Il 2 e il 3 giugno 1946 nel Paese liberato dal fascismo si tenne il referendum istituzionale indetto a suffragio universale
Dopo
85 anni di regno, con 12.718.641 voti contro 10.718.502 l'Italia
diventava repubblica e i monarchi di casa Savoia venivano esiliati.
Esito elettorale: una débâcle dei partiti
Nella
sezione del Pci dove ero iscritto io c’era un vecchio dirigente che
diceva: “Cosa volete che mi interessi la percentuale. Voglio sapere se
quelli che condividono le nostre proposte politiche sono di più o di
meno dell’ultima volta, a questo servono innanzi tutto le elezioni: a
capire cosa pensano di noi gli elettori”. Le cose oggi sono cambiate, le
percentuali sono divenute importanti per vedere quanti rappresentanti
del partito vanno nelle istituzioni: della credibilità delle proposte
politiche non gli importa nulla, altrimenti avrebbero subito scoperto
che hanno perso tutti.
Carlo de Lisio su il Fatto di oggi
il Fatto 2.6.13
Un Colle solo al comando. Napolitano dà gli ordini
Nel messaggio per il 2 giugno il capo dello Stato mette in riga i partiti: “Vigilerò sulla loro inconcludenza”
E fissa la data di scadenza al governo Letta: “Entro un anno ci sarà una nuova prospettiva politica”.
Un discorso da Repubblica presidenziale
di Antonio Padellaro
Ieri,
all’ora di pranzo, sui teleschermi degli italiani è apparso sua maestà
Giorgio Napolitano. In occasione del 2 giugno, festa della Repubblica,
con tono perentorio ha letto, anzi dettato, le disposizioni ai partiti.
Sulla legge elettorale, sulle misure contro la crisi. E ha perfino
impartito ordini sull’orizzonte temporale dell’attuale governo: entro il
2 giugno dell’anno prossimo l’Italia dovrà darsi “una nuova prospettiva
politica”. E così sia (“Vigilerò”). Sembrava perfino ringiovanito,
molto diverso da quel Napolitano sofferente che camminando quasi si
appoggiava ai suoi collaboratori. Ma questo avveniva prima della
rielezione, che deve avere agito sulle giunture presidenziali come un
unguento miracoloso. Spero di non rischiare il vilipendio se dico (con
vera ammirazione) che ci ha messi nel sacco tutti quanti. A cominciare
da chi scrive, convintissimo che ai reiterati e sdegnosi rifiuti di
ricandidarsi egli avrebbe tenuto fede da uomo di parola, poffarbacco.
Eravamo tutti così sicuri che la sua ultima ora al Quirinale fosse
scoccata che alla presentazione del libro L’ultimo comunista, con
l’autore Pasquale Chessa e Filippo Ceccarelli, ci divertimmo a rivangare
un episodio che già aveva provocato le fulminanti smentite del Colle:
il Napolitano poeta, autore - con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli -
di ispiratissime liriche in dialetto napoletano.
Non sapevamo che
nel frattempo il partito della conservazione stava andando a dama
attraverso una serie di mosse, ancora tutte da ricostruire. Infatti, due
giorni dopo, i sorrisetti si spensero insieme alle speranze di Bersani,
di Marini, di Prodi e dei tanti che avevano fatto i conti senza l’oste.
Da allora nell’osteria non si sente più volare una mosca. Letta a
Palazzo Chigi lo ha imposto lui. Berlusconi non fiata, ossessionato
com’è dalle sentenze. Il Pd sembra un collegio di orfanelli. Mentre la
speranza sollevata da Grillo rischia d’impantanarsi nell’irrilevanza e
nel risentimento. Tutti i giornali (meno uno) sono sull’attenti e non si
muove foglia che lui non voglia, a cominciare dalla nomina del nuovo
capo della Polizia. Nell’intervista a Silvia Truzzi, Andrea Camilleri
parla di “Costituzione mandata in vacca” dopo il Napolitano bis. Ma c’è
qualcosa di peggio: un Paese immobile, paralizzato dalla paura di
cambiare, che cerca le poche certezze in un passato che non passa mai.
In un Paese in cui il presidente della Repubblica già detta la linea a governo e Parlamento, tutti vogliono dargli più poteri.
il Fatto 2.6.13
Re Giorgio dà 12 mesi a governo e parlamento
Videomessaggio per il 2 giugno: “Vigilerò su partiti”
E Letta: “Nuove regole per eleggere il Capo dello Stato”
di Eduardo Di Blasi
È
passato poco più di un mese dall’insediamento del governo di larghe
intese guidato da Enrico Letta, tre dalle elezioni che hanno consegnato
al Paese un Parlamento diviso in tre blocchi poco omogenei. E il governo
e le Camere già vivacchiano. Le riforme si annunciano, le tasse si
differiscono, la legge elettorale, impallinata anche dalla Consulta, non
muta, nonostante tutti dicano di volerla cambiare in un senso o
nell’altro.
È questo lo scenario in cui il presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, rieletto alla carica dopo l’implosione
del Pd nell’aula di Montecitorio al momento dell’elezione del capo dello
Stato, lancia il proprio messaggio alla nazione.
È prassi, in
occasione della festa del 2 giugno, anniversario della Repubblica, che
il presidente parli al Paese. Il suo videomessaggio, però, è qualcosa di
più di un augurio per le sfide a venire: “Viviamo con profonda
preoccupazione il protrarsi e l’aggravarsi della recessione”, inizia.
Chiede che “scatti uno sforzo straordinario di mobilitazione operosa e
di coesione sociale, e insieme un impegno efficace e convergente di
governo e Parlamento”. Ognuno deve fare la sua parte, ammonisce e
ricorda. “Vedete, se tocca ancora a me rivolgervi quest’anno il
messaggio per il 2 giugno, è perché ho accettato – sollecitato da molte
parti – l’onore e il peso di una rielezione a presidente. Ma ho compiuto
questo gesto di responsabilità verso il Paese, confidando che le forze
politiche, a cominciare da quelle maggiori, sappiano mostrarsi a loro
volta responsabili. E il primo banco di prova sta nel discutere e
confrontarsi tra loro liberamente ma con realismo e senso del limite,
senza mettere a rischio la stabilità politica e istituzionale, in una
fase così delicata della vita nazionale”.
Eccola la rotta che il
patto politico instaurato tra Colle e maggioranza larga non può variare.
È lo stesso capo dello Stato a dirigere la nave. E lo dice apertamente,
come tacita conseguenza dell’accordo che lo ha portato a sedere per la
seconda volta al Colle: “E quindi vigilerò perché non si scivoli di
nuovo verso opposte forzature e rigidità e verso l’inconcludenza, né per
quel che riguarda scelte urgenti e vitali di politica economica e
sociale, né per quel che riguarda la legge elettorale e riforme
istituzionali più che mai necessarie”. C’è anche l’orizzonte temporale
dentro cui questa rotta deve condurre in porto: “Di qui al 2 giugno del
prossimo anno, l’Italia dovrà essersi data una prospettiva nuova, più
serena e sicura”.
MENTRE ALL’INTERNO della stessa compagine di
governo Emma Bonino si mostra critica sul disegno di legge che muta la
contribuzione pubblica ai partiti politici (“è l’inizio di un processo
compromissorio non sono così fiduciosa che l’arrivo del ddl in
Parlamento migliori la situazione”, afferma mentre annuncia che i
Radicali potrebbero presentare un referendum sul tema del finanziamento
ai partiti), nella strana maggioranza avanza l’ipotesi di una riforma
costituzionale di lungo periodo che veda l’elezione diretta del capo
dello Stato.
Enrico Letta la annuncia da Trento con la frase “non
potremmo più eleggere il presidente della Repubblica con quella
modalità”, indicando la “fatica della nostra democrazia” quando proprio
nell’aula di Montecitorio, il Pd fu impallinato dai 101 franchi
tiratori, e perse qualsiasi speranza di averne uno e di portare al
governo Pier Luigi Bersani.
Il tema del presidenzialismo e del
semipresidenzialismo è quindi sul piatto, rilanciato tra gli altri anche
da Maurizio Gasparri. Ieri a Roma il professor Giovanni Guzzetta ha
lanciato al Tempio di Adriano la petizione “Eleggiamoci il Presidente”.
La raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare per l’elezione
diretta del capo dello Stato sul modello francese, l’eliminazione del
bicameralismo, la riduzione dei parlamentari e la riforma della legge
elettorale in senso uninominale a doppio turno. All’iniziativa sono
arrivati i messaggi di auguri del ministro Gaetano Quagliariello e
dell’ex segretario del Pd Walter Veltroni.
In un paese in cui il presidente della Repubblica già detta la linea a governo e Parlamento, tutti vogliono dargli più poteri.
Tre
anni fa in un’intervista al Fatto, disse: "Il Pd va verso il suicidio,
avrebbe bisogno di una seduta psicanalitica collettiva". Quasi
profetico.
il Fatto 2.6.13
“Napolitano, il bis e la Costituzione mandata in vacca”
Camilleri fumante: “Dal Colle invasione di campo, non da Repubblica parlamentare
Berlusconi, Marchionne, fino ai Riva: siamo un Paese nelle mani di ricattatori”
intervista di Silvia Truzzi
IL PD, TRA PSICHIATRIA E TOPPE
“Con
‘l’estrosità’ di Bersani il partito è diventato la somma di due anime
grigie, con condizioni psicanalitiche ancor più difficili. O si
raccoglie attorno all’opposizione interna oppure sparisce. Epifani? Solo
un rammendo
UN GERARCA ESIBIZIONISTA
“Le storie
di Berlusconi con le ragazze destano l’ammirazione di tanti maschi e
anche di tante femminelle che vorrebbero essere ‘olgettinizzate’. Tu
porti a casa una ragazza, due, tre. E puoi passare inosservato. Ma lui
se ne porta 30 perché non vuole affatto passare inosservato”
RODOTÀ E I GENI DELLE CARAMELLE
“Appena
ho sentito che M5S proponeva Rodotà ho detto ‘che meraviglia’... eralui
l’alternativa... E quandomai, sono riusciti af ar fare quella figura a
Prodi... Poi hanno dettoche Rodotà ‘non ha telefonato’... Queste cose le
facevo a sei anni: ‘Non mi ha dato la caramella’
La
signora Rosetta apre la porta di casa sorridente. Un filo di fumo ci
guida da Andrea Camilleri, al lavoro nel suo studio: è appena uscito
Come la penso, autobiografia in forma di saggi e racconti
(Chiarelettere). E da Sellerio il nuovo Montalbano, Un covo di vipere.
Nuovo, ultimo no. “Quando mai! L’ultimo Montalbano l’ho già scritto,
quando ho compiuto ottant’anni: posso dire che il commissario non muore.
E che non sposa Livia, non è tipo da matrimonio Salvo Montalbano”. Lui
no, ma Andrea Camilleri sì: quest’anno fanno 56 anniversari di nozze.
“Ci vuole tanta voglia di stare assieme. E tanta pazienza”. “Ma il
commissario è diventato un fedifrago cronico”, proviamo a protestare. “È
perché i maschi quando sentono arrivare la vecchiezza diventano di una
fragilità sentimentale incredibile. Quando l’ho detto a mia moglie, mi
ha risposto: Spero che non sia autobiografico, Andrea”.
In Come la penso tratteggia una sorta di ritratto “genetico” dell’italiano: impietoso.
C’è
un modo di pensare, nell’italiano, che è ancora fascista: piace la
prevaricazione, la sopraffazione. È un virus mutante, come quello
dell’influenza. Si fa il vaccino e già il virus è cambiato. Noi
italiani, è sgradevole dirlo, non amiamo i politici che ragionano e
agiscono onestamente. Ferruccio Parri, un uomo mite, onesto, era appena
stato nominato presidente del Consiglio e già tutta l’Italia lo chiama
“Fessuccio”. Non piacciono, all’italiano, le persone dimesse: bello il
luccicore delle divise, bella la parola tonante. Berlusconi no, non è un
fascista. Ma ha un modo di proporsi, da gerarca, che piace molto perché
è speculare a una certa mentalità italiana. I giudici scrivono: “Anche
da presidente del Consiglio gestì una colossale evasione fiscale”. In un
Paese normale, questo avrebbe annullato Berlusconi; in Italia gli fa
guadagnare voti.
Che dice delle ragazze?
Chi è causa del suo
mal pianga se stesso. Credo che anche queste storie destino
l’ammirazione di tanti maschi italiani, e pure di tante femminelle che
vorrebbero essere “olgettinizzate”: mettiamo sul mercato questo verbo.
Tu ti porti a casa una ragazza, due, tre. E puoi passare inosservato. Ma
lui se ne porta a casa trenta perché non vuole affatto passare
inosservato: è scioccamente esibizionista.
Su MicroMega lei ha sostenuto l’ineleggibilità di Berlusconi.
I
suoi cosiddetti avversari dicono: “Preferiamolo batterlo
politicamente”. Solo che non ci sono mai riusciti. E dire questo,
batterlo politicamente piuttosto che per vie giudiziarie, è sottilmente
pericoloso. I processi se ne vanno per i fatti loro e non si tratta di
battere Berlusconi, si tratta di giudicarlo per i reati che ha commesso o
non commesso. Dire: preferisco sconfiggerlo politicamente, significa
opzionare che la giustizia sia alleata dei politici. L’unica via che
hanno è quella di ricorrere a questa legge.
Come fanno a far valere l’ineleggibilità? Il Pdl sta al governo con il Pd...
Io
non faccio parte del Pd: se la vedano loro, che si sono consegnati mani
e piedi a Berlusconi. Secondo me andrebbe rispettata la legge.
Cadrebbe il governo.
Non
so se a Berlusconi converrebbe far cadere il governo, l’Italia è in una
situazione difficilissima. Ma me lo faccia dire: come cittadino sono
stanco dei ricatti. L’Italia è diventata un Paese che vive di ricatti. E
non riguarda solo Berlusconi. Il ricatto lo fa Marchionne, lo fanno i
Riva a Taranto. Ormai siamo condizionati dai ricattatori.
Lei ha la stessa età del presidente Napolitano.
Sì,
siamo del ‘25 tutti e due: la rielezione non era cosa. Aveva fatto bene
quando aveva detto “Me ne vado e buona sera”. Il secondo mandato è
stato un errore, sia per chi l’ha proposto sia per chi ha accettato.
Un passaggio strano per i modi, quasi da Repubblica presidenziale.
Da
quel momento tutto il fatto costituzionale è andato a vacca. C’è stato
un allentamento delle briglie costituzionali, tanto valeva – a lume di
logica e di naso e di buon senso – fare un governo del Presidente. È
stato più grave l’intervento sui partiti del capo dello Stato. Una sorta
d’invasione di campo, un fatto non da Repubblica parlamentare. Bisogna
rispettare la Costituzione: non devo essere io a dirlo, dovrebbe essere
il presidente Napolitano. Il secondo mandato non è proibito, ma non è un
caso che non sia mai successo. Di solito, poi, uno non arriva a fare il
capo dello Stato a 40 anni: due mandati fanno 14 anni e te ne vai a 54.
