martedì 28 maggio 2013

«l’”inconsueta e sorprendente” (Purini) opera di Paola Rossi e Massimo Fagioli (Palazzetto Bianco, 2005) non lontano dal Cupolone, a testimonianza che la tipologia «a palazzina» ancora spinge alla sperimentazione architettonica. Ma si tratta di uno dei rari acuti che si alzano da un coro ottuso».
Corriere Roma 28.5.13
Palazzine borghesi l'invenzione nata a Roma
Le progettano grandi architetti le amano gli speculatori le copiano all'estero
di Giuseppe Pullara


Un secolo fa, secondo i piani urbanistici del Comune, Roma doveva espandersi con ampi fabbricati d'abitazione e villini. Nuovi quartieri come Nomentano, Salario, Pinciano, Monteverde e Parioli sarebbero diventati eleganti zone alto-borghesi a corona della città storica. Ma dopo la Grande Guerra la società cambia e si divarica: si rafforzano gli strati popolari e al tempo stesso emerge un ceto medio che cerca spazio. E casa. Cadono le previsioni sui villini e, con un regio decreto, nel 1920 si passa ad una nuova tipologia edilizia: la palazzina. Ha numerosi pregi. Richiede un investimento limitato, si fa in poco tempo, è venduta subito e bene. Un affare per chi la costruisce. Le regole ci sono: quattro prospetti, un fronte di 25 metri, quattro piani più attico, distacchi dai vicini di 5,70 metri. È destinata alla borghesia emergente: c'è il salotto, lo studio, più tardi i doppi servizi, l'ascensore. Quando non c'è il marmo, c'è il «marmoridea», sua abile replica.
Spesso la progettano validi architetti, che si cimentano a gara con nuove tecniche, nuovi materiali, nuove idee. Aschieri, Capponi, Piacentini e poi Ridolfi, De Renzi, Busiri Vici, Libera a Ostia, Piccinato, Plinio Marconi, Gio' Ponti. In pieno conflitto, nel 1942, sul lungotevere Flaminio appare una facciata fatta di volumi e non di strutture: la «Furmanik» di De Renzi e Calza Bini. Nel secondo dopoguerra la palazzina romana fa boom: dilaga in tutta la città. Quella di Luigi Moretti, «Il Girasole» (1950) a viale Bruno Buozzi è un must. Tante belle, qualcuna super, tantissime semplici copie furbescamente trattate da costruttori praticoni che sguinciano tra norme tecniche e regolamento edilizio per fare più soldi, insaziabili: ecco i veri «palazzinari», quelli del nostro senso comune, piccoli e poi grandi speculatori che hanno disseminato «finte» palazzine seriali ovunque, comprese le periferie, provocando, come dice Paolo Portoghesi, «la destrutturazione della forma urbana».
Un poderoso volume («Palazzine romane» di Alfredo Passeri, ed. Aracne, 1200 pagine) col tracciare la storia di questa invenzione dell'edilizia cittadina - ripresa in tutt'Italia con echi all'estero - ci accompagna nell'evolversi della cultura urbana di Roma accennando anche alla sua storia sociale. Con il diffondersi della palazzina si assiste all'affermarsi di quella borghesia che finisce per impadronirsi della città suggerendo un modello di abitazione cui aspira via via quel ceto medio che riesce a sottrarsi ai fabbricati intensivi. Lo strumento della cooperativa edilizia favorisce il diffondersi di una modalità abitativa che diventa un vero e proprio status symbol.
Docente a Roma Tre, Passeri si è avvalso di un lavoro pluriennale di raccolta dati dei suoi studenti (elencati per nome) arricchendo il libro di saggi, contributi e testimonianze. Le decine di palazzine presentate con schede tecniche e autori costituiscono l'argomento con cui viene lanciato un appello: queste opere architettoniche di qualità vanno tutelate e conservate quali autentici beni culturali della città, in qualche caso vere «opere d'arte» ridotte ad uno stato di degrado per la cattiva manutenzione. Un richiamo destinato probabilmente a incontrare qualche diffidenza poiché alla palazzina, soprattutto nel secondo Novecento, sono legate le immagini della facile speculazione immobiliare, di una società rampante, di ambizioni private, insomma di una serie di vanità sviluppate in contemporanea con dure lotte sociali che comprendevano anche la rivendicazione del diritto alla casa (popolare).
Il repertorio delle palazzine d'autore non vuole essere esaustivo ma indicativo, alludendo all'opportunità di riconoscere e difendere dall'incuria un enorme bacino di architettura di qualità sparso in tanti quartieri. All'ultimo esempio citato, l'edificio di Portoghesi e Gigliotti al Nomentano detto «Casa Papanice» (1970), avvolto in un cromatismo organico, potremmo aggiungere l'«inconsueta e sorprendente» (Purini) opera di Paola Rossi e Massimo Fagioli (Palazzetto Bianco, 2005) non lontano dal Cupolone, a testimonianza che la tipologia «a palazzina» ancora spinge alla sperimentazione architettonica. Ma si tratta di uno dei rari acuti che si alzano da un coro ottuso: i «palazzinari» sono stati superati dai loro successori, che per fare soldi non costruiscono più verso il cielo ma sottoterra prestigiosissimi box per auto.

l’Unità 28.5.13
Il governo
Letta respira: gli elettori hanno capito
Il premier: «Ci viene dato credito»
Il premier soddisfatto: ora impegno sul lavoro
di Ninni Andriolo


Quello che a molti sembrava scontato non lo è. E i risultati di ieri dimostrano che il presidente del Consiglio si è scrollato la «croce che gli era stata gettata addosso», quella cioè di voler guidare un’alleanza «innaturale» con il Pdl che avrebbe fatto pagare al Pd prezzi elevatissimi. Si ragiona così dalle parti del governo, mentre le percentuali di Roma e delle altre città scorrono sugli schermi tv dando la misura delle difficoltà che l’intesa con i democratici al contrario scarica sul partito di Berlusconi e Alfano. «I risultati dimostrano che gli elettori del centrosinistra comprendono le scelte che il Pd ha fatto», così un premier «soddisfatto» ha commentato con i suoi i dati di ieri.
Il primo turno delle amministrative non chiude la partita, naturalmente. Né quella elettorale né quella «per l’Italia» che Letta ha avviato dalla postazione di Palazzo Chigi. Ma la giornata di ieri dimostra che «i giochi sono aperti» e che non sta scritto da nessuna parte che il risultato che il centrodestra riprenderà in mano le redini del Paese. Certo «chi ha votato Pd non pensava di ritrovarsi alleato del Pdl» ricordano dalle parti del governo «ma il dato di ieri dimostra che lo stato di necessità non permetteva alternative» al governo di servizio. Stato di necessità appunto. Dalle parti del governo si comprende benissimo che l’intesa Pd-Pdl non sarà «eterna» e dovrà essere «a tempo». Le elezioni di ieri, tra l’altro, «dimostrano che si tornerà al bipolarismo centrosinistra-centrodestra». Gli elettori del Pd «con responsabilità concedono credito», ma il loro banco di prova sarà costituito «dalle risposte che il governo darà alle emergenze, alla disoccupazione innanzitutto».
E l’interrogativo sulla «durata» dell’esperienza di governo si ripropone anche alla luce delle amministrative. A Palazzo Chigi sono ben presenti i rischi che potrebbe comportare il dato elettorale deludente del Pdl. Come reagiranno i «falchi» che non hanno mai digerito l’alleanza con il Pd e che spingevano Berlusconi verso nuove elezioni anticipate? E come reagirà il Cavaliere, certo fino a ieri di sondaggi che premiavano «il senso dello Stato» ostentato dopo le politiche? Il patto Letta-Alfano («qualunque sarà il risultato, le amministrative non produrranno scosse al governo») non basterà ad arginare un Cavaliere abituato a rivoltare i tavoli sulla base alle convenienze del momento.
E come inciderà sulla stabilità del governo la necessità del Pdl di recuperare nei ballottaggi? Impensabili scosse che terremotino Palazzo Chigi, ma fibrillazioni che mettano in difficoltà il governo Letta sono sempre possibili. Gli argomenti da cavalcare non mancano: dall’Imu, all’Iva, fino alla proroga delle detrazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie. A dispetto delle coperture difficili da trovare il Pdl potrebbe marcare le distanze per provare a recuperare elettoralmente.
Ed è anche per ammortizzare questi rischi che da Palazzo Chigi filtrano interpretazioni del voto che tendono a dare atto sia al Pd che al Pdl di aver guadagnato «i ballottaggi quasi ovunque» e a mettere in risalto i risultati positivi delle larghe intese che «oscurano» il Movimento 5 Stelle. Il governo per dirla con Letta «non esce sconfitto» dalle amministrative, mentre il populismo di Grillo subisce un ridimensionamento evidente. L’astensionismo? La prima risposta di Enrico Letta sarà l’accelerazione sulle riforme. Domani alla Camera e al Senato sono previste due sedute importanti con la presenza del presidente del Consiglio. Letta prenderà la parola nelle due Aule per rimarcare l’esigenza di portare a compimento il percorso riformatore in breve tempo. Il governo auspica che il Parlamento possa sancire con atti formali l’avvio della fase «costituente». Si prevedono più risoluzioni che avranno una «base comune», come annuncia il ministro Quagliariello.
Al di là della polemica sulla clausola di salvaguardia che l’esecutivo vorrebbe far passare per correggere il Porcellum, Letta «non intende giocare al ribasso». I risultati di ieri, anzi, possono favorire sia le modifiche al sistema di voto sia il raggiungimento dell’obiettivo «massimo» che il premier intende perseguire»: una compiuta riforma elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, una nuova forma di governo.

l’Unità 28.5.13
Epifani: questo voto ci incoraggia
Il segretario incontra gli operai dell’acciaieria di Terni, poi commenta con soddisfazione i risultati: premiati serietà e voglia di cambiare
Serracchiani: Marino ha vinto nonostante
di Simone Collini


