lunedì 27 maggio 2013

Elezioni, effetto inciucio: la grande fuga dal voto
Amministrative: affluenza in picchiata. Revelli: “È la risposta degli elettori traditi”
Larghe intese, larghissima astensione. L’inciucio del governo Napolitano-Letta-Alfano, dal gradimento già basso dopo un mese di vita, provoca un effetto letale sull’affluenza alle urne del turno elettorale in 563 comuni

da il Fatto di oggi

il Fatto 27.5.13
Amministrative
Gli italiani disertano A Roma quasi -20%
di Fabrizio d’Esposito


Larghe intese, larghissima astensione. L’inciucio del governo Napolitano-Letta-Alfano, dal gradimento già basso dopo un mese di vita, provoca un effetto letale sull’affluenza alle urne del turno elettorale in 563 comuni. Ieri sera già alle 19, il ministero dell’Interno ha certificato con numeri a doppia cifra il disastro, almeno sinora, di questo mini-test nazionale che interessa circa sette milioni di italiani: 34,36 per cento di vo-tanti rispetto al 45,24 delle precedenti elezioni. La bellezza di un meno 10,88 per cento, quasi undici in pratica.
UN DATO ancora più catastrofico perché riferito a un voto amministrativo, dove per tradizione l’affluenza è sempre maggiore, con migliaia di candidati in campo a cercare preferenze personali. Peggio ancora, a fine giornata. Alle 22, il Viminale ha diffuso il terzo e ultimo aggiornamento domenicale: meno 15,5 per cento. L’astensionismo ha colpito in modo omogeneo il Paese, con punte altissime al nord. Più del dieci per cento in Piemonte, idem in Lombardia e Veneto, mentre in Emilia Romagna si va verso il quindici per cento. Eclatante e simbolico il crollo dei votanti nella Capitale. A Roma si gioca la partita più importante di questo turno amministrativo e la stanchezza e la sfiducia degli elettori sono registrate dal 38,6 per cento delle 22. Nel 2008, alla stessa ora, aveva votato il 57,56. Circa il 19 per cento in meno, a fronte di ben 19 candidati sindaci e una scheda per sindaco e consiglieri comunali, colore azzurro, che supera il metro di larghezza. Senza dimenticare il caos provocato dalla preferenza di genere. Le donne del Pd di Roma hanno denunciato che in molti seggi della Capitale i presidenti non hanno saputo o voluto dare indicazioni in merito. Questa la scena in una sezione di Testaccio, il quartiere più rosso di Roma. Un’anziana signora chiede: “Quante preferenze posso dare? ”. Il presidente: “Signora, questo è il manuale, si segga qua e lo legga”. La signora esegue, legge ed esclama: “Non ho capito nulla”. Poi con le due lunghe schede penzolanti, per Comune e Municipio, si avvia sfiduciata alla cabina numero uno. In realtà, il meccanismo è semplice: si possono dare due preferenze ma la seconda è obbligatoria per una donna. Tutto qui. Eppure anche questo ha contribuito a complicare la vita ai romani in una giornata particolare con il derby di Coppa Italia disputato alle diciotto.
Roma è arrivata stremata al voto di ieri. E l’astensionismo non è una sorpresa dopo i comizi di chiusura di venerdì sera, con i leader nazionali di tutti i partiti dislocati in varie piazze vuote o semivuote, fatta eccezione, ma solo un po’, per lo show di Beppe Grillo in piazza del Popolo. Il calo, secondo alcune valutazioni a caldo raccolte ieri in qualche comitato elettorale, dovrebbe penalizzare proprio il Movimento 5 Stelle. Grillo punito, nelle previsioni, ma anche il centrodestra di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere in questa campagna elettorale si è fatto vedere a Roma, appunto, dove ha abbracciato Gianni Alemanno, e a Brescia, quando attaccò i magistrati causando il primo chiarimento di governo tra il premier Letta e il suo vice Alfano. Ecco, a Brescia l’affluenza è andata ancora peggio che nella Capitale: oltre venti punti percentuali in meno rispetto al 2008. Al sud, il trend astensionista trova un argine nella battaglia porta a porta, casa per casa, che caratterizza da decenni le elezioni locali. In Campania va un po’ meglio: almeno tre punti in più sulla media nazionale. Il prezzo da pagare è il perenne allarme per il voto controllato. A Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, un candidato è stato fermato dopo aver consegnato un telefonino con fotocamera a un elettore. Una foto per la certezza di essere votato. Sulle elezioni di Bisceglie, in Puglia, Francesco Boccia del Pd, presidente della commissione Bilancio alla Camera, ha chiesto l’intervento di magistratura e forze dell’ordine: “Basta farsi un giro per la città per sentire storie di voti comprati, di certificati elettorali fotocopiati, di pseudo-contratti elettorali stipulati, di gente costretta a rendere noto il numero della sezione elettorale di appartenenza, di schede fotografate nell’urna. E, come se non bastasse adesso anche i presidi fuori dai seggi, organizzati da personaggi di dubbia moralità che non hanno nulla a che fare con la politica”. Un corpo a corpo è stato invece denunciato in Liguria, a Imperia. Il candidato-sindaco del centrodestra si è presentato al pronto soccorso dicendo di aver avuto una testata da un avversario di centrosinistra. Quest’ultimo ha querelato il candidato ferito e anche l’ex ministro Scajola, ras di Imperia, colpevole di aver dato pubblicità alla testata. Oggi si vota ancora. Fino alle 15. Dopo i dati tremendi dell’astensionismo, sull’inciucio pioveranno i risultati delle urne.

il Fatto 27.5.13
Marco Revelli
“Se ne sono fregati degli elettori e i politici si lamentano pure”
intervista di Davide Vecchi


Sono riusciti a fare una cosa che non riesco a definire governo, direi piuttosto un indecente connubio, fregandosene del voto degli elettori e poi si lamentano del drammatico calo dell’affluenza? Chi può ancora credere in questi personaggi? ”. Marco Revelli non ha molti dubbi sui motivi che hanno svuotato le piazze e le urne.
Inizia col governo Letta?
Da prima. Dal modo in cui è stato messo in freezer alla velocità della luce il successo dei Cinque Stelle. Poi il modo devastante con cui il parlamento non è riuscito a trovare il presidente della Repubblica e ha scelto una soluzione monarchica. La nascita di questo indecente connubio. A cui ora seguirà questa accettazione da parte del Pd dell’eleggibilità di Berlusconi. Ho sentito Epifani, mi son cadute le braccia.
Ha detto “bisogna batterlo politicamente”...
Assurdo. La politica non c’entra niente: la questione è far rispettare la legge. Va ripristinato lo stato di diritto.
Urne e piazze politiche vuote. Mentre ieri 80 mila persone hanno invaso Palermo per la beatificazione di don Puglisi e nei giorni precedenti un fiume ha attraversato Genova per salutare don Gallo.
Vitalità democratica, il Paese è sano. La politica è ormai un ectoplasma, tenuto vita solo dalla spartizione di poltrone. Questo sistema trascinerà la nostra democrazia al disastro.
Soluzioni?
Siamo nella stessa situazione che si è registrata alla caduta del fascismo. Servirebbe una legge elettorale in grado di far emergere tutte le realtà del Paese, un proporzionale puro. Tanto i partiti attuali, a partire da Pd e Pdl, sono ormai morti e sepolti. Aspetto i risultati definitivi di queste amministrative per vedere quanti pochi italiani ancora li hanno votati.
Sta dicendo che andare alle urne è un esercizio inutile.
Lo hanno dimostrato questi politici. Credo non sia mai esistita nella storia una forma così radicale di disconoscimento del messaggio elettorale. Non si è mai visto che a un mese di distanze dal voto si è fatto in una forma scandalosa l'esatto opposto di quanto detto dagli elettori. Per me è stupefacente che ci sia ancora qualcuno che vada a votare, non mi stupisce l’astensione ma chi conferma il voto a questa gente. La democrazia si esaurirà.
In politica però vale la legge idraulica.
Sì, ogni vuoto viene riempito con qualcosa. Se si esaurisce la protesta dei Cinque Stelle le prossime forme di democrazia saranno più dure, più disgustose. Anche se nulla si ripete mai uguale, per fortuna non ci sono le camice brune ma possono sempre nascere.
Vede una flessione anche dei Cinque Stelle?
Si vedrà, ma credo che loro debbano avere tempo prima di essere giudicati. Hanno preso il 25% e non sono stati ascoltati. Questo è il dramma. Da noi la legittimazione è misurata dalla partecipazione: il crollo della partecipazione significa crollo della legittimità di questi poteri. Pd, Pdl sono responsabili di un terribile fallimento che purtroppo non riesce a trovare esecutori fallimentari. Chi semina vento raccoglie tempesta.

Repubblica 27.5.13
La paura cresce con le ore
A Palazzo Chigi cresce la preoccupazione “Daranno comunque la colpa al governo”
di Francesco Bei


ROMA LA PAURA cresce con le ore.
Nessuno sa cosa possa risalire da quel pozzo nero in cui è precipitata l’affluenza, soprattutto a Roma. Un crollo inimmaginabile, capace di ribaltare pronostici troppo ottimistici, una caduta verticale della partecipazione.
CHE ha gettato nello sconforto i responsabili dei partiti di maggioranza e suscitato apprensione anche al Quirinale. «E di questi tempi tutto viene scaricato sul governo», sospira preoccupato un ministro di peso. A temere più di tutti le conseguenze della disaffezione dei romani è proprio Enrico Letta, nonostante l’intesa stretta con Alfano per tenere palazzo Chigi al riparo dagli effetti del dopo voto. «Se dovessimo perdere la sfida delle città — è il ragionamento che il premier ha fatto in questi giorni — si aprirebbe un periodo di turbolenza pericolosa. E proprio nel momento più delicato». Alle prese con una difficilissima trattativa a Bruxelles, con i fondi da trovare per l’Iva e l’Imu, con il gigantesco dramma dell’Ilva, per Letta lo sfarinamento del pilastro su cui si regge il governo sarebbe esiziale. Sarebbe una guerra di tutti contro tutti, una caccia al colpevole, con il Congresso che a quel punto non potrebbe più essere rinviato. Perché stavolta è il Pd a essere nell’occhio del ciclone. Sia perché una sconfitta di Alemanno ormai è già stata metabolizzata e non produrrebbe effetti sul centrodestra, sia perché a Roma il candidato di centrosinistra è stretto tra due fuochi — Alfio Marchini e M5S — e il Pd sembra come evaporato. Lo stesso Ignazio Marino non sembra avere il polso della città. Tanto che ieri a mezzogiorno, poco prima che il Viminale diffondesse il primo dato raggelante sulla disaffezione delle urne, al seggio si è detto convinto «che le romane e i romani risponderanno con la solita grande affluenza».
Chi invece dorme sonni tranquilli è Silvio Berlusconi, che ieri veniva ancora dato in Sardegna. Sempre poco convinto della scelta di Alemanno, il Cavaliere si consola con i sondaggi sul Pdl. È vero che il governo di larghe intese, secondo le ultime rilevazioni, non scalda i cuori della gente e questo potrebbe riflettersi nella scarsa affluenza alle urne. Ma per Berlusconi il problema riguarda solo il Pd: «I nostri elettori hanno capito e apprezzano. Tanto che nei sondaggi restiamo vicini al 35%». Certo, se inizia a prevalere il disincanto, è facile che la scarsa partecipazione penalizzi alla fine un po’ tutti. «Quando non c’è un traino politico, una scelta politica chiara — riflette Sandro Bondi — la stanchezza si fa sentire di più. E basta parlare con la gente per capire quanta disillusione ci sia in giro». Per Bondi questa malattia colpisce comunque il Pd
più di ogni altro, un partito «in grande crisi, con i militanti che si sentono sbandati. In questa situazione un Marchini può trovare terreno fertile».
È proprio l’effetto “Arfio” quello che potrebbe farsi sentire nella Capitale e produrre un cataclisma. Gli ultimi sondaggi pubblici davano l’imprenditore lontano dalla possibilità di arrivare al ballottaggio, inchiodato tra l’8 e il 10 per cento, ma con questo livello di astensione ogni previsione diventa più effimera. Dal comitato di Alemanno riconoscono che «l’affluenza così bassa può essere un vantaggio per gli outsider, Marchini e il grillino De Vito». Anche dal quartier generale dell’ex “costruttore rosso” iniziano a sperare in un clamoroso errore dei sondaggi: «Per noi questo crollo dell’affluenza è un’opportunità
— ammette uno degli spin doctor di “Arfio” —, dopo quelle che è successo alle elezioni nazionali, tutti gli schemi sono saltati. Il 78% dei romani non risponde ai sondaggi. E il caso Bersani dimostra che il candidato che vince le primarie spesso è anche quello che perde le secondarie, cioè le elezioni vere». Illusioni? Probabile. Fatto sta che anche una vecchia volpe come Luciano Ciocchetti, uscito dall’Udc per sostenere Alemanno, sente tirare una brutta aria: «Se l’affluenza cala verso il 15 per cento è evidente che si apre una partita diversa.
È il segno di una disillusione totale tra gli elettori, ne vedremo delle belle».
Nel Pd, quando alle dieci e mezza il Viminale diffonde l’ultimo dato sull’affluenza, un drammatico «-19,5%», molti iniziano a temere il peggio. Goffredo Bettini, il regista della candidatura di Marino, invita i dirigenti che lo chiamano a mantenere la testa fredda, visto che i sondaggi non possono aver incorporato un margine d’errore così largo da far intravedere a Marchini il ballottaggio. Eppure nessuno se la sente di commentare. E il silenzio tombale intorno al crollo della partecipazione, al di là delle battute sull’effetto «derby», fa capire quanto sarà lunga la notte del Pd. In attesa di vedere se da quel pozzo nero è risalito un mostro.

Corriere 27.5.13
Maurizio Gasparri
«Se il Pd va male non affonderemo il coltello»
di Paola Di Caro


ROMA — Al governo «ci siamo tutti», impossibile che qualcuno non resti deluso. Ma l'esecutivo, secondo Maurizio Gasparri, non rischia contraccolpi dal voto di Roma. Almeno non dal Pdl, che si aspetta risposte «sui fatti, sull'economia», sui temi per i quali il governo è nato. E che non ha alcuna intenzione di creare problemi: «Abbiamo anche messo da parte la giustizia in questa fase, come ha detto Berlusconi. Di più non ci si può chiedere».
Eppure questo non può non essere un test per i partiti che hanno scelto le larghe intese in un clima difficilissimo.
«Lo è, e infatti anche noi guardiamo con fiducia al risultato di Roma, ci aspettiamo che fotografi la ripresa di consenso del Pdl, di Berlusconi, anche di Alemanno che ha contrastato bene i suoi avversari».
Potrebbero arrivare dal Pd, in caso di sconfitta, i maggiori problemi?
«Sono state elezioni strane, il Pd sconta un disagio pesante dei suoi elettori verso le vicende che hanno portato al governo e un candidato come Marino estraneo alla città. Capiamo tutto, rispettiamo il loro travaglio, non affondiamo il coltello, tutt'altro, e speriamo che non ci siano contraccolpi. Però non è che in nome del fair play ci si può chiedere di tifare per loro...».
Forse il problema è più vasto: piazze vuote, altissima astensione, disinteresse. Questo non vi preoccupa come classe politica?
«Chiaro che è un dato preoccupante, ma le ragioni sono molte. A partire da un effetto saturazione che la politica ha creato nell'opinione pubblica: da quando è caduto il governo Berlusconi abbiamo vissuto in una sorta di campagna elettorale perenne, con mille accadimenti, con trasmissioni tivù dalle 7 del mattino alle due di notte, con competizioni ravvicinate e continue. C'è un'overdose che crea stanchezza, e non c'è dubbio che in vista del secondo turno la preoccupazione esiste».
Il governo sta dando le risposte che servono? C'è chi pensa che occuparsi di finanziamento ai partiti, di riforme, serva a poco.
«Quelli sono temi sacrosanti, ed è giusto occuparsene. Ma non è vero che il governo è impegnato solo su questi temi. Il primo dell'esecutivo è stato concreto, la sospensione dell'Imu. E ci aspettiamo che si affronti allo stesso modo l'Iva, che non deve essere aumentata».
Berlusconi ha annunciato un decreto choc sullo sviluppo: non si rischia di creare aspettative impossibili che poi lasciano ancora più deluso l'elettorato?
«Capisco il punto, ma è anche vero che le risposte choc non possono dipendere solo dal governo: Letta, che pure è prudente, ha scritto una lettera molto dura all'Ue per chiedere una politica più incisiva sulla disoccupazione giovanile. Se non cambia politica l'Europa, noi possiamo studiare coperture per l'Iva, l'Imu, qualche sgravio, come infatti stiamo facendo, ma il salto radicale non potremo farlo. È ora che la Germania capisca che se finisce come in Champions League, con un derby tra tedeschi, per un po' ci si diverte ma poi le vittorie diventano effimere...».

Corriere 27.5.13
«Un trend destinato a crescere»
di Valentina Santarpia


ROMA — Anche se domani si andasse a votare per le elezioni politiche nazionali, l'astensione crescerebbe di 7 punti: lo rivela il Barometro politico dell'istituto Demopolis. «E il dato delle Amministrative ce lo aspettavamo — sottolinea il direttore Pietro Vento — Secondo i nostri sondaggi oltre il 60% degli italiani considera come problemi prioritari il costo della vita, la disoccupazione, la pressione fiscale. Ragion per cui la percezione del peso delle amministrazioni locali è crollata: dal 47% del 2001 al 24% di oggi. I cittadini non vanno a votare persone non considerate utili a migliorare la qualità della vita». Secondo Roberto Weber (Swg), il quadro è anche più fosco: «C'è una parte del Paese che si è staccata dalla politica, come un pezzo di iceberg: sono quelli anche ben informati, politicamente attivi, ma che non votano per mancanza di riferimenti. L'unico politico che al momento è in crescita di fiducia, secondo i nostri sondaggi, è Matteo Renzi: non importa cosa faccia o dica, esprime quell'istanza di cambiamento di cui il Paese ha bisogno». «Attenzione a dare giudizi frettolosi — avverte Alessandra Ghisleri di Euromedia — Solo se il dato sull'astensionismo fosse confermato, si potrebbe dire che c'è un clima di attesa: gli elettori stanno aspettando delle azioni e delle soluzioni». E quindi non si esprimono? «Sì, perché sono depressi — spiega Nicola Piepoli — La gente è disperata, non vede futuro: se il governo vuol dare una risposta, deve tenere presente che ormai la barca ce l'ha, i marinai pure, ma deve far sentire ai cittadini il rumore del mare, cioè deve farli sognare». «Era inevitabile che il governo di larghe intese lasciasse gli elettori tradizionali confusi — conclude Paolo Natale di Ipsos — E i grillini, che hanno attirato alle Politiche tanti potenziali non votanti, nei Comuni hanno candidati deboli che non spingono quegli elettori a votare».

l’Unità 27.5.13
Elezioni, allarme astensione
Astensione boom. Roma tocca il fondo
Crolla l’affluenza. Alle 22 ha votato circa il 44,65 per cento con un calo dell’15% Meno 20 nella Capitale Tracollo al centro-nord
di Marcella Ciarnelli