Qui te ne vai a 95.
Non un bel segno non aver trovato un’alternativa.
Appena
sentii che i Cinque Stelle proponevano Rodotà, feci un balzo di gioia.
Dissi a mia moglie: “Che meraviglia, ora agguantano al volo questa liana
sospesa, come Tarzan. Ed è fatta”. Quando mai... e sono riusciti a far
fare quella figura a Prodi, Dio mio. L’alternativa c’era, era Rodotà.
Cosa ostava a Rodotà?
Loro hanno detto che non ha telefonato...
Queste
cose io a sei anni le facevo. “Eh no, perché non mi ha dato la
caramella”. M’ha telefonato, non m’ha telefonato: non possono essere
ragioni valide per la politica. Sono ragioni infantili, piccole scuse.
Se ne possono trovare di migliori.
Tre anni fa in un’intervista al
Fatto, disse: "Il Pd va verso il suicidio, avrebbe bisogno di una
seduta psicanalitica collettiva". Quasi profetico.
Devo ammettere,
ahimè, che in queste ultime elezioni ho suggerito di votare Pd. Ho
aderito a un invito di Alberto Asor Rosa. Lui temeva che un Pd debole
fosse costretto ad allearsi con Monti: si pensava che Monti avrebbe
avuto un successo maggiore. E l’idea di Asor Rosa era portare il Pd a
un’alleanza con Sel, invece che Monti. Sbagliammo i calcoli, entrambi.
Tutto potevamo prevedere, tranne le estrosità di Pier Luigi Bersani.
Estrosità?
Eh,
chiamiamola così. Dissi quel fatto della psicanalisi per via delle due
anime del Pd: una cattolica e una ex comunista. Invece la cosa è
risultata ancora più complessa: la lunga convivenza tra queste due anime
ha fatto sì che invece di essere una bianca e una nera, diventassero
tutte e due grigie. Creando situazioni psicanalitiche ancora più oscure.
Ora, onestamente, siamo più da psichiatria che da psicanalisi.
Che fine farà il Pd?
Sparisce. O si raccoglie attorno agli oppositori interni, come Civati.
Epifani?
Una toppa.
In
questi giorni arrivano dalla sua Sicilia notizie del processo sulla
trattativa Stato-mafia. Che idea si è fatto di questa storia?
Dunque:
uomini dello Stato e mafiosi sono accusati di avere trattato insieme.
Tu puoi ipotizzare che le prime trattative si svolsero con Totò Riina.
Puoi pensare che un capomafia come lui vede sedersi davanti a sé un
colonnello dei Carabinieri e non gli chiede le commendatizie?
Cosa sono?
Chi
c’è dietro, chi ti manda. Da questa parte abbiamo un capomafia di
grande potere e grande forza, dall’altra un semplice colonnello dei
Carabinieri. È chiaro che mai lo avrebbe ricevuto se questo colonnello
dei Carabinieri non gli avesse portato le credenziali. Cioè a dire:
dietro di me, c’è questo e quest’altro ministro. E te ne do anche la
prova. Oggi due ministri sono accusati di falsa testimonianza: è cosa da
poco, uno scherzetto. Il generale Mori non ha mai detto chi lo mandò,
ma è chiaro che non andò da solo. Nemmeno l’avrebbero fatto entrare.
Nella seconda fase della trattativa intervenne Provenzano, con
l’eliminazione di Riina: era indispensabile levarlo di mezzo, per poter
trattare seriamente perché le pretese di Riina erano eccessive.
Dopodiché un ex ministro viene a dire: “Ho allentato il 41 bis di mia
spontanea volontà, decidendo da solo”. E va bene, allora. Questo
processo ci viene a raccontare solo la mezza messa, come si usa dire
dalle mie parti. La vera messa forse era nell’agenda di Borsellino.
Non sapremo mai la verità?
Ma
quando mai abbiamo saputo la verità sulle cose italiane! Pensiamo alle
stragi: Bologna, piazza Fontana, l’Italicus. In Italia esistono solo i
servizi deviati, quelli non deviati no. Tutto il casino, tra il Colle e
la Procura di Palermo, sta a dimostrare, così a fiuto, che la cosa è
talmente grossa che hanno paura di uno sconvolgimento istituzionale, se
la verità venisse a galla.
Possibile che non abbiamo anticorpi verso tutto questo?
Prendiamo
l’informazione. I giornali degli anni Cinquanta parlavano chiaro:
c’erano polemiche anche forti, ma l’informazione era esaustiva, non
parziale come ora. A quei tempi noi ci esercitavamo nella libertà, non
l’avevamo avuta per tanto tempo. Le tribune politiche si svolgevano di
fronte a 30 giornalisti, liberissimi di fare tutte le domande che
volevano al politico di turno. Le domande non erano concordate prima, le
domande erano a levare la pelle. Oggi è tutto concordato e i
giornalisti scelti a seconda della convenienza. Ho sentito un giorno un
cronista chiedere a Tony Blair: “Lo sa che lei ha le mani sporche di
sangue? ” E lui, dopo un momento di esitazione, si è messo a rispondere.
Provate a rivolgere una domanda di questa violenza a un politico
italiano. Non è più possibile, negli anni Cinquanta era possibile.
Vale anche per la produzione culturale?
Il
fervore di quei primi anni del Dopoguerra era dovuto al fatto che il
mondo si apriva davanti a noi. E tutto quello che ci era stato negato – i
grandi scrittori americani, i musicisti, i pittori, i francesi, gli
inglesi – provocava un desiderio di linfa culturale e vitale. Tu ne eri
così pieno che avevi la voglia di restituirla. Poi c’è stata una sorta
di saturazione. E quando arrivò la Democrazia cristiana con la censura,
fu in un certo senso stimolante: ti ribellavi alla censura.
Ogni censura trova il suo antidoto, si dice.
Ma
certo. Mi ricordo quando Andreotti proibì L’Arialda con la regia di
Luchino Visconti e successero macelli. Questo ci teneva svegli. Ora c’è
un assopimento, un andazzo, senza più un vero scontro culturale.
Non è che abbiamo meno strumenti intellettuali?
Le
persone si sono disabituate. Ormai tutti sono dei seguaci delle
fabbriche del credere. La fabbrica del credere numero uno è la
televisione: quello che dice la televisione è Vangelo.
Internet è una contromisura?
Assolutamente.
Se ci fossero state solo le tv senza Internet non avremmo avuto le
primavere arabe, non sarebbero state possibili senza comunicazione
diretta, non mediata. La comunicazione mediata è velenosa, è
contraffatta.
Di mezzo ci sono i media, appunto.
E le
proprietà: un giornale come il Fatto, se dovesse dipendere da un
proprietario, sarebbe così libero di scrivere quello che scrive? Non
credo. Quando c’era un solo canale in televisione, il colonnello
Bernacca leggeva le previsioni del tempo. E diceva: “Domenica potete
fare tutti una bellissima gita, perché splenderà il sole”. E la domenica
veniva una pioggia fottuta. O viceversa. Io avevo un compare, Peppe
Fiorentino, il quale sentiva le previsioni di Bernacca e diceva: ”OI po
si o po no ‘u paracqua m’u porto”. E allora dico: quando guardate la
televisione, portatevi appresso il paracqua. Cioè a dire: apritelo, in
modo che il cervello non vi si bagni e voi possiate ragionare di testa
vostra; altrimenti la tv v'inonda. Ma è un esercizio difficile, anche
perché si dice che la Rai offre la possibilità di avere tre canali, di
cui il terzo è quello più di sinistra. Ma dove? Come segnale stradale? A
momenti ho sentito più elogi di Berlusconi sul Tg3 che sul Tg1. Dov’è
tutta questa differenza? Ai miei tempi c’era.
Questo dipende dal fatto che anche i partiti si sono omologati?
Mi
rifiuto di chiamare quello che vedo e sento in questi ultimi tempi
“Politica”. Politica oggi è sinonimo di corruzione. Vogliamo dissentire?
Dopo Mani pulite sembrava chissà che cosa, invece siamo ridotti peggio
di prima. Ed è del tutto trasversale. Una volta almeno Berlinguer poteva
permettersi di teorizzare la diversità, ora il signor Penati mi pare
che appartenga al Pd. Come il presidente della Provincia di Taranto.
L’Italia dei Valori te la raccomando. Alla gente comune, che dice “sono
tutti ladri” non gli puoi dare torto. Perfino i consiglieri regionali e
comunali rubano. Allora perché io lo devo chiamare “uomo politico”? Lo
chiamo ladro, perché i ladri sono quelli che rubano.
Una politica che cambia casacca nel giro di ventiquattro ore è politica?
In
Sicilia si dice: u porco pa' coda e l'omo pe' a palora. Il porco si
riconosce perché ha la coda a tortiglione. E l’uomo si riconosce per la
parola data. Dicono: “Non faremo mai il governo con Berlusconi”, allora i
cittadini li votano. Dopo un giorno, fanno il governo con Berlusconi.
Tu non sei un uomo politico, sei un truffatore. Perché dovremmo avere
fiducia in una corporazione che non fa altro che difendersi?
A cosa pensa?
Do
un esempio, incontrovertibile. La Camera nega l’autorizzazione a
procedere per Cosentino. Appena lui decade, se ne va in galera. Allora,
io ho fiducia nella politica. Non ho fiducia in questa cosa oscena che
ci spacciano per politica.
I partiti sono la vera antipolitica?
Non
c’è dubbio. Sono la negazione della politica. Dicono che in politica
tutto è possibile. Non è vero. In politica sono possibili più cose, ma
non “tutto”. Altrimenti è un bordello, non politica. La politica è un
patto che va continuamente rispettato tra gli elettori e coloro che
vengono votati per rappresentare i cittadini. Ma è tradito dal fatto che
questa legge elettorale fa sì che l'uomo politico non rappresenti un
cazzo, perché è stato nominato dalle segreterie dei partiti e non
votato. L’uomo politico, se lo possiamo chiamare così, è sempre più
negato ai suoi doveri. Non solo: proprio questo porta a non rispettare
le regole interne, vedi i 101 che votano contro Prodi.
Che pensa di Grillo?
Non
so che pensarne. Una volta dissi: probabilmente i suoi grillini sono
migliori di lui, più concreti. Lui è un capopopolo, un trascina folle.
Poi quando si arriva al concreto della politica probabilmente lì in
mezzo c’è qualcuno che è capace di fare la buona politica: hanno voglia
di fare l’interesse dell’Italia. Non sono ridotti come la stragrande
maggioranza dei politici italiani a fare il proprio interesse, o quello
del partito.
Oltre i Cinque Stelle?
La Boldrini è una donna
che si è occupata di profughi e rifugiati. Ebbene, ha accettato la
candidatura di Sel e alla Camera ha tenuto un discorso estremamente
politico, anzi di bella politica. Finalmente.
C’è un’ondata di rivalutazioni della Prima Repubblica. Lei ne ha nostalgia?
Ma
per carità! La Prima Repubblica è stata una prova generale andata male.
La Seconda non è andata meglio, la Terza sta andando peggio. Però non
mi va di essere pessimista: gli elementi buoni a un certo punto si
stancheranno di starsene tranquilli. Mi ricordo una frase bellissima di
Alberto Savinio. Dicevano: “Dio riconoscerà i suoi”. E Alberto Savinio
chiosava: “A fiuto”, perché una volta i cattolici non si lavavano per
non commettere peccato mortale toccandosi le parti intime. Ecco, quelli
giusti si riconosceranno a fiuto, indipendentemente dal partito cui
appartengono.
Una rivoluzione?
Fino a oggi il popolo
italiano ha dimostrato una pazienza e una resistenza psicologica
notevoli. Basta pensare alla disoccupazione dilagante, alla difficoltà
delle famiglie. Grillo ha ragione quando dice di aver incanalato un
malcontento che avrebbe potuto anche essere violento.
La politica, compreso il governo tecnico, ha dimostrato un sostanziale disinteresse verso il disagio sociale.
Questi
qui vivono in un ventre di balena! Non hanno nessun contatto con la
gente, perché non sono stati più eletti. Il Papa tedesco è stato
allevato sempre dentro la Chiesa, questo nuovo ci fa un’enorme
impressione perché la sua origine è in mezzo ai poveri. Anche se pure
lui... Va benissimo ricordare don Puglisi, ma si è ben guardato da
ricordare Don Gallo. Quello sì che rompeva veramente i cabasisi... E
così il Pd ha cominciato a morire quando ha perso il contatto con la
base, con i lavoratori. Ma perché il Pd dovrebbe occuparsi dei
lavoratori?
Forse perché è un partito di sinistra?
S’illude, cara. Di lavoro si occupa Sel, se ne occupa Landini. Che infatti ormai sembra un marziano.
COME LA PENSO, di Andrea Camilleri ag. 352 - Chiarelettere 13,9 €
l’Unità 2.6.13
Il Cav: «Ora il presidenzialismo»
Ospite del festival dell'economia di Trento Enrico Letta non chiude al presidenzialismo
Berlusconi apprezza le parole di Letta
di Federica Fantozzi
Detassazione
del costo del lavoro e nuove norme per l’elezione del presidente della
Repubblica. Silvio Berlusconi incassa con soddisfazione le ultime
aperture del premier Enrico Letta. Scegliendo di leggerle come una prima
convergenza sulla road map per le riforme: prima il riassetto
dell’architettura costituzionale, e magari l’agognato
semipresidenzialismo, e solo alla fine la modifica della legge
elettorale.
Con il Porcellum saldo in sella, come polizza
assicurativa nel caso in cui il Cavaliere decidesse infine di staccare
la spina. Scenario rispetto al quale i tempi cominciano a stringere.
L’ultima deadline possibile, a questo punto, è l’ipotesi di un «fallo di
reazione» se la Corte Costituzionale, il prossimo 19 luglio, respingerà
il ricorso chiesto dai legali di Silvio e confermerà la condanna nel
processo Mediaset, con tanto di interdizione dai pubblici uffici. Un
esito che vanificherebbe la speranza di ritorno in primo grado del
procedimento e la conseguente possibile prescrizione.
BRACCIO DI FERRO
I
falchi di via dell’Umiltà si augurano che sia il pretesto per far
saltare il banco e tornare alle urne in autunno. Altrimenti, si tornerà a
parlare di elezioni soltanto a primavera prossima, magari in
concomitanza con le Europee 2014. Intanto però, dopo la brutta giornata
in cui i pm nel processo Ruby-bis hanno descritto «un sistema
orgiastico» ad Arcore evocando «ragazze assaggiate come vini»,
sull’umore di Berlusconi è tornato a splendere un raggio di sole.
