giovedì 30 maggio 2013

il Fatto 30.5.13
il ricordo
Franca, incapace di rassegnarsi
di Furio Colombo

Sedevamo insieme in Senato. Lei, Franca Rame, arrivava sempre in anticipo e sempre carica di nuovi materiali, domande, denunce, messaggi da ogni periferia, tutti di rivolta o di disperazione. Mi diceva che voleva cominciare adesso, quella mattina, in quell'aula. Io tentavo di dirle che “la dentiera implacabile” (così cercavo, anche con disegnini, di rappresentarle le due parti apparentemente contrapposte del Senato) non lo avrebbe permesso. Infatti il presidente Marini, con lungo sospiro, le dava la parola e poi con un lungo sospiro gliela toglieva, e passava “all'ordine dei lavori” come se Franca, invece che di pace e di guerra e di disabili abbandonati e di gruppi sempre più vasti di senza lavoro, avesse parlato della difficoltà dei parcheggi. Intorno a noi stavano senatori e senatrici che lavoravano quieti, ad altre cose, decisi a non disturbare.
DI FRONTE a noi la canea del gruppo di attacco detto “l'opposizione”. Ovvero il mondo, fascista o borghese o pregiudicato, di Berlusconi. Un continuo forte rumore di fondo che è cominciato subito ed è finito solo con la scena di mortadella e champagne consumati in aula il giorno della caduta di Prodi. Nel frattempo De Gregorio era stato acquistato, Ignazio Marino era stato rimosso da presidente della commissione Sanità perché si temeva che mandasse al voto il testamento biologico e il suo posto assegnato a una brava cattolica passata un po’ dopo al Pdl. Quel che Franca aveva capito era che eravamo già alleati con la gente di Berlusconi, come lo sono Alfano e Letta adesso. Ma era come una sorta di matrimonio gay prima del riconoscimento legale: bisognava fingere. E non esagerare in esibizioni. Franca esagerava. Vedeva la corruzione e la denunciava. Le giungevano email sui Cie e sui pasti negati ai bambini rom nelle scuole e le leggeva in aula. Il laborioso governo Prodi non faceva caso a un sostegno così tenace. E anche i senatori che avevano fatto eleggere Franca volevano “fare politica” piuttosto che denunciare sempre e subito vita e avventure di quella (questa) squallida Italia.
FRANCA Rame non si è mai rassegnata, fino a dimettersi. Diceva che anche il nostro parlare e discutere e le nostre inutili strategie del mattino (liquidate prima di sera da cedimenti continui della nostra parte dell’aula) si potevano dire e fare soltanto fuori dal Senato.
Nessuno credeva che si sarebbe dimessa, ma lei lo ha fatto pur di non parlare a poltrone come vuote e porte imbottite. Mai qualcuno ha dato così tanto per un Senato, una politica, una sinistra che volevano così poco.

La Stampa 30.5.13
Perché le sono grata
Con quel monologo sullo stupro ha aiutato tutte le italiane
di Mariella Gramaglia

Nei primi Anni 60, quando ero ragazzina, la ricordo recitare nel piccolo teatro fiocchi e gale della mia città d’Ivrea. Biondissima e tanto bella, non era una sirena, era già un pesce combattente. Sicuramente ci metteva strane idee per la testa. Anche se ridevamo così tanto alle commedie sue e di Dario Fo da non esserne del tutto sicure. Poi ci furono gli anni dell’odio e delle bombe. Lei non fu capace di separare e di distinguere e probabilmente sbagliò, come molti.
Ma è impossibile per le donne italiane (tutte) non esserle grate. Ancora giovane, in piena carriera, recitò in tv, in una trasmissione come Fantastico, condotta da Celentano, lo stupro di cui era stata vittima nel 1973. Era il 1988, in prima serata. In una trasmissione popolare. «Uno mi divaricava le gambe... i piedi sui miei... una punta di sigaretta sul seno sinistro... con una lametta mi tagliano tutti gli abiti... È terribile sentirsi godere nella pancia delle bestie».
Così per 14 minuti, mimando, gridando, recitando come se ripetesse in stato di ipnosi l’accaduto. Poi l’epilogo sconsolato, simile a quello di molte altre: «Mi sento male per le mille sputate che mi sono presa nel cervello... cammino... davanti a palazzo di Giustizia, penso alle domande, ai mezzi sorrisi... vado a casa. Li denuncerò domani».
Passano gli anni e «la lotta continua», come forse le sarebbe piaciuto dire. Ma fino a poco fa anche con lei. Nel 2006 viene eletta senatrice nel gruppo di Di Pietro: scopre cose strane e scandalose: i collaboratori dei parlamentari sfruttati, i soldati italiani di ritorno dai Balcani colpiti dall’uranio impoverito. Si sente impotente. Se ne va. Il Senato - dice - «è un frigorifero dei sentimenti». Ambiente inadatto a una rosa rossa.

Moriremo berlusconiani... Pur di non dispiacere a Berlusconi e di restare in affettuosa amicizia con lui nel “governo lingua-in-bocca” Letta-Alfano, il Pd, con Finocchiaro in prima fila, dice no alla possibilità di abolire finalmente il Porcellum e di tornare al proporzionale...
La Stampa 30.5.13
Nel Pd si è vissuto un autentico psicodramma per l’iniziativa del renziano Giachetti. Il quale ha difeso con i denti una mozione alla Camera che, se fosse passata, avrebbe impegnato il governo a tornare immediatamente al «Mattarellum», antenato del «Porcellum». Questo «ritorno al futuro» affascina tutti quanti, e nel Pd sono parecchi, vorrebbero sbarazzarsi delle larghe intese e tornare alle urne con un sistema maggioritario che obblighi a schierarsi o di qua o di là. Ma proprio per questo il Mattarellum non entusiasma Letta, aggrappato al metodo della «larga condivisione», e comunque non incontra i favori né del Pdl né dei montiani. Il berlusconiano Cicchitto si spinge a insinuare che Giachetti abbia presentato la mozione per spianare la strada a Renzi. Fatto sta che i vertici del partito hanno tentato di dissuadere il ribelle con ogni mezzo. La Finocchiaro ha definito «una prepotenza intempestiva» la mozione. Speranza, il capogruppo, ha intimato a Giachetti di ritirarla, ma invano. Né la contrarietà del governo ha provocato una retromarcia. Concitata riunione di gruppo, dove in 34 hanno difeso l’iniziativa, salvo piegarsi poi alla disciplina di partito. Cosicché, al momento del voto, la mozione è stata sostenuta solo da Sel e dal M5S.
dall’articolo di Ugo Magri

il Fatto 30.5.13
Il Pd contro se stesso dice no all’abolizione del Porcellum
Il documento di Giachetti chiedeva il Mattarellum
di Wanda Marra

“Se penso che abbiamo votato alcuni personaggi, faccio come Muzio Scevola e mi taglio la mano”. “Per il gruppo del Pd potrebbe essere un’idea: tutti con le mani tagliate, così si potrebbe arrivare a un voto unanime”. Conversazione tra due bersaniani in Transatlantico. L’oggetto del sarcasmo è il vicepresidente della Camera, il Democratico Roberto Giachetti. Reo di aver presentato una mozione parlamentare in cui chiede l’abolizione del Porcellum e il ritorno al Mattarellum. Proprio mentre la maggioranza presenta una generica mozione sulle riforme, in cui sul sistema elettorale non si dice nulla, mentre si lavora a un accordo sulle modifiche minime alla legge elettorale. O sul Porcellinum, che dir si voglia. Anatemi, scomuniche, pressioni vanno avanti per tutto il giorno. Fino ad arrivare al paradosso finale: il Pd che vota contro Giachetti e dunque contro il sistema elettorale che sosteneva. Mentre M5 e Sel dicono sì.
LA PRESSIONE comincia a salire in mattinata. “La mozione di Giachetti è intempestiva e prepotente”. Parola di Anna Finocchiaro. La stessa che aveva presentato un ddl pro Mattarellum. Roberto Giachetti non demorde: “Io la mozione non la ritiro. Non interroga il governo, ma la Camera”. Per tutto il giorno si succedono le telefonate per cercare di fargli cambiare idea. La motivazione è sempre la stessa: si mette in crisi il governo, si mette in crisi il Pd. Lo chiama il segretario, Epifani, lo chiama il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, che che sta trattando in prima persona con Gaetano Quagliariello. Lo chiama anche Matteo Renzi, che non fa mistero di essere d’accordo con lui. Dodici deputati democratici ritirano le loro firme (molti neo eletti, un po’ Giovani Turchi, un po’ bersaniani). Fino all’altroieri tra i firmatari c’era anche la Moretti. Sotto la mozione incriminata ci sono i nomi 72 deputati del Pd (un po’ di tutto: renziani, prodiani, ribelli a vario titolo, ma anche Marianna Madia e Walter Verini, per esempio), 1 del Pdl, 4 di Scelta Civica, 1 del gruppo Misto, 20 di Sel.
Per le 16 e 30 si convoca un’Assemblea del gruppo. La tensione sale. “C’è lo zampino di Renzi”, il commento più gettonato: l’impressione è che il sindaco di Firenze voglia mettere in difficoltà il governo cavalcando la battaglia di Giachetti. E dunque, il capogruppo Roberto Speranza arriva con le idee chiare: “Giachetti ritiri la mozione o il Pd voterà contro”. Paolo Gentiloni - renziano - interviene a favore del vice presidente della Camera. Applaudito dai renziani. C’è un po’ di dibattito. Giachetti spiega di non poter ritirare il documento, visto che c’è la firma anche di molti Democratici. Alla fine Speranza chiede il voto. In 34 votano contro la maggioranza, in 7-8 si astengono. Sono molti renziani, i prodiani, Civati. Gira pure un documento con 43 firme (Bindi, Puppato, Tocci, tra gli altri) contro la mozione del governo. E dunque, il Pd si spaccherà in Aula? “Non è il momento di fare queste battaglie. A me non piace questo governo, ma adesso ci sono le amministrative”, commenta Matteo Orfini. “Ma di cosa stiamo parlando? Si tratta di una mozione parlamentare”, replica Lorenza Bonaccorsi, renziana. Ma tra i deputati vicini al sindaco di Firenze le facce sono scure. Fanno una riunione tra loro. Capannelli. La Boschi con Ermini. Poi con Bonifazi. “Noi votiamo in conformità col gruppo”, annuncia la Boschi. E Ermini: “Non siamo d’accordo, ma ci adeguiamo”. Saranno loro a spaccarsi alla fine? L’intervento in Aula lo fa Guglielmo Epifani: “Il Pd non vuole più votare con il Porcellum”. Ma intanto conduce il suo partito a votare contro il Mattarellum. Voto compatto: alla sua mozione dice sì solo lo stesso Giachetti. Qualcuno, come la Zampa, esce dall’Aula. Sintetizza Civati sul suo blog: “Ho votato contro me stesso. E contro la mozione Giachetti che avevo firmato e come me tanti altri. Il M5S ha votato a favore e il Pd ha fatto un altro errore madornale”. A Otto e Mezzo Renzi continua la sua opposizione: “Ho la preoccupazione che governo e maggioranza rinviino troppo, facciano melina”.

Repubblica 30.5.13
Quei 100 parlamentari contro il governo, il Pd tra veleni e accordi trasversali “No all’inciucio”. “Ma così colpite Letta”
E alla fine sulla mozione Giachetti ritiro tattico dei renziani
di Tommaso Ciriaco

ROMA — Il termometro della febbre che fiacca il Pd ce l’ha in mano Stefano Fassina. «La mozione Giachetti? I renziani? Così colpiscono il governo. Hanno una concezione originale del partito — ragiona in Transatlantico — ed è un problema profondo da affrontare al congresso». Trentaquattro deputati hanno appena votato in assemblea contro il volere della maggioranza. In Aula, poco dopo, si tireranno indietro. Salvando l’unità del gruppo, ma lasciando comunque intatto il senso dell’ennesima giornata di passione dei democratici. E delle sue litigiose correnti.
I deputati dem che firmano la mozione Giachetti sono una settantina. Renziani e veltroniani, soprattutto. Prodiani come Sandro Gozi, qualche ex popolare. Ci sono anche parecchi parlamentari che non militano in una componente. E c’è l’ex bersaniana Alessandra Moretti. Reclamano il ritorno al Mattarellum. Nella riunione del gruppo i veltroniani scelgono di astenersi, mentre i renziani tirano dritto e sostengono Giachetti. Quasi fino in fondo, perché alla fine in Aula — dopo infiniti capannelli e qualche chiamata sulla linea Roma-Firenze — lasciano da solo l’ideatore della mozione e consumano una ritirata tattica.
A sera, come se non bastasse, quarantatre parlamentari del Pd escono allo scoperto con un altro documento critico. Contestano la mozione di maggioranza appena sostenuta in Parlamento. Fra i firmatari ci sono Rosy Bindi e Pippo Civati, Vannino Chiti e Walter Tocci, Laura Puppato e Sandra Zampa. Insieme, «preoccupati», lanciano l’allarme: «Si rischia la stabilizzazione del Porcellum». Sommati agli altri malpancisti, un centinaio sono pronti a denunciare eventuali “inciuci” consumati in nome della difesa dell’attuale sistema.
Per descrivere il clima è utile ascoltare uno sconsolato Ivan Scalfarotto. Agitato, spiega in Transatlantico: «Mi adeguo per disciplina partito. Ma è un errore. Però non voglio dare l’idea di una guerra tra correnti». Sforzi inutili, perché l’idea sembra esattamente
quella. Non lo nasconde Sandro Gozi, altro firmatario della mozione: «Più che una forzatura, è un segno di debolezza del governo delle larghe intese. E passa il segnale che vogliamo tenerci il Porcellum». Che è poi l’incubo di un altro renziano, Ernesto Carbone: «Il mio voto in assemblea è stato un atto politico contro una legge elettorale che, lo ricordado visto che nessuno ci fa più caso, si chiama Por-cel-lum!».
Proprio sulla riforma elettorale si gioca la partita interna al Pd. Il gruppone dei malpancisti cresce giorno dopo giorno. E l’epicentro è proprio alla Camera. Giacomo Portas è convinto che sia solo l’inizio: «Perché — scherza — siamo un partito di “Letta e di governo” ». L’accusa rivolta ai “dissidenti” del Mattarellum è proprio quella di minare il percorso governativo.
«Noi danneggiamo Letta? Chi danneggia, piuttosto — sibila il renziano Paolo Gentiloni — sono quelli che hanno affossato la riforma elettorale!».
Ogni corrente ha un obiettivo prediletto. Un “giovane turco” come Matteo Orfini, in competizione “generazionale” con i renziani, sceglie l’arma dell’ironia per bastonarli: «Questa mozione, a dieci giorni dal ballottaggio della Capitale, può sembrare un agguato. Ora, vabbe’ che loro sono toscani — dice indicando un capannello di renziani — ma Roberto è pure de Roma...». Gianni Cuperlo, invece, spende solo una parola per bocciare Giachetti: «Inopportuno». Mentre Epifani, ecumenico: «Spaccature? No, opinioni diverse...». La verità è che il puzzle democratico conta ormai una moltitudine di tessere.
Antonello Giacomelli, fedelissimo di Franceschini, sembra quasi rassegnato mentre esclama: «Abbiamo portato a casa la fine della procedura d’infrazione e l’avvio del percorso delle riforme. Ma si parlerà della spaccatura del Pd. Siamo degli artisti».
A sera, Giachetti resta solo a difendere la mozione. Almeno tra i democratici, perché invece dopo una giravolta gli oltre cento grillini e una trentina di deputati di Sel sostengono il testo. Pippo Civati lo avverte per sms un minuto prima del voto: «I grillini dicono sì!». Un minuto dopo è invece il capogruppo Roberto Speranza a esultare. Sempre per sms: «La mozione Giachetti l’ha votata solo Giachetti!».