Il calo dell’affluenza alle urne è andato oltre le pessimistiche previsioni che pure erano state avanzate nei giorni scorsi. Anche un po’ per scaramanzia. E invece alle 22, secondo le rilevazioni pervenute al Viminale, è stata registrata un’affluenza pari al 44,64 per cento, in evidente flessione rispetto al 60 per cento della votazione precedente. A Roma c’è stato un vero e proprio crollo. Quasi il 20 per cento in meno rispetto alle amministrative del 2008. La larga offerta di candidati e liste non è bastata per far crescere nei romani il desiderio di manifestare la propria scelta. La lettura di questa forte astensione, che appare difficile possa essere recuperata se non in parte nella giornata di oggi, riporta alle difficoltà con cui la politica ha dovuto fare i conti in questi mesi e che si erano già evidenziate nei risultati delle elezioni per il Parlamento nazionale.
IL VOTO DEL PRESIDENTE
Nella rilevazione conclusiva della giornata i romani che si sono recati alle urne sono stati il 37,69 per cento contro il 57,20 della scorsa tornata elettorale. Il presidente della Repubblica, come di consueto, aveva votato nella tarda mattinata nel seggio di via Panisperna. Nelle rispettive zone di residenza avevano votato i candidati a sindaco che più possono aspirare al ballottaggio: Marino, l’aspirante sindaco del Pd che al seggio ci è arrivato in bicicletta, e, nonostante i primi dati si è detto fiducioso sull’affluenza. Alemanno, il primo cittadino uscente che si è detto «più preoccupato per la partita tra Roma e Lazio», l’appuntamento sportivo che si è andato a incrociare con quello elettorale, Alfio Marchini, l’imprenditore che è sceso in politica per fare «un’esperienza bellissima. Rifarei in assoluto tutto quello che ho fatto» e ha stretto la mano agli scrutatori riservando il baciamano alle signore impegnate nel seggio. E poi Marcello De Vito, il candidato 5 Stelle ancora ieri «sicuro di andare al ballottaggio». Il candidato di sinistra Sandro Medici ha scelto, a differenza degli altri competitori, di votare nel pomeriggio.
La lunga giornata di voto non ha consentito il recupero sul numero dei votanti che si era manifestato in calo fin dall’inizio della giornata. E così è stato in tutto il Lazio che è la regione dove si concentrano il maggior numero di cittadini, quasi due milioni e mezzo rispetto ai sette milioni complessivi in tutto il Paese, chiamati a rinnovare le giunte di 42 comuni. A Frosinone affluenza ferma al 41,86 rispetto al 47,44 delle ultime elezioni. A Latina 37,88 di votanti contro il 42,8. A Rieti quasi 10 punti percentuali in meno: 39,52 per cento contro il 49,3. Infine Viterbo dove ha votato soltanto il 36,8 rispetto al 52,01 dell’altra volta.
Il calo di votanti è generalizzato in tutta Italia. Ma al Nord il dato è alto, attorno al 17 di media con il picco della Regione Toscana oltre i ventuno punti di distacco. Se più volte si è data la colpa al bel tempo per il mancato appuntamento al seggio questa volta il freddo inusuale sembra aver pesato ancora di più. Ma è ovvio che non si può ricondurre tutto alle questioni atmosferiche. E, a urne chiuse e a risultati acquisiti, bisognerà riflettere bene sul numero di italiani che hanno scelto di restarsene a casa. Almeno fino a ieri sera.
TREND COSTANTE
In Lombardia ha votato alle 22 il 44,91 contro il 67,45 per cento degli aventi diritto delle precedenti elezioni. Tra i 95 Comuni coinvolti ci sono tre capoluoghi: Brescia, Sondrio e Lodi. Quarantasette i Comuni al voto in Veneto dove l’affluenza è stata di oltre il 18 per cento in meno rispetto alle precedenti amministrative. A Treviso e Vicenza le sfide più attese, con una forte probabilità di ballottaggio. Il Piemonte è la regione in cui si è votato di più pur dovendo registrare anche qui il calo ma in termini minori che in altre parti d’Italia. Nessun capoluogo, sedici sui 564 Comuni chiamati al voto, ha mostrato maggiore affezione. Al Nord come al Sud, da Sondrio a Vicenza da Barletta ad Avellino, da Iglesias a Isernia. Il trend è costante.
Il caso più curioso della giornata è stato registrato nella Capitale. Da un seggio elettorale del quartiere Parati è scomparsa una matita ed è stata avviata un’indagine per recuperarla. Il Codacons ha denunciato che un gruppo di responsabili del seggio si sono recati a casa di alcuni elettori per verificare se qualcuno si fosse portato a casa il souvenir. «Una vera e propria follia» per Carlo Rienzi, presidente dell’associazione. «In periodi di spending review ci si attacca anche a una matita ma riteniamo assolutamente ridicolo recarsi a casa degli elettori alla ricerca di un ladro che mai ammetterebbe le sue colpe beccandosi per giunta una denuncia».

l’Unità 27.5.13
Crollo della partecipazione, la democrazia diventa fredda
di Michele Prospero


C’È UN GENERALE CALO DEI VOTANTI NELLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE, MALGRADO il presidenzialismo comunale, che chiama all’elezione diretta del sindaco. Cresce (con schede lunghe un metro e mezzo) l’attenzione alla politi- ca come arena in cui trovare accesso e visibilità. Ma precipita la credibilità del- la politica e si appanna il senso della sua stessa funzione storica. Solo a Ro- ma si sono presentate 40 liste e circa duemila sono i candidati in lizza.
Si tratta di una mini città, conteggiando anche le scalate ai posti di consiglieri nei municipi. In fondo, la politica è vissuta come la residuale arena in cui è possibile sperimentare una qualche forma di mobilità in un mondo altrimenti bloccato negli ascensori sociali.
Aumentano perciò i soggetti della competizione in un quadro però di eclisse della fiducia accordata dal pubblico alla politica. Le metafore crepuscolari (de-democratizzazione, deconsolidamento, post-democrazia) sono molto realistiche nel cogliere l’odierna alienazione politica. Le immagini aurorali che annunciano il bel trionfo di una agorà elettronica, di una società ormai trasparente e di una sfera pubblica dialogica sono invece edificanti e illusorie. L’iper-democrazia per i ceti riflessivi capaci di discorso e argomentazione informata (rete, democrazia deliberativa, primarie) e l’apatia per i ceti produttivi e per i condannati ai ruoli periferici: questa sembra la radiografia dell’esistente divisione dei compiti tra due società polarizzate. Una ipertrofia della partecipazione convenzionale e non convenzionale cara ai ceti urbani secolarizzati (con tempo, istruzione e denaro) convive con un abbandono dei riti della cittadinanza da parte dei ceti subalterni e periferici.
La democrazia (persino nella Grecia che brucia) conserva il suo l’involucro minimale-competitivo, quello esaltato da Schumpeter. Smarrisce però la sua peculiare ossatura novecentesca, quale agenzia di integrazione tra pubblico e privato, diritti e crescita, società e potere, costituzione e lavoro.
La prevalenza dello spirito capitalistico acquisitivo (con i grandi poteri dell’economia che tendono a fuggire dallo spazio pubblico e dagli oneri della fiscalità statale) ha sbiadito il costituzionalismo incardinato sul valore inclusivo del lavoro.
E con l’emarginazione del lavoro è inevitabile anche l’eutanasia della democrazia, che rimane in piedi ma solo come una asfittica procedura. Tra gazebo e retoriche per cui uno vale uno, la democrazia effettiva si riduce a un nucleo sempre più minimalistico di tecniche impotenti nel mitigare la rudezza dei rapporti di potere annidati nella sempre più diseguale società di mercato.
Ai processi di spoliticizzazione di per sé indotti dal capitalismo finanziario, che rinverdisce i fasti dell’individualismo possessivo con il dominio incontrastato della ricchezza, si aggiunge una inaudita de-politicizzazione condotta dalla politica medesima. Trionfano manifesti con slogan banali, e gli aspiranti sindaci nascondono le tracce dell’appartenenza. Una rifondazione identitaria dei partiti, con un ritrovamento di grandi principi ispiratori, è ormai una esigenza per la sopravvivenza della democrazia.
A una politica che già il mercato relega nella irrilevanza (e crescono gli imprenditori che si fanno liste personali in ogni città), si unisce una classe politica che si occulta e con cartelli demenziali confessa tutta la sua incapacità di sfiorare il nodo dei grandi poteri postmoderni. I ritrovati della iper-democrazia svelano un circolo vizioso della partecipazione: gli incentivi all’azione pubblica diretta non accorciano la distanza tra potere e società e con il plusvalore di tempo e denaro ribadiscono gli indici di diseguaglianza e di esclusione.
La mera alternativa della società civile (comitati, movimenti su singole istanze) alle forme di separatezza del politico non prospetta un rimedio efficace nel riparare al vuoto di rappresentanza dei ceti marginali. Tra la solitudine del decisore (presidenzialismo municipale) e l’atomismo dell’abitante della società civile (anomia, esclusione, sfiducia, rabbia) risalta l’assenza della mediazione politica.
La politica progetto è necessaria ma non può rifiorire senza il terreno fertile dell’autonomia del lavoro e senza la rinascita della mediazione. Nelle città si presentano al voto tanti uomini che vorrebbero essere soli al comando ma così la politica non riparte e anzi cresce la disillusione, l’abbandono. Senza partiti e sindacati, colpiti al cuore dallo tsunami antipolitico, non c’è una sfera pubblica rigenerata ma cresce solo la delega ad arcani centri di potere in grado di influenza, di pressione, di appropriazione.

La Stampa 27.5.13
Record astenuti. Per il governo una prova in più
di Federico Geremicca


Non sono bastati diciannove candidati a sindaco, 1.667 aspiranti consiglieri comunali, alcune altre migliaia in lizza per un seggio nei municipi ed una scheda elettorale lunga nientedimeno che un metro e venti centimetri. E i casi sono due: o nemmeno una tale, gigantesca kermesse messa in piedi per la scelta del nuovo sindaco di Roma è stata sufficiente a motivare i cittadini chiamati alle urne. Oppure – e non ci sentiremmo di escluderlo – è stato proprio quest’ennesimo confuso, discutibile e dispendioso «carnevale elettorale» a contribuire a tener la gente lontana dai seggi.
Sia come sia, la Capitale tocca il suo record negativo di partecipazione al voto in una tornata amministrativa: solo il 37,7% all’ultima rilevazione di ieri (ore 22). Che vuol dire quasi venti punti percentuali in meno rispetto alle elezioni di cinque anni fa. E se Roma piange, non è che il resto d’Italia rida. L’affluenza alle urne è infatti precipitata praticamente ovunque attestandosi poco oltre un misero 44 per cento, il che vuol dire quasi sedici punti percentuali in meno rispetto al voto del 2008. Il dato è generalizzato. Riguarda il Nord (Brescia, Sondrio, Vicenza e Treviso registrano flessioni oltre il 20%), il Centro (Pisa -25%, Massa -16%) così come il Sud e le Isole, dove il calo è più contenuto solo perché si partiva da percentuali solitamente assai più basse. Si vedrà oggi, a operazioni di voto concluse, la reale dimensione di questa ennesima crescita dell’astensione. Ma ieri i segnali erano tutti negativi, e tra gli addetti ai lavori (politici e sondaggisti) serpeggiava un certo pessimismo.
La politica, dunque, si conferma malata. E la malattia non solo contagia tornate elettorali in genere meno colpite dal fenomeno (quelle amministrative) ma non è arginata nemmeno dalla presenza diffusa di liste del Movimento Cinque Stelle, che si immaginavano capaci di convogliare la disaffezione e la protesta dall’astensionismo al voto per il loro simbolo. Non è accaduto. E non basta. Per i candidati di Beppe Grillo, infatti, la vigilia non sembrava preannunciare risultati particolarmente brillanti: quasi a riprova del fatto che il movimento del comico genovese non solo non «guarisce» la cattiva politica, ma ne viene negativamente contagiato una volta che – agli occhi dei cittadini – ha con essa contatti troppo ravvicinati.
Sarebbe il caso che si cominciasse a tener conto sul serio (cioè mettendo in campo risposte) della crescita esponenziale del fenomeno-astensione. Occorre ci si convinca che non si è, ormai, di fronte ad una crisi passeggera – è quel che si immaginò al tempo del suo primo segnalarsi: diciamo dopo Tangentopoli – quanto ad una tendenza che pare sempre più inarrestabile. Convincersene vuol dire operare concretamente per rallentare – se non fermare – una deriva negativa e perfino pericolosa: operare varando leggi elettorali e riforme che riavvicinino il cittadino agli eletti e alle istituzioni, e accelerando sul piano del taglio ai costi della politica (mettendo da parte annunci, promesse e inutili populismi).
E non farebbe male lo stesso governo a raccogliere il segnale che arriva da questa sorta di diserzione di massa: il Paese non è fuori dalla crisi e non sta meglio di prima solo perché – dopo mesi di estenuanti scontri e trattative – un governo finalmente è in campo. Conta quel che fa, e come lo fa. Continuare a ripetere ad ogni tornante – che siano le sentenze per Berlusconi o il voto di sette milioni di italiani – che quel che accade «non avrà ripercussioni sul governo» non è un buon modo né per difenderlo né per aiutarne la sopravvivenza. L’esistenza in vita, il governo Letta-Alfano dovrà guadagnarlo sul campo. E la strada, onestamente, appare ancora tortuosa e in salita.

Repubblica 27.5.13
Piazze vuote e astensioni: così in Italia esplode il distacco dalla politica
di Ilvo Diamanti

qui

il Fatto 27.5.13
Anche i partiti muoiono (rapidamente). Dal Pasok greco ai Liberal democratici inglesi
L'unione innaturale con partiti tra loro antagonisti e politiche di austerità: spesso dinamiche che tra loro si sommano e portano a una disfatta tanto veloce quanto inesorabile

E' il caso di laburisti irlandesi, liberaldemocratici del Regno Unito e tedeschi
Ma anche di Socrates in Portogallo e di Papandreou in Grecia
di Marco Quarantelli

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il Fatto 27.5.13
Referendum, no soldi pubblici a scuole private. Da Bologna no ai partiti
58,8 per cento a favore del quesito A, il 41,2 per cento a favore dell'opzione B
Degli aventi diritto, hanno votato 85.934, pari al 28,71 per cento
Flop per i democratici, flop per la città
di di Emiliano Liuzzi e Giulia Zaccariello

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La Stampa 27.5.13
Soldi alle scuole paritarie A Bologna vince il “no”
Ma alle urne va solo il 28,71% degli aventi diritto, meno di uno su tre
Il comitato promotore Articolo 33: «Non è un fallimento, abbiamo evidenziato il problema»
Rodotà. Per il giurista sarebbe contro la Costituzione dare fondi
di Andrea Malaguti


Rodotà Per il giurista sarebbe contro la Costituzione dare fondi
Prodi L’ex premier si è detto favorevole all’erogazione dei fondi pubblici
Guccini Assolutamente contrario a dare un milione di euro ai privati
Zamagni Anche l’economista si schiera a favore dei soldi ai privati
L’ex premier Romano Prodi uscendo dal seggio ha commentato: «Ha votato solo chi ha dei figli»

Bologna, quartiere Murri, in un piccolo parco che si chiama Lunetta Gamberini. Sorella Anna, orgogliosamente vestita di nero, occhiali sottili che faticano a reggersi su un naso francese, occhi scuri, leggermente obliqui, estrae da una tasca misteriosa la sua carta d’identità. Lo scrutatore la guarda perplesso. «E’ qui per votare, sorella? ». Non una gran domanda, in verità. Per che cosa se no? E’ un quarto d’ora che fa la fila. La suora coglie lo stupore e risponde con un sorrisetto diabolico e la voce in angelico falsetto. «Alla scuola cattolica mi hanno insegnato che è un diritto-dovere». E calca le parole «scuola» e «cattolica» come se fosse una dichiarazione di voto. Croce sulla B. Si nasconde nella cabina numero due per una manciata di secondi e allontanandosi si segna come se stesse abbandonando il tempio. Amen. Dio è con lei? Di certo lo è la Curia locale, che a questo risultato ha lavorato per mesi.
Alle dieci di sera, orario di chiusura dei seggi, il referendum dei referendum, cresciuto come un fungo velenoso nella pancia irrimediabilmente sconvolta del centrosinistra emiliano, la sfida all’Ok Corral voluta dal Comitato articolo 33, presieduto onorariamente dal presidente mancato della Repubblica Stefano Rodotà, e appoggiato da Sel, Movimento 5 Stelle, Collettivo Letterario Wu Ming e partito degli attori e cantanti (qui esiste), si trasforma ufficialmente in un gigantesco flop. L’affluenza più bassa nella storia recente delle consultazioni popolari cittadine: 90% per quella sul traffico, 65% per l’acqua pubblica, 36% per le farmacie e per la nuova stazione, 28,71% stavolta. Meno di 86 mila persone su oltre 300 mila aventi diritto. Impossibile assecondare la volontà della maggioranza dei pochi votanti. Bologna la rossa è diventata rosa - e questo già da un po’ - o forse bianca. Indifferente? Indifferente no. «Abbiamo costretto il Paese a parlarne per settimane. Non solo Bologna. Io lo considero un successo», spiega con l’aria di chi vuole buttare giù un muro a pugni l’attivista Angela Agusto. «Il Comune ha fatto di tutto per ostacolare la corsa della A», sussurra.
Eppure per arrivare a questo punto la città sembrava essersi spaccata dopo una barando da tempi belli, con una discussione politica seria, purissima, quasi alta - preferite il pubblico o il privato? - che non aveva risparmiato nessuno. Da Prodi a Francesco Guccini, dal filosofo Bonaga all’economista Zamagni. E che sembrava anticipare in maniera precisa lo scontro nazionale, con la classe dirigente apparentemente incapace di ascoltare la propria gente. Un dibattito nato dalla crisi. Con il Comitato Articolo 33 a chiedere al Comune di mettere tutti i soldi destinati alle scuole d’infanzia negli istituti pubblici. E il sindaco Pd, Virginio Merola, a rispondere: «non ci penso neanche, su trentasei milioni di budget, uno lo giro alle paritarie, come facciamo da vent’anni. Accolgono 1500 ragazzi. Noi con un milione in più ne ospiteremmo 150». Uno scontro - come sempre accade quando il tessuto politico non esiste più - di scarso valore pratico ma di enorme significato simbolico. Che aveva perciò prodotto il referendum consultivo: croce sulla A (la metteranno appena 6 elettori su dieci, meno di cinquantamila bolognesi) per lo stop ai privati, croce sulla B per appoggiare il sindaco, il Pd, il Pdl, la Chiesa e le 25 (su 27) scuole cattoliche paritarie. La nuova sinistra contro il nuovo superinciucio?
C’era chi aveva provato a venderla così. Tanto che nel braccio di ferro erano intervenuti i big nazionali. Primo fra tutti il Professor Rodotà. Che aveva ricordato il dettato dell’Articolo 33 della Costituzione: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti d’educazione, senza oneri per lo Stato». Un rigurgito di statalismo legalitario o una sana forma di solidarismo? Francesco Guccini (sostenuto da Isabella Ferrari, Riccardo Scamarcio e Ivano Marescotti) era corso al suo fianco. Ispirato. «Non posso che fare mia la lezione di Piero Calamandrei: bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale». E lo schieramento opposto? Imponente. Blasonato. L’economista Zamagni, Monsignor Vecchi e persino Matteo Renzi e il ministro Carrozza, guidati dall’altro presidente mancato della Repubblica, Romano Prodi. Che, prima di votare B e di commentare: «Ha votato solo chi ha bambini», aveva consegnato al suo blog due riflessioni precise. La prima - presumibilmente fondata sull’idea che esista un’ala sinistra decisa a trasformare il Pd in una lumaca ottusa, una nullità senza speranza - più strettamente politica: «Il referendum si doveva evitare, perché apre in modo improprio un dibattito che va oltre i ristretti limiti del quesito stesso». La seconda di tipo vagamente autobiografico: ««Perché argomenti che potrebbero essere risolti con condivisione e serenità devono sempre finire in rissa? ». Parlava di sè, della sinistra, di Bologna, del mondo? Dibattito che continuava fino a notte inoltrata anche alla Lunetta Gamberini, dove il cittadino Dino Ricolfi, padre di due gemelli treenni, metteva sconsolato la cinica epigrafe alla storia.

l’Unità 27.5.13
Semipresidenzialismo: apertura di Epifani
Il segretario non esclude di ricandidarsi
«Berlusconi ineleggibile? Va battuto politicamente»
«Congresso nel 2013»
«Modello francese da considerare ma con correttivi pregiudiziali: conflitto d’interessi, anti-corruzione e salvaguardia delle autonomie»
«Su Imu e Iva faremo valere le nostre ragioni»
di Maria Zegarelli