Durante
il pranzo a Villa Certosa Alfano lo ha rassicurato che il governo
centrerà i suoi impegno, e che il ministro delle Riforme Quagliariello
si sta muovendo nel solco tracciato insieme. Meno definita la situazione
sulle fatidiche «misure choc per l’economia». Dove si profila un
braccio di ferro. Con Letta e Saccomanni orientati a «rivedere» l’Imu
per la prima casa ma non ad abolirla tout court, preferendo concentrare
la loro azione al fine di evitare l’aumento dell’Iva e ridurre
l’imposizione sul lavoro. Mentre il Cavaliere minaccia battaglia: «Le
risorse ci sono, non faremo un passo indietro sull’Imu. Lo abbiamo
promesso ai nostri elettori, adesso bisogna mantenere gli impegni».
E
dunque, l’ordine alla delegazione governativa del Pdl è chiaro: tenere
gli occhi aperti sulla partita di via XX Settembre. Perché il leader non
è disposto «ad accettare giochini». Il doppio binario va avanti, e
nessuno è così ingenuo da ipotizzare che Berlusconi si accontenti di un
percorso condiviso sulle riforme a spese dell’abolizione della tassa
sulla prima casa.
PROFONDO ROSSO
Nel partito, tutto è
congelato. Ulteriori mutamenti degli organigrammi avranno luogo solo
quando se ne saprà di più sulla sorte del governo. Del resto, Alfano ha
fatto sapere di non essere intenzionato a mollare la gestione del
partito, anche se sa che lo status quo non potrà durare a lungo. Per
ora, la guerra dei nervi va avanti.
Anche perché nessuno ha
interesse a intestarsi la guida el Pdl proprio adesso che si preparano
lacrime e sangue. Se il Pd piange per il taglio dei finanziamenti
pubblici, il Pdl certo non ride. Da tempo ha le casse vuote, e il
Cavaliere non ha ancora deciso se e quanto intervenire. Sei mesi fa, era
il novembre 2012, il fedelissimo Rocco Crimi si è dimesso da tesoriere,
sostituito dall’ex An Maurizio Bianconi (che disse: «Silvio non paga il
metrò a nessuno»). Non un semplice avvicendamento bensì un segnale
preciso. Crimi ha lasciato nel pieno delle polemiche sulle primarie (mai
fatte) nel centrodestra e la fronda (fallita) per pensionare Silvio. Un
modo per testimoniare il disamore del capo per la sua creatura dal nome
«che non scalda il cuore». Una ferita che non si è ancora rimarginata
del tutto.
Fatto sta che a fine mese scade il sontuoso contratto
d’affitto di via dell’umiltà, e già da Pasqua i dipendenti sono stati
invitati a fare gli scatoloni. Tra i rumors c’è quello di una nuova
destinazione all’Eur, assai più lontano dai palazzo del potere. E
soprattutto, la paura di ulteriori tagli all’organico, dopo i contratti a
termine e le collaborazioni non rinnovati dal capogruppo Brunetta, è
molto concreta.
Anche perché nell’ultima riunione Berlusconi aveva
avvisato tutti: «Soldi in arrivo non ce ne sono». I tempi delle vacche
grasse sono finiti, ma nessuno sa che tempi si avvicinino.
Repubblica 2.6.13
Ma Berlusconi resiste “Voglio il Porcellum”
di Goffredo De Marchis
«IL PORCELLUM non va demonizzato». Per Silvio Berlusconi l’attuale legge elettorale è una coperta di Linus che non si può abbandonare a cuor leggero nemmeno davanti al nuovo richiamo di Giorgio Napolitano. È la garanzia di tenuta del modello berlusconiano.
IL PDL non punta a rompere il patto solenne siglato al Quirinale per la nascita del governo delle larghe intese e per una soluzione sul sistema di voto. Anche i “falchi” del centrodestra sanno bene che il giudizio pendente alla Consulta sulla norma Calderoli, costituisce un obbligo a cambiare la legge, tanto più se si sogna un ritorno alle urne in tempi brevi. Però l’obiettivo rimane quello delle correzioni light.
Se il percorso delle riforme costituzionali dovesse subire degli arresti, non deve riuscire il pressing per un ritorno al Mattarellum, ossia all’uninominale maggioritario. «Il mio invito — dice il capogruppo alla Camera Renato Brunetta — è non indulgere a facili luoghi comuni contro il Porcellum».
Luoghi comuni che non appartengono al capo dello Stato, ovvio. «Trovo le sue parole condivisibili al 100 per cento», dice Brunetta. Ma sul Porcellum va fatto un ragionamento meno frettoloso. Il capogruppo se la cava con due battute. «Una parte della stessa Corte costituzionale è stata eletta da un Parlamento votato con la legge vigente», sottolinea. Non solo. «Napolitano ha avuto la conferma da rappresentanti scelti con la Calderoli. Con questo voglio dire che attraverso il Porcellum si possono fare anche cose buone, direi ottime».
Con Berlusconi, con la sua idea che «con la legge elettorale non si mangia», dovrà fare i
conti il governo e il Partito democratico. È una strada in salita e lo si è capito di fronte al compromesso raggiunto sulla mozione votata dal Senato e dalla Camera questa settimana. Eppure Enrico Letta vuole andare fino in fondo sapendo che il percorso riformatore rappresenta una assicurazione sulla durata dell’esecutivo. Se la resistenza sul Porcellum è una tattica del Pdl, il premier rilancia ipotizzando una forma di elezione del presidente della Repubblica diversa da quella in vigore. Può essere la chiave per sbloccare l’ingorgo, visto che il semipresidenzialismo è la bandiera berlusconiana.
Ormai, l’ipotesi presidenzialista non è un ostacolo insormontabile dentro il Partito
democratico. Le virate in direzione del sistema francese sono tante. Da Walter Veltroni a Matteo Renzi, da Romano Prodi al segretario Guglielmo Epifani. Il tabù appare superato. Anche se non mancano le voci critiche. Rosy Bindi rifiuta l’idea dell’elezione diretta. La saldatura tra spezzoni del Pd e Sel nasce sulla base di un’opposizione netta a modifiche corpose della Carta costituzionale. La direzione del Pd di martedì sarà l’occasione per una discussione, soprattutto dopo lo strappo (ricucito) sul Matterellum. Però il fronte semipresidenzialista si allarga e può consentire un dialogo meno condizionato con chi invece difende la Costituzione vigente. Come Libertà e giustizia che oggi manifesta a Bologna con Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà.
Il ministro dei Rapporti col Parlamento Dario Franceschini è convinto che un punto d’incontro si possa trovare. Il percorso di riforma è stato riportato nell’ambito parlamentare, la Convenzione non è più la Costituente mista parlamentari ed esterni. Cioè, una sede incostituzionale. Si seguirà in sostanza l’articolo 138, quello che regole le modifiche costituzionali. Dunque tutte le forze in campo saranno libere di esprimersi. La commissione di saggi invece potrebbe vedere la luce la prossima settimana. «Tutte le correnti di pensiero saranno rappresentate », annuncia il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello. Rodotà, nonostante il pressing, non ne farà parte. Ma durante il lunghissimo colloquio (due ore) con Letta di qualche giorno fa, l’ex garante avrebbe indicato dei nomi di giuristi che rappresentano posizioni vicine alle sue. Palazzo Chigi ha apprezzato questa disponibilità al confronto.
Alla fine i saggi saranno 25, forse qualcuno di più per avere tutte le voci e l’obiettivo è varare la commissione in pochi giorni. In uno dei prossimi consigli dei ministri invece sarà presentato e votato il disegno di legge costituzionale per la nascita della Convenzione parlamentare con le commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato. La data limite è il 30 giugno, scritta con chiarezza nella mozione approvata mercoledì.
Repubblica 2.6.13
Alfano: "Elezione diretta del Capo dello Stato, ora l'intesa con il Pd è possibile"
Dopo le parole di Letta - che ieri ha detto "mai più capo dello Stato con le vecchie regole" - il segretario del Pdl torna alla carica: "Dai democratici ci arrivano significativi spiragli". E l'ipotesi del presidenzialismo divide il Pd
qui
l’Unità 2.6.13
Il pericolo presidenzialista
Partiti marginali
di Mario Dogliani
La
questione di fondo alla quale possono essere ricondotte tutte le
discussioni sull'attuale situazione politico-istituzionale del nostro
Paese si riduce a questo: i partiti italiani sono così marci che non si
può immaginare nessuna loro capacità di rappresentanza e di mediazione
delle «concezioni del mondo» e degli interessi, e di garanzia della
disciplina parlamentare? O no?
Nel primo caso non resta che
blindare le istituzioni, trasformando la nostra democrazia in una
democrazia d'investitura, e rendere così i partiti sostanzialmente
inutili: è questo il cuore dell'opzione presidenzialista oggi così forte
e diffusa. Nel secondo caso si deve operare in primo luogo
culturalmente e politicamente sui partiti, per restaurare la loro
funzione storicamente e costituzionalmente propria, e in secondo luogo
si deve offrire loro una arena di scontro delle reciproche posizioni,
necessariamente plurali e dunque necessariamente divergenti, e un luogo
di esercizio di responsabilità per la necessaria mediazione.
L'alternativa è netta: se i partiti sono o sono irrimediabilmente
degenerati in «sterco del demonio» bisogna ridurre al minimo la loro
capacità
di nuocere. E dunque democrazia d'investitura, e cioè elezione
sostanzialmente diretta del governo, cancellazione della mediazione
politica del pluralismo, e sospensione del controllo politico
(parlamentare e sociale) tra un’elezione e l'altra. Se questa
degenerazione non si è ancora totalmente compiuta, occorre, molto
semplicemente, oltre all'azione politica tesa a migliorare la qualità le
virtù della classe politica (e diciamolo senza paure, anche dei
cittadini), difendere l'impianto parlamentare della Costituzione
vigente. E qui si pone una questione immediata. Posto che il primum sono
le virtù dei governanti e dei cittadini e che dunque il mito delle
riforme costituzionali è in realtà l'esibizione fuorviante di un capro
espiatorio resta la questione dell'atteggiamento da tenere nei confronti
del percorso di revisione che è stato avviato.
Sgomberiamo il
campo da alcune questioni preliminari. Se si volesse intraprendere una
strada diversa da quella indicata dall'art. 138, che restringesse il
protagonismo del Parlamento e il controllo del corpo elettorale, si
dovrebbe essere immediatamente e fermamente contrari, per il carattere
oligarchico dell'operazione. Così però non è: il percorso indicato dalla
mozione di maggioranza, approvata dalla Camera il 29 maggio scorso,
rispetto alle ipotesi iniziali (documento dei cosiddetti saggi,
richiamato da Letta in sede di illustrazione del programma di governo)
contiene uno scostamento dalla procedura di cui all'art 138 molto
minore, che si riduce a questo: la predisposizione in sede referente
delle leggi di revisione avverrà non separatamente, ad opera delle
Commissioni di ciascuna Camera, ma ad opera di un Comitato bicamerale.
Tutto il resto rimane intatto: il carattere meramente referente del
Comitato e l'approvazione da parte dei due rami del Parlamento con piena
possibilità di emendamenti. Si ipotizzano poi alcuni rafforzamenti
delle garanzie: in primo luogo la possibilità di produrre più leggi di
revisione, avente ognuna un oggetto omogeneo, in modo da consentire
referendum distinti che non mettano il corpo elettorale di fronte
all'aut-aut, prendere tutto o lasciare; e la possibilità di indire
referendum anche per leggi approvate a maggioranza superiore ai due
terzi. Va poi detto che la revisione dovrà limitarsi ai Titoli I, II,
III e V della parte seconda della Costituzione (cioè Parlamento, Capo
dello Stato, Governo e Autonomie territoriali), con esclusione dunque
dei principi fondamentali, dei diritti di libertà e sociali e della
giustizia.
C'è da chiedersi se sia veramente utile ricorrere a una
deroga dell'art. 138 per introdurre così lievi modificazioni. Se tutto
si limitasse alla sostituzione del Comitato bicamerale alle Commissioni
delle Camere, sarebbe davvero poca cosa. La previsione della revisione
attraverso una pluralità di leggi omogenee e la obbligatorietà del
referendum (che non deve surrogare la ricerca di alleanze il più ampie
possibili) sarebbero invece innovazioni sostanziali e positive: facciamo
di tutto perché la legge costituzionale che dovrà legittimare questo
percorso trasformi in obblighi queste positive ipotesi. Qual è dunque
l'atteggiamento che deve essere tenuto da chi crede nella superiorità
democratica del sistema parlamentare? Occorre evitare di demonizzare
l'attuale percorso; occorre evitare di schiacciare tutto l'arco politico
nel ruolo di nemici della Costituzione, di preparatori dell'oligarchia,
di usurpatori di una funzione che non è «cosa loro». Così facendo si
accomunano i presidenzialisti e i parlamentaristi, che pure sono
presenti, e numerosi, e si indeboliscono questi ultimi, colpiti dal
medesimo anatema che colpisce i loro avversari; e dunque si
avvantaggiano questi ultimi. Una indistinta condanna non rafforzerà la
«battaglia costituzionale», ma impoverirà la discussione che la
democrazia italiana deve fare su se stessa.
La Stampa 2.6.13
Il semipresidenzialismo crea nuovi attriti nel Pd
Soddisfazione nel Pdl per le aperture fatte dal premier
Orfini: «Un sistema plebiscitario è un grave errore. Il modello parlamentare va tutelato»
Schifani: «Si è rotto un tabù. Un motivo in più per sostenere questa maggioranza di governo»
di Amedeo Lamattina
Il tema dell’elezione del Presidente della Repubblica potrebbe entrare a far parte della discussione della prossima direzione
Anche
Enrico Letta ha abbattuto l’ultimo tabù dell’elezione diretta del capo
dello Stato? Non ha esplicitato il suo favore per il
semipresidenzialismo. Anzi, rispondendo a una domanda sulla sua
preferenza per il modello francese, il premier ha precisato che non
spetta a lui indicare la forma di governo, dare indicazioni sulla
riforma costituzionale. Tuttavia le parole pronunciate a Trento non
sembrano lasciare molti margini alla fantasia. L’ultima prova di
elezione del capo dello Stato «è stata drammatica per la nostra
democrazia. La fatica della nostra democrazia è emersa lì. Non credo
potremmo più eleggere il Presidente della Repubblica in quel modo,
perché assegnare questa elezione a mille persone non è più possibile».
E
qui Letta si ferma, ma il Pdl subito applaude, il Pd mugugna nelle sue
correnti attestate sulla difesa dell’attuale assetto parlamentare. I
lettiani però frenano. Dicono che il presidente del Consiglio ha voluto
solo sottolineare la «drammaticità» in cui si svolse ad aprile
l’elezione del capo dello Stato, con il falò di Marini e Prodi, e infine
la riconferma di Napolitano. Letta, in sostanza, ha voluto superare
ogni «approccio ideologico» alle riforme, che sono lasciate al dibattito
parlamentare. Per Paola De Micheli, vicecapogruppo Pd alla Camera, il
tabù del resto è stato rotto dallo stesso segretario del Pd Epifani, che
non ha escluso un approdo al modello francese. «Con tutti i
bilanciamenti del caso, a cominciare dal conflitto di interessi e il
rafforzamento del ruolo del Parlamento», aggiunge la stretta
collaboratrice di Letta. Ma nel suo partito una parte affila le armi e
annuncia maggioranze variabili. Lo ha fatto diverse volte Rosi Bindi e
ieri, di fonte alle parole di Letta, anche il giovane turco Matteo
Orfini. «Le affermazioni di Letta non sono condivisibili. La terzietà
della presidenza della Repubblica deve essere salvaguardata. Con la
politica e le istituzioni che vivono una crisi di legittimità enorme -
sostiene Orfini - l’unica istituzione immune da questa crisi è il
Quirinale. Va mantenuta la Repubblica parlamentare. Sarebbe un errore
politico grave stravolgerne l’impianto verso un modello plebiscitario».
