letta non ha folle o bandiere. Il treno, diretto a salvare con urgenza il Paese dal precipizio (come è stato detto in uno dei tanti discorsi di auguri e saluti), ha molti vagoni, è piuttosto affollato. Viaggiano tutti in classe di governo, sportelli chiusi e i fischi di annuncio si susseguono. Ma il treno non parte.
SE A QUALCUNO accade di attardarsi sul marciapiede (lo fanno in pochi) accade che sentano il fervore che percorre l'interno del treno, come se fossero i Mille decisi a cambiare il destino d'Italia. Qua e là vi sono finestrini aperti (detti anche "twitter") da cui i più appassionati possono lanciare un messaggio di questa volontà forte di cambiamento. Nel primo vagone siede, mischiato agli altri giovani passeggeri, anche il Capo del governo. Data l'età parlano tutti insieme, commentando prima di tutto il fatto che il viaggio sarà lungo però veloce. Qui non sono tollerate fermate. Il Capo lancia un messaggio che si propaga lungo corridoi e scompartimenti come un brivido: tagliare il finanziamento pubblico dei partiti, come da impegni presi. È un annuncio, naturalmente, come vedi dai manifestini lanciati dal finestrino come se il trenofosse in corsa. Ma è fermo. Comunque – ti gridano come se fossero già travolti dall'alta velocità – qui non si fanno promesse a vuoto. Il progetto è vago, senza dettagli, accolto da un brusìo di felicitazioni degli astanti. Ma l'idea del provvedimento c'è. Al resto penseranno le due Camere. Nel secondo vagone la conversazione fervida è sul lavoro ai giovani a cui sarà trovata, adesso, quasi subito, la soluzione, perché non è possibile che il 24% dei ragazzi sotto i 30 anni non sia né al lavoro né a scuola. Naturalmente qualcuno li sostiene in qualche modo perché ancora non ci sono bidonville di giovani nelle periferie. E allora, nel treno fermo, il vagone è in effervescenza perché è stata trovata finalmente la soluzione. Si chiama la "staffetta generazionale "in cui i più anziani passeranno una parte dei loro soldi ai più giovani. Se pensate a una patrimoniale sulla ricchezza siete sulla strada sbagliata. L'idea è più bella perché costa solo a qualche privilegiato e non tocca, come l'infame Imu, il resto del Paese.
LA PAROLA d'ordine è "pensioni d'oro". Ce ne sono, tutte legate alla funzione pubblica e dunque facilmente rintracciabili (i privati hanno bonus anche di dimensioni notevoli, ma va a sapere quanto e dove). Il vagone brulica di obiezioni. Per esempio: sono poche migliaia le vere, scandalose pensioni d'oro. Perciò quando il ricavato di quella operazione viene portato accanto alla montagna della spesa pubblica, è come la polvere d'oro che resta sul pavimento di Fort Knox dopo avere spostato i carrelli di lingotti da una postazione all'altra. Però niente paura. Ci sono altre pensioni, sempre meno d'oro, che fanno la loro figura, se confrontate con quelle sociali. Non sono un privilegio corrispondono a lunghe vite di lavoro con buone retribuzioni e adeguati contributi. Però sono tante e un bel taglio vuol dire un bel tesoretto. Ci sono due piccoli difetti: in moltissimi casi queste sono le pensioni che tengono in vita tribù di giovani senza impiego; e poi, tagliando qui, paura e squilibrio di tante vite bloccherà ancora di più i consumi. Ma perché guardare tanto per il sottile quando puoi far passare il tutto come pacchetto "pensioni d'oro", lasciando intatta la ricchezza dei ricchi, mentre doni il ricavato alle imprese che si impegnano ad assumere giovani? Nel terzo vagone, e nei numerosi vagoni che seguono, si affollano gli esperti: se mi dai finalmente altri soldi ottenuti dai cittadini, io so dirti in che modo questi soldi possono creare altro lavoro, oltre il boom delle pensioni d'oro... Naturalmente si tratta di progetti al buio. Figuratevi che neppure i grandi economisti classici hanno mai offerto una formula sul modo di trasformare automaticamente il danaro in lavoro, visto che il lavoro dipende in grande misura dalla spesa pubblica, e dallo slancio delle imprese che vedono il momento giusto per investire. Fiat e Pirelli saranno ispirate ad assumere dal taglio delle pensioni, che renderà sempre più improbabili gli acquisti dei loro prodotti? Da uno dei vagoni ti giunge la voce che il lavoro non dipende solo dal taglio delle "pensioni d'oro" (che poi sono le pensioni e basta) ma dalla saggia formula Fornero: beati i flessibili perchè saranno assunti. Però come spiegare che, dopo Fornero, la disoccupazione giovane è aumentata? La discussione si fa in questo modo: da una parte dite subito sì alle idee più belle.
DALL'ALTRA eliminate i progetti "buoni ma per ora impossibili" e fate subito tagli drastici a ogni funzione pubblica che, con i suoi pregi e difetti, resta senza volanti, senza ambulanze senza qualcuno che risponda ai cittadini, lasciati in attesa del momento in cui precipiterà sulle case l' Imu, oppure la stessa tassa con un altro nome. Intanto due ferme direttive percorrono il treno fermo: duro attacco all'evasione. Se tutti pagano, paghiamo meno. Buone maniere con l'evasore: siate gentili, non spaventate. E pignorate poco e non subito. In questo momento, annunciano, dal fondo del treno, l'aumento dell'Iva (un punto). È una tassa egualitaria che non guarda in faccia ai ricchi o ai poveri. Se andate alla stazione troverete che il treno è ancora lì. Ma fervono discussioni e arrivano annunci. Uno ogni ora, sulla nuova legge elettorale. Sembra subire lo stesso destino del treno.

Oggi e domani vanno alle urne oltre 16 milioni di italiani
Da Roma a Bologna il voto spaventa il Pd
Oltre alla Capitale sono 563 le amministrazioni da rinnovare. Si teme un aumento delle astensioni. Per la sinistra anche la sfida nel capoluogo emiliano per il referendum sui soldi alle scuole paritarie

dai titoli de il Fatto

Corriere 26.5.13
Le urne aperte, il vuoto di idee
di Pierluigi Battista


Tacciono persino i sondaggi, anche quelli segreti alla vigilia di un appuntamento elettorale e che solitamente si trasmettono attraverso un passaparola ansioso e concitato: stavolta niente. Le piazze dei comizi romani sono andate pressoché deserte, specchio di una campagna elettorale stanca e spenta. I leader nazionali si tengono un po’ discosti e si narra addirittura che Silvio Berlusconi sia rimasto molto contrariato dallo scarso entusiasmo della piazza del centrodestra. La «riconquista» di Piazza San Giovanni da parte del Pd si è rivelata un azzardo imprevidente, con il candidato Marino che doveva gridare al microfono per non farsi sommergere dal frastuono del traffico di automobili non lontano dal palco. E ampi settori con una folla molto rada hanno marcato la differenza dell’ultimo comizio di Grillo dal tono trionfale dei precedenti appuntamenti elettorali a Roma.
Si scommette sulla percentuale di astensionismo che affliggerà questo turno elettorale amministrativo, ma è percezione unanime che saranno tantissimi i cittadini che stavolta decideranno di non recarsi alle urne, per delusione e per senso di inutilità molto più che per indolenza civile o disinteresse. A Roma forse il numero di chi non si farà vivo nei seggi elettorali sarà inferiore, ma solo perché si presenterà una quantità esorbitante di candidati (nientemeno che 19) e le schede misureranno oltre un metro per coprire tutte le liste: un assortimento vastissimo per soddisfare ogni nicchia, anche quella più minoritaria. È come se gli elettori fossero ancora sotto choc. Sconcertati per tutto ciò che è accaduto in questi tre mesi, all’indomani di elezioni che hanno sancito una condizione di stallo perfetto.
Lo sconcerto copre i comportamenti di tutti i partiti, nessuno escluso.
Anche il Movimento 5 Stelle, che solo tre mesi fa sembrava gonfiarsi al vento impetuoso della politica, viene vissuto come un partito omologato agli altri, schiavo degli stessi riti che hanno paralizzato le altre forze politiche. La loro diversità appare sempre meno «diversa». Anche lo spettacolo di impotenza e paralisi che ha attanagliato i partiti per l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale e per la formazione di un governo ha aumentato la dose di disillusione, di incredulità per il modo di fare di partiti che sono stati duramente strigliati in Parlamento dal capo dello Stato nel suo discorso di re-insediamento. Questi mesi hanno scavato a fondo in un’opinione pubblica sempre meno disposta a firmare una delega in bianco sia ai partiti tradizionali, sia a quelli nuovi, come quello di Beppe Grillo, che si è avvitato in un nullismo inconcludente compensato da un gran daffare su questioni interne di diarie, scontrini e partecipazione ai programmi tv. Ecco perché si profila una nuova ondata di astensionismo, perché le piazze vengono disertate e i sondaggi hanno difficoltà a registrare tendenze elettorali davvero indecifrabili. Un voto sottotono: un ulteriore avvertimento ai partiti. Nessuno escluso.

Corriere 26.5.13
Democratici costretti a fare i conti con Vendola e l'elettorato dell'm5s
I partiti e la paura del flop a Roma
Epifani e Berlusconi: governo al sicuro
Anche Grillo si mantiene cauto: forse non ce la faremo a vincere
di Paola Di Caro

qui

Repubblica 26.5.13
Il patto segreto tra Letta e Alfano “Non ci devono essere conseguenze”
Il timore che la sconfitta di Pd o Pdl possa scaricarsi sul governo
di Francesco Bei


UN’INTESA politica tra i due quarantenni al timone di palazzo Chigi per sterilizzare in anticipo le prevedibili scosse in arrivo, con due partiti — Pd e Pdl — stretti nel sostegno al governo ma costretti a darsele con vigore nella sfida per le città.
Per questo nelle stanze del governo si guarda con crescente preoccupazione al voto romano. I segnali di un crollo dell’affluenza ci sono tutti. E a farne le spese potrebbe essere soprattutto il candidato del centrosinistra, Ignazio Marino, con conseguenze imprevedibili per la tenuta della maggioranza. Perché è chiaro che soltanto il voto della Capitale ha un peso tale da poter influire sugli assetti nazionali. «Con tutte le liste civiche che ci sono — riflette Walter Veltroni — sarà difficile capire se i singoli partiti hanno vinto o hanno perso». Insomma, i dati aggregati a livello nazionale — che mettono insieme Isernia con Ancona, Viterbo con Siena — stavolta contano poco. L’importante è sapere chi vince la posta al ballottaggio. A Roma più di ogni altra città.
Il flop di piazza San Giovanni, il luogo simbolo della sinistra scelto apposta per la chiusura della campagna elettorale, è stato solo l’ultimo dei campanelli d’allarme. Per non parlare del confronto in tv tra i quattro candidati, organizzato su Sky, con un deludente seguito di appena 39 mila telespettatori, la metà di quanti si erano sintonizzati sulla stessa rete per il match tra i “campioni” per le primarie romane del Pd. Lo stesso segretario Epifani, che si è trovato sotto al palco di San Giovanni, è stato costretto ad ammettere il disinteresse che circonda lo scontro Marino-Alemanno. Lo scollamento del popolo di centrosinistra è chiaramente quello su cui punta Alemanno, dato per sconfitto senza appello fino a un mese e in rimonta grazie al traino del Pdl. Un testa a testa Marino-Alemanno avrebbe un effetto sconvolgente sul centrosinistra. E ridarebbe fiato alle truppe demotivate del sindaco. «La vera posta in gioco è al ballottaggio tra quindici giorni — confida Paolo Gentiloni, il candidato renziano sconfitto da Marino — e sarà comunque una partita difficile per noi. Se vinciamo lo daranno per scontato, se perdiamo... sarebbe un brutto colpo per un partito già malconcio». A quel punto tutti se la prenderebbero con il governissimo, sconfessando le larghe intese e allargando ancora di più le distanze tra il Nazareno e palazzo Chigi.
Ma visto che le brutte notizie non arrivano mai da sole, paradossalmente anche una vittoria di Marino potrebbe avere conseguenze negative per il governo e la tenuta del Pd. «Il problema a sinistra è enorme — spiega una fonte interessata come Andrea Augello, capo della campagna di Alemanno — perché Marino è un candidato
eccentrico rispetto alla scelta del governo di larghe intese fatta dal Pd. Se vince, vince da solo. Se perde, perde il Pd». In effetti Marino ha fatto di tutto per prendere le
distanze da Enrico Letta. Non ha votato la fiducia al suo governo, dopo aver già disobbedito alle indicazioni del partito votando Rodotà al Quirinale. Non ha voluto
sostegni in campagna elettorale, tranne quello di Zingaretti. E l’intervista concessa a l’Espresso in edicola ha un titolo incontrovertibile: «Che errore le larghe intese».
La speranza a cui si aggrappano i “governativi” — quelli del Pd ma anche quelli del Pdl — è che stavolta le urne potrebbero riservare un’amara sorpresa per Beppe Grillo. La campagna di Marcello De Vito, il giovane avvocato grillino, è stata tutt’altro che travolgente e questo fa ipotizzare un risultato molto al di sotto dell’incredibile 27% conquistato alle politiche. «Centrosinistra e centrodestra — fa notare Gentiloni — si presentano entrambi con molte liste civiche di contorno. Quindi un eventuale risultato deludente dei partiti può essere compensato dal voto alle civiche. Il M5S invece va da solo, con tutti i rischi del caso».

il Fatto 26.5.13
Comunali, urne aperte. Preoccupa l’affluenza
Le piazza semivuote della Capitale segnalano una certa disaffezione anche per questo genere di elezioni
di Eduardo Di Blasi


È cambiato il mondo - almeno quello politico - dalle scorse elezioni amministrative in cui i 540 e rotti comuni italiani andarono al voto la scorsa volta.
Nella sessione condotta dalle rielezioni dei consigli comunali di Roma e Ancona, capoluoghi di regione (la prima anche capitale d’Italia), ci sono finiti nell’ultimo volgere di anno anche Siena e Imperia, giunte travolte da scandali locali di portata nazionale.
NON SOLO. Cinque anni fa, quando a Roma si impattava al primo turno la sfida Alemanno-Rutelli, il movimento degli “amici di Beppe Grillo” era poca roba. L’attuale presidente del gruppo M5S a Montecitorio Roberta Lombardi, seconda il lista di quell’avventura, fu tra le più votate in consiglio comunale e raccolse appena 191 preferenze (seconda solo a Roberto Di Palma che ne prese 217).
Oggi il Movimento Cinque Stelle è invece capace di arrivare in doppia cifra a Roma come a Imperia e Siena, dove rischia di far crollare alleanze sedimentate anni.
Le alleanze. Anche quelle non giocano a favore dei partiti tradizionali. Cinque anni fa Pdl e Pd erano gli unici competitori in campo. La campagna di Roma, per tenerci sempre sullo stesso esempio, fu giocata su temi feroci come le violenze sessuali e l’allontanamento dei rom dai quartieri periferici della città verso il cerchio più esterno. Oggi Pd e Pdl sono al governo del Paese assieme e il richiamo della piazza, come hanno dimostrato gli ultimi comizi nella Capitale, complice forse anche il puntuale sciopero dei mezzi pubblici, sono stati un flop quasi per tutti. Che quelle piazze vuote viste a Roma si tramutino in astensione è difficile prevederlo, ma il segnale di un ulteriore scollamento sembra essersi già manifestato. Le previsioni della vigilia sono più vaghe. In linea di massima saranno pochissimi i comuni nei quali basterà il primo turno per assicurarsi l’elezione a primo cittadino. Dovranno faticare il Pdl a Brescia e il Pd a Siena e Imola, roccaforte quest’ultima agilmente detenuta nell’ultimo mezzo secolo da Pci, Pds, Ds e Pd. Il Pdl rischia anche a Imperia, feudo democristiano degli Scajola da due generazioni.
TENENDO come termometro le ultime elezioni il Pd parte meglio con le vittorie in Friuli Venezia Giulia. Certo Debora Serracchiani la spuntò di un soffio nella corsa alla presidenza della Regione il 22 aprile scorso, sei giorni prima che il governo di larga coalizione a guida Enrico Letta e Angelino Alfano giurasse al Quirinale. Ma a quelle consultazioni l’astensione fu altissima: il 50%. Non andò a votare un cittadino su due tra gli aventi diritto. Il sei maggio successivo con il governo già composto (erano stati nominati anche i sottosegretari) a Udine Furio Honsell è riuscito a confermarsi alla guida del Comune al secondo turno. Altro successo del Pd, certo. Ma l’affluenza questa volta si è fermata al 48,4%. Meno di un cittadino su due. Al primo turno (era accoppiato con le regionali) a Udine votò il 60,57%. Qualcuno parlò di successo.

«Nel 2008, al primo turno, si recò alle urne il 73,6% dei romani. Ma in quell’occasione si votava anche per le Politiche e per la Provincia. Altri tempi, per un’altra Roma»
il Fatto 26.5.13
I due timori di Alemanno e Marino: l’astensione e il voto disgiunto per De Vito, Marchini e Medici
di Luca De Carolis


SE LA GIOCANO in quattro, anche se qualcuno dei “piccoli” potrebbe pesare sulla bilancia. Ma il fattore che potrebbe rovesciare equilibri e pronostici si chiama astensione. A Roma, salvo sorprese che nessuno si aspetta, il primo turno sarà la porta verso il ballottaggio del 9 e 10 giugno. Una tagliola che dovrà scremare due nomi dalla folla di 19 candidati e 40 liste, così tanti da rendere la scheda elettorale un lenzuolo di un metro e venti. Una bella scocciatura per i 2,3 milioni di romani chiamati al voto, che sceglieranno anche i 48 consiglieri comunali (prima erano 60) e i 15 presidenti di municipio, i cosiddetti minisindaci, 19 alle scorse elezioni.
GLI ULTIMI SONDAGGI davano avanti a tutti Ignazio Marino del Pd e il sindaco uscente, Gianni Alemanno. Ma il 5Stelle Marcello De Vito e l’imprenditore Alfio Marchini, erede della dinastia di costruttori “rossi”, ostentano grande fiducia. Sul conteggio finale potrebbe influire qualche candidato con minori mezzi. Come Sandro Medici, storico presidente del X Municipio, quello di Cinecittà, appoggiato da Rifondazione Comunista e sigle varie (compreso il Partito Pirata), che potrebbe succhiare voti a a Marino. Il possibile problema di Alemanno è invece la pletora di sigle di estrema destra, da CasaPound a Forza Nuova. A incidere potrebbe essere anche il voto disgiunto. Una carta su cui punta moltissimo Marchini, che corteggia sin dall’inizio gli elettori Pd, ma che due giorni fa ha lanciato a De Vito l’offerta di un posto da vicesindaco, ricevendo un immediato rifiuto. Mentre il Corriere della Sera ieri ha scritto di un lungo incontro tra l’imprenditore e il segretario nazionale del Pd, Epifani, avvenuto proprio venerdì. Schermaglie e voci tipiche di una vigilia del voto, nella Roma dei mille spifferi. Il timore (o la speranza) di tutti i candidati però si chiama astensione. Fattore che potrebbe ribaltare tutti i sondaggi. Oggi a Roma, in uno stadio Olimpico blindato, si giocherà un derby che vale la Coppa Italia. Poi c’è la visita del Papa a una parrocchia a Prima Porta, seguita dal consueto Angelus in piazza San Pietro. In più, potrebbe piovere per buona parte della giornata. Se si mescolano questi tre elementi, è legittimo non attendersi file da record davanti ai circa 2600 seggi della Capitale. Nel 2008, al primo turno, si recò alle urne il 73,6% dei romani. Ma in quell’occasione si votava anche per le Politiche e per la Provincia. Altri tempi, per un’altra Roma.

Repubblica 26.5.13
Il Pd e l’incubo dell’irrilevanza “Guai se non entriamo nei ballottaggi”
Asse Epifani-Letta per far slittare il congresso al 2014
di Giovanna Casadio


ROMA — «L’importante è che il Pd sia presente in tutti i ballottaggi». Guglielmo Epifani non nasconde la preoccupazione. È alle prese con la prima emergenza politica della sua segreteria: il test delle amministrative. I Democratici sanno di rischiare molto. Dario Franceschini aveva detto nei giorni scorsi che la partita vera questa volta si sposta ai ballottaggi ma che oggi e domani, primo turno del voto, il buon vento potrebbe essere segnalato da un calo di Grillo. Epifani allarga l’orizzonte e - soprattutto dopo la piazza San Giovanni quasi vuota a Roma per il comizio di Ignazio Marino - sa che il centrosinistra deve giocarsi il tutto per tutto in vista dei ballottaggi. «Non importa se con Grillo o con Berlusconi afferma - quel che conta è che uno degli altri due poli resti indietro e che noi siamo in gara, presenti e in grado di contendere il risultato». Quindi, il punto «non è battere i 5Stelle, ma esserci», altrimenti sono guai. Se l’adagio “piazze piene, urne vuote” è sempre stato scaramanticamente agitato a ogni vigilia elettorale, questa volta davanti al contrario, cioè “piazze vuote”, è davvero difficile immaginare urne piene.
È una vigilia di timori per il centrosinistra, innanzitutto per l’astensionismo. «Se vinciamo a Roma e a Siena, sia pure al ballottaggio, come credo - ragiona Paolo Gentiloni, renziano - sarà una non-notizia, nel senso che rientrerà nel novero delle cose attese e previste». E se il Pd perdesse? «Allora sarebbe una sberla a un partito traballante». Gentiloni che è stato uno dei competitor di Marino alle primarie per il Campidoglio, rimprovera al partito di essersi accorto tardi e male della sfida per le amministrative, ai big di essersene disinteressati. Vero: riconosce Epifani, aggiungendo
che il Pd «è stato ripiegato su se stesso» nella fase drammatica post elezioni politiche.
Altrettanto consapevole è il segretario, dell’altra emergenza per il Pd, ovvero di evitare che la resa dei conti al congresso metta in difficoltà il governo Letta. Le due
questioni - risultato del primo round di voto e data del congresso - sono all’ordine del giorni della Direzione del 4 giugno, la prima dell’era Epifani. Il segretario nega la volontà di rinvio al prossimo anno: «Non ho mai fatto date, ho sempre e solo sostenuto che il
congresso va fatto bene. Il problema della data è irrilevante: cosa cambia? decisivo è il come e la qualità del dibattito». Tuttavia la tentazione di mettere in sicurezza il governo da una resa dei conti impietosa al previsto congresso democratico, è di Epifani come di Letta e di Franceschini. Gianni Cuperlo, il candidato dalemiano e dei “giovani turchi”, ha già dato l’alt. Matteo Orfini, leader della sinistra Pd, sostiene che un asse Epifani-Franceschini-Letta c’è, ma «non riusciranno a imporre uno slittamento». Aggiunge: «Nessuno che abbia a cuore questo partito, può volere un Pd che si trascina. Perciò non vanno cambiate le regole votate nell’Assemblea di due settimane fa. Il tema del congresso c’è tutto». Stesso sentimento di Gentiloni: «Quaranta giorni in più o in meno non sono in sé preoccupanti, a fine ottobre o a inizio dicembre non fa una grande differenza. Quello che però non mi piace e non condivido è il rinvio della discussione alle calende greche su partito e il suo futuro. Ibernarla non va bene. Fare finta che nel Pd tutto fili liscio, per non disturbare il governo sarebbe un errore». Stempera le tensioni invece Piero Fassino, che ha conteso a Epifani la segreteria pro-tempore: «Congresso a ottobre o a gennaio non fa la differenza. Mi avrebbe fatto piacere diventare segretario del Pd? Sì, mi avrebbe gratificato, però sono una persona responsabile e fare il sindaco di Torino e il segretario del Pd in una fase in cui il partito va ricostruito, sono due incarichi incompatibili».

il Fatto 26.5.13
Campidoglio, se questa è una par condicio
di Carlo Tecce


La par condicio è una presa in giro, e non solo perché fu un argine di sinistra per contenere lo strapotere mediatico di Berlusconi con il solito difetto di voler curare i sintomi e tralasciare la malattia. Ma perché quel governo di sinistra – tredici anni fa, Massimo D’Alema a Palazzo Chigi – pensava che la propaganda elettorale fosse un vizio di Forza Italia, tipico di una cultura inferiore e truffaldina, e non un’opportunità democratica da offrire a chi fa politica in maniera democratica. Le conseguenze di quel rattoppo si pagano ancora. Il servizio pubblico Rai ha l’obbligo di garantire pari visibilità e pari spazio ai candidati, che siano elezioni nazionali, regionali o amministrative. L’obbligo è un rapido lavaggio per la coscienza e un vergognoso – ma l’azienda non ha nessun peccato, se non quello di essere espressione del sistema partiti – atto riparatorio. A parte la scheda larga un metro e venti centimetri, il traffico che fu in senso cinematografico il cancro di Palermo, i sampietrini, i condizionatori e le buche, il pubblico televisivo conosce tre cose di Roma, anzi tre uomini: Gianni Alemanno, Ignazio Marino e Alfio Marchini, i tre concorrenti per il Campidoglio, tre su 19. Alemanno è ovunque perché si tratta del sindaco uscente, anche se non è mai simpatico in televisione e non riesce a trattenere il suo impeto autoritario. Marino, ancora, è ovunque perché pare sia lo sfidante più accreditato, pare anche esponente del Pd (anche se il Pd non ne è informato). Marchini, infine, è ovunque – quasi più di tutti – perché funziona in televisione e non è un novizio per i palazzi.
INSIEME O SEPARATI, i tre li abbiamo visti con asfissiante frequenza. E i 16 che mancano, compreso l’avvocato del Movimento Cinque Stelle? I telespettatori, attenti, e anche un po’ casalinghi, li avranno notati in quest’ultima settimana di campagna elettorale su Rai3, ovviamente soltanto chi abita nel Lazio. Per l’occasione, la Rai ricaccia dagli archivi le cosiddette tribune elettorali, che già appassionavo Aldo Moro e Alessandro Natta. Cambia soltanto il conduttore, per comprensibili motivi anagrafici. La giornalista, passati in rassegna i candidati di Viterbo, Fiumicino e dintorni, ha ospitato per due mattine di seguito i 19 di Roma: prima 10 e poi 9; nel primo gruppo c’erano Alemanno e Marino (si sono beccati, il sindaco ha minacciato la diserzione, ma non gli è mai riuscita in carriera) ; nel secondo gruppo c’era Marchini assieme ad Alfonso Luigi Marra, l’avvocato che scrive i libri che piacciono a Emanuela Arcuri e a Sara Tommasi. I potenti mezzi di viale Mazzini hanno dotato la giornalista di un cronometro: tre domande, tre minuti. Argomenti: traffico, bilanci, lavoro. Qualcuno, furbo, prendeva il tempo al tempo, e ha persino protestato. Altri hanno sfruttato i secondi a disposizione per ringraziare (con ironia) per la finestra di popolarità. Per fortuna, lo strazio è finito, e ora tocca ai romani scegliere che, prima di scegliere, dovrebbero sapere – e la televisione non è stata d’aiuto, nemmeno quella pubblica – che i candidati sono ben (troppi) 19 e non soltanto tre più il “grillino”. Ma che “ce frega che ce ‘mporta”, la politica ormai “se fa su tuittere”.