Parla nel giorno delle elezioni amministrative, del preoccupante calo di affluenza alle urne, figlio di questa glaciale lontananza dei cittadini dalla politica che non accenna a diminuire e che lascia il Pd con il fiato sospeso fino a quando non si saprà come sarà andato questo primo turno, come finirà la partita a Roma, non il derby calcistico, ma il Campidoglio, da cinque anni nelle mani del centrodestra. Guglielmo Epifani, ospite di Lucia Annunziata nella trasmissione In mezz’ora, intanto mette un paletto: essere un segretario a tempo non vuol dire avere una posizione debole, «è successo già a Dario Franceschini quando si dimise Walter Veltroni», vuol dire «avere una grande libertà». È una sottolineatura non secondaria nel momento in cui il Pd vive una delle sue crisi più profonde acuita dall’alleanza con il Pdl al governo che lascia base ancora sotto botta.
Occorre mandare un segnale agli elettori, ai circoli e ai simpatizzanti anche e soprattutto in vista del congresso. Il Pd e il governo, le misure economiche e fiscali, le riforme istituzionali e la legge elettorale: temi che si intrecciano e che legano la vita del governo e quella del partito a doppio filo, garantire la tenuta del primo a patto che non imploda il secondo. Per questo su Imu e Iva «faremo sentire le nostre ragioni», dice il segretario chiedendo la rimodulazione della prima per scongiurare l’aumento della seconda. Ed è questo che fa subito entrare in allarme il centrodestra: l’Imu è il totem sacro su cui Silvio Berlusconi ha puntato tutta la campagna elettorale e infatti Daniela Santanché, Renato Brunetta e Fabrizio Cicchitto chiudono ogni spiraglio.
«L’Imu è stata già sospesa», quindi non se ne parla, altrimenti le frasi del segretario sono da intendere come «una minaccia al governo», commenta la pasionaria di Berlusconi.
IL CONGRESSO
Epifani conferma che il suo orizzonte è quello di condurre il Pd al congresso entro il 2013, esclude scivolamenti di cui si parla con sempre più insistenza, verso il 2014, ma non esclude affatto di poter correre alla segreteria. Semplicemente, «non è questo il momento di pensare ai nomi», né per la segreteria né per la premiership, dunque se Matteo Renzi resta «una grande risorsa e vorrei che finisse l’idea di un Renzi estraneo al Pd», a quella carica potrebbe aspirare anche l’attuale premier, Enrico Letta. Quello che conta prima di tutto, insiste il segretario, è «decidere quale partito vogliamo».
E come già anticipato nei giorni scorsi, torna ad aprire anche al semipresidenzialismo, «è una scelta che prenderemo in seria considerazione», se ne parlerà a tempo debito, assicura, ma la soluzione francese deve essere considerata «con alcuni correttivi pregiudiziali, come la disciplina del conflitto di interessi e la legge sulla corruzione, e alcuni rafforzamenti degli istituti di garanzia può essere una soluzione», a patto che non si torni «al centralismo esasperato» e si salvaguardino le esperienze delle Regioni e delle autonomie locali. E se sul fisco si attira le ire dei falchi, sulle riforme arrivano gli apprezzamenti del coordinatore Sandro Bondi: «L’apertura di Epifani sull’elezione popolare del Presidente della Repubblica, secondo il modello sperimentato positivamente in Francia, dimostra che questa può essere una legislatura in cui molte questioni irrisolte da decenni possono trovare finalmente una soluzione». Intanto bisogna superare il primo scoglio: la mozione (uguale a Camera e Senato firmata dalla maggioranza) per il percorso che dovrà condurre al superamento del Porcellum e sul quale il dibattito nel Pd è ancora aperto.
Ma questo rapporto di nuovo conio tra i due partiti avversari per vent’anni e ora insieme a Palazzo Chigi è un esercizio di acrobazia quotidiana perché se trovi un punto di contatto sulle riforme poi ecco che il terreno scivoloso ti si ripresenta sotto i piedi sui temi più cari al leader azzurro: l’ineleggibilità di Berlusconi che il M5S vuole usare per mettere nell’angolo i democratici e l’eterno problema irrisolto del conflitto di interessi. È stato un errore secondo Epifani non aver affrontato quest’ultimo tema con decisione e andando alla radice, come capita in tutti gli altri Paesi, tanto che, dice, lo stesso governo Letta dovrebbe farsene carico. Quanto all’ineleggibilità Epifani sa che è tema su cui il suo partito in Parlamento rischia di spaccarsi. «Non scambiamo la via secondaria con la primaria». «Siamo sicuri diceche sarebbe “sterilizzato” dal punto di vista politico, o non si aprirebbe per lui una nuova fase, in “stile Grillo”, cioè quella da leader Pdl pur stando fuori del Parlamento?». Gli avversari si battono politicamente, prosegue ribandendo la necessità di una legge sul conflitto di interessi, tanto più dopo la disponibilità a discutere del semipresidenzialismo.
Tutti temi che saranno affrontati nel corso della Direzione in programma il 4 giugno, dopo l’incontro con tutti i segretari regionali e i rappresentanti territoriali per chiudere il giro di consultazioni in vista della nomina della nuova segreteria.

La Stampa 27.5.13
Epifani contro le primarie dei parlamentari

“Aumentano i problemi invece di risolverli”
di Francesca Schianchi


Il segretario Pd assicura che il congresso si terrà entro il 2013 Governo Epifani assicura a Letta lealtà, ma non manca di chiarire che «se dovesse aumentare l’Iva ci faremo sentire»
«Il compito che ho assunto è lavorare bene perché il congresso risponda ai nostri problemi. Lì si ferma il mio orizzonte. Ciò che verrà dopo lo vedremo dopo». A due settimane dalla sua elezione, il neosegretario del Pd Guglielmo Epifani, ospite ieri di Lucia Annunziata a «In ½ ora», traccia i prossimi passi che dovrà muovere per risollevare il partito. E ricorda la posizione dei democratici nel sostegno al governo, «leale» ma non cieco: «Se l’Iva aumentasse faremmo sentire le nostre ragioni».
Un compito non facile, il suo, alle prese con un partito dilaniato dalle correnti e ferito dalle vicende che hanno portato alla bocciatura di Prodi al Quirinale e alle dimissioni di Bersani. E oggi in fibrillazione per la data del congresso, dopo che voci di Palazzo riferivano nei giorni scorsi la possibilità di posticiparlo all’anno prossimo. «Si terrà comunque entro il 2013: è l’orizzonte che ci siamo dati», rassicura invece Epifani, segretario che non si sente indebolito dalla sua condizione di reggente («non è il tempo che conta»): sul congresso l’importante, insiste, «più che decidere chi sarà il nuovo segretario, è decidere il partito che vogliamo». Cioè «si deve partire dal basso e non dall’alto, partire dai circoli dove c’è la comunità», e non focalizzare la discussione sulle «solite divisioni della classe dirigente».
Ci saranno anche regole da ridiscutere: ad esempio, il neoleader del Pd è favorevole all’idea che piace a Matteo Renzi di separare la figura del segretario da quella del candidato premier. «Mi convince di più il modello europeo, dove i segretari di partito non sono necessariamente candidati premier». E, sulle primarie, ammette che «non sono convinto da quelle per i parlamentari», come quelle che sono state fatte in dicembre dal Pd, «capisco che sono state il frutto del Porcellum», ma se trova le primarie utili per le cariche monocratiche, «per un collegio di dieci o venti candidati hanno più problemi di quelli che non aiutano a risolvere».
Ma Epifani parla anche di temi che interessano il governo: a partire dalla spinosa questione di Imu e Iva, «se dovessi decidere io, eviterei che sulla povera gente scatti l’aumento Iva perché se invece salvo l’Imu e aumento l’Iva non faccio un’operazione buona», dichiarazioni che gli assicurano pronte reazioni nel Pdl. Che però può registrare con favore l’apertura al semipresidenzialismo, «una scelta che prenderemo in considerazione», così come la posizione sull’ineleggibilità di Berlusconi: «La fonte normativa risale al ’57 e riguarda i rappresentanti legali di aziende che hanno concessioni pubbliche. Berlusconi non è il rappresentante legale». E comunque, «gli avversari si battono politicamente». Piuttosto, dice abbordando un tema importante per la base di centrosinistra, serve «una straordinaria, forte e moderna legge sul conflitto d’interessi, che valga da oggi per i prossimi trent’anni». Da affrontare subito: «Credo che anche il governo Letta non possa prescindere da un ragionamento» sull’argomento.

l’Unità 27.5.13
Matteo Orfini
«Il Presidente resti garante. Il Pd? Va ricostruito subito»
«Il modello francese sarebbe l’ultimo atto del ventennio berlusconiano
Congresso, no a rinvii Epifani non si ricandidi»
di Andrea Carugati


ROMA «Il semipresidenzialismo? È giusto valutare ogni opzione, ma io sono e resto contrario a questa ipotesi. Non si può dire che la nostra è la Costituzione più bella del mondo e poi proporre un modello radicalmente alternativo come quello francese...». Matteo Orfini, deputato Pd, tra i principali esponenti dei Giovani turchi, non ha dubbi. «Sono sempre stato contrario al presidenzialismo per ragioni profonde. Sarebbe l’ultimo atto di un ventennio berlusconiano invece che l’inizio di una fase nuova. Se c’è qualcosa che in questi decenni ha funzionato è il ruolo di terzietà del presidente della Repubblica, e non mi pare opportuno scassare anche questo. Infine, non vorrei che queste aperture a un tema caro al Pdl come il presidenzialismo avessero una ragione politica, e cioè l’idea di voler partire sulle riforme costituzionali dalla maggioranza di governo. Su questi temi il Parlamento deve essere libero da ogni vincolo».
Darete battaglia dentro il Pd?
«Un tema come la forma di Stato deve essere discusso in modo approfondito. In Direzione esprimerò le mie opinioni. E credo che non sarò da solo».
E tuttavia dopo le ultime elezioni del Capo dello Stato molti, anche nel Pd, sostengono che il semi-presidenzialismo di fatto c’è già e vada dunque regolamentato in modo serio. Sarebbe anche un modo per rispondere alla domanda di partecipazione che si è espressa nelle scorse settimane...
«È una lettura sbagliata. Non è vero che in Italia c’è un presidenzialismo di fatto. Napolitano ha svolto il suo ruolo di garante e arbitro rispettando tutti i limiti previsti da questa Costituzione, senza debordare. Il consenso perdurante e trasversale attorno al presidente della Repubblica, al di là dei meriti specifici di Napolitano, deriva dalla terzietà della carica, al suo essere un elemento di unità del Paese».
E tuttavia in Francia, in una situazione politica non dissimile alla nostra, il sistema istituzionale ed elettorale ha prodotto stabilità. Lasciando ai margini le forze antisistema.
«Io separerei la valutazione sul doppio turno da quella sul presidenzialismo. Ricordo che nel 2002 in una situazione simile si arrivò a un ballottaggio tra Chirac e l’estrema destra di Le Pen. E comunque reputo fragile questa continua rincorsa a meccanismi che ti portino ad avere una maggioranza col 27 o il 29%. Mi pare più utile riflettere sulle ragioni per cui siamo fermi al 29%. Non c’è sistema elettorale al mondo che possa risolvere un fatto politico come un Paese diviso in tre».
Lei è favorevole a piccoli ritocchi per cambiare il Porcellum in attesa di più ampie riforme?
«Dovremmo cercare da subito un obiettivo più ambizioso. Per farlo bisogna evitare di partire da vincoli di maggioranza tra noi e il Pdl».
Sta pensando a un’intesa con i 5 stelle sul Mattarellum?
«Non mi pare che il Mattarellum abbia dato buona prova di sè, ha prodotto guasti simili al Porcellum, in particolare per quanto riguarda le coalizioni-mostro che poi non sono riuscite a governare. A mio parere il sistema preferibile è una via di mezzo tra tedesco e spagnolo. E cioè un impianto parlamentare con qualche incentivo per i partiti maggiori».
Epifani ha confermato che il congresso sarà entro fine anno. Discussione chiusa? «È stata una discussione surreale. Poche settimane fa all’assemblea nazionale abbiamo votato un ordine del giorno che ci impegnava a fare il congresso entro ottobre. Un minuto dopo è iniziato un assurdo dibattito sul rinvio. Se qualcuno aveva dei dubbi poteva dirlo all’assemblea, visto che non c’è alcuna motivazione politica per un rinvio».
Qualcuno sostiene che sarebbe un modo per tutelare il governo...
«Ma il governo si tutela da solo e con quello che fa. E per agire bene ha bisogno di un Pd forte che lo sproni. È un Pd debole come quello di oggi che rende più fragile il governo. E poi che significa? Che non possiamo fare un congresso finché c’è questo governo? Evidentemente c’è una voglia di rinviare dettata da interessi di parte di pezzi del Pd. Una esigenza che non può essere assecondata. Posso assicurare che militanti ed elettori ci chiedono il congresso subito. E con le primarie aperte. Vogliono che la ricostruzione parta subito».
È ragionevole una candidatura di Epifani?
«Nessuno può impedire al segretario di candidarsi. E tuttavia noi tutti lo abbiamo scelto in questa fase difficilissima per rappresentare tutto il Pd. L’idea che da questo ruolo di garanzia nasca una candidatura, a mio parere, sarebbe un errore».
Come valuta l’iniziativa del governo sul taglio dei finanziamenti ai partiti?
«Sono stato tra i pochi a difendere l’idea di un finanziamento pubblico alla politica. Ora che il governo ha scelto l’abolizione bisogna farla veramente. Tenendo conto di tre elementi: l’incentivo fiscale per i cittadini che vogliono finanziare il partito deve essere reale e serve un tetto rigoroso alle donazioni per evitare che la politica diventi ostaggio delle lobbies. Infine, serve una legge di attuazione dell’articolo 49 che garantisca trasparenza e democrazia interna i partiti».
E i partiti o movimenti che questi criteri non li rispettano?
«Se uno si candida alle elezioni deve garantire dei requisiti minimi di trasparenza e democrazia interna. Non capisco Grillo che dice ”se mi obbligate a essere democratico allora non mi candido”. Lui sostiene che vogliate farli trasformare in un partito per legge...
«Si può essere un movimento trasparente e democratico. Non mi sembra una richiesta eversiva. Anzi, la trovo coerente con quello che loro stessi predicano danni sulla trasparenza».

Corriere 27.5.13
Renzi
Metà degli italiani vuole il sindaco a capo del governo
di Renato Mannheimer


Il Pd è nella tempesta. Nel partito emergono sempre più spesso posizioni contrapposte, sia sull'opportunità di questo o quel provvedimento che il governo dovrebbe prendere, sia su questioni più generali come la riforma costituzionale o quella elettorale. Su quest'ultima, in particolare, qualche esponente si è dichiarato d'accordo con la proposta del «porcellinum» escogitata in questi giorni (e consistente nell'introduzione di una soglia del 40% di consensi necessari per accedere al premio di maggioranza), mentre altri si sono fortemente opposti, proponendo le soluzioni più diverse (ma concentrandosi, in particolare, sulla introduzione del doppio turno). Tra questi ultimi, ha fatto discutere la presa di posizione di Matteo Renzi che ha subito bocciato l'ipotesi del «porcellinum», suggerendo la riproposizione a livello nazionale della normativa che regola la elezione dei sindaci. Ancora una volta, il sindaco di Firenze è sembrato allontanarsi dalle posizioni del partito cui appartiene, per sottolineare una propria specifica identità. Come ha osservato anche Panebianco sul «Corriere» di sabato, per diversi esponenti del Pd, Renzi rappresenta una minaccia e una sorta di corpo estraneo al partito. Per altri, viceversa, costituisce un'opportunità. Secondo molti osservatori, infatti, il sindaco di Firenze potrebbe essere l'unico leader in grado di ricompattare il Pd e, forse, fargli vincere le elezioni. I dati sulla pubblica opinione sembrano confermare quest'ultimo scenario. Tra gli italiani Renzi raccoglie il 64% di giudizi positivi (presenti in particolare tra chi possiede titoli di studio più elevati) e risulta più popolare di Letta (che si colloca al 59%), della Bonino (che tradizionalmente raccoglie un ampio consenso trasversale) e, di gran lunga, del segretario del Pd Epifani, che si ferma al 33%. Anche tra gli elettori dello stesso Pd, il sindaco di Firenze appare, con l'89% di consensi, più popolare dello stesso segretario, che si colloca al 62% (il 28% dei votanti per il Pd dà oggi un giudizio negativo di Epifani). È vero che esponenti di altri partiti ottengono, all'interno del loro elettorato, una percentuale di approvazione superiore a quella rilevabile per Renzi nel Pd: ad esempio, Grillo può contare sul 92% di consensi tra i votanti del M5S e Berlusconi raggiunge il 90% tra quelli del Pdl. Ma il sindaco di Firenze, assieme a Letta, è tra i pochi politici che godono di un supporto trasversale, esteso a tutto l'arco politico, tanto che viene giudicato positivamente dal 67% dell'elettorato del Pdl, da una analoga percentuale tra i votanti per la Lega e tra quelli per il M5S e dal 70% della base di Scelta Civica. Come si sa, tuttavia, il giudizio positivo non comporta necessariamente la decisione di voto. Se si domanda, ad esempio, se sia meglio che Renzi prosegua con un secondo mandato il suo lavoro di sindaco, la maggioranza degli elettori mostra di preferire questo scenario futuro a quello, ad esempio, di presidente del Consiglio. Ciò nonostante, il 54% degli italiani (e il 79% dei votanti per il Pd, ma anche il 50% di quelli per il Pdl) dichiara di vedere positivamente Renzi anche in quest'ultima posizione. Di poco maggiore è la percentuale di popolazione che preferirebbe che il sindaco di Firenze fondasse un suo partito e ne fosse il leader. Solo il 15% auspica che si ritiri definitivamente dalla vita politica. Tutto ciò mostra come Renzi goda di un mercato elettorale potenziale piuttosto ampio e, specialmente, trasversale. È vero che solo il 12% degli italiani afferma di volere votare «sicuramente» per il sindaco di Firenze, ma è vero anche che il 47% dichiara di prenderlo «molto» o «abbastanza» in considerazione per il voto. Solo poco più di un terzo (36%) dichiara che «non lo voterebbe mai». Ancora una volta, il mercato potenziale è particolarmente ampio (88%) tra chi sceglie attualmente il Pd, ma raggiunge valori elevati anche tra i votanti per gli altri partiti e, specialmente, tra chi oggi si dichiara indeciso o tentato dall'astensione. Nessuno può sapere se Renzi saprà davvero approfittare di un così vasto consenso potenziale. E trasformare i «potrei votarlo» in voti veri. Ma di certo l'ampiezza della sua popolarità costituisce un fenomeno talmente significativo nella vita politica del nostro Paese da non potere essere sottovalutato. Nemmeno dallo stesso Renzi e dagli altri leader del Pd.

La Stampa 27.5.13
Per Grillo primo test ad alto rischio
Nei 5 Stelle avanza la paura del primo confronto con i delusi
Sondaggi in calo rispetto alle politiche, ma si spera nei ballottaggi in cinque città
di Fabio Martini


Il post di Beppe Grillo è comparso sul suo blog alle 11,25 della domenica, con un titolo asettico («Parma, un anno a 5 Stelle»), un testo moderatamente celebrativo dell’amministrazione Pizzarotti, ma con una curiosa sfasatura di cinque giorni rispetto alla data dell’anniversario della vittoria, che cadeva il 21 maggio. Un ritardo voluto? Grillo ha propagandato il consuntivo sull’unica città amministrata dai suoi, proprio nel giorno del più significativo test elettorale dopo il successo di febbraio?
Ogni illazione con Grillo può apparire incauta, ma una cosa è altamente probabile: il test amministrativo è atteso con una certa trepidazione da tutto il gruppo di comando del Movimento. Per almeno due motivi. I sondaggi apparsi in quasi tutte le città chiamate al voto non sono stati incoraggianti e d’altra parte è molto significativo lo spread dimostrato dal Cinque Stelle nelle prove locali rispetto al voto politico. Il 26 febbraio si è votato per il Parlamento ma anche per il governo di tre Regioni: ebbene in Lombardia il Movimento di Grillo, mentre alle Politiche ha ottenuto il 17,4%, alle Regionali si è fermato al 14,3%, nel Lazio la differenza è stata addirittura del 5,6%, nel Molise di ben 10 punti.
Sono le premesse per un arretramento complessivo, oppure potrebbe spuntare qualche sorpresa? E ancora: un (eventuale) arretramento sarebbe da attribuire al tipo di test, oppure ad una demotivazione più profonda degli elettori?
Per Roberto Weber, leader della Swg, uno dei più solidi istituti di sondaggio «il M5S i voti li ha conquistati in due mosse, il rancore verso i partiti e una certa voglia di cambiamento da intercettare: su questo secondo piano c’è molta delusione, perché Grillo ha snocciolato una serie impressionante di no». Come dimostrerebbe la flessione in tutti i sondaggi nazionali. Ma poi c’è il fattore locale. Nella città più importante nella quale si vota, Roma, il Cinque Stelle parte da un precedente impegnativo: il 27,27% ottenuto (in ambito comunale) alle Politiche di 3 mesi fa. Un’asticella alta, che se fosse replicata, potrebbe avvicinare il candidato sindaco del Cinque Stelle, Marcello De Vito, al ballottaggio del secondo turno, visto che nessuno dei due favoriti, il sindaco Gianni Alemanno e il professor Ignazio Marino, sembra in grado di essere eletto al primo turno.
Ma i sondaggi, per quel che valgono, nelle settimane scorse avevano ridimensionato le aspettative di quasi tutti i candidati a Cinque Stelle e non soltanto a Roma. Eppure, in alcune città il Movimento di Grillo parte così alto che potrebbe aspirare - ecco la possibile sorpresa - a portare alcuni dei propri candidati al secondo turno, trasformando quei ballottaggi in altrettante lotterie: ad Imperia il Cinque Stelle parte dal 33,9%, a Viterbo dal 31,8%, ad Ancona dal 29,1%. Ma non basta: la debolezza del centrodestra a Pisa e Massa può aprire la strada al ballottaggio anche lì ai candidati del Cinque Stelle. Occasione persa invece ad Iglesias dove l’eccellente risultato delle Politiche (31%) è stato vanificato dallo scontro «fratricida» tra Simone Muscas e Carla Cuccu, concluso con il forfeit di entrambi e dunque con l’assenza del simbolo del M5S dalla scheda elettorale.
Certo, se i ballottaggi saranno numerosi e il Cinque Stelle resterà ovunque a due cifre, le amministrative potrebbero trasformarsi in un nuovo moltiplicatore per Beppe Grillo. In caso contrario? Il vero rischio per il Cinque Stelle più che politico non è psicologico? Sostiene Pippo Civati, uno che li conosce bene: «Obiettivamente per un movimento come il Cinque Stelle non ha molto senso paragonare i risultati delle amministrative con quelli delle politiche, in tanti comuni loro esistono da poco e in ogni caso è tutto da vedere se ci sarà un arretramento. Certo, nel loro modo di vivere la politica, c’è un aspetto emotivo che incide molto, sia nella buona che nella cattiva sorte».