Un’inchiesta di Enrico Deaglio sui 101 parlamentari pd che hanno tradito Romano Prodi: domani in edicola sul Venerdì

il Fatto 30.5.13
Dai grillini sì alla mozione “ribelle” con Sel
Letta in aula, l’ennesimo rimando: Discuteremo della legge elettorale nell’iter delle riforme”
di Sara Nicoli

L’avvertimento era partito già in mattinata:“ Invitero' Giachetti al ritiro altrimenti darò parere contrario”. Poi è diventato più forte nel pomeriggio: “Mettere il carro davanti ai buoi vuol dire far deragliare il carro”. Enrico Letta era furibondo, ieri pomeriggio, quando ha fatto il suo ingresso alla Camera per il voto finale sulla mozione della maggioranza sulle riforme, un accordo faticosamente raggiunto con il Pdl per far nascere una nuova Bicamerale (ribattezzata “comitato dei 40”) e dare il via a quella stagione di riforme costituzionali “a cui è legata – secondo Letta - la vita stessa di questa legislatura”. Al Senato, il percorso della mozione non aveva incognite (i si, alla fine, sono stati 224, 61 i no e 4 gli astenuti) mentre alla Camera pendeva appunto la questione Giachetti, una mozione capace, proprio secondo il premier, di minare non solo il senso stesso dell'accordo con il Pdl, ma la tenuta del governo. Per questo si è adoperato per tutto il pomeriggio a tentare di sminare la bomba politica facendo leva anche sulla sua personale amicizia con Antonio Martino, firmatario della mozione Giachetti e convinto sostenitore della necessità di “non perdere tempo – come ha detto anche durante il suo intervento in aula – e tornare rapidamente ad una legge elettorale inattaccabile sotto il profilo costituzionale come il Mattarellum”. Non ha ottenuto alcun risultato. Così, quando è entrato a Montecitorio, il premier ha voluto motivare pubblicamente la sua linea, quella richiesta di ritiro non solo della mozione Giachetti, ma anche di quella di Sel, perchè “della forma della legge elettorale si discuterà nel corso dell'iter riforme, non in questa sessione che è il punto di partenza del processo riformatore. La questione è di metodo e di tempi, non di sostanza”. Alla fine, ha vinto lui, il governo e la sua maggioranza: la mozione che istituisce la nuova bicamerale alla fine è passata con 436 voti a favore, 134 contrari e 8 astenuti. Pochi minuti prima era stata anche approvata la mozione della Lega (su cui il Governo aveva dato parere favorevole e che ha ricevuto piu' consensi di quella di maggioranza: 441 i si', 138 i no un astenuto). Respinta invece quella presentata da Sel (bocciata con 33 voti favorevoli e 547 contrari) . La mozione Giachetti, invece, è rimasta al palo: con 415 no e 139 sì. Ma la notizia politica, su questo fronte, è stata anche un'altra. Che il ritorno al Mattarellum che voleva Giachetti è stato sostenuto in blocco dai voti dell'M5s, cui si sono aggiunti anche altri 30 (Selk più lo stesso Giachetti) registrati con il voto elettronico nell'emiciclo di Montecitorio. Una bocciatura che ha scatenato i grillini contro i democratici. "Pazzesco! - ha commentato su Facebook a caldo il deputato stellato Manlio Di Stefano - il Pd intero ha votato contro il ripristino del Mattarellum in attesa di una riforma elettorale. Il M5S ha votato a favore. Tradotto, il Pd e' favorevole al Porcellum. Vergogna". Ma non è stato il solo. L'esito del voto a scatenato i grillini su tutti social network. Ironico Roberto Fico: "Il Pd ha appena votato contro la mozione di un suo deputato che aboliva il porcellum, noi abbiamo invece votato a favore. Complimenti al Pd". Sarcasmo da Donatella Agostinelli: “Che bello votare per una mozione del Pd che chiedeva il ritorno al Mattarellum non votata neppure da loro...cominciamo a fare scouting”. Punge Laura Castelli: “Un deputato del Pd di Collegno ritira la sua firma sulla mozione Giachetti...paura di non essere rieletto?”. Fabiana Dadone , infine, ha parlato di “Attimi di follia!” mentre Giulia Di Vita ha sintetizzato, caustica: “Mi fa ancora impressione veder scoppiare applausi e ovazioni sia da destra che da sinistra contemporaneamente. E per il Porcellum poi...”

il Fatto 30.5.13
Per il ritorno al maggioritario 139 sì

CON 224 SÌ al Senato e 436 sì alla Camera, il Parlamento impegna il governo a presentare entro giugno il disegno di legge costituzionale che indicherà le procedure per modificare la Carta.
Da “fine settembre” si entrerà poi nel merito delle riforme, che “entro 18 mesi” potrebbero stravolgere l’assetto delle nostre istituzioni, a partire dalla forma di Stato e di governo e fine del bicameralismo perfetto. La mozione Giachetti, che chiedeva il ritorno al Mattarellum, invece ha avuto 139 sì: quelli dei Cinque Stelle e di Sel. Contro ha votato compatta tutta la maggioranza. Tranne lo stesso Giachetti. Alcuni Democratici alla fine sono usciti dall’Aula. Ansa

il Fatto 30.5.13
Letta, Alfano e la guerra dei vent’anni
risponde  Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, secondo me succede questo: il fatto che l’ex maggioranza e l’ex opposizione governino insieme, in una fantomatica “pacificazione”, diventa sempre più importante di quello che fanno insieme, ossia dei piani e dei progetti che sarebbero la ragione delle cosiddette “grandi intese”. Qui c’è qualcosa che non va e nessuno ne vuole parlare.
Aldo

PER CAPIRE la ragione – limpida e indiscutibile,secondo me –di chi ci scrive, bisogna tentare di mettersi fuori dalla “guerra dei vent’anni”, ovvero non indignarsi per l'incredibile evento (governare con Berlusconi) ma indignarsi perché l'incredibile evento non smuove, non cambia, non produce alcun frutto né alcun piano di almeno una o due delle ragioni che hanno "imposto" (sostiene il Pd) di governare insieme. È su questo secondo fatto che va postato il peso di tutta la critica e la contestazione alla Ditta “Letta & Alfano, Soluzioni di Emergenza,PronteSubito”,perché non si vede alcuna soluzione di emergenza. Esempi (scandalosi): 1) Invece di un disegno di legge o di un decreto sul costo della politica, ci viene annunciato un imprecisato testo che arriverà in Parlamento. Come vedete si tratta di un discorso capovolto che rovescia le responsabilità, stabilisce un'attesa e non rivela nulla. 2) Invece della nuova legge elettorale, che il Paese attende, ci giungono gli echi di garbate discussioni su infinite variabili, gusti e preferenze, esattamente come quando governava uno solo dei due grandi del combino Letta & Alfano. Non ci sono cenni di lavori in corso né date di scadenza. La ditta vanta se stessa tutto il tempo, ma il Porcellum è immobile. 3) Ogni quindici o venti giorni si scatena la corsa del lavoro ai giovani. Vi si prestano in molti, per arrivare tutti allo stesso mini-traguardo: rastrellare un po’ di soldi a coloro che lavorano ancora o hanno i resti di un lontano lavoro, quando c'era, perché in questa zona qualche soldo si trova di sicuro e non richiede di disturbare ricchezze e rendite, Ma se i soldi si trovassero, come li trasformerebbero in lavoro per i giovani? Versandoli a chi? Alle imprese? 4) A proposito di imprese, i pagamenti del dovuto da parte dello Stato continuano a non avvenire. 5) Ilva. Come tutti hanno notato, i protagonisti continuano a essere i giudici (sull'inquinamento mortale) i proprietari (molto attivi tra esportazioni di immensi capitali e dimissioni del consiglio di amministrazione) e sindacati, che difendono il lavoro con le unghie e con i denti. Di solito, per il governo, arriva per poche ore un ministro (Ambiente) o un altro (per lo Sviluppo) e vanno subito via, come negli altri governi. 6) Alcuni però, nella nuova coalizione non dormono. Nitto Palma esige per legge la punizione immediata dei “giudici politicizzati” e il blocco dei loro processi. Giudici politicizzati sono tutti coloro che aprono un'inchiesta su un politico. Continua l'impegno a distruggere uno dei tre poteri dello Stato. Finalmente qualcuno, nella “Letta & Alfano” che non ha falsi pudori

Più gli elettori mandano segnali, si veda l’astensione dell’ultima tornata elettorale, o la fiducia data e repentinamente ritirata a Grillo -, e più gli onorevoli si arroccano: la sensazione che questo possa essere l’ultimo giro, prima dell’estremo assalto di un’opinione pubblica esasperata, invece di convincerli a un ripensamento virtuoso e a un impegno più serio nel loro lavoro, li porta al cupio dissolvi che ogni giorno fa mostra di sé.
La Stampa 30.5.13
I democratici e la politica dei due forni
di Marcello Sorgi

Il caos che per due giorni ha accompagnato in Parlamento il rilancio delle riforme istituzionali - e per miracolo, viene da dire, s’è concluso con l’approvazione della mozione concordata con il governo ha una sola spiegazione: da sinistra e da destra, approfittando della solenne occasione fornita dal ritorno della Grande Riforma, si sono mossi due fronti contrapposti, che puntano, senza neppure nascondersi, a far cadere l’esecutivo delle larghe intese.
Se alla fine è emerso di più il fronte di sinistra, è solo perché a fornire lo strumento che avrebbe dovuto servire a capovolgere gli attuali equilibri è stato il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti: un onesto deputato radicale, che la diaspora del suo partito ha condotto nelle file democratiche vicino a Matteo Renzi, e nella scorsa legislatura, a causa di uno sciopero della fame troppo prolungato contro il Porcellum, stava quasi per rimetterci la pelle. Ignaro, o secondo molti illuso, che a Montecitorio esistesse una maggioranza favorevole a cambiare la legge elettorale, a parole esecrata da tutti, Giachetti aveva presentato una mozione sostenuta da un elenco trasversale di firme di diversi schieramenti, e a tutti i costi aveva voluto porla in votazione in alternativa a quella ufficiale della maggioranza governativa.
Alla fine, i voti raccolti sono stati quelli del Movimento 5 stelle, di Sel e dello stesso Giachetti, mentre gli altri ribelli e firmatari dei diversi partiti, a partire da quelli del Pd, si ritiravano disciplinatamente. Come tentativo di creare un’alternativa alle larghe intese, non può certo dirsi molto riuscito. Anche perché i deputati 5 stelle, già prima di votare la mozione, precisavano che lo facevano solo per dare un segnale politico, senza condividere la proposta di Giachetti di lavorare per un ritorno al Mattarellum. Pienamente centrato, però, anche al di là delle intenzioni, è stato l’obiettivo di rovinare l’avvio, o il riavvio, del dibattito sulle riforme istituzionali: della materia, cioè, non va dimenticato, su cui la classe politica s’è impegnata pubblicamente a ricostruire la propria credibilità.
Non è certo una novità che ci sia nel Pd più di una corrente che continua a puntare sull’accordo con Grillo e a battersi contro il governo con il Pdl. Il fallimento della trattativa di Bersani a inizio di legislatura non è considerato un argomento sufficiente per rinunciarci; e neppure la promessa, che il leader di M5s continua a ripetere, di non allearsi «né con il Pdl né con il Pd-meno-elle», è giudicata convincente. Dopo il crollo elettorale delle amministrative dell’altro ieri, dicono gli strateghi di questa parte politica, i voti dei deputati e dei senatori stellati, che non vogliono stare in Parlamento a scaldare le sedie, sono praticamente a disposizione. Allo stesso modo cresce, all’interno del Pdl, l’insofferenza per l’alleanza con un Pd che - teme una consistente frangia berlusconiana - potrebbe tradire da un momento all’altro.
Ora, la sola idea che la vecchia politica dei due forni, di cui Andreotti era il principale diacono nella Prima Repubblica, possa risorgere imperniata su Giachetti e i 5 stelle, sembra incredibile e fuori dal tempo. Ma tant’è. Tutto è possibile: qualcuno cita anche un altro documento, messo a punto dall’ex presidente del Pd Rosy Bindi con l’appoggio di una quarantina di deputati Pd, che spingerebbe nello stesso senso, con la sottolineatura del basso profilo dell’esecutivo. Ma per questa strada, più che a un nuovo assetto di maggioranza e a un nuovo governo, si arriverebbe facilmente a nuove elezioni. Ed è esattamente quello a cui è contraria una larga, larghissima maggioranza del Parlamento.
Colpisce come i firmatari delle mozioni e gli autori dei documenti non se ne rendano conto. Nella gran confusione che accompagna la vita politica, c’è una sola luce, un solo punto chiaro: i parlamentari che non riescono a costruire accordi, né per fare, né per disfare alcunché, sono uniti come un sol uomo nel desiderio di conservare i loro posti e far durare la legislatura. Più gli elettori mandano segnali, si veda l’astensione dell’ultima tornata elettorale, o la fiducia data e repentinamente ritirata a Grillo -, e più gli onorevoli si arroccano: la sensazione che questo possa essere l’ultimo giro, prima dell’estremo assalto di un’opinione pubblica esasperata, invece di convincerli a un ripensamento virtuoso e a un impegno più serio nel loro lavoro, li porta al cupio dissolvi che ogni giorno fa mostra di sé.
Ciò non vuol dire che Enrico Letta, grazie alla disillusione dei parlamentari, possa stare tranquillo e durare all’infinito. I governi, si sa, durano se governano. Ma se Letta cade, un altro verrà al posto suo. La filosofia rassegnata, che sta ormai prendendo piede, prevede questo. Da quando il Presidente Napolitano, all’atto della sua rielezione, si rivolse ai parlamentari avvertendoli che erano all’ultima occasione per riscattarsi, sembra passato un secolo. E invece sono solo poche settimane.

il Fatto 30.5.13
Galletti rossi
di Massimo Gramellini

Dice il saggio zen: la tua debolezza sarà la tua forza. Non so se al momento dell’illuminazione il saggio zen avesse in mente le correnti del Pd, però la massima buddista si adatta perfettamente al partito più caciarone del globo. Qual è il limite da sempre riconosciuto al centrosinistra italiano? Di essere un’accozzaglia di feudatari senza re, di galletti in perpetua baruffa fra loro, la cui preoccupazione principale non consiste nel cercare una strada propria, ma nel tagliare quella del vicino di pollaio. Ebbene, nel voto per pochi intimi di domenica scorsa gli unici a salvare parzialmente le ossa sono stati i galletti democratici, preferiti un po’ ovunque ai capponi della concorrenza.
Il problema dei movimenti padronali è che l’identificazione degli elettori scatta soltanto nei confronti del capo. Il resto è truppa, selezionata sulla base della fedeltà anziché del carattere. Là dove comanda uno, al massimo due, i talenti sono soffocati in ruoli gregari e i mediocri impazzano, credendosi fenomeni. Nel Pd invece comandano tutti, quindi nessuno, ma quello che su scala nazionale è un difetto catastrofico, a livello locale diventa la garanzia di personalità riconoscibili dall’elettorato. Dopo i risultati di domenica, un partito banale si batterebbe per il ripristino dei collegi nelle elezioni politiche, così da sfruttare il proprio punto forte. Un partito banale, ma non il Pd: ieri ha affossato a maggioranza quella proposta per la ragione inoppugnabile che a presentarla era stato uno dei propri parlamentari. Appresa la notizia, il saggio zen autore della massima è stato ricoverato per esaurimento nervoso.

Repubblica 30.5.13
La Consulta deve valutare il quesito della Cassazione
“Porcellum incostituzionale” dubbi sull’ammissibilità del ricorso
di Luana Milella

ROMA — Alla Consulta, sulla legge elettorale ci sono tre fatti, uno certo e due incerti. Il primo, il dato sicuro: materialmente, il plico della Cassazione con l’ordinanza che chiede l’ultimo verdetto sull’incostituzionalità della legge elettorale non è ancora arrivato. Questione burocratica, fatta di timbri e notifiche. Ma dovrebbe essere ormai questione di giorni rispetto alla sentenza depositata in cancelleria il 17 maggio. Il secondo: pur in assenza di un testo ufficiale, i giudici hanno già letto le carte per farsi un’idea. E sono cominciati a serpeggiare i primi dubbi sulla possibile non ammissibilità dei quesiti. Il terzo: visti i tempi, la Corte potrebbe non avere tempo prima della pausa estiva per decidere sull’ammissibilità. Tutto slitterebbe all’autunno.
È fin troppo evidente come le incertezze sull’ammissibilità siano subito rimbalzate all’esterno, in quanto è troppo ghiotto per la politica, destra o sinistra che sia, l’eventuale venir meno del giogo della Corte. Se cadono gli interrogativi della Cassazione perché non rilevanti e non meritevoli di essere trattati dalla Consulta, con essi precipita nel nulla pure l’obbligo di cambiare per forza il Porcellum.
Ma perché la Consulta si tirerebbe indietro? Chi avversa il giudizio, per spiegarlo, pone una domanda: se la Corte dovesse pronunciarsi, a quel punto che farebbe il giudice di merito, nel caso specifico la Corte d’appello di Milano dove s’è discusso il ricorso dell’avvocato Aldo Bozzi a nome di 27 cittadini? Non potrebbe fare nulla, dimostrando l’irrilevanza dei due quesiti, sulla deprivazione del voto di preferenza e sugli abnormi e immotivati premi di maggioranza. I quesiti non sarebbero rilevanti, quindi inammissibili.
Esattamente il contrario di quanto argomenta la Cassazione che dedica metà delle sue 39 pagine per spiegare «la meritevolezza dell’interesse ad agire in capo ai ricorrenti» in quanto «l’espressione del voto costituisce oggetto di un diritto inviolabile e permanente dei cittadini, i quali possono essere chiamati ad esercitarlo in qualunque momento e devono poterlo esercitare in modo conforme alla Costituzione ». Ma, già dicono alla Corte, è noto che in Italia i singoli cittadini non possono rivolgersi direttamente alla Consulta per tutelare i diritti. In questo caso l’avvocato Bozzi avrebbe aggirato la regola con un ricorso strumentale. Nelle pagine della Cassazione, che decide di inviare i quesiti alla Consulta, si afferma invece che nel ricorso non si cela affatto il fumus della strumentalità. La parola adesso agli altri giudici.