Orfini teme che Letta abbia aperto al semipresidenzialismo perché pensa
che sia l’unica riforma possibile con il Pdl. A suo parere invece non si
può e non si deve rimanere vincolati alla maggioranza di governo: «Io
dico che non ci dovranno essere vincoli di maggioranza sulla riforma
della Costituzione. Se ci fosse una maggioranza diversa da quella di
governo non lo considererei uno scandalo».
E martedì, alla
direzione del Pd, questo potrebbe essere uno dei temi. De Micheli invita
non solo a non fasciarsi la testa prima del dovuto ma a leggere bene le
parole di Letta quando dice che non si potrà più eleggere il Presidente
della Repubblica con i mille elettori a scrutinio segreto. «Lo stessa
intenzione di superare il bicameralismo perfetto significa già
modificare il sistema attuale. Sarebbe un cambiamento minimale ma
verrebbero cancellati certi vizi che Letta indica». Comunque, conclude
De Micheli, nel Pd si discuterà, non c’è nulla di definito, ma alla fine
verrà presa una decisione a maggioranza: «Il voto sulle riforme non è
un voto di coscienza».
Di tutt’altro tenore, ovviamente, le
valutazioni nel Pdl che del semipresidenzialismo hanno fatto una
bandiera. Gasparri ha ripresentato la proposta di legge costituzionale
che il centrodestra aveva messo in campo la scorsa legislatura. E
Berlusconi coglie tutte le occasioni per ribadire che questa è la
strada. Attenzione alle maggioranze variabili sul terreno delle riforme,
avverte il capogruppo del Senato Schifani. Il quale, rispetto al
pensiero di Letta, dice che la logica conseguenza alle sue parole è il
modello francese. «Non vedo altre alternative al modello parlamentare
attuale. Quella di Letta la leggo come un’apertura al
semipresidenzialismo come ha fatto Epifani. Si rompe un tabù. È un
motivo in più per credere nelle riforme sostenute da questa maggioranza e
governo».
l’Unità 2.6.13
Quel voto per il Colle, il popolo di sinistra tra web e Grillo
A freddo ora si può ragionare sull’incredibile vicenda dell’elezione del Capo dello Stato
di Enzo Costa
MA
ALMENO ADESSO, A FREDDO, SI PUÒ RAGIONARE SU QUANTO SUCCESSE DAVVERO
nell’incredibile vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica?
Ora che quella storia è tornata d’attualità con la non-sparata (nel
senso di vanamente negata) su Rodotà del non-Leader dei 5 Stelle, si può
rivedere dall’inizio il film di un Paese profondamente scosso dalle
reazioni furibonde del popolo della rete e non di sinistra, per la
candidatura al Quirinale di Franco Marini? Si può riflettere con la
dovuta calma su quell’indignazione generale o quasi contro un candidato
già sindacalista e fondatore del Pd, indignazione a base di grida
all’inciucio con Berlusconi, malgrado il reiterato no di Bersani al
governissimo, grida all’inciucio lanciate dal popolo della
rete e
non all’unisono con editorialisti, intellettuali e Striscialanotizia,
trasmissione delle tv di Berlusconi, pronto a votare Marini così come,
nel 2008, ne aveva prontamente bocciato il tentativo di formare un
governo? Si può ripensare a come in quell’occasione, prima del
pasticciaccio brutto su Prodi, si dispiegò l’inaudita potenza del web,
con le sue formidabili suggestioni semplificatorie e dietrologiche, col
suo condurre, tramite le «quirinarie» di Grillo e gli appelli di
sinistra per Rodotà, ad una sorta di elezione diretta del Capo dello
Stato, opzione da sempre caldeggiata da Berlusconi (e ora
paradossalmente paventata da Rodotà)? Già, perché insieme alla
catastrofe tattico-politica del partito di Bersani, quello che in quei
giorni non tutti colsero fu il per me impressionante spettacolo di una
mobilitazione esagitata, eccitata, per non dire drogata, all’insegna di
tre sillabe scandite ossessivamente come un mantra salvifico:
«Ro-do-tà!». Ecco: adesso viene facile a tutti, me compreso, fare i
grilli parlanti all’indirizzo di Grillo, che nell’ultima (per ora) delle
sue web-giravolte totalitario-apocalittiche (mi raccomando, né di
destra né di sinistra!), si è scagliato sul già da lui magnificato
candidato al Quirinale. E giù, tutti quanti, a rimarcarne stupiti e/o
sarcastici la volubilità da Guru rancoroso, tipica di chi non mastica la
democrazia: il non-Leader eleva agli onori qualcuno fino a quando
questi non osa esprimere un qualche lieve dissenso dalla sua linea. A
quel punto, lo addita come un appestato da evitare, reo com’è di voler
infettare il MoVimento. Per carità, sono critiche sacrosante, da parte
di alcuni lievemente tardive. Ma, per me, sulla questione Quirinale,
insufficienti: in quei giorni davvero curiosi, così come nel racconto
retrospettivo tutto centrato su Grillo che se ne fa oggi, ben pochi
hanno visto i pur lampanti tratti di un’anomalia: una patologica
eccitazione
di massa, anche di sinistra, generata dalla rete (mercé il formidabile
innesco mediatico delle «quirinarie» a 5 Stelle) e poi esondata nelle
piazze. «Noi non siamo grillini!», si affannavano a gridare ai microfoni
compagni non sempre giovani, nei brevi intervalli del loro urlare
accaldato le tre sillabe del fine giurista con lo stesso stile
espressivo di quanti allo stadio inneggiano al bomber del cuore. «Non
sono tutti grillini!», spiegavano legioni di intellettuali in osmosi con
gli urlanti in piazza. Io ricevevo ad ogni ora affollatissime petizioni
on-line pro-Rodotà da parte di stimabili conoscenti democratici: il mio
non aderire a quell’improvvisa deriva plebiscitaria per un’elezione
costituzionalmente parlamentare, penso li lasciasse basiti. Ma basito
ero anch’io, davanti a quello scenario antropologico: in passato, mai
era successa una cosa simile. Ricordo solo, nelle due precedenti
elezioni, una mobilitazione per Emma Bonino: ma non certo nelle forme di
massa, di piazza, di pancia, di questa volta. Vero che fra quanti
gridavano in piazza e firmavano in rete c’erano molti di sinistra: ma
altrettanto vero, per me, che senza la scintilla di Grillo non sarebbe
divampato un incendio di quelle dimensioni. Ora si può benissimo
sbeffeggiare la retromarcia iraconda del Guru. Ma magari anche un
piccolo ragionamento sulla subalternità politico-culturale (a mio parere
suicida) di molto elettorato di sinistra agli stilemi a 5 Stelle,
vieppiù grotteschi con gli anatemi grilleschi di poi, forse non
guasterebbe.
www.enzocosta.net enzo@enzocosta.net
il Fatto 2.6.13
Il politologo Marco Revelli
“Le due Italie? Esistono già: una vota e l’altra si astiene”
intervista di Sa. Can.
Marco
Revelli, politologo, voce influente della sinistra radicale, accetta lo
schema offerto dalle “due Italie” di Grillo anche se non fa mancare al
leader Cinque stelle una serie di critiche molto benevoli. “Ma senza che
questo mi faccia iscrivere nella lista dei maestri dalla penna rossa”
spiega. Revelli, in ogni caso, pensa che esista un’Italia del 50% che
costituisce una “colonna liquida” che si è allontanata dal voto. Si è
avvicinata a Grillo ma, poi, sembra essere scappata anche da lui.
Qual è la chiave di lettura di questa realtà sociale in mutamento?
Che
la crisi colpisce trasversalmente e decostruisce vecchie fedeltà
politiche. Le sfarina. Lo “tsunami” di Grillo ha intercettato un “esodo”
che è cominciato diverso tempo fa e che è continuato anche dopo Grillo.
C’è quindi un’Italia che è rimasta dentro il quadro politico. Che Italia è?
Il
50% di elettori romani che ha votato è probabilmente quello che la
crisi l’ha vissuta solo di striscio. Ci sono quelli che vivono di
politica, su questo Grillo non ha torto: persone che vivono di appalti,
consulenze e che in fondo votano per i propri datori di lavoro. C’è poi
il voto di opinione, il “ceto medio riflessivo” di cui parla Paul
Ginsborg. Poi un ceto medio commerciali e delle professioni. Difficile
da quantificare. E che si contrappone a un 50% che invece è
politicamente liquido e che è composto da precariato, cassintegrati,
etc.
Se l’analisi è questa, dove sbagliano i 5 Stelle?
Non
voglio dare giudizi, ma fornire analisi. Se Grillo ha ragione sulle due
Italie deve anche capire che esistono “due Grillo”. Quello prima del 25
febbraio, fuori dal Palazzo e capace di farsi sentire. E quello dopo il
voto, dentro il Palazzo nel quale la sua voce non si sente più perché lì
ci sono delle regole. E così Grillo ha perso gli “incazzati” che
volevano farsi sentire ma ha perso anche i “riflessivi” che volevano una
proposta. L’Italia del 50% non si è più riconosciuta in lui e continua a
rotolare fuori, non rientra nel quadro politico tradizionale.
E dove va?
Il
mio più grande timore è che questa “colonna liquida” possa essere messa
in corto circuito e produrre una sorta di Vajont, una colonna che si
scarica sul sistema politico, schiantandolo. Come Weimar nel 1933.
Questo può succedere se arrivasse un vero demagogo, altro che Grillo. Ma
lo scenario più probabile è quello che definirei di una “democrazia a
bassa intensità” in cui si stabilizza il quadro politico tenendone fuori
la metà. Gli indignati, i catastrofici, gli “incazzati” restano fuori e
il sistema funziona con chi sta dentro, i “moderati” o “centristi”.
Esiste uno scenario “C”, un po’ più ottimista?
È
quello “lontano da Bisanzio”, una proposta politica “fuori dalle mura”,
ma in grado di pesare nello spazio istituzionale. Un progetto radicale,
alternativo all’esistente, con una classe politica non compromessa con
le macerie del vecchio sistema.
Uno scenario simile può non tenere conto di Grillo?
No.
Di Grillo vanno colti tutti gli aspetti positivi che hanno fatto
sperare senza le caricature di se stesso come quella pro-dotta con
Rodotà. Spero che il movimento avverta l’esigenza di un registro
diverso, capendo che il passaggio da “fuori” a “dentro” richiede un
discorso di sistema. Non basta più quella che Carlo Freccero definisce
“lo stile a segmenti”. In ogni caso, l’alternativa alla democrazia di
bassa intensità non può prescindere da quell’esperienza che ha reso
possibile la partecipazione alla politica di coloro che non hanno mai
partecipato al banchetto. Ma, ripeto, non voglio fare il maestro dalla
penna rossa.
il Fatto 2.6.13
Paese alla deriva
Logo Italia: nulla si crea tutto si distrugge
di Furio Colombo
Nulla
si crea, tutto si distrugge”. Propongo che questo sia il logo
dell’Italia in cui da vent’anni stiamo vivendo, e che il governo
collaborazionista Letta-Alfano purtroppo conferma e continua. Ecco il
primo punto: nessuno può dire che in 20 anni di quasi ininterrotta
egemonia berlusconiana vi sia qualcosa da ricordare, un cambiamento che
in qualsiasi modo abbia modernizzato il Paese e lo abbia accostato ad
altri Paesi della stessa tradizione occidentale, industriale e
democratica. Sono avvenuti molti interventi, ma tutti di spaccatura,
demolizione, rimozione, cancellazione, blocco di funzioni e normali
attività istituzionali, aggressioni del potere esecutivo agli altri
poteri dello Stato, oppure dell’esecutivo e del legislativo che fanno
insieme mobbing contro il giudiziario. Se volete un simbolo, il più noto
nel mondo è la cancellazione del falso in bilancio. È un punto in cui
si incrociano la legge, la democrazia e il mercato, con tre esigenze di
garanzia che sono state negate. La rimozione di quella garanzia è stato
come l'issare la bandiera della pirateria sul galeone Italia per
annunciare: “D’ora in poi qui tutto è permesso”. Ma il vero delitto era
avvenuto prima e si chiama “conflitto di interessi”. Quando uno può
governare allo stesso tempo un Paese e le sue aziende, ed è lasciato
libero di farlo per un numero tanto grande di anni, avviene, da parte di
chi tace e consente, una sorta di concorso nell’attività distruttiva
dell’impresa Italia, che per vent’anni non si spiega, finché non nasce –
come è accaduto adesso – un governo insieme. Insieme con chi?
Voltiamoci a guardare con chi stiamo collaborando.
PRIMA VIENE
GENOVA, dove si sperimenta una macabra Disneyland delle fioriere, delle
esecuzioni in piazza e delle torture in caserma, che sconvolgono un
mondo di giovani italiani e stranieri travolti da una repressione
inutile e selvaggia, che non hanno dimenticato. Funzioni, direttive,
ordini sono rimasti oscuri, come i misteriosi black bloc ferocemente
distruttivi, perfettamente organizzati e mai identificati, mentre masse
di ragazzi inermi e innocenti venivano investiti da un violento vento
cileno, bestiale ma non folle. C’era un progetto, all’inizio di una
alleanza di governo che poi si è spezzata ma al momento era forte,
assurda e compatta, un progetto che è stato fermato solo dal fatto che
una parte della polizia e dei giudici non si sono prestati. Perché
assurda? Perché, con alto senso delle istituzioni, Berlusconi, l’uomo
del conflitto di interessi e del falso in bilancio, appena possibile ha
affidato il ministero della Difesa a ciò che resta in Italia della
destra fascista; e il ministero degli Interni al leader di un partito
secessionista, la Lega Nord per l’indipendenza della Padania. Il primo,
come tutti i fascisti, ha giocato la carta dei caduti ovvero dei morti,
dalla tragica imboscata ai soldati indifesi di Nassirya che credevano di
essere impegnati in una missione di pace, al famoso evento che si
ricorda con le parole misteriosamente registrate “adesso ti faccio
vedere come muore un italiano”.