Corriere 27.5.13
Crimi: «I parlamentari 5 Stelle non devono occuparsi di strategie e alleanze»
Il capogruppo al Senato: «Dobbiamo solo dire se siamo d'accordo sui singoli temi. Chi è a disagio non lo racconti ai giornali»
intervista di Alessandro Trocino

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il Fatto 27.5.13
Prima udienza
Trattativa, da oggi lo Stato processa se stesso
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Per Antonio Ingroia è la più avanzata frontiera della magistratura inquirente, che per la prima volta “ha varcato le colonne d’Ercole del diritto”, ribaltando il paradosso di Leonardo Sciascia e dimostrando che lo Stato può processare se stesso. Nel-l’aula bunker di Pagliarelli si apre oggi il dibattimento sulla trattativa mafia-Stato: la Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto, a latere Stefania Brambille, giudica cinque esponenti di Cosa nostra e cinque rappresentanti delle istituzioni accusati di aver siglato quell’inconfessabile compromesso tra mafia e Stato che – dietro le quinte dello stragismo – ha scritto la storia recente del Paese. Dopo quattro anni di un’indagine che ha trascinato la procura di Palermo davanti alla Consulta, per iniziativa del Quirinale, per aver “beccato” casualmente la voce di Giorgio Napolitano al telefono con Nicola Mancino, prossimo a finire nella lista degli indagati, i pm di Palermo Di Matteo, Tartaglia e Del Bene, accompagnati in aula dall’aggiunto Teresi, domani si presenteranno in aula per sottoporre le loro accuse alla verifica dibattimentale: alla sbarra i boss Riina, Bagarella, Cinà e il pentito Giovanni Brusca. Accanto a loro, sul banco degli imputati l’ex senatore Dell’Utri, gli ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno. Tutti sono accusati di concorso nel reato di violenza e minaccia al corpo politico dello Stato, aggravata dall’aver agevolato Cosa nostra. Poi c’è l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, e il testimone Massimo Ciancimino, il “postino” del papello, che ha avuto il merito di aver parlato per primo della trattativa, ma oggi è ritenuto credibile solo parzialmente, e deve rispondere di concorso esterno in mafia e calunnia.
Altri due imputati, il boss Provenza-no e l’ex senatore Calogero Mannino, considerato l’ispiratore della trattativa, saranno processati a parte. Per il padrino, stralciato per ragioni di salute, l’udienza preliminare riprenderà il 10 luglio. L’ex ministro, che ha ottenuto il rito abbreviato, sarà processato a partire dal 29 maggio, anche se il gup Morosini si è dichiarato incompetente per avere deciso il rinvio a giudizio degli altri imputati e bisognerà attendere la nomina di un altro giudice. Tra i testi ammessi, oltre al Presidente Napolitano (che sarà sentito, ma non sulle intercettazioni), ci saranno l’ex presidente del consiglio Berlusconi, anch’egli citato da Repici, e l’ex presidente del Copasir D’Alema, quest’ultimo citato dall’avvocato di Ciancimino.
SIA MANNINO, che Mancino che Dell’Utri negano risolutamente l’esistenza di un patto Stato-mafia, così come gli ufficiali del Ros, che ammettono solo l’avvio di una “iniziativa investigativa” nel giugno del 1992 finalizzata alla collaborazione di don Vito Ciancimino, per arrivare la cattura dei latitanti mafiosi. Massimo, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, sostiene invece che la trattativa ci fu e portò alla cattura di Riina, nel gennaio del ’93, grazie al contributo offerto ai carabinieri da Provenzano, che in cambio avrebbe ottenuto la massima “copertura” istituzionale per proseguire la latitanza.
La frontiera del diritto per la prima volta varcata dal processo sulla trattativa consiste nella richiesta formale dei pm di Palermo (coordinati per tutta l’indagine preliminare da Ingroia) di verificare in un’aula di giustizia se pezzi degli apparati dello Stato e pezzi della classe dirigente, durante la stagione delle stragi del biennio 1992-’93, attivarono condotte criminali dialogando sottotraccia con i boss e determinando – come disse il procuratore di Palermo Francesco Messineo alla Commissione Antimafia – “la salvezza di molti in cambio del sacrificio di pochi”, sia pure nell’illusione di salvare la democrazia dalle bombe. Quella che si celebra a partire da domani nell’aula bunker è dunque una verifica dibattimentale che potrebbe condurre ad una sorta di impeachment morale di un’intera classe dirigente, sia quella che traghettò l’Italia dalla Prima alla Seconda Repubblica, sia quella che subito dopo – dal 1994 in poi – conquistò con una massiccia vittoria elettorale, il governo del Paese, dando vita ad un vero e proprio “patto di non belligeranza” (così è definito nella ricostruzione dell’accusa) con Cosa nostra, i cui frutti oggi sono sotto gli occhi di tutti. Pezzi della sinistra e pezzi della destra: nessuno escluso.

Repubblica 27.5.13
Processo al Grande Ricatto. Quando la politica si piegò alle bombe di Cosa nostra
Sfilano a Palermo i protagonisti della trattativa Stato-mafia
di Attilio Bolzoni


PALERMO — Comincia a Palermo il processo dove lo Stato si trascina sul banco degli imputati. Si accusa di complicità con quello che (pubblicamente) riconosce come il peggiore dei suoi nemici, si guarda dentro, scava nel suo passato più oscuro, rovista nei suoi archivi più segreti. Oggi, in Corte di Assise, si apre il processo sulla trattativa fra Stato e mafia. L’ultima, solo l’ultima trattativa conosciuta e già certificata con sentenza dei giudici di Firenze al dibattimento per la strage dei Georgofili del maggio di venti anni fa: «Indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des: l’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia». Trattativa avvenuta fra la primavera del ’92 e l’inverno del ’94, dal giorno dell’esecuzione dell’europarlamentare Salvo Lima al giorno dell’attentato misteriosamente fallito contro i carabinieri all’Olimpico di Roma. In mezzo le uccisioni di Falcone e Borsellino, le bombe in Continente, i blackout telefonici di Palazzo Chigi, le lettere minacciose a un Presidente della Repubblica, gli improvvisi avvicendamenti al Viminale, le sinistre telefonate della Falange Armata, le paure degli uomini politici più
compromessi con ambienti mafiosi. Chi trattò? Perché trattò? E in cambio di cosa?
L’atto di accusa della procura di Palermo si può riassumere così: dentro lo Stato, ci sono stati alcuni personaggi eccellenti che per fermare le stragi — e per salvare la pelle a tre o quattro ministri — sono scesi a patti con i Corleonesi. Promettendo nuove leggi, sguinzagliando reparti speciali oltre le linee di confine, dimostrando con provvedimenti — come l’»alleggerimento» del carcere duro per quasi 400 detenuti — la disponibilità dello Stato a cedere ai ricatti di Totò Riina e dei suoi macellai. Tutta da dimostrare naturalmente la colpevolezza degli imputati in questo processo dove per la prima volta sono insieme alla sbarra ex ministri e capi di Cosa Nostra, alti ufficiali dei carabinieri e pentiti, uno dopo l’altro accusati «di avere turbato la regolare attività dei corpi politici dello Stato Italiano e in particolare del governo della Repubblica».
Ecco chi sono: l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino, il senatore Marcello Dell’Utri, i generali Antonio Subranni e Mario Mori, l’ex colonello Giuseppe De Donno, Massimo Ciancimino, il killer di Capaci Giovanni Brusca, i boss Totò Riina e Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Nell’elenco ce n’erano altri due, l’ex ministro Calogero Mannino e Bernardo Provenzano. Il primo ha chiesto il rito abbreviato, il secondo — che è più di là che di qua — per il momento non sarà giudicato. La ricostruzione della trattativa è raccolta in 120 faldoni, i testimoni che sfileranno sono 176, al numero 63 della lista c’è il nome di Giorgio Napolitano. Le quattro telefonate intercettate fra lui e Mancino — distrutte dopo la decisione della Corte Costituzionale — sono fuori dal processo, la citazione del Presidente è stata richiesta dalla procura solo «per riferire in ordine alle
preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio nella lettera del 18 giugno 2012».
Il consigliere del Quirinale (morto per infarto l’estate scorsa dopo le polemiche sulle sue conversazioni con lo stesso Mancino) in una lettera a Napolitano — resa pubblica dal Presidente — accennava a «indicibili accordi» al tempo delle stragi siciliane. In una telefonata, D’Ambrosio aveva fatto esplicito riferimento al Presidente Oscar Luigi Scalfaro, al capo della polizia Vincenzo Parisi, al generale Mori, al vicecapo del dipartimento penitenziario Francesco Di Maggio «e compagnia». Al capo dello Stato i pm vorrebbero chiedere se è mai venuto a conoscenza dei timori del suo consigliere per quegli «indicibili accordi», la richiesta è già stata dichiarata «legittima» e nelle prime udienze la Corte di Assise deciderà se Giorgio Napolitano dovrà o meno testimoniare a Palermo.
Altri testi di rango, l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e l’ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato. Poi una schiera di ex ministri e di uomini politici come Giovanni Conso, Claudio Martelli, Luciano Violante, tutti protagonisti in quella stagione — per avere firmato atti o per avere appreso delle scorribande dei carabinieri con l’ex sindaco Vito Ciancimino senza avvertire l’autorità giudiziaria — e che hanno riferito episodi e circostanze dopo tanto tempo. Più di quindici anni.
Uno dei punti centrali del processo per i pubblici ministeri restano quelle telefonate fra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio, che cominciano il 25 novembre del 2011 e continuano fino al 5 aprile del 2012. L’ex ministro degli Interni si lagnava con il consigliere del Quirinale di come stava scivolando dentro l’inchiesta di Palermo, lamentava un mancato coordinamento con altre procure titolari di indagini sulle stragi, faceva pressioni. Fra i testimoni ci sarà anche l’attuale presidente del Senato Pietro Grasso — che da procuratore nazionale antimafia escluse sbavature nel coordinamento nelle inchieste — e il pg della Cassazione Gianfranco Ciani al quale chiederanno chiarimenti «in ordine alle richieste provenienti dall’imputato Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento delle Procure interessate».
Quattro i pm schierati in Corte di Assise a Palermo. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. L’indagine era stata avviata da Antonio Ingroia, il magistrato che dopo 20 anni sul fronte siciliano ha scelto di entrare in politica. E oggi l’associazione Libera di don Luigi Ciotti si costituirà parte civile «perché non c’è giustizia senza verità e noi vogliamo incoraggiare la ricerca della verità ». L’inchiesta sulla trattativa viene presentata come un’assoluta novità nella storia giudiziaria italiana. Siamo un Paese con la memoria corta. Di patti con la mafia e perfino di “papelli” ce ne sono sempre stati fin dall’Unità d’Italia e anche prima. Dalla Sicilia a Napoli, dai Borboni alla Prima Repubblica, passando per il Duce per arrivare allo sbarco degli Alleati e ai misteri della banda Giuliano. Come si vede, nelle vicende di mafia e di antimafia non c’è mai nulla di inedito.

l’Unità 27.5.13
La ferocia del potere maschile in una società spezzata
di Andrea Di Consoli


Di fronte al male estremo, non ci si può che inginocchiare confusi, senza parole; solo dopo si possono invocare pene più aspre, maggiori certezze del diritto, una più profonda lettura dello sconquasso antropologico dell’Italia odierna.

Corigliano Calabro, come gran parte del Cosentino, non è mai stata terra di ‘ndrangheta, ma una silente violenza inesplosa la percorre e, insieme a essa, un continuo sottofondo di malessere sociale, di frustrazione, di collera. È una terra, questa, in bilico tra modernità e tradizione, ugualmente capace di eccellenze dell’ingegno e di rassegnate rese di fronte al degrado (si pensi, tanto per fare degli esempi, alle sparatorie, ai capannoni incendiati, allo sfruttamento della prostituzione, alle tendopoli di immigrati a Schiavonea). Il diciassettenne coriglianese che ha bruciato viva, dopo averla cosparsa di benzina, la sua giovanissima fidanzatina Fabiana Luzzi (che, lo ricordiamo, non aveva nemmeno compiuto sedici anni), ci dice qualcosa di molto serio sulla malattia di quest’Italia, ovvero sul mescolamento
senza amalgama di vecchi «valori» ormai decontestualizzati come onore e potere maschile, e nuove acquisizioni della modernità quali libertà femminile, edonismo, liquidità identitaria e affettiva. Quando due faglie così diverse e così distanti finiscono col cozzare, a quel punto è inevitabile il terremoto, di cui l’omicidio di Fabiana è solo l’ennesimo, tragico epifenomeno. Le colpe sono sempre individuali, ma nessun delitto è davvero privo delle stimmate del tempo, cioè dei piccoli e grandi sommovimenti della contemporaneità. Altrimenti dovremmo accettare la lettura sommaria e superficiale di quanti dicono, senza nessuno sforzo analitico, che «non si capisce più niente» e che l’Italia, molto semplicemente, «è impazzita». Invece, a un livello assai profondo della nostra società, è in atto una gigantesca lotta tra la libertà e le regole antiche, ovvero tra l’emergente ideologia della società liquida e la superstite ideologia della società radicata. L’Italia non sa decidersi e, in attesa di decidersi, permette imbambolata questa stratificazione di impulsi e di idee che sono ora antichissimi e ora modernissimi. Quali erano i valori di Fabiana e del suo giovane carnefice? In che misura il mescolamento senza amalgama di valori dissonanti segnava le loro giornate? Due fantasmi ne minavano l’equilibrio: la ricerca spensierata della libertà e dell’esteriorità e l’oscuro bisogno di potere. Nessuno ha avuto il coraggio di dire loro due semplici verità: che la libertà è un piacere difficile, faticoso e a volte pericoloso, e che nessuno è immune da sentimenti eterni quali il possesso, l’onore, la vendetta, che solo la cultura può tenere a bada. Infine è andata nel peggior modo possibile, e la confusione dei tempi s’è divorata la vita di questi giovani ragazzi, vittime di un terremoto che li ha penosamente sovrastati.
Ognuno, nella confusione generale, si regola come può e come sa; ma sempre più spesso capita di vedere mal convivere impulsi antichi e istanze moderne, come vivessimo in un Paese dove tutte le epoche siano all’improvviso divenute contemporanee. E nessuno di noi è immune da questa confusione, che è anche linguistica, perché le parole che noi usiamo sono tutte ormai declinate arbitrariamente in base alla faticosa costruzione identitaria che ciascuno di noi sta sperimentando, mescolando alla rinfusa tutto ciò che capita per le mani. Dunque si parla tanto, ma spesso non ci si intende nemmeno un po’. Forse la grande colpevole è questa società della facilità e delle scorciatoie (del piacere come unico dovere) che crea troppe illusioni e troppe inevitabili frustrazioni. Al dolore, alla perdita, alla sconfitta, all’abbandono (ai limiti dell’uomo) ormai si risponde con l’autolesionismo, con la vendetta, con il delitto, perché oggi ha riconosciuta dignità soltanto chi vince, chi ha una bella fidanzata, una bella macchina, un po’ di banconote da esibire davanti agli altri. E in questo Paese dei balocchi essere abbandonati o allontanati da una ragazza non è più un triste e malinconico accadimento della vita (che sempre è fatta di gioie e di tristezze), ma il brusco risveglio da un sonno beato dove si era stati illusi che si poteva avere tutto e subito, vincere sempre e comunque, veder sempre riconosciuti i propri muscoli. Non è mai stato e mai sarà così, e rimuoverlo può soltanto portare al crimine, alla rovina, a marcire in galera senza che nessun padre chieda scusa per aver insegnato impunemente il peggio della tradizione e il peggio della modernità, ovvero l’utopia rovesciata di una società che pensa di potersi sbarazzare della serietà (che è l’unica virilità possibile), che sempre è fatta di sacrificio e di pazienza, di tolleranza e di pietà, e del fondamento di ogni amore, che è l’intelligenza.

Corriere 27.5.13
Cosa c'è nella mente degli uomini violenti Si sentono giudici
di Anna Meldolesi


Cosa passava e passa per la testa del giovane assassino di Fabiana Luzzi, al momento, non lo sa nessuno. Le indiscrezioni parlano di una relazione interrotta e ripresa, di un approccio sessuale respinto, di gelosia, di scarsi segni di pentimento. Se saranno confermate, allora l'efferato caso di Corigliano Calabro presenta alcuni degli indicatori classici dei casi di femminicidio.
Dire che si tratta di una tragedia annunciata sarebbe troppo, nessuno è in grado di prevedere se una serie di comportamenti intimidatori e di abusi sfoceranno in assassinio. Ma le ricerche pubblicate nell'ultimo decennio su questo tipo di delitti si contano a decine e alcuni indizi ci sono.
La gelosia, innanzitutto, che non va intesa nel senso comune del termine. È il senso di possesso che trasforma l'altra in oggetto, l'attenzione ossessiva al comportamento della partner, il tentativo di limitarne le interazioni sociali. Si possono usare lenti interpretative diverse — femminista, sociologica, psicologica — ma i dati indicano la volontà di affermare il proprio ordine morale e punire presunte trasgressioni. A volte la violenza tutela l'autostima di chi la mette in pratica o comunque serve a preservare il suo mondo deviante. Il partner violento si erge a giudice e gendarme, responsabile dell'applicazione delle leggi che lui stesso ha stabilito su come debba o non debba comportarsi la partner. Una buona fidanzata non ti lascia, non si nega ai rapporti sessuali, non ti fa sentire inadeguato, non esce da sola, sa stare al suo posto. Se non lo capisce e si comporta da ingrata, è sua la colpa. In fondo fino a qualche decennio fa era considerato quasi normale picchiare la moglie.
Volontà di controllo, dunque, ma anche una relazione conflittuale, una recente separazione, una storia di violenze pregresse nei confronti della stessa donna o di altre, problemi mentali dell'aggressore: sono questi gli indicatori che vengono valutati abitualmente dagli studiosi. Tutti utili, anche se nessuno ha valore predittivo preso singolarmente.
In un controverso libro da poco uscito in America, Adrian Raine riferisce uno dei pochi studi di neuroscienze compiuti su uomini che avevano picchiato le proprie compagne. Il campione è piccolo (23 individui), ma suggerisce un eccesso di reazione di fronte a quelle che il soggetto considera provocazioni e una scarsa capacità di trattenere questa aggressività. «Chi abusa della propria compagna è diverso dagli uomini normali», si legge in The Anatomy of Violence. Ma questa non può suonare come un'assoluzione. Sono le nozioni distorte su ciò che costituisce la normalità di un rapporto, sui diritti che spettano all'uomo e sui doveri che si impongono alla donna, che spesso impediscono al carnefice di provare pietà per la vittima. Lo confermano i faldoni con le relazioni degli psicologi che hanno seguito 104 detenuti per femminicidio in Gran Bretagna: testimonianze di uomini che dividono il mondo femminile in principesse e puttane, che stracciano i vestiti della propria donna per impedirle di uscire, che pretendono test di paternità per provare adulteri mai commessi.
Cosa si deve fare è noto. Lo conferma al Corriere Rebecca Dobash, autrice dello studio britannico: «Proteggere le vittime di abusi, sottoporre a terapie cognitivo-comportamentali i loro aggressori, intervenire sull'educazione e sulla cultura popolare per scoraggiare la violenza di genere».