Repubblica 30.5.13
Giachetti: Letta mi ha chiamato per chiedermi di ritirare la mozione, ma è lui che ci fa rischiare le larghe intese in eterno
Almeno una cinquantina tra prodiani e renziani hanno preferito non presentarsi piuttosto che votare contro la mia proposta
“L’hanno data vinta al Pdl, voteremo come in passato”
di C. L.

ROMA — «Intempestivo io? E certo, dopo aver atteso anni per cambiare il Porcellum, di questo passo ne attenderemo altri dieci. Addio, hanno preferito bocciare la mia mozione e darla vinta al Pdl. La riforma elettorale è rimandata alle calende greche».
E ora, Roberto Giachetti, vicepresidente democratico della Camera?
«E ora, in qualsiasi momento dovesse andare in crisi il governo, è chiaro che andremo a votare nuovamente con la legge di Calderoli. Chissà se la Consulta si pronuncerà e in che modo. A quel punto, larghe intese tutta la vita».
Il premier Letta ha provato a dissuaderla?
«Mi ha chiamato in mattinata, mi ha chiesto in modo molto amichevole di ritirare la mozione. Gli ho spiegato che non potevo farlo, che era una battaglia per la quale ho messo a repentaglio la mia salute, che mi ero limitato a mettere per iscritto 15 giorni fa quanto lui e il governo avevano sostenuto fino all’altro ieri. Cioè che il Porcellum andava cancellato. Non ha insistito, mi conosce bene».
Poi, in aula, l’ha accusata di mettere il carro davanti ai buoi per farlo deragliare.
«È il governo che si mette fuori strada da solo, su questa storia».
Il suo Pd l’ha lasciata solo.
«Falso. Settanta delle 98 firme alla mozione sono del Pd. E ne sono state ritirate solo 17. Andate a controllare gli assenti al voto: almeno una cinquantina tra prodiani e renziani hanno preferito non presentarsi piuttosto che votare contro il testo».
Confessi, ha sperato in una spaccatura del partito, sulla scia di quanto avvenuto
per l’elezione del capo dello Stato.
«Io sono tra coloro che ha votato con convinzione Prodi. Magari questo sospetto lo alimenta qualcuno che quel giorno ha fatto altre operazioni. Ho preso l’iniziativa della mozione in tempi non sospetti».
La Finocchiaro dice che il suo è stato un atto di prepotenza.
«Proprio lei che fino a pochi giorni fa aveva presentato un ddl per tornare al Mattarellum? So solo che dopo 123 giorni di sciopero della fame, l’anno scorso, quando ero sull’orlo di un’emorragia, l’unica persona che mi ha scritto è stato il presidente Napolitano. E anche in questi 15 giorni dalla presentazione della mozione, nessuno nel Pd si è preoccupato di aprire un confronto».
Si è ribellato. Teme ripercussioni interne?
«Per niente. Mi inventerò qualcosa per riprovarci. Figurarsi se mi arrendo. È il mio contributo per il bene del Pd. E dei suoi elettori, stanchi di andare al voto con questo sistema».
Accusano lei, renziano, di agire per conto del sindaco. A proposito, lo ha sentito?
«Accusa ridicola. Tra i firmatari c’è di tutto. Mi ha chiamato martedì sera, mi ha chiesto spiegazioni. Ha compreso le mie ragioni. Tutto è finito lì».
E infine in aula è diventato bandiera del M5s, che ha votato a favore.
«Sì, dopo loro molteplici giravolte sul tema. Astuzie e tatticismi che non mi interessano. Sono e resto democratico».

E Brunetta, naturalmente, approva caldamente all’obbedienza del Pd
Repubblica 30.5.13
Brunetta: “Da Giachetti era venuto un vulnus alla maggioranza. Sembrava la prova generale di un’alleanza con Sel e 5Stelle”

“Per la prima volta i Democrat rispettano i patti”
intervista di Alberto D’Argenio

ROMA — Onorevole Brunetta, oggi il governo sulla mozione Giachetti ha tremato. Da capogruppo del Pdl alla Camera
come l’ha vissuta?
«Come si era presentata era assolutamente inaccettabile e pericolosa. Vedere un vicepresidente della Camera del Pd predisporre una mozione che impegna il Parlamento in direzione opposta alla risoluzione della maggioranza è un vulnus alla maggioranza stessa, era un elemento di stress per le regole del gioco. Era la prova generale per un’altra maggioranza con Sel e M5S su una materia assolutamente dirimente e delicata».
Ma poi le cose sono andate diversamente.
«C’è stata una correttezza estrema di Franceschini e Letta che ha impegnato il governo dando parere negativo alla mozione Giachetti. E poi chapeau al Pd che ha fatto un’assemblea per discutere il punto. Assemblea dove i sostenitori di Giachetti sono andati in minoranza e dopo la quale tutti i parlamentari, tranne lo stesso Giachetti, hanno seguito la disciplina di partito votando la risoluzione del governo. La cosa ci ha confortato perché dopo quello che avevamo visto nel Pd tra Marini, Prodi e Nitto Palma è la prima volta che si rispettano regole e impegni».
Dunque le fibrillazioni sono rientrate?
«Oggi abbiamo assistito al primo vero gol vero di Letta e Alfano e siamo fieri di essere stati determinanti nel confezionare il risultato. Abbiamo sminato l’inutile dibattito tra Porcellum e Porcellinum dicendo che la safety net, la clausola di salvaguardia, va fatta ma una volta partito il processo costituente e sarà la pura e semplice messa in sicurezza della legge elettorale rispetto agli eventuali pronunciamenti della Corte Costituzionale».
Una volta avviato però il processo costituzionale va riempito di contenuti.
«Ci sarà un confronto leale con le altre forze. Il mio sogno è di arrivare a un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo sul modello francese e con un premier sempre alla francese. E poi avere una legge elettorale coerente con quel modello, ovvero il doppio turno di collegio».
Oggi è ottimista sul futuro del governo. Ma ci sono altri temi, come l’economia, che possono disturbarne la navigazione.
«Certo, ci sono le riforme ma l’altra faccia della medaglia è il pacchetto shock per l’economia. Ci vuole un pacchetto unico che tenga insieme Imu, Iva, occupazione giovanile, sburocratizzazione ed Equitalia. E sono convinto che ce la possiamo fare. L’Imu sulla prima casa costa 4 miliardi, il non aumento dell’Iva 2, il piano per l’occupazione giovanile potrebbe non costare nulla se riuscissimo a compensare le coperture con il maggior reddito prodotto. Così come la sburocratizzazione ed Equitalia non costano nulla. Se aggiungiamo che il pagamento dei debiti della Pa produrranno Pil e che con la fine della procedura per deficit lo spread potrebbe scendere ulteriormente, il decreto choc lo possiamo coprire».

La Stampa 30.5.13
Giachetti, democratico allevato dai radicali e fissato con le regole
La replica a chi lo critica: «Sono sette anni che aspettiamo di cambiare legge e l’intempestivo sono io?»
di Mattia Feltri

Sciopero della fame Democratico allevato alla scuola di Pannella, l’anno scorso ha fatto uno sciopero della fame per cambiare legge elettorale

Al culmine di centonovantasei giorni di sciopero della fame, assommati in tre fasi e per tre cause diverse - prima per la nomina dei giudici della Corte costituzionale, poi per la fissazione della data dell’Assemblea costituente del Pd, infine l’anno passato per la riforma della legge elettorale - il deputato Roberto Giachetti ha deciso di andare alla guerra con sistemi meno gandhiani. La polverizzazione del Porcellum, dice ora con un senso delle sue capacità solo all’apparenza modesto, è «lo scopo della mia vita politica». Lo scorso autunno, il digiuno di centoventisei giorni per convincere i colleghi a mettere mano alla legge si interruppe per l’altissimo rischio di una devastante emorragia interna. Nell’occasione Giachetti ricevette una lettera da Giorgio Napolitano «colma di parole persino più dure di quelle spese nel discorso del giuramento».
Ieri hanno provato in ogni modo, quelli del Pd, a fargli ritirare la mozione che impegna il Parlamento a reintrodurre il Mattarellum in attesa di sviluppi più futuribili. Dimostrando di aver capito poco di questo cinquantunenne scravattato e ostinato, non per niente venuto su alla scuola di quel testone di Marco Pannella. E «piena di pannellate», secondo le brevi biografie online, è la carriera politica di Giachetti, che sfiorò il sacrilegio spogliandosi della giacca in aula. «Non sopporto le cose ingiuste», disse. E così non ha sopportato che ieri la collega di partito, Anna Finocchiaro, giudicasse intempestiva e provocatoria la sua mozione: «Sono sette anni che aspettiamo di cambiare questa legge, e l’intempestivo sono io? ». Gli pareva l’occasione giusta di regalare alla casta un’occasione per non dimostrarsi tale: «Io mi auguro che le riforme si facciano, ma se non ci si riesce, e si pone la formazione della nuove legge elettorale alla fine del processo costituente, rischiamo di tornare alla urne per la millesima volta col Porcellum», e per di più dopo che il rap degli ultimi sei mesi ha per titolo «Col Porcellum mai più».
Allevato in quella fucina di matti talentuosi che è il partito radicale (fu redattore alla radio), Giachetti ha poi seguito un percorso rutelliano, nel senso che è arrivato al Partito democratico tramite la Margherita e prima ancora fu nei Verdi, proprio come l’ex sindaco di Roma del quale è stato capo di gabinetto in Campidoglio. Chi frequenta la Camera, lo conosce come un chirurgico segretario d’aula (quello che conosce e sfrutta tutti i regolamenti) ; chi frequenta l’Olimpico, scopre il dissennato tifoso giallorosso: «E’ vero, vado allo stadio con mio figlio. Tribuna Tevere, e a spese mia, sia chiaro». Ieri sera, quando hanno respinto la sua mozione (e del Pd l’ha votata solo lui), l’indole ultras ha rischiato di prevalere su quella istituzionale. «Ma non finisce qui», ha detto. Prima di filare a casa a leggersi l’amato Elias Canetti: «Ah sì, ne sono un maniaco: posso recitare La provincia dell’uomo a memoria». Basterebbe guardarsi attorno.

Repubblica 30.5.13
L’amaca
di Michele Serra

Se fossi un deputato della Repubblica avrei votato sì alla mozione del renziano Giachetti, che proponeva di tornare al discutibile Mattarellum pur di abolire il disgustoso Porcellum. E farlo subito, immediatamente, ora. Il governo ha obiettato che ben altro è l'iter da seguire per riformare la legge elettorale. E ha approvato un percorso bipartisan che rimanda a non si sa quando la molto ipotetica approvazione di una molto ipotetica nuova elegge elettorale ipoteticamente molto migliore sia del Porcellum sia del Mattarellum. Fin troppo ovvia la ragione per la quale avrei preferito l'uovo (oggi) di Giachetti alla gallina (domani) di Letta. Non credo che questa maggioranza sia in grado di varare in tempi decenti (diciamo: entro le prossime elezioni) una nuova legge elettorale. Peggio: credo che almeno una componente del governo, il Pdl, non abbia alcuna intenzione di levare di torno quel Porcellum che è figlio suo, e porta la firma di un signore, Calderoli, che incredibilmente (l'ho scritto, credo, una ventina di volte: incredibilmente) è parte in causa, oggi, in quella materia elettorale che ha contribuito a scempiare. Dunque, viva Giachetti. Provaci ancora, Giachetti.

“La Costituzione non è cosa vostra”... Guglielmo Epifani - invece - si è detto disponibile...
La Stampa 30.5.13
Intervista
“No al semipresidenzialismo, così si stravolge la Costituzione”
Bindi all’attacco: non sono disposta a immolare la Carta per questa maggioranza
di Carlo Bertini
qui

La Stampa 30.5.13
Interrotto durante una conferenza
Insulti e fischi contro l’ex premier nello storico istituto della sinistra romana
D’Alema contestato dagli studenti del Tasso
di Raffaello Masci

Tempi grami! Anche gli dèi della sinistra devono stare attenti a mettere piede al liceo Tasso: non si guarda più in faccia a nessuno. E così ieri, proprio mentre si disponeva a tenere una conferenza su «Medio oriente e Africa mediterranea», l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema si è preso fischi, insulti e l’affronto di uno striscione - «Questa scuola non è una passerella». Dopo di che non è successo niente, i «contestatori» erano quattro di numero e di fronte all’impassibilità dell’oratore hanno subito battuto in ritirata, limitandosi a distribuire un volantino nel quale ci si lagnava del fatto che «nel corso di quest’anno il Tasso ha visto diverse conferenze di politici dell’area Pd, presentati come autorità, il cui parere è assolutamente oggettivo e incontestabile. Sorge spontaneo il dubbio che queste iniziative siano un modo di fare propaganda politica di nascosto nella scuola».
Il prestigioso liceo classico si trova a Roma, in Via Sicilia ed è attiguo ad un altro altrettanto prestigioso liceo (scientifico), «Augusto Righi». Ma mentre il classico è da sempre una roccaforte della sinistra, il Righi aveva la fama di essere di destra. Mentre allo scientifico andava l’alunno Gianni Alemanno, al classico c’erano Walter Veltroni, Paolo Gentiloni, i Reichlin (Pietro e Lucrezia), Giuseppe Laterza, Ignazio Marino.
«A D’Alema ha detto ancora bene - commenta Pietro Reichlin, ordinario di economia alla Luiss - ai tempi miei era difficile entrare a scuola e parlare per chiunque fosse investito di una qualche carica e fosse un po’ più a destra di Lotta continua». «Questo si poteva capire allora, però, quando il conflitto politico era esasperato - dice l’ex allievo Gentiloni - ma oggi, francamente, che senso ha respingere una personalità di alto prestigio e di grande competenza?».

“Ho una fortuna. Non ho mai avuto bisogno di uno psicanalista. Ho fatto quello che dovevo fare” (sì, ma solo se era stato eletto come sicario del Pd). “Il Pd è l’unica speranza per il paese” (quindi non c’è speranza)
il Fatto 30.5.13
Ritorno a Ballarò
E Floris disse a Bersani: “Ti assolvo”
di Andrea Scanzi

“Diamo il benvenuto a Pier Luigi Bersani. Buonasera. Bentornato. Si accomodi”. Ballarò volge al termine, e il suo tramonto coincide non a caso con il ritorno in tivù di Bersani. Giovanni Floris è felice. Felicissimo. “Ora parleremo di tutto. Passato. Presente. Futuro”. Ventinove minuti di confronto ficcante, all’interno del quale le domande sono dardi di marzapane: “Com’è cambiata la sua giornata? ”, “Qual è stato il suo maggiore errore? ”, “Si lavora meglio con Alfano o con Casaleggio? ” (ovazione). Curiosamente, Bersani ha aumentato i borbottii quando Floris ha lambito la vicenda Rodotà: “In quella condizione non immaginiamo cose, non è che anche Marini o Prodi… ehmm ghhgm…”. Parole forti, e soprattutto chiare: “Prodi non era un candidato? Non era anche lui nella lista delle Quirinarie? Si può discutere del Presidente della Repubblica senza parlarsi? Siamo al Parlamento, eh”. Tra un “Vediamo il cartello 14” e un “cartello 17” (nessuno ha mai capito perché a Ballarò la numerazione sia dadaista), Floris si è dimenticato di (ri) chiedere a Bersani perché non abbia fatto un passo indietro, e qual era stato il pusher prodigioso che gli aveva ispirato la mossa Marini al Quirinale.
ECCO il best of dell’autoassoluzione bersaniana. “Ho una fortuna. Non ho mai avuto bisogno di uno psicanalista. Ho fatto quello che dovevo fare” (sì, ma solo se era stato eletto come sicario del Pd). “Il Pd è l’unica speranza per il paese” (quindi non c’è speranza). “Tocca a noi” (aiuto). “Vogliamo essere un soggetto politico o uno spazio politico? ” (nessuno dei due: uno spazio vuoto, al momento). “Noi siamo controcorrente” (sì, e Pigi Battista è sexy). “Il risultato di smacchiare il giaguaro non è stato ottenuto del tutto” (c’è della poesia in quel “del tutto”). “Per la prima volta il premier è del Pd” (wow). “Non ho forzato abbastanza per un riposizionamento del cambiamento” (eh?). “Con le nostre percentuali più o meno Hollande governa la Francia, eh, oh” (eh, oh). “Figuriamoci se io voglio andare con Beppe Grillo, ma lasciamo stare” (ovazione). “Mi son sentito dire che nello streaming mi son fatto umiliare. No: l’arroganza umilia chi ce l’ha. Va bene? ” (nuova ovazione).
“Rodotà? Che ne so” (ah, ecco). “Un governo ci voleva, Letta ha fatto questo sacrificio, la gente ha capito” (vero: infatti ha smesso di votare). “La ineleggibilità di Berlusconi cosa ci porta a dire? Che abbiamo norme datate” (dosa gli estremismi, Pigi). “Una smacchiatina alla fine a Berlusconi gliel’abbiamo anche data, Floris” (Bersani è ancora dentro il Matrix). “No, oh, ma basta con ‘sto sconfittismo per cui il Pd perde sempre! Ma insomma stiam governando tutti i comuni d’Italia, abbiamo il presidente del Consiglio, questa cosa è pericolosa perché nasconde il disimpegno” (che tenero). “Paga di più allearsi con Berlusconi che non l’antiberlusconismo? ” (questa è di Floris) ; “Ah ah ah” (questa è di Bersani).
“Noi abbiamo avuto buoni risultati in una fase di disaffezione, questo mentre M5S e la Pdl no” (“la Pdl”). “L’opinione pubblica ha compreso il nostro percorso” (l’importante è sognare). “C’è stata una linearità nel nostro percorso” (è un po’ il parere di tutti). “Al Pd (?) ci metto quel tanto che ho di credibilità e autorevolezza, non so se si possa dire” (no, non si può dire). “Solo un grande partito riformatore può dare la scossa a questo paese” (Forse. Se solo quel partito esistesse). “Il Paese è nei guai e ha bisogno di una scossa”. O del colpo di grazia, se la scossa è Bersani.