il Fatto 26.5.13
Siena
Nella città del Monte il Pd adesso rischia


C’È ANCORA il terremoto a Siena. Con il Monte dei Paschi a bagno di un’inchiesta giudiziaria dai risvolti epocali, la città toscana da sempre legata alla banca e ai partiti del centrosinistra, potrà scegliere fra 8 candidati sindaco. E, per la prima volta, il candidato del Pd, che pure parte con i favori del pronostico, non è detto che riesca a primeggiare. I democratici, che comunque alle ultime politiche, quando l’inchiesta giudiziaria già faceva scricchiolare il Monte, hanno toccato il 36%, schierano come da tradizione un dipendente Mps, Bruno Valentini, per dieci anni sindaco di un comune vicino, Monteriggioni. Due sono gli sfidanti più accreditati. Il primo, Eugenio Neri, è un cardiochirurgo. È appoggiato dal Pdl e da Scelta Civica, attraverso Alfredo Monaci già consigliere di Mps dal frastagliato percorso politico: Dc, Pdl, Margherita, Pd, Monti. Neri è appoggiato anche dalla parte del Pd legata a Maurizio Cenni. La sorpresa potrebbe essere rappresentata da Michele Pinassi, dipendente dell’altra grande istituzione cittadina, l’università. Pinassi, candidato dei Cinque Stelle può contare sulla grande campagna messa su da Grillo sulla vicenda Mps. Due gli slogan chiave: nazionalizzazione della banca senese e “tutti e casa”.

il Fatto 26.5.13
Bologna, il referendum sulla scuola che vorrei
Oggi la scelta sui soldi alle paritarie che divide la città


I 199 SEGGI allestiti dal Comune di Bologna apriranno oggi dalle 8 alle 22. Assieme al risultato (non c'è quorum), anche il dato dell’affluenza sarà decisivo nell’analisi del voto.
I cittadini bolognesi sono chiamati ad esprimersi sulla convenzione che dal 1994 destina ogni anno poco più di un milione di euro di soldi pubblici a 27 scuole paritarie private dell’infanzia, di cui 25 cattoliche, per un totale di circa 1.700 posti. Un tema che ha spaccato la maggioranza. Da un lato, al fianco dei promotori del comitato 'Articolo 33' composto da 15 associazioni e presieduto da Stefano Rodotà, si è schierata l'ala sinistra, a partire da Sel. Un fronte vasto, che ha raccolto adesioni di nomi noti, numerose realtà della società civile e laica, il M5S, la Flc-Cgil, la Fiom, i sindacati di base, i collettivi di studenti e persino Casapound.
Il Pd, invece, ha continuato a difendere le scelte dell’ amministrazione, con punte di polemica altissime, come lo scontro tra il sindaco Virginio Merola e Nichi Vendola che ha sfiorato la crisi dell’alleanza.

il Fatto 26.5.13
Il cantautore Francesco Guccini
“Voto A perché i principi sono fondamentali”
di Emiliano Liuzzi


I principi sono importanti. Francesco Guccini di politica parla sempre, anche se, che venga ascoltato o meno, non ama le strumentalizzazioni e l’eco che ogni sua parola provoca ogni volta. Sul referendum di Bologna però non ha potuto restare in silenzio. Raggiunto dal Fatto Quotidiano nella sua casa a Pavana, là dove ha registrato il suo ultimo disco, il cantante commenta: “Dicono che votare contro i finanziamenti alle scuole private è una questione di principio che non tiene conto dei problemi pratici? Può darsi. Nella vita si fanno tante cose solo per seguire i propri ideali. I principi sono importanti”.
Si è schierato per il no nel referendum che secondo le previsioni rischia di spaccare il fronte che fu granitico del Partito democratico a Bologna. Dalla sua parte anche Stefano Rodotà, ma sul versante opposto il sindaco Virginio Merola e Romano Prodi, uno degli uomini che il maestrone di Pavana ha sempre sentito come tra i più vicini alla sua linea di pensiero.
UNA DIVISIONE che ha fatto emergere malumori e sottolineato ancora una volta la distanza del cantante dal Pd. “Ho già detto quello che penso, perché ci tenevo a esprimermi. Ho già detto, proprio a voi del Fatto Quotidiano, che non credo più nel Pd e che non lo sento più come il mio partito, Ora non voglio aggiungere ulteriori polemiche. Semplicemente io credo che entrare alla scuola pubblica, dove si opera senza discriminazioni e senza indirizzi confessionali, sia il primo passo di ogni individuo che voglia imparare l’alterità e la condivisione. È il primo passo di ogni essere umano per diventare uomo, per diventare donna”. Diritti e uguale accesso all'istruzione, così il cantautore cita nella sua difesa il padre costituente Piero Calamandrei: “Io non posso non fare mia la sua lezione, quella contenuta nel celebre Discorso in difesa della scuola nazionale. Da quelle parole traggo il mio augurio e il mio saluto per tutti voi: ‘Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale’”. Parole che Guccini aveva già ricordato in occasione dell’incontro pubblico a Pistoia, lasciando un messaggio ai volontari del comitato articolo 33 a Bologna: “Sono qui con il cuore ad accompagnare la vostra campagna. Sono qui a discutere di viaggi e incontri ai Dialoghi sull'Uomo e questa coincidenza mi porta a pensare proprio alla scuola - e alla scuola dell'infanzia, pubblica laica e plurale - come uno dei luoghi fondamentali dove l'uomo prende forma e inizia il suo viaggio”.

il Fatto 26.5.13
La scuola: se il pubblico è facoltativo
di Silvia Truzzi


I BOLOGNESI oggi sono chiamati a esprimersi sui finanziamenti pubblici alle scuole private: un milione di euro che ogni anno il Comune emiliano elargisce alle materne private, la cui quasi totalità è gestita da istituzioni cattoliche (25 su 27). I cittadini avranno due possibili scelte sulle scheda: l’opzione A prevede che i fondi siano destinati alle scuole pubbliche, l’opzione B alle private paritarie. Il referendum non ha valore abrogativo, ma solo consultivo. Esaurite le informazioni di servizio, bisogna dire che la questione è tutt’altro che “locale”. Non a caso il dibattito sul referendum bolognese ha coinvolto i media nazionali: in ballo c’è un principio, sancito da una Costituzione che è stata, negli ultimi vent’anni, fin troppo bistrattata in una sostanziale indifferenza generale. L’articolo 33 della Carta chiaramente stabilisce che “la Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. La pelosa distinzione, avvalorata dai sostenitori dell’opzione B, tra “oneri” e “finanziamenti” nemmeno vale la pena d’essere commentata. Anche ammesso che i finanziamenti alle private fossero consentiti, resta il fatto che quelli alla scuola pubblica sono obbligatori: la distinzione diventa dirimente in un momento di congiuntura economica e tagli alla formazione. È accaduto a Bologna che oltre 400 bimbi non abbiano trovato posto nelle scuole pubbliche e i loro genitori si siano sentiti dire “iscriveteli a una privata”, dove però bisogna pagare una retta.
STEFANO RODOTÀ (presidente onorario del comitato Articolo 33) ha ricordato sul Corriere della Sera che Piero Calamandrei definiva la scuola pubblica un “organo costituzionale”, tanto ne giudicava fondamentale la funzione. Il sindaco Virginio Merola ha più volte ribadito che non terrà conto dell’esito del referendum, visto che i finanziamenti alle paritarie sono nel suo programma votato dai cittadini: ragionamento non troppo diverso da quello di Berlusconi che pensa di essere intoccabile perché eletto dal popolo. Diversi esponenti della Cgil e del maggiore partito di sinistra (sic!) si sono espressi a favore dei finanziamenti pubblici alle private: Romano Prodi, Matteo Renzi, il ministro Delrio. L’onorevole Fioroni, cui è stata chiesta un’opinione sul fatto che molti genitori sono costretti a iscrivere i propri figli a scuole cattoliche, ha dichiarato che “non bisogna essere ideologici, ma pragmatici”. Per due genitori atei o di altra religione mandare i figli in una scuola cattolica è un capriccetto, invece allo Stato è consentito di non adempiere a uno dei suoi principali obblighi. Se anche la Costituzione diventa un ingombro ideologico, non stupiamoci dell’inarrestabile emorragia di consensi del “maggior partito di sinistra”. E nemmeno loro avrebbero dovuto sorprendersi ascoltando in piazza Montecitorio i cittadini urlare “Rodotà, Rodotà”.

Corriere 26.5.13
Lo storico rapporto tra Partito e Chiesa
I «pizzini» ritrovati: così a Bologna il Pci corteggiava la Curia
Il voto sui fondi pubblici alle paritarie e i documenti dell'archivio Gramsci
di Marco Ascione


BOLOGNA — Era il 1966: «Caro compagno Longo, dobbiamo dare avvio a un nuovo corso nei rapporti tra cattolici e comunisti che farebbe assumere a Bologna la funzione di città pilota...». Cinquant'anni dopo c'è ancora chi si stupisce della realpolitik all'emiliana: il Comune rosso e la Curia schierati come una falange macedone in difesa dei fondi pubblici alle scuole paritarie (in stragrande maggioranza cattoliche). Con una sinistra «più a sinistra» che, come in altri tempi e sotto lo stesso cielo fece con il Pci, intima ora ai capi del partitone di «risalire a bordo». Al di là degli aspetti contingenti, dei torti e delle ragioni, il referendum che ancora una volta spacca il fronte degli ex compagni è in qualche modo anche il frutto del rapporto tutto particolare, alimentato da contrapposizioni guareschiane e incredibili aperture, tra il partito comunista e la chiesa bolognese. Storia antica. Per capire, basta entrare all'Istituto Gramsci che proprio in questi mesi sta rimettendo in ordine con lodevole cura (grazie alla regia di Siriana Suprani) i documenti ricevuti dalla famiglia di Guido Fanti, segretario emiliano del Pci dal 1960, poi sindaco di Bologna dal 1966 e quindi primo presidente della Regione nel 1970. Si tratta di un cospicuo epistolario (ma anche relazioni e appunti in brutta copia), di fatto il resoconto di una lunga e appassionata trattativa diplomatica che ha attraversato tutta la guerra fredda. Diversi gli attori: il Pci di Bologna, Botteghe Oscure, Giorgio La Pira, la Curia di Giacomo Lercaro e Giuseppe Dossetti, l'Istituto di scienze religiose di Giuseppe Alberigo, l'Avvenire d'Italia. Sottesa, la ricerca di un terreno di dialogo, e in embrione di governo, tra comunisti e cattolici. In qualche modo un Ulivo ante litteram, anche se non tutti sarebbero d'accordo con questa lettura. Operazione Bologna, la chiamavano. Un «ponte» sui cui tanto si è detto. E che ora queste carte mettono nuovamente sotto i riflettori con dettagli in parte inediti.
Vangelo e Capitale, quindi. Gli anni Sessanta appena sbocciati, l'Unione Sovietica un dogma per i compagni italiani, in Emilia guidati da Giuseppe Dozza e Guido Fanti. Nella Curia di via Altabella, a Bologna, dal 1952 a vestire la porpora era Giacomo Lercaro, il cardinale dei «frati volanti» che interrompevano i comizi dei «rossi», il cardinale che contro l'istituzione Dozza, il comunista dall'aria bonaria, per i bolognesi semplicemente il Sindaco, aveva schierato alle elezioni del 1956 Giuseppe Dossetti, l'avversario più temibile. L'ex vicesegretario della Dc che già nel 1951 aveva scelto di ritirarsi dalla vita politica in dissenso con De Gasperi e che al sindaco rosso lascerà in eredità il suo «Libro bianco», la suddivisione in quartieri della città che il Pci tradusse in un fatto.
È su questo terreno che prende forma la nouvelle vague di un partito certo potentissimo in Emilia, ma condannato all'isolamento lontano dalla via Emilia. La svolta arriva con il Concilio Vaticano II. Data chiave: l'8 dicembre 1965. Dozza è in stazione a Bologna, con il gonfalone, per accogliere Lercaro, di ritorno da Roma. Il cardinale, agli occhi dei comunisti, non è più lo stesso Don Camillo che dopo l'invasione sovietica a Budapest aveva fatto suonare a morto le campane per tre giorni. Dozza porta la pace. È il Pci a cambiare passo. Lercaro, in tutti i suoi aspetti resta, per chi ha studiato a fondo la sua figura come Alberto Melloni, fedele a se stesso: anticomunista e strenuo combattente per la pace nel mondo. È ora che Fanti avvia la fitta corrispondenza con Dossetti. Al quale il leader bolognese del Pci chiede in più occasioni un incontro. Dossetti appare combattuto. Si evoca anche un mancato appuntamento con Giorgio Amendola, uno dei più importanti dirigenti del Pci, un riformista in anticipo sui tempi, perfetto per la tradizione del socialismo padano. Scrive Dossetti a Fanti, dall'eremo di Monteveglio, l'11 gennaio 1966 a proposito dell'incontro saltato con Amendola: «Quando ero laico pensavo che non conviene al sacerdote mescolarsi con le cose politiche. Ora ne sono ancora più convinto e tanto più nel caso mio: per me, proprio per il mio impegno di un tempo, il taglio è stato e deve restare ancora più netto, per non rischiare di mettere il vino nuovo negli otri vecchi». Nel dibattito epistolare si inserisce, da Firenze, un altro cattolico riformista, Giorgio La Pira, che nell'ottobre del 1966 scrive a Fanti evocando Dossetti: «Egli vede il "piano provvidenziale": la sua stessa storia personale ha in un certo senso come porto l'operazione Bologna. (...) Sta fermo, perciò, su questa posizione ideale e su questa prospettiva storica ideale».
Nello stesso anno in una relazione inviata da Bologna al nuovo segretario del Pci Luigi Longo, si dettaglia l'apertura diplomatica alla Curia con l'insediamento del nuovo sindaco Fanti, rimarcando la necessità di «una differenziazione netta tra Chiesa e Dc»; di «possibilità di dare avvio a un nuovo corso nei rapporti tra cattolici e comunisti che farebbe assumere a Bologna la funzione di città pilota; della «necessità di costruire con pazienza e tenacia questa prospettiva perché nessuna forza da sola può pensare di risolvere i grandi problemi».
Nel 1968 il nuovo tornante: Lercaro, autore di una vibrante omelia per la pace in Vietnam, viene pensionato dal Vaticano. «La sua cacciata — scrive Fanti a Botteghe Oscure — appare sempre più come un fatto molto grave. Ne ho discusso a lungo con Dossetti e con lo stesso Lercaro. La necessità di un intervento così drastico e inconsueto è stata determinata (...) soprattutto dalla convinzione che sulle posizioni di condanna dell'imperialismo americano, in Asia, in America Latina e in Europa si era venuta a creare a Bologna una unità sostanziale tra comunisti e cattolici». Un asse che comunque a Bologna, pur a fronte di nuove contrapposizioni con i successori di Lercaro, e di un rapporto vissuto come tra diversi poteri (finché il partito è stato molto forte), troverà una sua realizzazione pratica, con la Dc, nell'amministrazione della città. L'operazione politica del Pci bolognese era destinata al limbo. Cadrà il Muro, insieme con la falce e il martello. E arriverà anche un'altra stagione di «cattolici adulti».

il Fatto 26.5.13
Ti faccio vedere come nasce un italiano
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, la presidente della Camera Laura Boldrini dice sì alla cittadinanza dei bambini nati in Italia da genitori stranieri, il presidente del Senato subito dopo dice no. Intanto il ministro per l’Integrazione, che aveva detto sì, viene indicata come un pericolo pubblico e mandante di omicidi. Molti non sembrano ricordare che il Capo dello Stato aveva detto che “è una follia nascere in Italia e non essere italiani”. Si può mettere un po’ d’ordine in una così importante questione?
Emilia

QUESTO DIBATTITO è stato purtroppo inquinato per due decenni di governo (o comunque di egemonia mediatica) di Berlusconi-Maroni-Borghezio. Non dite che i due ultimi nomi sono secondari. Per essere sicuro del voto su assurde leggi ad personam, Berlusconi ha dato un immenso potere al partito secessionista-razzista Lega Nord. La Lega ha continuamente predetto l’invasione di milioni di violenti parassiti neri che avrebbero divorato il Paese, abusato delle donne e si sarebbero accampati nei nostri ospedali, una predicazione che ha indotto tanta gente perbene a tollerare i “respingimenti in mare” che hanno provocato (la Boldrini lo sa) migliaia di morti nel Mediterraneo e la detenzione illegale e disumana di migliaia di esseri umani, incluse le donne incinte, nei cosiddetti Centri di identificazione e di espulsione. Soltanto il presidente Napolitano e Bersani, nel mondo istituzionale e politico, hanno deciso di dire, con franchezza logica, prima che umanitaria, che chi nasce in Italia da genitori stranieri è italiano. Ho detto “ragione logica” perché tutti sanno che quando i genitori stranieri ottengono, dopo mille ostacoli e umiliazioni burocratiche, la condizione di residente legale, tale condizione non si estende ai figli che, a 18 anni, all’improvviso non hanno più nessuna terra, né quella in cui sono nati e di cui hanno appreso lingua e cultura, né quella, che non conoscono, dei genitori venuti a vivere e lavorare in Italia. Le cosiddette “condizioni” che adesso, evidentemente intimidita dalle tante aggressioni, persino il ministro Cécile Kyenge accetta, discendono dal violento pregiudizio leghista. Si immagina, senza dirlo, uno stato di inferiorità del piccolo straniero, inferiorità che dovrà essere corretta da una serie di cure italiane, tipo la lingua, la scuola, la cultura. Queste “cure” ci sarebbero comunque, visto che tutti i bambini vanno a scuola. Se mai resta, ma anche per i bambini di “pura razza bianca”, il problema di migliorare almeno un po’ le nostre scuole. Però le cosiddette “condizioni” definiscono implicitamente il bambino che vede la luce in Italia come una persona in prova che deve meritarsi la cittadinanza a punti. Poi vedremo (giudicherà Borghezio?) se è un vero italiano.

il Fatto 26.5.13
Il ciclone Grillo è sempre lo stesso show
Nel tour per le amministrative i comizi si ripetono tutti uguali, con incazzatura e indignazione fisse
di Enrico Fierro


Dal Veneto all’Emilia, dalla Lombardia alla Toscana passando per la Liguria, prima di toccare il traguardo finale: Roma. Centinaia di chilometri, mai una pausa, ore di comizi sempre urlati, il sudore, le corde vocali tese al massimo, tantissime mani da stringere e nomi da ricordare, per non deludere nessuno. Sonno poco. Una vita da saltafossi. È Beppe Grillo nel suo tour per le amministrative. Una energia invidiabile per un uomo di 64 anni. Di lui si è detto e scritto di tutto, populista antipolitico, nemico della democrazia, fanatici adoratori del capo, invece, la gente che sempre affolla i suoi comizi-show. I partiti lo stanno demonizzando. Come Renato Rascel aspettano che passi la bufera. E sbagliano. E allora bisogna capire, con gli strumenti del cronista: indagine, osservazione e ascolto. Dopo giorni di partecipazione alla campagna dei Cinque stelle, la prima conclusione è che nel tour di Grillo non c’è un briciolo di improvvisazione. Tutto è studiato nei dettagli anche minimi, battute comprese.
IL COPIONE È sempre uguale, nei piccoli paesi come nelle piazze delle grandi città. Sul palco, ore prima dell’avvento dell’ex comico, parlano i candidati. Pochi minuti prima dell’ora fissata per il comizio, da lontano spunta il camper. Alla guida il fidato e silenzioso cognato Walter, penzolanti dallo specchietto retrovisore due “Nunchaku” (attrezzi per il Kobudo, antica arte marziale giapponese), i finestrini chiusi. Il camper si ferma, la porta si apre con studiata lentezza ed esce lui, Beppe, acclamato da centinaia di sostenitori che possono finalmente toccarlo, chiedergli un autografo, porgergli un bambino. Nelle performance di Grillo il contatto col corpo è essenziale. Una tecnica già sperimentata negli spettacoli dell’esordio in tv (Te la do io l’America e variazioni sul tema) e negli show in teatro.
IL CORPO “Sto sudando sotto le ascelle? Vi faccio schifo? ”. Alle due del pomeriggio Beppe è a Sestri Levante, giornata di sole cocente. Tantissima gente. Lui individua tra la folla il volto di una donna conosciuta tanti anni prima, scende dal palco e l’abbraccia. La folla è in visibilio. “Cazzo quanti anni, da ragazzo venivo a ballare qui da voi”. Il post di un blog si materializza in carne e ossa.
IL DISCORSO In quasi due ore, Grillo parla di tutto, dell’Europa e della mondializzazione, della crisi e del lavoro, dei giovani “che non hanno un cazzo e non avranno mai un cazzo” e dei “vecchi che difendono la loro pensioncina e votano per il Nano”. Attacca “Gargamella che voleva i nostri voti” e Napolitano “che si è fatto eleggere per altri sette anni e in una notte ha deciso di bruciare le telefonate con Mancino”, esalta “il lavoro meraviglioso” dei suoi parlamentari, dei quali non ricorda neppure il nome. Il comizio ha sempre lo stesso schema, ripetuto per giorni e in piazze diverse, ritrasmesso in streaming, battute, pause e imprecazioni, sono studiate e sempre uguali. Incazzatura e indignazione a comando. È una tecnica teatrale imbattibile, e Grillo ha anni di allenamento alle spalle.
IL VITTIMISMO “Forse dovrò scappare di notte da questo Paese”, ripete ai suoi. “Monti ha 18 uomini di scorta e io zero, ma la vera scorta siete voi”. La gente applaude, si interroga. Pausa, di nuovo applauso e al ragazzo che a Sestri gli fa con le mani alzate “ci siamo noi”, lui risponde scettico, “belin che se succede qualcosa tu sei già a Ventimiglia”.
GIOVANI E VECCHI A Imola, a Martellago (Veneto), a Siena, dovunque, Grillo ha parlato dei disordini di Brescia. “Ho visto un giovane aggredire un ottantenne, sanguinavano, ma il vecchio aveva picchiato di più. Ma che paese è questo? Avevamo la lotta di classe e ora abbiamo una guerra tra generazioni che non si capiscono più”. Frase efficacissima che tocca i cuori dei ragazzi e degli anziani, di chi ha poco e di chi non ha nulla. “Io voglio un’Italia che sia una comunità, come i nostri padri che ricostruirono un Paese ridotto in macerie dalla guerra tenendosi per mano, senza mai mandarsi affanculo”.
I GIORNALISTI La vera ossessione di Grillo, “Ballarò gentaglia”, Santoro “un nemico”, Pigi Battista, del Corsera, “una cosa mediocre”. Beppe profetizza: giornali e giornalisti moriranno sotto il peso del web. Molta gente nei comizi applaude convinta, altri scuotono la testa perplessi, qualcuno, tra i più fanatici, si esalta, come a Brescia, dove un nostro inviato, Franz Baraggino, è stato aggredito da un bovino con la pettorina security per una domanda giudicata “del cazzo”.
CANDIDATI E FOLLE Possono non piacere parole e slogan di Grillo, ma c’è un dato: sono parole che la gente (lavoratori, pensionati, ragazzi in cerca di un futuro, uomini e donne stanchi di una politica sporca, che nei partiti nessuno vuole più) non sente più da nessun altro leader. Tra i candidati il cronista ha conosciuto operai, tecnici, ragazzi e ragazze plurilaureati che parlano di bilanci trasparenti e partecipati, di cemento zero, di riciclo, di qualità delle città e del lavoro. Insomma gente che, in altri tempi e con partiti che non fossero ridotti a comitati d’affari, avrebbe trovato spazio, accoglienza e protagonismo. Ed è questo il vuoto che, tra un vaffa e una fatwa contro i giornalisti, Beppe Grillo sta colmando. Pericolosamente? I mesi e gli anni a venire ci daranno la risposta.

il Fatto 26.5.13
Dissidenti grillini
Crimi: “Non mi fido più del gruppo”
Marino Mastrangeli, senatore espulso dal gruppo: Finita la campagna per le amministrative i nodi verranno al pettine e la situazione sarà più esplosiva di quanto si possa immaginare”
di Martina Castigliani