Un voto «incoraggiante» per il Pd, che a Roma segnala una chiara «volontà di cambiamento» e che nel resto d’Italia «premia la serietà e la capacità di governo» degli amministratori locali democratici e conferma il «radicamento» del partito nei territori. Guglielmo Epifani è soddisfatto dell’esito elettorale ma sa che il lavoro da fare sul partito e con il governo è ancora molto, che come dimostra la bassa affluenza alle urne il divario tra cittadini e politica è profondo e che i problemi con cui l’Italia deve fare i conti sono numerosi e complicati.
Il segretario del Pd lascia Roma di primo mattino, destinazione Terni, per partecipare a un’assemblea di lavoratori organizzata per discutere della vendita del gruppo Acciai speciali Terni da parte della società finlandese Outokumpu. Rientra poco prima che chiudano i seggi e poi segue lo spoglio delle schede dalla sede del partito, chiamando Ignazio Marino per commentare via via il risultato (che alla fine definisce «straordinario» e che «premia il profilo civico»: «Dobbiamo far rinascere questa città, con umiltà e sobrietà»). Il dato del Campidoglio fa registrare una netta bocciatura di Gianni Alemanno «mai nella storia dei sindaci di Roma al primo turno il sindaco uscente ha avuto un numero di voti così basso» conferma il Pd come partito più votato nella capitale e mostra un Movimento 5 Stelle in drastico calo: penalizzato, è l’analisi che viene fatta al Nazareno, dal no al governo di cambiamento tentato da Bersani, che ieri ha letto con soddisfazione i risultati elettorali. Ma al quartier generale del Pd è già il momento di guardare avanti. E infatti Epifani evita di infierire sui Cinquestelle («non è corretto dire qualcosa sul risultato delle altre forze politiche, ma dovrà essere motivo di riflessione per tutti») e lancia un appello in vista del ballottaggio del 9 e 10 giugno: «Sarebbe necessario che tutti coloro che credono e si sono battuti nel rinnovamento trovino nel nostro candidato il punto di riferimento. Se questo avverrà, tra 15 giorni Roma potrà avere quel sindaco di speranza e di rinnovamento che la capitale d’Italia si merita di avere».
Il Pd in queste due settimane dovrà evitare passi falsi e già dalla Direzione convocata per il 4 giugno (che dovrà aprire la pratica congresso) Epifani vuole far uscire un messaggio di unità e di forza del partito. Alcune uscite di ieri, come quella di Debora Serracchiani che ha detto che lei e Marino hanno vinto «nonostante il Pd», non sono piaciute al gruppo dirigente democratico. Il tesoriere Antonio Misiani bolla quella tesi come «stupidaggine», sottolineando che «il Pd è determinante per il buon risultato del centrosinistra in queste amministrative». E lo stesso Epifani parla di un voto «incoraggiante». «Non posso parlare di me e della mia segreteria, questo è evidente», risponde a chi gli domanda se il voto sia un segnale per il suo operato. «È qualcosa che incoraggia il lavoro che ho incominciato a fare, questo sicuramente sì. Credo sia un voto incoraggiante per tutto il Pd. La funzione del partito si conferma forte e il suo radicamento molto vitale. Quando si vuole cambiare si incrocia per forza questo partito e i suoi candidati».
Epifani però sa anche che il Pd, e il governo che sostiene, devono mandare in fretta un segnale di cambiamento affrontando le emergenze con cui deve fare i conti il Paese. Non a caso ha scelto come prima uscita pubblica da segretario del Pd l’assemblea dei lavoratori del siderurgico di Terni. Gli occhi in questo momento sono puntati sull’Ilva di Taranto, che per Epifani non deve smettere di produrre «perché se si ferma quello stabilimento avremmo a cascata conseguenze negative per il grosso degli impianti siderurgici in Italia» e perché solo se si tiene aperto «si possono fare investimenti per bonificare l’area». Ma non c’è solo il caso Ilva, dice il segretario Pd arrivando all’assemblea della Acciai speciali di Terni, che con i suoi 2862 occupati diretti copre il 15% del mercato europeo dell’inox e che ora la finlandese Outokumpu vuole mettere in vendita (dopo averla acquistata 16 mesi fa dalla tedesca Thyssen-Krupp): «Se si vuol dare all’industria italiana una prospettiva e se, come è necessario, vogliamo continuare ad essere un paese manifatturiero, dobbiamo salvare la nostra industria siderurgica», è il concetto su cui insiste Epifani chiamando anche il governo a giocare un ruolo di primo piano in questa vicenda. A Terni parla del destino dell’acciaieria, ma anche di Taranto e di Piombino, di come l’Italia si deve preoccupare se venisse intaccato un settore, com’è il manifatturiero, che copre l80% delle nostre esportazioni. «Il governo si deve muovere con decisione in Europa e nelle politiche interne», è l’appello che lancia a Palazzo Chigi.
Per domani è previsto un incontro in sede governativa a cui dovrebbe partecipare anche un rappresentante della Outokumpu (della quale detiene il 33% il governo finlandese). Sulla vendita dell’impianto siderurgico la nebbia è totale, e i sindacati chiedono che l’esecutivo giochi la partita direttamente anche in sede europea. Lo stesso Epifani giudica necessario «un ruolo attivo e decisivo» del governo perché «quando sono in ballo questioni di mercato europeo, quando devi parlare con multinazionali, è evidente che la sede non può che essere quella del livello nazionale». Ma non solo. Dice il segretario del Pd: «La questione dell’industria delle acciaierie in Italia è forse oggi la crisi industriale più profonda perché, in realtà, è una grande infrastruttura di base che serve a tutta l’industria italiana. Per questo sia il futuro di Terni, sia la situazione particolarmente difficile dell’Ilva, sia la situazione di Piombino e della Lucchini, cioè tre grandissime realtà degli acciai italiani, oggi richiede da parte del governo una particolare attenzione».

il Fatto 28.5.13
Contenti loro...
di Antonio Padellaro


Sui tg è tutto uno squillar di trombe sul voto che “rafforza le larghe intese”. Palazzo Chigi “esprime soddisfazione”. Esulta il Pd e si congratula per la caduta di Grillo pensando: mors tua vita mea. Santanchè, Ferrara e Feltri condividono: è l’unica notizia buona di una giornata non buona per il Pdl (a Roma, Alemanno è quasi kaput e rischiano di perdere a Brescia dove Berlusconi comiziò tra i fischi). Come si dice: contenti loro... I numeri dell’astensione sono tragici e insieme ridicoli. Ha votato solo il 62 per cento, 15 punti in meno dell’altra volta. A Roma siamo vicini a quota 50 e il distacco rispetto a cinque anni fa è di 21 punti. Che sono 24, un vero record, a Pisa: la città che diede i natali al soddisfatto Enrico Letta. Che cosa i partiti abbiano da festeggiare, resta un mistero. Ormai più della metà del popolo italiano (contando anche i 5 Stelle) se li conosce li evita, a ogni tornata milioni di elettori vanno in fuga , ma loro appagati si spartiscono una torta sempre più piccola. Con questo ritmo tra qualche anno avranno desertificato la democrazia storicamente più affezionata al voto, e l’ultimo spenga la luce. Ma che gli importa, le istituzioni sempre quelle restano e, se anche le urne si svuotano, consigli comunali e prebende non dimagriscono certo. Confondere il voto amministrativo con il consenso per il governo, buche stradali e parcheggi con la procedura d’infrazione per deficit eccessivo è una barzelletta e lo sanno benissimo. Ma è soprattutto il Pd che cerca di cancellare le impronte del più clamoroso tradimento del mandato elettorale che si ricordi (fingere la guerra al Caimano per poi governarci assieme). Troncare, sopire insomma (avete notato che Napolitano non monita più?). Infine, nella Capitale è in testa Ignazio Marino, che da senatore la fiducia all’inciucio non l’ha mica votata. Significherà qualcosa?

il Fatto 28.5.13
Marino vince Marino perde
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, Marino va, come numero uno al ballottaggio. Considerato che ha dovuto fare tutto da solo (o quasi) è un buon risultato. Ma Roma per metà non è andata a votare. Previsioni? Conclusioni?
Valentino

PER LE CONCLUSIONI è presto perché, ormai è largamente provato, il ballottaggio è un passaggio infido. Tutto fa pensare, al momento, che Marino mostrerà più forza e più tenuta di Alemanno, che esce da un quinquennio disastroso. Quasi certamente va posto a carico di Alemanno l’enorme astensione dal voto che ha avuto luogo a Roma, rispetto alla media italiana. La città è arrivata al voto con un rancore verso una politica caotica, sgangherata, familistica e corrotta che si è dimostrata in linea con i punti e i volti peggiori della politica nazionale. Certamente per Marino ha pesato la palla al piede del governo di larghe intese che lui non ha votato, anche se probabilmente gli ha fatto onore (e portato voti) avere scelto Rodotà quando il suo partito al Parlamento sembrava avere perduto la bussola di un minimo di orientamento politico e anche di istinto di sopravvivenza. Dunque si presenta con buoni titoli contro un sindaco usato (e usato male) come Alemanno. Se fossi in lui non sottovaluterei gli enormi errori di cui è capace il suo partito, mentre dura questa luna di miele con Alfano. Per esempio vanno dicendo che “le larghe intese reggono alla prova delle elezioni amministrative di Roma”. Non potrebbero dire peggio, perché la frase giusta sarebbe “Marino in testa nonostante le grandi intese”. La verità è che Marino ha potuto vincere (al primo turno) contro Alemanno perché in nessun momento ha fatto finta di confrontarsi con un alleato di governo, e anzi è riuscito a farlo dimenticare a molti romani. Ha pagato il suo prezzo a quella brutta alleanza perdendo la metà dei votanti. Tutto induce a credere che in quei voti mancanti la maggioranza, sarebbe stata per Marino e gli avrebbe evitato il ballottaggio. Perché lo dico? Perché, nel pur diffuso rigetto della politica, il risentimento più forte e più esteso è quello di coloro che avevano (e che avrebbero) votato Pd ma non si danno pace del governare insieme, e col sostegno, di Berlusconi, non accettano di avere un presidente del Consiglio Pd che, come in un brutto film satirico, governa accanto ad Angelino Alfano, (che è anche ministro dell’Interno ) creatura e rappresentante personale dell’uomo che da venti anni fa, indisturbato, il padrone del Paese. Solo se quelli del Pd smetteranno di vantarsi per il risultato miracoloso di Marino, Marino potrà vincere alla fine.

il Fatto 28.5.13
La manifestazione del 2 giugno a Bologna
La Costituzione non è cosa vostra
di Gustavo Zagrebelsky


Libertà e Giustizia manifesterà a Bologna il 2 giugno in difesa della Costituzione. Di seguito, stralci del manifesto firmato da Gustavo Zagrebelsky, presidente di LeG. La versione integrale sul sito dell’associazione.
Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. L’uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi (...) È evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico (...) L’incredibile decisione di confermare al suo posto il presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. L’ancora più incredibile applauso che ha salutato quella rielezione – che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta – è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo. Ogni sistema di potere a rischio (...) reagisce con l’istinto di sopravvivenza. Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme (...) Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a quanti la considerano cosa loro (...) La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra? (...)
SU UN PUNTO, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni (...) Anche noi vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace” (...) Siamo di-sposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento (...) Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre pronte a saltar fuori quando se ne presenti l’occasione, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con la “normalizzazione”. C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. C’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare. Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto.

Repubblica 28.5.13
Claudio Amendola:
“È la prima volta che diserto ma al ballottaggio mi turo il naso e vado”
di Laura Serloni


Claudio Amendola lei ha votato per l’elezione del nuovo sindaco di Roma?
«No, non sono andato. Non avevo nessuno da votare».
È la prima volta che diserta le urne o ci sono state altre occasioni in passato?
«È la prima volta ed è molto triste, ma sono disinteressato ormai alla politica».
Perché?
«Non ho un partito che mi rappresenta, prima era Sel. Il Pd non è più la sinistra, è totalmente disintegrato e sono anche molto arrabbiato per questo governo di larghe intese. Spero che le cose cambino e che riuscirò prima o poi a votarlo».
Ha seguito la campagna elettorale romana?
«È stata poco entusiasmante e Marino non mi piace, non mi ci riconosco».
Quindi non andrà a votare al ballottaggio?
«Sinceramente questo primo turno mi sembrava più interlocutorio. Mi turerò il naso e andrò a votare al ballottaggio».

Repubblica 28.5.13
L’amaca
di Michele Serra

Il calo pauroso dei votanti dice che l'appeal della politica nel suo complesso (5Stelle comprese) è in irreparabile declino.
Ma dentro il quadro d'insieme il crollo del centrodestra, già ben delineato dai sei milioni e mezzo di voti in meno alle politiche, è devastante. E porta a farsi una domanda semplice semplice: come è possibile che Berlusconi, che ha portato il centrodestra italiano ai minimi storici, sia al governo del Paese? (Piccolo corollario: come è possibile che la Lega, con meno del 5 per cento dei voti, governi le tre maggiori regioni del Nord?). La risposta chiama in causa, impietosamente, la pavidità e la confusione della sinistra.
Nel momento della sua massima impopolarità, e del suo palpabile crollo elettorale (e le comunali sono andate perfino peggio), Berlusconi è stato letteralmente miracolato dai suoi avversari. Tutti. Il Pd che prima non è stato capace di eleggere un nuovo capo dello Stato, anzi un capo dello Stato nuovo; poi ha accettato l'irricevibile proposta delle larghe intese per sudditanza nei confronti del Quirinale, e irragionevole paura dei cambiamenti sociali e politici. E 5Stelle per non essersi sporcate le mani con la politica vera, e avere opposto al Pd solo uno sciocco muro di diffidenza e di scherno. Berlusconi ringrazia entrambi.

Corriere 28.5.13
Bettini rivendica l'alleanza con Sel: per noi è l'unica prospettiva virtuosa
di Alessandro Capponi


ROMA — Non sfugge a nessuno, e certo non a Goffredo Bettini (in foto) — dimagrito, sempre in posizione defilata e sempre, in qualche modo, decisivo nel centrosinistra romano — la distonia tra il livello nazionale e quello romano, con il governo Pd-Pdl di là e l'alleanza di qua, finora premiata dagli elettori, del Pd con Sel.
«L'esperienza romana indica una prospettiva virtuosa, costruita prima con il lavoro in Provincia e poi con la squadra per la Regione, con una classe dirigente che esprime un sentimento comune, che fa sentire tutti a casa propria. Al contrario della situazione nazionale che, sinceramente, ritengo più arretrata».
Cos'altro dimostra il risultato di Marino?
«Tre cose. La prima: è un risultato buono e conferma, anche se il Pd ha vissuto e vive una fase difficile, una tenuta del suo insediamento elettorale. La seconda: le primarie funzionano, danno una forte legittimazione al candidato. La terza: l'elettorato ha bocciato Alemanno, mai con l'elezione diretta un sindaco uscente aveva conseguito un risultato così negativo».
Adesso il Pd pare unito con Marino...
«Il Pd ha contribuito a metterlo in campo e l'ha sostenuto con sincerità...».
Insomma...
«Ma l'ha sostenuto con tantissimi dirigenti, e quel 26 per cento ottenuto dal Pd è parte fondamentale del risultato».
Marino votò Rodotà, non il governo Letta: ci furono mal di pancia nel Pd.
«Marino è un irregolare, libero, è la sua forza. Non è stato percepito come esponente di uno schieramento ma come civico: è la sua carta vincente, da unire, ora ancora di più, a una condotta inclusiva. Abbiamo la responsabilità dell'alternativa, dobbiamo rappresentare un elettorato più ampio, quel 70 per cento che vuole il cambiamento, a partire dall'elettorato del M5S. Alemanno, sindaco della restaurazione dopo un lungo periodo di slancio, di creatività anche imprenditoriale, ha chiuso Roma a riccio nelle rendite, nei monopoli, in un'oligarchia ristretta che l'ha mortificata. Con una squadra non all'altezza, piena di ombre: l'elettorato moderato l'ha rifiutato».
E Alfio Marchini?
«Era al debutto, ha ottenuto un risultato importante: ciò che ha detto per la città a noi interessa, è un democratico, ovviamente non mi permetto di forzare una sua dichiarazione di voto che deve maturare, se maturerà, in modo del tutto autonomo».
Marino ha posizioni nette sui diritti civili: e la Chiesa?
«Marino è cattolico, ed è un medico. Senza voler dire parole improprie, credo che queste settimane siano state rivoluzionarie per la Chiesa cattolica, per l'attenzione rinnovata verso gli umili, gli offesi: e credo Marino sia in sintonia con il messaggio profondo che arriva dal soglio pontificio. Senza dimenticare che su aborto e divorzio Roma si è espressa, con coraggio, in epoche anche lontane».
Marino vince nonostante il Pd: è vero?
«Se fosse andato male, ne avrebbero chiesto conto al Pd...».