IL SECONDO INVECE ha avuto mano
libera nelle persecuzioni degli immigrati, nell'inventare prigioni senza
giudice e senza regole, aperte alle intemperie ma non ai diritti, e nei
famosi e tragici “respingimenti in mare” che voleva dire deliberato
abbandono dei naufraghi in presenza di motovedette italiane armate di
ultima generazione con ufficiali libici e marinai e armamento italiano,
obbligati a obbedire da un indimenticabile trattato Italia-Libia che
offriva anche altissime cifre in dollari alle bande che si impegnavano,
nelle prigioni libiche o in mare, a eliminare per conto Italia gli
immigrati, donne, bambini e titolari del diritto d’asilo inclusi. È un
percorso che fa paura questo che porta al governo collaborazionista
delle “grandi intese”, ma non abbiamo ancora parlato della Giustizia
(bisogna punire i giornalisti definendo gli articoli sgraditi
“diffamazione” e moltiplicando le pene; bisogna vietare le
intercettazioni, qualunque sia il reato su cui si sta indagando; bisogna
sbriciolare il reato di concorso esterno in attività mafiosa troppo
ingombrante per troppa gente, bisogna fermare in tempo “i giudici
politicizzati”.
COME LI INDIVIDUI? Decide l'imputato. E non
abbiamo detto nulla della devastazione personale, morale e
professionale, introdotta nell’epoca della violazione di tutti i
diritti, dal quasi totale dominio (a cui si aggiunge la spontanea
cortesia) dei media che ti cancellano o ti diffamano a richiesta di
governo. Non abbiamo detto che più passa il tempo, più l’austero
personaggio che adesso si è piazzato alle spalle del Pdl, nelle vesti
dello statista senior, diventa ogni giorno di più materiale adatto alla
farsa, che sarà una ferita irrimediabile per l’Italia, della nomina a
senatore a vita o peggio. Nulla ci salva dal peso e dalla colpa del
pregresso. Nulla tranne i giudici. Ecco perché ci hanno detto per
vent’anni di non sperare nei giudici. Perché restano l’ultima speranza.
l’Unità 2.6.13
Sposetti: «Fondi ai partiti? Sinistra suicida»
«Basta subire l’onda Non c’è democrazia senza le forze politiche»
«Ha ragione Bobo che su l’Unità parla di vocazione suicida
Cosa deve essere una forza politica oggi? Dobbiamo vivere in un loft o impegnarci sui territori?»
intervista di Ninni Andriolo
«Ha letto i giornali?»
Certo senatore Sposetti, cambiamo le regole delle interviste e le domande le fa lei?
«No,
ma volevo far notare che il governo proroga le agevolazioni per le
ristrutturazioni e aumenta l'ecobonus. La notizia che campeggia in prima
pagina, però, è “Letta mette a dieta i partiti”»
Il provvedimento
sul finanziamento pubblico è quello che suscita maggiori polemiche,
anche le sue dichiarazioni di queste ore lo dimostrano..
«È questo
il punto. Questo esecutivo è nato per recuperare la fiducia della
gente, ma se le notizie che interessano le famiglie passano in secondo
piano qualcosa non funziona. Il coro di proteste di coloro che hanno
condotto campagne contro i partiti, a cominciare dal M5S e da autorevoli
commentatori, dovrebbe far riflettere. Al governo voglio porre alcune
domande...»
Prego senatore...
«Grazie. La prima è legata
alla vignetta di Staino pubblicata da l'Unità. Bobo dice a Ilaria:
“Quando andiamo al governo ci aumenta la vocazione suicida”, una
considerazione azzeccata. Che idea ha il governo del destino della
politica in Italia? Di cosa deve vergognarsi la sinistra, e non solo la
sinistra?»
Gli scandali che investono la politica annebbiano le
differenze, purtroppo... «Certo, ma una cosa è il malaffare che va
combattuto senza tentennamenti, altra cosa è la democrazia che va
salvaguardata sempre e in ogni caso».
E il governo Letta addirittura la minaccia?
«Vogliamo entrare nel merito?»
Naturalmente...
«Il
Parlamento ha approvato tra maggio e giugno del 2012 una riforma che ha
ridotto da 182 a 91 milioni le contribuzioni ai partiti. Ha
disciplinato vita interna, statuti, regole, ecc. avvicinandosi in
qualche modo all'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione. Le
Camere hanno lavorato su testi firmati da Alfano, Bersani, Casini,
Cicchitto e Franceschini. Alcuni di questi firmatari sono autorevoli
membri del governo. Tra loro non c'era l'attuale presidente del
Consiglio, ma Letta allora era vice segretario del Pd. Si dice “troppi
soldi ai partiti”, ma siccome lì ci sono segretari e vice segretari di
partito, va ricordato che tanti denari li hanno spesi loro. Cosa deve
essere una forza politica nel terzo millennio? Di questo deve discutere
il Pd. Dobbiamo vivere in un loft o impegnarci nei territori? E perché
cambiare le norme approvate meno di un anno fa, cosa è cambiato da
allora?»
Disaffezione e astensionismo sono aumentati, è esploso
Grillo. Non le basta? «E io mi chiedo, allora, perché non siamo andati
più avanti già nel 2012? A questo devono rispondere. Se come ha detto il
ministro Quagliariello la democrazia ha un costo che deve essere
sostenuto, allora va spiegato perché in Italia non deve valere ciò che
vale negli altri paesi europei»
Cioè, senatore?
«In tutti i
paesi europei c'è il finanziamento pubblico e le democrazie sono solide.
Oggi, mentre ogni italiano contribuisce per 1 euro e 52 centesimi, un
francese per 2 euro e 46 centesimi, gli spagnoli per 2 euro e 84
centesimi, i tedeschi per 5 euro e 64 centesimi. Non saranno mica tutti
matti in Francia, Spagna o Germania, vero?
In Svizzera non è previsto alcun finanziamento...
«La
Svizzera dovrebbe togliere il segreto ai depositi bancari, così
conosceremmo quanti italiani hanno portato i soldi in quel Paese e qui
da noi, magari, alimentano le campagne contro la politica. In tutta
Europa, poi, i partiti sono riconosciuti giuridicamente. Ecco, la
proposta del governo non fa alcun cenno all'attuazione dell'articolo 49
della Costituzione. Perché non si affronta il tema del riconoscimento
giuridico che rappresenta uno dei limiti della democrazia in Italia?
Nell'immediato dopoguerra Italia e Germania codificarono nelle loro
Carte fondamentali articoli che difendevano e rafforzavano il ruolo dei
partiti. Oggi si discute solo di finanziamenti sì, finanziamenti no».
Il
Parlamento potrà intervenire, il Ddl del governo non è una scatola
chiusa... «Spero, perché se si sostenesse che le Camere devono approvare
quel testo così com'è allora sarebbe stato meglio varare un decreto
legge e porre la fiducia. Ma non mi si venga a dire che quello è un
testo moderno, civile e avanzato. È facile oggi cavalcare l'animale
dell'anti partito, uno si mette sopra e quello va da solo. Ogni
cedimento alla demagogia e al populismo va combattuto. E il Pd, il
centrosinistra, le forze che sostengono questo governo devono chiarirsi
come contrastare il qualunquismo».
Senza tacere gli errori che anche il Capo dello Stato attribuisce alla politica...
«Gli
errori della politica non possono portarci ad accarezzare
l'antipolitica. L'ho già detto ad altri suoi colleghi: io combatto per
consentire a mia figlia e ai figli di Enrico Letta di vivere in un Paese
in cui ci siano partiti solidi, con gruppi dirigenti onesti che
svolgano attività diffusa nel territorio per favorire la partecipazione
alle scelte che riguardano il futuro di tutti».
La sua battaglia,
però, va in controtendenza. I sentimenti della gente non giocano a
favore dei partiti. Letta sostiene che il governo si gioca la faccia sui
costi della politica...
«I leader e i gruppi dirigenti devono saper governare, non si devono limitare ad assecondare gli umori e adeguarsi all' onda...»
Deve
ammettere che far rientrare il finanziamento, cassato da un referendum,
dalla finestra dei rimborsi elettorali non esalta la politica...
«Io
infatti sono assolutamente contrario a quel meccanismo. Bisogna
ricordare che il sistema italiano consente già uno stimolo
all'autofinanziamento. Una delle regole più moderne introdotte nel 2012,
è stata saltata a piè pari dall' attuale governo che la vorrebbe
cancellare. Questa norma significa che se Ugo Sposetti paga la sua
iscrizione al Pd per il 2013, con una quota equivalente a 1000 euro, lo
Stato riconosce questo sforzo al partito erogando 500 euro». Ma non è
che si lasciano i partiti sul lastrico: si introduce il due per mille.
Anzi, c'è già chi parla di legge truffa o di furbata visto che il
finanziamento pubblico, anche se indiretto, rimane.
«Io prendo in
prestito le parole della professoressa Nadia Urbinati: “lasciando che
siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze
economiche la possibilità di tradursi direttamente in differenze di
potere e di influenza politica, quindi alla corruzione della legalità si
aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica”. Il due per
mile di un pensionato non è il due per mille del dirigente di una grande
banca.
La legge che lei auspica, anche per la sua esperienza di
tesoriere dei Ds? «Rimborsi delle spese elettorali effettivamente
sostenute, partecipazione all' autofinanziamento da parte dello Stato a
sostegno dello sforzo organizzativo dei partiti. E poi le fondazioni,
sul modello tedesco, indispensabili per creare una nuova classe
dirigente. La relazione confezionata da Giuliano Amato per Monti o il
documento dei saggi nominati da Napolitano sono chiarissimi. Io vengo
dalla tradizione comunista, ma registro in questo Paese un grave deficit
di cultura liberale. Bisogna tenere la schiena dritta e non farsi
trascinare dall'onda. Solo così si rafforza la democrazia»
l’Unità 2.6.13
Donazioni e trasparenza
I punti deboli della legge
Non vengono previsti «tetti» agli interventi dei privati, né vengono poste condizioni
di partecipazione democratica
Molto meglio altri modelli vigenti in Europa
di Paolo Borioni
Una
classe politica che veramente abbia intenzione di fare la storia non
deve disarmare dinanzi ai capricci della cronaca. Tantomeno cedere
all’ossessione di mimare le istanze degli oppositori (M5S) o dei
supposti rivali (Renzi). Occorre invece un'interpretazione onesta ed
autentica del desiderio popolare, il quale ha voglia di trasparenza, di
rappresentanza, e di una partecipazione davvero più ampia. È in questo
modo che si recupera il consenso dei cittadini verso i partiti, non
fornendo al più presto una vittima sacrificale.
Non a caso,
diversi e importanti sono i punti dubbi o illogici del progetto del
governo. Al suo centro esso prevede dal 2015 la donazione del 2 per
mille della dichiarazione dei redditi, che affluirebbe in un fondo per i
partiti. Abbiamo già espresso la preferenza, per ragioni di efficacia e
trasparenza, per altri sistemi. Tuttavia, se si ritiene di insistere,
sarà bene che la donazione rimanga direttamente legata ad un partito di
preferenza del donatore, per evidenziare la scelta politica, ovvero,
anche qui, la partecipazione democratica.
La quota del 2 per mille
però deve anch’essa prevedere dei limiti massimi in cifra assoluta: per
evitare ogni eccessiva disparità economica nel sostegno alla politica.
Le quote di donazione risultanti da ogni 2 per mille che superassero il
tetto stabilito (di poche centinaia di euro) potrebbero andare nel fondo
comune dei 2 per mille «inoptati» per essere distribuite fra i partiti
in modo proporzionale ai voti ricevuti alle elezioni politiche. È
importante che nel progetto presentato siano previste regole
democratiche stringenti per ogni partito che intenda avvalersi di queste
possibilità. Anzi, la distorsione della democrazia interna ai partiti
andrebbe sorvegliata da autorità preposte e punita in modo molto severo.
Spesso, peraltro, tale distorsione è l’origine o il fine anche della
corruzione perpetrata nelle istituzioni.
La seconda fonte di
approvvigionamento ammessa proviene dalla detrazione fiscale alle
donazioni. Quelle sotto i 5000 euro sono detraibili al 52%, e quelle fra
i 5000 e i 20000 lo sono al 26%. Ma sarebbe meglio vietare ogni
donazione superiore ai 10.000 euro, magari innalzando la percentuale
detraibile. È, nel progetto di Ddl, anche possibile detrarre il 52%
«delle spese sostenute dalle persone fisiche per l’iscrizione a scuole o
corsi di formazione politica» organizzati dai partiti. Ma non è
abbastanza chiarito, o forse non è affatto nelle intenzioni, se tale
incentivo riguardi anche l’iscrizione pura e semplice ai partiti.
Potenzialmente molto positivo è incoraggiare le attività di formazione,
ma solo se ciò significa la più generale promozione della partecipazione
e della cultura politica. Questo, però, non si ottiene solo con qualche
piccolo sgravio, bensì con regole che nel progetto mancano del tutto.
Sarebbero per esempio essenziali norme sull’obbligo a destinare
percentuali precise di risorse alla politica sul territorio, alle
sezioni. Ciò è importantissimo per due motivi. Il primo è che se il
progetto governativo intende costruire in modo nuovo risorse per la
democrazia, e non solo guadagnare un consenso dubbio, effimero e
ingannevole, occorre capire che anche per la riuscita del finanziamento
tramite il 2 per mille, come ad ogni altra impresa democratica, è
essenziale la visibilità dei partiti nei quartieri e nei luoghi di
lavoro.
Il secondo è che, come non si ripeterà mai abbastanza, il
vero risparmio economico, la vera e trasparente partecipazione
democratica, richiedono la militanza e le grandi competenze che essa (a
bassissimo costo) produce per le nostre istituzioni. Da questo punto di
vista, quindi, va accolto con favore che nel progetto governativo ai
partiti vengano messe a disposizione strutture pubbliche (canali
televisivi, radiofonici, spazi pubblicitari, edifici eccetera) per le
attività democratiche ed elettorali. Ma ciò diviene insignificante se
poi non si promuovono militanza e partecipazione, ovvero la risorsa che
quegli spazi dovrebbe animare e riempire.
Di più: se l’intento è
quello di diminuire i costi, sarebbe logico allora imporre dei limiti
bassi e rigorosi agli impieghi di denaro in campagna elettorale. Grazie a
questo risparmio (sul modello britannico), si potrebbero allora
liberare delle risorse ottenute dal 2 per mille o eventuali altri fondi
pubblici da destinare ai partiti in proporzione alle quote di iscrizione
dei militanti (come in Germania). Sempre con questo principio
(mettiamo: 40 centesimi «pubblici» ogni euro raccolto) si potrebbero
premiare (come in Scandinavia) iniziative che fra i simpatizzanti
raccolgono fondi per precisi e verificabili progetti col fine di
promuovere la partecipazione giovanile, delle donne, dei cittadini
immigrati, o per sviluppare la democrazia interna telematica. A questo
punto la presenza delle forze politiche nella società sarebbe maggiore e
più massiccia, e così il dibattito (non solo elettorale). Ma a più
basso costo. Producendo però un altissimo valore aggiunto democratico, e
un ben più sicuro e fondato ritorno di popolarità dei partiti.
il Fatto 2.6.13
2 per mille, l’imbroglio
Così si spartiranno 60 milioni all’anno
di Marco Palombi
Come
vi abbiamo spiegato ieri, più che di abolizione del finanziamento
pubblico ai partiti, Enrico Letta farebbe bene a parlare di una sua
riduzione, per la precisione di un terzo: l’accordo politico –
raccontano fonti di governo - è che alla fine il nuovo sistema non costi
allo Stato più di 50-60 milioni contro gli attuali 91. Tutto qui.