Una riunione dei dissidenti c'è stata. Un ritrovo a tarda sera e un ordine del giorno: cercare un'alternativa al verbo di Grillo. Erano nove, sette deputati e due senatori del Movimento 5 Stelle. Lo sanno i parlamentari e lo sa Beppe Grillo stesso, che dopo il tour elettorale ora dovrà pianificare una nuova riunione per riprendere in mano quel qualcosa che gli è probabilmente sfuggito. La conferma più autorevole però la dà Vito Crimi, capogruppo al Senato, raggiunto dal Fatto Quotidiano in Sicilia. “Ho saputo dell’incontro. Posso immaginare chi siano i dissidenti, ma non ho una lista di nomi. Di sicuro c’è un forte clima di sfiducia dentro al gruppo”.
Parole dure che arrivano dopo un mese di difficoltà tra discussioni sulla diaria, liti con i giornalisti e tentativi di portare avanti le attività. “La mancanza di fiducia”, ha continuato Crimi, “è verso chi ha il brutto vizio di rendere pubbliche comunicazioni interne. Se il giorno dopo vedo sul giornale quello che ci siamo detti in riunione, non mi fido più. Non sono più sereno quando mando mail ai colleghi”. Il riferimento è al report sulla comunicazione diffuso a inizio settimana tramite posta elettronica e arrivato sui tavoli dei giornalisti. “Se io non fossi stato d’accordo, sarei andato a chiedere chiarimenti, non certo dalla stampa. Se scopro chi è stato, chiedo la sua espulsione subito e senza mezzi termini”.
Un malumore che cresce sempre più col passare delle settimane. “Se ti dici dissidente – ha concluso Crimi – non hai capito niente del nostro progetto politico. Noi discutiamo tutte le idee in assemblea. Nessuno è obbligato a restare”. Le tensioni sono appena cominciate. La riunione è stato un modo per contarsi e pensare alla strategia successiva. “Siamo stanchi di questa situazione” – ha raccontato al Fatto un parlamentare che alla cena c'era e che ci tiene a restare anonimo – manca una linea condivisa. Il cerchio magico dei fedelissimi usa metodi intimidatori”. Li chiamano i “talebani” e sarebbero i più vicini alla linea Casaleggio e Grillo. “Ci fanno pressioni per uscire dal Movimento, ma così non ci stiamo. Gli elettori sono scontenti, ci chiedono perché non abbiamo appoggiato un governo di centrosinistra”. I dissidenti, consapevoli che la conta non è finita, pensano a un’alternativa che arrivi a fine estate. E nel polverone trova pane per i suoi denti il rottamatore del Pd, Pippo Civati, attento alle dinamiche dei grillini da tempo: “Se Berlusconi – ha detto – fa cadere il governo, sappia che non c’è solo la strada del ritorno alle urne, c’è un fronte in Parlamento che potrebbe fare altre cose. Il Movimento 5 Stelle è una forza che non può essere ignorata”. Stefano Rodotà primo ministro, è questa l'idea di Civati? “Non ne so niente”. Ma non è un mistero che i contatti con i 5 Stelle siano continui dal primo giorno, anche grazie alla parlamentare Sonia Alfano.

il Fatto 26.5.13
Genova contesta Bagnasco
Papi e compagni. Le grida dalla Lanterna
Perché la Chiesa-istituzione è lontana dalle persone
di Marco Politi


I fischi sono come la febbre. E la febbre sale quando il corpo è in preda ad un malessere. Le grida di Genova rimandano ad un fossato sotterraneo che da tempo si è creato tra una gran massa di credenti e la Chiesa-istituzione.
Non basta un’omelia per sanare le ferite inferte anno dopo anno al prete Andrea. Lui se le lasciava allegramente dietro le spalle, ma tanti che venivano a scaldarsi alla sua umanità di pastore, sono rimasti feriti per l’ostilità che ha circondato per decenni la sua opera.
LA CHIESA istituzionale ha sempre avversato il prete genovese e i preti (o le suore) come lui. Gli è stata ostile esplicitamente come il cardinale Siri – nome stridente sulla sua bara – o almeno lo ha sopportato a fatica, con gelido distacco, con minuscoli riconoscimenti archiviati rapidamente. La Chiesa istituzionale non ha mai voluto saperne di “tipi” come lui.
Ha detto il cardinale Bagnasco, poco prima di essere contestato, che don Gallo ha camminato tra due poli: l’amore a Genova e l’amore “a Gesù, al Vangelo e alla Chiesa”. Si fossero mai lette sull’Avvenire parole così essenziali. E invece al mondo cattolico italiano è stato propinato che Gallo era un “prete vanitoso”, ripetitore di idee “squinternate e faziose”. Il giorno della sua morte il giornale dei vescovi, senza un briciolo di partecipazione, lo ha definito farisaica-mente un prete che “amava definirsi (cioè lui, autolodandosi, secondo l’Avvenire) a fianco degli ultimi”. Per poi precipitarsi, sempre l’Avvenire, a sottolineare le sue prese di posizione “in aperto contrasto” con la Chiesa, le “perplessità” suscitate e quanto fosse stato un “sacerdote controverso”, autore di “un’ultima provocazione”: aver cantato in chiesa “Bella Ciao”. Per Andreotti, invece, un titolo entrato nella leggenda delle adorazioni di regime. “Andreotti, ora è solo luce”. Prima pagina dell’Avvenire. Direttamente dal Paradiso. Con sfilza di interventi di personalità mai sfiorate dal minimo dubbio sull’eventualità che il divo Giulio possa anche essere corresponsabile di momenti oscuri della storia della Repubblica. Contro questa Chiesa troppe volte strabica, fredda, con la testa rivolta dall’altra parte, a Genova hanno urlato “vergogna”. La stessa Chiesa che ieri ha beatificato come martire di mafia padre Puglisi, ma che con il cardinale Ruffini proclamava nel dopoguerra che la “mafia non esiste”. La stessa che fece mettere in sordina a Giovanni Paolo II, durante la sua prima visita a Palermo nel 1982, il tema della trinità di malaffare, malapolitica, criminalità organizzata. (E ci vorranno undici anni perché nel 1993 Wojtyla lanciasse il suo grande anatema contro i mafiosi ad Agrigento).
C’È UNA CHIESA istituzione, che non vuole capire nemmeno cosa è in gioco adesso al referendum di Bologna. Non si tratta di negare un finanziamento, se e quando sia utile sostenere un istituto privato (confessionale o meno). Non si tratta di avversione di principio agli istituti religiosi. È semplicemente un riflesso di difesa per uno Stato allo stremo e un moto di rivolta contro la pretesa dell’istituzione ecclesiastica di mungere soldi allo Stato in ogni occasione. E l’otto per mille. E il conteggio truffaldino per accaparrarsi le somme anche di chi non “vota” per l’otto per mille. E i soldi agli oratori (quando già c’è otto per mille). E i soldi per l’edilizia ecclesiastica (quando già c’è l’otto per mille). E i soldi alle private (quando il miliardo di euro dell’otto per mille potrebbe coprire le loro necessità). E le sovvenzioni con la legge mille-mance .
Papa Francesco è diventato di colpo così popolare perché lascia intravvedere una Chiesa, che diventa più povera sul serio e non è arcigna con chi canta fuori dal coro. Ma finché il mutamento di pelle non sarà avvenuto, le contestazioni segnaleranno la malattia non guarita.

il Fatto 26.5.13
Bagnasco “salvato” da Lilli dà la comunione a Luxuria
La trans: “Guardandolo negli occhi ho capito che potevo”
di Elena Rosselli


Lo sguardo gelido fisso sul microfono. Gli occhi del cardinale Bagnasco sembrano chiusi e invece sono solo abbassati. La bocca è stretta in una smorfia. Non si scompone. Anche se migliaia di persone, accalcate fuori dalla chiesa di Nostra Signora del Carmine a Genova per l’ultimo saluto a don Gallo, lo stanno fischiando. I ripetitori hanno appena portato all’esterno una frase che colpisce i presenti dritta nello stomaco come un cazzotto. “Nel 1964 don Andrea bussò alla porta dell’arcivescovo di Genova, il cardinale Giuseppe Siri – che ha sempre considerato un padre e un benefattore – per chiedere di essere accolto come sacerdote diocesano. E così avvenne”. “Vergogna, bugiardo, vattene”. Quello che all’inizio dell’omelia è ancor meno del tipico mugugno genovese, dopo il riferimento a Siri diventa un vero coro di sdegno.
IL PUNTO della contesa risale al 1970 quando l’allora arcivescovo Siri, molto conservatore, allontana don Gallo dal Carmine. Le sue prediche hanno contenuti “non religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti”, il suo modo di fare è troppo sopra le righe. “La predicazione di Andrea irritava una parte di fedeli e preoccupava i teologi della Curia, a cominciare dallo stesso cardinale” si legge sulla biografia ufficiale di don Gallo, sul sito della comunità di San Benedetto, il luogo che accoglierà Andrea dopo la “cacciata” e dove lui rimarrà fino alla fine, per 43 anni.
Bagnasco potrebbe evitare quel passaggio, sorvolare sul rapporto tra il “Gallo” e Siri. E invece no. Non solo lo rievoca, ma ne dà una lettura precisa, in verità già accennata il giorno prima: “Ho letto – racconta il presidente della Cei – che il cardinale avrebbe emarginato don Gallo, lo avrebbe punito, che sarebbe stato sulla strada perché abbandonato: è tutto falso. Don Gallo era viceparroco alla chiesa del Carmine e poi è stato spostato alla parrocchia di San Benedetto al Porto, dove era parroco don Federico, e con lui ha impiantato e fatto crescere la comunità di accoglienza”. Insomma, nessuno scontro di idee, ma semplice avvicendamento. Bagnasco ci crede e lo ripete davanti al popolo del Gallo. Che si rivolta e fischia.
Interviene “la Lilli”. Liliana Zaccarelli, 73 anni, storica assistente del prete genovese, chiede rispetto “per il vescovo”. Sale a fatica i due gradini che la separano dall’altare, la voce rotta, le stampelle a sorreggere il passo incerto. “Se vogliamo bene al Gallo, impariamo a rispettare tutte le voci, come lui avrebbe ascoltato noi”. Dentro alla chiesa gli applausi, fuori, ancora la ribellione. I ragazzi della comunità e i lavoratori del porto continuano a cantare “Bella ciao”, a scandire cori – “Andrea uno di noi” – qualche fischio osa coprire la voce della Lilli, un’autorità alla pari del Don. Sembra che nemmeno le sue parole siano sufficienti a stemperare la rabbia di chi è venuto a salutare Andrea.
IL CARDINALE Bagnasco sorride, o come fa notare chi gli è vicino, ha uno sguardo “sereno e appagato”. Dalla sommità della chiesa non può sentire le voci della piazza. “Se ne andrà dal retro, come è venuto”, dice una signora con i capelli scuri aggrappata alle transenne fuori dal sagrato. “Già, non avrà il coraggio di mostrare la sua faccia qui fuori”, commenta la donna a fianco. E in effetti nessuno vedrà uscire il cardinale Bagnasco, scortato alla macchina dall’ingresso posteriore. Al suo posto, a fianco alla bara un altro prete degli ultimi, don Luigi Ciotti. Non fa in tempo ad accompagnare il feretro all’auto che il fondatore di Libera già si è mescolato con la folla lasciando il microfono al ricordo degli amici: il sindaco Marco Doria, ultimo miracolo politico del Gallo, Moni Ovadia, eletto “consigliere spirituale” del Don benché ebreo. E i suoi “drogati”, come li chiamava lui.
C’è Vladimir Luxuria: “Grazie don Gallo di averci fatto sentire tutte noi creature transgender figlie di Dio, volute da Dio e amate da Dio”. Il mascara sciolto dalle lacrime. I lineamenti induriti dal dolore. Ma negli occhi un fondo di gioia. “Non facevo la comunione da quando avevo 17 anni, ma ho guardato Bagnasco negli occhi e ho sentito che era d’accordo anche lui”. Un piccolo miracolo. Ripetuto con l’altra trans Regina pochi attimi dopo. Nel nome di don Gallo.

il Fatto 26.5.13
Ilva, si dimettono i vertici la famiglia Riva resta sola
La grande beffa
Mentre Taranto soffocava, loro accumulavano un tesoro
Taranto
di Fra. Cas. e Ant. Mas.


Per i pm è una fucina di acciaio e reati. Per il governo è l’ennesima soluzione da trovare. L’ultima di una lunga serie, che inizia nel 1994, quando l’Iri gestita da Romano Prodi svende l’ex Italsider alla famiglia Riva. E continua fino cinque mesi fa, quando il governo Monti emana il decreto Salva Ilva, frapponendosi come uno scudo tra i Riva e la magistratura. Gli interventi dello Stato sono stati molti, e sempre vantaggiosi per i Riva, ma loro cos’hanno dato in cambio? Stando alle accuse, la famiglia ha incassato vantaggi e restituito trucchi e omissioni. In altre parole: reati gravissimi. Eppure, proprio grazie allo Stato, avevano concluso il loro più grande affare.
L’ITALSIDER NEL 1993 PRODUCE 12 milioni di tonnellate di acciaio all’anno e conta debiti per 7mila miliardi di lire. Romano Prodi - che sta privatizzando l’Iri - decide di dismetterla: crea la “Ilva Laminati piani”. E lascia i debiti nella vecchia Italsider che diventa una bad company da mettere in liquidazione. L’Ilva ripulita da Prodi è un gioiello: fattura in media 100 miliardi di lire al mese. I Riva se l’aggiudicano per 1.649 miliardi. Con l’Ilva acquistano anche debiti finanziari - per 1.500 miliardi e saliamo, quindi, a circa 3mila miliardi - ma la fabbrica vanta un fatturato di 9mila miliardi l’anno. L’acciaieria, per i Riva, è un affare che si ripaga quasi all’istante. Il gruppo chiede allo Stato, senza ottenerlo, anche uno sconto di 800 miliardi di lire perché l’industria è troppo inquinante: è necessario investire per ammodernarla. Quel che conta però – come racconta Gianni Dragoni nel libro Ilva. Il padrone delle ferriere – è che la società Riva Fire, finanziaria che controlla l’Ilva – s’arricchisce in pochi mesi: passa dall’utile (consolidato) di 157 miliardi del 1994, ai 2.240 miliardi del 1995. L’utile netto sale da 112 a 1.842 miliardi di lire. Quando il gruppo Ilva entra nella Riva Fire, i bilanci di quest’ultima, in soli 12 mesi, schizzano in verticale.
Perché riepiloghiamo una storia di vent’anni fa? Per collegarla alle indagini di questi giorni. A distanza di due decenni, ecco come il gruppo Riva ha ripagato lo Stato: portando i suoi soldi all’estero. Lo spiega la procura di Milano che, pochi giorni fa, ha sequestrato al gruppo Riva 1 miliardo e 200 milioni di euro. Gli atti parlano chiaro: è stato “trasferito all’estero denaro”, e con esso “strumenti finanziari”, finiti in 8 società off shore. Il tutto è riconducibile a “tre operazioni di partecipazioni industriali conseguenti all’acquisizione dall’Iri”. Avete letto bene: tutte conseguenti all’acquisizione dell’Iri”. Soldi che finiscono in otto trust, fittiziamente intestati, che agevoleranno il “riciclaggio e il reimpiego” del denaro.
MA NON È FINITA QUI: quando il governo Berlusconi, nel 2009, vara il decreto sullo scudo fiscale, per il rientro agevolato dei capitali esteri, gli otto trust legati ai Riva fanno rientrare il tesoro. C’è un piccolo dettaglio: ne approfittano in modo illegale. I beni erano intestati ad Adriano Riva, che è però cittadino canadese e, quindi, non può usufruire dello scudo fiscale. Così li intestano fittiziamente a Emilio Riva che, per questo, è anch’egli accusato di trasferimento fraudolento di valori. Nel frattempo – sempre con il governo Berlusconi – entrano nella cordata che rileva Alitalia: anche in questo caso, come per Italsider, lo Stato crea una bad company e affida la parte sana ai privati. Paradosso: negli atti di Milano si legge che, due mesi fa, i commercialisti dei Riva “trasferivano parte dei soldi di Orion Trust” [una delle otto società off shore, ndr] per “sottoscrivere un prestito obbligazionario”. Emesso da chi? “Da Alitalia per il valore di 16 milioni di euro”.
Lasciamo perdere il profilo finanziario e passiamo a quello industriale: negli atti della procura di Taranto si contano ben 34 omissioni, tutte relative alla sicurezza e all’ambiente, e il modello organizzativo implementato dai Riva è considerato una fucina di reati. Non solo: è una “concausa” della morte di tre operai. E il disastro ambientale? Oltre 100 decessi causati dall’emissione di polveri sottili e 2mila capi di bestiame abbattuti per la diossina. Ricordate che i Riva avevano chiesto allo Stato uno sconto di 800 miliardi di lire perché ritenevano la fabbrica troppo inquinante e il suo ammodernamento eccessivamente oneroso? Per anni trattano con lo Stato sui protocolli d’intesa, che la magistratura definisce “una colossale presa in giro”. Il risanamento operato dai Riva, in realtà, è considerato dai pm “un’opera di maquillage”.
Dai protocolli d’intesa si passa all’Autorizzazione integrata ambientale del 2011: un avvocato dell’Ilva, intercettato con Fabio Riva, dice “l’abbiamo scritta noi”. Nonostante l’abbiano scritta loro, pochi mesi dopo il governo Monti decide di modificarla: concede una nuova Aia nell’ottobre 2012. Niente da fare: “Allo stato – scrive la procura di Taranto – non si ha evidenza di alcuna iniziativa intrapresa dalla società al fine di ottemperare le disposizioni”. Il26 luglio 2012, il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri sequestra l’area a caldo dell’acciaieria. Il 26 novembre sequestra 1,8 milioni di tonnellate di acciaio. L’Ilva minaccia la chiusura e Taranto sprofonda nel panico.
LO STATO ANCORA una volta accorre in soccorso dei Riva: il governo Monti – esautorando l’autonomia della magistratura – emana la legge Salva Ilva che consente al gruppo Riva di continuare a produrre e vendere acciaio. A scapito della salute di operai e cittadini. Due giorni fa l’ordine di sequestrare alla Riva Fire 8,1 miliardi di euro necessari “per effettuare tutte le opere di risanamento ambientale”. Ieri il cda dell’Ilva, per tutta risposta, annuncia le sue dimissioni. Obbligando lo Stato - che nel 1995 affidò ai Riva il ricco affare Ilva – a intervenire ancora in loro aiuto.

il Fatto 26.5.13
Missioni, il conto è più di 3 milioni al giorno
Afghanistan, sud Libano, Kosovo e Corno d’Africa: quanto costano i nostri contingenti
di Roberta Zunini


In teoria, ma anche in pratica, visto che si tratta di una questione non esclusivamente nazionale e, pertanto, non si può far attendere per settimane gli alleati o la comunità internazionale, a giugno si riproporrà il problema del rifinanziamento delle missioni all’estero. La prima tranche di quasi 1 miliardo di euro, stanziata nel febbraio scorso a Camere sciolte, assicura infatti le spese fino al 30 settembre. La copertura finanziaria da stabilire e reperire, riguarda dunque gli ultimi 3 mesi dell’anno. In quanto nazione considerata dal resto del mondo “abbiente”, l’Italia paga sia le spese logistiche e gli stipendi del personale militare, sia quelle vive per supportare i propri contingenti impegnati in teatri di crisi, pur all’interno di missioni Nato e Onu. “L’ammontare delle spese vive non è compreso nei numeri che vengono divulgati. Questo significa che la missione Isaf, non ci costa 2 milioni di euro al giorno ma circa 2,5 perché dobbiamo sommare anche quest’altra voce finanziaria”, ci spiega Gino Strada, che sperimenta tutti i giorni cosa significhi mantenere strutture impegnative in ambienti difficili sotto tutti gli aspetti. “Quando ci troviamo in ambito Nato, la benzina per i mezzi, per esempio la paga l’organizzazione, per il resto è lo Stato italiano, cioè noi contribuenti, a dover tirare fuori i soldi”, dice Pietro Battacchi, direttore della rivista italiana Difesa.
Attualmente le nostre forze armate sono impegnate soprattutto in Afghanistan e nel sud del Libano. Nel paese asiatico sono ancora presenti 3 mila uomini, appartenenti all’esercito, all’aeronautica e alla marina. Ci costa per l’appunto più di 2 milioni al giorno, la cifra complessiva stanziata fino al 30 settembre è di 426 milioni di euro. Il ritiro definitivo dei nostri militari e la conclusione della missione Nato sono previsti fra 18 mesi.
NON È PREVISTO alcun ritiro invece dei nostri mille uomini in divisa dal confine tra Libano e Israele. Anzi, vista la situazione sempre più critica del paese dei Cedri, sul punto di essere coinvolto nella guerra civile siriana, a meno di un ravvedimento piuttosto improbabile del movimento islamico libanese sciita Hezbollah – alleato del presidente siriano Assad e nemico giurato di Israele –, le nostre forze in campo potrebbero anche aumentare. È stato infatti riconosciuto sia dal partito integralista islamico, che di fatto governa il Libano sia da Israele, che il contingente italiano è la spina dorsale della missione Unifil (Onu). Da febbraio a settembre, la cifra stanziata dal decreto missioni per il proseguimento del nostro impegno in Libano è di 118 milioni di euro. L’altro impegno economicamente piuttosto gravoso è la missione Kfor in Kosovo. Per tenere i nostri 465 soldati osservatori in ambito Nato su questo terreno tuttora instabile, verranno utilizzati 53 milioni di euro. Ce ne vogliono 33 per tenere impegnate 4 nostre navi e circa 600 marinai dispiegati nel Corno d’Africa in funzione anti pirateria. La missione Atalanta è sotto l’ombrello dell’Unione europea, Ocean field è targata Nato. Sempre rivolto al miglioramento della sicurezza del Corno d’Africa, precisamente alla Somalia, è il lavoro di addestramento di una quarantina di addestratori italiani dell’esercito somalo. Il costo dell’operazione è di 7 milioni di euro. All’Aise, la nostra intelligence per l’estero, sono stati dati, tramite il rifinanziamento, 10 milioni di euro. I nostri 007 dovrebbero garantire la sicurezza di chi deve garantire la sicurezza. E non è un gioco di parole, piuttosto di prestigio, per far uscire i soldi dalle nostre tasche prosciugate.

Corriere 26.5.13
Un miliardo di euro per il ponte sullo Stretto che non si farà mai
di Sergio Rizzo


ROMA - Correva l'anno 1980: l'Italia era sconvolta dalle stragi di Ustica e di Bologna e New York dall'assassinio di John Lennon, mentre a Danzica nasceva Solidarnosc e Ronald Reagan entrava alla Casa Bianca. La Sir di Nino Rovelli, detto il Clark Gable della Brianza, finiva in liquidazione e la società Stretto di Messina non era neppure in fasce. Trentatré anni dopo anche la concessionaria del ponte subisce la medesima sorte. E la liquidazione della Sir va avanti.
Due casi certo non paragonabili. Ma con la durata delle liquidazioni in questo Paese l'unica cosa che non deve temere Vincenzo Fortunato è di doversi cercare un'altra occupazione da qui alla pensione. L'ex capo di gabinetto del ministero dell'Economia è stato nominato liquidatore della Stretto di Messina, società controllata dall'Anas e fino a ieri incaricata di realizzare il ponte sospeso fra Scilla e Cariddi, il 22 aprile: sei giorni prima che il governo di Mario Monti uscisse definitivamente di scena. Consapevole che passerà alla storia.
La vicenda del ponte sullo stretto è senza precedenti e, confidiamo, irripetibile. Da qualunque punto di vista la si osservi, tanto da quello dei favorevoli quanto da quello dei contrari, il risultato è lo stesso. Si tratta di una sconcertante dimostrazione di superficialità, incapacità decisionale e dilettantismo politico. Quello che è peggio, con i soldi dei cittadini. Il conto di questa insensata avventura raggiungerà cifre inimmaginabili. Il ponte che non sarà mai fatto potrà costare ai contribuenti anche più di un miliardo di euro. Ai 383 milioni spesi per il progetto e il mantenimento della società Stretto di Messina si deve aggiungere il costo dell'inevitabile contenzioso, che potrebbe avere sviluppi sorprendenti. Il consorzio Eurolink, general contractor dell'opera guidato dalla italiana Impregilo, ha già invocato un risarcimento danni di 700 milioni più gli interessi.
E le implicazioni internazionali? Per un Paese nel quale gli investimenti esteri già arrivano con il contagocce, quanto accaduto non è una gran pubblicità. Di certo non la potranno fare i partner esteri del consorzio Eurolink, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries. Rimaste letteralmente di sasso, a veder evaporare per una pillola avvelenata messa in una legge dal governo italiano un contratto da alcuni miliardi di euro firmato con il governo italiano. Gli spagnoli hanno espresso il loro disappunto tramite l'ambasciata, non prima di aver presentato un bel ricorso all'Unione Europea.
È stata raccontata mille volte la lunga storia del ponte, insieme alle promesse, spesso fatue, di politici di ogni colore che l'hanno accompagnata. Ma con l'ultimo capitolo si è andati ben oltre. Eurolink firma il contratto nel 2006: premier è Silvio Berlusconi, ma siamo alla vigilia del ritorno al governo di Romano Prodi. Che blocca tutto. La Stretto di Messina vede la liquidazione ma il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro si oppone. Dice che si rischia un contenzioso infinito e spedisce alla concessionaria una lettera nella quale indica che il personale dovrà essere ridotto al lumicino. Sette persone in tutto. Nel 2008 ecco ancora il Cavaliere e il successore di Di Pietro, Altero Matteoli, scrive alla società: «Ripartiamo di corsa». Ci sono i soldi e i tecnici si rimettono al lavoro. Il progetto definitivo è pronto a dicembre 2010, senza un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia. A quel punto, però, succede qualcosa. Le trattative con gli enti locali e i lavori preparatori procedono, è vero. Ma uno strano disinteresse intorno a quell'opera si percepisce anche nel governo del Cavaliere. I segnali sono inequivocabili: si arriva al punto che una trattativa con i cinesi viene lasciata inspiegabilmente cadere.
La mazzata arriva a ottobre 2011 con una mozione dei dipietristi che chiede di sopprimere i finanziamenti pubblici. Inspiegabilmente passa con 284 favorevoli e un solo contrario. Oltre allo scontato sì dei leghisti, c'è anche quello del governo per il tramite del sottosegretario Aurelio Misiti, poi sconfessato dal ministro Matteoli. Il quale evidentemente non sa che i suoi parlamentari si sono astenuti in massa, ma qualcuno ha anche votato a favore. Per esempio, il coordinatore del Pdl Denis Verdini, i ministri Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, nonché uno stuolo di sottosegretari. Arriva il governo di Mario Monti e la faccenda si trascina stancamente, insieme a una nuova valutazione d'impatto ambientale richiesta dal ministero competente che durerà ben 18 mesi, contro i 4 previsti dalla legge obiettivo. Uscirà dai cassetti a marzo 2013, quando i giochi ormai sono fatti.
Perché nel frattempo, il 2 novembre 2012, ricorrenza dei morti, spunta un decreto che ridefinisce il percorso di approvazione dell'opera, stabilendo che entro il primo marzo 2013 il general contractor sottoscriva un altro cosiddetto «atto aggiuntivo» impegnandosi con quello a rinunciare agli adeguamenti economici legati all'inflazione fino alla delibera definitiva del Cipe e anche a eventuali risarcimenti nel caso in cui l'opera venga cassata. Con lo Stato pronto a riconoscere, in caso di mancata firma, soltanto i costi progettuali maggiorati del 10 per cento. Il 12 novembre Eurolink contesta per iscritto la legittimità del decreto, comunicando di voler recedere dal contratto. E partono le carte bollate.
La vera domanda da porsi dopo tutto questo? Se, indipendentemente dal tempo e dai soldi necessari, il nostro Paese sia ancora in grado di realizzare opere pubbliche tanto impegnative. Quesito ben più importante di quello che per decenni ha diviso l'Italia. Cioè se quel ponte si debba fare oppure no.