l’Unità 30.5.13
Susanna Camusso
Il segretario della Cgil chiede subito scelte per lo sviluppo e la giustizia sociale. Riscoprire la lotta per la legalità e contro l’evasione fiscale
Intervista alla leader Cgil: la fine della procedura di infrazione buona notizia
«I sacrifici sono stati pesanti, non si può più aspettare: servono risorse»
Per la rappresentanza siamo pronti all’accordo, è un passo importante e decisivo
Intervento immediato di politica industriale con la regia pubblica, o non ci risolleviamo ...
Monti si è accanito contro i pensionati e i lavoratori, non posso dimenticarlo
Camusso: «Non possiamo aspettare ora politiche di crescita»
di Rinaldo Gianola

«La fine della procedura d’infrazione per l’Italia è una buona notizia, ora bisogna lavorare per la crescita». La segretaria Cgil Camusso, in un’intervista a l’Unità, dice che ora non si può più aspettare, l’economia ha bisogno di ripartire. «Letta? Crede come noi che la priorità è il lavoro».
«Il presidente Letta ha fatto bene a ringraziare i cittadini che con i loro sacrifici hanno consentito all’Italia di uscire dalla procedura d’infrazione, però si è dimenticato di indicare i responsabili che ci hanno portato in questa crisi drammatica. Se si vuole cambiare strada, bisogna dire chiaramente cosa è accaduto altrimenti c’è una rimozione del passato che non va bene. Berlusconi e Monti, con le loro diverse responsabilità, ci hanno cacciato in questi guai, il duro impegno degli italiani ha consentito di salvare il Paese».
Susanna Camusso, leader della Cgil, è convinta che l’Italia deve ripartire subito, che bisogna mettere in atto tutte le politiche possibili per risollevare l’economia, per sostenere l’industria, per creare occupazione. Ma è necessario fare i conti con il passato, con gli errori dei governi, con le vocazioni di alcuni alla rottura delle relazioni con le parti sociali, con una filosofia che ha operato per dividere, per colpire i soliti. «Berlusconi ha negato per anni l’esistenza della crisi, diceva che i ristoranti erano pieni. Monti si è accanito contro i lavoratori e i pensionati, ci ha portato in una recessione nera, ha negato i rapporti con i sindacati. Sono cose che non si dimenticano» sostiene il segretario della Cgil.
Camusso, siamo stati promossi dall’Europa. È soddisfatta?
«Prima di tutto bisogna riconoscere il merito delle famiglie, dei pensionati, dei lavoratori che in questo Paese fanno sempre il loro dovere mentre c’è gente che anche con la crisi si è arricchita e continua a non pagare le tasse. Ho appena incontrato il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, ha riconosciuto il prezzo doloroso pagato dai ceti più deboli in questa crisi e la necessità di una maggiore giustizia sociale in Europa. È bene che non si dimentichino le responsabilità del passato perché dobbiamo evitare di ripetere gli stessi drammatici errori». Cosa cambia per l’Italia con la fine della procedura d’infrazione?
«È una buona notizia. Mi pare che anche nelle raccomandazioni della Commissione Ue ci siano toni e parole diverse, non si parla solo di tagli e rigore, ma anche di crescita, di lavoro, di favorire i flussi di credito verso l’economia, di istruzione, di centri di impiego pubblico. Tira un’aria differente, mi pare che ci sia la consapevolezza di mettere la crescita al centro dell’azione politica europea».
Letta e Saccomanni, comunque, hanno detto che gli spazi di manovra si apriranno solo nel 2014.
«Io dico, invece, che non possiamo aspettare, non ce la facciamo più. Non ce la fanno le aziende, non tiene il tessuto industriale, soffrono i lavoratori, i giovani e le donne. Il governo deve usare subito quello che ha a disposizione, Letta suoni la sveglia. Dobbiamo usare e bene i fondi strutturali europei, le opportunità di “garanzia giovani”, impieghiamo gli investimenti cosiddetti “cantierabili” che possono dare un po’ di fiato. E poi riscopriamo, dopo un periodo di strano disinteresse, la lotta per la legalità, contro l’evasione fiscale e il lavoro sommerso. Anche da una seria battaglia etica, da uno sforzo per una migliore convivenza civile possono derivare nuove risorse da investire».
C’è qualche “tesoretto” da impiegare?
«Non mi faccio illusioni e non cerco scorciatoie. Non abbiamo un tesoro da spendere, ma abbiamo l’urgenza di far ripartire l’economia. Dobbiamo trovare i fondi, cercare nuovi spazi di manovra in Europa ora che non siamo più sotto tutela, spingere il sistema del credito a sostenere le imprese. C’è una questione di giustizia sociale non più rinviabile che riguarda gli esodati, i disoccupati e il potere d’acquisto delle famiglie. Date le condizioni attuali le retribuzioni dei lavoratori potranno tornare ai livelli pre-crisi nel 2027. Di questo stiamo parlando».
Come giudica i primi passi del governo Letta nei rapporti con le parti sociali? «C’è un cambiamento positivo. Letta è rispettoso delle parti sociali perché pensa, come noi, che la priorità sia il lavoro. Cgil Cisl Uil gli hanno fatto presente che la riforma istituzionale non è solo una questione di architettura legislativa, ma anche di qualità dell’amministrazione e del lavoro. Da parte del governo c’è disponibilità ad ascoltare, come sul caso dei ticket, domani incontreremo il ministro Giovannini. Sento un’aria diversa rispetto al governo Monti che aveva annullato il rapporto con le parti sociali».
E l’accordo sulla rappresentanza?
«Noi vogliamo l’accordo. La proposta unitaria di Cgil Cisl e Uil, rispettosa del mandato e del giudizio dei lavoratori, ha un valore fondamentale perché finalizzata a riconoscere gli interessi delle parti, a rafforzare la democrazia, con la trasparenza e la certificazione del voto dei lavoratori».
Ci sono due grandi sfide industriali: il caso Ilva e la Fiat americana.
«Sull’Ilva mi aspetto che ci sia una presa di coscienza generale: non è solo uno stabilimento, non è solo il 40% della produzione siderurgica nazionale, ma è il motore stesso di larga parte dell’industria italiana. Non possiamo perdere l’Ilva. Vanno garantite continuità aziendale, produzione e occupazione nel rispetto dell’Autorizzazione Integrata Ambientale. Il commissariamento, o un intervento di garanzia per la continuità, può essere la strada da seguire oggi. Ma più in generale è necessario un intervento organico di politica industriale, con una chiara regia pubblica. Solo così l’industria può risalire la china».
E la Fiat?
«Non mi sorprende che stia pensando all’America. La Cgil aveva lanciato l’allarme molto tempo fa, mi presi dure critiche per aver definito Marchionne un pessimo ambasciatore dell’Italia. Che sposti la testa altrove mi pare davvero un brutto segnale».
Le chiedo, infine, un ricordo di Franca Rame.
«La sua scomparsa è un vero dolore. Ci sono mille ricordi che si accavallano. Ma la cosa più bella è questa: noi sapevamo che lei c’era. Nelle battaglie, nelle lotte, nei momenti difficili, lei c’era. C’è sempre stata».

Corriere 30.5.13
Rodotà: Beppe sbaglia. Non bastano più le sue dichiarazioni
«Ha perso. Dare la colpa agli elettori è una spiegazione che non spiega»
Non ci si è resi conto che la rete da sola non basta, non è mai bastata
Bisogna andare oltre
Intervista di  Alessandro Trocino
qui

L’Huffington Post 30.5.13
M5s, Stefano Rodotà striglia Beppe Grillo: "La rete non basta, i parlamentari siano liberi di esercitare il mandato"
qui

Repubblica 30.5.13
La democrazia del web è vera democrazia?
Come cambiano le istituzioni. Torna in digitale una riflessione profetica di Rodotà
di Stefano Rodotà

Si devono sempre considerare con grande prudenza le associazioni troppo strette tra progetti politici e possibilità tecnologiche. È indubbio, però, che siamo di fronte a una vera crisi delle forme tradizionali della democrazia rappresentativa, che può tradursi (o già si traduce) nel rifiuto delle istituzioni da parte di molti cittadini. Poiché una possibile via d’uscita viene indicata in una integrazione tra forme della democrazia rappresentativa e forme della democrazia diretta, diventa giusto chiedersi se le tecnologie dell’informazione – rendendo tecnicamente possibile una associazione più immediata dei cittadini alle fasi della proposta, della decisione e del controllo – possano aiutarci ad inventare la democrazia del XXI secolo.
Se si vuol discutere seriamente di tecnologia e democrazia, allora, bisogna evitare una versione riduttiva dell’una e dell’altra. Gli strumenti resi disponibili dalle diverse tecnologie dell’informazione non debbono essere considerati soltanto come mezzi che rendono possibile un voto sempre più facile, rapido, frequente. Così verrebbe accolta una visione ristretta della democrazia, vista non come un processo di partecipazione dei cittadini, ma solo come una procedura di ratifica, come un perpetuo gioco del sì e del no, giocato da cittadini che tuttavia rimangono estranei alla fase preparatoria della decisione, alla formulazione delle domande alle quali dovranno rispondere. Il
mutamento concettuale e politico è evidente. La democrazia diretta diventa soltanto democrazia referendaria e, all’orizzonte, compare piuttosto la democrazia plebiscitaria.
Si può sfuggire a questa impostazione dei rapporti tra tecnologia e democrazia? Per farlo, è necessario andar oltre l’identificazione della democrazia elettronica con una logica di tipo referendario e analizzare le molteplici dimensioni del problema. [...] Al di là di altre funzioni, il partito politico, nell’era pretelevisiva, si presentava anche come il protagonista di una comunicazione politica diretta (assemblee pubbliche, comizi, contatti continui dei membri del partito con i cittadini) e soprattutto corale e, quindi, in certa misura spersonalizzata. Il partito politico, infatti, aveva bisogno di stabilire una molteplicità di contatti nello spazio e nel tempo e doveva per ciò mettere in campo un vero esercito di “comunicatori”. Il suo rapporto con i cittadini, dunque, era di tipo corale: anche quando il partito si identificava con una personalità particolarmente forte, il contatto con i cittadini richiedeva la necessaria mediazione di una miriade di altre
persone, quasi sempre più vicine e visibili dell’uomo politico lontano e inafferrabile.
Le molteplici tecniche oggi al servizio della politica, e più precisamente delle persone che l’incarnano, modificano radicalmente il panorama appena descritto. Il politico, candidato ad elezioni o interessato comunque a una comunicazione con i cittadini, può oggi disporre di strumenti che cancellano quella dimensione spaziale e temporale che imponeva forme di intermediazione personale. Le videoconferenze, le videocassette, la posta elettronica, l’uso delle reti gli consentono una presenza continua e autonoma nei luoghi e nei momenti più diversi. Si realizzano ubiquità e, quindi, irriducibilità dell’uomo politico alla misura di altri soggetti. Cresce, nelle apparenze, la “disponibilità” del politico per i cittadini: nella realtà, l’offerta politica si riduce. [...] Al contrario, la comunicazione in rete, pur continuando a consentire al politico l’uso di filtri e di tattiche di diversione, aumenta la sua esposizione al pubblico. Cresce soprattutto la possibilità di una presa diretta e continua da parte dei cittadini, e diventa sempre meno accettabile la pretesa di circoscrivere preventivamente l’area dei loro interventi. La stessa identità del partito politico, intanto, risulta profondamente trasformata. Può sopravvivere come “macchina”, come invisibile supporto tecnico dell’uomo politico, e soprattutto del candidato ad elezioni, ma perde progressivamente la sua soggettività. E questa scomparsa dei momenti collettivi nella comunicazione politica, sul versante di chi comunica e di chi riceve la comunicazione, incide sulle modalità di costituzione del “sovrano”, unificato da riferimenti personali sempre più marcati, ma disgregato dalle modalità stesse della comunicazione.

«Adriano Zaccagnini annuncia che prima sarà a un incontro della rivista Left con Salvatore Settis: “Sul manifesto c’è un’immagine molto bella, un agricoltore in un campo di libri con una penna in mano”»
Repubblica 30.5.13
M5S
In Parlamento è caccia ai dialoganti e spunta l’idea di un “gruppo ponte”
Stretta sui parlamentari: “I ddl prima presentateli sul blog”
di Annalisa Cuzzocrea

ROMA — Hanno paura, i dissidenti del Movimento 5 stelle. La notizia della cena di martedì scorso, quando davanti a pizza e birra hanno condiviso il loro malessere, ha creato più problemi di quanto non si aspettassero. Il post di Grillo che invita chi pensa ancora ad accordi col Pd «ad avviarsi alla porta», la lettera di Roberta Lombardi che dà loro delle «merde», l’attacco del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio al dialogante per antonomasia Tommaso Currò, la richiesta di espulsione di Lorenzo Battista da parte di una senatrice, sono i segnali di una stretta che temevano, ma che non credevano potesse arrivare così improvvisa e violenta.
Sonia Alfano, l’altroieri, ha raggiunto alcuni di loro in un ristorante di Roma. E li ha trovati così: confusi e spaventati. La parlamentare europea ex Idv, un tempo sostenuta da Grillo in persona, ha proposto da tempo un percorso comune nel nome della legalità. Sa che arrivare a formare un gruppo autonomo in Parlamento non è facile, bisogna essere in 20, ma pensa che «anche se non fossero abbastanza il primo giorno, darebbero il via a un effetto domino che neanche i talebani riuscirebbero a controllare». È sfiduciata, però: «Mancano di coraggio, aspettano tutti che uno di loro faccia il primo passo». Soprattutto, sperano in una sorta di “gruppo ponte” che nasca dagli scontenti di centrosinistra, quelli contrari al governo di larghe intese, cui poi aderire una volta capito quel che succede all’interno del gruppo. «Mi hanno contattato alcuni che prima non conoscevo - racconta l’europarlamentare - mi dicono di aver paura del gruppetto dei “pattugliatori”».
I talebani, sempre loro. Ieri nel mirino è entrato il senatore Lorenzo Battista per un’intervista rilasciata al Messaggero in cui parlava di un possibile accordo col Pd (nel caso in cui Berlusconi facesse cadere il governo). Una senatrice ne ha chiesto l’espulsione. Lui non commenta, non vuole alimentare le polemiche, ma altri, al suo posto, dicono netti: «È una tecnica. Come Grillo che invita sul blog ad andar via, come Crimi che parla di mele marce senza fare nomi. Si chiama intimidazione». Va quasi peggio a Tommaso Currò, che viene attaccato frontalmente dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio in un post su Facebook. Se la prende per le parole dette in un’intervista, Di Maio, parla di «malafede», di una persona che vuole male al gruppo, si augura che così ne rimangano in pochi, si chiede che cosa stesse facendo il catanese mentre gli altri erano a lavoro, e insinua: «Forse era a parlare di strategie con la stampa». Una chiara minaccia di scomunica, alla quale anche il deputato siciliano sceglie di non rispondere. In un corridoio della Camera fa spallucce e ripete piano: «Dicano quel che vogliono». Il più vicino a uscire, comunque, sembra essere Adriano Zaccagnini. Da tempo critico con la gestione del gruppo, dopo l’intervista a Repubblica
il deputato a 5 stelle non ha voluto fare altri commenti post voto. Aspetta la riunione congiunta di oggi per dire quel che pensa, ma annuncia che prima sarà a un incontro della rivista Left con Salvatore Settis: «Sul manifesto c’è un’immagine molto bella, un agricoltore in un campo di libri con una penna in mano». Poi svela un dettaglio non da poco: «C’è un nuovo protocollo per i nostri disegni di legge. Adesso, prima di presentarli, dovremo metterli per 48 ore sul blog. E poi farli approvare dall’assemblea». Il che vuol dire che quel po’ di libertà che alcuni parlamentari si erano concessi finora ha già fatto in tempo a dar fastidio.
Tancredi Turco, altro dialogante, non ha paura di definire i risultati elettorali «una batosta», e dice che il post di Grillo “Fuori chi vuole accordi col Pd” non lo convince del tutto. «Io una porticina la lascerei aperta, non sarei così drastico ». Quanto alle espulsioni, «sono certo che Beppe sia come un bravo padre di famiglia. Non caccerà nessuno per qualche dichiarazione ». Sarà, ma l’aria è pesante. Alla vigilia della riunione congiunta di questo pomeriggio alle quattro e mezza, la mail con cui Roberta Lombardi (ufficialmente a casa con la febbre) ha inviato ai deputati tutta la sua rabbia, non fa sperare in un cielo sereno.