Repubblica 28.5.13
“Lontani dai seggi per protesta è la crisi dei leader virtuali”
De Rita: il Pd salvato dal voto di appartenenza
di Alberto D’Argenio


Professor De Rita, presidente del Censis, come spiega l’impressionante astensionismo che ha segnato queste elezioni?
«Da troppi anni c’è una personalizzazione della politica con partiti che di fatto sono diventati prodotti individuali guidati da leader virtuali. Il che ha ridotto le cinghie di trasmissione tradizionali come quelle delle sezioni, delle associazioni, dei sindacati, del volontariato o della dimensione ecclesiale. In questo contesto se il leader non tira più o non tira perché la dimensione delle comunali è troppo piccola, non c’è il resto che compensa. A febbraio Grillo e Berlusconi hanno dimostrato che alle politiche il grande leader tira ancora, per il resto c’è il vuoto».
Come spiega il cattivo risultato del M5S?
«A Roma Grillo ha perso quasi la metà dei consensi delle politiche perché il voto per il Movimento non è stato di appartenenza, ma di protesta. Un tipo di voto che alle comunali è finito nell’astensionismo. D’altra parte non essendoci appartenenza per gli elettori del M5S tira il vaffa o l’attrazione del leader che alle comunali si fa sentire meno. Per questo il risultato del candidato grillino era scontato. De Vito ovviamente non aveva la statura per sostituire Grillo e i leader intermedi funzionano solo se possono contare su un senso di appartenenza da parte degli elettori. Basta guardare Marino che non è un grande leader personale ma che ha abbastanza beneficiato del senso di appartenenza del popolo di centrosinistra».
Questo dato va inserito in un trend o va isolato?
«È un dato da isolare, non va preso come l’inizio di un declino dei grillini perché alle politiche la rabbia e la capacità attrattiva del leader resteranno fino a quando non si consumerà la leadership di Grillo o il rancore non si incanalerà verso altre direzioni. Ragion per cui bisogna sospendere il giudizio, sarebbe troppo facile dire che sono in declino, aspettiamo e vediamo».
E sull’astensione? Trend o dato isolato?.
«Anche il tasso di astensionismo lo considero isolato. Potrebbe diventare un trend solo se si confermasse alle politiche. Da questo punto di vista nemmeno le europee saranno un test efficace perché da sempre sono vissute dai cittadini come il voto per un’Europa virtuale. A meno che le europee del prossimo anno non si trasformano in elezioni dominate da populismo ed antieuropeismo: in questo caso ci troveremmo di fronte a qualcosa in grado di mobilitare l’elettorato. E in questo scenario la cultura e la furbizia di Grillo potrebbero galoppare».
Come spiega il dato di Roma dove l’astensione è stata quasi del 50%?
«Con uno snobismo dei romani verso i due candidati dei partiti maggiori evidentemente considerati non all’altezza della città. Sostanzialmente il problema è stato di Marino e Alemanno, non certo di De Vito e Marchini. La mobilitazione la dovevano portare Pd e Pdl, ma i loro candidati non hanno convinto i romani. Il danno è stato limitato solo perché hanno funzionato l’apparato partitico di Marino e il coinvolgimento delle categorie di Alemanno».

La Stampa 28.5.13
Isola Capo Rizzuto
Sconfitta la sindachessa calabrese anti ’ndrangheta. In paese offrono cornetti
Carolina Girasole, in questi anni ha subito vari attacchi: ha ottenuto solamente il 12% fra gli undicimila elettori
di Niccolò Zancan


Nei bar non ti danno tregua. Offrono cornetti e brindano: «Ce ne siamo liberati! Evviva! Quella si credeva la paladina della giustizia, ma ha detto soltanto falsità. Qui si sta benissimo, altroché mafiosi. Dovete scriverlo: da cinque anni non c’è un morto ammazzato. Mentre quella ha ucciso il turismo a forza di parlare di ‘ndrangheta. Ha infangato tutto il paese. Voleva fare carriera sulla pelle nostra». Tanti saluti al sindaco della legalità. Al sindaco che ha fatto pagare per la prima volta le bollette dell’acqua. Al sindaco che ha confiscato sette terreni alla mafia, per farne orti botanici, sale musica, ostelli, ludoteche. Che con Libera di Don Ciotti ha progettato un centro di confezionamento per prodotti agricoli. L’unica che abbia provato a contrastare «certi poteri» e «certe famiglie».
È stata una battaglia lunga cinque anni. Combattuta a colpi di intimidazioni, bombe incendiare sulla porta del municipio, auto in fiamme e scritte: «Ti ammazziamo». Ma anche, forse soprattutto, in maniera meno rumorosa: con maldicenze continue perpetuate su un blog anonimo. Alla fine, le amministrative del maggio 2013 decretano che il sindaco uscente Carolina Girasole ha perso. Peggio: il suo è un tracollo. Il paese l’ha rigettata. Oscilla fra il 12 e il 13 per cento delle preferenze. Alle otto di sera, circa 900 voti su 11 mila 717 aventi diritto. «Sono molto amareggiata», dice Girasole. «Volevamo rompere questo sistema che accomoda sempre gli affari e gli interessi di alcuni. Evidentemente questo impegno non è stato apprezzato». Biologa, due figlie, radici profonde in questa terra, Carolina Girasole si è dovuta presentare con una lista a suo nome. Perché anche una parte del Pd l’aveva abbandonata. E il candidato sindaco di quella parte, Damiano Milone, ora è molto avanti nel gradimento: 29 per cento. Anche se proprio lui era già sindaco nel 2002, quando il Comune era stato sciolto per mafia. «Calma con le parole», dicono i suoi sostenitori. Ti circondano al bar della piazza per lanciare un’offensiva mediatica: «Sono cose ancora tutte da provare quelle del 2002. La mafia... Diciamo problemi legati a infiltrazioni di certa criminalità». Milone è secondo. Primo è il candidato del Pdl, con una percentuale fra il 49 e il 51 per cento. Si chiama Gianluca Bruno, 32 anni, imprenditore nel ramo pacchi e spedizioni, già famoso per una foto in un locale pubblico della zona con il senatore pidiellino Nicola Di Girolamo che recentemente ha patteggiato cinque anni di carcere ed altri «notabili» del paese. «Tutte persone più che rispettabili - spiega il sindaco in pectore - nessun figlio di un boss, come qualcuno sbagliando ha scritto». Si riferisce a Fabrizio Arena, figlio di Carmine Arena, ucciso nel 2004 - per la cronaca - a colpi di bazooka. Perché questa non è precisamente una terra in pace. Andare verso il mare stupendo è un incubo italiano. Rifiuti abbandonati. Abusi edilizi fin sull’orlo della spiaggia. Spropositate pale eoliche che devastano l’orizzonte. Anche di questo cercava di occuparsi il sindaco antimafia Carolina Girasole. «Il paese non vuole cambiare dice con tristezza -, proprio sull’eolico ho preso posizioni molto dure».
Il probabile vincitore annuncia il suo programma: «Più turismo, più carabinieri e meno polemiche». I suoi sostenitori vengono a dirti: «Quella là non è migliore degli altri. Presto ve ne accorgerete. Verranno fuori anche le sue magagne». Ed è così che si demoliscono gli avversari politici da queste parti, rendendoli uguali a te. «L’altro giorno mi hanno riportato un discorso intercettato a un banco di frutta e verdura - racconta Carolina Girasole -; uno diceva all’altro: “Mi raccomando, non votare la ribelle”. Ho capito bene cosa significhi quella parola. Spesso ho avuto paura, ma non la rinnegherò mai».

Corriere 28.5.13
il Pd azzoppa il suo sindaco antimafia
Lotta tra due candidati democratici
Gianluca Bruno, pdl, verso il Comune: «La mia foto con Dell'Utri? Vecchia»
di Goffredo Buccini


ISOLA CAPO RIZZUTO (Crotone) — A mezzogiorno è già una ex sindaca, e lo sa benissimo. Da giorni i suoi comizi erano quasi deserti, le porte del paese dominato dai boss Arena le venivano quasi sbattute in faccia. Sicché, tre ore prima della chiusura dei seggi, alza lo sguardo dietro gli occhialini da professoressa intransigente che così poche simpatie le hanno procurato tra i suoi concittadini in cinque anni e sogghigna amara davanti alla fotocopiatrice: «Sto portandomi appresso un po' di pratiche... scottanti: cambi di destinazione d'uso, varianti». I suoi hanno musi lunghi, in municipio c'è quest'aria da Caporetto annunciata.
Non si fida di nessuno, ormai, Carolina Girasole. Nel volgere di poche ore le urne decreteranno l'ascesa del nuovo astro di Isola, Gianluca Bruno: 51 per cento alle nove di sera, stando ai comitati elettorali, anche se i seggi chiusi ufficialmente sono solo tre e le schede contestate 400, molte. Bruno è un pidiellino giovane e aggressivo con la foto di Dell'Utri nell'album di Facebook e un annuncio pronto in tasca: «Ora la lotta ai clan cambia, da domani si fa davvero» (sottintendendo che Carolina vendeva fumo a noi, allocchi dei media). Soprattutto, il voto di Isola fotografa l'ennesimo disastro del Pd, spaccato in due: metà con la Girasole che — assieme a Maria Carmela Lanzetta di Monasterace, Elisabetta Tripodi di Rosarno e Annamaria Cardamone di Decollatura — aveva incarnato la primavera delle sindache antimafia calabresi; metà con Nuccio Milone, ex comunista («passato per Frattocchie!»), politico navigato, sindaco per undici anni: finché il prefetto non gli sciolse il consiglio comunale per mafia, mentre l'abusivismo toccava punte dell'80 per cento.
Bersaniani con la sindaca, renziani con Milone, sintetizzano i superstiti nella ridotta del municipio: e chissà se è vero. La Girasole tira fuori il cellulare e sfodera una polemica al veleno. «Ecco, guardi qui. Il 28 aprile ho mandato un sms a Renzi, chiedendogli un aiuto: pd diviso con renziani che propongono sindaco sciolto per infiltrazioni nel 2003, l'altra minoranza sta con me riconosciuta per battaglia contro la 'ndrangheta. Capisco le difficoltà nel partito ma prendete posizione». E Renzi? «Non mi ha mai risposto». Sicura del numero? «Beh, su questo numero gli avevo parlato quando mi aveva invitato alla Leopolda e io non ero andata per non suscitare divisioni qui». Magari ha cambiato numero. «Magari».
Il segretario cittadino del partito, Salvatore Frio, genio della comunicazione, sbuffa: «Non ho tempo di commentare, la Girasole non è neppure tesserata». Commenta, eccome, il vero capo, l'ex sindaco Milone: «Renziani contro bersaniani? Balle! La verità è che appresso a lei si stava distruggendo il Pd e io l'ho salvato». In che senso? «Adesso ripartiamo, smettetela di bervi tutte le fesserie che vi ammannisce la Girasole». Verso sera, lo spoglio è lentissimo, la prefettura preme: ma i rappresentanti di lista hanno un verdetto concorde. Bruno in vetta. Milone al 30 per cento, Carolina al 14 che mormora «non ho parole, si sono messi d'accordo per impedirmi di arrivare al ballottaggio». L'amarezza pesa… Ma certo, parlando al telefono con la moglie, Milone sembra uno che ha vinto: «Male? No, è andata bene, bene!». Si arrabbia di brutto quando gli si ricorda lo scioglimento per mafia: «Nessuno di noi è mai stato inquisito, poi. La verità è che il prefetto subì pressioni». Accusa grave. «Dal centrodestra. Io ho sempre lavorato perché il Comune mettesse mano sul Cie». Il Cie, il secondo centro immigrati d'Europa, è la vera ciliegina della torta, chi lo avvicina senza accortezza rischia perlomeno di scivolare. Molta voce in capitolo ha la Misericordia di don Edoardo Scordio, un parroco potente, che male ha digerito l'arrivo in paese di don Ciotti e di Libera, sponsor la Girasole. «Di queste cose non parlo, non voglio essere equivocato», dice al telefono. In effetti l'equivoco è in agguato a Isola: tutto si mescola, interessi leciti e illeciti, amicizie e parentele; nulla è come appare. Un blog locale con tendenza alla diffamazione ha inseguito l'ormai ex sindaca rinfacciandole per anni una parentela acquisita con gli Arena (la sorella di suo marito ha sposato un nipote dei boss). Ma Maria Teresa Muraca, esecutivo regionale Pd (fazione girasoliana), spiega: «Noi qui conosciamo le persone. E sappiamo che il cognato di Carolina non ha rapporti con quel pezzo di famiglia. E poi contano le azioni». Già. La Girasole s'era messa in testa di far pagare i tributi, mandava i vigili a fare verbali ai cantieri abusivi, piantava il grano nelle terre confiscate ai boss. «Era una dittatrice e perdeva consenso», sbuffa Milone. «Stava cambiando una cultura», dice il suo comandante dei vigili a un tavolo del ristorante «Dieci HP».
Qui gli Arena spostano, e tanto. Di Girolamo, il senatore che Gennaro Mokbel definiva «lo schiavo mio», prese un plebiscito nel 2008, poi finì in galera. Generosa l'accoglienza pidiellina. La vigilia elettorale è stata segnata dai soliti roghi, qualcuno ha dato fuoco anche alla Bmw del giovane Gianluca Bruno, il vincente tifoso di Dell'Utri. «Ancora? Se insiste sulla foto cominciamo male!». Beh, forse stride… «È del 2007, lui era senatore. E poi, non la guardo mai». Domani è un altro giorno: a occhi chiusi, sicuramente migliore.