La Stampa 26.5.13
Precari, stipendi più bassi del 25%
L’anno scorso gli atipici hanno superato la soglia dei 2 milioni e ottocentomila
Il gap retributivo è quasi esattamente uguale a quello fra italiani e stranieri
I dati Istat: busta media alleggerita di 355 euro. Fra gli svantaggi, non ci sono scatti di anzianità
di Luigi Grassia


Incertezza. La condizione dei precari assomma lo svantaggio nell’entità degli stipendi e la mancanza di garanzie per il futuro

Sempre più precario e sempre meno pagato. È così che sta diventando il lavoro in Italia, dove lo stipendio di un dipendente a termine si ferma in media a poco più di mille euro, inferiore di circa il 25% a quello di chi ha un posto fisso. A certificarlo sono i numeri raccolti dall’Istat nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese.
Nel 2012, dice il rapporto, la retribuzione mensile netta di chi ha un contratto a tempo determinato è stata di 355 euro inferiore alla media: uno dei tanti «contro» dei rapporti di lavoro flessibili, su cui poi incombe anche l’incertezza per il futuro. Che le buste paga dei precari siano più leggere non è scontato; anzi, secondo logica la precarietà potrebbe essere compensata da qualcosa di più un busta (all’estero succede).
Il confronto dell’Istituto di statistica è limitato ai dipendenti full time, senza contemplare i rapporti ancora più deboli come i part time. Ma già così per il lavoratore a scadenza la perdita è di un quarto dello stipendio che nel 2012 si è fermato a 1.070 euro medi.
Il divario a svantaggio dei precari è dovuto a più ragioni, anche se ormai può essere considerato una costante. In parte la distanza deriva da aspetti legati all’età o alla professione. Ma l’Istat osserva che «le differenze permangono anche a parità di caratteristiche» e aumentano fino ad arrivare a quasi 400 euro «al crescere dell’anzianità lavorativa», visto che il tempo determinato non prevede scatti di anzianità.
Resta vero che in tempi di crisi pur di trovare un impiego si è disposti ad accettare retribuzioni più basse, basti pensare che i cosiddetti atipici nel 2012 hanno superato quota 2 milioni 800 mila. Il problema è che, spiega sempre l’Istat, «la crescita dei lavoratori a tempi determinato e dei collaboratori si accompagna a una diminuzione della probabilità di transizione verso lavori standard e a un aumento delle transizioni verso la disoccupazione». In parole povere chi lascia il lavoro precario finisce più facilmente disoccupato che occupato a tempo pieno.
È interessante notare che il gap che separa i dipendenti a tempo determinato da quelli con posto fisso sia quasi lo stesso che passa tra un lavoratore straniero e uno italiano (-25,8%, 968 euro a fronte di 1.304 euro). La retribuzione mensile netta per gli stranieri - prosegue il Rapporto - è diminuita a confronto con il 2011, ma non è andata molto meglio agli italiani, che l’hanno aumentata di soli 4 euro.

La Stampa 26.5.13
I prof? Pagati meno dei precari
Per colpa del blocco degli stipendi. E l'Anief annuncia ricorsi
di Flavia Amabile

qui

il Fatto 26.5.13
La strage di Firenze del 1993
Oggi la commemorazione in piazza
La presidente delle vittime dei familiari Giovanna Maggiani Chelli:
“L’inciucio non aiuta la ricerca della verità”
di Giuseppe Lo Bianco


Il messaggio forte di questo ventennale? Sarebbe stata la presenza in via dei Georgofili dei quattro sindaci delle città martoriate dalle stragi: Milano, Firenze, Roma e Palermo. Ma Pisapia ha detto no, dalla segreteria di Alemanno attendo ancora una risposta e da Renzi è giunto un silenzio assordante. Solo Orlando si era detto disponibile: poi, travolto dai suoi impegni e forse condizionato dall’assenza degli altri, mi ha fatto sapere che non verrà. Ma con noi ci saranno tutti i volontari intervenuti la notte del 27 maggio di vent’anni fa”. Da quella notte Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione delle vittime di via dei Georgofili, continua da sola a invocare una verità impossibile per quella strage che segnò la svolta della fase di attacco allo Stato del ’93, senza fare sconti a nessuno: politici e magistrati. E dopo vent’anni non è per nulla stanca né rassegnata.
Delusa dall’assenza dei sindaci?
Abbastanza, era un’idea di Gabriele Chelazzi e ogni anno abbiamo sempre provato a portarli, senza riuscirci. Pensavo che il ventennale fosse l’occasione buona, ma sento molta atonia morale in giro, è come se tutti volessero prendere le distanze dalla commemorazione.
Nel suo blog ha scritto: “Pare che in una sorta di pacificazione nazionale le vittime di via dei Georgofili e quelle che la mafia corleonese stragista ha massacrato vengano gettate via”. Che voleva dire?
Tutti scappano dalla verità sulle stragi, soprattutto adesso con un governo Pd-Pdl di grande normalizzazione. Ma è un clima di pacificazione generale realizzato sulla pelle dei nostri morti e sulle sofferenze dei feriti.
Torniamo a domani sera. Il comune di Firenze ha organizzato i girotondi...
E a noi ci sta bene, ma volevamo che Renzi partecipasse al raduno dei sindaci. Gli ho mandato una lettera a marzo per invitarlo, ma non ho mai avuto risposta. Ci sarà invece il presidente del Senato Pietro Grasso e il ministro della Pubblica Istruzione Maria Chiara Carrozza.
Non teme la retorica di Stato?
Il rischio c’è. Per scongiurarlo consegneremo una targa a tutti coloro che sono intervenuti quella notte: volontari, medici, infermieri, agenti, carabinieri, vigili del fuoco, finanzieri, le persone che ci hanno materialmente aiutato e che ancora oggi ci sono vicine.
Domani è anche la data d’inizio a Palermo del processo sulla trattativa mafia-Stato.
Ho notato la coincidenza, non so se è stata scelta simbolicamente dal giudice Morosini o se è stato un lapsus freudiano. Ma a noi sta bene così. Ci costituiremo parte civile, a Palermo verrà l’avvocato Ammannato, io verrò il giorno dopo per costituire l’associazione anche nello stralcio all’ex ministro Mannino.
In molti continuano a negare l’esistenza della trattativa.
Ma se è stato il ministro Conso ad ammettere di avere revocato i 41 bis nel novembre ’93 per fermare le stragi. Dicono che non erano mafiosi, ma anche se fossero stati balordi, anche se fosse stato il gatto di Riina, perchè gli annulli il 41 bis se solo pochi mesi prima ha graffiato in quel modo a Firenze, Roma e Milano?
Sui mandanti occulti lei che idea s’è fatta?
Per vent’anni hanno sempre trovato due risposte alle piste oltre la mafia, una portava a sinistra, l’altra destra, una rossa, l’altra nera. Fino all’altra sera Veltroni diceva che le stragi sono state fatte per fermare un cambiamento nel Paese. Io non ci credo, non ci ho mai creduto, a mio avviso dietro ci sono interessi economici criminali enormi messi in discussione l’anno prima, con Mani Pulite. La smettano di prendere in giro il Paese, certe volte penso che non aspettino altro che moriamo tutti per metterci una pietra sopra.
Chi può raggiungere oggi la verità su quella stagione stragi-sta? I magistrati o una commissione d’inchiesta?
Se fossimo un paese normale avrei fiducia in entrambi. Ma siamo il Paese di Portella della Ginestra e allora bisogna che rinascano magistrati come Chelazzi; passi in avanti della magistratura fino ad oggi non ne abbiamo visti. E in queste condizioni una commissione parlamentare non ci interessa.

il Fatto 26.5.13
Guerra allo Stato Così a Firenze arrivarono le stragi
Via dei Georgofili: dopo vent’anni nessun mandante
L’anniversario dell’attentato e i buchi neri delle indagini
I messaggi e le “menti raffinatissime”
Nel 1993 il tritolo sbarca in continente ma ancora oggi non sappiamo chi lo ha portato
di Gianni Barbacetto


Un boato sconvolse quella notte di maggio. Erano passati pochi minuti dall’una, quando la Torre dei Pulci crollò. Attorno, l’esplosione danneggiò la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, la chiesa dei Santi Stefano e Cecilia, il museo della Scienza e della tecnica. Era il 27 maggio 1993. A Firenze, sotto le macerie della Torre, sede dell’Accademia dei Georgofili, restarono i corpi senza vita dei custodi, Fabrizio Nencioni, 39 anni, e sua moglie Angela Fiume, 36. Morte anche le loro figlie Nadia, 9 anni, e Caterina, che aveva 50 giorni. Le fiamme si propagarono in un edificio vicino, in cui morì Dario Capolicchio, 22 anni, studente. Altre 48 persone restarono ferite. Un quarto delle opere d’arte degli Uffizi furono distrutte o danneggiate: Giotto, Tiziano, Vasari, Bernini, Rubens, Reni, Sebastiano del Piombo, Gaddi, Van Der Weyden.
Un’autobomba. Un Fiorino Fiat imbottito di esplosivo. Nessuna rivendicazione attendibile. L’opinione pubblica è smarrita, fatica a comprendere che cosa sia successo e perché. Chi ha acceso la miccia? Nei giorni seguenti cominciano a circolare ipotesi fantasiose e disparate: narcos colombiani, fondamentalisti islamici, servizi segreti israeliani... Il primo obiettivo degli attentatori viene raggiunto: la confusione cresce, la paura si diffonde, senza che, per il momento, venga indicata Cosa nostra come responsabile della strage. Intanto, chi deve capire ha capito. Sì, perché quella che scoppia a Firenze in via dei Georgofili il 27 maggio è una bomba-messaggio, come le altre esplose in quel drammatico 1993. Il 14 maggio, in via Fauro a Roma, un’autobomba provoca 21 feriti, obiettivo mancato il giornalista Maurizio Costanzo. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio esplodono poi, quasi contemporaneamente, tre ordigni: il primo, a Milano, uccide cinque persone e distrugge il Padiglione d’arte contemporanea di via Palestro; il secondo, a Roma, danneggia la basilica di San Giovanni in Laterano e il Palazzo Lateranense, provocando 14 feriti; il terzo, ancora a Roma, procura gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro e ferisce tre persone.
La lettera Campagna di terrore
Bombe-messaggio: non sono destinate a uccidere. I morti sono messi in conto, certo, e a Firenze (come a Milano) ci sono. Ma l’obiettivo delle menti raffinatissime che pianificano le stragi è innanzitutto lanciare una campagna di paura, un segnale di terrore, un avvertimento: guardate che cosa siamo in grado di fare; e la volta prossima potrà essere peggio. I bersagli degli stragisti sono musei, opere d’arte, luoghi di culto, monumenti importanti per la cultura, la storia d’Italia, il turismo. Messaggi perché chi deve capire capisca. Minacce per aprire un dialogo, una trattativa. Il 30 luglio 1993 alle redazioni del Messaggero e del Corriere della sera arriva un messaggio che nel caos del momento, con decine di anonimi in circolazione, passa quasi inosservato: “Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno e in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. Ps: Garantiamo che saranno a centinaia”. Ci vorranno quattro anni per scoprire chi spedì quel messaggio: Gaspare Spatuzza, uomo di Cosa nostra, che lo imbucò a Roma prima dello scoppio delle bombe del 27 luglio.
Le indagini s’indirizzano verso la mafia siciliana. I collaboratori di giustizia aprono qualche pista. I processi individuano alcuni dei responsabili. Nel giugno 1996, all’udienza preliminare, il giudice dice che la strage di Firenze è stata opera dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra, ma che dietro la strategia stragista si intravvedono “menti più fini” di quelle mafiose. Il dibattimento si apre il 12 novembre 1996. Il 6 giugno 1998 la sentenza di primo grado commina 14 ergastoli ai boss, tra cui Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Nel gennaio 2000 un processo stralcio aggiunge due ergastoli a Totò Riina e a Giuseppe Graviano. Nel maggio 2002 la Cassazione conferma 15 ergastoli. Nel 2003, condanna in appello a 21 anni di carcere per Antonino Messana: è l’uomo nella cui abitazione di Prato viene imbottito di tritolo il Fiorino usato per l’attentato. Più recentemente, arrivano le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia dei Graviano. Viene condannato all’ergastolo il pescatore Cosimo D’Amato, accusato di aver fornito il tritolo per le stragi. E si sta celebrando l’appello per Francesco Tagliavia, il boss che ha organizzato il gruppo di fuoco per la strage. Dunque i mandanti e gli esecutori sono uomini di Cosa nostra che avevano deliberato “una sorta di stato di guerra contro l’Italia”. “Fare la guerra per poi fare la pace”: questo era il programma di Riina nella stagione stragista 1992-93. Avviata dopo che Cosa nostra aveva subito un duro colpo: il 30 gennaio 1992 la Cassazione aveva confermato gli ergastoli inflitti ai boss nel maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone. L’organizzazione mafiosa lo ritiene un tradimento degli impegni assunti dai suoi vecchi referenti politici dentro la Dc e passa all’attacco: il 12 marzo 1992 uccide Salvo Lima, proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia; poi elimina i suoi nemici mortali, Giovanni Falcone (23 maggio) e Paolo Borsellino (19 luglio) ; infine trasferisce, per la prima volta nella sua storia, la guerra “in Continente”, a Firenze, a Roma, a Milano. Dichiara guerra allo Stato. Per avviare una trattativa, per individuare nuovi referenti politici. Del resto, nel 1992-93 era crollato il sistema politico della prima Repubblica: le indagini di Mani pulite avevano avviato una grande trasformazione, in politica stavano emergendo nuovi partiti, mentre le vecchie sigle (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) uscivano di scena. Riina stila un “papello” di richieste allo Stato, prima fra tutte la revoca del carcere duro imposto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, poi avvia una trattativa con uomini delle istituzioni, sotto la minaccia degli attentati.
A pianificare le stragi del 1993, dicono le indagini e confermano i processi, è la Commissione di Cosa nostra, in prima fila Leoluca Bagarella e i fratelli Graviano. Sono loro i “mandanti di primo livello”. Ma “dietro le stragi ci sono mandanti a volto coperto”: così va ripetendo l’allora procuratore antimafia Piero Luigi Vigna.
A Firenze viene condotta un’indagine, riservatissima, a carico di due persone iscritte come “Autore 1” e “Autore 2”: sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Si chiude nel novembre 1998 con un’archiviazione in cui si afferma di non aver trovato elementi sufficienti per rinviarli a giudizio. Eppure, scrive il giudice, i due “soggetti di cui si tratta” hanno “intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista”. Trattativa e mandanti a volto coperto: su questo lavorano per anni gli investigatori e il pubblico ministero Gabriele Chelazzi. Più di un mafioso fa i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Tra questi, un uomo d’onore vicino a Giovanni Brusca, Giuseppe Monticciolo, il quale mette a verbale che le stragi del 1993 furono chieste a Cosa nostra da “Berlusconi e Dell’Utri, attraverso il fattore di Arcore, Vittorio Mangano”. Questi avrebbe indicato a Bagarella i raffinati obiettivi degli “attentati che volevano fatti Berlusconi e Dell’Utri”. I boss non sapevano neppure che cosa fossero gli Uffizi, spiega nel 2000 Monticciolo a Chelazzi, presenti l’allora procuratore di Palermo Pietro Grasso e il pm Vittorio Teresi. “Dell’Utri dice... che si dovevano fare... Dice: Allora... sapete arrivare anche a fare qualcos’altro, per esempio la strage degli Uffizi e via dicendo. E da lì Bagarella ordinò”.
Chelazzi mette sotto indagine anche un ex senatore democristiano, Vincenzo Inzerillo. E ascolta come testimone il prefetto Mario Mori, allora direttore del servizio segreto civile. Gli chiede di riferire sui rapporti intrattenuti dopo il 1992, quando era comandante del Ros carabinieri, con uomini vicini a Cosa nostra. Pochi giorni dopo, il 17 aprile 2003, muore stroncato da un infarto. Nella sua ultima lettera, destinata al procuratore di Firenze Ubaldo Nannucci, Chelazzi esprime tutta l’amarezza di un uomo lasciato solo a indagare su una vicenda in cui uomini delle istituzioni appaiono compromessi nella trattativa con i boss. Oggi, dopo tanti anni, sappiamo qualcosa di più sulla trattativa e sui mandanti a volto coperto. Per Mori, sotto processo a Palermo, il pm ha chiesto pochi giorni fa 9 anni di carcere, per il mancato arresto di Provenzano, individuato in un casolare il 31 ottobre 1995. “Mori ha aiutato Provenzano non perché colluso”, ha detto il pm Nino Di Matteo nella sua requisitoria, “ma perché ha adottato una scelta di politica criminale sciagurata, cioè quella di far prevalere le esigenze di mediazione tra Stato e mafia”.
Il segnale Stop al carcere duro
La trattativa, dunque. Quella che dopo le stragi del 1993 permette a Provenzano di restare libero per anni e che consente a qualche boss di sfuggire al carcere duro. L’ultimo botto progettato dagli stragisti doveva avvenire sul finire del 1993, allo stadio Olimpico di Roma, e fare molti morti. Non avviene. La stagione delle stragi si interrompe. In cambio, nel novembre di quell’anno di messaggi e minacce, lo Stato decide di dare un “segnale di distensione” ai boss: la revoca di 334 provvedimenti di 41 bis. Domani a Palermo, proprio nel ventesimo anniversario della strage di Firenze, si apre il processo sulla trattativa. Imputati, cinque uomini schierati sul fronte di Cosa nostra (Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca e il testimone Massimo Ciancimino) e cinque rappresentanti delle istituzioni (gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, l’ex senatore Dell’Utri e l’ex ministro Nicola Mancino).
Sui mandanti a volto coperto, però, molto è ancora da scoprire e soprattutto da provare. “Le indagini non devono e non possono chiudersi mai”, ha affermato ieri il procuratore della Repubblica di Firenze, Giuseppe Quattrocchi. “Si può nutrire il dubbio che non sia stata solo mafia. Su questa ipotesi, che è più di un dubbio, abbiamo lavorato, alla ricerca di prove o indizi gravi, precisi e concordanti. Sui mandanti, ma si possono chiamare ispiratori o agevolatori, siamo fermi”. E allora il procuratore lancia un appello: “Se qualcuno, dentro o fuori le carceri, dopo 20 anni, ha non dico la voglia ma la consapevolezza e la coscienza di poter dire qualcosa che non sappiamo, ce lo dica o anche soltanto ce lo faccia capire: ci basta”.

La Stampa 26.5.13
La verità nascosta
Al via il processo impossibile per la trattativa con Cosa Nostra
Domani la prima udienza: alla sbarra i vertici del Ros e i boss mafiosi
di Francesco La Licata


Un pezzo di Stato, da domani, sarà alla sbarra con l’accusa di aver intrapreso - nel 1992, tra l’attentato di Capaci e quello di via D’Amelio - una trattativa con Cosa nostra per far cessare la stagione stragista di Totò Riina.

Prende corpo, dunque, dal punto di vista giudiziario una storia, ingarbugliata e torbida, che in verità ha già dato luogo ad altri due processi scaturiti da altrettanti «buchi neri» delle indagini che hanno segnato la lotta alla mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il gen. Mario Mori, per dire l’evidenza più eclatante, è già stato assolto (insieme col mitico Sergio De Caprio, «capitan Ultimo») dall’accusa di aver «favorito» Totò Riina omettendo di perquisire il covo dove, il 15 gennaio del 1993, fu arrestato il capo di Cosa nostra. Certo, era un altro processo ed altro reato, ma la storia non era poi tanto diversa se è vero, come si legge nelle carte processuali di oggi, che la mancata perquisizione faceva parte di un accordo preciso con la mafia, accordo addirittura qualificato come «trattamento umano» nei confronti dei familiari dei boss. E soltanto venerdì scorso per lo stesso Mario Mori, dallo stesso pubblico ministero che domani sosterrà l’accusa, è stata chiesta una condanna a nove anni di carcere per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Ora tutti sanno che, nella mente di chi indaga, Provenzano non fu arrestato perchè terminale della trattativa e perché serviva libero per garantire la «linea morbida» di Cosa nostra. Per la terza volta, dunque, la trattativa passa per un tribunale, dopo essere stata evocata, soltanto evocata, sin dalle prime sentenze sulle stragi e precisamente quella di Firenze sugli attentati di Roma, Firenze e Milano. C’è da sperare che, questa volta, si riesca a scendere nel concreto e si possano delineare responsabilità specifiche degli imputati. Operazione finora risultata ardua anche per via di turbolenze politicoistituzionali che hanno allontanato la concentrazione dal mistero principale (la trattativa) per deviare verso vicende politiche «laterali» (le telefonate tra il sen. Mancino e il Quirinale) che - al di là delle valutazioni sui singoli atteggiamenti istituzionali - poca chiarezza hanno attribuito all’inchiesta sullo «scandaloso contatto».
Don Vito e i carabinieri del Ros Tutto, dunque, sarebbe cominciato col «contatto» fra i carabinieri del Ros di Mario Mori e di Antonio Subranni e l’ex sindaco mafioso, Vito Ciancimino. Il Ros ha ammesso il «contatto», ma lo ha giustificato col tentativo di convincere i boss a «rivedere» la strategia della violenza. Mediatore fu don Vito, che teneva i contatti con Provenzano (e quindi con Riina) attraverso il medico mafioso Antonino Cinà. Il figlio del sindaco, Massimo, diveniva da quel momento il «postino», distributore di «pizzini» e messaggi. Ma non ammettono, i carabinieri, l’esistenza del cosiddetto «papello», cioè la lista delle richieste di Cosa nostra, che conteneva, tra l’altro, l’abolizione dell’ergastolo, l’ammorbidimento del carcere duro e uno stop alla confisca dei beni. Il «papello», tuttavia, sembra esistere davvero, visto che il documento consegnato da Massimo Ciancimino viene ritenuto attendibile. E il tentativo di contattare la mafia sembra addirittura poter essere retrodatato, secondo l’accusa, alla data dell’omicidio dell’eurodeputato dc Salvo Lima (marzo 1992), quando la politica (Calogero Mannino con la «benedizione» del presidente Oscar Luigi Scalfaro e la collaborazione dell’allora Capo della Polizia, Vincenzo Parisi) comincia a temere una «mattanza» e cerca la mediazione con Cosa nostra. Per questo Mannino è sotto processo e, se fossero vivi, lo sarebbero anche Parisi e Scalfaro.
L’intesa saltata
Ma poi arrivò l’attentato a Borsellino, una seconda strage in soli 57 giorni. Addio «trattativa»? La tesi accusatoria è che salta il contatto con Vito Ciancimino (addirittura arrestato improvvisamente) per far posto non tanto ad un’altra trattativa di basso profilo (cioè con obiettivi minimali, come la revoca dei quattrocento 41 bis effettivamente avvenuta per mano del ministro Conso) quanto ad un vero e proprio «progetto politico». Ecco il perchè della presenza, al processo che inizia domani, dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, protagonista dell’avvio della «Seconda Repubblica», già condannato in altro dibattimento di secondo grado per associazione mafiosa e in attesa del giudizio della Cassazione. È il pentito Gaspare Spatuzza ad aver raccontato i presunti legami tra i fratelli Graviano, capimafia di Brancaccio, e Dell’Utri e Berlusconi. Dice il pentito: «Graviano diceva di avere il Paese nelle mani». Ecco, il processo dovrà stabilire l’esattezza di questa ipotesi: la trattativa originaria che si moltiplica strada facendo e si sdoppia fino a diventare realtà politica. Non sarà un’impresa facile.