l’Unità 30.5.13
La difficile prova che ci attende
di Carlo Galli

IL RISULTATO ELETTORALE DEL PD CONSENTE DI DIRE, CERTO, CHE ESSO SOSTANZIALMENTE si afferma come il primo partito quasi ovunque; ma ciò avviene all’interno di un trend di partecipazione collassato, di un complessivo addio alle urne ormai più che allarmante. E sarebbe colpevole e infantile minimizzare con argomenti come il mancato abbinamento, questa volta, del turno elettorale locale con consultazioni politiche nazionali. No, la disaffezione dei cittadini verso l’attività politica istituzionale è essa stessa un chia-
ro fatto politico.
È la percezione diffusa che la politica come si manifesta oggi in Italia non serve, non dà risposte ai problemi dei cittadini sia perché non sa porre le domande con la giusta radicalità, sia perché non ha efficaci strumenti d’intervento sulle dinamiche economiche e sociali.
Essere primi in questo scenario di allentato rapporto fra istituzioni e società e di sconvolgente debolezza del sistema politico non è consolante. Certo, l’ulteriore grave emorragia di voti sofferta dal Pd è in ogni caso inferiore a quella che ha colpito i suoi competitor, i quali pagano pesantemente le loro mancanze. Cioè il fatto di essere entrambi, il Pdl e il Movimento 5 Stelle, macchine capaci di attrarre voti soltanto a livello di elezioni politiche nazionali, attraverso una pratica politica estremizzante e personalistica. Entrambi, Berlusconi e Grillo, hanno bisogno, per affermarsi, di una mobilitazione permanente che in un contesto amministrativo è ben difficile realizzare sistematicamente. E che è risultata impossibile al Berlusconi impegnato nel governo di larghe intese, mentre Grillo ha pagato appunto ciò su cui intendeva lucrare: l’avere costretto, con la propria strategia di non-collaborazionismo, Pd e Pdl all’abominevole inciucio che avrebbe dovuto mostrare al mondo il loro colpevole intimo coappartenersi. Gli elettori del Movimento non sembrano aver gradito la linea grillina del tanto peggio tanto meglio e non certo perché manchino agli italiani, oggi, motivi di protesta anche radicale, ma perché evidentemente dal loro voto si attendevano frutti un po’ più consistenti.
Certo, in questo contesto di sfiducia e di delusione il Pd non è stato premiato; in particolare non si è riappropriato dei voti precedentemente migrati verso Grillo, che lungi dal tornare all’ovile si sono parcheggiati nel dilagante astensionismo. Tutto quello che si può dire, finora, è che il Pd soffre meno di altri la malattia della politica italiana. E ciò non basta per nulla a risolvere la vera crisi di questa fase una crisi, s’intende, che si affianca alla crisi economica, da cui anzi è acuita -, cioè la crisi del sistema politico. Che non è trattabile solo con ricette (peraltro non ancora mature, e da ponderare con suprema attenzione) di ingegneria elettorale o istituzionale, ma esige anche una riforma culturale e intellettuale della politica, che ricostruisca apparati analitici, orizzonti progettuali, soggettività attive, solidarietà non episodiche. Che dia vita a una nuova modalità della politica, all’altezza delle domande difficilissime che i cittadini, implicitamente o esplicitamente, col voto o con l’astensione, le rivolgono: oggi infatti di politica c’è gran bisogno, proprio mentre il suo esercizio pratico e il suo stesso statuto teorico si fanno più complicati e controversi.
Proprio perché dopo tutto il Pd non è (ancora?) travolto dalla crisi della politica, proprio perché rischia di non avere partner o concorrenti credibili, proprio perché è ancora percepito da molti cittadini come una porta a cui si può bussare per avere risposte, il Pd non può sottrarsi alla responsabilità di provare a fornire qualche elemento di solidità o almeno di relativa stabilità a un sistema politico in liquefazione. In una posizione che è al momento difficile e contraddittoria, certo, ma che può essere un investimento politico su se stesso e sul futuro dell’Italia. L’importante è che la stabilità che si persegue non sia una neutralizzazione, una spoliticizzazione, e che non sia pagata con lo stravolgimento delle ragioni stesse dell’esistenza del Pd. E che insomma quella porta, la prossima volta che si aprirà, mostri un ambiente ben arredato, con nuovo mobilio, pronto per essere la casa di una parte (a un partito non si deve chiedere di più) degli italiani: quelli che non intendono abbandonare l’idea di una società regolata e progressiva.

Repubblica 30.5.13
I partiti a pane e acqua
di Nadia Urbinati

LE RECENTI consultazioni amministrative e referendarie testimoniano che esiste un bisogno insoddisfatto di politica.
Un bisogno che i partiti sembrano incapaci di comprendere. Non è l’anti-politica il problema, ma la non-politica. Per questo incolpare gli elettori, come ha fatto Beppe Grillo, è, oltre che irragionevole, bizzarro. Poiché è l’assenza di progetti e di idee, di credibilità e di coraggio dei partiti che allontana dai seggi, non l’avversione dei cittadini per la politica. Essi cercano una merce che non trovano sul mercato. Il giudizio deve essere diretto ai soggetti che si incaricano di mediare i bisogni degli elettori senza esserne capaci. Ciò che viene chiesto e manca non è solo la risoluzione dei problemi ma, prima ancora, l’interpretazione dei problemi. La carenza politica e della politica sta qui. Ed è una carenza grave che ha a che fare con una cronica mancanza di studio, di analisi, di esame non pregiudiziale delle trasformazioni della società e delle strategie che i principi democratici e i diritti suggeriscono di seguire o di non seguire. Il partito sul quale molti italiani cercavano l’àncora per una sicura alternativa, il Pd, è più di altri vittima di questa sindrome da sopravvivenza che porta i suoi leader da un lato a farsi promotori di proposte radicali e dall’altro a persistere nella difesa testarda dello status quo. Due comportamenti opposti/uguali che denotano un’attitudine a inseguire l’opinione dominante piuttosto che interpretarla secondo principi e diritti.
Insistere per esempio come è avvenuto a Bologna sulla difesa d’ufficio della sussidiarietà senza voler esaminare o comprendere la differenza che c’è tra finanziare con i soldi pubblici i servizi sociali e i servizi educativi è segno di questa incomprensione della relazione tra principi/diritti e problemi da risolvere. Formare i cittadini, educarli cioè a vivere con gli altri nel rispetto delle diversità dovrebbe suggerire di pensare che le istituzioni educative non possano essere trattate alla stregua dei servizi di assistenza sanitaria o sociale. È per questa ragione, del resto, che i costituenti insistettero nel tenere separato, non commisto, il pubblico dal privato (cosa che non fecero quando si trattava di servizi alla salute per esempio). Non vedere questa specificità della scuola (anche quando è scuola materna) comporta non dare peso ai diritti eguali e quindi proporre soluzioni errate o insoddisfacenti. La difesa dello status quo – delle politiche già esistenti perché esistenti - è, questo sì, un esempio di anti-politica, di burocratica mancanza di saggezza politica.
Al polo opposto c’è l’atteggiamento di voler rovesciare l’esistente di trecentosessanta gradi nel tentativo di inseguire l’opinione corrente. Questo è il caso della proposta del governo sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. La proposta dovrebbe articolarsi su due pilastri, trasparenza (degli statuti e dei bilanci dei partiti) e risorse; e dovrebbe mirare a due scopi: “semplificare” e “privatizzare”. Semplificazione delle procedure per le erogazioni liberali dei privati in favore dei partiti; introduzione dei meccanismi di natura fiscale fondati sulla libera scelta dei contribuenti a favore dei partiti; e, infine,la possibilità di prevedere modalità di sostegno “non monetario”, per esempio donando “strutture” e “servizi”.
All’insegna della privatizzazione: nel caso delle scuole materne come in quello dei partiti. Anche in questo caso, senza prestare attenzione al bene in questione: un bene pubblico non solo per il servizio che eroga ma prima ancora per la sua specifica identità. Sappiamo inoltre quanto lasca (e insincera) sia la politica del dono nelle società di mercato – donare per avere in cambio non è donare. Soprattutto quando il ricettore è il partito, un mezzo per gestire il potere dello Stato, condizionare decisioni su leggi e regolamenti. Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti che hanno un sistema nel quale si prevede il dono sia in spese vive (pubblicità televisive, cene elettorali, consulenze, ecc.) che in denaro. Studiosi e giuristi stanno da anni intensificando il loro impegno affinché questa politica dissennata sia fermata, anche perché la privatizzazione dei finanziamenti ai partiti ha portato le spese elettorali a cifre da capogiro e innescato logiche non egualitarie macroscopiche. La proposta di cui si discute da noi in questi giorni sembra purtroppo seguire questa logica privatistica.
Il governo vuole, con più di una giustificata ragione, abrogare l’attuale sistema dei rimborsi elettorali. Non tuttavia per sostituirlo con un nuovo sistema virtuoso e saggio di finanziamento pubblico. Propone invece il ricorso al sovvenzionamento privato diretto: se ami il tuo partito lo finanzi; questa la logica. Ovviamente i poveri cristi, di cui l’Italia comincia a essere molto popolata, daranno o nulla o briciole. Si tratta di un approccio perverso perché dà priorità alle possibilità economiche. Mentre la politica democratica vuole l’eguale distribuzione del potere e promette di bloccare il travaso delle diseguaglianze economiche nella sfera politica. Pensare di bonificare i partiti dalla corruzione facendone agenzie di cittadini e/o gruppi privati è come cadere dalla padella alla brace.
Del resto, non basta togliere soldi pubblici per togliere la corruzione. La nostra storia lo dimostra. La legge sul finanziamento pubblico fu introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento e fu voluta e approvata sull’onda degli scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblico o privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici rendendoli dipendenti dai soldi privati è illusorio.
Questa proposta non varrebbe a togliere la piaga della corruzione e inoltre ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica (quella dello scambio sottobanco e della ruberia) un’altra forma che è semmai ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la possibilità di tradursi direttamente in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. Nel caso della scuola come in quello dei partiti, la rinascita della fiducia dei cittadini nella politica passa per la rinascita del rispetto del valore del pubblico.

Corriere 30.5.13
Il commissario tedesco: siete ingovernabili
Öttinger (Ue): gli italiani? Sono come bulgari e romeni
di Paolo Lepri

BERLINO — Si respirava da qualche settimana quasi un’aria di tregua, nella guerriglia verbale contro l’Italia instabile e poco virtuosa, fino a quando non si è fatto sentire il commissario europeo all’Energia, Günther Öttinger. Qualcuno potrebbe dire che ci si poteva aspettare qualcosa di simile da un uomo che ha proposto il mese scorso di tenere a mezz’asta, a Bruxelles, le bandiere dei Paesi dell’Ue indebitati. L’ex governatore cristiano-democratico del Baden Württemberg non è nuovo a esternazioni come quella con cui ha lamentato ieri sera la «difficile governabilità» di alcuni scomodi iscritti al club europeo. Ha chiamato in causa l’Italia, appunto, la Bulgaria e la Romania. Si è detto «preoccupato». Alle reazioni negative si è aggiunta anche quella del presidente del Parlamento europeo Martin Schulz,che ha invitato Öttinger ad evitare inutili lezioni. Naturalmente, come accade in questi casi, le frasi riportate dalla Bild sarebbero state «fuori contesto». Un portavoce ha precisato il senso del ragionamento: «Se non c’è nessuna stabile maggioranza è più difficile affrontare le questioni del deficit e del debito». Sarà, ma non va dimenticato che appena il mese scorso, mentre il presidente José Manuel Barroso sottolineava i limiti delle politiche di austerità, il commissario tedesco ribadiva che per l’Europa non c’era altra scelta che risparmiare. E ieri è tornato alla carica. Le frasi sull’Italia non sono piaciute anche perché la pazienza è stata messa a dura prova da innumerevoli punzecchiature. «Non sentirete mai espressioni del genere sull’Italia dal governo tedesco», ha commentato il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert. Prendiamola come una promessa, anche se è vero che dalla visita di fine aprile del presidente del Consiglio Enrico Letta, all’indomani dell’insediamento, le inquietudini per il prolungarsi della crisi italiana si sono dissipate. Sembrano passati secoli, dopo la fase caratterizzata dal sostegno alle riforme intraprese dal governo Monti, da quando il ministro degli Esteri Guido Westerwelle avvertiva che la Germania non voleva essere il caprio espiatorio di una campagna elettorale populista. Questo non vuol dire che tutti i problemi siano risolti. Anzi. L’Italia è sempre sotto osservazione. «È decisivo proseguire con il corso di risanamento», ha avvertito il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble Il confronto italo-tedesco sta tornando a misurarsi sui contenuti. Ma gli irriducibili sono sempre vigili, come ha dimostrato il caso Öttinger. Un grosso contributo alla loro attività è venuto dai dirigenti del nuovo partito anti-euro Alternativa per la Germania. Il suo leader, Bernd Lucke, ha ipotizzato una unione di valute di dimensioni più piccole del quale potrebbe far parte l’Italia. Grossa sfiducia è stata espressa in varie occasioni dal capogruppo liberale Rainer Brüderle. Il ministro delle Finanze bavarese, Markus Söder, e il segretario generale della Csu, Alexander Dobrindt, furono redarguiti pubblicamente dalla cancelliera per le loro parole incendiarie. Quest’ultimo avvertì Monti l’estate scorsa che i tedeschi non sarebbero stati disposti ad «annullare la democrazia per finanziare il debito italiano». Nella lista va inserito anche il candidato cancelliere socialdemocratico Peer Steinbrück, «inorridito» per l’elezioni di due «clown», Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Il presidente Giorgio Napolitano, che annullò immediatamente il suo incontro con lo sfidante di Angela Merkel, disse poi che l’Italia «rispetta la Germania ed esige rispetto». Una frase che rimane valida.

il Fatto 30.5.13
No al laicista Marino, la santa alleanza tra Alemanno e Curia
I cardinali Vallini e Fisichella offrono aiuti e consigli al sindaco: incontro negato al chirurgo Pd
di Carlo Tecce

Se vuoi un miracolo, terreno, non puoi che bussare in Vaticano. E il privilegio di cui gode Gianni Alemanno, il sindaco uscente, non è poco rilevante: non deve bussare ai portoni santi perché quei portoni, già aperti per il primo turno, sono spalancati per il ballottaggio con Ignazio Marino, cattolico adulto, troppo per essere un interlocutore affidabile.
NON È UN MISTERO, e di trasparenze spesse il Vaticano si ammanta, che Alemanno (giorni fa) abbia incontrato il cardinale Agostino Vallini, plenipotenziario per la diocesi di Roma e monsignor Rino Fisichella, presidente del Consiglio pontificio per la nuova evangelizzazione: strategie, consigli, rassicurazioni. E non stupisce che la stessa Santa Sede, che osserva con tensione e timore la caduta di Alemanno, abbia rifiutato qualsiasi contatto con il chirurgo, qualsiasi colloquio, seppur diplomatico e formale, che il candidato democratico ha chiesto nelle scorse settimane. In questi dieci giorni abbondanti che separano la capitale dal prossimo sindaco, il Vaticano è mobilitato, non sono rassegnati, non sono schiacciati dal peso di una rimonta numericamente improbabile, se non proprio impossibile: 12 punti di distacco, il doppio rispetto al primo turno con Rutelli di cinque anni fa, ma Alemanno ci crede, “ce la faremo”. Un aiuto santo può servire: “Non possiamo consentire la vittoria di Marino, un uomo che vuole secolarizzare la società italiana. Le parrocchie, i sacerdoti e persino le suore sono chiamate a svolgere un ruolo di protezione”, dicono con enfasi dentro le mura leonine. Marino ha cominciato la compagna elettorale con quel tratto laico, e non laicista, di un medico che si definisce un cattolico praticante. Ha promesso il testamento biologico e le unioni civili, temi che fanno inorridire la curia romana: voleva rimarcare i suoi principi, quasi rompere la tradizione che spinge il Campidoglio verso il Vaticano per cancellarne le distanze. I sondaggi (e il pragmatismo) hanno persuaso Marino: meglio dare segnali distensivi, meglio allargare i confini. Si è concesso persino un saluto in udienza pubblica con papa Francesco.
E COSÌ, mentre Alemanno reggeva lo striscione durante la “Marcia per la vita”, il chirurgo ha smussato, precisato, finanche emanato segnali di comprensione e vicinanza al movimento ultracattolico: “Non partecipo perché non voglio strumentalizzare politicamente un’iniziativa giusta. Io sono per la difesa della vita in ogni suo stadio, ma non si può prendere parte alla marcia solo perché le elezioni comunali sono vicine. L’impegno deve essere quotidiano e lontano dai riflettori mediatici”. Non è bastato, però, per il candidato che vuole condizionare, parole sue, “il governo nazionale istituendo un registro per le coppie omosessuali”. I collaboratori di Alemanno, per agire in simbiosi e sincrono con la Chiesa, preparano l’offensiva: cartelloni e manifesti per dire che soltanto Gianni da Bari può garantire la famiglia tradizionale.
Il sindaco ha recuperato le varie incomprensioni con il cardinale Vallini e, caso più unico che raro, riesce a mettere insieme, fra i suoi grandi elettori, anche Tarcisio Bertone, il segretario di Stato e monsignor Georg Ganswein, assistente personale di Benedetto XVI e asse portante fra il papa emerito e papa Francesco. L’arcivescovo Rino Fisichella, che conosce la politica e ne espiava i peccati quando era cappellano di Montecitorio, fa da raccordo fra il Campidoglio e il Vaticano, fra Alemanno e i curiali. Per riconoscenza e ammirazione, il sindaco di Roma – unico amministratore assieme al collega di Brescia, Adriano Paroli – lo scorso gennaio è andato in pellegrinaggio in Terra Santa proprio con Fisichella.
LA CONFERENZA episcopale, attraverso il quotidiano Avvenire, non ha coperto le sue posizioni: Marino significa pericolo. L’ex ministro nel governo di Berlusconi, discepolo non fedelissimo di Gianfranco Fini, ha piazzato capolista l’ex assessore per la famiglia, Gianluigi De Palo, politico di origine ruiniana, nel senso del cardinale Camillo Ruini e del suo metodo pratico di affrontare le istituzioni. Né Ignazio Marino né Alfio Mar-chini hanno ricevuto ospitalità dal Vaticano e pensare che Alemanno, per il funerale di Pino Rauti (suocero) ha convocato a Roma Giovanni D’Ercole, vescovo ausiliare a L’Aquila. D’Ercole, fra i saluti romani, si è dovuto giustificare: “Sono qui per amicizia con Gianni”.