l’Unità 28.5.13
Merola: «Non rinunciamo alle convenzioni»
I referendari chiedono il rispetto del voto contro le scuole paritarie
Il sindaco: «Ne terremo conto»
di G. G.


BOLOGNA «Terremo conto del voto, ma Bologna non deve rinunciare al sistema delle convenzioni» con le scuole per l’infanzia private paritarie.
Nel giorno in cui il comitato referendario Articolo 33, sotto le due Torri, incassa la maggioranza delle preferenze sulla cancellazione dei finanziamenti agli asili privati, il sindaco Virginio Merola ribadisce quanto affermato lungo tutta la campagna elettorale. E cioè che, qualunque fosse stato l’esito del referendum, la giunta avrebbe proseguito per la sua strada. Un’affermazione che, all’indomani del responso dato dalle urne, parte anche dei numeri: su 290mila aventi diritto, domenica sono andate a votare 85.934 persone (28,71%). Di questi, circa 50mila il 59% hanno chiesto che venissero aboliti i fondi alle private, contro il 41% (poco più di 35mila) per l’opzione “B”. E le cifre rappresentano il picco più basso d’affluenza nella storia della città, seppure i passati appuntamenti referendari come quello del 1984 sulla chiusura del centro alle auto fossero stati accorpati ad altre elezioni. Certo, il sistema integrato, che conta 70 asili comunali, 25 statali, e 27 privati convenzionati, «può essere migliorato», ad esempio prevedendo maggiori controlli da parte dell’amministrazione, precisa il primo cittadino. Ma «non abolito». E in ogni caso, dopo le lacerazioni di una campagna elettorale che ha visto schierati su fronti opposti Pd e Sel, così come parte della Cgil e sindacalisti di scuola e comparto metalmeccanico Flc-Fiom, ora è il momento di ricompattare le file per «una battaglia comune, per ottenere più sezioni statali».
Ma a bacchettare il sindaco sulla volontà di mantenere ferme le convenzioni, in serata, arriva l’ex premier Romano Prodi, che la scorsa settimana aveva espresso il proprio endorsement proprio all’opzione “B” e al lavoro di Merola. «I referendum si accolgono le sue parole - io ero per la B, ha vinto la A». E di questo, ribadisce Prodi, la giunta bolognese dovrà in qualche modo tener conto. Benché l’appuntamento abbia «raccolto i voti di coloro che più erano interessati» ai temi della scuola, sottolinea, quindi «con un’eredità di forti problemi e forti tensioni». E se, per il comitato per la B il messaggio è «ricucire e lavorare», a patto che il sistema pubblico-privato non si tocchi in alcun modo, è proprio da lì e cioè dalla volontà di portare fino in fondo la vittoria che partono i referendari della A. L’obiettivo, insomma, «è esigere il rispetto dell’esito del referendum dice per Articolo 33 Maurizio Cecconi cioè l’abolizione dei finanziamenti pubblici alle scuole paritarie private». Non era ieri «il momento per dire come e quando» questo sarà possibile, dice ancora Cecconi. «Ma da domenica sono scattati i 90 giorni di tempo in cui l’amministrazione dovrà esprimersi sul da farsi. E in questo periodo discuteremo con Palazzo d’Accursio, chiedendo che il risultato sia rispettato». In questa prospettiva, «il 18 giugno si terrà un’istruttoria pubblica sulla scuola per i bimbi da 0 a 6 anni», annuncia la presidente del Consiglio comunale Simona Lembi. Mentre Sel, che in Comune a Bologna è in maggioranza con il Pd, già incalza la sua giunta a mettere mano alle convenzioni. «Se non è in discussione quel sistema chiede la capogruppo Cathy La Torre cos’è, esattamente, in discussione?».
Da parte loro, i Democratici bolognesi puntano sui numeri. «L’esito del referendum dicono ci consegna un quadro di bassa partecipazione al voto, anche in considerazione della storia partecipativa della nostra città». Mentre Francesca Puglisi, capogruppo Pd in commissione Cultura al Senato, aggiunge: «Lo sostenevamo da tempo, per come è stato formulato il quesito il referendum era poco più di un sondaggio dall’esito scontato».
Non nascondono affatto i malumori, invece, i berlusconiani, che già ieri in Consiglio comunale avevano presentato un ordine del giorno che chiedeva alla giunta Merola di confermare le convenzioni. Documento che la maggioranza si è rifiutata di discutere nella seduta di ieri. «Un disastro sotto tutti i punti di vista definisce il referendum l’ex ministro alla Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini l’affluenza è stata appena del 28%, auspichiamo se ne tenga conto».

l’Unità 28.5.13
«Ma il Comune deve riconoscere il voto di 50mila cittadini»
Ivano Marescotti
L’attore: «L’astensionismo non è stato un flop per noi referendari
Il finanziamento alle paritarie private deve essere cancellato»
di Giulia Gentile


In diciotto anni di convenzioni fra Comune e scuole per l’infanzia paritarie, quanti soldi sono stati spesi? Quanti bambini avrebbero potuto essere «salvati», e quanti posti creati nelle scuole pubbliche, se quei fondi fossero invece stati investiti negli asili comunali o statali? Mi dispiace, ma quella sulla destinazione dei finanziamenti alle materne è una scelta di principio ed è una scelta politica, prima ancora che pragmatica. Ora il Comune rispetti la volontà di 50mila persone». Ivano Marescotti, attore di cinema e teatro romagnolo d’origine ma bolognese d’adozione, è fra i sostenitori della prima ora del comitato Articolo 33, che ha raccolto le firme per chiedere una consultazione sugli stanziamenti di Palazzo d’Accursio alle scuole per l’infanzia private convenzionate.
Dopo mesi di dibattito accesissimo, e la discesa in campo di grossi nomi della politica e della cultura, alle urne domenica si è presentato un numero di Bolognesi che si è fermato ai minimi storici, 85.934 persone pari al 28,71 per cento.
«Dire che il risultato del referendum rappresenti un “flop” è l’affermazione più incredibile che si possa sentire. È stato un “flop”, certo. Ma non per i referendari che hanno vinto. Abbiamo portato a votare 50mila persone, con un comitato iniziale rappresentato da una cinquantina di autoconvocati. Mentre l’altro fronte, che ha visto scendere in campo i partiti più grandi a iniziare dal Pd, fino a cardinali e ministri, non è arrivato che a 35mila voti».
Non crede piuttosto che a vincere sia stato il disinteresse per un tema forse non sufficientemente presentato come interesse di tutti, e non solo di chi ha dei bimbi piccoli da sistemare all’asilo senza pagare una rata stratosferica?
«Al contrario. Credo che l’astensionismo, il non voto, rappresenti una volta di più il fallimento del Partito democratico in questo campo. La mia analisi è che molti fra i simpatizzanti bolognesi del Pd non siano rimasti convinti dall’opzione “B”, malgrado lo schieramento massiccio del partito e del sindaco Virginio Merola durante la campagna. E così, invece di andare a votare per qualcosa che non li convinceva hanno preferito stare a casa. Chi non ha votato non è certo andato al mare».
Ma fin dall’avvio della campagna referendaria, si era più volte sottolineato come sarebbe stato il numero dei partecipanti, più ancora dell’opzione vincente, a sancire il peso politico del referendum. «Quello di domenica è stato infatti un importante test politico, valido anche per tutte le altre città italiane. Il risultato di Bologna va applicato qui, come a Reggio Emilia o a Bari. Io sarei per farlo a livello nazionale, un referendum del genere. E non si dica che il risultato “non vale”, perché a votare sono andate poche persone. Fin da subito era altrettanto noto a tutti che in un referendum consultivo non ci sarebbe stato nessun quorum da raggiungere. In ogni caso, 86mila persone si sono espresse. E la “A”, che chiede che i fondi alle paritarie vengano tolti, ha vinto per distacco». Dopo aver detto per tutta la campagna che, qualunque fosse stato l’esito, la sua giunta avrebbe tutelato comunque le convenzioni con le private, ieri Merola ha auspicato «una battaglia comune coi referendari per ottenere più sezioni statali». Voi cosa gli chiederete?
«Noi siamo d’accordo, ovviamente, a lavorare tutti insieme perché lo Stato riconosca finalmente più fondi al Comune di Bologna per le scuole per l’infanzia. Ma questo non toglie che continueremo a premere perché il milione di finanziamento alle private venga cancellato. Per quanto riguarda Merola, il mio parere è che ora si trovi in una posizione poco sostenibile. Durante la campagna elettorale non si è limitato a fare l’arbitro, si è impegnato in prima persona per il “B”. Io, fossi in lui, ne trarrei le dovute conseguenze e mi dimetterei».