Questi soldi in un modo o nell’altro dovranno arrivare e il governo li
ha sostanzialmente garantiti con un sistema vagamente truffaldino e
grandemente discrezionale, visto che la quantificazione del flusso è
affidata ad un decreto annuale del ministro dell’Economia: in buona
sostanza, quel che non arriverà dalle donazioni rientrerà dalla finestra
del famigerato “inoptato” con il 2 per mille. Vediamo perché.
Le
detrazioni. Riguarderanno, come si sa, le erogazioni liberali a partiti e
movimenti politici e saranno del 52% fino a cinquemila euro e del 26%
fino a ventimila. Come ha fatto notare Sergio Rizzo ieri sul Corriere
della Sera, questo comporta che dare soldi alla politica sia per un
contribuente 12 volte più conveniente che darli ad una onlus visto che
sulle seconde si può detrarre solo il 26% fino al tetto di 2.056 euro.
Peraltro anche le detrazioni, per quanto in modo indiretto, sono un
finanziamento pubblico, visto che lo Stato, concedendole, rinuncia a
incassare delle tasse: a valori 2011, ad esempio, quando le donazioni ai
partiti ammontarono a 14 milioni di euro (nove dei quali con assegni
inferiori a cinquemila), l’erario rinuncerebbe all’ingrosso a 6,5
milioni. Ora che la raccolta fondi dei partiti diventerà più
professionale ed agguerrita è ipotizzabile che queste cifre cresceranno:
anche ammesso che triplichino, però, non si arriverebbe ad un mancato
gettito superiore a venti milioni. È qui, per arrivare ai 50-60 milioni
di cui sopra, che entra in gioco il due per mille truffaldino.
L’inoptato.
Il meccanismo consentirà, in sostanza, ai partiti di sapere con
discreta approssimazione quanti fondi avranno a disposizione aggirando
l’incertezza insita in un sistema di contribuzione volontario. Se venti
milioni servono a coprire le detrazioni, il resto della “spesa massima” –
61 milioni di euro – potrà essere messo con decreto del ministero
dell’Economia a copertura del 2 per mille (nel nostro esempio, circa 40
milioni) con la ragionevole certezza di incassarne la maggior parte. I
partiti, infatti, hanno imparato la lezione degli anni Novanta e non
vogliono lasciar fare a quei capricciosi dei loro elettori. Nel 1997,
proprio come oggi, si provò a finanziare i partiti con un 4 per mille
(che poi sarebbe stato diviso per la percentuale di voti alle politiche)
e le donazioni, ma fu un disastro: si pensava che il tutto sarebbe
costato 160 miliardi di lire (110 dalle dichiarazioni dei redditi, 50 di
mancato gettito per le detrazioni), solo che dal 4 per mille arrivarono
la miseria di 10 miliardi. Poco male, si passò ai rimborsi elettorali e
il sole tornò a splendere su Roma. Ora, memori di quella disavventura,
la politica ricorre alla millenaria sapienza della Chiesa e s’aggrappa
all’ormai famoso “inoptato” inventato per l’8 per mille. In sostanza,
stabilito per ipotesi che il fondo del 2 per mille è di 40 milioni di
euro, quella somma sarà interamente ripartita tra gli aventi diritto
(partiti e Stato) secondo la proporzione delle scelte espresse, anche se
queste dovessero assommare - per tenersi al numero del 1997 – a soli 10
milioni. I conti devono tornare per forza, ma il meccanismo è così
involuto che i numeri ancora ballano: per questo il ddl di Enrico Letta è
stato approvato “salvo riserva”. Vuol dire che la Ragioneria generale
ci sta ancora lavorando.
Repubblica 2.6.13
Il ministro D’Alia: riforma necessaria ma bisogna fissare un limite alle spese in campagna elettorale
“Va introdotto un tetto alle donazioni altrimenti un magnate si compra tutto”
di Carmelo Lopapa
ROMA — Troppo alto il rischio che d’ora in poi un «magnate si compri un partito», meglio apportare dei correttivi in aula alla legge sul finanziamento pubblico. Gianpiero D’Alia è ministro della Funzione pubblica, centrista di matrice Udc. A differenza di altri colleghi ha approvato senza riserve il testo in Consiglio dei ministri.
E ora, senza finanziamenti da qui a un paio d’anni, partiti sul lastrico, ministro D’Alia?
«Era la necessaria rivoluzione copernicana, più che altro destinata a cambiare il sistema della politica italiana. Il ddl si fonda sul principio della contribuzione volontaria dei cittadini. I partiti cambieranno registro».
Alcuni suoi colleghi hanno manifestato perplessità in consiglio dei ministri.
«Chiaro che quando si introduce una riforma di questo tipo, che cambia il modo di essere dei partiti, le resistenze sono tante. Il processo però è irreversibile. Ma tre modifiche sono necessarie».
Quali?
«Primo. Va introdotto il tetto alle contribuzioni private, altrimenti il rischio è che i partiti diventino delle società per azioni controllate dall’esterno: dobbiamo evitare che un magnate si compri un partito, per essere chiari. Secondo. Bisogna fissare un limite anche per le spese dei partiti in campagna elettorale.
Oggi esistono nuove forme di comunicazione, soprattutto la rete, non servono più campagne vecchio stampo. Terzo. Dobbiamo regolamentare le lobby. Manca una disciplina del traffico lecito di influenza sulla politica e l’amministrazione. Il sistema delle imprese che si rapporta alla politica deve avere regole certe, soprattutto ora che la politica è finanziata dal privato».
Appunto, tutto o quasi affidato alla libera contribuzione. Funzionerà, in tempi di politica così screditata?
«È il sistema migliore per sollecitare la partecipazione dei cittadini. Offrire partiti rinnovati e trasparenti, che abbiano ognuno le stesse possibilità, senza favoritismi ai nastri di partenza».
Peccato che le detrazioni introdotte superino di dieci volte quelle previste per le donazioni a opere benefiche, un paradosso no?
«In teoria sì, ma penso che se l’unica fonte di finanziamento diventa la contribuzione, va pure sollecitata, incentivata. I partiti sono lo strumento fondamentale che la Costituzione pone alla base della nostra democrazia».
Pensate di spuntarla così, con questa legge, sull’antipolitica?
«Diciamo che questa legge aiuta a dare risposte, il governo Letta ci sta provando fin dal suo insediamento».
Dal capo dello stato un nuovo appello al senso di responsabilità delle forze politiche per le riforme. Cadrà nel vuoto come gli altri?
«Penso di no. Il destino di questo governo è legato alle riforme, avviate con la mozione approvata in Parlamento. E un tassello importante è proprio il finanziamento ai partiti. Abbiamo intrapreso la strada giusta».
Ministro D’Alia, che fine ha atto il suo Udc?
«Siamo un partito vivo e vegeto. Non dimentichiamo che il primo a indicare la strada di un governo di larga coalizione è stato proprio Casini. Faremo il congresso a settembre, ma l’obiettivo è costruire qualcosa di nuovo, oltre l’Udc e Scelta civica».
Anche oltre Monti?
«La discussione sulla leadership verrà comunque dopo quella sul progetto politico».
Repubblica 2.6.13
Rodotà, Vendola, Saviano, Zagrebelsky sfilata di big per difendere la Costituzione
Bologna diventa palco di una riflessione politica alternativa con la manifestazione "Non è cosa vostra", un'iniziativa che vuole rappresentare una sinistra scontenta o contraria alle larghe intese. In piazza Santo Stefano anche Camusso e Bindi
di Eleonora Cappelli
qui
il Fatto 2.6.13
Dal boom alle Politiche al flop dei sindaci
Tonfo del movimento 5 Stelle
Alle
ultime elezioni il Movimento cinque stelle non arriva al ballottaggio
in nessun capoluogo di regione in cui era candidato. In totale, rispetto
alle elezioni Politiche dello scorso febbraio in cui prese
rispettivamente il 25,55 % alla Camera (8.689.000 voti) e il 23,79% al
Senato (7.285.000 voti) il Movimento cinque Stelle perde 415.700 voti. A
Roma rispetto alle comunali 2008 (40.389 voti) i grillini arrivano
solamente a 130.636. Crollo a Imperia: dal 33,6% delle politiche del
2013 il M5S passa a un 8,1% delle comunali: un meno 25%.
il Fatto 2.6.13
Il M5S propone il condono edilizio
Potrebbe
chiamarsi non-condono. Il M5S ha presentato il testo di un disegno di
legge su “Riabilitazione degli edifici realizzati entro il 30 Settembre
2004 con sospensione dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali
anche nelle aree soggette a vincolo paesistico”. Tradotto: condono
edilizio. Il testo è stato illustrato a Ischia nel corso del forum
“rivalutazione del patrimonio immobiliare esistente e la risposta 5
stelle all’abusivismo edilizio”. Da parte loro i grillini non lo
chiamano condono edilizio e si affrettano a dichiarare che sono sempre
stati contro quel provvedimento. Spiegano i grillini, infatti, che le
sanzioni per i lavori effettuati saranno revocate solo a condizione “che
sia stata accertata l'esecuzione di opere di prevenzione del rischio
sismico, idrogeologico e messa in sicurezza”. Una legge che se
approvata, concludono i grillini, potrebbe contrastare la crisi
economica e tutelare i livelli di occupazione “attraverso il rilancio
dell’attività edilizia legale mediante un modello di sviluppo
ecosostenibile per utilizzare al meglio le risorse naturali e
paesaggistiche e per salvaguardare l’ecosistema”.
l’Unità 2.6.13
I lavoratori decidono. Camusso: «Svolta storica»
L’intesa tra Cgil Cisl Uil e Confindustria fissa le regole sul «peso»
dei sindacati e per la democrazia sul lavoro
di M. Fr.
ROMA
Storico. L’aggettivo più usato per commentare l’accordo sulla
rappresentanza firmato venerdì sera da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil è
questo. E si riferisce al fatto che nella storia repubblicana per la
prima volta si fissano regole sulla rappresentanza sindacale e si dà
finalmente applicazione all’articolo 39 della Costituzione. Soprattutto
l’ultimo comma, che recita: «I sindacati registrati hanno personalità
giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro
iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia
obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il
contratto si riferisce». Il cosiddetto principio «erga omnes».
REGOLE E DEMOCRAZIA
Le
parti sociali ci sono riuscite. E lo hanno fatto da sole, senza
intermediazioni del governo. La sintesi dell’accordo è chiara:
democrazia e regole che chiariscano il peso dei sindacati, come volevano
i confederali (Cgil in testa), in cambio di certezza sulle controparti e
rispetto totale dei contratti e degli impegni presi (e niente
scioperi), come voleva Confindustria. Poi ieri ognuno metteva in
evidenza la parte dell’accordo a cui più teneva, ma questo fa parte del
legittimo gioco della parti.
Susanna Camusso è sicuramente la più
contenta. In quasi tre anni da segretario generale porta a casa il
secondo accordo interconfederale con Confindustria e rimette la Cgil al
centro della discussione sociale, dopo la lunga stagione degli accordi
separati.
«È un accordo storico. Erano sessant'anni che non si
determinavano le regole sul voto dei lavoratori per i contratti»,
commenta Camusso dal Festival dell’Economia di Trento. «Siamo di fronte a
una stagione nuova dove non può esserci più l'esercizio delle divisioni
sindacali». Riguardo la Fiat, «voleva rompere le regole ha detto la
leader Cgil e per questo è uscita da Confindustria, e continua a violare
la legge. Spero la Fiat rifletta sulle condizioni generali», ha
concluso.
L’accordo di venerdì sera può quindi essere un modello
per il futuro, anche per la riforma del lavoro: no a nuove leggi, sì ad
accordi tra le parti sociali che sanno qual è la strada migliore per
creare lavoro. «Ciò che comprende quest’accordo – sottolinea Camusso è
l’impegno dei soggetti firmatari a fare rispettare le stesse regole a
tutti i loro associati. Bisogna capire come affrontare la crisi
dell’occupazione, non servono nuove leggi anche perché veniamo da una
stagione di regole strappate».
L’accordo in più rinforza la
ritrovata unità sindacale. Lo sottolinea Raffaele Bonanni: «È una svolta
nelle relazioni industriali, ora saranno impostate sulla cooperazione e
se ci saranno diversità di opinione si andrà avanti lo stesso a
maggioranza». In sintonia Luigi Angeletti, «abbiamo fatto un buon
accordo che rende più trasparente i rapporti tra noi e il sistema delle
imprese», dice il segretario Uil.
C’È CHI DISSENTE
Il
piccolo fronte dei contrari è stranamente composto: va dall’Usb e da
Giorgio Cremaschi fino al Fismic di Roberto Di Maulo, sindacato presente
quasi esclusivamente in Fiat e vicino alla proprietà che grida contro
«un accordo vergognoso» e pare la Fiom nel promettere «ricorsi fino alla
Corte Costituzionale». Se Di Maulo ce l’ha con la norma che richiede il
5% per essere rappresentati, Cremaschi punta l’indice contro «il
mancato rispetto del diritto di sciopero».
Anche l’altro
protagonista principale dell’accordo, il presidente di Confindustria
Giorgio Squinzi, usa l’aggettivo «storico». L’uomo che venerdì sera ha
deciso di firmare nonostante le perplessità sulla necessità del 50 per
cento di rappresentanza sindacale, ha sottolineato: «Ci permetterà di
avere contratti di lavoro pienamente esigibili» sottolineando le parti
che «favoriscano piattaforme unitarie» e le «conseguenze di eventuali
inadempienze» sul rispetto dell’accordo dell’accordo.
Esigibilità.
E’ questa la parola chiave per il futuro. Perché l’accordo fissa solo i
principi e demanda tutta le regole su piattaforme e voto alle
categorie. E qui arriverà il banco di prova più grande, quello dei
meccanici: dove in 12 anni ci sono stati solo due contratti unitari e
che, nonostante i timidi spiragli, i sindacati sono molto lontani.
Domani però ci sarà subito un incontro fra Landini (Fiom), Farina (Fim) e
Palombella (Uilm). L’aggettivo storico dipende molto da loro.
l’Unità 2.6.13
Maurizio Landini: «Fino a ieri Confindustria sceglieva gli interlocutori, ora accoglie un principio democratico»
Resta «la necessità» di una legge
«Un passo avanti importante Lo chiedevamo da dieci anni»
intervista di Massimo Franchi
ROMA
«Un passo avanti molto importante per smetterla con gli accordi
separati, per ridare la parola ai lavoratori. Il cambiamento più grande
l’ha fatto Confindustria, se fino a ieri puntava a scegliersi gli
interlocutori ora con il nuovo presidente ha accolto un principio
democratico che noi chiedevamo da 10 anni. Detto questo spiega il
segretario della Fiom Maurizio Landini l’accordo è ancora tutto da
scrivere e per risolvere il caso Fiat serve una legge sulla
rappresentanza».