Corriere 30.5.13
Omicidi ed efferatezze in cronaca come usciti da romanzi «pulp»
di Paolo Di Stefano

L'ultimo caso è quello spagnolo della pallavolista olandese Ingrid Visser e del suo compagno torturati, massacrati, fatti a pezzi con una motosega e sepolti in una limonaia. Motivi economici, dicono gli inquirenti, forse un debito mai restituito. Ma una simile concentrazione di orrori come in queste ultime settimane non si era mai vista. Siamo costretti a oscurare i telegiornali della sera per evitare che i nostri bambini ne rimangano traumatizzati. Abbiamo ancora nelle orecchie e negli occhi la notizia di Corigliano Calabro, dove la quindicenne Fabiana è stata accoltellata e poi bruciata viva dal suo fidanzato, il quale ha confessato di averle versato addosso una tanica di benzina per darle fuoco. Motivi di gelosia, pare, ma già pronunciare la parola «motivi» può apparire eccessivo. Per non dire della decapitazione di un soldato a colpi di mannaia, avvenuta qualche giorno fa, coram populo, in una strada di Londra e rivendicata davanti al video dall'assassino farneticante, le mani ancora grondanti di sangue. E pochi giorni prima a Milano un folle, armato di piccone, ha ucciso tre uomini e ha ferito altre due persone, giovani e pensionati. Omicidi scatenati da «ragioni» diverse, ma accomunati dall'efferatezza. Non che un colpo secco di pistola non sia feroce, qui si parla però di assassini che non si limitano al gesto, ma esibiscono un accanimento quasi tribale, per lo più sceneggiando l'orrore al cospetto di un «pubblico» terrorizzato. E negli ultimi tempi con una serialità che impressiona.
Si tratta di scenari macabri che letti in tanti romanzi pulp degli anni Novanta, derivati dalla cinematografia (il cui apice è stato il celebre film eponimo di Quentin Tarantino), sembravano inverosimili e persino irritanti nella loro ostentazione splatter spesso compiaciuta, con schizzi di sangue e sventramenti ovunque, nel citazionismo colto quanto ironico, in una dosata oscillazione tra alto e basso che rasentava qua e là il virtuosismo colorandosi di cinismo trash e lugubre goliardia. Un filone che in area americana e anglosassone aveva avuto maestri e antesignani di rilievo assoluto (James Ballard o James Ellroy) e che in Italia ha prodotto il discusso fenomeno letterario dei cosiddetti «cannibali», inteso nei casi migliori a mettere in rilievo la (quanto presunta?) contiguità deflagrante tra frenesia del consumo e atrocità sanguinarie, tra quieta normalità del benessere medio e trasgressione dirompente, tra salute mentale e follia. La narrativa era piena di crudeltà, di viscere e spazzatura dentro gli scenari metropolitani più vari (ricordate la comica parodia messa in scena da Bebo Storti nelle vesti dello scrittore «pulp, molto pulp, pure troppo» Thomas Prostata, che invocava «sangue e merda»?). I critici «apocalittici» allora misero subito in evidenza la fatuità di certi moduli stilistici che volevano scimmiottare la narrativa americana, buttandosi sull'orrore estremo, mentre altri vi intravedevano la capacità della letteratura di reagire ai grandi mutamenti d'epoca.
Ora la beffa è che tutto ciò sembra uscito improvvisamente dalla dimensione grottesca di tanta cinematografia e di tante pagine di romanzi anche mediocri per rovesciarsi nella nostra quotidianità, radicandosi in ben altro terreno sociale, fatto di povertà, emarginazione, disperazione al limite della sopravvivenza. La dimensione fiction, anche la più banale e irrelata, si è ribaltata in cronaca nera. L'improbabile si è capovolto in allucinante quotidianità. Con ciò non si vuol dire che prima o poi i nodi della letteratura vengono al pettine della realtà. Né si intende rivendicare necessariamente all'immaginazione letteraria un valore visionario o profetico, ci mancherebbe: per fortuna non tutte le «previsioni» dei romanzi (tanto meno i peggiori) si verificano con puntualità. Ma fa un certo effetto notare come quella stessa estetica (per usare un termine che può sembrare nobilitante) della violenza, che vent'anni fa si dava per iperbolica e non intimamente necessaria nella sua ostentazione spesso semplificata, si propone ai nostri occhi increduli come la più atroce delle realtà. Piena di quell'inquietudine, di quella verità e di quella angoscia che allora, nelle pagine dei libri, per lo più mancavano.

il Fatto e The Independent 30.5.13
Femen, è l’ora del sexstremismo
Le rivoluzionarie a seno scoperto arrivano a Tunisi per aiutare la blogger Amina
di Shaun Walker

Il gruppo femminista radicale Femen ha deciso di alzare il tiro: hanno deciso di chiamarsi “sexstremiste” e di battezzare la loro ideologia “sexstremismo”. Dinanzi a me siedono la ventottenne Anna Hutsol, fondatrice del movimento, e la venticinquenne Alexandra Shevchenko. Sono rigorosamente vestite, ma solo qualche settimana fa Alexandra ha avvicinato Putin a seno scoperto in Germania ed è stata bloccata a pochi metri dal leader russo dalle sue guardie del corpo. Sul petto aveva scritto “Fottuto dittatore” in inglese e “Fanculo Putin”in russo. Nella foto Putin ha l’aria sorpresa, Angela Merkel ha l’espressione di chi ha appena visto un fantasma.
“Un bel colpo”, dice Hutsol che considera l’imboscata a Putin una delle iniziative più riuscite del gruppo insieme a quella dell’anno passato che vide coinvolto Cirillo, patriarca della Chiesa ortodossa russa. “Tutti sanno che sono degli imbecilli e tutti glielo vorrebbero gridare in faccia, ma non è facile. Credo che Obama abbia meno guardie del corpo di Putin. E noi, che siamo delle donne, siamo riuscite ad avvicinarlo e a dirgli in faccia di andare a farsi fottere”. Fondato nel 2008, il gruppo Femen fu oggetto di interesse da parte dei media per la prima volta in occasione di una dimostrazione contro la prostituzione e il turismo sessuale in Ucraina. Con lo slogan “l’Ucraina non è un bordello” le donne, vestite da spose, si denudarono per protestare contro un programma radiofonico neozelandese che aveva messo in palio per il vincitore di un concorso una sposa ucraina. Da allora sono state oggetto di molte critiche. Anna Hutsol respinge le critiche: “Vogliamo dimostrare che le donne con le loro armi possono cambiare la società. Mostrando il nostro corpo lo trasformiamo da oggetto sessuale in strumento di protesta”.
SHEVCHENKO aggiunge che le proteste a seno nudo potrebbero essere una fase del movimento: “questa è la nostra forma di protesta in questo momento. Potrebbe cambiare in futuro”. Shevchenko è stata arrestata oltre 70 volte in diversi paesi. Attualmente è in attesa di giudizio in Ucraina. Durante gli europei di calcio del 2012 in Ucraina fu sequestrata e tenuta prigioniera per diverse ore da agenti dei servizi. Negli ultimi anni il gruppo ha cominciato ad allargarsi in altri paesi quali la Germania e la Francia dove si tengono corsi di formazione per entrare nel gruppo. In altri paesi il reclutamento somiglia più a quello di al Qaeda e si svolge nella più assoluta segretezza. Di recente ha fatto scalpore Amina Tyler, la diciannovenne tunisina aderente al gruppo che ha postato foto a seno nudo in rete con la scritta “il corpo è mio”. Amina ha ricevuto immediatamente minacce di morte ed è stata costretta a nascondersi. Sul web circola un video – sulla cui autenticità nessuno giura – in cui la si vede costretta a sottoporsi ad un test di gravidanza dai familiari. Poi a metà maggio si è fatta nuovamente viva scrivendo “Femen” sul muro della locale moschea e tentando di spogliarsi in pubblico. É stata immediatamente arrestata.
In Ucraina Femen si è andato sempre più caratterizzando come movimento ateo che si oppone alle religioni. L’estate scorsa Inna Shevchenko ha bruciato un crocifisso a Kiev. Questo genere di iniziative ha allontanato qualche simpatizzante, ma loro non se ne curano. “Le femministe non possono essere religiose”, dice Hutsol. “Non esistono femministe ortodosse o cattoliche o tanto meno islamiche. É ridicolo. Sono ideologie antagoniste che si escludono a vicenda”. Hutsol aggiunge che, considerati i maltrattamenti subiti dalle donne in nome della religione, “tutte le donne hanno il dovere di lottare contro la religione intesa come strumento di oppressione”. Una posizione che ricorda l’estremismo dei Bolscevichi. Volete distruggere le chiese? “Ne stiamo discutendo”, risponde Hutsol.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 30.5.13
Israele, 1000 nuovi alloggi nelle aree ebraiche di Gerusalemme est, settore a maggioranza araba che i palestinesi rivendicano quale loro capitale
L’iniziativa, che appare una provocazione ai palestinesi e un ostacolo in più al tentativo Usa di rilancio dei negoziati.
La condanna dei pacifisti
qui

il Fatto 30.5.13
L’editore di Brecht verso il fallimento
LA “Suhrkamp Verlag”, protagonista del rinascimento culturale della Germania post nazista, rischia la chiusura
di Carlo Antonio Biscotto

La notizia non è arrivata come un fulmine a ciel sereno, ma ha comunque messo a soqquadro le redazioni dei principali giornali tedeschi e il mondo degli scrittori e degli intellettuali che per oltre 60 anni hanno considerato la casa editrice Suhrkamp Verlag un imprescindibile punto di riferimento del dibattito culturale. Il management dell’editrice ha deciso di chiedere il concordato preventivo, una sorta di fallimento pilotato, e il tribunale fallimentare di Berlino ha dato tre mesi di tempo alla dirigenza per presentare un piano di risanamento e rilancio.
LA REAZIONE dei maggiori giornali tedeschi non si è fatta attendere. La Bild parla di “dramma per la cultura tedesca”; la FAZ punta sullo “sbalordimento e l’incredulità” mentre il Die Zeit titola “lutto per la cultura tedesca”. Il vero dramma – se di dramma vogliamo parlare – va ricercato non tanto nella situazione di dissesto finanziario quanto nel feroce scontro tra le due anime del colosso editoriale venute allo scoperto prima nel 2002 alla morte di Siegfried Unseld, successore di Peter Suhrkamp, poi nel 2010, anno in cui la sede è stata trasferita a Berlino in coincidenza con il 60° compleanno dell’editrice. Da allora la casa editrice non ha avuto più pace perdendo anche molte sue firme prestigiose. Il conflitto tra chi voleva conservare la vocazione elitaria dell’azienda editoriale e chi, temendo la crisi del settore, puntava a incrementare i profitti dando un taglio più commerciale al catalogo, è stato senza esclusione di colpi e con abbondanza di carta bollata e si è concluso, almeno per ora, senza vincitori né vinti e con il probabile fallimento di Suhrkamp. La casa editrice è stata fondata nel 1950 da Peter Suhrkamp, nato nel 1891 a Kirchhatten e morto a Francoforte nel 1959. Subito dopo la prima guerra mondiale, combattuta in un reparto d’assalto, Suhrkamp era tornato all’insegnamento e aveva conosciuto Bertolt Brecht la cui amicizia lo aveva incoraggiato a scrivere e a lasciare l’insegnamento. Nel 1936, dopo essere stato redattore capo della rivista letteraria “Die Neue Rundschau”, divenne amministratore fiduciario delle edizioni Fischer in sostituzione degli eredi di Samuel Fischer costretti a fuggire dalla Germania a causa delle leggi razzia-li. Nel 1944 Suhrkamp, per essersi rifiutato di adeguarsi alle direttive del regime mantenendo contatti con gli artisti antinazisti e pubblicando libri di autori ebrei sotto pseudonimo, fu arrestato dalla Gestapo e rinchiuso nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Fu una esperienza durissima che lo segnò per sempre nel corpo e nello spirito.
Dopo la guerra Suhrkamp decise di seguire la sua strada abbandonando le edizioni Fischer e fondando la Suhrkamp Verlag. Nel 1945 era stato il primo editore tedesco ad ottenere il permesso di pubblicare nella zona americana. Dei 48 autori di cui aveva curato la pubblicazione durante il periodo in cui era stato alla guida delle edizioni Fischer, 33 decisero di seguirlo in questa nuova avventura. Tra questi, i primissimi furono Brecht – “voglio essere pubblicato solamente da Suhrkamp”, dichiarò – Herman Hesse, suo grande amico, Walter Benjamin e Max Frisch.
L’anno seguente uscì Viaggio in Oriente di Hesse, primo volume della leggendaria collana “La biblioteca Suhrkamp” che esiste ancora oggi. La casa editrice divenne nel giro di pochi anni quello che la Einaudi è stata per l’Italia del dopoguerra e la Gallimard per la Francia nello stesso periodo. “Qualcuno riesce ad immaginare la Germania post-nazista senza la presenza dell’editrice Suhrkamp? ”, chiese una volta provocatoriamente Günther Grass.
LA SUHRKAMP Verlag è stata al centro di tutti i fermenti letterari e culturali che hanno attraversato la Germania ponendosi come un volano della rinascita morale e intellettuale del Paese dopo la tragedia del nazismo. Quella che tutti finirono per definire “cultura Suhrkamp” incise in profondità nella vita intellettuale della Germania occidentale, in particolare negli anni 60 e 70. L’editrice pubblicò gli scritti degli esponenti della cosiddetta “Scuola di Francoforte”, in particolare le opere di Theodor W. Adorno e Jürgen Habermas le cui teorie furono decisive nel mettere in moto i moti studenteschi del 1968. Anche la maggior parte dei membri del “Gruppo 47”, vero e proprio laboratorio per altre avanguardie letterarie tra cui quella italiana del “Gruppo 63”, figurano nel catalogo della Suhrkamp Verlag.
Oggi dinanzi al pericolo del fallimento della più prestigiosa casa editrice tedesca, non c’è in Germania chi non ricordi il modo del tutto personale che ebbe Peter Suhrkamp di fare l’editore. “Noi non pubblichiamo libri, pubblichiamo autori”, era solito ripetere. Ed infatti ebbe sempre rapporti strettissimi e sovente di grande amicizia con i suoi autori. Il germanista Raimund Fellinger, redattore capo della casa editrice dal 1979 al 2000 e direttore generale dal 2006, ha ricordato in una recente intervista che la filosofia editoriale di Peter Suhrkamp è proseguita anche dopo la sua morte tanto che egli stesso è solito fare lunghe passeggiate in montagna con Peter Handke prima della pubblicazione dei suoi libri.
“Ricordatevi” – diceva sempre Peter Suhrkamp ai suoi collaboratori – “che anche il più modesto dei nostri autori è una persona creativa e quindi vale più di noi tutti messi insieme”. Già da qualche anno la Suhrkamp aveva perso la sua posizione dominante nel panorama letterario tedesco, malgrado gli sforzi di Ulla Unseld-Berkewicz, vedova di Siegfried Unseld. Dieci anni di tensioni e conflitti si sono per il momento conclusi con la richiesta di fallimento.