La Stampa 28.5.13
Il voto sulle scuole cattoliche a Bologna
Il sindaco: manterrò le convenzioni
Prodi: no, si rispetti il referendum
di Franco Giubilei


Mentre i promotori del referendum brindano a quel quasi 60% che ha scelto di destinare alla scuola pubblica il finanziamento riservato alle paritarie cattoliche convenzionate, e adesso chiedono al comune di decidere di conseguenza, dall’altra parte si aggrappano al fatto che alle urne si sia presentato solo un bolognese su tre (il 28,71%, per la precisione). Il giorno dopo lascia una coda di malumori striscianti soprattutto nel fronte del B, cioè del no al dirottamento dei contributi, per capirci, quella strana alleanza che andava dal sindaco Merola al Pd – tutt’altro che compatto) -, dal Pdl alla Lega, dalla Cisl a Romano Prodi, fino al presidente della Cei Bagnasco. Il sindaco da un lato abbozza, «non possiamo ignorare la richiesta di scuola pubblica», ma dall’altro tiene duro sulla sua linea: «Bologna non deve rinunciare al sistema delle convenzioni con le scuole materne private», un sistema che «può essere migliorato ma non abolito». La conclusione salomonica arriva davanti al consiglio comunale: «Nessuno ha vinto o perso in modo definitivo, dire che A (i referendari) ha vinto e che B ha perso sarebbe giusto e incontrovertibile solo nel caso di un referendum decisionale e non consultivo come questo. Lavorerò perché nessuno venga messo da parte e per tenere conto di chi ha votato A». Tradotto: «La maggioranza non è a rischio è a rischio il fatto di non interpretare in modo corretto il risultato di questo referendum». Già, ma intanto la crepa all’interno della maggioranza che sostiene la giunta si allarga, tant’è vero che Sel – fra i sostenitori del comitato Articolo 33 -, risponde a stretto giro: «Caro sindaco, se non è in discussione il sistema delle convenzioni cos’è esattamente in discussione? Questo è ciò su cui avremo una particolare attenzione» avverte la capogruppo in consiglio Cathy La Torre, che per essere più chiara aggiunge: «Le deleghe non sono più in bianco e il nostro gruppo non perderà occasione di ricordarlo a questa amministrazione». Anche perché i 50mila che sono andati a votare A «sono anche una bella metà di chi ha sostenuto il sindaco» e sarebbe un «errore tragico» ignorare questa «richiesta di partecipazione». E mentre la Lega tende una mano interessata al sindaco, ricordando che in caso venisse a mancare l’apporto di Sel alla giunta il Carroccio ha lo stesso numero di consiglieri dei vendoliani – «siamo quattro e quattro…», ha alluso ieri -, un nome eccellente del fronte del B come Romano Prodi commenta sibillino: «I referendum si accolgono. Si accolgono. Io ero per l’opzione B, ha vinto l’opzione A». No comment sulla decisione di Merola di mantenere comunque la convenzione con le scuole paritarie private, e un accenno ai problemi che attendono l’amministrazione felsinea: «È un referendum che ha raccolto i voti di coloro che più erano interessati, con un’eredità di forti problemi e forti tensioni». Ora la palla avvelenata passa al consiglio comunale, che avrà tre mesi di tempo per decidere se cambiare la convenzione. Nel frattempo, i vincitori del comitato passano all’attacco col filosofo Stefano Bonaga: «Parlare di flop (per la bassa affluenza, ndr) è antipatico. Un apparato bestiale ha portato a votare solo 35.000 persone». E l’attore Ivano Marescotti: «Merola si dimetta».

il Fatto 28.5.13
Tutti a casa, flop di Grillo. Nessun Comune a 5 Stelle
di Paola Zanca


RISSA IN SENATO SUL “DIVIETO” DI PARLARE DI STRATEGIA POLITICA BOOMERANG COMUNICAZIONE: D’ORA IN POI PARLAMENTARI IN TV

Alle dieci di sera, messo sul tavolo il magro bottino di queste elezioni amministrative, il deputato Cinque Stelle Alessandro Di Battista è già in televisione. A Piazzapulita, a fianco dello sconfitto candidato sindaco di Roma, interloquisce con Corrado Formigli come un Mastrangeli qualunque. Se si cerca il vero risultato delle comunali di fine maggio, eccolo: di corsa sul piccolo schermo, che fin qui abbiamo sbagliato tutto. Quando lo scrutinio è praticamente finito, il Movimento di Beppe Grillo fa il bilancio: nemmeno un sindaco grillino, un solo ballottaggio a Pomezia (paesotto operaio alle porte di Roma), circa 400 consiglieri eletti: in media, meno di uno per Comune. E la percentuale massima è quella di Ancona, 15 per cento. Dieci punti in meno delle politiche di tre mesi fa. Non si mischiano le mele con le pere, si ostinano a ripetere i Cinque Stelle e sul piano dei numeri hanno ragione. Ma per capire che, dalle parti dello staff, i risultati elettorali non siano quelli attesi, basta guardare la faccia di Matteo Ponzano, volto unico de La Cosa. Quattro sere fa arringava la folla dal palco di piazza del Popolo, ora cerca di consolare gli ascoltatori che chattano delusi: “Tenete botta, state tranquilli. Il cambiamento....lo sapevamo...queste battaglie...contro un sistema così corrotto ci vuole parecchio, parecchio tempo...”. Un paio di secondi, poi il collegamento si interrompe. E mentre tutte le tv parlano di proiezioni e di voti, su La Cosa va in onda “Sorpasso d'asino”. Un documentario sulla decrescita felice, “a passo lento”.
È LÌ, che i toni degli ascoltatori si fanno più gravi. Quando capiscono che né dal blog, né dalla sua televisione ufficiale qualcuno abbia voglia di prendersi la briga, di spiegare cos'è successo. Restano in silenzio fino alle 22.35 quando Paolo Becchi liquiderà i titoli sul crollo dei 5 Stelle: “Banalità”. Eppure, voti alla mano, se il paragone con le politiche è sbagliato, quello con le regionali, non dà maggior conforto. Prendiamo il Comune di Brescia, la città di Vito Crimi. Laura Gamba, candidata sindaco, arriva a 5 mila voti, poco più del 6 per cento. Solo tre mesi fa, Silvana Carcano, candidata al Pirellone, negli stessi seggi ne prendeva 12 mila, il doppio. Non va meglio a Roma, a casa di Roberta Lombardi, dove Marcello De Vito si ferma intorno al 13 per cento, lontanissimo dal ballottaggio che sembrava a portata di mano. O ancora prendiamo Massa, dove vive Laura Bottici, questore del Senato: ha perso il 20 per cento in 90 giorni. Per non parlare di Siena: nella città del Monte dei Paschi, per cui i Cinque Stelle hanno chiesto una commissione di inchiesta parlamentare, il Movimento si ferma all'8 per cento. Non va meglio a Nord Est, dove Casa-leggio era passato a caccia di imprenditori: 7 per cento scarso a Vicenza e Treviso. Si consolano con Ancona: 15 per cento dei voti, il miglior risultato nazionale. “Andrea Quattrini ha lavorato bene come consigliere comunale e adesso ha riscosso – spiega il deputato marchigiano Andrea Cecconi – Noi siamo un partito ideologico, alle comunali valgono ancora le persone”. Cecconi non è stupito dei risultati. Dice che quelli strani erano quelli di febbraio: “La fiducia che i cittadini ci avevano dato era eccessiva, ora siamo in linea con le nostre possibilità e facoltà”. È che stavolta, molti di quelli che avevano scelto i Cinque Stelle forse sono rimasti a casa: “Probabilmente quell’italiano su due che non è andato a votare - dice il deputato Massimo Artini - alle politiche aveva scelto noi”. Da Cepagatti, provincia di Pescara, Daniele Del Grosso, invita a non drammatizzare: “Qui anche quelli che hanno votato noi alle politiche preferiscono affidarsi al candidato sindaco farmacista, al parente, a quello che ti può fare un favore...”.
AL SENATO invece l’hanno presa in maniera meno sportiva. Alcuni sono furibondi con Cri-mi che al Corriere ha detto che gli eletti non devono parlare di alleanze e strategie, altri se la prende con i colleghi sempre pronti a gonfiare il dissenso. Ieri, durante lo spoglio, erano riuniti in una accesissima riunione. Una senatrice urla contro il collega Lorenzo Battista: “Stai sempre a parlare di strategie!”. Lui esce dalla stanza beffardo: “Ma De Vito non era quello che a Roma doveva andare al ballottaggio?”.

il Fatto 28.5.13
La proposta: stop ai finanziamenti per l’editoria
È firmata dal capogruppo al Senato Vito Crimi (e sottoscritta da tutti gli eletti M5S a Palazzo Madama) la proposta di legge per l’abolizione dei finanziamenti pubblici all’editoria. Era uno dei 20 punti del programma del Movimento. Ansa

il Fatto 28.5.13
Report: beppegrillo.it   e l’inchiesta sui soldi
Vladimir Luxuria mente sui fondi raccolti e spesi dal M5S
Ma la giornalista del programma di Rai3 non la corregge
di Marco Lillo


La scena è questa: pomeriggio di un sabato pre-elettorale. Poco meno di 900 mila italiani stanno seguendo la trasmissione condotta da Massimo Bernardini, Tv Talk, su Rai3. Il format prevede una sorta di gioco di schermi. In studio ci sono giornalisti che fanno tv e parlano di altri giornalisti che fanno tv. L’esercizio di autoreferenzialità oggi è dedicato all’inviata di Report Sabrina Giannini. A ventiquattr’ore dal voto nel quale Grillo contenderà i ballottaggi al Pd, la rete più vicina al Pd dedica la sua analisi proprio al servizio di Report sulla commistione di interessi tra Casaleggio e Cinque sStelle.
IN STUDIO ci sono il giornalista esperto di tv Francesco Specchia, firma di una testata non proprio vicina a Grillo, Libero, e l’ex parlamentare del Prc Vladimir Luxuria, oggi vicina a Sel. Passano le immagini di Report e il conduttore chiede a Luxuria un commento. Lei non si fa pregare e ribalta il bel gesto di Grillo nei confronti dei terremotati dell’Emilia, una donazione di 420 mila euro, nella prova del suo essere come gli altri. “C’è stato un referendum che ha abrogato il finanziamento pubblico ai partiti e poi invece – spiega Luxuria – sono stati trasformati in rimborsi e si è scoperto che in realtà erano molto più alti rispetto alle spese sostenute, e ora tutto questo torna proprio al Movimento 5stelle che ne ha fatto invece una battaglia. Cioé cosa si è scoperto?”, si interroga Vladimir.
“Si è scoperto che i soldi raccolti da loro per finanziare lo Tsunami tour sono di più rispetto alle spese che loro hanno effettivamente sostenuto. Al punto tale che dopo, DOPO (il tono si alza a sottolineare il concetto del “dopo”, ndr) non PRIMA si dice che la parte eccedente sarà data ai terremotati dell’Emilia. Cioè siamo passati dalla Lega che diceva Roma ladrona... e poi tutte le inchieste, e poi Di Pietro che ha fatto... porta un po’ male fondare tutto un partito sulla trasparenza”. Tra i risolini di approvazione in studio, Luxuria sostanzialmente dice che Report ha preso Grillo con le mani nella marmellata. E che, come gli altri politici, anche l’ex comico aveva speso molti meno soldi di quelli raccolti (inutile sottilizzare tra donazioni e soldi dei contribuenti tutti) e che però la premiata coppia Giannini-Gabbanelli aveva scoperto l’inghippo. Così “dopo” lui era stato costretto a correre a Mirandola per donare 420 mila euro ai terremotati che a ben vedere dovrebbero dire quasi più grazie a Santo Report che a quei paraculi dei Cinque Stelle. Insomma, la vecchia storia del moralizzatore immorale che si ripete uguale a se stessa , dai tempi di Belsito. Ieri Luxuria, dopo essere stata presa d’assalto con decine di messaggi su Twitter e, soprattutto, dopo che sul sito di Grillo era comparso un comunicato firmato dal senatore Lello Ciampolillo, nel quale si pretendeva una rettifica e si minacciava una querela, ha chiesto scusa durante la trasmissione L’aria che tira su La7, accampando ancora una volta una scusa falsa, cioé che solo due giorni prima di Report Grillo avrebbe comunicato l’intenzione di donare ai terremotati l’eccedenza.
IL PROBLEMA però non è Luxuria. Sono i giornalisti. Nessuno, prima in studio a Tv Talk e poi sui siti e sui quotidiani, ha corretto un ex politico che ha mentito spudoratamente su un partito rivale in una trasmissione registrata venerdì e trasmessa alla vigilia del voto. Non ha detto nulla Francesco Specchia di Libero. Fin qui ci sta. In fondo non è da un cronista di Libero che si attende la difesa dell’onore di Grillo. Non ha detto una parola il conduttore Massimo Bernardini, famoso perché, a Giuliano Ferrara che lo insultava durante la sua trasmissione, porgeva l’altra guancia e l’altra lingua con una lettera al Foglio che iniziava così: “Un vaffanculo da quello che ritengo il più brillante giornalista in circolazione (...), che soprattutto mi ha insegnato in questi anni a dubitare sempre di presunti puri e giustizialisti”. Quello che non ti aspetti è il silenzio di un’inviata di Report. Luxuria sosteneva che Grillo aveva donato quei soldi ai terremotati solo dopo essere stato preso con le mani nella marmellata da Report. Poi una giovane giornalista della redazione sosteneva che il blog di Grillo incassava molti milioni di pubblicità. E Sabrina Giannini – che conosceva entrambe le questioni – è rimasta seduta a sorridere. Come una giornalista di talk.

il Fatto 28.5.13
Siena
Si va al ballottaggio, come se niente fosse accaduto
di Davide Vecchi


NONOSTANTE GLI SCANDALI CHE HANNO COINVOLTO I DEMOCRATICI E IL MONTE DEI PASCHI, TENGONO I DATI SIA DELL’AFFLUENZA CHE I RISULTATI DEL PARTITO