Landini, in molti sono rimasti sorpresi del fatto
che la Fiom appoggi questo accordo. La credono proprio un estremista...
«Dovrebbero leggere il testo. C’è scritto che si fanno votare i
lavoratori sugli accordi, una cosa che noi chiedevamo da più di 10 anni.
Una regola democratica finalmente condivisa non solo da Cisl e Uil, e
che porterà finalmente a elezioni con sistema proporzionale nelle Rsu
togliendo il terzo di seggi dato solo a chi aveva firmato i contratti,
ma perfino da Confindustria: una regola che può mettere fine agli
accordi separati». Proprio Cisl, Uil e Confindustria si rivolgono a lei
quando ricordano che l’accordo prevede l’impegno a presentare
piattaforme unitarie e l’esigibilità dei contratti con procedure di
raffreddamento che evitino gli scioperi. Avete concesso troppo?
«Definire
piattaforme unitarie è sempre stato un nostro obiettivo. Dopo i
contratti metalmeccanici separati del 2001 e del 2003, nel 2006 e nel
2008 si arrivò a contratti unitari proprio perché con Fim e Uilm
decidemmo di consultare i lavoratori sui punti controversi. Sulle
procedure di raffreddamento faccio notare che siamo stati noi a proporle
alla Fiat al posto delle sanzioni sugli scioperi: Marchionne ci disse
no. Procedura di raffreddamento significa che se c’è un problema ci si
confronta con l’azienda per risolverlo e per noi non è mai stato un
problema».
Questo accordo non cambia niente sul fronte Fiat perché
Marchionne è fuori da Confindustria. Ma possiamo dire che se ci fosse
già stato nel 2010, si sarebbero evitati tanti conflitti?
«Diciamo
che non ci sarebbero stati i contratti nazionali separati che hanno
fatto da apripista al caso Fiat. Per risolvere quel caso e quel modello
di relazioni sindacali che si sta estendendo è necessaria però una legge
sulla rappresentanza anche per assicurare diritti den-
tro le fabbriche non solo agli iscritti Cgil ma anche agli altri sindacati».
In
Cgil comunque torna l’unità. Solo Cremaschi è contrario a questo
accordo... «Sulla necessità di far votare i lavoratori l’unità c’è
sempre stata fin dal congresso e l’ultimo Direttivo aveva dato un
mandato chiaro a chiudere l’accordo proprio su questo punto. Se la Cgil è
riuscita a far cambiare idea a Cisl, Uil e Confindustria è anche merito
dei lavoratori che in questi anni ha subito accordi separati, non solo
noi metalmeccanici, anche quelli del commercio o i bancari».
L’accordo però è in gran parte un’applicazione di quello del 28 giugno 2011 che voi avete avversato...
«Eravamo
contro al 28 giugno sulla derogabilità ai contratti nazionali e sul
fatto che non risolveva il problema dei contratti separati. Ma poi in
Cgil si è votato, abbiamo perso e abbiamo sempre rispettato
quell’accordo, addirittura chiedendo che venisse applicato. È stata
Federmeccanica a non applicarlo non facendoci partecipare alla
trattativa sull’ultimo contratto».
Proprie alle categorie
l’accordo demanda le regole sul voto e l’esigibilità. Fim e Uilm hanno
però già messo le mani avanti: mai un contratto è stato fatto votare da
tutti i lavoratori, in molte realtà bastano le Rsu. Si parte in salita?
«Mi
limito ad osservare che nel testo dell’accordo c’è scritta una cosa
precisa: i contratti sono validi se sono soddisfatti due criteri: che
chi firma l’accordo rappresenti il 50 per cento più uno dei lavoratori e
che ci sia un voto favorevole dei lavoratori con una consultazione
certificata. Vanno rispettati, soprattutto il secondo, ancor di più
pensando che la maggior parte dei lavoratori non è iscritta a nessun
sindacato».
il Fatto 2.6.13
Camusso chiede alla Fiat di aderire
di S. C.
L’importanza
dell’accordo sulla rappresentanza siglato tra Confindustria, Cgil, Cisl
e Uil, è dimostrata dal plauso del presidente della Repubblica che lo
definisce “un avvenimento di prima grandezza per il Paese, segno
importante e incoraggiante di volontà costruttiva e di coesione
sociale”. Ma anche dal vistoso abbraccio che Enrico Letta ha riservato, a
Trento, al segretario della Cgil, Susanna Camusso. L’accordo, però,
lascia molti problemi aperti. Ad esempio non risolve lo scontro alla
Fiat che, va ricordato, è fuori da Confindustria e quindi non è
vin-colata a un’intesa tra le parti sociali. Non è un caso se proprio a
Sergio Marchionne si sia rivolta Susanna Camusso: “Ora Fiat rifletta
sull’esigenza di avere regole generali” , ha detto il segretario della
Cgil al festival di Trento. La questione ha molta rilevanza perché la
posizione della Fiat si riflette immediatamente sulla categoria
confindustriale più ostile all’intesa, Federmeccanica e quindi al cuore
dell’industria italiana. È qui che il presidente di Confindustria ha
trovato le maggiori resistenze ed è per questo che Giorgio Squinzi
esalta il fatto che dall’accordo discenda la piena “esigibilità” dei
contratti, cioè il diritto delle imprese di sanzionare gli scioperi. Dal
canto suo, il segretario Fiom, Maurizio Landini – che in Fiom deve
scontare l’opposizione di Giorgio Cremaschi secondo cui l’intesa è un
favore alle imprese e un ossequio alle larghe intese – definisce
l’accordo “un fatto molto positivo” ma, proprio perché consapevole dei
rischi nel settore metalmeccanico, chiede “una legge sulla
rappresentanza” in grado di dettare regole valide per tutti.
La Stampa 2.6.13
La Cgil: “Tredici anni per tornare a crescere ai livelli del 2007”
«Nell’ipotesi peggiore ci vorranno 63 anni per recuperare i livelli occupazionali»
La Camusso insiste su istruzione e pubblica amministrazione
di Roberto Giovannini
Giocare
con i numeri - anche se appunto, è solo un gioco teorico - a volte fa
emergere informazioni utili. Il gioco lo ha fatto la Cgil, ipotizzando
che la crescita economica prevista per il 2014 dall’Istat (+0,7%) si
ripeta anno dopo anno. Ebbene, se teoricamente l’economia italiana
continuasse per un certo arco di tempo a crescere a ritmo tanto basso,
secondo il modello di simulazione della Cgil ci vorrebbero almeno 13
anni (nel 2026) per recuperare tutto il Pil perduto dal 2007 a oggi per
colpa della crisi. Va da sé che con un’economia tanto depressa,
l’occupazione aumenterebbe in modo irrisorio. Tanto è vero che di questo
passo si tornerebbe solo nel 2076 ai livelli occupazionali del 2007.
Gli investimenti recupererebbero nel 2024, ma per i salari reali il
recupero sarebbe impossibile.
Ovviamente nessuno ha la più pallida
idea di come andrà l’economia (italiana o mondiale) tra dieci o più
anni. Il «gioco» matematico proposto dalla Cgil serve soltanto a far
dire al leader della confederazione, Susanna Camusso, che se vogliamo
uscire da questa stagnazione-recessione «serve una scelta coraggiosa:
puntare a creare lavoro, non continuare a fare norme». Tre sono le
ricette proposte dalla sindacalista: la riforma dell’istruzione, quella
della pubblica amministrazione, e soprattutto l’applicazione del maxi
«Piano del Lavoro» proposto prima dalle elezioni dal sindacato di Corso
Italia, e accolto con grandi perplessità generali, anche a sinistra. Un
piano che a colpi di stimoli pubblici, investimenti e spesa ovviamente
consentirebbe secondo i proponenti di accelerare la ripresa
dell’economia e riprendere il terreno perduto.
Intanto, cambiando
completamente argomento, è stato accolto con generale consenso e
approvazione l’accordo siglato da Confindustria con CgilCisl-Uil sulla
rappresentanza e la democrazia sindacale. Regole condivise che, dettando
nuove regole su misurazione della rappresentanza e su validità ed
esigibilità dei contratti, andranno a toccare equilibri tra sigle e
regole del gioco nelle aziende. Un passaggio che le parti non hanno
esitato a definire come «storico». C’è il plauso di Letta, quello di
Napolitano, c’è l’adesione «per senso di responsabilità» dell’Ugl,
mentre protestano Fismic e Usb, che sostanzialmente denunciano che con
la soglia del 5% per essere ammessi ai tavoli delle trattative
contrattuali li si vuole tagliare fuori dai negoziati.
L’accordo
piace alla Fiom, che così potrà al prossimo giro riaprire la partita sul
contratto dei metalmeccanici non firmato a dicembre; ma l’intesa «non
risolve il problema della Fiat», ricorda il segretario Maurizio Landini:
«Per questo è necessario arrivare comunque ad una legge che garantisca
la piena libertà sindacale in ogni posto di lavoro e per tutte le
organizzazioni sindacali». Per Susanna Camusso, «si apre una stagione
nuova, non può esserci più l’esercizio delle divisioni sindacali, ora ci
sono dei vincoli e le regole non si possono più strappare. Fiat
conclude la sindacalista - rifletta sull’esigenza di avere regole
generali». Come noto il Lingotto è fuori da Confindustria, e dunque non è
tenuto a rispettare l’intesa. «È un accordo che cambia l’Italia e il
lavoro - dice il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni - perché rompe
lo schema che tra lavoratori e imprese non ci possa essere
collaborazione». Per il leader della Uil, Luigi Angeletti, è «un buon
accordo che rende più trasparente i rapporti» tra sindacati e imprese.
Renzi a fianco di Marino IMMAGINI
Venerdì
gran finale della campagna elettorale a piazza Farnese con Debora
Serrachiani, Giuliano Pisapia, Massimo Zedda e Nicola Zingaetti.
immagini
il Fatto 2.6.13
Indovina chi c’è a pranzo Renzi e l’ospite Briatore
Malumori nel Pd per l’incontro a Firenze tra il sindaco e l’imprenditore berlusconiano già condannato per truffa
di Luca De Carolis
A
Renzi non direbbe mai: “Sei fuori”. Perché a Flavio Briatore, l’amicone
della Santanchè che ama il lusso, il sindaco di Firenze piace davvero:
al punto che lo voterebbe “al 100 per cento”. E così venerdì
l’imprenditore ha chiesto e ottenuto di pranzare proprio con lui, con
Renzi, in un ristorante di lusso (5 stelle) nel pieno centro del
capoluogo. La notizia l’ha data ieri il Corriere Fiorentino, e ha aperto
subito la cascata di inevitabili commenti: perché Renzi, di fatto
azionista di maggioranza del Pd, si è seduto a tavola con quel Briatore
che del berlusconismo è quasi icona.
FACOLTOSO e di successo,
tanto da incarnare la figura del giudice di manager futuribili nel
programma The Apprentice (da lì la battuta “sei fuori”, entrata nel
gergo comune). Ma con un’ombra nel suo passato: la condanna a 1 anno e 6
mesi a Bergamo (3 a Milano), per bische clandestine. Pena mai scontata,
perché Briatore se ne volò alle Isole Vergini, e poi sopraggiunse
un’amnistia. Riavvolgendo il nastro, si torna al pranzo con Renzi, di
due giorni fa. Avvenuto su precisa richiesta dell’imprenditore, come
confermano ambienti renziani. Che precisano: “L’hanno fatto in pieno
centro, mica si sono nascosti: non c’era proprio nulla di così segreto”.
A organizzare l’incontro, Lucio Presta, manager di Roberto Benigni, che
quest’estate sarà di nuovo di scena nella città di Dante. Nei piatti
pesce, come da regola per i cattolici osservanti. Nei discorsi, tante
riflessioni sulla politica. E, secondo voci non confermate, anche
l’offerta di Briatore di un sostegno economico alle prossime iniziative
del sindaco. “Una cattiveria” secondo un renziano doc che neanche vuole
comparire. La certezza è l’ammirazione di Briatore per il primo
cittadino. “Renzi mi piace perché combatte le vecchie mummie, se si
candidasse lo voterei al 100 per cento” assicura il fondatore del
Billionarie. Quel marchio che dà il nome alla catena di locali di lusso,
e di cui l’imprenditore ha appena ceduto la maggioranza a un gruppo di
Singapore.
Chissà se avranno parlato anche di questo, con Renzi.
Ieri il sindaco era a Roma, a sostenere Ignazio Marino: “Ma non parlo
del governo, sennò succede un casino, e neanche del partito, altrimenti
succede un casino e mezzo”. Svicolate che gli sono valsi applausi, in un
affollato teatro della Garbatella. Come l’endorsement a Marino: “
Ignazio sarà un grande sindaco, potrà fare il mestiere più bello del
mondo”. Ma ora in diversi gli rinfacciano di nuovo la visita ad Arcore
del dicembre 2010. Fu sempre un pranzo, ma quella volta dall’altra parte
del tavolo c’era Silvio Berlusconi, allora premier. “Andai a chiedere
fondi per Firenze” spiega da anni Renzi.
EPPURE BERSANI su quel
viaggio ha costruito una porzione delle sua campagna per le scorse
primarie. E la sinistra Pd non ha mai capito, o meglio perdonato. Così
non stupisce il tweet della bersaniana di ferro Chiara Geloni,
direttrice di Youdem, la web tv del Pd: “Briatore uno di noi, come disse
Briatore di Don Gallo”. Sentita dal Fatto, Geloni aggiunge: “Basta già
il tweet. E poi ognuno è libero di mangiare con chi gli pare e di
commentare dopo nella maniera che preferisce. Che ne penso di Briatore?
Mi è più simpatico Renzi... ”. Sul suo profilo, la rispostaccia di un
fan del sindaco: “Ma sei pagata dal Pd per screditare Renzi? ”.
Commento
opposto dalla deputata renziana Maria Elena Boschi: “Ammesso che il
pranzo ci sia stato, non c’è assolutamente nulla di strano. È normale
che un sindaco veda degli imprenditori, ed è necessario che lo faccia.
Bisogna smetterla di esagerare su ogni cosa che fa Renzi”. Ma lei di
Briatore che ne pensa? “Non lo conosco, e non mi permetto di dare
giudizi: è un imprenditore, punto”.
Poi c’è Giuseppe Civati, di
questi tempi molto più rottamatore del rottamatore per antonomasia
Renzi. Che alla domanda sul pranzo ride forte: “Mi sembra più una cosa
del costume che della politica. Per il resto, che pranzino pure: non
bisogna essere troppo bacchettoni”. Ma Briatore... “No, no, lasciamo
stare”.