«La laicità è morta nel nostro paese»
Repubblica 30.5.13
“La destra fomenta la rivolta c’è un clima da guerra civile”
La paura del filosofo Michel Onfray: “Qui la laicità è morta”
di Anais Ginori

PARIGI — «Siamo in un clima di guerra civile. Aumentano le paure, il risentimento, le angosce: insomma, il carburante della violenza». Il filosofo Michel Onfray non è ottimista su quello che aspetta la Francia dopo le manifestazioni contro le nozze gay e il suicidio dello scrittore Dominique Venner che ha invitato a fare “gesti ecclatanti”. «Quello che noi chiamiamo famiglia — spiega Onfray — non è un affare di sangue, spermatozoi e ovuli, ma è una storia d’amore».
Le prime nozze gay sono state celebrate a Montpellier. Eppure le proteste non finiscono.
«L’arrivo della sinistra al potere ha sempre eccitato le frange più estreme della destra francese, che si mobilitano, si coalizzano. Sono forze che avanzano le loro pedine, come in una partita a scacchi: prima sul matrimonio omosessuale e sulla politica familiare, poi lo faranno sul diritto di voto agli stranieri, sulla pena di morte».
Perché ha criticato l’espressione “matrimonio per tutti”, con la quale il governo ha battezzato la riforma?
«Qui stiamo parlando del matrimonio omosessuale, che tra l’altro difendo. Diciamo pane al pane. E’ sbagliato adeguarsi rispetto agli avversari, non bisogna avanzare mascherati».
Che ne è della laicità dello Stato, così radicata e antica in Francia?
«La laicità è morta nel nostro paese. La République sta scomparendo, sostituita da una democrazia governata da sondaggi e demagoghi, con la quale si vuole imporre una “Europa liberale”. Già da tempo la Francia si è sbarazzata di valori come Liberté, Egalité, Fraternité. Anche laicità o femminismo sono rivendicati a parole ma calpestati nei fatti».
Quali sono i rischi che lei intravede?
«Un clima di guerra civile, alimentato prima da Sarkozy e oggi dall’estrema sinistra di Mélenchon, che rivendica il Terrore rivoluzionario, e dalla famiglia Le Pen, che riabilita ideologi dell’estrema destra come Robert Brasillach. Al governo, destra o sinistra conducono la stessa politica in favore delle banche e del capitale mentre i francesi sentono la loro vita quotidiana sempre più fragile e precaria.
La mobilitazione contro le nozze gay ha rivelato un volto del paese nuovo? C’è chi ha parlato di un Contro-Sessantotto.
«Non credo che ci sia nulla di nuovo. E’ stata l’occasione di riciclare la solita destra nazionalista reazionaria ma di esprimerla con forme diverse, se vogliamo più moderne».

Repubblica Russia oggi 30.5.13
Femminicidio
Gli abusi riguardano 13 milioni di donne ogni anno
I casi di vessazioni in una famiglia su quattro
di Lucia Belinello

Per ora si tratta solo della punta di un iceberg. Ma questo iceberg, adesso, si sta piano piano sciogliendo, portando alla luce la dignità, la rabbia e l'indignazione di donne che hanno deciso di dire basta.
Ogni anno, in Russia 13 milioni di mogli, fidanzate e sorelle sono vittime di violenza. Una famiglia su quattro nasconde tra le mura di casa le lacrime dei maltrattamenti, ma sempre più donne, seppur in numeri ancora ridotti, stanno trovando il coraggio di denunciare i soprusi. Una rivoluzione silenziosa, combattuta in punta di piedi fino alla cornetta di quel telefono che, grazie a nuovi servizi di assistenza, offre la speranza di porre fine ai soprusi.
Come in molti altri Paesi, infatti, anche in Russia è ancora troppa la ferocia che si consuma in silenzio dietro quelle porte chiuse, oltre le quali vicini e familiari preferiscono non guardare. I panni sporchi, si sa, vanno lavati in casa. E poco importa se questi panni si bagnano del pianto di quelle migliaia di donne che sopportano in continuazione gli schiaffi di una società ancora troppo indifferente e tollerante. Dove regna un'omertà diffusa.
Nonostante i pochi dati autorevoli a disposizione (in Russia infatti le statistiche relative alla violenza domestica sono scarse e approssimative, ndr), ciò che emerge con tutta la sua gravità è il silenzio. Nel 60-70% dei casi le vittime non chiedono aiuto. E addirittura il 97% di loro non cerca un sostegno legale. Fra coloro che si rivolgono alle forze dell'ordine, poi, solamente il 3% alla fine arriva a giudizio. Solo ora, lentamente, si sta arrivando a scuotere l'opinione pubblica, fino a poco tempo fa troppo indifferente al femminicidio.
«Tutte le famiglie felici sono simili, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», scriveva Tolstoj in 'Anna Karenina'. Al di là delle denunce, che pure risultano in crescita, nella società russa sono ancora troppi i casi di maltrattamenti coperti dall'ombra del silenzio. Paura, vergogna, dogmi sociali, rischio di ritorsioni. I motivi alla base di questa rassegnata accettazione sono tanti. Quello più evidente, però, è senza ombra di dubbio l'assenza di una normativa di legge che regoli e condanni la violenza domestica ai danni delle donne.
Un primo tentativo di riempire questa lacuna legislativa era stato fatto nel 1995. Con scarsi risultati. Nel 2007, un nuovo disegno di legge era stato presentato alla Duma di Stato. Ma anch'esso è andato in fumo. Da qualche mese una commissione di esperti sta lavorando a un'ulteriore proposta di legge. Si pensava che la svolta sarebbe potuta arrivare nella primavera scorsa. Ma le varie divergenze tra le parti hanno portato a un altro 'niet', che ha bloccato di fatto questa importante conquista in termini di diritti sociali. Provvedimenti analoghi sono già stati adottati da alcuni Paesi della Csi (Comunità degli Stati Indipendenti), rivelandosi particolarmente necessari per frenare le violenze. In Moldavia, ad esempio, i casi si sono ridotti del 30 per cento; in Ucraina, invece, le statistiche parlano del 20 per cento in meno di maltrattamenti tra le mura domestiche.
Secondo una recente ricerca, dagli anni Novanta in Russia sarebbero stati elaborati, inutilmente, oltre 40 progetti di legge. «Purtroppo spesso si pensa erroneamente che ci siano dei problemi ben più gravi da risolvere, rispetto alle violenze che avvengono in famiglia - ha dichiarato Aleksei Parshin, avvocato, attivo nel gruppo di lavoro che sta attualmente mettendo a punto il progetto di legge contro il femminicidio -.Tempo addietro si poneva molta meno attenzione a questi casi. Ora, finalmente, la società e il governo stanno iniziando a prendere più sul serio la questione. Contiamo di portare a termine in breve tempo la nostra proposta di legge a tutela della donna», spiega, mostrando sufficiente ottimismo in merito alla sua battaglia.
«Se ti picchia, vuol dire che ti ama», si sente troppo spesso dire in Russia. In alternativa, vuol dire che la donna in qualche modo è colpevole di qualcosa. «Si tratta di un'idea ancora viva nel subconscio collettivo russo - ha detto Maria Arbatova, scrittrice, psicoanalista e attivista per i diritti delle donne in Russia -. Se i vicini di casa o gli amici sanno che un uomo maltratta una donna, difficilmente chiameranno la polizia. Non si tratta di affari loro, pensano.Talvolta, se il fatto avviene per strada, qualcuno interviene. Quando la violenza si verifica in casa, invece, è molto difficile che qualcuno intervenga». I rari casi di denuncia, poi, vengono spesso archiviati come semplici conflitti familiari, cosa che finisce con l'umiliare ulteriormente le vittime di questi soprusi.
Alcuni psicologi e sociologi ritengono che questo comportamento in un certo senso possa essere riconducibile alla mentalità russa, ancora oggi in parte fondata su principi patriarcali e piuttosto maschilisti. Sembra che alla base di questo modello familiare
ci sia il 'Domostroi', il libro della famiglia, pubblicato nel corso del Sedicesimo secolo e in passato considerato un faro guida nelle relazioni familiari nel Paese, un pò a tutte le latitudini, compresi i grandi centri urbani della Federazione.
Per tendere la mano alle vittime della violenza, in Russia sono stati attivati alcuni centri che si occupano di dare assistenza e aiuto alle donne. Secondo un report stilato dall'associazione 'Anna' sarebbero poco più di 3.300 le fondazioni che in tutto il Paese affrontano questioni di carattere sociale. Solamente 23 di esse, però, sono specializzate nel dare assistenza alle donne. Il resto mescola il femminicidio agli altrettanto drammatici, ma ben diversi, casi di disagio giovanile, abbandono di minori, tossicodipendenza, disagi sociali.
Chi alza la testa e decide di ribellarsi, poi, rischia di dover affrontare nuove e ben più cruente vendette. È per questo, forse, che la maggior parte delle donne continua a sopportare per anni, in silenzio, i soprusi che avvengono tra le mura domestiche, ad opera di qualcuno a cui loro per prime sono affettivamente legate.
Quando finalmente parte la denuncia, nell'arco di pochi giorni buona parte delle segnalazioni (nell'ordine del 75-90 per cento, secondo Amnesty International), viene ritirata dalle stesse vittime. Poco cambia se scatta il fermo per l'aggressore: nella maggioranza dei casi, in breve tempo l'orco viene subito rilasciato. E torna tutto come prima. Sulla base di alcuni dati forniti dal Ministero russo degli Interni, nel registro della polizia sarebbero stati segnalati poco più di 200mila casi di risse familiari, che tuttavia spesso vengono classificati come semplici scaramucce domestiche.
Ora, con l'arrivo di una nuova normativa, più rigida e severa, si spera finalmente di poter offrire davvero maggiori garanzie sociali e legislative alle vittime di questi reati.
Nel nostro Paese con il tempo sta crescendo l'attenzione riservata a questo problema e c'è una sempre maggior consapevolezza che lo Stato e la società devono intervenire per fermare queste situazioni complicate”

Repubblica Russia oggi 30.5.13
Alle radici del disagio
di Laura Zilio

Una qualsivoglia analisi sulla società russa odierna non può prescindere da una considerazione basilare e dalle conseguenze che da essa derivano: la Federazione Russa dell’ultimo ventennio si caratterizza per le stridenti disparità che rendono spesso difficile, soprattutto in ambito sociologico, caratterizzare in modo univoco una realtà tutt’altro che omogenea.
Il contrasto tra lo scintillio delle “due capitali” e la provincia russa; la crescente disparità tra i nuovi ricchi e una moltitudine di cittadini che vivono ai margini o appena sopra la soglia di povertà; i fortunati che hanno accesso a club privati, cliniche mediche all’avanguardia e scuole d’élite e una schiera di famiglie che, dopo i tagli al budget e la riduzione della spesa pubblica destinata ad istruzione e sanità, non riescono più ad accedere nemmeno all’assistenza di base e ai servizi essenziali. Alle difficoltà materiali vanno poi sommati un forte disagio interiore e un marcato disorientamento della popolazione: le generazioni più adulte sbigottiscono davanti al progredire di credenze e mode spesso in contrasto con i valori con cui sono cresciute, apatiche e disilluse perché private improvvisamente dell’ideologia che le aveva guidate per decenni, senza che essa fosse sostituita da alcunché di alternativo; i giovani sono invece alla ricerca di riscatto sociale ed economico ad ogni costo, pur nell’impossibilità di poggiare le loro esistenze sul supporto di solide basi familiari e identitarie. Considerato un tale contesto, non sorprende riscontrare una crisi esistenziale e un esteso disagio familiare che portano la Federazione Russa a essere uno dei Paesi con un alto tasso di violenza domestica sulle donne. Il ruolo della donna nella società russa odierna è il frutto dei settant’anni di comunismo che, grazie alla garanzia di accesso all’istruzione superiore e al mondo del lavoro, con considerevoli sostegni alla maternità e una fitta rete di asili, scuole, mense e consultori, ha portato a un tasso molto elevato di scolarizzazione femminile e a un altrettanto ampio inserimento della donna nel mondo del lavoro. Oggi, a causa dell'elevato numero di decessi dei maschi russi in età lavorativa, la sopravvivenza di migliaia di famiglie russe dipende da madri e nonne. La debole sensibilizzazione della società russa alle problematiche sociologiche, considerate meno rilevanti in un momento sconvolgente di transizione come quello degli ultimi due decenni, ha giustificato sinora le lacune della legislazione russa circa le violenze domestiche. Inoltre, la scarsa fiducia della popolazione che emerge dai sondaggi nei confronti della polizia e, in generale, degli organi di pubblica sicurezza spiegano, in parte, la debole propensione delle donne russe alla denuncia degli abusi.
L'autrice è una studiosa della Russia contemporanea e dei problemi sociali del Paese

La Stampa 30.5.13
Una proposta per fermare il femminicidio
di Simonetta Agnello Hornby

Nel 1909 la contessa Giulia Trigona, dama di corte della regina Elena, all’età di trentadue anni fu accoltellata e sgozzata dall’amante trentenne in una camera d’albergo accanto alla stazione Termini. L’omicida tentò poi di suicidarsi – con un’arma più nobile: una pistola, oggi esposta al Museo del crimine di Roma – e, dopo essere stato condannato all’ergastolo, nel 1942 meritò il perdono reale, su richiesta di Mussolini: morì sette anni dopo nel suo letto, accudito dalla domestica che aveva nel frattempo sposato.
Per la notorietà e il rango dei personaggi coinvolti la notizia divenne di dominio pubblico come un fatto raro, invece la violenza c’era anche allora, e in tutti gli strati sociali. Tanta. Solo che la vergogna delle vittime e il desiderio della gente di non sapere la coprivano di un silenzio di perbenismo. Che io chiamo omertà.
Ho incontrato la violenza domestica all’età di cinque anni. A Siculiana, guardavo dal balcone della cucina – insieme alle cameriere – un ubriacone che la sera tornava nel vicolo in cui viveva. I vicini lo aspettavano per assistere al rito che si ripeteva sempre uguale: assaliva la moglie, lei urlava, chiedeva aiuto, poi i colpi, poi lei cadeva. A quel punto, come seguendo un copione, gli astanti, in coro, chiedevano clemenza, accusavano e commiseravano. I figli piccoli restavano muti. Il teatro della violenza.
Oggi basta un clic per accedere a violenze ben peggiori.
A ventun anni ho visto le ferite e i lividi sul corpo di una cliente dello studio di affari in cui lavoravo, una donna ricca, coperta di regali da un marito che – diceva lei – la adorava. Da allora ascolto con sospetto chi mi dice senza motivo di essere felice.
In veste di avvocato ho visto tanta altra violenza. L’ho guardata negli occhi. Occhi sfuggenti. Dalla verità, dalla responsabilità e dalla giustizia. Non è più tollerabile. Le donne che la subiscono hanno il diritto di dire «no», «basta», ad alta voce. Eppure tante non ne hanno la forza. Il pudore e la vergogna le ammutoliscono. Il loro silenzio è aiutato dalla riluttanza degli altri a lasciarsi coinvolgere e dalla mancanza di un approccio olistico da parte degli enti che dovrebbero assistere loro e le loro famiglie – i figli tendono a ricadere nei ruoli dei genitori: chi vittima e chi aggressore.
La donna che ogni sera attende il ritorno del suo uomo con un misto di terrore e ansia, ma anche la speranza che per una volta lui la risparmi, dev’essere incoraggiata a parlare: può essere aiutata a uscire da quell’inferno. È per questo che ho scritto «Il male che si deve raccontare». Racconto le storie delle mie clienti vittime di violenza e porto la speranza che cambiare vita si può.
Il 29 maggio, il presidente della Camera Boldrini ha incontrato Patricia Scotland, inglese e pari del Regno che da ministro laburista ha sensibilizzato i ministeri di Giustizia e degli Interni e i datori di lavoro sul tema della violenza domestica. Scotland ha dimostrato, dati alla mano, che la violenza domestica può essere sconfitta, vite possono essere salvate e madri e figli possono ricominciare a vivere senza paura. Il suo metodo, semplice ed efficace, migliora l’accoglienza delle donne da parte di enti del welfare e del sociale e della polizia, sensibilizza i datori di lavoro e crea un sistema olistico di sostegno per le donne e i figli tramite un tutor che rimane in carica per tre mesi. Questo ha contribuito a contenere sensibilmente la violenza domestica nel Regno Unito. Scotland ha capito come nessun altro l’immensa solitudine e la paura della vittima – isolata, senza denaro, incapace di gestire la quotidianità e le pratiche burocratiche. E ha capito il danno che subiscono i figli, testimoni, vittime anch’essi e futuri aggressori: due terzi dei minori autori di reato hanno avuto esperienza di violenza domestica, e la percentuale tende a salire. Il tutor coordinerà gli interventi dei servizi compilando un documento per stabilire il livello di rischio: lo stesso giorno il caso sarà portato a una riunione dei servizi che provvederà all’immediato necessario, secondo il livello di rischio. La vittima e la sua famiglia sapranno che per i successivi tre mesi riceveranno aiuto. La recidività delle vittime è diminuita del cinquanta per cento e le condanne sono aumentate. Nella sola Londra le morti sono diminuite da 49 a 5, anche con il concorso dei datori di lavoro delle vittime, che hanno formato la Corporate Alliance Against Domestic Violence (Caadv), una onlus di settecento aziende che sostengono le dipendenti vittime di violenza e di stalking attraverso pratiche efficaci e personale addestrato. Dal 2005, il costo nazionale del mancato lavoro delle donne è diminuito da 2700 milioni a 1900 milioni di sterline.
Il metodo Scotland, adattato alla realtà italiana, può essere usato come un punto di partenza. Ora è il fulcro della Eliminating Domestic Violence Global Foundation, creata nel 2011 e fonte di ispirazione in molti Paesi.
La violenza domestica si può debellare, ma ci sono altri nemici: il pessimismo, la sfiducia e quasi la paura di sperare. Nel Regno Unito la Scotland ha fatto tutto da sola, le donne non sono scese in piazza come in Italia. Noi dunque siamo avvantaggiati, ma adesso è importante che tutte le donne facciano fronte unico contro la violenza, anche con gli uomini – anche gli uomini sono vittime e possono cambiare.
Spero che il libro serva. È un tributo ai miei clienti inglesi e ai miei lettori italiani: lo meritano. Grazie alla generosità della casa editrice, il ricavato delle vendite – inclusi i nostri diritti d’autore – finanzierà la sezione italiana di Edv.