Corriere 27.5.13
Sono scappata da lì, lei non c'è riuscita
di Francesca Chaouqui


Caro Direttore,
sono nata in Calabria 30 anni fa, in un paese di 2000 abitanti vicino a Corigliano. Dalle nostre parti si fa voto a San Francesco di Paola per avere un maschio, in Calabria tutte le donne vogliono un figlio maschio, ancora oggi. Se nasci femmina la tua stessa venuta al mondo disattende la volontà di chi dovrebbe amarti incondizionatamente ma nonostante questo la Calabria è una terra matriarcale, sono le madri a indirizzare le famiglie, a aiutare i figli nelle scelte e anzi spesso a decidere per loro. Fabiana era di Corigliano e per capire la sua vita e la sua morte atroce immaginatevi un paese arroccato di case costruite la maggior parte nel dopoguerra e mai ristrutturate, sentite l'odore dei camini accesi l'inverno, l'unico bar nella strada principale teatro della vita sociale dei pochi rimasti, severo e insindacabile tribunale di chi vale e di chi non vale, di chi conta e chi no. La maggior parte degli avventori sono anziani. Si perché quasi nessun giovane rimane in Calabria, una terra splendida ma con troppo poco da offrire e quasi niente da costruire. Sono sicura che anche Fabiana Luzzi sognava di andar via. Partiamo tutte a bordo di pullman stanchi verso la capitale oppure Bologna, alcune volte Milano. Arriviamo qui in queste città dove le mamme e le figlie si baciano, si raccontano tutto, dove se fai l'amore la prima persona a cui lo dici è proprio tua mamma sicura che anche lei alla tua età ha fatto lo stesso. In Calabria se a 16 anni fai l'amore e tua madre, o peggio ancora tuo padre, lo scoprono sei certa di aver dato la peggiore delusione che potevi ai tuoi genitori. Fabiana è cresciuta come tutte noi, sentendosi dire cittu ca tu si filmmina, non su così pi tia, fai silenzio, sei una donna non sono cose per te. Davide sarà cresciuto aspettando il suo battesimo del fuoco, la prima volta, quella che ti fa entrare al bar spavaldo a dire mo sugnu n'uomminu, ora sono un uomo, come se bastasse questo per essere cresciuto e aver trovato un ruolo in quella società. Il rapporto fra uomo e donna in Calabria si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai, molti crescono vedendo padri e nonni dare qualche sganassone alle compagne, vedono loro reagire senza reagire, accettare quei comportamenti come connaturati agli uomini per retaggio culturale e sovrastruttura sociale. Si incassa, si va avanti, ca non è c'ama fa ridi i genti, non dobbiamo far sogghignare la gente, un'espressione tipica per dire che i panni sporchi si lavano in famiglia. I ragazzi guardano, imparano che la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie, diventa spesso parte di loro. Alcuni la metabolizzano, altri no. Le donne in Calabria, sono poche quelle che restano, poche quelle che amano liberamente, poche quelle che hanno compagni che le considerano loro pari in ogni cosa. Così andiamo via, sono le nostre madri a volerlo, i nostri padri a lavorare per poterci permettere di farlo. Diventiamo magistrati, insegnanti, avvocati, siamo pronte a parlare di tutto, con una mentalità aperta che non ha nulla a che vedere con quella con cui siamo cresciute. Dentro di noi però portiamo il peso degli insegnamenti che il piacere, la libertà sono cose da maschi, ci ribelliamo ma difficilmente ce ne liberiamo del tutto. Noi calabresi oggi siamo tutte Fabiana, chi è rimasto e chi come me è andata via, ma un pezzo del mio cuore è ancora lì, nonostante tutto.

l’Unità 27.5.13
La crisi della Siria è emergenza anche per l’Europa
di Pino Arlacchi

commissione Esteri eurodeputato Pd

L’EPILOGO DELLA TRAGEDIA SIRIANA SI AVVICINA, DIMOSTRANDO CHE LA MAGGIOR PARTE DEGLI ESPERTI aveva visto giusto. Nessuna ribellione armata può prevalere contro un governo che dispone di apparati della sicurezza che non si disintegrano né si dividono in modo significativo, e che è quindi in grado di usarli contro gli insorti. Anche se questi ricevono armi ed aiuti logistici e finanziari dall’esterno, e si dimostrano validi combattenti. E il caso della Siria ha confermato questa regola. Sulla vittoria in breve tempo dei ribelli siriani avevano scommesso con l’importante eccezione della Germania quasi tutti i governi europei più gli Stati Uniti e le tirannie petrolifere del Golfo. L’intransigenza di questa posizione è stata finora completa. A nulla sono valsi gli avvertimenti dei servizi di intelligence, fin dall’inizio molto scettici sulla presunta debolezza di Assad. In nessun conto sono state tenute le crescenti atrocità sui civili commesse dalle formazioni ribelli, che hanno eguagliato le efferatezze dei soldati di Assad.
E nulla hanno contato le lezioni della storia recente. Dall’Afghanistan dei mujaiddin diventati Talebani, alla Libia dei guerriglieri anti-Gheddafi che si sono tenuti le armi ricevute dall’Occidente per poi usarle contro di esso. Crisi e guerre civili si sono aggravate e non risolte. Sono durate più a lungo e sono divenute più sanguinose.
Il flusso di armi ai ribelli da parte del Qatar, dei sauditi, della Turchia e degli USA è stato controbilanciato senza difficoltà da quello dell’Iran e della Russia verso Assad. La maggior parte della popolazione siriana, inoltre, non si è schierata con l’opposizione armata. Anche se larghe parti della società siriana si oppongono al regime di Assad, temono anche i fanatici islamisti che hanno finito col prevalere all’interno delle formazioni combattenti. È gente che non combatte per la democrazia ma per la sharia e l’oscurantismo.
Presa in mezzo tra la ferocia del regime e quella dei ribelli, quasi tutta la comunità cristiana di Aleppo è fuggita dalla città e dal Paese. E lo stesso è accaduto altrove, dando luogo a oltre 1 milione di rifugiati nei paesi confinanti. Un’emergenza che impone la necessità di un intervento politico e umanitario, come indicato dalla risoluzione approvata la settimana scorsa dal Parlamento europeo a Strasburgo.
Gli ultimi sviluppi ci dicono che le forze governative stanno prevalendo e ciò sta dando luogo alle offerte di pace e di soluzione negoziata da parte degli Usa e della coalizione anti-Assad. Ciò può portare a una conferenza di pace che inauguri l’assetto prefigurato finora senza successo dai tentativi diplomatici dell’Onu (uscita di scena di Assad, elezioni, ricostruzione). Ma può anche portare alla sconsiderata decisione di ricorrere alla forza su scala ancora più vasta, non usando più il tramite delle fazioni di ribelli, ma l’intervento militare diretto. È quello che chiede la destra americana e a cui sembra alludere il governo Cameron: eliminazione dell’embargo e creazione di una no-fly zone come premessa di bombardamenti a tappeto per distruggere fisicamente il regime siriano. E incendiare il Medio Oriente. A questo ci si deve opporre.

Corriere 27.5.13
In campo 40 Paesi: la guerra degli stranieri per Damasco
di Guido Olimpio


WASHINGTON — In Siria si combattono molte guerre. I ribelli contro il regime. I musulmani sunniti contro gli sciiti. Le potenze regionali in lotta tra loro. Lo scontro tra componenti etniche diverse, dalla caccia ai cristiani che hanno a cuore Assad ai curdi che sognano la loro entità autonoma.
Un conflitto complesso dove sono rappresentate decine di nazionalità. Vicine e lontane. L'aspetto più evidente è quello dei «volontari». Al fianco degli insorti sono arrivati militanti da quasi tutti i Paesi dell'Unione Europea. Gli ultimi rapporti sostengono che sarebbero circa 800, con un buon numero di francesi. Ci sono poi jihadisti kosovari, bosniaci, canadesi, scandinavi e ceceni. Il grosso è però rappresentato dai nordafricani. I tunisini, come raccontano le decine di storie dedicate ai martiri. I libici che ricambiano il favore, i salafiti egiziani. Poi quelli libanesi che identificano la Siria come il nemico storico. Una lista piuttosto lunga, che viene enfatizzata da quanti temono, un giorno, il rientro in patria di tanti islamisti. Paure alimentate dalla presenza delle formazioni estremiste (come Al Nusra) e dall'azione nell'Est dello Stato Islamico dell'Iraq, sigla usata da Al Qaeda.
Molti membri della «legione straniera» raggiungono la Siria usando le linee di rifornimento create dai governi arabi alleati della ribellione. Il Qatar — che pompa denaro alle brigate vicine ai Fratelli musulmani —, l'Arabia Saudita che finanzia i suoi gruppi, così come la Turchia e, in misura minore, la Giordania. Stati usati dagli occidentali per aiutare gli insorti. Gli Usa, preoccupati di scottarsi, si servono dei regimi amici, stessa cosa fanno Francia e Gran Bretagna, più decise nel chiedere spedizioni massicce di armi. Frenano tutti gli altri partner europei.
Sulla barricata opposta non stanno a guardare. Russia, Iran e Iraq mandano munizioni, mezzi, petrolio e consiglieri per puntellare Assad. Una presenza defilata quanto attiva. Il lavoro sporco lo lasciano agli Hezbollah libanesi e ai loro «fratelli» iracheni. Diverse migliaia di miliziani sciiti hanno permesso ad Assad di riconquistare posizioni. È storia di queste ore. Bagdad, che a sua volta è impegnata contro i qaedisti, ha trovato risorse per favorire il passaggio dei pellegrini-guerrieri che dovrebbero difendere i santuari sciiti in Siria.
Nel mezzo c'è Israele. Colpisce l'Hezbollah, considerato l'avversario più organizzato, vede con favore un Assad indebolito, ma è preoccupato dal peso della componente più radicale della ribellione. Aspettano anche i curdi siriani del Pyd. Ora sparano sui soldati, ora si scontrano con gli insorti, ora stanno a guardare. Sperando alla fine di guadagnarci. Prova di come le tante guerre di Siria aprano opportunità, ma anche sviluppi non sempre prevedibili. Nulla di strano, questa è la regola in Medio Oriente.

Corriere 27.5.13
Con la discesa in campo di Hezbollah la guerra siriana diventa regionale
di Antonio Ferrari


Il rischio adesso è così alto da diventare quasi una certezza: la guerra siriana si sta trasformando in un conflitto regionale. La decisione di Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita filoiraniano Hezbollah, di annunciare pubblicamente che i suoi miliziani stanno combattendo in Siria a fianco dei soldati di Bashar Assad segna davvero la svolta. Indica infatti che il Libano potrebbe essere, per l'ennesima volta, il terreno ideale per un nuovo e sanguinoso conflitto. Stavolta tra sunniti e sciiti.
Nasrallah, uomo forte della politica libanese, si veste poco credibilmente da moderato, sostenendo che bisogna neutralizzare a tutti i costi i «takfiri», cioè gli estremisti sunniti che vogliono abbattere il regime di Assad. Indicando quindi che in Siria non vi è una rivoluzione popolare contro il potere centrale, ma vi sono terroristi che con l'aiuto di Usa, Israele e alcune potenze locali (chiaro il riferimento ad Arabia Saudita e Qatar, ma anche alla Turchia) vogliono creare un inferno regionale. Un attacco totale, quello di Nasrallah, al fronte dell'opposizione siriana, anche in vista di quella conferenza di Ginevra che dovrebbe consentire una forma di pacificazione. «Ma se Assad cade, Israele entrerà in Libano», ha sibilato il capo di Hezbollah evocando gli incubi del passato.
Le prove che si stiano accendendo i motori di una guerra allargata sono sostanzialmente due: i missili Grad, sparati da una distanza di 8 chilometri, quindi dal territorio libanese, che hanno colpito la periferia sud di Beirut, base dell'Hezbollah, provocando feriti e seri danni; e la feroce battaglia che si sta combattendo a Tripoli, nel nord della Repubblica dei cedri, tra fedeli e nemici di Assad, cioè tra sciiti e sunniti. Battaglia costata, in pochi giorni, oltre venti morti. Molti sostenevano, poco tempo fa, che un rapido deterioramento era inevitabile, anche perché, in vista di un possibile negoziato sul futuro della Siria, le parti accentuano l'aggressività per poter contare di più. Però tutto ha un limite. E ora, nonostante l'ottimismo che ha circondato le missioni del segretario di Stato americano Kerry, par di capire che non sono stati compiuti passi avanti. Anzi, la situazione è decisamente peggiorata.

Repubblica 27.5.13
Nella testa dei terroristi che stanno isolando l’Islam
Folli, solitari e imprevedibili quei jihadisti di casa nostra che spaventano l’Occidente
di Tahar Ben Jelloun


CHE si tratti di Tolosa, Boston, Londra o Parigi, gli individui che hanno assassinato selvaggiamente degli innocenti in nome di Allah o dell’Islam hanno agito da soli. Le loro azioni non erano ponderate né ben preparate. Si autoproclamano “giustizieri” guidati da Dio. Per quanto si frughi nel loro passato, non si trova nulla che avrebbe potuto prepararli a quel genere di omicidi. In compenso, se si ascoltano attentamente le prediche di altri individui che si dichiarano “imam”, mentre nell’Islam non ci sono né gerarchie né sacerdozio, si scopre che i loro discorsi incitano alla “jihad”, nel senso di guerra per Dio. Le televisioni satellitari dei Paesi del Golfo riversano continuamente sul mondo arabo e musulmano incitazioni alla jihad e alla vendetta. Fanno discorsi razzisti e antisemiti. Confondono tutto e a guadagnare terreno è l’ignoranza.
Mohamed Merah guardava video che mostravano una violenza terrificante. Mentre era in carcere gli hanno fatto il lavaggio del cervello e all’uscita era più musulmano di prima.
MA SICCOME ha avuto contatti con la polizia francese e con certe organizzazioni che sembra lo abbiano manipolato mandandolo in Pakistan, in Afghanistan e in Israele, la sua vita è presto scivolata nella vendetta. Nel caso di atti isolati, si osserva che le vittime non sono scelte, ma prese a caso. Nel marzo del 2012 Merah aveva preso di mira una scuola ebraica di Tolosa e ha ucciso a freddo dei bambini solo perché erano ebrei. Nella sua testa doveva credere di star vendicando i palestinesi. Ma non era abbastanza maturo per capire che l’ultima cosa di cui hanno bisogno i palestinesi, per portare avanti la loro causa, sono le stragi.
A Boston, dietro le azioni dei due fratelli americani di origine cecena, c’è l’ombra della Cecenia. Anche in questo caso si fatica a trovare un filo conduttore per spiegare la strage. Tre morti e 176 feriti: crimini gratuiti, barbari e senza spiegazione. È questo che la polizia trova più inquietante.
Il caso di Londra è forse quello che rappresenta meglio un terrorismo dall’interno, impossibile da prevenire, impossibile da combattere perché non c’è nulla — non un’organizzazione, né un gruppo o un movimento, anche se chi ha colpito si ispirava ad alcuni gruppi terroristici — in cui l’assassino abbia trovato ragioni ideologiche o politiche per il suo gesto. Sono dei pazzi che agiscono da soli e si dicono guidati da Allah! Ha scelto un soldato che aveva prestato servizio in Afghanistan, lo ha ucciso in modo selvaggio e dopo non è fuggito. È rimasto lì per parlare davanti alle telecamere, con le mani piene di sangue. Ha dichiarato: «Dobbiamo combatterli come loro combattono noi: occhio per occhio, dente per dente», e ancora: «Giuriamo su Allah che non smetteremo mai di combatterli».
Quello che sta succedendo è terrificante perché nessuna polizia al mondo è capace di scovare quello che succede nella testa di un individuo. Nei paesi democratici la lotta contro questo terrorismo è ancora più difficile. In Arabia Saudita l’assassino sarebbe già stato decapitato sulla pubblica piazza. In Europa i terroristi approfittano dei vantaggi della democrazia per agire e rivendicare pubblicamente le proprie azioni.
Questi gesti portano un gravissimo pregiudizio alle comunità musulmane di quei paesi. Secondo un sondaggio, il 74% dei francesi ritiene l’Islam «incompatibile con le leggi francesi ». L’islamofobia cresce. La gente ha paura. Tutti hanno paura, tanto gli occidentali quanto i musulmani. Quanti crimini si commettono nel nome di Allah!
(traduzione di Elda Volterrani)

l’Unità 27.5.13
Nozze gay, fallisce il corteo del fronte del no
Tre francesi su quattro ne hanno abbastanza di manifestazioni su questa tematica
«Manif pour tous» diviso, non replica la prova di forza dello scorso marzo
Provocazione dell’estrema destra, occupata la sede Ps: «Hollande vattene»
di Roberto Arduino


L’avevano promesso. A poco più di una settimana dall’approvazione in Francia della legge sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, i gruppi contrari alle nozze gay sono scesi in piazza a Parigi. Mentre la maggioranza dei francesi è favorevole a mantenerla (secondo gli ultimi sondaggi solo il 38% vorrebbe abrogarla) ed è un po’ stufa delle manifestazioni, i conservatori Ump e l’estrema destra del Front national di Marie Le Pen, i cattolici e i tradizionalisti, non hanno rinunciato all’ultima dimostrazione di forza. Anche con i militanti, però, l’obiettivo degli organizzatori di superare il milione di persone, proprio accaduto lo scorso 24 marzo, è ampiamente fallito.
CITTÀ BLINDATA
Nella notte circa 50 persone erano state arrestate per aver tentato di bloccare il traffico sulla via degli Champs Elysees. Una Parigi blindata, con ben 4.500 poliziotti schierati in assetto antisommossa, ha così accolto i manifestanti. Ma non sono stati quanto gli organizzatori speravano: 800mila circa secondo loro, mentre le autorità hanno contato 150mila partecipanti. Treni e pullman pieni di militanti provenienti da diverse province sono arrivati di buon mattino in città nel giorno in cui i francesi celebrano la festa della mamma e si sono uniti a quanti già componevano i cortei. Il fronte contrario alle nozze gay non è infatti omogeneo: tre dei quattro i cortei sono stati organizzati dal collettivo la Manif pour tous e l’ultimo dal gruppo cattolico integralista dell’Institut Civitas. Nel movimento sono presenti anche i membri del più radicale Printemps français: nome che indica la galassia di piccoli gruppi della destra estrema, ostili al matrimonio gay, ma anche, e fortemente, a Frigide Barjot, la portavoce della Manif pour tous, a causa della sua proposta di sostituire le nozze gay con una sorta di Pacs (le unioni civili già in vigore da tempo) ancor più rafforzati. Il gruppo è giunto fino a minacciare di morte la Barjot. La portavoce si è detta preoccupata degli attacchi nei suoi confronti: «Le minacce contro di me sono diventate violente», fino al punto che ha dovuto rinunciare alla manifestazione.
Queste tensioni interne hanno spinto anche il ministro Valls ha prendere sul serio l’ipotesi di sciogliere il movimento. Secondo Valls, «alcuni gruppi di estrema destra» che «non hanno posto nella Repubblica», hanno prosperato all’interno del movimento contro «il matrimonio per tutti». «Saranno sorvegliati. Alla minima violenza, la polizia, così come la giustizia, interverrà». Valls ha lanciato un appello alle coppie con bambini, chiedendo loro di tenersi lontani dal percorso della manifestazione. Questa raccomandazione è stata tuttavia ignorata e sono state molte le famiglie al completo che hanno sfilato per le vie di Parigi. In testa al corteo si è posto subito Jean-François Copé, leader dell’Ump. Il presidente del partito ha tenuto in mano uno striscione contro le nozze gay. «La legge (che legalizza i matrimoni tra persone dello stesso sesso, ndr) è stata votata, ma questo non ci impedisce di prepararci per il futuro», ha detto Copé. È «normale e legittimo» che i rappresentanti del partito Ump abbiano partecipato ai cortei: «Cosa si sarebbe detto, se non ci fossimo stati?», ha aggiunto. Copé ha poi lasciato il corteo a circa metà percorso.
Per tutta la giornata il clima è stato di altissima tensione: sulla scia del corteo, militanti di estrema destra del gruppo Generazione identitaria hanno fatto irruzione nella sede del Partito socialista, in rue Solferino. I dimostranti sono saliti su una terrazza da cui hanno poi dispiegato un grande striscione con la scritta «Hollande, dimissioni». La polizia in assetto antisommossa è intervenuta, sparando anche gas lacrimogeni. Gli estremisti sono stati così allontanati. Nonostante l’episodio, i diversi cortei sono confluiti nella spianata des Invalides, dove le migliaia di persone hanno ascoltato il comizio finale. «Il ritiro della legge non è più possibile. La Manif pour tous ha fatto il suo tempo, ed è meglio così, perché il suo messaggio non era più appropriato», ha fatto sapere Barjot.
Se doveva dimostrare qualcosa, il corteo di ieri ha messo in evidenza soltanto le numerose divisioni interne al movimento, da cui anche la Chiesa francese ha iniziato a prendere le distanze, preferendo la stesura di un documento che il Consiglio famiglia e società dei vescovi francesi farà uscire prima dell’estate. I numeri confermano l’ultimo sondaggio pubblicato, secondo cui 3 francesi su 4 ne hanno abbastanza di manifestazioni sul tema delle nozze gay.
La legge che apre al matrimonio per tutti, fortemente voluta dal presidente Hollande, è stata votata in via definitiva lo scorso 23 aprile, promulgata sabato scorso e diventerà realtà mercoledì prossimo. Sarà a Montpellier, la «San Francisco francese», la città in cui si celebreranno le prime nozze gay: il sindaco socialista Helene Mandroux unirà Vincent Autin, 40 anni, e il suo compagno Bruno, 30 anni, insieme da quasi sette: «Ci sposiamo come atto militante», hanno annunciato i nubendi.