Corriere 26.5.13
La quindicenne assassinata a Cosenza
a Graduatoria dell'orrore le Giovanissime più a rischio
di Anna Meldolesi


Se può esistere una graduatoria dell'orrore, l'uccisione della ragazza di Cosenza arriva a fondo scala. La giovane età della vittima e del presunto carnefice, la ferocia, l'inferno che inghiotte i sentimenti. Un femminicidio scolvolgente proprio perché tanto acerbo. Sarebbe di qualche sollievo pensare che chi uccide così sia un pazzo, che sia cresciuto in una famiglia violenta o abbia una storia criminale alle spalle. Sarebbe un modo per tracciare una linea netta tra noi e loro. Ma è davvero così? Un tempo i criminologi inquadravano i casi di femminicidio guardando alla provenienza sociale della vittima e concentrandosi sulla trasmissione intergenerazionale della violenza. Poi gli approcci psicanalitici hanno puntato i riflettori sulla donna, chiedendosi se chi resta vicino a un violento non lo faccia per masochismo. A cominciare dagli Anni '70 il femminismo ha cambiato ancora una volta il quadro. Le donne abusate sono diventate le vittime «di uomini ordinari che agiscono in un contesto sociale di autorità e dominio maschile». Dove sta la verità? Il Murder in Britain Study è un'investigazione di 3 anni su tutti i tipi di omicidio commessi nel Regno Unito e permette di confrontare centinaia di casi. Ci dice che il rischio di femminicidio è maggiore in giovane età, quando le relazioni sono più instabili e le pulsioni tumultuose. L'infanzia e la vita adulta degli autori dei femminicidi è più tormentata di quella della popolazione generale, ma è più convenzionale di quella degli altri assassini. In generale i primi presentano meno traumi familiari, meno problemi sociali, minor abuso di alcol rispetto ai secondi. Le casistiche internazionali indicano che circa metà delle donne uccise dal partner aveva già subito violenze da lui. Ma le violenze sono commesse anche da assassini con la fedina penale pulita. Chi sono questi uomini che non delinquevano e non picchiavano, ma un giorno, inaspettatamente, hanno ucciso, magari infierendo ripetutamente sul corpo? Ciò che sembra improvviso il più delle volte in realtà non lo è: c'è quasi sempre un passato di tensioni, litigi, idee oppressive su come dovrebbe comportarsi una fidanzata o una moglie. L'immagine di apparente normalità spesso torna a manifestarsi in carcere, dove molti tendono a comportarsi da detenuti modello. Questo non significa, purtroppo, che quando torneranno in libertà non costituiranno più un pericolo, se non vengono efficacemente trattati. Il 44% di loro, secondo lo studio inglese, non è pentito, il 60% non prova empatia nei confronti della vittima. Possono esserci o meno precedenti penali, ma secondo gli specialisti tra il 70 e l'80% degli autori di questi omicidi ha dei problemi con le donne. Per questo chi pensa che siano uomini normali sbaglia e fa un torto al genere maschile. Ma chi parla di violenza di genere ha ragione, perché ad armare la mano spesso è una concezione aberrante del rapporto tra uomini e donne.

l’Unità 26.5.13
In Svezia la protesta infiamma le periferie
I disordini dai sobborghi di Stoccolma si sono estesi alle città di Orebro e Sodertalje
Bruciate auto e attaccati edifici pubblici
In prima fila gli immigrati non sostenuti dalla sicurezza sociale
di Virginia Lori


Non si spengono i fuochi della protesta a Stoccolma. Se le manifestazioni si sono fatte meno violente nella capitale svedese, si sono però estese ad altre città del Paese. È la rivolta che da una settimana ha portato in piazza gli immigrati che si sentono traditi dal sistema di welfare scandinavo che non li protegge più. Il primo bilancio è di decine di auto date alle fiamme e di stazioni ferroviarie e della polizia assaltate. Se ieri a Stoccolma sono state bruciate alcuni cassonetti e qualche auto, a Orebro, nella Svezia centrale, 25 giovani incappucciati hanno dato fuoco a tre auto e a una scuola e hanno tentato di dare alle fiamme un commissariato di polizia. Un vecchio edificio è stato dato alle fiamme a Sodertalje, una cittadina non lontana da Stoccolma. Voci non confermate parlano anche di roghi «sospetti» a Linkoping, sudest di Stoccolma. Ma nei giorni scorsi nella capitale svedese vi sono stati incendi, saccheggi, atti di sciacallaggio e sassaiole. La polizia finora ha fermato almeno 13 persone fra i 18 e i 25. Questo è solo il parziale bilancio presentato dalla polizia.
La protesta è scoppiata lo scorso 13 maggio, quando nei sobborghi di Stoccolma, nel quartiere periferico di Husby, abitato per la gran parte da immigrati, un anziano di 69 anni è stato ucciso dalla polizia dopo che aveva minacciato gli agenti con un machete. Un atto considerato dagli abitanti «un abuso delle autorità» e che ha acceso la scintilla dei disordini. Alcuni ritengono però che il vero motivo dietro alle violenze siano l’alta disoccupazione e l’isolamento dei giovani nei sobborghi a sud e ovest di Stoccolma, quasi tutti immigrati, che vedono poche prospettive di avere accesso alla nota prosperità svedese. I disordini hanno riacceso il dibattito sugli immigrati che rappresentano il 15% della popolazione svedese grazie a una normativa molto generosa, ma spesso hanno difficoltà a integrarsi. In particolare da quando al governo vi è il centrodestra guidato John Fredrik Reinfeldt e dal ministro delle finanze Anders Borg con un tasso di disoccupazione giovanile vicino al 25% e con il loro quartieri che si sono sempre più trasformati in veri «ghetti».
A causa dei disordini Stati Uniti e Gran Bretagna hanno invitato i propri connazionali a tenersi alla larga dalle aree interessate dalle rivolte, in particolare di evitare i concentramenti nelle periferie di Husby, Hagsatra, Ragsved e Skogas.

l’Unità 26.5.13
La rivolta degli esclusi
La crisi del Welfare scatena gli esclusi
La tensione mostra le crepe del modello svedese di solidarietà, colpito dalla crisi e dalle scelte del governo di centrodestra
Rispetto agli altri Paesi nordici in Svezia la disoccupazione giovanile arriva al 25%
di Paolo Borioni


Per una settimana i sobborghi più problematici di Stoccolma sono stati colpiti da disordini che sorprendono per la loro durata e continuità. Secondo i reporter di alcuni grandi giornali nordici, però, le nottate di incendi e vandalismi convivono con la quasi totale serenità e normalità quotidiana. Persino a Husby, l’epicentro del sisma, un quartiere periferico con solo il 20% di svedesi «etnici» sui 12.000 abitanti. E anche se disordini e sabotaggi (tra cui una linea ferroviaria interrotta e una stazione data alle fiamme) si estendono ormai ad altre zone della Svezia, e coinvolgono anche cittadini di retroterra etnico nordico. A colpire, in effetti, è non tanto il dato quantitativo, quanto quello qualitativo, che va oltre gli scontri con le forze dell’ordine.
Già, insomma, è senz’altro fuori dall’ordinario (anche in paesi più tipicamente problematici) l’attacco a una stazione di polizia. Ma fin qui si tratta pur sempre di una classica conflittualità verso i tutori dell’ordine, di cui peraltro, in questi giorni, vengono diffusi anche i comportamenti inaccettabili: quello di avere ucciso forse con troppa precipitazione un sessantanovenne che brandiva un machete (l’episodio che avrebbe innescato i disordini). O quello di chiamare abitualmente «scimmie» i ragazzi di Husby.
Ad avere colpito l’opinione pubblica è soprattutto la violenza contro i pompieri che spengono gli incendi appiccati nelle notti di violenza urbana. Per questo in un famoso social network si è diffuso a decine di migliaia di condivisioni il messaggio di un vigile del fuoco rivolto ad un immaginario ribelle: «Perché mi attacchi, perché mi ferisci mentre lavoro? Sono io che mi getto nell’acqua gelida se tua sorella sta per affogare. Sono io che rischio la vita se tua madre è intrappolata fra le fiamme».
Ad ogni modo, si sbaglierebbe nel ricercare nella società svedese la stessa violenza sistematica che sconvolge le strade dei Paesi anglosassoni, in cui ragazzi muoiono a centinaia, abitualmente, in disumane guerre fra bande. E si sbaglierebbe anche a cercare nel potere costituito svedese l’atteggiamento repressivo di certa destra francese, quello che spinse Sarkozy a cominciare la propria campagna presidenziale già da ministro dell’Interno, chiamando «canaglie» i rivoltosi delle banlieux più segregate e quindi più esplosive.
Molti sociologi si sono affannati e individuare una particolare natura escludente del welfare nordico verso i cittadini di altra origine etnica, ma senza un esito minimamente riscontrabile nei dati: sia il modello di «assimilazione repubblicana» alla francese, sia il «pluralismo delle comunità» ispirato al liberalismo anglosassone scatenano traumi ben maggiori. Tutto sommato, tra i moltissimi difetti e limiti, anche il modello italiano, basato sulla convivenza «ravvicinata» (collaborazione familiare, microimpresa, lavoro informale nel commercio e nell’edilizia) ha, in confronto, una certa capacità di assorbimento.
E tuttavia gli svedesi non possono sottovalutare quanto accade. Non cadano cioè nel difetto di cui (con leggero malanimo) sovente mormorano gli altri scandinavi: celare le crepe di un sistema sociale senza dubbio avanzato e funzionante fino a quando poi i problemi esplodono. La Svezia è stata per esempio l’ultimo Paese nordico ad avere in parlamento forze nazional-populiste, ma ora quelle forze (gli Sverigedemokraterna) sono presenti nel Riksdag con oltre il 6%, e con una propaganda senza scrupoli cercheranno di trarre vantaggio da quanto accade. Certo: negli altri Paesi nordici il populismo di destra viaggia fra il 13 e il 20% dei consensi, ma con questa settimana di violenze l’emergenza è acuta anche in Svezia. Perché è vero che le periferie delle metropoli svedesi devono fare molto di più per combattere la segregazione urbana con politiche abitative più attive. Ad Husby, ma anche a Rosengård (il quartiere di Malmö in cui è cresciuto Ibrahimovic), l’alienazione metropolitana dà la sensazione di essere ancora più presente che nelle periferie di Copenaghen, Helsinki od Oslo. Soprattutto, l’economia svedese ha, rispetto agli altri Paesi nordici, un problema di disoccupazione fra i 15 e il 24 anni ben più accentuato: oltre il 25%. A Husby, inoltre, il 30% dei giovani sono «NEET», cioè senza studio né lavoro. Di sicuro spicca, in ciò, il fallimento delle false promesse del centrodestra di Fredrik Reinfeldt e Anders Borg, che da 7 anni governa il paese. La retorica per cui la «utanforskap», l’emarginazione dei senza lavoro, dipendesse dall’eccesso di tutele di welfare e sindacati si è dimostrato privo di fondamento. Oggi la disoccupazione è all’8,7%, e nemmeno durante il primo mandato di questo governo (cioè prima che la grande crisi giungesse in Svezia) era mai andata sotto il 6% a cui nel 2006 l’avevano lasciata i socialdemocratici. Non basta: i programmi di attivazione per i giovani più in difficoltà sono in disarmo. Uno (Lärlingeplatser för ungdomar: apprendistato per giovani), che prevedeva corsi in più aziende e contemporaneamente frequentazione scolastica per migliorare nelle materie di base, doveva coinvolgere 3.000 giovani al mese, ma ne ha attivati, dal 2006, appena 2.000. L’altro (Jobbgarantin för ungdomar: garanzia di lavoro per giovani) riesce a coinvolgere l’8% delle fasce giovanili di riferimento, ma l’attività offerta è per lo più la mera ricerca di lavoro. Non a caso il 56% dei coinvolti non riceve alcuna formazione, e il 60% circa non ne ricava maggiori motivazioni o informazioni. Pesa di sicuro la scelta di sottofinanziere l’AMS, autorità pubblica per il mercato del lavoro, che oggi è in grado di approntare 50.000 posti di attivazione in meno.
Il centro-destra al governo mira così a competere mediante un’area più ampia di bassi salari (come in Germania) formata soprattutto di giovani più deboli nel mercato del lavoro. L’esatto opposto del modello nordico. E proprio quello che, alla lunga, si abbatte maggiormente sui figli dell’immigrazione e, in Svezia come altrove, può scatenare una rabbia improvvisa e disperata.

Corriere 26.5.13
Il modello di integrazione svedese vacilla con la rivolta delle periferie
di Paolo Valentino


Il Folkhemmet, la casa del popolo, è in fiamme. Il modello sociale svedese — tasse elevate, buoni servizi, egualitarismo e apertura all'integrazione — è scosso da un rigurgito di violenza urbana, che dalla capitale rischia di estendersi ad altre città del Paese. Per la sesta notte consecutiva, i sobborghi di Stoccolma a maggioranza etnica straniera sono stati devastati da disordini e scontri, innescati dalla protesta di centinaia di giovani: più di duecento auto date alle fiamme, incendi appiccati a scuole, stazioni di polizia e ristoranti, una dozzina di poliziotti feriti, almeno trenta dimostranti arrestati. Sono cifre sconvolgenti per una Svezia, che si vuole consensuale e generosa verso la popolazione immigrata, ma che invece scopre al suo interno un risentimento diffuso e bruciante.
I torbidi gettano luce sinistra sul lato oscuro dell'integrazione alla svedese. Quarantaquattromila domande d'asilo sono state accettate nel 2012: in rapporto alla popolazione, fanno della Svezia il secondo Paese più accogliente al mondo. A tutti vengono immediatamente estesi i benefici del leggendario welfare scandinavo. Ma gli immigrati — somali, turchi, iracheni, siriani — finiscono quasi tutti a vivere in ghetti come Husby, teatro principale dei disordini. E sono i nuovi arrivati a costituire la massa critica dei disoccupati: un giovane su quattro è senza lavoro, il sedici per cento degli immigrati è al collocamento contro il sei per cento degli svedesi. Di più, pur rimanendo una delle nazioni più egualitarie del mondo, la Svezia ha registrato negli ultimi dieci anni il maggiore aumento delle disparità di reddito in Occidente, in seguito alle riduzioni delle tasse, finanziate con tagli allo Stato sociale, imposte dai governi di centro-destra.
Non siamo ancora alla virulenza e alla gravità delle rivolte del 2005 in Francia o del 2011 in Gran Bretagna, ma i fuochi di Husby suonano un allarme preoccupante, anche per i probabili risvolti politici: già oggi i Democratici Svedesi, partito anti-immigrati con radici tra i neo-nazisti, sono la terza forza del Paese.

Corriere 26.5.13
I pionieri delle primavere arabe in bilico tra Corano e democrazia
La Tunisia scrive la sua Costituzione. Una prova per tutta la regione
di Sergio Romano


TUNISI — La Tunisia ha un primato di cui è orgogliosa. E' il Paese che ha acceso la scintilla delle rivolte arabe, si è sbarazzata del suo tiranno in meno di due mesi, ha riscaldato i cuori di tutti i giovani della regione. Senza l'esempio tunisino non vi sarebbero stati al Cairo i moti di piazza Tahrir e quasi contemporaneamente le grandi manifestazioni algerine, marocchine, libiche. Quando il giovane Mohammed Bouazizi si dette fuoco di fronte al municipio di Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010, il gesto sembrò quello di un povero ragazzo che non riusciva a trovare lavoro, vendeva verdura con un carretto ed era continuamente tartassato dalla polizia. Sembra che una poliziotta l'avesse schiaffeggiato e che Mohammed, disperato e umiliato, abbia messo in scena la propria morte come gesto di estrema protesta. Ma quando la notizia, durante la sua lunga agonia, salì lungo il Paese sino alle città del nord e alla capitale, la protesta divenne civile e sociale. I manifestanti di Tunisi non chiedevano soltanto giustizia per Bouazizi e una punizione per i suoi persecutori. Chiedevano libertà di parola e di stampa, libere elezioni, una politica sociale conforme alle attese delle ultime generazioni e soprattutto la fine del regime corrotto e poliziesco di Zine el Abidine Ben Ali, l'uomo che aveva conquistato il potere con un colpo di Stato «sanitario» (aveva chiesto ai medici di proclamare l'incapacità di Habib Bourghiba, fondatore della Tunisia indipendente).
Uno dei migliori giornalisti tunisini, Soufienne Ben Fahrat, commentatore della televisione e editorialista de La Presse, mi dice che i giorni di gennaio gli ricordavano i primi moti del Risorgimento italiano. Gli slogan dipinti sui muri erano spesso in francese e chiedevano una «Tunisie laïque», una Tunisia laica. La rivoluzione, insomma, parlava europeo ed era perfettamente in sintonia con le tradizioni di un Paese culturalmente meticcio: arabo e musulmano, ma anche, nel corso della sua storia, popolato da fenici, berberi, romani, siciliani, francesi, cristiani, ebrei. I primi mesi furono agitati, ma la rivoluzione prese rapidamente la strada più saggia: quella che avrebbe portato alle elezioni del 23 ottobre 2011 per la formazione di una Assemblea Costituente.
Accadde tuttavia quello che stava accadendo contemporaneamente in Egitto. I laici avevano riempito le piazze, fatto la rivoluzione e cacciato il tiranno, ma erano dispersi fra piccole formazioni politiche. Il solo partito organizzato era Ennahda (rinascita, risorgimento), una costola della Fratellanza musulmana, fondato negli anni Ottanta da Rachid Ghannouchi, esule a Londra fino al ritorno in patria nel 2011. Quando si aprirono le urne, si scopri che il 37,4% degli elettori aveva votato per Ennahda e gli aveva regalato 89 dei 217 seggi di cui si compone l'Assemblea Costituente. Gli altri diciannove partiti avevano conquistato percentuali che andavano dall'8,71% del Congresso per la Repubblica (29 seggi) allo 0,19% (un seggio) del Partito dell'equità e dell'uguaglianza. Ennahda aveva vinto, ma non forse nelle proporzioni sperate. Si dice che Ghannouchi si aspettasse di essere ricevuto in patria come l'ayatollah Khomeini quando centinaia di migliaia di iraniani erano corsi all'aeroporto, il 31 gennaio 1979, per accogliere trionfalmente il nemico dello Scià. Il bentornato per Ghannouchi era stato caloroso ma misurato e i leader del partito decisero prudentemente di governare la transizione con la collaborazione di altri due partiti. Ennahda avrebbe tenuto per sé il governo, ma avrebbe lasciato la presidenza della Repubblica a Mancez Marzouki, leader del Congresso della Repubblica, e quella dell'Assemblea costituente a Mustafà Ben Jaafar capo di Ettakatol, Foro democratico per il lavoro e la libertà. Questa è la troika che sovrintende alla transizione. Il capo del governo, Hamadi Jemali, si è dimesso dopo l'assassinio di un uomo politico di sinistra, ma il suo successore è pur sempre uomo di Ennahda, Ali Laarayedh. Ho incontrato suo fratello, Ameur Laarayedh, membro della Costituente e per qualche tempo presidente dell'Ufficio politico del partito, nella sede di Ennahda, una palazzina del quartiere tunisino di Montplaisir. E' un uomo sui cinquant'anni con un elegante pizzo che è forse la sua versione della folta barba cara a molti membri della Fratellanza. Ha passato in Francia gli anni dell'esilio e mi descrive la transizione costituzionale come un laborioso percorso nel corso del quale i costituenti hanno elaborato parecchi progetti, confrontato testi stranieri, dialogato con la società civile e con le maggiori istituzioni pubbliche. Ennahda avrebbe preferito un regime schiettamente parlamentare perché il Parlamento, dice Laarayedh, è il luogo del confronto dove tutti possono proporre le loro idee e accordarsi per la creazione di un governo di unità nazionale. Ma i partiti laici vogliono un presidente eletto dal popolo e il risultato sarà probabilmente una repubblica semipresidenziale in cui il capo dello Stato avrà poteri meno estesi di quelli previsti dalla costituzione francese e simili, per molti aspetti, a quelli del presidente del Portogallo. Occorrerà anche, nel frattempo, istituire alcune autorità indipendenti, fra cui una per la magistratura e un'altra a cui affidare il compito di organizzare le elezioni, una funzione che si vuole sottrarre al ministero dell'Intero. E' possibile che nelle prossime settimane, alla fine di queste consultazioni, l'Assemblea Costituente cominci a votare i singoli articoli e che le prime elezioni della nuova repubblica abbiano luogo alla fine dell'anno.
Saremmo quindi nella fase conclusiva di un percorso democratico in cui Ennahda rivendica i valori dell'Islam, ma vuole apparire conciliante e dialogante. Un altro deputato della Costituente, Osama Al Sarigh, mi dice che la costituzione tunisina potrebbe diventare un modello per l'intera ragione: un ruolo che in altri tempi sarebbe stato una prerogativa dell'Egitto. Me lo dice, incidentalmente, in un italiano pressoché perfetto perché è cresciuto in Italia ed è uno dei due parlamentari eletti dai duecentomila tunisini che vivono nella penisola.
Ma non tutte le persone che ho incontrato condividono questa rappresentazione di Ennahda. I laici diffidano del partito islamico e osservano che nei progetti del testo costituzionale sono apparsi anche articoli molto contestabili, come quello in cui la donna era considerata «complementare dell'uomo», e che vi è anche un preambolo sui grandi orientamenti dello Stato, ancora in discussione, in cui il sionismo è definito «razzismo». La Tunisia è sempre stata «dalla parte dei palestinesi», ma se Israele, nella nuova costituzione, venisse implicitamente definito uno Stato razzista, il partito della Fratellanza finirebbe addirittura a destra del popolo che dichiara di sostenere. Secondo i diffidenti, quindi Ennahda reciterebbe due parti in commedia: democratica con i laici, ma islamista con l'ala più radicale del movimento e soprattutto con i gruppi salafiti che sono diventati in questi ultimi tempi sempre più attivi e minacciosi. Mentre parlavo con Laarayedh e Al Sarigh, tuttavia, l'esercito tunisino era alle prese, sulla frontiera con l'Algeria, con formazioni di militanti salafiti appartenenti probabilmente ad Al Qaeda del Maghreb. E più recentemente (ne ho scritto in un articolo precedente) la polizia si è duramente scontrata con i salafiti di Tunisi e Kerouan. Forse Ennahda sta comprendendo che non sempre è possibile conciliare la gestione dello Stato e l'osservanza della legge coranica.
(2- Fine. La prima puntata è stata pubblicata il 20 maggio, ed è disponibile qui di seguito su “Spogli”)

Corriere 26.5.13
Cina
Meno Stato: la rivoluzione in 7 mosse
Il premier Li prepara la grande riforma dell'economia cinese
di Guido Santevecchi


PECHINO — Il Giappone ha la Abenomics, gli esperti di questioni cinesi devono ancora decidere se Pechino avrà la Lionomics, dal nome del suo primo ministro Li Keqiang, o la Xionomics, intitolata al presidente della Repubblica e segretario del Partito Xi Jinping. Ma che una riforma dell'economia ci sarà, e anche in tempi brevi, ormai è certo.
A Pechino nelle ultime settimane sono arrivati dati preoccupanti: la crescita del Prodotto interno lordo ha rallentato al 7,7% nel primo trimestre; l'indice Pmi, che registra gli ordini ricevuti dalle industrie e dunque le previsioni sulla produzione, è calato a 49,6 sotto la quota 50 che segna il confine tra espansione e contrazione; ad aprile Fitch ha degradato ad A+ il debito interno in yuan, gravato dalle spese enormi sostenute dalle 31 province dell'Impero: si calcola che le amministrazioni locali si siano indebitate per duemila miliardi di dollari, quasi il 25% del Pil annuo della seconda economia del mondo. La Cina sta scoprendo anche il problema dei diplomati senza lavoro: quest'anno solo il 28% cento ha già trovato occupazione a Pechino; a Shanghai il 44%. Laureati e diplomati quest'anno saranno 6 milioni e 990 mila, quasi 200 mila più dell'anno scorso, ma secondo i dati riportati dal Quotidiano della Gioventù troveranno un 15% di posti in meno.
Così il presidente Xi si è tolto giacca e cravatta e si è presentato in camicia a una riunione di ragazzi dicendo che non debbono vergognarsi di cominciare a lavorare dal basso, in posti difficili, in condizioni dure, con occupazioni ordinarie.
Alcuni di questi problemi, come quello degli ordini in calo per l'industria, sono legati alla crisi europea e alla lentezza della ripresa americana. Questa volta Pechino ha scartato l'ipotesi di ricorrere a uno «stimolo» come quello da 500 miliardi di euro del 2008, che isolò la Cina dalla crisi finanziaria globale ma ha lasciato in eredità la montagna del debito delle province, fatto schizzare i prezzi degli immobili (creando una bolla pericolosa) e congelato ogni idea di riforma.
Li Keqiang, 57 anni, doppia laurea in legge ed economia, ha detto senza equivoci che solo «i meccanismi del mercato» possono orientare la navigazione dell'economia cinese in acque agitate. Li ha fatto il suo cursus honorum partendo da una comune agricola ai tempi della Rivoluzione Culturale e passando attraverso la Lega della Gioventù. Per aiutare «i meccanismi di mercato» promette di ridurre i controlli burocratici sulle imprese e crede molto in un piano di urbanizzazione: vuole portare altri 400 milioni di cinesi dalle campagne in città entro una decina d'anni, investendo seimila miliardi di euro in infrastrutture, accrescendo il tenore di vita e i consumi interni (una ricetta che avrebbe ricadute positive anche per la vecchia Europa). Sarebbe questo il cuore della Lionomics.
Sotto pressione per la situazione delicata è naturalmente anche il presidente Xi Jinping, 60 anni, esponente della «nobiltà rossa», visto che è figlio di un eroe della rivoluzione maoista. Fonti anonime da alcuni giorni hanno confidato che il leader della Repubblica Popolare ha preso in mano il dossier delle riforme economiche. Nessuno strappo con il suo premier. Ma una commissione di saggi al lavoro e una lista dettagliata di priorità con l'obiettivo di riequilibrare la crescita finora legata agli investimenti dello Stato.
Sette i punti individuati: riforma di un sistema finanziario che svantaggia le famiglie e gli imprenditori e incanala il credito agevolato alle grandi aziende statali; liberalizzazione dei tassi d'interesse; tassazione efficace su proprietà e consumo con l'Iva; urbanizzazione; riduzione della diseguaglianza nella distribuzione del reddito; lotta alla burocrazia; imposizione di prezzi di mercato per carbone e petrolio.
Siccome le voci in circolazione cominciavano ad essere troppe, venerdì la Commissione per lo Sviluppo e la Riforma ha passato all'agenzia Xinhua una lista di 22 obiettivi principali in sette campi. Che hanno confermato le indiscrezioni. I contenuti sono ancora in evoluzione, quindi se da questi sette punti uscirà davvero una riduzione del ruolo dello Stato e uno spostamento verso il settore privato e le forze di mercato, è ancora da vedere. Così come bisognerà decidere se si dovrà parlare di Xionomics.
Il pacchetto di riforme dovrebbe essere lanciato ad ottobre al Terzo Plenum del XVIII Congresso del Partito: il Terzo Plenum è un appuntamento «fortunato». Lo usò Deng nel 1978 per salvare l'economia stremata dal maoismo e ancora un Terzo Plenum nel 1993 battezzò «l'economia di mercato socialista».