Rocca Salimbeni non ospita una banca ma una quercia. Con radici ancora impossibili da estirpare. La conferma arriva, inequivocabile, dalle urne. Certo, dopo venti anni esatti, il centrosinistra a Siena è costretto al ballottaggio e registra una flessione ma il segnale è chiaro: qualunque cosa accada il Monte rimane il punto di riferimento. “I cittadini hanno scelto il cambiamento ma senza avventure” ha azzardato Bruno Valentini, il candidato sindaco del Pd scelto con le primarie appena un mese fa, dipendente Mps e nemico giurato dell’ex sindaco, Franco Ceccuzzi. Alle venti Valentini già esultava, spericolato: “Si annuncia una vittoria in discesa al ballottaggio”. I segnali ci sono tutti. Due in particolare: calo minimo dell’affluenza (dal 76 del 2011 al 68%) rispetto alla media nazionale crollato del 15%, e flop imbarazzante del Movimento 5 Stelle, che alle politiche a febbraio aveva sfiorato il 20% e ieri si è fermato all’otto circa. Le radici si sono leggermente seccate: il pd nel 2011 aveva preso il 38% portando Ceccuzzi alla vittoria con il 62,13 al primo turno. Ora si avvicina al 30. Qui guidare il Comune equivale ad avere il potere sul Monte dei Paschi . Dal Palazzo Pubblico di piazza del Campo si distribuiscono nomine, restituiscono favori e, soprattutto, si costruisce il consenso. Da qui, per dire, è partito Giuseppe Mussari, arrivato in città come avvocato con il sindaco del Pds, Pierluigi Piccini e poi dal Comune messo in fondazione Mps.
E ANCORA oggi le poltrone del "portafoglio" comunale da occupare nella pancia dell'azionista di riferimento del Monte sono quattro. in una città di 53 mi-la residenti si sono candidati otto aspiranti sindaci e cinquecento consiglieri comunali per un'aula che ne ospita 32 di cui dodici assessori. La corsa all'oro. "Una città che ti permette di controllare una delle banche più importanti d'Italia, per questo non è permessa alcuna flessione nella perdita del consenso" sintetizza Eugenio Neri, che si dice comunque "soddisfatto come una vittoria" di aver costretto al ballottagio "i potenti di sempre". Il cardiochirurgo sostenuto dal centrodestra, tra cui dalla lista del Pdl camuffata da civica, è visibilmente soddisfatto. Non scherza. Dalla finestra del suo comitato elettorale saluta amici e sostenitori. "abbiamo vinto alla scuola Pascoli", dice sorridendo. "Guardo al ballottaggio insistendo nel tentativo di aprire gli occhi ai senesi: Profumo sta svuotando la banca, ha cacciato qualcosa come 2600 dipendenti, porterà via la banca e farà entrare chiunque nell'azionariato togliendo il limite del 4%", prevede. "Stanno svendendo il futuro della città dopo averla mangiata, violentata, travolta e io questo non voglio permetterlo". Al Neri in campagna elettorale Valentini fa spallucce. Si toglie i sassolini dalle scarpe. Il nemico "Ceccuzzi non è più un problema di questa città", il Pd nazionale "era preoccupato, stia tranquillo: io sono il punto fermo". Il dato raggiunto "è molto buono, abbiamo tenuto benissimo, contro ogni aspettativa di molti" quindi, annuncia, "non faremo apparentamenti".
IL SECONDO TEMPO è ancora da giocare ma certo il risultato, ha ragione Valentini, salvo colpi di scena particolari, è quasi scontato. "I senesi non hanno avuto coraggio, credevo fossero pronti e invece si sono ancora una volta attaccati alle presunte certezze", commenta Laura Vigni , la candidata della sinistra che ha sfiorato il 10%. "Hanno saccheggiato la città e i senesi sono ancora storditi ma rimaniamo qui ad aiutarli", aggiunge analizzando con serenità il risultato. Decisamente scomposta invece la reazione del candidato grillino, Michele Pinassi, che ha gridato alla "macchina del fango", colpa dei giornalisti insomma. E dei senesi "che non vogliono trasparenza e onestà". Ma sono anche spaventati, comprensibilmente. Due cittadini su tre hanno rapporti con il Monte, tra dipendenti diretti e non. Forse è per questo che tentano di tenere in vita almeno le radici, sperando possano ridare linfa, come prima, alla città.

La Stampa 28.5.13
Lo psichiatra
“Ragazzi troppo narcisisti Per loro ogni rifiuto è un’offesa”
Charmet: “Un tempo si soffriva per amore, oggi si fa del male”
«Figli unici venerati Crescono con l’idea che avere successo sia un loro diritto»
di Roselina Salemi


Gustavo Charmet è PSICHIATRA E PRESIDENTE DELL’ISTITUTO DI ANALISI DEI CODICI AFFETTIVI «MINOTAURO» DI MILANO

«Stiamo assistendo al tramonto dell’amore romantico. Si diffonde un modo di amare caratterizzato dal narcisismo. Ognuno fa i suoi calcoli e ha le sue pretese. E il rifiuto è vissuto come un’offesa. Essere abbandonati provoca rabbia e desiderio di vendetta». Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, presidente dell’Istituto di Analisi dei Codici Affettivi «Minotauro» di Milano, è un attento osservatore dei comportamenti giovanili. Il suo ultimo libro «La paura di essere brutti Gli adolescenti e il corpo» (Raffaello Cortina) scava nella sofferenza provocata da inarrivabili modelli sociali, e indaga le ragioni del disagio.
Ma come spieghiamo il corto circuito della ragione per cui un ragazzino accoltella e brucia la fidanzatina?
«Ci vorrà tempo per capire che cosa è successo nella sua testa. Ma la cultura del narcisismo è trasversale. Riguarda adulti e adolescenti, sempre di più. Vuoi essere amato attraverso la sottomissione dell’altro, non accetti il no, l’emancipazione. I comportamenti che vediamo, lo stalking, e nei casi estremi, l’assassinio nascono da questa pretesa. Se la persona che ami non ti vuole, pensi sia impazzita».
Che cosa è cambiato?
«Nell’amore romantico la separazione è un lutto che va elaborato. Il dolore può anche essere rivolto contro se stessi: suicidio per amore. Qui assistiamo all’opposto. L’altro deve essere come tu lo vuoi. Se rifiuta, esplode il desiderio di punire e distruggere».
Come siamo arrivati a questo punto?
«Oggi il bambino viene molto valorizzato. Spesso è un figlio unico, perciò merce rara. Non è il piccolo selvaggio da domare, è venerato. Purtroppo le famiglie sfornano semilavorati narcisistici. La sottocultura dei mass media, la pubblicità, internet, fanno il resto. Apparire, avere follower e amici su Facebook, essere ammirati, diventare famosi è considerato un diritto. Diciamo che c’è una congiura perversa nei confronti dei giovani. Una tempesta perfetta: famiglia e società inconsapevolmente alleate».
«La scuola è un sobrio mondo educativo che prova a circondare i ragazzi con una cintura sanitaria di valori. Non c’è incoraggiamento del narcisismo. Ma è difficile combattere un sistema dove bellezza, popolarità, successo, visibilità, essere simpatici diventano dominanti».
C’è un ragazzo che uccide la fidanzatina e una ragazza che si uccide per cyberbullismo. Esiste una relazione?
«Certo. A leggere quello che hanno scritto i giudici, la ragazza “è stata suicidata”. L’aggressività narcisistica dei compagni le ha reso la vita insopportabile».
Questa rabbia riguarda una generazione che difficilmente potrà realizzare i suoi sogni, mentre è cresciuta con l’idea di poter avere tutto. Che cosa può succedere?
«Le ombre nere che si allungano sul mondo giovanile potrebbero portare a una reazione di rabbia collettiva per futuro che viene rubato, di vendetta per ciò che la società sta negando».
C’è un modo per affrontare questo disagio così grande?
«Ritornare all’etica, dopo questa sbornia estetica». 

l’Unità 28.5.13
Si parla di violenza sulle donne, l’Aula è vuota
di Franca Stella


ROMA Sdegno e dichiarazioni a ogni tragedia di una donna uccisa dal compagni, ma quando i deputati sono chiamati a compiere passi concreti contro il femminicidio l’Aula della Camera resta semideserta. E le tante assenze nell’emiciclo, dove ieri è iniziata la discussione sulla Convenzione di Istanbul, sono state stigmatizzate dalla presidente, Laura Boldrini. «Mi complimento per la sua dettagliata relazione, ma dispiace vedere un’Aula così vuota», ha detto Boldrini dopo l’intervento della relatrice, Mara Carfagna. «Noi comunque continuiamo con il nostro impegno e i nostri lavori», ha aggiunto.
La Camera ha ricordato Fabiana Luzzi, la giovane di Corigliano Calabro uccisa da un coetaneo. È stata solo l’ultima di una lunga serie di «violenze travestite da amore», come le ha definite la presidente Laura Boldrini che in memoria della giovane ha chiesto un minuto di silenzio, ma anche un forte impegno per una «sfida culturale». «Vorrei che il pensiero di questa assemblea andasse a Fabiana Luzzi, bruciata viva a 16 anni da un ragazzo di 17, il suo fidanzato», ha ricordato la presidente della Camera. «Ancora una volta la violenza travestita da amore, un orrore al quale non possiamo assuefarci e che dimostra come la fida cui siamo chiamati sia culturale», ha sottolineato.
E durante la discussione c’è stata una polemica a distanza tra il Movimento 5 Stelle, attraverso la sua deputata Carla Ruocco, contro un’altra deputata, Mara Carfagna relatrice della Convenzione. La portavoce Pdl alla Camera ha preso la parola per denunciare tra l’altro che la violenza sulle donne «affonda le sue radici in una cultura dominante, profondamente indifferente o ostile a una piena uguaglianza uomo-donna», e ha sottolineato «l’atteggiamento bipartisan» in proposito, non senza rivendicare l’introduzione del reato di stalking e il piano nazionale contro la violenza e lo stalking, punto di arrivo di «un serrato confronto con tutte le associazioni durato più di un anno». Quadro nient’affatto condiviso dalla deputata M5s Ruocco che posta questo commento sulla sua pagina Fb: «La Carfagna (sì, la Carfagna)... ha appena letto, dinanzi ad un’aula vuota, eccetto noi del 5 stelle, una relazione sulla violenza sulle donne in cui incitava, tra l’altro, la tv a non strumentalizzare il corpo femminile nelle trasmissioni... Ma è quella stessa Carfagna?».

l’Unità 28.5.13
Quei femminicidi non in nome dell’amore
di Sara Ventroni


I FATTI SONO AVVENUTI A CORIGLIANO CALABRO MA POTEVANO ACCADERE OVUNQUE. LA GEOGRAFIA NON C’ENTRA. TANTOMENO IL FOLKLORE. LE DONNE VENGONO UCCISE al sud come al nord. In una strada sterrata di provincia come in un appartamento di città. I mariti, i compagni, i fidanzati omicidi sono insospettabili professionisti o disoccupati. Hanno sessant’anni oppure diciassette. L’unico dato certo è che la deformazione affettiva nelle relazioni tra gli uomini e le donne non conosce frontiere di luogo, né di status. Non guarda in faccia ai titoli di studio, e non dipende dal conto in banca. Ricchezza o povertà, qui, non illuminano i fatti. I dati ci dicono, anzi, che dove le donne lavorano e sono indipendenti nel nord dell’Italia, come nel nord dell’Europa le violenze sono più frequenti.
La costante dell’intreccio ossessivo e prevedibile è dunque da cercare altrove.
La trama è piuttosto elementare: lei ha deciso di andarsene, di troncare; oppure ha bisogno di una pausa di riflessione. Lo dice, lo spiega, lo scrive. Ma lui non ci sta.
La morte di Fabiana non fa eccezione. È un cliché. Rientra nel nostro appuntamento quotidiano, con variazione su tema: non è il racconto del furore adolescenziale. Non è l’esplosione di gelosia. Non è un pruriginoso romanzo di consumo, e non è un dramma di Shakespeare. Ma soprattutto: non è una storia d’amore.
Più che il fatto in sé, ci illumina la rappresentazione che ne diamo. Questa volta le cronache vogliono sottolineare che la ragazza avrebbe lottato con tutte le sue forze, prima di morire. Dopo aver ricevuto diverse coltellate, Fabiana avrebbe tentato di strappare dalle mani del suo fidanzatino la tanica di benzina.
Ci sorpendiamo di questo gesto chiaro, animale, di difesa. Lo mettiamo in cornice come ci fosse qualcosa da indagare. Un di più di innocenza che andrebbe riconosciuto alla ragazza, come un epitaffio. O una medaglia al valore.
Il dettaglio sul quale indugiamo ci dice che abbiamo la coscienza sporca. Che ancora esite, in qualche punto remoto dell’immaginario collettivo, un tarlo che bisbiglia: se la donna non si difende (e se alla fine non muore, trovando il martirio che le spetta) vuol dire che in fondo lo voleva. Perché la donna è davvero innocente solo se riesce a dimostrare, post mortem, una qualche attitudine alla santità.
In caso contrario, ci sarebbe il sospetto di complicità. Di una corrispondenza malata di sensi. Un desiderio inespresso di far coincidere amore e morte. Tentazione ancora irresistibile per i cantori della nera, bisognosi di rincarare con ogni mezzo la dose quotidiana di pathos.
Allora tocca sfrondare il linguaggio dalle incrostazioni e dai riflessi pavloviani, dove «amore» rima sempre con «dolore», e viceversa. Oggi possiamo dire che non si è trattato di raptus. Oggi dovremmo chiarire che Fabiana si è difesa perché non voleva morire. Non c’è un altro significato da attribuire all’estremo tentativo di difendersi, se non quello di salvare la propria vita. Non c’è un fine remoto, o uno scopo da insinuare. Nessun desiderio di diventare vittima, magari più eccellente delle altre.
I fatti sono questi. Lei ha quindici anni, lui diciassette. Due ragazzi. Probabilmente goffi nei primi approcci. Analfabeti dell’amore e del sesso. Dilettanti della vita. Inconsapevoli di sé e di una relazione. Il mondo è ancora tutto da scoprire. Di là dalle coltellate, ci impressiona il fatto che il ragazzo abbia trovato il modo per dilatare il tempo, andando in cerca di combustibile. Come se colpire diritto al cuore con un coltello non bastasse. Come se bisognasse cancellare i definitivamente l’altro, nel fuoco. Un falò, e un autodafé.
La madre di Fabiana dice che anche il ragazzo è una vittima. Forse è così. Sicuramente è così. Ma non lo aiuteremo certo lasciandolo nel dubbio di aver ammazzato in nome dell’amore.