l’Unità 27.5.13
I «Quaderni» al microscopio
L’opera di Gramsci all’esame dell’Istituto per il restauro
Al centro dell’indagine la questione della numerazione dei volumi e le incongruenze rilevate dagli storici
di Eleonora Lattanzi


IL 13 MAGGIO 2013 L’ISTITUTO CENTRALE PER IL RESTAURO E LA CONSERVAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHIVISTICO E LIBRARIO (ICPRCPAL) ha concluso le analisi svolte sui manoscritti di 4 dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Le indagini, riguardanti i quaderni 12 (XXIX), 13 (XXX), D (XXXI) e 29 (XXI), erano state richieste dalla Fondazione Istituto Gramsci nel giugno 2012 allo scopo di chiarire le incongruenze presenti nella numerazione data ai Quaderni dalla cognata di Gramsci, Tatiana Schucht.
In seguito alla morte del dirigente comunista nell’aprile del 1937, Tatiana, prima di inviare i quaderni a Mosca, li numerò apponendovi delle etichette. Non tutti i quaderni risultano però etichettati, mentre su alcuni furono applicate etichette di fattura diversa. Inoltre, sulla copertina di 3 quaderni, dal XXIX al XXXI, le etichette attualmente visibili furono sovrapposte da Tania a delle etichette precedenti applicate da lei stessa.
Anche in ragione di queste incongruenze, nel volume I due carceri di Gramsci (Donzelli, 2011), il prof. Lo Piparo ha avanzato dei dubbi circa la reale consistenza del lascito gramsciano, ipotizzando l’esistenza di un ulteriore quaderno oltre ai 33 conosciuti, occultato dopo la consegna a Togliatti, avvenuta nell’aprile del 1945, forse a causa di un suo contenuto «scomodo». Nel giugno 2012 egli quindi propose dalle pagine del Corriere della sera l’istituzione di una commissione di studiosi finalizzata ad analizzare i manoscritti e la documentazione relativa alla trasmissione dei Quaderni.
La proposta venne accolta dalla Fondazione Istituto Gramsci che chiamò a far parte del gruppo lavoro Luciano Canfora, Giuseppe Cospito, Gianni Francioni, Fabio Frosini, Franco Lo Piparo e Giuseppe Vacca. In una prima riunione furono esposti i termini della questione e vennero fornite ai membri del gruppo di lavoro alcune lettere delle sorelle Schucht; ad essa fece seguito una seconda riunione, svoltasi il 20 settembre 2012, nella quale furono esaminati gli originali dei Quaderni.
Nel corso degli incontri e in un nuovo volume (L’enigma del quaderno, Donzelli, 2013), il prof. Lo Piparo ha avanzato l’ipotesi che la presenza di doppie etichette su alcuni quaderni fosse dovuta all’intenzione di Tania di «lasciare traccia» del quaderno mancante. A tal proposito, ha sostenuto che «le etichette in chiaro usate da Tania si fermano a XXXI. Sotto l’etichetta XXIX si legge l’etichetta XXXII»; pertanto, ha aggiunto, «non mi stupirei se sotto l’etichetta in chiaro XXX ci fosse l’etichetta XXXIII e, coperta dall’etichetta XXXI, trovassimo l’etichetta XXXIV» (p. 124).
TECNICHE DI IMAGING
Il gruppo di lavoro aveva già affidato all’Icprcpal le indagini scientifiche sulle etichette dando la precedenza ai 4 quaderni ritenuti più controversi. Il laboratorio dell’Istituto è intervenuto inizialmente con tecniche di imaging, ovvero con l’impiego di lampade che mediante differenti modalità di illuminazione permettono la lettura di segni grafici altrimenti difficilmente leggibili. Successivamente recita la relazione dell’Icprcpal ad eccezione del quaderno 12 (XXIX) per il quale «già ad occhio nudo ed in misura maggiore dopo l’elaborazione grafica» è leggibile il numero XXXII, per gli altri 3 manoscritti si è reso necessario procedere al parziale «distacco fisico dei cartellini», che, dopo i rilievi, sono stati fatti nuovamente aderire.
L’Icprcpal ha stabilito che il tassello sottostante a quello del quaderno 29 (XXI) riporta la stessa numerazione. Chiarificatrici rispetto ai quesiti proposti si sono rivelate invece le indagini sui quaderni 13 (XXX) e D (XXXI). Infatti, sotto l’etichetta del primo «è comparsa la scritta XXXI» e sotto quella del secondo «un’altra etichetta numerata XXXIII».
In virtù dei risultati ottenuti dalle indagini svolte dall’Icprcpal e dell’importanza che il lavoro di questo Istituto può avere per giungere ad ulteriori chiarimenti sulle incongruenze della numerazioni dei Quaderni, la Fondazione Istituto Gramsci ha deciso di commissionargli una nuova indagine riguardante le etichette dei manoscritti restanti. I verbali degli incontri e le relazioni dell’Icprcpal sono consultabili sul sito www.fondazionegramsci.org.

Repubblica 27.5.13
Ateologia politica
“Basta con quel pensiero che ci tiene prigionieri”
Intervista a Roberto Esposito che in un libro affronta il rapporto tra religione e potere
Contro una tradizione che ha identificato il debito con una colpa personale
Intervista di Leopoldo Fabiani


«Tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati ». La celebre definizione di Carl Schmitt ha segnato per tutto il Novecento la riflessione filosofica sulla politica. “Teologia politica” è divenuto così un paradigma irrinunciabile per comprendere non solo i rapporti tra potere e religione, tra Stato e chiesa, ma tutta l’evoluzione della civiltà occidentale.
Ma “teologia politica” è anche una “macchina” di pensiero dentro la quale siamo da sempre imprigionati. La “cattura” non riguarda solo le menti ma, nell’era della biopolitica, anche i corpi, per mezzo del debito, figura centrale della “teologia economica”. È arrivato il momento di liberarcene. Questo è il tema dell’ultimo libro di Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, 234 pagine, 21 euro) che esce in questi giorni. Un testo che mentre ricostruisce la genealogia di questa categoria concettuale, ne mina allo stesso tempo le fondamenta. E sostiene che se vogliamo uscirne non si tratta solo di abbandonare una millenaria tradizione di pensiero, ma anche di ritrovare le ragioni profonde del vivere insieme in una collettività.
Professor Esposito, l’idea della fede come “instrumentum regni” è solo funzionale a una ideologia conservatrice o nasconde qualcosa di più profondo?
«L’idea che senza valori religiosi dominanti non si tenga insieme una società non è solo degli “atei devoti” come Giuliano Ferrara. Anche pensatori raffinati come Massimo Cacciari o Mario Tronti credono che il riferimento alle radici teologiche sia decisivo. Ecco dimostrato, se ce ne fosse bisogno, quanto sia persistente e pervasivo questo modo di pensare».
Altri però ritengono che viviamo nell’era della secolarizzazione, del relativismo, della morale “fai da te”.
«Ma questo non significa affatto che ci siamo “liberati”. Categorie come “secolarizzazione”, “disincanto” “ateismo” sono concetti teologici negativi o rovesciati. Esistono solo all’interno di quell’orizzonte che si vorrebbe invece oltrepassare».
Possiamo fare un esempio di qualche concetto “teologico” operante nell’attualità politica di questi giorni?
«Se ne possono fare molti, pensiamo al dibattito recente sul presidenzialismo. Si è sostenuto che siamo una società che non può fare a meno della figura del padre. Ora, l’azione del presidente Napolitano è stata un bene per tutti, ha trovato soluzioni, ha sbloccato una situazione che era arrivata alla paralisi. Sul piano simbolico però c’è qualcosa che non va. Perché la democrazia non deve essere un regime di “figli”, bensì di “fratelli”. Non è vero che abbiamo bisogno di un riferimento superiore, trascendente».
Ma in cosa consiste il meccanismo oppressivo che lei attribuisce alla teologia politica?
«È una tradizione di pensiero che taglia in due le nostre vite. Che tende a realizzare l’unità attraverso l’emarginazione di una delle parti. Che esclude mentre pretende di includere. L’uguaglianza, storicamente, è stata sempre “tagliata”: tra bianchi e neri, uomini e donne. Ecco, l’Occidente che sottomette il resto del mondo, la globalizzazione che impoverisce tante parti di umanità».
Secondo lei è giunto il momento di uscire da questo “dispositivo” che ci ha catturati e impedisce un’autentica libertà di pensiero. Ma come è possibile riuscirci?
«Non è certo un compito facile, al contrario, è difficilissimo. Io credo che la cappa che ci tiene prigionieri e che dobbiamo provare a rompere, sia fondata sul concetto di persona. Più precisamente, sull’idea che il pensiero appartenga al singolo, all’individuo. Dopo Cartesio, ci pare ovvio. Invece occorre tornare a una tradizione che da Aristotele
arriva a Bergson e Deleuze, passando per Averroè, Dante e Spinoza. È una catena che risale all’antichità dove il pensiero è visto come un luogo che tutti possiamo attraversare, un patrimonio cui tutti possiamo attingere. Il primo e più importante, si potrebbe dire, dei beni comuni».
Arriviamo alla “teologia economica” dove la parte centrale del suo ragionamento si svolge attorno all’idea di debito.
«Intanto pensiamo all’ironia di definire i debiti degli stati con l’espressione “debito sovrano” (concetto, quello di sovranità eminentemente teologico). Oggi, chiaramente, la sovranità non appartiene più ai singoli stati, ma alla finanza».
Cosa c’è di teologico nel concetto di debito?
«Walter Benjamin definiva il capitalismo “l’unico culto che non purifica ma colpevolizza”. L’origine teologica di questo concetto è chiarissima. Se pensiamo che nella lingua tedesca la stessa parola significa sia debito sia colpa, capiamo molte cose. Comprendiamo perché i tedeschi vivano se stessi come virtuosi e considerino ad esempio i greci non solo indebitati, ma anche colpevoli. Ma oggi, attraverso il debito pubblico, siamo tutti indebitati».
Siamo tutti “prigionieri” del debito?
«Nietzsche diceva che il debito ci ha reso tutti schiavi gli uni degli altri. E non solo in senso simbolico. Il cerchio biopolitico che lega il corpo del debitore al creditore ha origini lontane. L’istituzione romana del “nexum” consegnava il destino della persona indebitata al suo creditore, che ne poteva disporre liberamente, per la vita e per la morte. Il mercante di Venezia di Shakespeare pretende di essere ripagato con una libbra di carne da chi non può farlo col denaro. Ma anche oggi il debito si paga con la vita. Pensiamo agli immigrati che devono ripagare per sempre con il lavoro chi gli ha prestato i soldi per uscire dai loro paesi. Pensiamo ai suicidi per debiti».
Se siamo arrivati a questo punto non è solo frutto della “macchina” teologica, ci sono anche responsabilità più recenti.
«Senza dubbio tutto questo processo è stato agevolato dalla governance liberale, attuata a partire dagli anni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che non ci ha affatto liberato, anzi. Ha trasformato il welfare in un peso insostenibile, teorizzando il “Lightfare”, lo stato leggero. È l’ideologia dell’“ognuno per sé” che ha portato alla crisi e reso il 99% della popolazione più povera».
Per liberarci come individui, lei sostiene, bisogna agire collettivamente.
«Io credo di sì. Il meccanismo di sviluppo va cambiato, dobbiamo tornare a pensare agli investimenti socialmente utili, non al guadagno personale. In questo ci aiuta il concetto di “communitas”. Che significa avere in comune un “munus”, parola che originariamente significava al tempo stesso debito e dono. Nelle società arcaiche il debito era vissuto come un legame sociale. Essere comunità non significa cercare di sopraffarsi uno con l’altro, ma sentirsi vincolati da un dono di fratellanza ».
Il filosofo Roberto Esposito e il suo ultimo saggio Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, pagg. 234, euro 21)

Repubblica 27.5.13
Viaggio alla ricerca del padre perduto
Il memoir di Luca Tarantelli, figlio dell’economista ucciso dalle Br
di Miguel Gotor


Un viaggio alla ricerca del padre perduto, quel padre dolce che «riuscì a insegnarmi a nuotare sgonfiandomi i braccioli piano piano, senza che io mi accorgessi di quanto stavo imparando». Con quest’immagine Luca Tarantelli ricorda il padre Ezio, ucciso dalle Brigate Rosse il 27 marzo 1985, quando lui aveva soltanto 13 anni. Un trauma che ha segnato la sua vita e quella della madre Carole, il punto di non ritorno da cui ha inizio il volume Il sogno che uccise mio padre. Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per tutti (Rizzoli, pagg. 279, euro 18).
Il libro è interessante per almeno due ragioni. Anzitutto perché documenta con l’intensità di un memoir una delle possibili funzioni della scrittura, ossia il valore terapeutico di saturare le ferite interiori, di recuperare un dialogo con l’assenza a partire dalla ricostruzione di una corporeità negata («per anni ho avuto addirittura difficoltà a ricordare il suo volto»), di affrontare la lunga elaborazione di un lutto: «Capire chi era mio padre, per capire cosa ne era del mio dolore, e quindi per capire chi sono io», con la speranza che alla fine di questo viaggio «potrò riprendere davvero in mano la mia vita». La ricerca si snoda intrecciando i fili della memoria pubblica con quella privata: la storia della famiglia Tarantelli, il romanzo di formazione di Ezio tra viaggi di piacere e di studio in Inghilterra e negli Stati Uniti, l’incontro americano con Carole, l’autobiografia del figlio Luca, prima e dopo la cesura tragica.
La seconda ragione di interesse del volume riguarda la ricostruzione del pensiero economico di Tarantelli, brillante studioso formatosi alla scuola della Banca d’Italia, in un ambiente che è stato una delle poche fucine di formazione delle classe dirigenti italiane di livello internazionale. Egli ha dedicato la sua vita a comprendere il funzionamento del mercato del lavoro e si è impegnato sul tema centrale della disoccupazione. Per combatterla bisognava rivedere il meccanismo allora in voga della scala mobile che costituiva un ostacolo alla crescita economica e favoriva il dilagare dell’inflazione. Tarantelli riteneva che l’inflazione andasse predeterminata, ossia collegata ai suoi sviluppi futuri così da costruire un meccanismo, gestito dalle organizzazioni sindacali, in cui i lavoratori offrivano la propria moderazione salariale e la diminuzione della conflittualità nelle fabbriche, ma in cambio sarebbero diventati determinanti nel gestire la politica economica del Paese al fine di «massimizzare la velocità di trasformazione delle istituzioni». Il nucleo teorico della proposta di Tarantelli ispirò il decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984 che, con l’opposizione dell’area comunista della Cgil e del Pci, vide il taglio di 4 punti della scala mobile. Tarantelli smentì di essere il padre del decreto che considerò «una vittoria tecnica e una sconfitta politica», ma dalle pagine di questo giornale, di cui fu collaboratore, rimproverò a una parte importante della sinistra di avere combattuto il principio di predeterminazione senza avere saputo proporre soluzioni alternative credibili.
Questa sottolineatura del nucleo ideale del pensiero di Tarantelli è significativa perché egli è stato ucciso in ragione delle sue idee, per colpire sul nascere la sua proposta anticipatrice di affrontare il nodo delle relazioni industriali attraverso una politica di concertazione, come sarebbe avvenuto negli anni Novanta. Tarantelli è uno degli esponenti della cultura riformista italiana la cui funzione storica, penso anche a quella di Roberto Ruffilli, è stata di contribuire a sbloccare un sistema politico tendente all’inerzia sul piano economico e istituzionale. Ha ricercato una civiltà possibile con l’obiettivo di offrire soluzioni efficaci e proprio per questo è stato ucciso. È necessario ricordarne il sacrificio perché provare a insegnare a nuotare a un Paese intero sgonfiando i braccioli dell’ideologia e quelli del conservatorismo è un compito che non ha perso di utilità e di urgenza.
IL LIBRO Il sogno che uccise mio padre di Luca Tarantelli (Rizzoli pagg. 279 euro 18)

il Fatto 27.5.13
Ombre di Satana su cinque suicidi
di Davide Milosa e Ferruccio Sansa


SALUZZO, CINQUE RAGAZZI MORTI IN SETTE ANNI. INDAGINI PER CASI DI SATANISMO IN UN LICEO. DUE STORIE, UN’UNICA IPOTESI INVESTIGATIVA: LE SETTE. MA IN CITTÀ REGNA IL SILENZIO