Repubblica 26.5.13
I limiti di un diritto. La prepotenza della proprietà
Lo scontro fra diritti civili e proprietà
La Costituzione dice che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”
di Stefano Rodotà


Al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero». Così scriveva il relatore del
Codice Napoleone del 1804, uno dei più significativi documenti giuridici della modernità. Due assoluti, dunque, ciascuno dei quali limita l’altro.
Si apre così una vicenda che, secondo la tradizione liberale, vede l’assolutismo della proprietà come un limite a quello della sovranità; mentre nella tradizione sociale l’assolutismo proprietario è contestato proprio grazie agli strumenti offerti da una sovranità assoluta.
La riflessione storica offre uno sfondo più largo all’analisi e alla ricostruzione dei rapporti tra proprietà e sovranità, dai quali non si può prescindere, tanto che proprio uno storico, Frederic Maitland, ebbe a scrivere che “l’intero diritto costituzionale sembra a volte nient’altro che un’appendice del diritto di proprietà. Sarebbe disastroso, oltre che stupido, se consigliassi di leggere la storia costituzionale senza studiare il diritto della proprietà terriera”. Considerazioni come questa, tuttavia, non devono indurre a concludere che l’unico rapporto da indagare sia quello tra sovranità e proprietà terriera, trascurando il fatto che, appunto nella modernità, gli elementi costitutivi dello Stato vengono individuati nella sovranità, nel popolo e nel territorio, inteso quest’ultimo come lo spazio dove si esercita la sovranità statale, indipendentemente dai regimi proprietari che il territorio può assumere. La misura della sovranità e della proprietà incide profondamente nella dimensione dei diritti. La prevalenza accordata alla proprietà, infatti, può determinare l’estensione dei diritti politici, com’è accaduto quando lo stesso diritto di voto è stato subordinato a un livello di reddito: la cittadinanza si fa censitaria. Ma quella prevalenza si manifesta come determinante anche nella materia dei diritti civili, dal momento che la disciplina delle relazioni personali e sociali è stata lungamente caratterizzata dalla logica patrimonialistica, dunque dal rapporto istituito con la proprietà. Il riferimento alla cittadinanza è importante, perché l’uscita dal territorio nazionale ha significato, e in troppi casi significa ancora, perdita di una serie di diritti. Proprio la liberazione dal vincolo spaziale, allora, può determinare la pienezza della cittadinanza, intesa come quel fascio di diritti che la persona porta con sé indipendentemente dal luogo in cui si trova. Si può ben dire che la lotta per i diritti si è svolta, e continua a svolgersi, su due fronti, per sottrarsi alle limitazioni imposte da sovranità e proprietà. Peraltro, nella fase più recente il rapporto con sovranità e proprietà si è profondamente trasformato. La garanzia dei diritti affidata alla sovranità nazionale (il giudice a Berlino) si indebolisce in un mondo globale dove la sovranità svanisce e il garante diventa introvabile. E la proprietà si è insediata nelle nostre società con una rinnovata prepotenza che vuol farne la misura di tutte le cose, in sintonia con un mercato inteso come unica legge “naturale”. Al tempo stesso, però, la logica dei beni comuni torna a indicarci forme diverse di sovranità e l’“opposto della proprietà”. Ma la scoperta del corpo, il principio del consenso come fondamento dell’autodeterminazione della persona ci parlano di un’altra sovranità, quella che si manifesta nel libero governo del sé, della propria vita. Nel complesso passaggio dal soggetto astratto alla persona costituzionalizzata, riconosciuta nella concretezza del vivere, che caratterizza la fase presente, si realizza un vero e proprio trasferimento di sovranità, testimoniato nella sua forma più radicale proprio dalle parole dell’articolo 32 della Costituzione: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il sovrano non può penetrare in uno spazio proprio della persona. Il patto sociale viene così “rinegoziato”, la cessione di sovranità allo Stato viene circoscritta, la condizione di “suddito” viene revocata in dubbio quando si giunge al nucleo dell’esistenza.

Corriere 26.5.13
Perché non si riesce a cambiare la tradizione del cognome del padre
Preferito anche dove si può scegliere
di Silvia Vegetti Finzi


Il 12 aprile scorso Franco Gallo, presidente della Corte costituzionale, ha criticato l'obbligatorietà del cognome paterno dicendo che si tratta di un «retaggio della concezione patriarcale della famiglia». Nonostante alcune, limitate aperture, il nostro Paese è infatti tra gli ultimi a recepire l'invito del Consiglio d'Europa di accordare ai genitori uguale diritto nell'attribuire ai figli il cognome di famiglia. Secondo la legislazione francese, ad esempio, i genitori hanno tre possibilità: attribuire al figlio solo il cognome della madre, solo il cognome del padre o entrambi i cognomi nell'ordine che preferiscono. Devono però scegliere tra i quattro cognomi dei nonni i due da conservare, rinunciando così a trasmettere metà del loro patrimonio genealogico.
Ma non si tratta soltanto di una questione di diritto perché il cognome rappresenta una sedimentazione di geografia e di storia che colloca la nostra identità nelle coordinate dello spazio e del tempo. Non è la stessa cosa chiamarsi Esposito, Brambilla, Levi o Visconti di Modrone. Presentandoci con nome e cognome forniamo già una prima definizione della nostra identità, una cornice in cui inserire ogni irrepetibile individualità.
Per secoli, nelle società patriarcali, il cognome è stato quello del padre, l'unico detentore dell'autorità familiare. Portare il cognome della madre rivelava la mancanza della legittimazione paterna. Ma ormai molte cose sono cambiate. Il Nuovo Diritto di Famiglia, del 1975, stabilisce tra i coniugi parità di diritti e di doveri. E, più recentemente, l'eguaglianza di tutti i figli, nati dentro o fuori il matrimonio. Perché dunque dovrebbe trascinarsi, fuori contesto, il residuo di un passato che nessuno rimpiange. Attribuire ai figli il cognome dell'uno e dell'altro genitore sembrerebbe una opzione da preferire per tante ragioni: conferma la parità tra i sessi e la libertà della famiglia di darsi un proprio statuto anagrafico, indipendentemente dalle norme imposte dalla burocrazia. Eppure le cose non sono così facili, come dimostra una ricerca, svolta in Francia sette anni dopo l'entrata in vigore della legge del 2005 che liberalizza la trasmissione dei cognomi, da cui risulta che l'83% dei nati nel 2012 porta il nome del padre, il 9% il doppio cognome, il 7% quello della madre.
Probabilmente varrebbero anche per noi, per i medesimi motivi, le stesse resistenze.
Innanzitutto il patriarcato non è ancora tramontato e, almeno nell'immaginario collettivo, la figura del padre conserva tratti della tradizionale autorità. Di questi tempi, inoltre, la figura paterna è diventata così fragile che, esautorarla ulteriormente, sembrerebbe un gesto punitivo, in contrasto con la necessità di conferma e di sostegno che molti invocano. In confronto all'evidenza fisica, corporea della maternità «semper certa», concedere al padre la trasmissione del cognome può essere considerato un risarcimento simbolico che riequilibra la naturale asimmetria della generazione. Non dimentichiamo infine, soprattutto nel nostro Paese, il comprensibile timore di produrre confusioni burocratiche difficile da sbrogliare.
Ma il problema merita di essere riproposto chiedendo ai più giovani quale significato rivesta per loro il «nome del padre», l'invocazione che apre la principale preghiera della cristianità.

Corriere 26.5.13
Machiavelli ora è Star anche in Cina, in Italia meriterebbe più attenzione
di Dino Messina


Riempie d'orgoglio vedere l'Italia in questi giorni al centro dell'attenzione in Cina non solo per il grande convegno internazionale dedicato a Niccolò Machiavelli (1469-1527) nel cinquecentesimo anniversario della stesura del Principe (1513), ma perché l'editore Jilin ha quasi completato la pubblicazione dell'opera omnia del segretario fiorentino in cinese. «È il segno — ha commentato lo storico Valdo Spini in margine al congresso che si conclude oggi a Tianjin, sede dell'ex concessione italiana — che il valore di una cultura comune può assumere nei rapporti internazionali».
Valdo Spini, presidente del Comitato per le celebrazioni del cinquecentenario, ha avuto un ruolo anche importante nel portare a compimento l'edizione nazionale delle opere. Così come una spinta notevole al rilancio degli Studi sul Segretario Fiorentino l'ha data Giuliano Amato anche in qualità di presidente del Comitato per i centocinquant'anni dell'unità d'Italia, con il varo dell'Enciclopedia Machiavelli.
Una sferzata l'aveva impressa due anni fa Emanuele Cutinelli Réndina, italianista dell'università di Strasburgo, rivelando che per pubblicare uno dei volumi sugli scritti diplomatici di messer Niccolò erano stati necessari il contributo della Fondazione Margherita di Sion, la città del Vallese, in Svizzera, e la donazione di un gentiluomo straniero. La denuncia pubblica aveva smosso le pigrizie ministeriali, sicché a breve la Salerno editrice concluderà con il volume sul teatro (forse in due tomi) l'edizione nazionale. Un successo, ma parziale. Perché, mentre da Tianjin arriva la notizia che mancano solo due volumi per completare l'edizione cinese, in Italia non sono ancora stati stanziati i fondi per gli epistolari e per il libro che raccoglierà i circa trecento autografi machiavelliani.
Il De Principatibus venne ultimato nel 1513, come annunciava Niccolò nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre, ma fu pubblicato postumo, nel 1532. L'Italia non sempre è stata generosa con i suoi geni.

Corriere 26.5.13
Perché l’uomo di Neanderthal è scomparso lasciando il campo al Sapiens?
E se il nostro misterioso progenitore con occhi azzurri e chioma chiara fosse loro figlio?
Tra i due noti capostipiti della nostra specie bisogna fare posto a un terzo
L'antenato dai capelli rossi
di Giovanni Caprara


C'è la storia di un nostro antenato la cui fine continua a rimanere un mistero. È quella dell'Uomo di Neanderthal (Homo neanderthaliensis) che visse in Eurasia, e nel vicino Oriente, tra i 200 mila e 40 mila anni fa. Nelle ultime decine di migliaia di anni della sua esistenza, nei territori in cui risiedeva, incontrò l'Homo sapiens, nostro diretto progenitore, il quale usciva dall'Africa cominciando la sua conquista del pianeta. Da qui sembra aver inizio l'enigmatica decadenza di Neanderthal e infine la sua scomparsa.
Una delle prime spiegazioni fornite dal paleoantropologi era che il Sapiens, più intelligente, avesse avuto il sopravvento sul rivale.
Tra le ultime ipotesi sulla causa c'è pure un clima ambientale poco favorevole alla sopravvivenza del Neanderthal. In passato però si diceva che tra le due specie non poteva esserci stato un contatto, un rapporto; ma dopo molte discussioni intorno ai reperti fossili la genetica ha dimostrato il contrario. Ciò, tuttavia, non ha posto fine alle diatribe e quindi la caccia delle prove che attestino il fatidico incontro continua.
E d è qui che entra in scena l'«uomo dai capelli rossi». L'uomo dai capelli rossi abitava in un riparo roccioso di Mezzena, sui Monti Lessini, non lontano da Verona. Era alto un metro e 65 centimetri, i suoi occhi erano azzurri e la pelle chiara. Lui (ma forse è una lei) e i suoi compagni vissero nella zona per quei fatidici diecimila anni in cui il Neanderthal incontrò il Sapiens, ma con alcuni intervalli, perché erano nomadi.
Il luogo è tuttora carico di suggestione e camminando tra una vegetazione quasi selvaggia e anfratti rocciosi sembra di compiere un viaggio indietro nel tempo, nel remoto passato delle origini.
Come sia finita la vita del rosso antenato non si sa. Gli studiosi trovarono i suoi resti sepolti due metri sottoterra e, analizzando la mandibola, scoprirono che doveva aver sofferto di parodontosi. Questa patologia, legata ad un uso intenso e usurante dei denti, cronicizzando, aveva dato origine a una forma di tumore osseo benigno che però non fu la causa della morte avvenuta quando aveva circa trent'anni. «Studiando la mandibola ed effettuando comparazioni geometriche al computer con quelle del Sapiens — racconta Laura Longo, coordinatrice del progetto di ricerca sui "fossili umani veronesi", conservatore, fino al 2010, della sezione di Preistoria del Museo di storia naturale di Verona e ora ai Musei civici di Firenze — ci siamo resi conto che il mento non è più sfuggente come nei neandertaliani classici, ma rivela un accenno di protuberanza tipica degli uomini moderni. Ciò dimostra che l'uomo dai capelli rossi era il frutto di un meticciamento, vale a dire di un'unione tra Neanderthal e Sapiens».
L a prova è stata pubblicata sulla rivista scientifica americana PLoS ONE ed è il frutto di un'ampia indagine, su fronti diversi, che ha mobilitato un nutrito gruppo di scienziati. Assieme a Laura Longo, ci sono gli antropologi Silvana Condemi, direttore di ricerca al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) dell'Università di Marsiglia nonché responsabile dello studio di morfometria geometrica, Aurélien Mounier, dell'Università di Cambridge, e l'archeologo Paolo Giunti dell'Istituto italiano di preistoria e protostoria. Bisogna però ricordare che l'uomo dai capelli rossi entra sulla scena della nostra storia per la seconda volta. Nel 2007 la rivista statunitense Science pubblicò, infatti, i risultati di una ricerca sul paleo-Dna condotta da studiosi tedeschi, italiani e spagnoli.
David Caramelli, antropologo molecolare dell'Università di Firenze era il coordinatore del gruppo italiano. L'indagine riguardava i reperti di due ominidi: quello di Mezzena, appunto, e l'altro della Cava de El Sidron, nelle Asturie, nella Penisola Iberica. Proprio scrutando nel loro Dna, prelevato dalle ossa, si stabilirono i colori dei capelli e della pelle, fornendo interessanti informazioni sulla variabilità genetica dei Neanderthal. In realtà la storia di questo antico progenitore veronese inizia ancora prima: nel 1957, quando le sue ossa fossili vennero scoperte, e poi conservate, al Museo di storia naturale affacciato sull'Adige che attraversa la città scaligera. E lì il nostro progenitore è rimasto per decenni sino a quando Longo e i suoi collaboratori non ripresero in mano i reperti, nel 2006, per approfondirne la conoscenza.
C osì l'uomo cominciò a rivelare la sua vera identità, diventando il protagonista di una specie affascinante e ancora avvolta da enigmi difficili da sciogliere.
«In un territorio come i Monti Lessini, gli incontri tra i Neanderthal e i Sapiens devono essere avvenuti più volte e in più generazioni — racconta Laura Longo —. Lo dimostrerebbe la significativa mutazione che ha portato alla crescita di un mento incipiente. Inoltre, le analisi sul Dna mitocondriale, che si eredita solo per via materna, e quella delle caratteristiche fisiche dei resti, hanno permesso di stabilire che gli incroci sono sempre nati da coppie formate da femmine Neanderthal e maschi Sapiens. E così risulta dimostrata la loro convivenza nella stessa zona veronese».
Ma, forse le relazioni fra i diversi gruppi, che incrociavano le loro strade, non erano così serene. Forse il meticciamento nasceva dalla violenza, da scontri, stupri e rapimenti. È d'altronde difficile immaginare uno scenario primitivo (in cui le difficoltà climatiche e ambientali riducevano le risorse disponibili) che non influisse sull'incontro tra due popolazioni con tecnologie e culture differenti. La lotta per la sopravvivenza deve essersi fatta esasperata ed è terminata con la vittoria del gruppo capace di reagire meglio a condizioni di vita estreme. Con tanti quesiti ancora aperti, scrutando nelle pieghe del nostro Dna, i genetisti hanno trovato nell'uomo contemporaneo una piccola ma significativa quota di materiale genetico (dall'1 al 4 per cento) che può risalire al l'illustre, quanto sfortunato, abitante europeo, a buon diritto da considerare tra i nostri antenati. Ma la sicurezza su perché, e come, sia infine scomparso non c'è.

Corriere 26.5.13
La fine del «grande cacciatore» che cucinava radici e tuberi


I primi resti dell'uomo di Neanderthal vennero trovati da Johann Fuhlrott, nell'agosto 1856, in una grotta di Feldhofer nella valle di Neander, in Germania, da cui derivò il nome del nostro progenitore. Robusto di corporatura, era un grande cacciatore e per sopravvivere integrava la dieta di carne mangiando radici e tuberi. Le necessità lo spingevano a migliorare la sua conoscenza tecnologia, fabbricando strumenti con la tipica tecnica di scheggiatura chiamata «Levallois» dalla grotta francese in cui vennero trovati la prima volta. Tra questi, punte di lancia in selce, schegge denticolate (una sorta di sega primitiva efficace nella lavorazione del legno), raschiatoi per lavorare ossa e tendini animali. L'uomo di Neanderthal produceva anche schegge allungate e affilate efficaci nel taglio della carne, conosceva l'uso del fuoco e probabilmente cucinava alcuni vegetali come dimostrano i residui di amidi intrappolati nel tartaro dei denti. Per proteggersi dalle intemperie costruiva ripari con pietre e pelli degli animali cacciati e manifestava un rispetto per i defunti che lo portava a seppellirli, ponendo intorno ai corpi corredi funerari con cibo e strumenti. Secondo alcuni studiosi compiva anche riti religiosi decorandosi il corpo. Un ominide evoluto, dunque, che viaggiò lasciando tracce, oltre che in Europa, negli attuali territori del vicino Oriente: dall'Iraq alla Siria a Israele, spingendosi fino all'Asia centrale e in Siberia. Fino a che arrivò l'Homo sapiens e il contatto, inevitabile, non si rivelò felice.

Corriere La Lettura 26.5.13
Ospite e nemico, lo straniero ambiguo
L’immigrazione rende inadeguata la logica dell’aut-aut: la sfida piuttosto è nell’et-et
di Umberto Curi


«Bisogna partire dal mescolarsi, dal conoscere l'altro perché credo si debba arrivare a una nuova coesione sociale, a una convivenza che rafforzi la cittadinanza intera». Così Cécile Kyenge, ministro dell'Integrazione sociale, ha commentato gli episodi di razzismo che hanno coinvolto Mario Balotelli. L'approccio suggerito dal ministro ha il merito di tagliar corto con le polemiche di basso profilo, riportando la discussione sul piano di un'analisi non appiattita sulla contingenza. E offrendo, sia pure indirettamente, la possibilità di una riflessione più approfondita sulla figura dello straniero. A cominciare dai termini impiegati per descriverla.
L'uso dell'espressione «straniero» implica una caratterizzazione esclusivamente negativa, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del nostro Paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione). Il termine si limita a registrare la loro «esternità» priva di ogni altro connotato, salvo la stranezza, che conferisce una particolare tonalità alla parola sia in italiano sia in francese (étranger) e in inglese (stranger). All'esteriorità s'aggiunge così la difformità da ciò che è consueto, e che perciò suscita perplessità e sconcerto. In molti casi, dunque, è «estraneo» o «straniero» quello che è anche percepito come «strano».
Il primo effetto è l'oscuramento di ogni differenza tra le molteplici identità linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l'umanità che viene «da fuori». Ciò che dell'«altro» il termine «straniero» ritiene pertinente è semplicemente la sua non-appartenenza, rispetto alla quale ogni ulteriore nota distintiva appare irrilevante o del tutto secondaria. L'anonimato in cui l'appellativo di stranieri rigetta la varietà dei gruppi umani si riflette sulla natura della relazione che diventa possibile entro tale orizzonte di senso, rendendola massimamente indifferenziata e impersonale. L'atteggiamento dominante tende a rimuovere il dato fra tutti più importante, vale a dire che lo straniero è ambivalente, è l'ambivalenza. È inevitabile vivere la sua presenza, il suo arrivo, come una minaccia. Ma è altrettanto inevitabile avvertire, nel cuore stesso del páthos che è inseparabile dal contatto con lui, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo, e di cui non potrei fare a meno. Posso respingerlo, certamente. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l'arrivo, a spalancargli le porte della casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se fosse una benedizione.
Ad inquietarmi nel profondo è la consapevolezza dell'insuperabilità dell'ambivalenza, il fatto che essa non dipenda da un «equivoco» provvisorio e comunque «rimediabile». Sempre, in quanto straniero, egli mi apparirà irriducibilmente doppio. Sempre minaccia e dono, non l'una cosa o l'altra. Anzi: l'una cosa proprio in quanto è l'altra.
Di qui la difficoltà estrema in cui questa «visita» mi pone. L'alternativa paralizzante di fronte alla quale mi situa. Rinunciare al dono per allontanare la minaccia, o affrontare il pericolo per acquisire il dono? Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell'unicità. Più ancora: di fronte a lui, la rassicurante e familiare logica dell'aut aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et et.
Ciò perché l'hostis — originariamente, insieme ospite e nemico — non è mai espressione di una dissomiglianza talmente radicale da poter essere considerata del tutto indipendente dalla nostra identità. Al contrario, egli è piuttosto l'altro termine di un binomio dal quale non posso prescindere. Nessuna compiuta identità può essere de-finita, nel senso preciso di ciò che possiede chiari confini, senza un nesso vitale con ciò che, essendo altro e diverso, concorre in maniera decisiva a stabilirla. Come ha rilevato Jacques Derrida, dell'hostis non possiamo fare a meno: non possiamo «scegliere» se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo in quanto la determina positivamente, ma anche in quanto la minaccia dall'interno.
La figura stessa dello straniero esige la riformulazione dell'apparato concettuale che è alla base della nostra quotidianità. Egli è dunque «extra-ordinario» (extraordinaire étranger, lo chiama Baudelaire), perché con la sua sola presenza mette in discussione gli ingredienti fondamentali della mia vita «ordinaria». E tuttavia la piena consapevolezza del carattere maxime periculosum dell'incontro con lui non può cancellare l'inderogabilità del rapporto, in una certa misura lo rende anzi ancora più necessario. Nella minaccia in lui incarnata è immanente una promessa alla quale non posso sottrarmi.

Corriere La Lettura 26.5.13
Dsm 5. Oltre 300 disturbi nella nuova, discussa, “bibbia della psichiatria”
Chi è in lutto va curato Lo dice il manuale
di Francesca Ronchin


Dopo quasi 10 anni di gestazione, il Dsm 5, la più recente edizione della bibbia della psichiatria, è pronto a entrare negli studi degli strizzacervelli di tutto il mondo. Presentato a San Francisco, in occasione dell'annuale congresso dell'American Psychiatric Association (Apa) che se ne occupa da oltre mezzo secolo, il nuovo manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali conta 947 pagine, oltre 300 malattie, per un costo di 199 dollari. A quest'ultima edizione ha lavorato una task force di 1.500 psichiatri sparsi in 39 Paesi, con un ritardo, sulla tabella di marcia, di circa due anni. Da un lato per la difficoltà del reperimento dei dati scientifici necessari per supportare eventuali novità e poi per la necessità di far fronte alla critica principale: quella di medicalizzare soggetti che fino all'edizione precedente erano considerati sani. Su tutti l'obiezione dello psichiatra Allen Frances, che dopo aver coordinato il Dsm IV ha deciso di prendere le distanze dall'Apa, responsabile, secondo lui, di una vera e propria inflazione di diagnosi.
Dalla prima edizione del 1952 a oggi il numero dei disturbi elencati è quasi triplicato. La nuova edizione supera di poco quota 300, con un'impronta che David Kupfer, responsabile dell'attuale task force, ha addirittura definito cauta. Se molti disturbi vengono accorpati — è il caso, ad esempio, delle sottocategorie dell'autismo, tra cui la sindrome di Asperger, che si trovano sotto l'unica voce Disturbo da spettro autistico — le new entry non mancano, anzi. Innanzitutto il Disturbo di disregolazione dirompente dell'umore che riguarda soprattutto gli scatti di rabbia dei ragazzi tra i 6 e i 12 anni. In pratica, se su un periodo di oltre un anno, gli episodi sono 3 a settimana, il bambino può venire considerato affetto da un disturbo mentale. Diventano malattia mentale il Deficit di attenzione degli adulti e il Binge eating nel caso in cui le abbuffate compulsive si verifichino almeno 12 volte in 3 mesi. Un particolare interesse per il sesso o l'assenza di attrazione per il proprio partner possono indicare un Disturbo del desiderio/dell'eccitazione sessuale femminile. Mangiarsi le unghie diventa una forma di Disturbo ossessivo compulsivo così come alcune operazioni di pulizia personale (grooming), dalla Tricotillomania, l'abitudine a strapparsi i capelli uno per volta, fino alla Dermatillomania, disturbo del controllo degli impulsi che spinge la persona a toccarsi, grattarsi o tagliarsi la pelle del corpo o del volto in modo compulsivo. Per soffrire di Disturbo da somatizzazione dei sintomi non servono più 8 sintomi ma ne basta uno, come la presenza di pensieri esagerati in presenza magari di una malattia grave.
Altra grossa novità riguarda il Lutto. Nell'edizione precedente, la perdita di una persona cara era esclusa dalla diagnosi di depressione maggiore in quanto evento stressante. Non più. Se sintomi come apatia e tristezza durano per più di due settimane, il lutto va curato. Entrano nel Dsm 5 anche il Disturbo di personalità dipendente, il Disturbo voyeuristico fino a quello di Eiaculazione ritardata. «È il momento più triste della mia carriera — dice alla "Lettura" Allan Frances —, per vedersi diagnosticare una malattia mentale, ormai basta davvero poco». E così, per le malattie più controverse, propone lo stesso avvertimento che negli Usa si applica ai farmaci più pericolosi, in modo da ricordare che si tratta solo di ipotesi, non di fatti scientifici. Proprio sulla mancanza di scientificità punta il dito anche il National Institute of Mental Health, che da quest'anno smetterà di finanziare la ricerca basata sui criteri diagnostici del Dsm. «È impensabile — spiega il direttore Thomas Insel — stilare una diagnosi a partire solo dai sintomi o dagli assunti teorici della psicopatologia. Nelle altre aree della medicina si può contare su parametri certi, come gli esami del sangue, la psichiatria invece non ha ancora indicatori biologici che distinguano tra salute e malattia».
Per come era nato, il Dsm 5 avrebbe dovuto essere un libro rivoluzionario, un vero cambio di paradigma nella diagnosi psichiatrica. Erano gli anni Novanta, «decennio del cervello», come li definì George W. Bush, e si voleva portare nel Dsm l'entusiasmo delle neuroscienze. «Peccato che la ricerca si sia focalizzata più sul funzionamento degli psicofarmaci — aggiunge Insel — che sulle cause biologiche della malattia mentale». Se le tecniche di neuroimaging giustificano l'inserimento delle nuove dipendenze da Internet, sesso e gioco, tra quelle da sostanze (i meccanismi cerebrali sono gli stessi), per ora, la rivoluzione più vistosa è la sostituzione dei numeri romani con gli arabi, in vista di aggiornamenti 5.1, 5.2 ecc. «Quello del Dsm non è un modello perfetto ma il migliore che abbiamo al momento», ci spiega Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria che si occupa della traduzione, in Italia a fine anno.
Per Mencacci, nella pratica quotidiana non cambierà molto se non maggior attenzione alla prevenzione: dai più giovani (nel 75% dei casi le patologie psichiatriche comparirebbero entro i 24 anni) agli anziani. È il caso del Disturbo neurocognitivo che trova spazio nel Dsm 5 anche nella sua forma minore. D'ora in poi, dimenticanze troppo frequenti si potranno leggere come segnali d'allarme della demenza. «So bene che il rischio di falsi positivi esiste, ossia che soggetti sani vengano considerati malati solo perché entrano nelle griglie diagnostiche, ma è il prezzo da pagare per arrivare in tempo con i trattamenti». Alan Cassels della University of Victoria (Canada), con «la Lettura» non modera il suo cinismo: «Sarà un caso che da qualche tempo l'industria farmaceutica stia lavorando a nuove pillole per prevenire la demenza?». Forse no. Del resto che attorno al Dsm ruotino interessi commerciali non lo ignora neanche Mencacci, ma ciò che più conta, precisa, «è come questo manuale verrà usato, se gli psichiatri sapranno utilizzarlo con competenza e buon senso».