il Fatto 28.5.13
“Napalm kid” e l’ossessione Columbine
17enne dell’Oregon con bombe sotto il letto
Voleva compiere una nuova strage a scuola
di Angela Vitaliano


New York Sei bombe nascoste in uno spazio ricavato sotto il pavimento della sua stanza da letto, nella casa dei genitori con i quali viveva: questa la scoperta fatta dalla polizia di Albany, in Oregon, sabato sera. Gli ordigni erano di proprietà del 17enne Grant Acord che stava pianificando un attentato alla sua scuola, destinato a fare molte vittime. L’azione, frutto di una strategia meticolosa e assolutamente non affidata al caso, avrebbe emulato la strage delle Columbine, in Colorado, del 1999, durante la quale due studenti si tolsero la vita dopo aver massacrato 13 persone. “Un piano non sostenuto dall’impulso e dall’emotività , ma dalla volontà di portare a compimento una missione”, questa la cruda analisi fatta dalla polizia dopo il ritrovamento delle bombe, tra cui anche una al napalm, agente incendiario, avvenuto grazie a una “soffiata” arrivata da una fonte non identificata. Una prima perquisizione all’interno della West Albany High School, il liceo frequentato dal ragazzo, aveva dato risultati negativi, diversamente da quella, successiva, nella casa di sua madre dove è stato poi formalizzato l’arresto.
Gli investigatori non hanno specificato la data in cui l’esplosione avrebbe dovuto aver luogo ma lo faranno nei prossimi giorni poiché sono stati trovati anche appunti dettagliati relativi all’azione e alla sua tempistica. Acord, ora trattenuto presso un carcere minorile, dovrà rispondere delle accuse di tentato omicidio aggravato e possesso di “dispositivi distruttivi”, due capi d’ imputazione che non permetteranno alla sua giovane età di “pesare” come una possibile attenuante. Finora, poi, non sono emersi particolari circa possibili problemi comportamentali del ragazzo; tuttavia il procuratore distrettuale della contea, John Haroldson, ha sottolineato che di fronte a situazioni di questa portata “bisogna sempre analizzare in maniera approfondita il background psicologico dell’imputato”. “Siamo stati fortunati – ha aggiunto Haroldson, parlando in conferenza stampa – perché l’attuazione del piano avrebbe comportato una tragedia enorme”. 

l’Unità 28.5.13
Un italiano nello spazio
Luca Parmitano salirà stasera a bordo della Sojuz
L’astronauta che ha 37 anni ed è laureato in Scienze Politiche, resterà sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale
Dovrà coordinare lo svolgimento di 20 esperimenti scientifici
di Pietro Greco


LO HA SCRITTO SU TWITTER: GRAZIE A TUTTI COLORO CHE SCEGLIERANNO DI SEGUIRMI IN QUESTA NUOVA AVVENTURA. Il cinguettio è quello di Luca Parmitano, 37 anni, siciliano di Paternò, laureato in scienze politiche, astronauta dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea. L’avventura è quella che inizia questa sera alle ore 22.31 presso la base di Bajkonur in Kazakistan, quando salirà a bordo della Sojuz che, dopo sei ore, lo porterà sulla Stazione Spaziale Internazionale, dove resterà sei mesi, prima di ritornare a terra. A quel punto l’avventura di Luca Parmitano sarà la più lunga mai effettuata nello spazio da un astronauta italiano. Con gran soddisfazione dell’Asi, l’Agenzia spaziale italiana, che è partecipe della missione e che vede rinnovata l’antica tradizione che vuole il nostro paese tra i grandi protagonisti dell’esplorazione dello spazio.
Quella che per Luca inizia stasera è soprattutto una missione di grande valore tecnico e scientifico. Ma è anche un’iniezione di fiducia in un momento di difficoltà, diciamo pure di declino, del nostro paese: un piccolo esempio di come e dove l’Italia ce la
può fare.
Ma andiamo con ordine. In primo luogo parliamo di Luca, un ragazzo di Paternò che nasce nel 1976, frequenta il liceo «Galileo Galilei» di Catania dove si diploma nel 1995, si laurea in scienze politiche a Napoli nel 1999 e si diploma presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli nel 2000.
Scelta la carriera del pilota militare e diventato esperto di guerra elettronica, si rivela un eroe nel 2005, quando, dopo aver colpito un grosso uccello e aver ridotto a mal partito il suo aereo in volo sulla Manica, invece di eiettarsi col seggiolino com’è d’uso in questi casi, sceglie la soluzione più difficile: l’atterraggio di emergenza. Mettendo a rischio la sua vita, ma evitando di mettere a rischio la vita di altri. Per questo viene insignito della medaglia d’argento al valore aeronautico.
Poi partecipa e viene selezionato come astronauta dell’Esa, che gli affida una missione non nuova, ma neppure banale. Dovrà restare un intero semestre a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Sarà il primo italiano sia a realizzare una missione lunga, sia a effettuare una passeggiata nello spazio. Dovrà districarsi con il braccio robotico per aiutare i suoi colleghi e i loro carghi. Ma, come ingegnere di volo, dovrà coordinare soprattutto lo svolgimento di 20 esperimenti scientifici selezionati dall’Esa, oltre a partecipare a un’infinità di test con i suoi coinquilini, lassù, sulla casa comune spaziale.
Tra gli esperimenti che Luca Parmitano dovrà realizzare, ce ne sono alcuni progettati in Italia e finanziati dall’Agenzia spaziale italiana. Tra loro c’è Green Air, che è in realtà un doppio esperimento, costituito com’è da Diapason e Ice: il primo misurerà la presenza di piccole particelle inquinanti nell’alta atmosfera, il secondo testerà un biocombustibile. Parmitano sarà oggetto di esperimenti, volti a comprendere come reagisce l’organismo umano a una lunga permanenza senza gravità. Insomma, resterà per sei mesi chiuso in un ambiente piuttosto piccolo, ma certo non avrà modo di annoiarsi.
Fin qui la sua avventura. Ma questa sera il nuovo ministro della ricerca, Maria Chiara Carrozza, seguirà, insieme al presidente dell’Asi e al capo di stato maggiore dell’Aeronautica, la partenza dell’aviere e astronauta italiano anche perché lassù Luca Parmitano sarà un messaggio vivente: quando l’Italia punta sull’alta tecnologia e sulla scienza, riesce a competere con gli altri paesi. Anche con quei paesi che magari in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico investono di più. Il secondo messaggio, strettamente connesso al primo, è che l’aerospazio è uno dei settori su cui l’Italia può e deve continuare a far leva per il suo sviluppo complessivo. Perché abbiamo una grande tradizione (pochi se lo ricordano, ma siamo stati il terzo paese dopo Unione Sovietica e Stati Uniti, a inviare un satellite nello spazio), ma soprattutto perché abbiamo un ottimo presente, tanto nelle scienze che hanno lo spazio come obiettivo di ricerca (l’astrofisica italiana è tra le migliori al mondo) quanto nello sviluppo tecnologico (l’industria italiana dell’aerospazio è tra le poche ad alta tecnologia del nostro paese). Ha dunque ragione Luca Parmitano a cinguettare: seguitemi nel mio viaggio e forse troveremo la strada per uscire dalla spirale del declino.

La Stampa 28.5.13
Arendt e Eichmann la stupidità del male
Così, a confronto con Joachim Fest, la filosofa approfondì la sua analisi su uno dei maggiori responsabili della Shoah
di Gian Enrico Rusconi


«Più che della “banalità del male” si dovrebbe parlare della banalità delle conclusioni della signora Arendt. Il processo ad Eichmann fu fatto da ignoranti, voluto da Ben Gurion per giustificare la fondazione dello Stato di Israele. Hannah Arendt, che aveva seguito tutto da lontano, racconta un sacco di assurdità». Queste parole pronunciate giorni fa a Cannes, con la consueta passione, da Claude Lanzmann, autore del film Shoah, ripropongono la polemica violentissima scoppiata negli Anni 60 all’uscita dell’ormai celebre libro della filosofa ebrea, tedesca, americana Hannah Arendt, La banalità del male, appunto.
È una polemica «fuori tempo»? No. C’è infatti il rischio che la ricezione di questo libro diventi essa stessa banale (è inevitabile questo gioco di parole perché fa parte del problema). Che l’opera sia citata quasi esclusivamente per il suo titolo, ignorandone la complessità, la tortuosità e la problematicità.
Siamo quindi grati all’editore Giuntina d’avere tradotto in italiano un libro che inquadra e fa la sintesi di questa problematica ( Hannah Arendt, Joachim Fest, Eichmann o la banalità del male. Interviste, lettere, documenti, pp. 214, € 14). In esso troviamo una documentazione accurata della polemica iniziata nel marzo 1963 in America dall’Organizzazione degli ebrei emigrati dalla Germania e proseguita con moltissimi interventi tra cui quelli di personaggi di spicco come Golo Mann e Mary McCarthy.
Si è trattato di un vero e proprio processo alle intenzioni e ad alcune tesi del libro che investono non soltanto la personalità di Eichmann ma anche la corresponsabilità dei Consigli ebraici nell’organizzazione della deportazione e quindi della eliminazione degli ebrei. Hannah Arendt lo ha definito «il capitolo più fosco di tutta quella fosca storia». In effetti è un tema terrificante e tuttora controverso, in cui guazzano anche incorreggibili antisemiti e negazionisti. Quanto a Eichmann, «altro che burocrate ottuso: era un demonio: violento, corrotto, furbissimo», prosegue oggi Lanzmann, respingendo tutti i tentativi della Arendt di darne un’immagine diversa, anche se negativa.
Già nel 1964 Golo Mann aveva riconosciuto che la Arendt aveva tracciato un ritratto a suo modo fedele di Eichmann. «Non si trattava di un mostro, di un sadico, nemmeno di un fanatico antisemita, bensì di un uomo oltremodo comune: ambizioso quanto altri, obbediente, scaltro e stupido quanto altri; rispetto alle persone più colte era animato da un misto di ammirazione e risentimento; fiutò delle opportunità per una nuova carriera bramoso di svolgere il grande compito omicida in maniera puntuale come qualsiasi altro compito gli fosse assegnato». Dove sbaglia allora l’autrice? Il fatto che fosse un essere razionale e non un idiota, che fosse un marito tenero e un padre amorevole, nonché un amico disponibile non giustifica - scrive Golo Mann - che Eichmann venga presentato «così innocuo e bonario come lo dipinge la Arendt. Con osservazioni del genere non si risolve il problema della crudeltà e diabolicità dell’uomo».
Ecco il punto: il contrasto tra la «normalità persino bonaria dell’individuo e la mostruosità e diabolicità del suo comportamento» non può essere liquidato come «banalità del male». Questa definizione è frutto di una «saccente dialettica che genera una notte in cui i buoni non sono buoni e i cattivi non sono cattivi».
Non era certamente questa l’intenzione della Arendt. Ma per sostenere la sua tesi non usa argomenti del tipo: sì, anche l’uomo comune - immesso in un meccanismo più grande e potente di lui - si deresponsabilizza arrivando a comportarsi come un mostro. L’autrice non descrive Eichmann come un impotente automa. Analizza puntigliosamente quanto sia lucido e consenziente, accetti e si identifichi consapevolmente con la funzione che esercita perché lo fa sentire «potente» al punto che senza di essa perde la sua stessa identità. L’autrice non dice neppure che «un Eichmann alberga in noi, ciascuno di noi ha dentro di sé un Eichmann». No. La sua spiegazione è più impegnativa anche se a prima vista sconcertante: Eichmann - dice - è «stupido». Lo spiega in una conversazione radiofonica con Joachim Fest dopo aver raccontato un episodio (ripreso da Ernst Jünger) di «normali» contadini tedeschi che trattano come esseri subumani prigionieri russi perché questi per fame rubano il cibo dei porci. Era questa «la stupidità scandalosa» che pure Eichmann condivideva in un universo di rapporti diverso. «Ed è questo che propriamente ho inteso quando parlai di banalità. In ciò non c’è nulla di abissale, cioè di demoniaco. Si tratta semplicemente della mancata volontà di immaginarsi davvero nei panni degli altri».
È facile immaginare quanto insoddisfacente suoni questa risposta, soprattutto per le vittime che si sono trovate davanti alla brutalità e al sadismo di questi «uomini comuni», «stupidi», «incarnazione della persona media». La nostra insoddisfazione è mitigata se leggiamo e inquadriamo queste tesi, che suonano un po’ astratte, nel contesto delle conversazioni tra Hannah Arendt e Joachim Fest, che si svolgono nel periodo in cui quest’ultimo sta lavorando e pubblicando le sue biografie su Hitler e Albert Speer. È evidente che i due autori si scambiano simpateticamente riflessioni che nella diversità delle sensibilità hanno in comune l’interesse di conoscere quel mondo «borghese» o semplicemente quel «tedesco medio» che è stata la vera spina dorsale del regime nazionalsocialista. Apparentemente c’è poco in comune tra il burocrate Eichmann e il brillante architetto Speer, intimo di Hitler. Ma si intuisce lo stesso universo di seduzione e complicità che porta in grembo la nuova tipologia criminale, che la Arendt ha creduto di fissare nel concetto di «banalità del male».