Cinque ragazzi suicidi tra il 2004 e il 2011. Cinque casi che ruotano attorno a un liceo di Saluzzo. A unirli una sola ipotesi investigativa: il satanismo che corre sotto traccia in quel triangolo di Piemonte a nord di Cuneo. Questo il quadro. Ecco i fatti. Un sms inviato a un compagno di classe, uno zaino di scuola, un diario, un libro. E ancora il disagio dell'adolescenza, la passione per il rock estremo, metallo pesante lanciato oltre il limite. La storia inizia così. E subito si trasforma in sospetto, ombra nera, paura, indizio. L'idea spacca il cuore. Eppure quel libro dentro allo zaino c'è, si vede, si tocca. Niente incubi. Solo realtà. “Qui troverai la verità e la fantasia. L'una è necessaria all'altra. Quello che vedrete potrà anche non piacervi. Qui finalmente troverete un pensiero satanico”. Ultime righe del prologo alla Bibbia di Satana di Anton Szandor Lavey. Organista per le strade di San Francisco, nel 1966 fonda la Chiesa di Satana. Diventa il “papa nero”. E lo resta fino al giorno della sua morte. Infarto nel 1997. Ma che ci fa un libro del genere nello zaino di scuola di Carlo (nome di fantasia) studente di un liceo di Saluzzo, provincia di Cuneo? Domande per spiegare un sospetto. Dati oggettivi per costruire una prova. Proseguiamo. “Ordine eseguito, bestemmiato in San Pietro”, firmato Carlo. Messaggio per un amico e compagno di classe. Chi riceve l'sms forse sorride. I genitori che leggono non sanno cosa credere. E poi ci sono le figure nel diario di Carlo, all'inizio solo abbozzate, quindi sempre più precise, consapevoli, esperte. Quelle croci pagane che per essere disegnate richiedono studio, conoscenze. Arriveranno accessi d'ira e sintomi fisici: il controllo dell'urina e del sonno. Il ragazzo presenta tutte le caratteristiche del “reclutato” al satanismo. Tanto basta. Un esposto arriva in Procura. Poche pagine. E un fatto inquietante: la professoressa, che insegna religione nella classe di Carlo, ha chiesto ai suoi alunni di fare una ricerca, scegliendo tra quattro temi: il satanismo, la zoofilia e le parafilie in genere, le dipendenze. La conferma arriva dalla stessa insegnante. I dirigenti sanno, ma non intervengono. Il procuratore Maria Cristina Bianconi inizia a indagare. Siamo nella primavera del 2012. Da subito, l'istituto frequentato da Carlo diventa il caposaldo attorno al quale far girare le indagini. Si va oltre. Sotto osservazione ci sono alcuni ragazzi di una precisa sezione. Sono cinque, forse sei. Tra loro anche Carlo. La denuncia, così, fissa un punto. Da qui si torna indietro. Il nastro si riavvolge fino al 7 dicembre 2004. Giorno di Sant'Ambrogio. Pomeriggio. Il corpo di Paola V. viene ritrovato ai piedi di un pilone dell'acquedotto di Savigliano. Era scomparsa il 2 dicembre. Aveva 18 anni. Classificazione: suicidio. Paola aveva frequentato lo stesso istituto di Carlo. Dopo di lei, altri quattro ragazzi suicidi, i cui nomi, a oggi, stanno scritti sulla copertina di fascicoli vuoti. L'ultimo caso il 30 aprile 2011. Muore Kim M. La trovano impiccata dietro casa. Non era ancora maggiorenne. Anche lei, grazie alla conoscenza con una professoressa, aveva rapporti diretti con l'istituto di Saluzzo. A questo punto l'ipotesi d'accusa è chiara: istigazione al suicidio. Sul tavolo della Procura ci sono 5 morti e un sospetto di satanismo che corre tra i comuni della Provincia Granda.
L'INCHIESTA, PERÒ, pedala in salita. L'argomento è delicato. Chi sa non parla. L'ambiente, del resto, non aiuta. Il Saluzzese è zona molto ricca con una forte connotazione cattolica. Negli anni, qui, sono nate decine di associazioni per il recupero di ragazzi disagiati. Tra Barge, Bagnasco e Bagnolo Piemonte ci sono preti esorcisti e monasteri cistercensi, ordine che diede accoglienza ai Poveri Cavalieri di Cristo, meglio conosciuti come Templari. Saluzzo, poi, è sede vescovile oggi diretta dal vescovo Giuseppe Guerrini. Tra i poteri della diocesi c'è la nomina dei professori di religione. E che l'alto prelato conosca l'insegnante di religione è cosa certa. Il 17 maggio, infatti, Guerrini ha assistito, nel carcere di Saluzzo, alla presentazione del libro della prof. Naturalmente, la conoscenza non implica che il vescovo sappia delle singolari ricerche che la signora richiede ai suoi alunni. Scuola e Chiesa. E cala il silenzio. É il caso di un altro professore dello stesso istituto che sarà destinatario delle confidenze (probabilmente attraverso una lettera) di Paola V. La ragazza racconta dei suoi rapporti con il satanismo. L'insegnante ne parla con i colleghi. La voce gira. E siamo ancora nel 2004. Sentito dal magistrato, però, lo stesso professore non ricorda. Dice qualcosa di più una studentessa. Conferma che della morte di Paola se ne è discusso a lungo al bar. E nessuno ha mai fatto mistero dei collegamenti con il pensiero satanico. Svelano molto i disegni della ragazza: donne sollevate da terra e avvolte in lunghi drappi scuri. Chi conosce la materia non ha dubbi: quelli sono altari per il tributo a Satana. Subito dopo il ritrovamento del suo cadavere, la mamma racconta: “Paola era ossessionata dall'idea della morte”. Il padre, invece, vuole capire: “Tra il 2 e il 7 dicembre Paola cos’ha fatto, dove è stata e con chi? ”. Di quella morte si trovano tracce anche su internet. Già il 2 dicembre (data della scomparsa), sul forum igz.it , tale Ethernial rivela che quel giorno la ragazza indossava una gonna nera e scarpe da ginnastica bianche. Un anno dopo, sempre sullo stesso forum, qualcuno la ricorda. Si scopre che Paola si faceva chiamare Vampire. Di lei si dice che “credeva fortemente in Dio e allo stesso tempo lo odiava con tutto il cuore”. In questa storia, poi, Facebook gioca un ruolo decisivo. Foto, amici, informazioni personali, discussioni, rivelano molto. Il compagno di classe di Carlo che riceve l'sms da San Pietro, e che in Rete si fa chiamare Burzum (come una rock band norvegese che negli anni Novanta bruciò diverse chiese), conferma di aver partecipato a riti satanici e di aver conosciuto importanti satanisti del Saluzzese. Tra gli amici del suo profilo, oltre a Carlo, c’è l’ex fidanzato di Paola, che era con lei poche ore prima della scomparsa, e altri ragazzi. Studenti ed ex alunni dello stesso istituto. Tutti, sentiti dal magistrato, confermeranno di avere interesse per il satanismo.
Sospetti, indizi, suggestioni. Si controlla tutto, perché il più piccolo particolare può servire. Il 30 aprile 2011, muore Kim M. Impiccata davanti a una fabbrica dismessa. Di mattina. Poco prima era in casa con cinque amiche. All'improvviso scappa e si uccide. Chi indaga intuisce. Eppure è difficile tradurre queste istantanee in un profilo penale. Ci si prova, ma tutto rimane imprigionato nello stesso cupo silenzio che spesso corre per le valli e le montagne che dominano Saluzzo.
IL SILENZIO degli insegnanti, ad esempio, che non denunciano. Tanto da rischiare un’incriminazione per omissione di atti d’ufficio, visto che sono pubblici ufficiali. A nulla servono gli allarmi rivolti a chi la chiesa la rappresenta. Un prete-esorcista della zona per caso inciampa in questa storia. Una madre va da lui. Racconta qualcosa. Di una professoressa e delle strane ricerche. Di una ragazza posseduta dal maligno. Ma nulla di più. Lo incontriamo davanti alla chiesa di un piccolo paese piazzato dentro a una vallata. La provinciale qui corre verso la Liguria. Poche case scrostate, nessuno per strada. Dice che l'unico consiglio possibile, in questi casi, è rivolgersi alle forze dell'ordine. Ci confida che “quelli” sono peggio della mafia, ti cercano, ti trovano, ti uccidono. E ancora: un monaco del monastero cistercense di Pra d'Mill sopra Bagnolo Piemonte conferma una preoccupante diffusione di fenomeni a sfondo satanico. Del tema dice di non essere un esperto. Da lui, però, è andata la madre di uno dei cinque ragazzi suicidi.
Così nove anni dopo il primo suicidio, nulla pare essere cambiato. E nonostante questo, molto è successo. Qualcuno, poi, ci ha anche provato a spezzare questo muro di gomma. Lo ha fatto davanti ai magistrati. Ha tentato nella scuola, portando in classe una suora salutata da alcuni con bestemmie e insulti. Quello stesso giorno, era Pasqua, ha rischiato di morire per un infarto. Suggestioni, paure, indizi. Un'unica certezza: a Saluzzo c'è un grave problema di satanismo. E non è detto che la magistratura possa mettere la parola fine a questa storia. Nonostante gli interrogatori, le intercettazioni degli indagati. E nonostante le conferme.

il Fatto 27.5.13
Il magistrato
“Un testimone mi disse: a Monza sacrifici umani”
di da.mil. e f.sa.


IL PM PIZZI, CHE INDAGÒ SULLE BESTIE DI SATANA: “FENOMENO SOTTOVALUTATO, LIQUIDATO COME SUPERSTIZIONE. I GENITORI DEVONO ASCOLTARE SEMPRE I FIGLI. USCIRNE INSIEME SI PUÒ”

Ho passato anni indagando sul satanismo in Piemonte e in Lombardia e sono convinto di una cosa: ci sono state vittime, ragazzi scomparsi per colpa delle sette. Molti più di quanto non si creda. É un fenomeno drammaticamente sottovalutato”.
Antonio Pizzi oggi è procuratore generale di Bari, ma anni fa è stato protagonista dell’inchiesta sulle Bestie di Satana. Uno dei pochissimi magistrati capaci di capire davvero l’ambiente del satanismo. E di arrivare a condanne per omicidio. Un lavoro di anni con criminologi e i migliori esperti dei carabinieri.
Procuratore, con i suoi uomini è riuscito a fare chiarezza sull’omicidio di almeno tre ragazzi. Ha sgominato una setta assassina. Eppure ha sempre sostenuto che molto altro resta da scoprire...
Dopo aver lavorato a Busto Arsizio, dopo che eravamo arrivati alla condanna delle Bestie di Sa-tana, mi sono trasferito a Monza. Qui abbiamo fatto di tutto per fare chiarezza sulla storia di un ragazzo, Christian Frigerio, scomparso da casa sua. Improvvisamente, senza ragione. Dopo una lunga indagine avevamo scoperto che anche lui era entrato in contatto con alcuni membri delle Bestie. Eravamo, credo, a un passo dalla soluzione del caso. Ma alla fine la sorte del povero Frigerio è rimasta avvolta nel buio...
C’era un testimone, una ragazza. Che cosa vi ha raccontato?
Lo ricordo come ora. Fece un racconto impressionante, da far gelare il sangue nelle vene. Disse: “Ci sono stati sacrifici umani. Una ragazza, forse una straniera dell’Est, è stata uccisa durante un rito satanico.
Non è possibile che si fosse inventata tutto?
Non siamo dei pazzi. Avevamo proceduto con la massima cautela. Ma la nostra testimone aveva fatto un racconto dettagliatissimo. Lo ha ripetuto più volte, senza mai contraddirsi. Senza la minima sbavatura. Difficile, davvero difficile, che si fosse inventata tutto. E aveva fornito anche delle indicazioni sui luoghi.
Dove si sarebbero svolti i sacrifici umani?
In una chiesa sconsacrata alle porte di Monza. Noi ci siamo andati, abbiamo scavato. Abbiamo compiuto tutti i possibili rilievi, ma non abbiamo trovato niente. Del resto era passato tempo, troppo tempo.
Potrebbero esserci altre vittime, quindi. Del resto già indagando sulle Bestie di Satana vi eravate imbattuti in una decina di casi sospetti: morti accidentali, suicidi e scomparse...
Sì, tutto intorno a Somma Lombardo e a Legnano, le zone frequentate dai satanisti. Ragazzi che si erano incontrati, si conoscevano. Vede, trovare i responsabili degli omicidi è stato molto duro. Ma ancora più difficile è stato ricostruire che le sette hanno costretto alcuni giovani a suicidarsi. Il reato di istigazione al suicidio è molto complesso da provare. Ma noi, sono convinto, ci siamo riusciti. Ci sono stati dei poveri ragazzi che sono stati torturati psicologicamente, minacciati. Messi di fronte all’alternativa: o ti ammazzi o lo facciamo noi.
É possibile tracciare un identikit dei capi di una setta satanica?
Possibile, ma difficile. Io stesso sono rimasto sconvolto dalla mia esperienza. C’era Andrea Volpe, uno dei membri delle Bestie, che al momento dell’arresto era sconvolto, con i capelli lunghi, vestito di nero. Quando me lo sono ritrovato davanti in carcere sembrava un ragazzo normalissimo, uno di quelli che escono ogni sera con i tuoi figli.
Come fare per difendersi, per proteggere i propri figli?
Bisogna fare attenzione ai piccoli segni. Ai vestiti neri, alla comparsa di simboli sui diari, sui quaderni, nei libri. O nei poster in camera da letto. Ma soprattutto bisogna ascoltare i propri figli, cercare di parlare con loro. E non bisogna condannarli, farli sentire in colpa. Devono sapere di essere capiti e protetti dalla famiglia.
A chi conviene rivolgersi?
Credo che occorre sempre aver fiducia nelle forze dell’ordine. Vorrei dare un consiglio dai ragazzi e uno ai grandi. Ai giovani direi: sappiate che si può sempre uscire da una setta. Sempre. I genitori invece non devono mai sottovalutare questi problemi, magari liquidandoli come superstizioni.

il Fatto 27.5.13
In Italia 600 mila gli adepti
di Valeria Pacelli


Sono almeno 600 mila gli adepti che ogni anno si riuniscono per dare vita a culti esoterici che sanno di sangue e sacrifici. Con almeno ottomila sette sataniche che prendono vita annualmente. Sono le ultime stime del numero verde Anti-sette, un servizio della Comunità Papa Giovanni Paolo XXIII, in collaborazione dal 2006 con il dipartimento distrettuale anticrimine della polizia di Stato.
IL NUMERO 800.228.866 nasce nel 2002 da un’idea proprio di don Oreste Benzi, presidente e fondatore della comunità Papa Giovanni XXIII. A fare da punto di contatto con la polizia di stato è il suo ex collaboratore e sacerdote Don Aldo Bonaiuto. Quel centralino squilla decine di volte ogni giorno. Dall’altra parte della cornetta ci sono persone che per un motivo o per un altro sono finite a far parte del mondo dell’occultismo. A volte sono proprio i protagonisti che chiedono aiuto, a volte le loro famiglie. Spesso però dai racconti di chi ha il coraggio di farsi aiutare, si ravvisano anche fattispecie di reato come violenza privata, istigazione al suicidio, furto, vilipendio di tombe e sequestri di persona. Ed è in questi casi che interviene la direzione distrettuale anticrimine, che avvia indagini più specifiche. Ma a raccontarci bene quali sono le realtà dell’occultismo e del satanismo più diffuse in Italia, è proprio Don Aldo Bonaiuto. “Al numero verde riceviamo decine e decine di chiamate ogni giorno – afferma Don Aldo sentito da Il Fatto – A contattarci sono persone intrappolate in diversi circuiti: da quello degli pseudo-guaritori, che adescano le proprie vittime offrendo soluzioni immediate; a quello dell’occultismo”. A sua volta il fenomeno dell’occultismo è molto variegato. “Ci sono diverse tipologie di sette – continua il sacerdote – da quelle con accezioni religiose che utilizzano messaggi legati a culti religiosi; poi ci sono le psico-sette che lavorano soprattutto con la psicologia della vittima. E infine ci sono sette che invece si rifanno al mondo del mistero, delle rivelazioni. Insomma si tratta di una realtà complessa, purtroppo poco conosciuta e ignorata”.
“QUANDO PARLIAMO di sette però – conclude Don Aldo – parliamo di un gruppo organizzato che opera tramite atti di spersonalizzazione e plagio, fino a rendere la vittima una schiava”. E Don Aldo non ha dubbi: il fenomeno dei culti esoterici si sta diffondendo sempre di più. Il più noto è il caso delle bestie di satana, i cui membri sono stati condannati nel 2007, con sentenza definitiva in cassazione, per i reati che vanno dall’omicidio, all’istigazione al suicidio, all’occultamento di cadaveri. Ma al di là delle cronache dei giornali, ogni anno, mezzo milione di persone è vittima di questi fenomeni. Non tutti sono leader, e qualcuno resta imprigionato in questo circuito. Non serve cercarli nelle foreste e nelle chiese sconsacrate. Spesso i riti avvengono anche in semplici appartamenti, lontano dagli occhi indiscreti di chi non vuole vedere una realtà che anche in Italia miete troppe vittime.

il Fatto 27.5.13
Usa, dove il culto nero è diventato religione
di Angela Vitaliano


Quando nel 1968, Roman Polanski girò “Rosemary’s baby”, scelse come location un prestigioso edificio, all’angolo fra la 72ma strada e Central Park West, a New York: il Dakota. Il palazzo, dove vissero, fra gli altri, Lauren Bacall e Leonard Bernstein, fu anche casa di John Lennon, che qui venne ucciso, a colpi di pistola, nel 1980. Il film racconta la storia di una donna che scopre che suo marito, attore di scarsissimo successo, ha promesso il loro bambino ad una coppia di vicini di casa, come vittima sacrificale per le loro cerimonie sataniche: una sorta di patto con il diavolo per ottenere la fama.
L’ELEMENTO“SATANICO”è talmente reale che per anni si sono rincorse voci, categoricamente smentite, che volevano, Anton LaVey, fondatore della “Chiesa di Satana”, consigliere di Polanski per le riprese. Molteplici sono le coincidenze che si intrecciano fra la finzione del film e la vita reale dei protagonisti. Polanski, ad esempio, nel 1969 perse sua moglie Sharon Tate, uccisa da Charles Manson e altri complici, mentre era incinta di otto mesi e mezzo; l’omicida disse di essere stato mosso nel suo gesto dalla “predizione” contenuta nella canzone scritta da Paul McCartney e John Lennon, Helter Skelter. Nel film, poi, all’inizio, la coppia di vicini che “adesca”, fa riferimento ad un uomo sparato davanti al palazzo, proprio come avvenne con Lennon. Quest’ultimo, fra l’altro, come tutti i Beatles, è stato spesso “accusato” di essere un prodotto degli “Illuminati” e, dunque, di avere un legame con il satanismo. In particolare la band inglese è stata abbinata al satanismo per l’utilizzo della tecnica musicale del back recording con la quale è possibile registrare, come sottofondo di alcune canzoni, delle frasi che se ascoltate al contrario hanno un senso non altrimenti percettibile. E il culto di Satana si basa proprio sul principio del “contrario” nel senso che tutti i simboli e i rituali sono “in opposizione” a quelli della Chiesa di Cristo. Gli Stati Uniti, dove Anton LaVey fondò la Chiesa di Satana a San Francisco nel 1966, sono da decenni considerati il paese con la più solida struttura di satanisti che ha avuto fra le proprie fila anche personaggi come Marilyn Manson e Sammy Davis Jr. Alla base della creazione di LaVey, c’è il principio secondo cui l’uomo è l’unico responsabile delle proprie azioni e che deve vivere la propria vita cercando di assicurarsi gratificazione fisica e morale. La struttura della Chiesa è simile a quella di un qualsiasi club: per aderire è necessario essere maggiorenni e pagare una quota di partecipazione di circa 200 dollari l’anno in cambio della quale si riceve una sorta di tessera alla quale si può liberamente rinunciare in ogni momento.
NEL 1975, UNO DEI PIÙ alti esponenti della setta, Miquel Aquino, origini italiane, si distaccò dalla Chiesa per fondare il Tempio di Set di cui è stato a capo fino al 2004. La scissione derivò da una visione diversa della “religiosità” della setta. Per i seguaci della Chiesa di Satana, infatti, quest'ultimo è solo un esempio e, dunque, è mantenuto un ateismo di base. Aquino puntò su una visione deista secondo la quale, Satana è un’entità da venerare. Sebbene la Chiesa di Satana resti la struttura più ampia all’interno del paese, molti altri sono i gruppi che sono diventati catalizzatori di adoratori di Satana. Se Polanski, infatti, rappresentò le inquietudini di una città come New York, una decina di anni dopo, verso il 1980, il paese venne attraversato, anche con risvolti drammatici, da una vera e propria isteria collettiva scatenata dalla fobia degli abusi (soprattutto sui bambini) messi in atto durante i rituali satanici. Tanto che, una splendida città nel Nord Carolina, Asheville, è stata spesso indicata come la “culla dei riti”, consumati in particolare in alcune delle bellissime costruzioni che ne caratterizzano l’architettura.

il Fatto 27.5.13
Stai attento, c’è Stalin che ti controlla
La macchina della morte nell’arcipelago del grade terrore
Tiranni. Le foto del gulag, ma in Russia il mito è ben vivo
di Stefano Citati e Micol Sarfatti