il Fatto 30.5.13
La vita è un sogno o Marzullo lascia Raiuno?
di Nanni Delbecchi

La vita è un sogno o è proprio vero che dalla prossima settimana Gigi Marzullo sparirà dalla notte di Raiuno? Ci sono notizie che lasciano increduli; non tanto per quella nomina a vicedirettore che dal primo giugno dovrebbe costringere Marzullo ad abbandonare il ruolo di responsabile della cultura della prima rete del servizio pubblico (e dunque la conduzione delle sue inesauribili trasmissioni), quanto perché la sola idea di accendere il video nel cuore della notte insonni, alticci o semplicemente tiratardi, e di non imbattersi a colpo sicuro in quel volto occhialuto, incravattato e cotonato assieme ai suoi ospiti che si fanno i complimenti tra di loro, questa sola ipotesi sembra impraticabile razionalmente.
Marzullo come il segnale orario, come le previsioni del tempo, come le estrazioni del lotto? Fuoco. Ma non solo. Marzullo è come la materia oscura dell’universo; sebbene non ne sia stata identificata con chiarezza la composizione, da quando è stato scoperto ha continuato a espandersi senza posa nei palinsesti, e fino a oggi si riteneva che questa espansione non potesse avere fine. Aveva cominciato nel 1989, con le interviste di Mezzanotte e dintorni, sostenuto dai buoni uffici del compaesano Ciriaco De Mita, e si era acquartierato da subito nella notte (farlocca) di Raiuno con un orologio gigante, un paio di sgabelli e qualche tormentone (“La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio? ”, “Qual è la sua paura più paura? ”, “Si faccia una domanda e si dia una risposta”).
SEMBRAVA una rubrichetta passeggera, tipo le meteorine di Emilio Fede; invece per quegli sgabelli e per quei tormentoni, a mostrare le foto dell’infanzia e a raccontare allo psicologo i sogni ricorrenti, ci sono passati a migliaia, e la processione continua 24 anni dopo, dando ragione al Jep Gambardella di Paolo Sorrentino: “Siamo un popolo di intervistati”. Poi si sono aggiunte le altre lounge dedicate al cinema, al teatro, ai libri e si è cominciato a capire che Marzullo non era solo l’anello di congiunzione tra De Mita e Calderòn de la Barca. L’Irpinia era solo una facciata, in realtà l’uomo veniva da molto più lontano, era l’ultima incarnazione di quell’idea bernabeiana, squisitamente democristiana, secondo cui non c’è nulla che non si possa banalizzare in Tv; e che la cultura in Tv sia esattamente questo, ciò che si deve proporre al grande pubblico solo in forma depotenziata e liofilizzata fino alla caricatura. Poi, naturalmente, Marzullo ci ha messo del suo, conferendo alla propria immagine qualcosa di inesorabile. Re Mida di se stesso, Marzullo rende marzullesco tutto ciò che tocca e ne mostra la sostanziale identità: scrittori, attori, artisti, commediografi, registi, critici, politici, ballerine, starlette, Anselma Dell’Olio anche in collegamento telefonico. Così, per quanto la notte della Rai ne abbia viste tante, incluso Gabriele La Porta che commenta Jung, l’idea che da un giorno all’altro Marzullo possa sparire continua a sembrare del tutto improbabile. Ma no, deve essere uno scherzo, Gigi e i suoi ospiti continueranno ad aggirarsi per Raiuno fino alla notte dei tempi; che la vita sia un sogno oppure no, tutto sommato, è secondario.

La Stampa 30.5.13
Orgasmo femminile: è veramente indispensabile?
di Valeria Randone
psicologa
qui

Corriere 30.5.13
Un fenomeno che riguarda sempre di più i minorenni
La pornografia online mette a rischio la sessualità
In crescita costante la «pornodipendenza». Fra le conseguenze calo del desiderio e inaridimento affettivo
qui

Repubblica 30.5.13
Adolescenti
Quei bambini-adulti sulla soglia del mondo
di Massimo Recalcati

La giovinezza esige aria, ossigeno finestre spalancate, universi nuovi, oltrepassamento inevitabile della cornice chiusa dell’ambiente familiare
Dobbiamo chiederci in tutta onestà se sia davvero “normale” una sessualità che pratica l’uso feticistico dei corpi come puri mezzi di godimento

Due recenti storie drammatiche di giovani ci insegnano qualcosa di decisivo intorno al tema della cosiddetta eterosessualità. La prima storia è quella di Davide, il quale sceglie la via della parola per comunicare la sua difficoltà a vivere pubblicamente la propria omosessualità. Egli sceglie la Legge della parola come “alternativa al suicidio”. Diversamente da tanti che non trovano “la parola” e passano all’atto: ultimo il ragazzo di Roma, “deriso” perché gay, che ieri si è lanciato dal terzo piano della scuola, per fortuna senza conseguenze troppo gravi. Invece Davide assomiglia al suo omonimo biblico: la giovinezza gli dà il coraggio di provare, di non fuggire, di gettarsi nella mischia, di rischiare tutto anche se il suo avversario (il pregiudizio omofobo) sembra mostruosamente imbattibile.
Davide si appella pubblicamente all’Altro nella forma di una lettera inviata a Repubblica, manifestando in questo modo la necessità che qualcuno sappia ascoltare il suo grido e gli sappia rispondere. La tentazione mortifera del suicidio è superata dalla forza potente della sua parola. È la parola, ci ha detto, l’alternativa più vera alla tentazione del suicidio. Qual è il dramma di questo ragazzo? Per un verso è quello che attende ogni adolescente. Come abitare un corpo che il trauma della pubertà ha reso nuovo e sconosciuto? Come fare proprio un corpo erotico, sessuale, un corpo che esige la sua soddisfazione pulsionale attraverso altri corpi e che rompe irreversibilmente lo schermo autoerotico del corpo infantile?
Uno dei significati etimologici della parola “adolescenza”, significa “avere un proprio odore”. Mentre il corpo infantile porta con sé il profumo neutro dell’odore di campo (le teste dei bambini hanno tutte lo stesso odore), il corpo dell’adolescente genera nuove forme e, di conseguenza, nuovi odori. La giovinezza è l’età dove ogni corpo acquisisce un odore singolare. La neutralità pacifica del corpo che sa di campo, è alterata da secrezioni strane, più marcate, evidenti, forti, per alcuni genitori rivoltanti, che esigono di essere riconosciute. Non è solo il tempo di una metamorfosi ingovernabile, ma è anche il tempo di una fioritura, di un risveglio di primavera. Il tempo dove il corpo deve saper riconoscere il proprio odore è il tempo della sua massima apertura; non solo dei suoi orifizi pulsionali, ma della vita come tale. La giovinezza esige aria, ossigeno, finestre spalancate, mondi nuovi, oltrepassamento inevitabile della cornice chiusa del familiare. Questo nuovo corpo è sospinto verso l’eterosessualità nel senso che ricerca l’incontro con l’altro corpo, con l’eteros, con il dissimile. Il dramma di cui Davide ci ha parlato è che il suo orientamento sessuale che si dirige verso corpi uguali al suo non sarebbe giudicato eterosessuale dal mondo degli adulti e per questo condannato, schernito, costretto alla clandestinità colpevole anche dai suoi pari.
Una cattiva psicoanalisi ha contribuito (e contribuisce ancora) a questa condanna morale dell’omosessualità ritenuta una vera e propria perversione. Dobbiamo allora provare a rispondere a tutti i ragazzi che come Davide si rivolgono – come giovani Telemaco – ad adulti in grado di saper rivestire il proprio ruolo. È il mondo adulto che ha la responsabilità – culturale ed educativa – di alimentare una falsa rappresentazione dell’eterosessualità fondata sulla differenza anatomica dei corpi (maschile e femminile). Dobbiamo chiederci con tutta l’onestà intellettuale di cui disponiamo: se il legame eterosessuale è un legame con l’Altro sesso, con l’eteros, con l’alterità, siamo davvero certi che sia sufficiente l’eterogeneità anatomica dei corpi a garantirla? O non dovremmo forse pensare che l’eterosessualità indica l’apertura del corpo erotico all’alterità ben al di là della differenza anatomica?
L’eterosessualità non dovrebbe essere considerata ben al di là di una norma morale fondata sulla natura dell’anatomia, come la capacità di costruire un legame tra i sessi (omosessuale, lesbico, “eterosessuale”) che sappia rispettare e amare davvero l’eteros? Siamo così scuri che l’eterosessualità intesa in questo senso sia così presente in tutte i legami cosiddetti eterosessuali? Chiediamocelo: c’è davvero eterosessualità nell’usto feticistico dei corpi come puri mezzi di godimento? C’è davvero eterosessualità in quelle coppie dove l’uomo veste gli abiti di un giudice che decreta senza possibilità di ricorso alcuno, la morte violenta del suo partner? Dov’è in questi casi l’amore autenticamente eterosessuale?
Se prendiamo questa versione dell’eterosessualità come rispetto e amore per l’alterità, possiamo dedurre che nei legami omosessuali potremmo certamente incontrare una patologia perversa – come del resto nelle coppie cosiddette eterosessuali –, ma solo quando il godimento del corpo si spinge verso l’abisso mortale di una appropriazione che diventa distruzione di sé e dell’altro.
Ecco allora apparire la seconda storia. Quella di D.M., il giovane imperturbabile assassino di Fabiana. È un secondo grande tema dell’adolescenza. Non solo come abitare un corpo nuovo e il suo odore, ma come incontrare il corpo dell’altro, la vita dell’altro. L’incontro con l’altro è fonte di sorpresa e di vita, di entusiasmi e di aperture, ma è anche fonte di angoscia e di mortificazione, di terrore e di violenza. La giovinezza è il tempo dove la vita è esposta ai buoni e ai cattivi incontri perché la famiglia non può più proteggere la vita che cresce e che giustamente rivendica il suo desiderio di aria. Di fronte alla contingenza aleatoria dell’incontro gli adolescenti possono oscillare tra gli estremi di rapporti simbiotici, fusionali, vincolanti e l’indifferenza disincantata e cinica di fronte all’amore. Il caso di DM è il caso di una violenza cieca che reagisce alla frustrazione non imboccando la via della parola, ma la quella atroce della vendetta spietata.
Se in Davide la Legge della parola appare come la sola alternativa giusta al suicidio, in DM non c’è appello all’Altro, non c’è invocazione degli adulti. Il figlio non sa essere figlio ma si nomina follemente giudice. Il fanatismo del possesso assoluto lo porta a rivendicare un diritto inesistente di proprietà. Accade sempre – nella vita individuale e in quella collettiva – quando la violenza trionfa. Deve allora bruciare il suo corpo che straziato dalle coltellate supplica pietà. Sente di doverlo fare e non solo per cancellare le tracce del delitto, ma per poter verificare l’inesistenza dell’eteros, dell’alterità che solo una donna sa custodire così intimamente. Per questa ragione Lacan poteva affermare che «l’amore eterosessuale è sempre l’amore di una donna». I genitori di Davide sono presenti e invocati nella lettera che preferisce scrivere in alternativa alla morte. Non conosco la vita di DM. Mi chiedo solo se ha incontrato testimonianze dell’amore per l’eteros. È certo: DM non conosce la Legge della parola, ha scelto la violenza bruta e omicida, non sa amare, ha profanato l’eteros della donna.

Repubblica 30.5.13
Amori, amicizie, crisi esistenziali confidati in classe a un professore
Così mi raccontano i loro turbamenti
di Marco Lodoli

Il sentimento in quegli anni è qualcosa di assoluto, totale Non prevede nessun tipo di tentennamento o esitazione
La ragazzina che era stata abbandonata non mangiava più non dormiva, si feriva spesso da sola con un coltellino

Sull’adolescente, scriveva Vincenzo Cardarelli nella sua poesia più bella, “sta come un’ombra sacra”: nuovo abitante del mondo, partecipe delle sue miserie e delle sue speranze, l’adolescente conserva ancora un legame con un sentimento dell’assoluto. Una vaga e dolorosa percezione della propria unicità gli agita le cellule, l’anima, i pensieri. Solo pochi mesi prima era un bambino, non doveva fare nulla, non gli era chiesto altro che di vivere ed essere felice.
Poi qualcosa cambia, tutto cambia. Deve apprendere a ritagliarsi uno spazio nella confusione, deve irrobustire l’ego, distinguersi, imporsi. Capisce che la vita pretende da lui uno sforzo nuovo, l’indistinzione deve trasformarsi in personalità: inizia la dura lotta per la sopravvivenza e l’affermazione. Appare il desiderio di amare, la brama che spinge e che punge, la paura di non valere nulla ed essere sopraffatto. Questa tensione fisiologica si mescola alle grande domande sul senso della vita: chi sono, che cosa significa tutto questo, perché si vive e perché alla fine si muore? L’ombra sacra avvolge la smania adolescenziale, un cielo lontano e misterioso grava su una natura febbricitante.
Quante volte mi è capitato di ritrovarmi davanti alla cattedra un ragazzo o una ragazza che, mentre gli altri sciamano in cortile per la ricreazione, e si urtano e gridano, avidamente mangiano e si corteggiano, mi raccontava a mezze frasi la sua crisi, la sua pena. Mi ricordo di Valerio, gli occhiali sempre un po’ storti, le unghie smozzicate: si era quasi identificato in Giacomo Leopardi, anche lui si sentiva passero solitario, inadatto alla vita e alla socialità, si sentiva pastore errante della periferia romana, divorato da domande assolute e da risposte infelici. Voleva altri libri da leggere, altre poesie su cui meditare la sera, e io avrei dovuto essere contento di uno studente così attento alla letteratura, e invece no, in quei momenti avrei voluto vederlo spensierato e indifferente come gli altri, calato nel corpo sordo dell’esistenza. Ma l’ortica dell’assoluto la notte lo tormentava.
Il punto in cui a sedici anni il poco e il tutto si fondono per la prima volta è sicuramente l’amore. In un’altra epoca è stata la politica, ma ora sembra un sole tramontato che non scalda l’immaginazione, una faccenda che riguarda solo gli adulti, cioè gli estranei.
Il professore non è proprio un adulto, ormai è una sorta di fratello maggiore, un ragazzo con i capelli grigi al quale si possono ancora confidare i tumulti del cuore sperando in un ascolto, forse addirittura in un consiglio.
Ho raccolto tante storie d’amore in tre decenni di insegnamento, storie dolenti, ovviamente, perché quelle felici vanno avanti senza bisogno di niente e di nessuno. L’investimento amoroso nell’adolescenza è totale, non prevede tentennamenti o esitazioni, dunque è spesso drammatico. Ricordo una ragazza che era stata tradita e poi abbandonata, non mangiava più, non dormiva più, si feriva con il coltellino, stava nella disperazione come le eroine dei romanzi ottocenteschi: e poi l’amore era tornato, e con l’amore un senso di gratitudine infinita verso la vita. Ricordo bene i primi racconti omosessuali, in nulla diversi dagli altri: due ragazze che si prendevano e si perdevano, né con te né senza di te, un trasporto spirituale assoluto e il mondo che si metteva di traverso.
Ma anche l’amicizia a questa età è un bene che non prevede compromessi e mezze misure, è un sentimento che afferra l’anima. Storie intensissime che sembrano misurarsi solo con l’eternità. E purtroppo accade anche che un adolescente muoia in un incidente stradale, e allora per chi resta non c’è pace. La scoperta della morte diventa un sigillo scuro sulla vita. Quella ragazza aveva perso il fratello nel modo più assurdo: «Rideva con gli amici, rideva rideva e d’improvviso gli si è fermato il cuore: professore, ma si può morire ridendo?». E io, adulto e cittadino della mediocrità del mondo, provo a consolare, ad arginare quelle frane amorose, a dare una giustificazione a ciò che sembra non averne alcuna.
È una fortuna poter ascoltare i ragazzi, accogliere quelle parole sempre accese e sbigottite. Loro stanno interamente nell’assurdità tremenda eppure meravigliosa dell’esistenza, non smorzano, non attutiscono, ancora non hanno appreso i piccoli trucchi per mantenersi in equilibrio sul filo. Gli adolescenti corrono, cadono, si rialzano. Hanno bisogno di qualcuno che dia loro una mano per restare in piedi e continuare, e noi abbiamo bisogno della loro fede nell’assoluto, per non ritrovarci seduti, pacati, serenamente sconfitti.