Repubblica 28.5.13
Eureka!
Così Archimede è diventato
Da Plutarco a Walt Disney: una mostra a Roma svela la storia autentica dietro la leggenda
di Siegmund Ginzberg

Da ventitré secoli Archimede è molto più immaginato che studiato. È mito, leggenda, favola, molto spesso anche stereotipo, talvolta addirittura marchio pubblicitario, più che storia. Ci siamo abituati a riconoscere colui che fu il più grande matematico dell’antichità per gli aneddoti (quasi tutti di pura invenzione, compreso il celeberrimo sound-byte “eureka”) piuttosto che per i teoremi. Per la mia generazione è un personaggio dei fumetti: l’Archimede Pitagorico degli albi di Topolino, il genio picchiatello che sforna mirabolanti invenzioni a tutt’andare. Nell’originale di Walt Disney si chiamava Gyro Gearloose, lo “svitato”, e quindi non aveva nemmeno questo tenue legame onomastico col nostro personaggio. Ma ad appiccicare ad Archimede di Siracusa la figurina dello scienziato distratto, perennemente nelle nuvole, del tipo che esce dal bagno e va in strada nudo gridando come un forsennato “ho trovato”, o che assorto nei suoi calcoli non si accorge nemmeno della presenza del soldato romano che sta per ucciderlo, erano stati già i primissimi che hanno scritto di lui: Plutarco, Tito Livio, Polibio, Valerio Massimo e Vitruvio, quasi suoi contemporanei (molto quasi: la loro testimonianza è “solo” di qualche secolo dopo i fatti…).
Archimede è un simbolo, anzi qualcosa di ancor meno palpabile, un’emozione mi verrebbe da dire, prima che una figura storica. Lo era anche per “colleghi” scienziati e “geni” come Leonardo e Galileo quando fu riscoperto dopo un oblio millenario. Lo è rimasto sino ai giorni nostri. La leva con la quale si diceva capace di sollevare la Terra, se solo avesse a disposizione un punto di appoggio, è filosofica negli scritti di Cartesio, patriottica in quelli di Thomas Paine, muove le relazioni internazionali dei giovani Stati Uniti in quelli di Thomas Jefferson, niente meno che la storia del mondo intero in Balzac, è la rivoluzione in Trotsky, è la politica per Hannah Arendt, l’influenza dei media per Marshall McLuhan. Archimede fa capolino nel Don Giovanni, nei Tre moschetteri, in Dracula, in Frankenstein e, a proposito di fragilità della psiche umana, anche in Kafka, diventa quasi un’ossessione per Edgar Allan Poe. C’è chi è arrivato ad attribuirgli, a fianco di Sofocle, sulla scorta dei procedimenti per enigmi, quasi da detective in un “giallo”, con i quali espone le sue dimostrazioni matematiche, nientemeno che la paternità del genere poliziesco. Insomma, che lo si voglia o no, per noi Archimede è ormai un personaggio da romanzo. Infiamma l’immaginazione, prima e molto più di quanto rinfreschi le conoscenze scientifiche, esattamente come avveniva per i suoi primi biografi antichi romani. Tanto è vero che ricordo di aver recentemente gustato come un romanzo Il codice perduto di Archimede di Reviel Netz e William Noel (Rizzoli 2007), benché non sia affatto un libro di fiction e fantasia ma un testo serio sul recupero, da un codice antico da cui il testo di Archimede era stato raschiato dalla pergamena dai monaci amanuensi per sovrapporvi un libro di preghiere, di un passo perduto da cui si evince che il matematico siracusano aveva scoperto, oltre un millennio prima di Newton e Leibnitz, il calcolo infinitesimale e, molto prima di Cantor, addirittura la concezione novecentesca degli infiniti. È nel libro di questi autorevoli studiosi che ho letto che Archimede stesso con l’immaginazione ci giocava, procedeva spesso per burle, rompicapi ed enigmi, come si potrebbe dedurre già dal titolo di uno dei suoi trattati, lo Stomachion, dal nome di un gioco per bambini, detto appunto “mal di stomaco”, presumibilmente per la difficoltà a risolvere i puzzle su cui si fondava.
In controtendenza rispetto alle presentazioni fictional di Archimede a cui ci eravamo abi-
tuati (piacevolmente, almeno per quanto mi riguarda), si presenta invece la mostra che verrà inaugurata a fine maggio ai Musei capitolini su Archimede. Arte e scienza dell'invenzione.
È accompagnata da un notevole e dotto catalogo denso di saggi firmati dai più autorevoli studiosi dell’argomento. Anziché sulle leggende e gli aneddoti, l’attenzione si concentra sull’ambiente in cui erano maturate le vicende del genio di Archimede, la Sicilia e la Siracusa del III secolo avanti Cristo, la fortuna delle principali scoperte attribuite ad Archimede nel Medioevo arabo, nel Rinascimento e nel Settecento. La “fantasia” è limitata all’iconografia antica e a quella dei dipinti dell’Ottocento, ispirati al ritorno al “classico” e all’esaltazione e “sacralizzazione” della Scienza. La narrazione tradizionale “ad effetto” lascia il posto alle ricerche archeologiche e filologiche. Visitare la mostra per crederci: questo è per molti versi un “altro Archimede” rispetto a quello cui eravamo abituati.
Protagonista non è più solo la figura del “genio universale” fuori dal tempo, ma l’uomo che visse in un’epoca precisa, in una città che ha conservato parte delle mura su cui egli aveva approntato i suoi ingegnosi strumenti di difesa, e le vestigia del potere che lo stipendiava. Non c’è più solo la storiella di come cercando di scoprire, su incarico del suo datore di lavoro, se una corona d’oro conteneva davvero tutto l’oro puro che l’orefice aveva fatturato, inventò nella sua vasca da bagno la meccanica dei fluidi. Né solo quella di come avrebbe bruciato la flotta romana coi suoi specchi ustori. Queste sono favole, molto suggestive (anche il secolo delle guerre stellari continua a sognare l’arma definitiva, o la scoperta “per caso”), ma appunto solo favole.
La realtà è più prosaica. Ma non per questo meno interessante. Abbiamo un tiranno, Gerone II, che attirava a Siracusa i migliori cervelli della sua epoca, matematici compresi. Non solo per farsi costruire congegni di guerra, ma anche per altri fini pratici: ad esempio per poter meglio calcolare quanto poteva tassare i sudditi senza mandarli in rovina, o poter meglio diluire il valore delle sue monete (c’è nella mostra anche un’affascinante sezione numismatica). Così come il suo predecessore, il tiranno Dionigi, era riuscito ad ingaggiare nientemeno che Platone, uno dei padri della grande politica, perché gli insegnasse a governare senza democrazia (cosa che ancora oggi fanno in Cina). Non per niente Gerone era riuscito a mantenersi al potere per ben mezzo secolo, facendo anche lui prosperare Siracusa. Lo fece destreggiandosi abilmente tra Cartaginesi e Romani, senza mai rompere né con gli uni né con gli altri. Finché i suoi successori si schierarono con una delle due parti, quella sbagliata. E persero la città, mentre Archimede perdeva la vita.
Non c’è più solo la favola suggestiva del genio solitario, ma l’idea di come nel Mediterraneo di quei tempi funzionasse un vero e proprio “network tecnologico” in cui Archimede era in continua corrispondenza coi suoi “pari”. Non nascono nel vuoto le sue straordinarie intuizioni matematiche, né l’astronomia del suo contemporaneo Aristarco, che fondandosi sul calcolo dei granelli di sabbia contenuti nell’universo dell’Arenaria di Archimede, assai più ampio di quello immaginabile con al centro la Terra, aveva anticipato di oltre un millennio l’idea di Copernico e Galileo che fosse la Terra a ruotare intorno al Sole e non viceversa. Insomma: gratta via il fantastico e finisci con la scoprire che sotto c’è qualcosa di ancora più fantastico.
rchimede di Giuseppe Nogari (olio su tela Venezia 1699-1763)


Corriere 28.5.13
Il «Corriere della Sera» a 2,76 milioni di lettori La «Gazzetta» conferma la leadership
di S. Bo.


MILANO — La Gazzetta dello Sport si conferma il quotidiano più letto d'Italia. Secondo l'ultima rilevazione Audipress, relativa al primo trimestre 2013, sono 3,743 milioni i lettori del giornale «rosa». Il Corriere della Sera si attesta a quota 2,765 milioni di lettori.
I dati Audipress confermano un calo complessivo dei lettori dei quotidiani pari al 6,7% a quota 22,5 milioni. Indicazione che deve tener conto anche della diminuzione del 2% registrata dalla popolazione adulta (sopra i 14 anni) considerata per la rilevazione. La Gazzetta conserva la leadership nonostante la riduzione sia dell'11,8%. Per il Corsera, terzo in graduatoria, il calo è stato nella media, pari appunto al 6,7%. Secondo quotidiano per lettura si conferma la Repubblica con lettori in diminuzione del 5,8% a quota 2,835 milioni. Seguono un altro quotidiano sportivo Corriere dello Sport con 1,711 milioni di lettori in calo del 5,4% e La Stampa con 1,382 milioni dopo una flessione del 17%. «Tengono» rispetto alla medie del mercato Qn Il Resto del Carlino che registra un lieve calo dell'1,7% a 1,241 milioni di lettori, e il Messaggero con una diminuzione del 3,5% a 1,229 milioni. Tuttosport perde il 12,6% a quota 968 mila lettori mentre il Sole 24 Ore scende a 907 mila lettori con un calo del 12,3%. Chiude la «top ten» La Nazione con 896.000 lettori (-5,6%). Tra gli altri quotidiani, Il Giornale si attesta a 621 mila lettori (-1,4%), Il Fatto Quotidiano a 453 mila lettori (-5,8%), Libero a 295 mila (-13%). Il Tempo guadagna in controtendenza il 14,6% ed è seguito ora da 228 mila lettori. L'Unità si attesta a 226 mila lettori con una flessione del 19,6%.
Per quanto riguarda infine la free press Metro registra un calo del 13,5% 1,206 milioni di lettori ), mentre Leggo perde il 20,9% a 1.069 mila lettori.
Per quanto riguarda infine i settimanali, secondo l'Audipress i lettori nel primo trimestre 2013 sono calati più o meno come quelli dei quotidiani, cioè del 7% circa, mentre per i mensili si sono ridotti del 6%.