Corriere La Lettura 26.5.13
Il nuovo realismo in filosofia? Un film già visto e doppiato male
Il tentativo di Maurizio Ferraris di tornare al principio di una realtà esistente in sé è solo il prodotto di un pensiero autopromozionale
di Guido Vitiello


Ecco, in una formula, il provincialismo italiano: doppiamo tutti i film americani, perché non sappiamo l'inglese, ma il titolo lo lasciamo nella lingua originale, perché suona meglio. La regola non vale solo per il cinema. Prendiamo il caso di Maurizio Ferraris e della sua creatura filosofica, il New Realism. Battezzarlo «nuovo realismo» non avrebbe avuto lo stesso effetto, così come uno striptease è più allettante di uno spogliarello. Tutto sta a scoprire (già che siamo in tema) quali grazie nasconde la veste esterofila del New Realism. Ebbene, rispondono gli autori del pamphlet Il nuovo realismo è un populismo (il melangolo): sotto l'etichetta non c'è niente.
Procediamo con ordine. Nell'agosto del 2011, su «Repubblica», Ferraris lancia il Manifesto del New Realism, a cui seguono convegni, libri e controversie giornalistiche. L'operazione è ambiziosa: si tratta di tornare a un'idea forte di realtà accantonando i giochi ermeneutici della filosofia postmoderna, che ha spinto al parossismo il principio di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Doveva essere, quella postmoderna, una filosofia liberatrice, una sfida alla tirannia della verità oggettiva, e invece ci siamo ritrovati, dice Ferraris, con i populismi mediatici che plasmano la realtà a piacimento, con il Berlusconi della nipote di Mubarak e il Bush delle armi di distruzione di massa. Il New Realism ci ricorda, con il vecchio proverbio, che «i fatti hanno la testa dura», e non vuole essere neppure una nuova corrente filosofica, ma la fotografia di una (contro)tendenza in atto, o meglio, dice Ferraris parafrasando Marx ed Engels, di uno spettro che si aggira per l'Europa.
I sei autori del pamphlet, curato da Donatella Di Cesare, Corrado Ocone e Simone Regazzoni, ironizzano sulla forma plumbea e démodé del manifesto, ma dal loro libro, se volessero, potrebbero ricavare un anti-manifesto suddiviso per capi d'accusa. Elenchiamoli. Primo punto: nessuno spettro si aggira per l'Europa, e neppure per l'America. Se si menzionasse il New Realism a Berlino o a New York, scherza Di Cesare, «per tutta risposta ci si sentirebbe fare i nomi di Rossellini e di Germi»: lo scambierebbero per il neorealismo, e chiederebbero i sottotitoli. Ai filosofi del mondo non giunge eco del nostro piccolo dibattito alla provincia dell'impero, e quella che Ferraris presenta abilmente come la grande tendenza del tempo presente ha in realtà un solo esponente di spicco: Maurizio Ferraris.
Questo ci porta al secondo punto: il New Realism è un'operazione di marketing filosofico, è un brand che serve a smerciare una posizione vecchia di secoli (il realismo, appunto) a fini di egemonia personale. Corrado Ocone rivede in Ferraris lo stile «autopromozionale» del suo maestro Vattimo, che trent'anni prima aveva saputo imporre la moda del pensiero debole. Ma con una differenza, che ci porta al terzo capo d'accusa: malgrado il suo richiamo ai fatti, Ferraris ricorre alle più disinvolte interpretazioni per foggiare l'immagine caricaturale del «postmoderno filosofico», un monolite oscurantista ostile alla realtà e alla ragione, e soprattutto una testa di turco contro cui averla vinta facile.
Ma perché l'operazione ha avuto tanta eco su «Repubblica»? È il quarto punto: perché si sposava a meraviglia con la linea politica del giornale. In sostanza il New Realism, scrive impietosamente Simone Regazzoni, «è una piccola filosofia giornalistica cresciuta all'ombra del berlusconismo», e Ferraris ha compiuto un salto mortale «dalla decostruzione di Derrida alla Scomparsa dei fatti di Marco Travaglio». Ricapitolando: il nuovo realismo è un provincialismo, un narcisismo, un illusionismo e un antiberlusconismo. Ed è, recita il titolo, un populismo, ossia «una banalizzazione del pensiero che mira a riscuotere il consenso del vasto pubblico».
Vasto pubblico? Qui gli autori rischiano di dimenticare quanto sia irrisoria l'incidenza dei filosofi, realisti o meno, sul mondo reale (ci permettiamo di aggiungere: grazie al cielo). «Populismo filosofico» è quasi un ossimoro, e così come non è stato Vattimo a inaugurare la società dell'immagine, così non sarà Ferraris a seppellirla. Perché è vero che Umberto Eco, arruolato anch'egli tra i «nuovi realisti», la sera non ha tempo per il bunga bunga perché legge Kant. Ma è anche improbabile, come scrive Laura Cervellione nel suo spiritoso saggio, «che Berlusconi tenga i libri di Baudrillard sul comodino».

Corriere La Lettura 26.5.13
La professoressa vuol essere giraffa
Nell'ex Germania Est la fede nella ragione genera folli desideri darwiniani
di Cinzia Fiori


Rischiare la caricatura perché un personaggio estremo possa dire la sua verità e centrare in primo luogo l'obiettivo di una voce riconoscibile, che resta con il lettore anche quando ha terminato il libro. La voce sarcastica e scorretta appartiene a Inge Lohmark, professoressa di biologia in un liceo dell'ex Germania Est. Da sempre convinta che la selezione naturale sia l'unica legge del mondo, non incoraggia gli studenti meno portati né si preoccupa dei più emotivamente deboli. Ciò che insegna è per lei scuola di vita, e se quella fuori dalle finestre è dura, Lohmark prepara i suoi allievi con verifiche a sorpresa, come sorprendenti sono gli eventi che si abbattono in successione sull'esistenza. Incurante di «parassiti» e «perdenti» in aula, nonché dei mutamenti socioculturali fuori, da trent'anni procede con le lezioni. Intorno, la cittadina si spopola, malerbe e arbusti fagocitano quel che rimane dell'edilizia socialista e il liceo Darwin, dove insegna, è in via d'estinzione causa denatalità. Lo splendore casuale delle meduse di Judith Schalansky, tedesca alla seconda prova, avanza al seguito del monologo interiore della protagonista, intervallato dalle voci di studenti e colleghi, puntualmente commentate con ironia. Lohmark è caustica, giudica tutto e tutti, è una fustigatrice di costumi, ma il suo sguardo sugli adolescenti e su ciò che accade o la circonda è divertente perché, per quanto spietato, contiene elementi di verità. Ogni evento, nel suo mondo psichico, ha un paragone e una risposta nella natura, e questa maniera di rappresentarsi la vita è il tratto peculiare del romanzo. L'uomo è un animale imperfetto e problematico, un episodio a base di proteine che come molti altri finirà. Sarebbe bello secondo Lohmark avere i cloroplasti e sintetizzare da sé le energie per vivere; meglio ancora essere una giraffa, con la testa, e tutti i problemi che dà, a due metri dal cuore. Lei stessa, a ben guardare, pensa molto. Non è stupida Lohmark, ha fede nella ragione, e se da simili convinzioni discendono i guai della sua vita, conduce comunque il lettore a una riflessione su se stesso come membro della specie umana. Così come il suo disprezzo per la docente d'arte (troppo accondiscendente) impone, per estremi, una meditazione più che mai attuale sulla trasmissione del sapere e sul ruolo dell' insegnante. Schalansky usa una prosa ossessionata dai punti, che sostituiscono le virgole nell'elencazione. L'effetto telegramma è in agguato, ma ottiene frasi icastiche a comporre uno stile che ben s'adatta alla protagonista e alla sua fabbricazione di certezze. Anche quando qualcosa dentro di lei s'incrinerà, e le emozioni che suo malgrado accompagnano i pensieri cominceranno a prenderla di sorpresa.

il Fatto 26.5.13
Il viaggio
Il futuro presidente democratico, a fine anni 30, viaggiò in Europa tra Londra e Berlino Tornò con sentimenti di ammirazione per Hitler e il fascismo


L’ULTIMO LIBRO Il tema delle simpatie naziste di JFK è un classico delle biografie quasi quanto quello sulle sue amanti. L’ultimo capitolo è il libro John F. Kennedy. Fra i tedeschi. Diari e lettere a cura dello storico Oliver Lubrich, in cui il futuro presidente degli Stati Uniti, a proposito di Hitler, annota: “La sconfinata ambizione per il suo paese lo ha reso una minaccia per la pace del mondo. Eppure aveva qualcosa di misterioso nel suo modo di vivere e nel suo modo di morire, che gli sopravviverà e che crescerà. Era della stoffa di cui sono fatte le leggende”. Le stesse frasi, tuttavia, erano già state rivelate nel 1995, in un libro che fece discutere negli Usa: Prelude to a leadership, The European Diary of John F. Kennedy con prefazione di Hugh Sidney, biografo di Kennedy e cronista della rivista Time.

il Fatto 23.5.13
Il giovane Kennedy, Hitler e l’America del “club dei ricchi”
Stupore per le “simpatie” naziste di JFK
Ma si dimentica che l’intero corpo diplomatico Usa, scelto fra le grandi famiglie, simpatizzava per il regime
di Furio Colombo


La signora Roosevelt mi guarda, sistemandosi sulle spalle la mantellina di lana: “Che cosa c’era di sbagliato nelle relazioni fra l’America e il mondo? Faccia conto di sentire della musica con una cattiva radio. La diplomazia era affidata a uomini ricchi che non si preoccupavano neppure di conoscere la lingua o la cultura del Paese di cui si stavano occupando. Ma tenga conto di quest’altro motivo: una educazione conservatrice incoraggia il conformismo, e il conformismo è capace di crescere smisuratamente, funziona più delle leggi, produce la più rischiosa delle censure quando la gente arriva al punto da sentire il silenzio giusto e necessario. Lei mi dice di essere sempre rimasto stupito per la domanda che le rivolgono decine di americani, se non siano stati migliori per voi i tempi di Mussolini. Tenga conto che, per la maggior parte, si tratta di repubblicani e di ricchi che hanno la sensibilità che hanno e, quando viaggiano, vedono le persone che vedono”. Sotto la vetrina di una bacheca, nello studio del presidente, mi fa vedere la pagina di un giornale attaccata con puntine da disegno: “Cristiani, sveglia! Il gruppo di Roosevelt e degli ebrei sovietici è alle porte. I giudei tengono le staffe, e il cavallo comunista calpesta il nostro Paese”.
Sto citando dalle pagine di un mio libro (L’America di Kennedy, Feltrinelli, 1964 ). In quel libro il primo capitolo è dedicato a due incontri con Eleanor Roosevelt, nel 1961, ad Hyde Park, la residenza di campagna del presidente del New Deal, e nell’appartamento della 74a strada, a New York. Il primo argomento della nostra conversazione era stato: perché una buona parte della classe dirigente americana provava una certa simpatia per Hitler e per Mussolini persino negli anni di governo di un presidente ritenuto e giudicato “di sinistra” o addirittura “comunista”? Come poteva esserci pregiudizio anti ebraico nell’America che, poco dopo avrebbe guidato una guerra mondiale contro il nazismo, il fascismo e l’ossessione militarista giapponese? L’occasione di riparlare di quell’incontro mi è offerta dall'articolo di Caterina Soffici (il Fatto Quotidiano, 18 maggio) “Il giovane JFK (di nuovo) affascinato da Hitler”. Mi serve per aggiungere alcune notizie alle sue riflessioni intelligenti e accurate sul libro appena pubblicato in Germania John F. Kennedy fra i tedeschi, diari e lettere a cura dello storico Oliver Lubrich.
IL PUNTO FORTE di quel libro sembra essere la scoperta di sentimenti di ammirazione e persino di attrazione del giovane Kennedy per Hitler e il suo regime, ma anche per il fascismo italiano. Molti lettori ricorderanno quante volte si è parlato, in passato, delle simpatie naziste di Joseph Kennedy, il capo dinastia della grande e sfortunata famiglia, che in quegli anni è stato ambasciatore americano a Londra e – come ricorda Soffici –
“fu sostenitore della linea morbida verso la Germania hitleriana”. Ma la scena cambia drammaticamente se si allarga l’inquadratura sui rapporti fra Stati Uniti ed Europa in quegli anni, o meglio fra Dipartimento di Stato e diplomazia americana da un lato e l’evolversi dei fatti in Europa dall’altro. Ma anche dentro l’America di quegli anni. Una deformazione di immagine ci è sempre stata data dall’ossessione della storiografia americana degli ultimi decenni a far luce sempre e soltanto sui Kennedy. Il loro presunto filo-nazismo si vende bene, attrae attenzione, induce gli autori a soddisfare la domanda e gli editori a pretenderla. Già negli anni 90, quando molti Kennedy importanti erano ancora in vita (da Ted, il senatore, a Jean Kennedy Smith, l’altra anima politica della famiglia che diventerà poi ambasciatrice di Clinton a Dublino) si diceva che le case editrici, anche le più serie, volevano sapere, di fronte alla proposta di un libro sui Kennedy, se c’erano nomi di nuove amanti del presidente o di nuovi spunti su simpatie per Hitler. E ne facevano la condizione per pubblicare. Non è solo una chiacchiera, e spiega perché i due tipi di “citazione” tornino continuamente in ogni testo, per quanto serio sia lo storico. Per esempio, nel libro di cui stiamo parlando gli ingredienti richiesti ci sono tutti: da un lato ci sono frasi, annotazioni, lettere, e conversazioni sulla “magnetica personalità di Hitler” che “lascerà un segno nella Storia”. Dall’altro compare una nuova e inedita amante che è anche agente segreto nazista. Si direbbe che, con il passare degli anni, la storiografia kennediana si fa sempre più carico delle alte spese dell’editoria e quindi del dovere di fare ampio uso dell’additivo scandalistico, una specie di ogm che si autoriproduce in certi libri di storia. Il fatto che dovrebbe interessare, però, non è se le parti roventi di questo moltiplicarsi di biografie siano vere o fondate. Ormai sanno tutti che le amanti di Kennedy sono una lista libera e che basta il supporto di una cartolina ritrovata per aggiungere un nome, meglio se in odore di spionaggio. Invece il riferimento al nazismo è creato con il gesto deliberato di restringere la scena solo sui Kennedy e possibilmente solo sul presidente. Poiché JFK è una leggenda, è immensamente utile attribuirgli la frase dedicata a Hitler “Eppure aveva qualcosa di misterioso che gli sopravviverà. Era la stoffa di cui sono fatte le leggende”. Ma ecco il trucco, che è anche un fatto incredibile e finora ben poco studiato: tutto il Dipartimento di Stato (nell’America di Roosevelt!) era una sorta di “club dei ricchi” temporaneamente in politica, e gran parte della diplomazia, che era allo stesso tempo quasi sempre di carriera, quasi sempre prescelta fra le grandi famiglie del tempo, simpatizzava per il nazismo. Il trucco finalmente viene scoperto dallo storico Erik Larson, con il suo Il giardino delle bestie Berlino 1934 (Neri Pozza 2012). È un saggio dedicato a William E. Dodd, primo ambasciatore americano insediato da Roosevelt nella Berlino nazista, unico “povero” tra consoli e ambasciatori (era professore di Storia moderna a Chicago) che però era amico del presidente e, due decenni prima, si era laureato in Germania. La sua è la storia di un continuo conflitto, tra prese in giro del “club dei ricchi”, archiviazione dei suoi documenti sul progressivo inferocirsi del nazismo e sull’inizio e l’esplodere delle persecuzioni razziali, rapporti ignorati sui suoi incontri con Hitler e la trasformazione, anche psicologica e umana (o disumana) del dittatore.
DODD OSA tenere un discorso di esaltazione della democrazia nel salone della Camera di Commercio tedesco americana, davanti a Göring e a Himmler, spiegando che l’abbandono di quel percorso porta alla guerra. “Continui così e scriva direttamente a me”, lo incoraggia il presidente e la signora Roosevelt mi ha fatto vedere le molte lettere (tutte scritte a mano) fra il capo della Casa Bianca – lei diceva “mio marito” – e l’ambasciatore a Berlino che odiava il nazismo e prevedeva la guerra. Ma “Il club dei ricchi”, di fronte alle proteste hitleriane, si è scusato con Hitler per il discorso di Dodd sulla democrazia. E mentre Dodd era a Washington proprio per incontrare Roosevelt, il suo “incaricato d’“affari” ha accettato l’invito alla notte di Norimberga. È apparso accanto a Hitler di fronte alla folla delirante, prima grande rappresentazione della tragedia.
Per questo ho citato un frammento della conversazione con Eleanor Roosevelt durante la lontana visita ad Hyde Park. Solo lei aveva l’autorità per concludere: “Vede? Questa è la destra. Al club dei ricchi piace. C’è sempre un Club dei ricchi. Non ci resta che sperare nei cittadini. Che scelgano sempre di stare dalla parte della democrazia”.

il Fatto 26.5.13
Le intercettazioni del Re, la svastica alle porte di Londra
di C. A. Bis.


Edoardo VIII è stato re del Regno Unito dal 20 gennaio all’11 dicembre dello 1936, quando abdicò a favore del fratello Albert, Giorgio VI. Già prima dell’incoronazione il monarca si era legato all’ereditiera americana Wallis Simpson, divorziata e risposata. Le pressioni per convincere Edoardo VIII a troncare la relazione – scandalosa anche perché il re del Regno Unito è di diritto capo della chiesa d’Inghilterra – si scontrarono con la sua ferma decisione di sposare Wallis e, quindi, di abdicare.
Emerge oggi, dagli archivi nazionali, che in quei mesi di grande tensione i servizi segreti britannici avevano messo sotto controllo il telefono del re per ragioni di sicurezza nazionale. L’ordine all’MI5 arrivò direttamente dal ministro degli Interni e riguardava tutte le linee telefoniche utilizzabili dal re a Buckingham Palace nonché nell’abitazione di Wallis Simpson a Londra e nella residenza di Forte Belvedere da cui si riteneva partissero telefonate dirette in Europa. L’ordine, scritto a mano, fa parte di una ingente quantità di documenti che abbracciano un arco di tempo tra il 1936 e il 1951. Sebbene nel corso del 1936 le consultazioni tra Buckingham Palace e Downing Street fossero continue, i documenti dimostrano che il governo, all’epoca guidato dal conservatore Stanley Baldwin, fece di tutto per sapere quali erano le intenzioni della famiglia reale. Un promemoria diretto all’MI5 del 5 dicembre 1936 – 5 giorni prima dell’abdicazione – dice: “il ministro degli Interni vi chiede per mio tramite di proseguire le intercettazione delle telefonate in entrata e in uscita da Forte Belvedere e Buckingham Palace”. I documenti provano che i servizi arrivarono persino ad impedire ad un giornale sudafricano di realizzare un notevole scoop annunciando con quattro giorni di anticipo la fine del breve regno di Edoardo VIII. Forbes Grant, corrispondente di alcuni quotidiani sudafricani tra cui il Cape Times, il 6 dicembre inviò alla redazione il seguente telegramma: “Il re ha abdicato e lascia l’Inghilterra domani. Stop. L’accordo è stato raggiunto oggi. Stop”. Malauguratamente per Grant, il servizio postale aveva avuto ordine di contattare il ministero degli Interni in caso di telegrammi potenzialmente pericolosi.
IL TELEGRAMMA fu intercettato. Come non bastasse – e questo la dice lunga sulla “libertà” di cui godeva la stampa in quei giorni – Grant fu convocato dal ministro degli Interni e severamente rampognato per aver tentato di pubblicare notizie non ancora confermate dalle autorità. Interessante il modo in cui il ministro degli Interni Simon racconta l’incontro con Grant: “Gli ho detto che il telegramma era stato portato alla mia attenzione e che avevo deciso di vietarne l’inoltro. Il testo conteneva affermazioni false e che le conseguenze della loro diffusione avrebbero potuto essere molto spiacevoli”. Ben sapendo che le affermazioni erano tutt’altro che false aggiunse: “Nel 1815 le voci infondate di una nostra sconfitta a Waterloo determinarono una crisi finanziaria e rovinarono molte persone”. Sempre secondo il promemoria, Grant, che in seguito abbandonò il giornalismo e divenne romanziere, ascoltò disciplinatamente il sermoncino, ma si rifiutò di rivelare “la fonte assolutamente attendibile” che gli aveva passato la notizia. Tuttavia in seguito ammise che quell’episodio era stata per lui “una salutare lezione”. Un altro aspetto su cui fanno luce i documenti degli archivi è quello dell’atteggiamento delle autorità nei confronti della signora Simpson mentre dimorava nella sua casa londinese di Regent Park. Un promemoria inviato al ministero degli Interni spiega in che modo Edoardo VIII avesse chiesto con insistenza di rafforzare la sorveglianza intorno all’abitazione di Wallis Simpson per tenere lontani fotografi e giornalisti.
A leggere tra le righe dei documenti, dei promemoria e degli appunti si ha anche la conferma di una divergenza di motivazioni tra la famiglia reale e il governo. I Windsor si preoccupavano dello scandalo causato dalla relazione del re con una donna divorziata e “chiacchierata”, il governo sembrava più preoccupato delle simpatie che Edoardo VIII e la sua futura moglie avevano per il regime nazista. Dopo l’abdicazione, l’ex sovrano divenne Duca di Windsor e il 3 giugno del 1937 sposò la signora Simpson a Monts, Francia, senza la presenza di alcun membro della famiglia reale inglese. Quello stesso anno i duchi di Windsor si recarono in visita in Germania ospiti di Adolf Hitler.
In seguito vissero a Parigi e poi a Lisbona dove frequentarono persone influenti vicine all’ambasciata tedesca. Scoppiata la guerra, il governo, desideroso di allontanarlo dall’Europa, nominò il duca di Windsor governatore delle Bahamas. Il duca di Windsor poté rientrare in Europa solo nel 1945 a guerra finita.

il Fatto 26.5.13
A Hollywood bastarono pochi mesi Storia di un film perduto e ritrovato
di Carlo Antonio Biscotto


Cornelius Vanderbilt IV, pronipote del magnate del trasporto ferroviario e marittimo, dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale decise di fare il giornalista e, grazie al denaro e al nome, non gli fu difficile tra le due guerre entrare in ambienti inaccessibili ai comuni reporter. Girando l’Europa con due cineoperatori francesi intervistò sia Benito Mussolini che Stalin, ma il suo obiettivo era ancora più ambizioso.
Il 5 marzo 1933 si tennero in Germania le ultime elezioni della Repubblica di Weimar e il partito nazionalsocialista ottenne la maggioranza con quasi il 44%. Quello stesso giorno un Adolf Hitler trionfante parlò dinanzi a una folla in tumulto riunita nel palazzo dello Sport di Berlino. Vanderbilt riuscì a scambiare qualche parola con il neo-cancelliere tedesco. “Dica agli americani – gli disse Hitler – che la vita va avanti, sempre avanti. Dica loro che Hitler è l’uomo del momento e che è stato mandato dall’Onnipotente per trarre in salvo una nazione trattata con disprezzo e senza onore per quindici lunghi anni”.
Due settimane dopo Vanderbilt si imbarcò alla volta di New York con molti metri di pellicola girati sui profughi ebrei che fuggivano dalla Germania. Nei mesi che seguirono Vanderbilt scritturò il regista Mike Midlin e affidò al noto giornalista della Nbc Edwin C. Hill il ruolo di voce narrante, commentatore e intervistatore. Vanderbilt si ritagliò la parte di un giovane, coraggioso giornalista.
IL FILM di Cornelius Vanderbilt IV uscì il 30 aprile 1934 a Broadway con il titolo Il regno del terrore di Hitler. Erano 65 minuti di immagini di repertorio e materiale girato da Vanderbilt. C’erano scene di massa, sfilate di camicie brune, discorsi di Hitler, folle impazzite che bruciavano libri, interviste tra cui quella con Helen Keller i cui libri furono dati alle fiamme su ordine di Hitler. Vanderbilt aveva anche filmato la tomba dei genitori di Hitler e aveva raccolto testimonianze da cui risultava che Hitler era malvisto nella sua cittadina natale in Austria.
Sorprendentemente il 1° maggio del 1934 il New York Times recensendo il documentario scriveva: “I metodi di Hitler vengono criticati ferocemente nel documentario di Vanderbilt e Hill, ma purtroppo sono del tutto assenti moderazione di toni e senso dell’umorismo”. Pochi giorni dopo Roy Norr, in rappresentanza della Motion Picture Association of America, visionò il film e, pur sottolineando che dava della Germania una immagine assolutamente negativa, disse che “un governo non può sentirsi insultato se ci si limita a descrivere oggettivamente il modo in cui si comporta”.
Di diverso avviso George Canty, addetto commerciale dell’ambasciata americana a Berlino che, bersagliato dalle proteste, concluse che “il film non è utile agli interessi dell’America”. Col tempo fu proprio la posizione di Canty a prevalere negli Stati Uniti. Il film fu bloccato dalla censura a New York e successivamente anche a Chicago a seguito delle proteste del console tedesco che sosteneva che il documentario fosse un falso. Travolto dalle polemiche il documentario svanì nel nulla. Almeno fino a poco tempo fa. Nello scorso mese di aprile è uscito il libro Hollywood e Hitler, 1933-1939 del professor Thomas Doherty, uno studio molto interessante sul rapporto tra Hollywood e il nazismo. Durante la stesura del libro, Doherty non riuscì a trovare una copia del film di Vanderbilt e ne rimase stupito al punto da scrivere: “Il film è scomparso nel nulla e non se ne fa cenno nemmeno tra le carte conservate dalle biblioteca della Vanderbilt University”. Qualche mese dopo Doherty ricevette una email da Roel Vande Winkel dell’università di Anversa, in Belgio, che era stato contattato dall’Archivio cinematografico belga dove era stata rinvenuta una copia del film di Vanderbilt sepolta tra gli scaffali dal 1945.
PROBABILMENTE – come spiega Doherty – un distributore belga aveva ordinato una copia del film allo scoppio della guerra e prima dell’occupazione del Belgio da parte dei nazisti. Secondo la ricostruzione di Doherty la copia non era mai stata ritirata alla dogana – o perché nel frattempo il Belgio era stato occupato o perché il distributore non aveva il denaro per sdoganarla – ed era finita nell’archivio cinematografico alla fine della guerra.
Il regno del terrore di Hitler è riapparso dopo 80 anni di oblio. A rivederlo oggi il documentario denuncia qualche ingenuità, ma rimane un documento straordinario non fosse altro perché è il primo film americano dichiaratamente antinazista. All’inizio del film la voce narrante chiede a Vanderbilt cosa pensa di Hitler: “Senza dubbio è un uomo abile e forte. Ma dopo averlo intervistato lo considero uno strano miscuglio tra Huey Long, Bill Sunday e Al Capone. Non avevo mai conosciuto un uomo altrettanto bravo nel parlare alle masse. Mi ha detto che la Germania non vuole dimenticare i suoi due milioni e mezzo di morti. È uno straordinario imbonitore”. “Secondo lei in Europa si sta preparando un’altra guerra? ”, chiede Hill. Vanderbilt annuisce con espressione addolorata: “Sembra un incubo tremendo e incredibile”, commenta Hill. “Sì, sono d’accordo”, conclude Vanderbilt.