La frase “La morte di un uomo è una tragedia, la morte di milioni è statistica”, non l’ha probabilmente detta Stalin, ma l’ha compiuta. Instancabilmente, placidamente, Iosif Vissarionovic Dugašvili per anni ha firmato uno a uno i documenti che mandavano a morte e nei Gulag milioni di persone, di sovietici, di “anti-rivoluzionari”, di “nemici del popolo” di cui lui era dittatore assoluto. Assieme alla sua ristretta cricca - la Piatiorka, il quintetto, 5 persone, sul totale di 15 membri del Politburo - chiusa nel Cremlino degli Zar di Mosca ha deciso i destini dell’Urss e dei suoi abitanti, come il “piccolo padre” (lo Zar) aveva fatto nei secoli precedenti.
MA LO HA FATTO meglio, in modo assoluto, come il male che ha prodotto la macchina della morte assemblata dall’Nkvd (la polizia politica), oliata dall’ideologia, ingrassata dal sangue dei suoi stessi adepti, in un vortice continuo di carnefici trasformati per decreto in vittime, in un frullatore sfrenato di arresti, interrogatori, torture, confessioni, condanne, fucilazioni, deportazioni nell’arcipelago sempre più vasto delle necropoli e dei Gulag. Nessuno sapeva, tutti approvavano. Non più di 200 persone erano a conoscenza delle pianificazioni dei “processi nazionali” che venivano istituiti per categorie sempre più ampie della popolazione, ma a tutti era richiesto di approvare le condanne dei processi simbolici che venivano fatte affiorare come punte dell’iceberg del Terrore a simboleggiare la catarsi del popolo attraverso il rito del “demonismo” sconfitto dagli eroi del proletariato.
Adesso possiamo sapere tutto questo. Guardare negli occhi le vittime, i loro nomi, leggere le loro storie di fantasmi ancora in vita e già morti nell’ultimo scatto che gli agenti della polizia segreta prendeva per completare il loro fascicolo. La burocrazia implacabile, meccanizzata, nella ripetizione ossessiva della compilazione dell’incartamento, della condanna (ottenuta con il modulo pre-stampato della confessione dove il colpevole di turno doveva solo apporre la sua firma), del trasporto verso la fossa comune, le mani legate col fil di ferro, il colpo alla nuca. Avanti il prossimo.
Così morirono 750mila persone in un anno, tra il 1937 e il 1938, l’apice del terrore staliniano. Così ogni giorno negli ingranaggi burocratici dello sterminio politico rimanevano schiacciati a migliaia e in varie forme (uccisione, prigionia siberiana) gli elementi controrivoluzionari (articolo 58 del codice penale dell’inflessibile procuratore Vyšinskij), spremuti per nutrire il sistema ideologico. Ancor prima della “soluzione finale” organizzata capillarmente dai nazisti - prima spauracchio di Stalin, poi alleati di comodo, poi quintessenza del nemico - l’apparato comunista creò la fabbrica della liquidazione, che conformava l’intera nazione con le troike - i tribunali speciali di 3 membri - le prigioni, le tradotte che portavano i condannati nei campi della taiga oltre il Circolo polare artico, sulle rive ghiacciate del Pacifico, nelle steppe delle repubbliche asiatiche.
Correvano gli anni della paura del nemico esterno, c'era da ricompattare le fila del regime, con il timore che una guerra avrebbe dissolto l'Urss e scatenato un'altra guerra intestina: una paranoia che Stalin e i suoi accoliti curano con il metodo feroce della prevenzione del male, eliminando masse inconsapevoli, profilassi da un virus - la controrivoluzione - che immaginavano, e minacciavano, incombente. Nei mesi roventi del terrore il cruccio principale dei funzionari dell’Nkvd era di stare nella “norma” della morte, le quote prestabilite di vittime da arrestare ed eliminare. Talvolta si dovevano scusare per aver tolto di mezzo mille persone in più di quanto deciso dal Politburo, altre volte si dovevano inventare categorie sociali “nemiche” per mancanza della quantità di avversari nella loro zona di competenza.
Così finivano nelle maglie della polizia politica vecchi membri del partito bollati come deviati, giovani lavoratori ritenuti terroristi, persone il cui nome ricordava l’origine tedesca, polacca, finlandese.
POCHI ANNI prima, quando il mostruoso setaccio sociale si era messo in moto, era toccato ai kulaki - i contadini proprietari terrieri - eliminati a milioni tra il ‘30 e il ‘33. Poi, alla fine della guerra vittoriosa, sarebbe toccato a praticamente tutti gli ufficiali dell’Armata Rossa entrati in contatto con il nemico nazista. Tra loro c’era Solgenytsin che coniò l’espressione Arcipelago Gulag, terre emerse di un oceano segreto, raccontando l’intera trafila dall’arresto nel cuore della notte alla fine dell’umanità svanita dal corpo umano purgato dalle sofferenze: il dojdiaga, il relitto schiantato da anni di gelo, lavoro per completare la “norma” stabilita della produzione, chasa (la broda del campo), machorka, la sigaretta usata come moneta del Gulag, sevizie subite dai criminali comuni, veri padroni dei Gulag. Solgenitsin si scusò con Shalamov, autore dei Racconti della Kolima, Siberia estrema, per aver riferito orrori che erano poca cosa rispetto a ciò che furono negli anni del terrore.
Tutti quei volti e quelle storie sono emersi dalle fosse che nutrono le betulle della tundra, i crepacci, il terreno ghiacciato di cui sono stati ricoperti, così come dagli archivi metodicamente riempiti con i nomi, le foto, le confessioni e le condanne. Affiorano grazie alla perseveranza di un fotografo polacco - Tomasz Kizny - che per anni ha girato l’ex Urss per testimoniare come il potere assoluto sia stato capace di uccidere e rinchiudere milioni di volte, e in segreto. Uccidere talmente da seppellire, e quasi far dimenticare, il terrore stesso.

il Fatto 27.5.13
Il secolo più crudele e antiumano
di Michail Gorbaciov


IL VENTESIMO SECOLO, che giunge alla sua conclusione, è stato un secolo di grandissime realizzazioni in molti settori. Le nuove vette raggiunte dal progresso tecnico scientifico talvolta superano le più audaci previsioni degli scrittori di fantascienza di un passato ancora recente. Questo secolo ha in linea di principio creato delle possibilità nuove per il perfezionamento della vita umana. Ma tali possibilità non si realizzano. Inoltre il Ventesimo secolo si è rivelato sanguinoso, crudele, forse il più crudele e antiumano.
Purtroppo questa verità è talmente palese da non richiedere prove. L’umanità si sta avvicinando alla fine del secolo in uno stato di inquietudine e, addirittura, di sconcerto. Non a caso si moltiplicano le previsioni sulla fine del mondo. In realtà noi, verosimilmente, osserviamo una crisi del modello di sviluppo tecnologico, una crisi della moderna civiltà tecnica, che ha condotto ad un conflitto sempre più pericoloso nei rapporti tra Uomo e natura. Ad un conflitto che, se non verranno prese in tempo le necessarie misure, potrebbe minare le basi stesse della vita sulla Terra. Osserviamo inoltre una crisi del modello della vita sociale. La profondissima contraddizione tra uomo e società, tra uomo e potere, sta diventando insostenibile. La crescente tensione segna persino i rapporti reciproci tra la gente. Notiamo anche una crisi nei rapporti mondiali, che sono evidentemente entrati nella più acuta contraddizione con le esigenze globali della nostra esistenza. La cultura politica del confronto ereditata dal passato, ostacola il cammino della realizzazione dell’ormai matura esigenza di riunire le forze dell’umanità in nome dell’eliminazione delle minacce globali.
Stralci dal discorso tenuto alla Scala di Milano, nel 1993, per il 7° incontro internazionale per la pace organizzato dalla Diocesi di Milano e dalla Comunità di Sant’Egidio.

il Fatto 27.5.13
Il fascino del passato
Il mito del carnefice georgiano è più vivo che mai
di Micol Sarfatti


Mosca Nella Russia del nuovo corso, quella degli oligarchi, degli yacht e dei giovani vestiti solo con capi firmati, gli ideali sovietici trovano sempre meno spazio. Lo scorso inverno il governo ha persino dovuto lanciare una campagna pubblicitaria per promuovere i lavori manuali, perché, anche nella Grande Madre, nessuno vuole più fare l’operaio.
Eppure, in questa Russia che alla steppa preferisce le spiagge esclusive e strizza l'occhio all'Occidente, il mito del dittatore Josif Stalin è più vivo che mai. E non è solo appannaggio di turisti in cerca di cimeli sovietici. Qualche giorno fa Sergei Mironov, il capogruppo del partito Russia Giusta, ha denunciato la vendita, a prezzi tutt’altro che concorrenziali, di statuette del “magnifico georgiano” all’interno della Duma. Con seimila rubli (circa 150 euro ndr) ci si accaparra un busto da scrivania, per la versione più grande ne servono trentamila (745 euro ndr). Disponibile anche una statua a grandezza naturale, ma con prezzo su richiesta.
PROPRIO tra i banchi della Camera bassa russa si trovano alcuni dei più accesi sostenitori di Stalin. Tra questi c’è Gennady Zyuganov, politico di lungo corso, secondo classificato alle ultime, contestatissime, elezioni presidenziali e capo del Kprf, il partito comunista. Ogni anno, nell’anniversario della morte, questa vecchia icona dell’estrema sinistra, rende omaggio al dittatore deponendo corone di fiori sulla sua tomba. Zyuganov non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Stalin e ha più volte dichiarato che “se fosse vissuto cinque o sei anni in più l’Urss sarebbe rimasta una potenza per secoli”. La memoria sta a cuore anche Kazbek Taisaev, segretario locale del Partito Comunista. Lo scorso 8 maggio, alla vigilia delle celebrazioni per il Giorno della Vittoria delle forze sovietiche sulla Germania nazista, ha fatto erigere a Yakutsk, nell’estremo oriente russo, un monumento al sanguinario georgiano. La levata di scudi da parte di attivisti per i diritti umani e dissidenti è stata immediata, ma Taisaev ha ribattuto che “le azioni dei personaggi storici devono essere giudicate in base ai risultati, non alle emozioni” e la statua è rimasta al suo posto. Andò peggio all’ex sindaco di Mosca Yuri Luzhkov, che nel 2010, sempre in occasione della Festa della Vittoria, disse di voler tappezzare la città di manifesti di Stalin. I comunisti applaudirono l’iniziativa, ma tutti gli altri, compreso il partito di governo Russia Unita, la condannarono. L’allora primo cittadino si difese dicendo di non essere un ammiratore del “Piccolo Padre”, ma “della storia obiettiva, che richiede di non cancellare coloro che guidavano il nostro Paese”. I manifesti vennero comunque tolti e, qualche mese dopo, Luzhkov venne pure silurato dall’allora presidente Medvedev.
La rinnovata passione per Stalin, però, non germoglia solo tra i politici. Secondo uno studio del Carniegie Endowment for International Peace, organizzazione no profit per la pace e la cooperazione tra le nazioni, la popolarità del dittatore sarebbe in aumento anche tra la popolazione russa. Nel 1989 il rating di Stalin tra i grandi personaggi era piuttosto basso: 12% contro il 72% di Lenin e il 38% dello zar Pietro. Oggi è risalito al primo posto con il 49% delle preferenze.
E Vladimir Putin, come si pone nei confronti del leader a cui spesso è stato accomunato? In tanti vedono nel giro di vite imposto nell’ultimo anno da Putin a oppositori, attivisti, omosessuali e Ong straniere, inquietanti similitudini con gli anni ’30 e con i provvedimenti staliniani. Non a caso uno degli hashtag usati dagli anti-Putin è stato #ciao37. Creato proprio per paragonare le violente perquisizioni disposte dal Presidente alle purghe del 1937.

l’Unità 27.5.13
I diavoli da esorcizzare sul serio
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Questo Papa è troppo di buon senso per fare esorcismi. A quelli ci pensa Gabriele Amorth che nel giugno 2007 raccontava, durante una trasmissione di Corrado Augias, che tutti i giorni faceva esorcismi nella sagrestia di una chiesa un po’ isolata (per evitare che la gente chiamasse la polizia), aiutato da sei sette uomini che tenevano ben fermo su un lettino un poveraccio urlante come un dannato. FRANCESCA RIBEIRO
La cosa che più lascia perplessi quando i giornali parlano di esorcismo è l’ingenuità medievale della rappresentazione del diavolo. Raffigurato come una specie di serpente viscido che urla dall’interno di persone malate scuotendone le membra e il corpo, finché, scacciato dalla preghiera, non esce con un sibilo permettendo un grande respiro liberatorio. Il diavolo non ha nulla a che fare, mi dico, con il male del mondo. Esistesse davvero un diavolo che ha lo scopo di far soffrire gli uomini rendendo difficile il loro percorso verso la verità e la luce, davvero assumerebbe forme così semplici da smascherare? Il diavolo, penso io, è molto più furbo e molto più efficace quando, invece di entrare nel corpo di persone già duramente provate dalla malattia (come il povero ragazzo portato dal padre per ricevere la benedizione di Papa Francesco), si insinua, leggero e invisibile come un soffio, nell’animo di quelli che, da posizioni di grande prestigio, gli permettono di dare un contributo molto più consistente allo sviluppo del male nel mondo. Quelli che si agitano come degli indemoniati, facendo davvero del male. Sul grande palcoscenico della ricchezza e del potere, politico e non, sono davvero tanti. Però mancano gli esorcisti che potrebbero occuparsi di loro. O anche di loro.

l’Unità 27.5.13
La solitudine dei traduttori
di Bruno Ugolini


SONO DONNE E UOMINI CHE LAVORANO GIORNO E NOTTE PER POTER CONSEGNARE IN TEMPO ALL’EDITORE LA TRADUZIONE DEL BEST SELLER DI MODA. E poi magari aspettano giorni e giorni per ottenere un magro consenso. Sono i protagonisti di un’inchiesta voluta da Biblit (Idee e Risorse per Traduttori Letterari www.biblit.it) con un testo a cura di Marina Rullo. Dichiara uno di loro: «Siamo un po’ stufi degli editori che amano la cultura ma non la pagano o ti parlano di etica e ti danno 9 euro a cartella». E un altro: «A conti fatti guadagno dai 17 ai 23 euro netti all’ora che mi permettono di vivere, ma non di pensare a pensione e malattie». Sono moderni precari, insomma, intenti a operare in solitudine, senza un sindacato, senza diritti elementari, nemmeno quello di contrattare le tariffe per i lavori commissionati. Per non parlare di ferie, maternità, malattie, pensioni. L’auspicio dichiarato è quello di far promuovere un’iniziativa simile a quella commissionata in Francia dal Centre National du Livre francese, su sollecitazione dell’Atlf (Association des Traducteurs Litteraires de France).
Hanno risposto al questionario italiano del Biblit 272 individui, di cui il 51,5% traduttori attivi e il 48,5 traduttori professionisti. Il 41% ha indicato una tariffa massima lorda a cartella da 2000 battute oscillante tra gli 11 e i 15 euro e una tariffa minima lorda a cartella da 2000 battute concentrata tra i 6 e i 12 euro.
Racconta un altro degli intervistati: «Una volta che ho chiesto un aggiustamento di 50 centesimi, da 12.50 a 13, (giustificato anche dalla fretta con cui mi richiedevano il lavoro: di solito mi danno un paio di mesi per 250 cartelle, a volte anche meno) la risposta è stata negativa». E un altro aggiunge: «Credo che oggi le possibilità di negoziazione sulle tariffe siano inesistenti. I committenti ci fanno capire che siamo già fortunati ad averne, di lavoro». E ancora: «Io quest’anno (2012) ho lavorato pochissimo perché ho rifiutato compensi forfettari che ritenevo offensivi».
Una delle denunce più ripetute è relativa ai ritardi nei pagamenti. Per il 51% dei traduttori il termine del pagamento è fissato in 60 giorni dalla consegna, ma i tempi di pagamento vengono rispettati solo in un caso su tre.
Commenta uno di loro: «Traduco ormai da più di sei anni. Il vero problema della traduzione, letteraria soprattutto, è che non esiste niente che obblighi editori/teatri/istituzioni o chiunque ordini un lavoro di traduzione a pagare in tempo il lavoro del traduttore, cosa che invece vincola i committenti nei paesi esteri. La mancata puntualità dei pagamenti, tanto frequente da diventare regola, rende praticamente impossibile, per un traduttore, anche soltanto pensare di poter vivere di questa professione».
Non c’è nessun collegamento poi tra i compensi devoluti e il carovita, l’inflazione, come può avvenire per le buste paga dei lavoratori a contratto o per le tariffe di altri professionisti. Spiegano: «Le tariffe non vengono aggiornate da anni (in un caso sono ferme dal 2004); in più nel 2010-2011 ho lavorato meno... Chi costa dai 15 euro in su non lavora più. Lavora tantissimo chi si fa pagare meno».
Capita spesso che molti dei volumi tradotti non riportino nemmeno il nome del traduttore, un minimo di gratificazione per chi ha contribuito in modo decisivo alle fortune dell’opera. Così come capita che quell’opera diventi un best seller e venga usato in modi diversi: cinema, teatro, tv. Ne derivano non pochi introiti per l’editore ma senza alcuna partecipazione dei traduttori.
Un andar delle cose che imporrebbe interventi. C’è chi avanza la proposta di «fare fronte comune per alzare i compensi». Qualcuno però confessa: «Al momento faccio fatica a impegnarmi in qualcosa un sindacato della nostra categoria che pur essendo d’importanza fondamentale per il nostro progresso continua a essere disertato dalla maggioranza dei colleghi. Alla fine, la traduttrice e il traduttore sono i primi nemici di se stessi». Sono voci da ascoltare. Per la stessa difesa delle qualità del libro, bisognoso di queste preziose professionalità. E dove il ricorso al minor costo possibile può avere effetti disastrosi.
http://ugolini.blogspot.com

Corriere 27.5.13
La parola secondo Florenskij
di Armando Torno


Pavel A. Florenskij, morto durante le purghe del 1937, è figura di riferimento dell'intelligenza e della spiritualità contemporanee. L'Italia aiutò a riscoprirlo nel 1974, allorché Rusconi — grazie a un editor come Alfredo Cattabiani — pubblicò la prima traduzione de «La colonna e il fondamento della verità sua opera di sintesi». Florenskij fu poliedrico: filosofo e teologo, si occupò di matematica e d'arte, di tecnica e letteratura. Ora Guerini e Associati ripropone, nella nuova collana «Classica», Attualità della parola. La lingua tra scienza e mito (pp. 162, 12; a cura di Elena Treu) che ebbe una prima edizione nel 1989. Saggi che mostrano come Florenskij, similmente a Wittgenstein e Bohr, considerasse essenziali gli studi di linguistica; il russo, però, utilizza anche l'esperienza di un pensatore quale Ernst Mach. Un'idea di fondo corre in queste pagine: rappresentare la fisica come una lingua; la teoria fisica, vera descrizione simbolica, va contrapposta alla fisica come spiegazione. Idea, quest'ultima, cara agli enciclopedisti francesi.

La Stampa 27.5.13
La psicoterapeuta che cura le scimmie con tavolozza e pennelli
400 cm3 le dimensioni del cervello di scimpanzè e gorilla contro i 1350 dell’uomo
Dal Piemonte all’Uganda: “Le aiuto a cancellare i loro traumi”
di Antonella Mariotti


«Hanno ucciso mia madre. E l’hanno uccisa per prendere me». Michael aveva più o meno 10 anni, non molti per un gorilla, e quando ha capito che poteva comunicare con l’«Asl» (l’acronimo di American sign language, vale a dire la lingua dei segni) è andato dalla sua «terapeuta», l’ha presa per il camice e le ha raccontato il giorno del suo rapimento. «Continuo a sentire gli spari. Di notte vedo ancora tagliare la testa a mia madre».
Micheal è morto qualche anno fa. Ma ci sono tante altre scimmie antropomorfe con un passato di traumi e violenze che vengono assistite e accompagnate verso una nuova vita in libertà nel Centro di recupero «Ngamba Island Chimpanzee Sanctuary» in Uganda. Qui, per una parte dell’anno, lavora come «psicoterapeuta» anche Mariangela Ferrero, che per professione cura il disagio umano a Pinerolo, vicino a Torino, e che nel cuore dell’Africa segue i primati. Tanto da aver messo a punto il programma «Pme», «Picture making emotional enrichment». «Come per gli umani – racconta – la pittura aiuta i primati a recuperare un rapporto con gli altri simili della propria specie, tornando così a una nuova vita in libertà».
Proprio come noi umani tutte le scimmie antropomorfe sono in grado di dipingere, anche se non tutte sono «pittori». «Alcune però - spiega la psicoterapeuta - capiscono che il materiale che offriamo loro serve per dipingere e ne sono incuriosite. E, quando finiscono un lavoro, danno un titolo a quel particolare dipinto. Anche dopo anni lo ricordano e non ne cambiano il significato».
Se il rapporto dei primati con la pittura è noto, quello che Mariangela Ferrero porta avanti è l’uso della pittura per il recupero emotivo, come a volte accade per gli esseri umani. «Il “Pme” ha dato risultati molto interessanti, sia per quanto riguarda il miglioramento del benessere psico-relazionale - spiega - sia per la stessa produzione pittorica». Due sono le ragioni che hanno convinto la psicoterapeuta a portare avanti il progetto. «Una ha a che vedere con l’entusiasmo, l’altra con la speranza. Nel mio secondo giorno di lavoro a Ngamba Island, Pasa, una scimpanzè adulta molto gentile e paziente, dopo aver osservato la prima sessione del “Pme” in compagnia di una sua ”collega”, ha deciso di fermarsi nella struttura in muratura per trascorrere la notte, rifiutandosi di tornare come sempre nella foresta. Si è opposta a ogni tentativo di farla uscire. Poi, quando il personale ha desistito, Pasa mi ha chiamato, facendomi capire che voleva dipingere».
C’è anche il caso di Medina: «È un piccolo scimpanzè di cinque anni, dolce e timida, che era spesso ripiegata su di sé nella quotidianità del gruppo e in difficoltà a manifestare i propri bisogni, a chiedere attenzioni su di sé e a partecipare ai giochi delle coetanee. Anzi. Era sempre preoccupata e proteggeva il proprio cibo. Medina, però, ha un particolare talento, tanto che utilizza tecniche complesse nella sperimentazione pittorica». Nel medesimo quadro usa infatti sia i pastelli a cera che le tempere. Inoltre piega e accartoccia il dipinto per ottenere un’opera tridimensionale «Alla fine - racconta Mariangela Ferrero - si sofferma ad osservare il risultato. È la migliore pittrice tra i partecipanti al “Pme”. La pittura le ha permesso di superare i traumi dell’infanzia, e ora ha un rapporto migliore con tutti gli altri scimpanzè».
Il progetto «Pme», però, ora rischia di fermarsi: «Abbiamo bisogno di fondi per proseguire. Io lavoro gratis ma servono strutture e materiali. La salute psichica degli animali è importante quanto quella fisica. Esattamente come accade per gli umani».