Repubblica 26.5.13
Così Hollywood scendeva a patti con la ferocia dei nazisti
di Angelo Aquaro


Niente di nuovo sul fronte occidentale. A chi obbediscono i media? Al potere: sempre e dovunque. Prendete anche Hollywood. Mentre Adolf Hitler spadroneggiava in Europa, dall’altra parte del mondo gli studios continuavano a farsi gli affari loro: non disdegnando quelli con Lui. Tutta la verità in Hollywood e Hitler: cronistoria di una vergogna. Dice bene il New York Times: il libro di Thomas Doherty (già autore del prezioso Hollywood’s Censor) ricostruisce per la prima volta quel vergognoso silenzio che venne a cadere proprio «nel momento in cui mostrare la barbarie dei nazisti sarebbe stato determinante». Determinante sembrò invece a Fox e Paramount non privarsi di quel fiorente mercato: perfino il leone della Metro Goldwyin-Mayer, pure fondata dal jewish Marcus Loew, non ruggì di fronte al mostro nazista, compiacendolo anzi con l’allontanamento dei suoi manager ebrei da Berlino. Sì, è vero: la Warner Bros, fondata dai fratelli polacchi, ma anche loro ebrei, Warner, chiuse le relazioni con la Germania – ma solo dopo che un suo rappresentante fu assalito nella capitale (e morì poco dopo forse proprio per quelle percosse). La controstoria di Doherty non fa sconti a nessuno. E d’altronde: sapete quale fu il primo film con cui Hollywood ammainò in Germania la bandiera della libertà? Era il 1930, i nazi scaldavano ancora i muscoli ma un certo Goebbels si portava avanti: furono le sue camicie brune a trasformare in un inferno la prima di Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Le major ritirarono subito il film “ebreo e disfattista”.
Niente di nuovo sul fronte occidentale: appunto.

l’Unità 26.5.13
L’ultimo atto dei teatri lirici
Tagli, politiche sbagliate: la mappa del disastro da Genova a Milano
La riforma Bondi ha dato il colpo di grazia e il governo Monti ha amplificato
il disagio: la musica in Italia si sta assottigliando sempre di più
Un patrimonio in rovina che coinvolge anche le orchestre
di Luca Dal Fra


SONO PARECCHIE LE GRANE CHE MASSIMO BRAY HA TROVATO SULLA SUA SCRIVANIA DI MINISTRO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI:forse la più appassionante riguarda la musica nel nostro Paese. In tutto il mondo l’opera parla italiano, grazie a uno straordinario repertorio lasciatoci dai nostri compositori che sta conquistando sempre nuovo pubblico dall’Asia al Sudamerica all’Africa e perfino in Europa -, ma in Italia il melodramma vive la stagione più triste della sua storia, d’altronde insieme alla musica sinfonica e da camera vessate da iniqui e inutili provvedimenti varati dal Governo Monti.
Se nei giorni scorsi hanno fatto scalpore i lavoratori delle librerie Feltrinelli che per evitare i licenziamenti abbiano scelto la cassa integrazione di solidarietà, non tutti sanno che la cosa avviene da anni nelle Fondazioni lirico-sinfoniche, i nostri maggiori teatri lirici. C’è poi la crisi endemica che attraversiamo, con oltre 10 anni di continui tagli agli investimenti pubblici del settore; su tutto pesa la Legge 100/2010, la cosiddetta riforma Bondi, che nei discorsi di quell’ineffabile ministro avrebbe dovuto «salvare la lirica» e invece la sta affondando. Per non parlare dei cosiddetti contributi salvifici dei privati alla cultura, che dal 2005 al 2011 per le 14 Fondazioni lirico-sinfoniche sono passati dalla cifra risibile di 47,6 milioni di euro a 50 milioni e, considerando l’inflazione, come valore reale sono diminuiti. Si aggiungano gli effetti di una visione tutta managerialista e privatista che sta facendo non pochi danni all’identità delle nostre grandi istituzioni musicali e non di rado sta causando disastri economici.
Caso esemplare è il Carlo Felice di Genova, dove per far fronte ai tagli e al conseguente dissesto del teatro, per la prima volta più di due anni fa è stata introdotta la cosiddetta «solidarietà», vale a dire una riduzione dell’orario di lavoro con la conseguente diminuzione di stipendio, in parte coperta dalla cassa integrazione. Una medicina amara per i lavoratori ma soprattutto per più versi inutile: il danaro pubblico che veniva risparmiato tagliando gli investimenti, era poi speso in parte come sussidio, e per di più il piano industriale, che oltre alla «solidarietà» aveva visto prendere impegni dagli enti locali e dai privati, è miseramente naufragato poiché gli unici a rispettarlo sono stati i lavoratori. In questi giorni si sta perfezionando un nuovo accordo di «solidarietà» per i tecnici e gli amministrativi, mentre orchestra e coro rinunceranno a una parte dello stipendio. Una Caporetto progettuale e amministrativa visto che il teatro non dà segni di ripresa. È forse per questo che una analoga medicina è stata proposta in questi giorni dal commissario straordinario Carapezza Guttuso per risanare il Massimo di Palermo: tagli ai salari che secondo il sindacato raggiungerebbero il 60% dello stipendio, oltre al recente annullamento di 2 titoli di una stagione che contava 8 opere e si è ridotta del 25%.
La Scala è però l’emblema della gravità della situazione: il teatro vive oramai con più del 60% di risorse proprie (soci e sponsor privati, vendite), dunque ben oltre la soglia di quel 50% che piace alla visione più liberista delle istituzioni culturali. Nel 2012 il teatro meneghino si è visto decurtare circa 7 milioni di euro (3 dallo Stato, 3 dalla Provincia e 1 dal Comune), così oltre a vari tagli per chiudere senza un disavanzo, i lavoratori hanno rinunciato a circa la metà del loro compenso integrativo, un contratto che era stato firmato appena l’anno precedente. Se il più importante teatro italiano è in affanno si può immaginare cosa accada altrove, e dunque è importante sottolineare come il Governo Monti dopo aver garantito che non avrebbe tagliato gli investimenti alla cultura, naturalmente lo ha fatto sia nel 2012 che nel 2013 per lo spettacolo circa il 5% in meno, cui vanno aggiunti i tagli alle amministrazioni locali nei capitoli di spesa dedicati alla cultura. Conseguentemente anche al Lirico di Cagliari i fondi delle amministrazioni locali per il 2013 sono ridotti alla metà. E saranno dolori.
La nuova frontiera è tuttavia sui Lungarni fiorentini e, ahimè, le acque sono molto torbide. Il Comunale di Firenze, uno dei più importanti teatri italiani, nel 2010 è stato affidato a Francesca Colombo, nominata sovrintendente dall’appena insediato sindaco Matteo Renzi. Curriculum non inopinabile, aggressivo atteggiamento manageriale, dopo aver promesso il pareggio di bilancio, in tre anni di gestione Colombo ha accumulato quasi 15 milioni di euro di passivi prima che il teatro venisse commissariato nel febbraio scorso (11,6 certificati da lei stessa per il biennio 2010-11, altri 3 per il 2012 certificati dall’attuale commissario). E questo malgrado i lavoratori del teatro abbiano fatto pesanti periodi di cassa integrazione in deroga, abbiano acconsentito a numerosi licenziamenti volontari con incentivo, e perfino abbiano ceduto una parte degli accantonamenti della loro liquidazione.
Insomma, un’altra Caporetto, cui l’attuale commissario Francesco Bianchi risponde oggi con una linea del Piave vecchia e ammuffita: altri 120 licenziamenti (75 di personale più altri 44 con cause di lavoro che il teatro è destinato a perdere). Il progetto sarebbe chiudere il corpo di ballo in Italia ogni volta che un teatro è in crisi la prima vittima sono i danzatori e disfarsi dei tecnici in cospicua parte, passando da 404 lavoratori del 2009 a 277 nel 2014. Come sempre il ridimensionamento radicale porterà a una diminuzione della produttività e dunque degli investimenti pubblici, mentre nel contempo Firenze è in procinto di avere un nuovo teatro d’opera, del costo di centinaia di milioni di euro, per destinarlo proprio al Comunale, che in questo modo da
centro produttivo diventerebbe un luogo di circuitazione con annessi orchestra e coro, ma senza tecnici per montare gli spettacoli. Si parla di una legge speciale per salvare la situazione, con contributi non per il teatro ma per il festival, il Maggio musicale, dove sono anche circuitati spettacoli. Il provvedimento dovrebbe contenere anche una prebenda per l’Arena di Verona, che non ne avrebbe urgenza, ma si tratta di una cosiddetta larga intesa per gratificare due città, una governata dal centrosinistra e l’altra dal centrodestra.
Impressione diffusa è che la battaglia che in questi giorni stanno combattendo i lavoratori e i sindacati del Comunale di Firenze non riguardi solo i bilanci e i passivi del loro teatro, ma tutti i teatri italiani che si vorrebbero lentamente trasformare da centri di produzione a contenitori per circuitare spettacolini intrattenitivi e canzonettistici. È questo il destino dei nostri grandi teatri? Ma oltre alle Fondazioni lirico-sinfoniche, la musica in Italia comprende altre realtà: un tessuto che si sta assottigliando sempre più, sia quantitativamente che qualitativamente. Parliamo delle Orchestre Regionali talvolta di notevole qualità come la Toscanini di Parma, la Regionale Toscana, la Haydn di Bolzano -, dei Festival, delle associazioni concertistiche, talune di nobili ascendenze come la Filarmonica Romana, gli Amici della Musica di Firenze o di Palermo.
Negli ultimi 13 anni, contrassegnati dai continui tagli ai finanziamenti pubblici operati dai governi di centro-destra e da quelli tecnici, avevano avuto una sola forma di risarcimento: le istituzioni consolidate godevano di un sistema di anticipi che arrivavano a metà stagione e coprivano fino all’80% del finanziamento -, che gli permetteva di non chiedere prestiti e non pagare interessi alle
banche. Tuttavia il Governo Monti con due leggi 135/2012 detta Cronoprogramma e 33/2013 sulla trasparenza -, indirizzate a regolare forniture e appalti, ha reso burocraticamente impervio se non impossibile pagare alle istituzioni culturali questi anticipi e perfino i saldi degli scorsi anni, (pur se in questo caso si tratta di contributi e non di forniture e appalti). Risultato: di fronte a un settore fortemente definanziato come quello culturale, le banche prestano a interessi da capogiro oppure non prestano affatto, visto che queste istituzioni, al contrario dei teatri d’opera non possedendo un patrimonio, non sono in grado di offrire garanzie. Ricaduta collaterale: le attività culturali in Italia stanno acquisendo la fama di settore insolvente e gli artisti internazionali vengono sempre meno volentieri.
È un’altra Caporetto, emblematica poiché le due leggi del Governo Monti il cui scopo sarà stato anche encomiabile, non hanno tenuto conto della specificità del settore cultura e dell’emergenza in cui versa da quasi quindici anni e della sua attuale fragilità. Questo ultimo punto, la specificità del settore cultura, non solo non è nell’agenda politica del centro-destra, ma neppure, spiace dirlo, del centro-sinistra. In cosa bisogna sperare: finalmente in un rifinanziamento dell’investimento pubblico in cultura, che oramai nessuno osa proporre? In politiche culturali, serie, lungimiranti e progettuali che mancano da anni? Di certo questi sono solo i problemi più urgenti della musica: una vera grana che il ministro Bray si è trovato sul tavolo, ma per ora la pratica non appare neppure aperta.
Terza puntata delle nostre inchieste sulla crisi, dopo le librerie e la Discoteca di Stato.

Repubblica 26.5.13
Nel labirinto della vita di Kierkegaard
di Franco Marcoaldi


Nessuno come Søren Aabye Kierkegaard è riuscito a mascherare il segreto della propria esistenza tra le pieghe di una scrittura capace di sviare di continuo il lettore grazie all’uso di pseudonimi con i quali l’autore si trova poi a polemizzare, prendendone ironicamente le distanze. Quello che Kierkegaard mette in scena è un teatro dell’anima dove regnano finzione, paradosso, inganno, e lo stesso discorso filosofico finisce per celarsi nella divagazione fantastica: teatrale o romanzesca che sia.
Per contro, è difficile pensare a un’opera teorica così immediatamente inscritta nella carne («la conoscenza deve diventare parte viva di me»). Di più: proprio lui, che fa di tutto per soffocare sul nascere le curiosità voyeuristiche sul suo conto, sarà il primo a dire: «un giorno non solo i miei scritti, ma appunto la mia vita, l’intrigante segreto di tutto il macchinario, saranno studiati e ristudiati».
Di fronte a tale vertiginoso enigma, ha deciso di affondare a piene mani Joakim Garff, che è uscito da questo tremendo corpo a corpo con quasi settecento pagine di una biografia (tradotta da Castelvecchi) minuziosa e affascinante, capace di combinare empatia e distacco critico; riuscendo così, con appassionata intelligenza, a restituirci una personalità e una scrittura tra le più alte e labirintiche del pensiero moderno occidentale.
Ogni passaggio vitale di Kierkegaard viene riesaminato e inserito nel contesto storico-
sociale circostante. A partire dalla figura ingombrante del padre, Michael, ricchissimo commerciante: uomo di rara severità e parsimonia, la cui tetra rigidità marchierà a fuoco il piccolo Søren, paralizzandolo ed esaltandolo al medesimo tempo. Di qui la furia con cui il giovane teologo attacca frontalmente «l’ordine costituito» del cristianesimo; di qui, anche, l’idea di peccato, che certo graverà sul rapporto con Regine, l’amore mancato di una vita. Dovendo scegliere tra la figura del “marito” e quella dello “scrittore”, il filosofo danese non ha dubbio alcuno. E Garff rincara la dose, aggiungendo: «Kierkegaard era già in partenza sposato con Dio». Delle tre
età delle vita (estetica, etica, religiosa), la terza supera di slancio le precedenti solo grazie ad una fede che vive «in forza dell’assurdo» e della sofferenza, al di là di ogni razionalità.
Magro, le spalle curve, il bastone di canna sempre in pugno, il filosofo-poeta passeggia per le strade di Copenaghen e mena fendenti a destra e a manca (celebre la sua stroncatura di Andersen); per converso, patisce con una ipersensibilità che rasenta la paranoia attacchi devastanti, critiche feroci. Capace di passare con estrema disinvoltura «dall’incantevole al demoniaco, dal sentimentale al cinismo rabbioso», Søren sottopone la sua esistenza a una perenne trasfigurazione letteraria. Percepisce se stesso come un semplice “suggeritore”, un ventriloquo che dà vita a quella «sola moltitudine», direbbe Pessoa, di cui è impastato l’animo umano.
La perspicacia psicologica (si pensi alle riflessioni sull’angoscia) lo rende un precursore del discorso freudiano; l’attacco alla mollezza cristiana prelude alle bordate di Nietzsche; i sommovimenti storici gli offrono il destro per sbalorditive profezie sugli effetti della società livellatrice di massa, con il trionfo dei «noleggiatori di opinioni» e della chiacchiera universale.
Senza contare — da ultimo — lo scardinamento del sistema hegeliano operato in parallelo a Schopenhauer. Ma c’è qualcosa d’altro che lo avvicina al filosofo di Danzica, pure tanto diverso da lui: l’assoluta centralità dello stile. Nessuna idea filosofica può ambire al successo se il filosofo che la elabora non è al contempo uno scrittore, uno strenuo cultore dello stile. Che in Kierkegaard si presenta, per tornare a Garff, nella forma di una personalissima «gaia scienza, una sorta di anti intellettualismo intellettuale, sotto la cui pressa parodica i concetti si incrinano e si spaccano».

SAK di Joakim Garff
Castelvecchi Traduzione di Simonella Davini e Andrea Scaramuccia pagg. 1855 euro 49

Repubblica 26.5.13
Perché gli italiani erano antigiacobini?
di Fabio Massimo Signoretti


Il dibattito sulle reali motivazioni che spinsero gli italiani a insorgere contro i rivoluzionari francesi e il giacobinismo (1790-1814) è da decenni motivo di scontro e divisione ideologica all’interno della storiografia nazionale. In questo libro Massimo Viglione, che da vent’anni studia il tema, ne ricostruisce la storiografia con un lavoro scrupoloso e documentato che va dalle origini risorgimentali (Cuoco, Botta, Mazzini) alle opere dei decenni del nazionalismo e del fascismo (Rodolico e Lumbroso), da Croce e Volpe fino alle opere di stampo liberale e marxista del dopoguerra (De Felice giovane, Candeloro, Godechot, Cingari, Zaghi) e al dibattito degli ultimi due decenni, che ha visto l’aspro scontro fra la corrente “filogiacobina” (di cui Anna Maria Rao è la capofila) e la corrente “filoinsorgente” (di cui lo stesso Viglione è il caposcuola).
L’autore, pur fortemente critico con i “filogiacobini”, ha il merito di illustrare con ampiezza e precisione le argomentazioni e i lavori di decine di storici, compresi gli esponenti di una “terza via” interpretativa, corrente che oggi vanta nomi come Di Rienzo, De Francesco, Spagnoletti.

LE INSORGENZE CONTRORIVOLUZIONARIE di Massimo Viglione, Leo S.Olschki, pagg. 130, euro 16

Repubblica 26.5.13
Sorpreso prima della battaglia
Il San Giorgio profano di Pisanello
di Melania Mazzucco


Tredici metri e venti centimetri dal pavimento. L’affresco sull’arco esterno della cappella Pellegrini svetta a un’altezza siderale, che rende i particolari invisibili all’occhio e trasforma la scena in un arazzo multicolore. Eppure, l’affresco brulica di dettagli. Quando guardo un’opera destinata ai soffitti e alle cupole di una chiesa o di un palazzo, irraggiungibili una volta smontati i ponteggi, non posso impedirmi di chiedermi per chi, davvero, dipinga un artista. Per chi esibisca la propria bravura, invenzione, intelligenza. Per i committenti che, pagando, vogliono il meglio? Per gli assistenti? I fedeli, il pubblico? Per Dio?
Antonio di Puccio, detto Pisanello, dipinge per il piacere della bellezza e per la gloria — dunque anche per se stesso. Benché fosse coetaneo di Beato Angelico (e quest’affresco coevo di quelli del convento di San Marco), non poteva essere più diverso dal frate di Fiesole. Quanto quello era mistico e spirituale, tanto Pisanello era laico, profano e immerso nel tumulto del mondo. Il diminutivo imposto al suo nome non inganni: era il pittore più lodato del suo tempo, venerato dagli umanisti e dagli intellettuali. Trascinato dal successo su e giù per l’Italia — da Pavia a Venezia, da Roma a Ferrara, da Mantova a Milano, fino a Napoli e oltre — chiamato a tutte le corti, conteso da condottieri, papi e marchesi, finì per identificarsi con gli aristocratici suoi protettori, e per impelagarsi nelle lotte che dilaniavano Verona, la città in cui era cresciuto e in cui aveva casa, madre e figlia. I Veneziani gli confiscarono i beni, costringendolo a un dorato esilio. Pisanello rimase fedele soltanto alla sua pittura raffinata e gradevole alla vista quanto complessa nella concezione e nell’esecuzione.
San Giorgio è il casto cavaliere errante che libera la principessa e trafigge il drago. La sua storia, una delle più romanzesche del Martirologio cristiano, echeggia fiabe e miti dell’antichità e del Medioevo — da Perseo e Andromeda fino a Parsifal e Bors. Nel XIII secolo Jacopo da Varazze, nella Legenda Aurea, ne fissò per sempre scenario e protagonisti. Un drago dal fiato pestilenziale ammorba il lago della città di Silena, in Libia. Per placarlo, ogni giorno gli abitanti gli danno in pasto due montoni. Quando il bestiame scarseggia, estraggono a sorte le vittime umane. La prescelta è la figlia del re, che viene condotta al lago per essere divorata. Ma sopraggiunge Giorgio. Sfida il drago, lo sconfigge, gli mette il guinzaglio, lo conduce in città, converte gli abitanti e prosegue verso la Palestina, dove subirà il martirio. Tutti i pittori hanno sempre raffigurato la scena chiave: il combattimento col drago. Del resto è la più drammatica, e anche la più significativa, che si presta a letture allegoriche e perfino politiche: il Bene sconfigge il Male, il cristianesimo il paganesimo (o l’islam). Pisanello no. Fa una scelta che noi — abituati a ogni demistificazione narrativa — sottovalutiamo. Ma allora doveva parere di un’audacia sconfinata. Infatti, dubitando che il soggetto restasse oscuro, appose in basso una didascalia esplicativa: SANCTUS GIORGIUS. Pisanello dipinge un momento trascurabile della vicenda. San Giorgio — che coraggiosamente ha appena rifiutato il consiglio della Principessa di mettersi in salvo — infila il piede sinistro nella staffa e si accinge a salire a cavallo.
Un gesto prosaico. Che però crea sospensione, attesa, poesia. Chi guarda deve riconoscere, nella novità della rappresentazione, la storia ben nota. Pisanello fornisce tutti gli elementi, ma si concede la massima libertà: fantasticheria, idealizzazione e crudo naturalismo trovano un miracoloso equilibrio.
L’affresco è diviso in due parti dall’arco ogivale che fungeva da ingresso alla cappella Pellegrini, nobile e ricchissima famiglia di Verona che lì aveva la sua tomba. Ha sofferto per le infiltrazioni d’acqua ed è stato staccato e spostato, prima di ritrovare la definitiva collocazione. Gli inserti d’argento sulle armature, l’oro e parti di colore sono cadute. A sinistra, appena leggibile, c’è il deserto e il drago: ossa, crani e carcasse animali, avanzi delle sue vittime, giacciono sulla sabbia. Al centro, il lago. A destra, la civiltà e gli eroi. Dalla pinnacolare città gotica — in cui si riconoscono forse edifici reali — è uscito il triste corteo, scortato da un drappello di guerrieri esotici. Fra loro un turco e un arciere mongolo (le cui asiatiche fattezze Pisanello aveva già disegnato dal vero). Un cavallo ha le froge tagliate: crudele usanza orientale per permettergli di respirare meglio nella corsa, che Pisanello aveva studiato nel seguito di qualche sovrano straniero, durante i soggiorni a corte. Sopra il re, cavalcioni di un mulo bardato e riconoscibile per il mantello d’ermellino, incombe un patibolo: i cadaveri di due impiccati
offrono una sorta di danza macabra, lugubre monito alla vanità del potere. Un corvo gracchia, mentre l’arcobaleno preannuncia la redenzione. Sulla destra, lo scudiero di Giorgio gli porge la lancia; la principessa, altera e impassibile, ci offre la fronte alta, l’acconciatura a balzo, il sublime profilo, e un lussuoso abito di broccato con lungo strascico. Due imponenti cavalli — uno visto di fronte, uno da tergo — creano illusione di profondità. Anche i cani sono pronti: lo spaniel fiuta le tracce, e il levriero, con la museruola e un prezioso collare di pietre preziose, freme guardando il lago.
E Giorgio è lì, trasognato, malinconico, i biondi capelli come un’aureola, il piede nella staffa, e le labbra socchiuse, come prendesse il respiro prima di affrontare la battaglia. Socchiuse, sì. Perché forse dal basso non si vedevano: ma Pisanello dipinse perfino i suoi denti. Essi rappresentano per me una lezione: di etica, e di stile. Forse nessuno intuirà quanti disegni, quanto studio, quanti ripensamenti precedono un capolavoro come questo. Ma tu dipingerai i denti di Giorgio, le narici dei cavalli, il collare di un cane e la calza di un impiccato, con ogni cura. La stessa con cui hai disegnato per anni aironi, linci, conigli, cervi, avvoltoi, perfino tessuti. Osservare ogni cosa del mondo, perfezionarsi, osare. Tutto conta, nient’altro conta. Questo significa essere un artista.

Pisanello: San Giorgio e la Principessa. Verona, Chiesa di Sant’Anastasia, 1437-38.