Che rimane? Innanzitutto, la voglia dichiarata di Renzi di
parlare a tutti, anche fuori del “recinto” del Pd. Un altro argomento
che nelle primarie fu terreno di ricorrente scontro con Bersani. Ma ci
sarà soprattutto da capire se e come Briatore vorrà dare una mano al
“suo” candidato. Chissà che ne pensa la Santanchè.
Corriere 2.6.13
Il caffè di Briatore con Matteo: lo vorrei premier
«Quando gli parli capisci subito che ha idee. Quante anime cattive gli fanno la guerra»
di Fabrizio Roncone
Un sms, su un numero di cellulare francese.
Cinque minuti dopo, chiama lui.
«Ciao, sono Flavio... che succede?».
Succede questo: il Corriere Fiorentino ha scoperto una colazione di lavoro di quelle che oggi fanno titolo. Flavio Briatore con Matteo Renzi, a Firenze, venerdì, all'hotel Four Season. Il terzo, a tavola, era il manager Lucio Presta.
Si sente la voce che Briatore mette su quando è di buon umore. «Vuol farmi parlare del Renzi? No, dico: ci siamo presi appena un caffè insieme» (è a Porto Cervo: c'è un magnate kazako, turco d'adozione, un certo Tevfik Arif, che ha deciso di sposarsi in Costa Smeralda, praticamente presa in affitto per tre giorni. Ricevimento al Cala di Volpe, camere che costano tremila euro a notte in bassa stagione, 30 limousine, banchetto con caviale e aragoste, champagne a fiumi non per modo di dire, e la richiesta — accolta da Briatore — di fare un festone al Billionaire).
Sì, parliamo di Renzi. Lei non nasconde di avere una forte simpatia per il sindaco di Firenze.
«È giovane, coraggioso, dinamico, concreto... mi piace. Quando ci parli, capisci subito che è uno che vuol fare, che ha idee, progetti, speranze. Ma non dovevo prenderci un caffè, per convincermi di questo».
Chi ha organizzato l'incontro?
«Nessuno. È stata una roba casuale».
Non ci credo.
«E invece devi! Come sarebbe che non ci credi, eh? Oh, dai, non scherziamo... È andata così: io dovevo vedermi con Lucio Presta, sta per ripartire il talent-show su Sky Cielo "The Apprentice" e dovevamo parlare un po'. Lucio, a sua volta, aveva un appuntamento con Renzi... Lucio è il manager di Benigni, e credo che Benigni, la prossima estate, tornerà in piazza Santa Croce per recitare la Divina Commedia. È così che ci siamo trovati insieme...».
Tutti sanno che Briatore è uno dei migliori amici di Berlusconi. Il Cavaliere, di lui, si fida. È tra i pochissimi a cui chiede un consiglio, e da cui, realmente, ne accetta. Perciò l'idea che Briatore abbia questo debole politico per Renzi, ex rottamatore del Pd, e oggi lì, in cammino rumoroso sull'orizzonte che porta al congresso del partito, inevitabilmente colpisce la fantasia di non pochi osservatori.
«Guardi, io su Renzi fui esplicito, e lui lo sa, già ai tempi delle primarie del Pd: quando dissi che, se fossi stato un militante, avrei senza dubbio votato per lui. Purtroppo gli oligarchi del partito scelsero Bersani e...».
Purtroppo, di preciso, perché?
«Beh, perché se fosse stato Renzi a essere il candidato premier, probabilmente Berlusconi non si sarebbe presentato alle elezioni. L'errore del Pd fu gravissimo. Non capirono, e temo che continuino a non capire, che Renzi può andare a prendere anche molti voti tra i moderati... Detto questo...».
Detto questo?
«Beh, anche se Renzi è lì a battersi contro quelle mummie, lui per primo sa che comunque, per poter fare delle cose, occorre poter essere messi nelle condizioni di farle. E se penso che a Palazzo Chigi sono riusciti a far restare bloccato pure uno come Berlusconi...».
Avete parlato anche di questo, l'altro giorno?
«Ma nooo! Dai, queste sono cose che dico io! Però è così: in Francia c'è una Repubblica presidenziale, in Gran Bretagna un primo ministro che decide, negli Stati Uniti il Presidente che può tutto... Qui da noi? Per questo, prima di pensare a nuove elezioni, io penso che questo governo farebbe bene a lavorare a una riforma elettorale, e non solo».
Continui.
«Deve fare riforme, abbassare le tasse, far sì che le banche tornino a prestare soldi alla gente. E questo è anche quello che pensa Berlusconi».
L'ha sentito di recente?
«Ci sentiamo sempre, con Silvio. Lui, a questo governo, è pronto a dare tutto il supporto possibile. Però, vede, lei prima mi chiedeva cosa penso di Enrico Letta: beh, io le persone sono abituato a giudicarle da ciò che fanno. E cosa ha fatto concretamente finora Letta, per far ripartire l'economia del nostro Paese moribondo? Pensi al turismo: sta per arrivare l'estate, ma chi ha il coraggio di investire qui da noi?».
A questo punto Briatore comincia a raccontare di come è stato facile aprire il suo nuovo ristorante Cipriani a Montecarlo, con la polizia che bloccava il traffico per aiutare i camion a scaricare tavoli e cucine, e con i tecnici del Comune che lo chiamavano per sveltire ogni pratica burocratica.
Briatore, se Renzi si candidasse come premier, lei lo voterebbe?
«Certo che lo voterei! Ma le chiedo: quante e quali sono le anime cattive di questo Paese che fanno, e faranno, la guerra a Renzi?».
La Stampa 2.6.13
La strategia di Renzi punta a costruirsi una base nel partito
Le mosse del sindaco di Firenze in vista del congresso
di Fabio Martini
Alla
Garbatella, quartiere popolare diventato di tendenza, tanta gente è
accorsa al teatro parrocchiale Ambra e tanti applausi accolgono Ignazio
Marino, in corsa per il Campidoglio e Matteo Renzi, giunto qui in
sostegno del probabile vincitore. Fino a quando, da un gruppetto, si
alza un urlo: «A’ Matte’, fatte ‘na foto con noi, siamo renziani della
prima ora! ». Ecco la novità: oramai, ovunque Renzi vada, emotivamente
sono quasi tutti con lui, anche militanti di base e dirigenti che sei
mesi fa avevano votato Bersani alle Primarie. Una piccola controprova
anche alla fine della manifestazione Marino-Renzi, quando i due si sono
prestati ad un piccola gag. Ha detto Marino sorridendo: «Dobbiamo fare
una cosa e forse viene anche meglio con il tuo accento... ». E Renzi:
«Non è che sono sicurissimo... ». E a quel punto, tutti e due in piedi,
sul palco del Teatro Ambra, hanno gridato verso la platea «Daje! », tra
gli applausi entusiasti di tutti.
Scene che si ripetono, in giro
per l’Italia - ecco la novità - è tutto un fiorire di renziani della
«seconda ora» e proprio in questo fenomeno sta il segreto della nuova
strategia di Matteo Renzi, completamente diversa da quella delle
Primarie, quando lui si propose in alternativa totale alla vecchia
classe dirigente: stavolta, in attesa della battaglia finale, Renzi non
pensa di candidarsi segretario e punta invece a prendersi pezzi
importanti di partito e di nomenclatura, tutti a livello locale,
potenziando la quota azionaria interna attraverso operazioni di «base».
Grosso
modo sta qui la risposta alla domanda che in tanti, giornali, amici e
nemici, si ripetono: il sindaco di Firenze si candida o no alla
segreteria del Pd, nel congresso di autunno? Lui, pubblicamente, dice di
no: «Sto studiando da segretario? Non sono interessato a tutto il gioco
delle trappolone politiche romane». Sono le stesse cose che Renzi
ripete ai suoi, a quei pochi con i quali si confida. Anche se al no alla
candidatura, aggiunge qualche dettaglio in più sulla tattica per le
prossime settimane. Che si può riassumere così: il governo non cade
subito, gli va dato un sostegno vigile, ma riservandosi mani libere
nella possibilità di applaudire ma anche criticare tutto quello che non
convince. Mentre a livello locale, oltre ad essere più accoglienti verso
la nomenclatura Pd aperta al rinnovamento, puntare anche a conquistare
qualche «casamatta». Come le segreterie regionali di regionichiave. La
Toscana, anzitutto. Dove Renzi ha già il candidato «giusto»: si chiama
Dario Parrini, è un ex Ds, dipendente delle Coop, già sindaco di Vinci,
oggi deputato. Ma l’obiettivo è quello di provare a sfondare anche in
Emilia-Romagna o in regioni ad alta densità Pd, come la Calabria.
E
qui Renzi incrocia un fenomeno ancora carsico, molto interessante:
nelle regioni rosse i leader di estrazione Ds, non soltanto sono pronti
ad appoggiarlo, ma gli chiedono di rompere gli indugi, di candidarsi
alla guida del Pd, perché hanno bisogno di un leader forte. Ma se Renzi
finirà per appoggiare un suo candidato, per esempio Sergio Chiamparino,
quel che resta della nomenclatura rossa gli ha già fatto sapere che
sosterrà il candidato di Roma, chiunque esso sia.
E proprio con
Guglielmo Epifani, Renzi non ha stabilito un buon rapporto. Il sindaco
racconta di essere rimasto sorpreso dall’atteggiamento del nuovo
segretario del Pd, che in vista della formazione della nuova segreteria,
non ha chiesto a Renzi nomi di renziani, come avrebbe fatto con le
altre correnti, ma si sarebbe ripromesso di scegliere per conto proprio.
Renzi sa bene che è utopia immaginare che venga accolta la richiesta di
poter ottenere il controllo dell’Organizzazione per uno dei trentenni
più svegli del suo team (Ernesto Carbone o Luca Lotti), ma si aspetta
almeno gli Enti locali. Ben consapevole che il gruppo di comando del Pd
(Bersani-Letta-Epifani-Franceschini), ma anche i giovani turchi
(Orlando, Orfini, Fassina) faranno di tutto per riprendere il controllo
della «ditta». E intanto ieri è andato in scena l’ennesimo duetto
Renzi-Letta. Il primo: «Io sono un sostenitore dell’abolizione del
finanziamento pubblico ai partiti da una vita. Ma non commento ciò che
fa il governo per evitare che si creino polemiche». Come dire: non
fatemi parlare. E Letta: «Io sono il primo tifoso di Renzi. Ha solo il
difetto di essere di Firenze mentre io sono di Pisa». E in un percorso
che non sempre è facile decifrare, alcune sere fa Renzi si è visto a
cena, a Firenze, con Flavio Briatore.
La Stampa 2.6.13
Fabrizio Barca
«Nessun duello con Matteo»
«Nessun
duello con Renzi, il lavoro che sto facendo è provare a discutere nei
circoli del Pd e, anche fuori, di ricostituzione. In Italia esiste un
problema di governabilità, da 20 anni c’è un overdose di riforme e
cambiamenti, anche il centrosinistra ha provato a governare mentre altre
volte manco è riuscito a convincere gli elettori». Così Fabrizio Barca,
ospite a «In Onda». Alla domanda se pensa che il sindaco di Firenze,
che ha recentemente incontrato, abbia cambiato idea e aspiri alla
segreteria del partito commenta laconico: «Non lo so». Barca ha poi
commentato le polemiche sul finanziamento pubblico ai partiti. «Gli
italiani vogliono che vengano finanziate funzioni utili dei partiti ma
se io finanzio gli spazi tv, che idea ho dell’utilità pubblica dei
partiti?». «Io finanzierei afferma - le funzioni di utilità pubblica,
seminari, incontri e non gli spazi tv». Per Barca, infine, «ci deve
essere un limite alle donazioni private e devono essere di scopo e non
finanziamento qualunque».
il Fatto 2.6.13
Alemanno&co e il prete degli orrori
Tutti gli “amici” di don Ciotti, ex delegato del sindaco, condannato per pedofilia
di Angela Camuso
Un
sacerdote moderno e carismatico, idolatrato dalla gente, corteggiato
dai politici. Un potente uomo di Chiesa, a capo di una popolosa
parrocchia romana ed economo della Curia, braccio destro dell’attuale
vescovo della diocesi di Porto Santa Rufina di Roma e nominato
dall’allora futuro sindaco della Capitale Gianni Alemanno quale suo
delegato alle politiche della famiglia. Non è un prete qualsiasi don
Ruggero Conti, condannato a Roma venerdì in secondo grado a 14 anni e 2
mesi per violenza sessuale nei confronti di sette tra bambini e
adolescenti che frequentavano l’oratorio di Selva Candida, borgata alla
periferia nord-ovest della metropoli. Viene dal ricco Nord Italia, don
Conti, nato nel 1953 a Legnano (Milano).
AVEVA TRENT’ANNI e non
era ancora sacerdote, anzi ufficialmente era fidanzato, quando secondo
le indagini iniziò a violentare adolescenti maschi approfittando del suo
ruolo di animatore del vivace oratorio di San Magno nel centro storico
della cittadina lombarda. Allegro, generoso, disponibile, don Ruggero
era amato dalla gente di Legnano.
Da tempo frequentava Comunione e
Liberazione e faceva persino l’insegnante di educazione sessuale in una
scuola media. Nel 1986 stravinse le elezioni comunali di Legnano,
diventando assessore alle Politiche sociali. Diventò sacerdote nel ‘91, a
38 anni. Arrivò a Selva Candida nel ‘96 e alla gente del posto sembrò
di passare, di colpo, dalla notte al giorno: quel prete non era soltanto
un eccellente organizzatore di eventi che coinvolgevano i giovani, ma
pure un formidabile collettore di donazioni che si trasformavano in
opere visibili a beneficio della comunità.
La parrocchia di Selva
Candida rientrò così nel progetto pilota della Cei per la costruzione in
tutta Italia di 50 nuove chiese. Sempre con tanta disponibilità di
contanti, che utilizzava in realtà anche per sedurre i ragazzini che lo
interessavano sessualmente, il prete organizzava in parrocchia eventi in
grande stile. Nel 2008 arrivò in quella borgata Gianni Alemanno, che
quando era ministro delle Politiche agricole aveva sovvenzionato i
giardini esterni alla nuova chiesa. Anche Giuliano Ferrara, a quel tempo
impegnato nella sua crociata contro l’aborto, attinse a quel bacino
elettorale. Pure Walter Veltroni, di cui il parroco raccontava di essere
amico. E Francesco Storace. Il vicesindaco di Roma Mauro Cutrufo e
Mario Baccini, ex ministro della Funzione pubblica nel secondo governo
Berlusconi, si misero a parlare in chiesa durante la messa domenicale,
tra il mormorio dei fedeli di diverso orientamento elettorale. Dopo la
funzione, Baccini era andato a banchettare nella canonica. Don Ruggero
era intimo anche dell’opinionista monsignor Giovanni d’Ercole, volto
popolare della Rai: lui è l’uomo che aveva introdotto don Ruggero nella
Segreteria di Stato della Santa Sede. Ora su Conti pesa un nuovo
verdetto, arrivato a più di due anni dalla condanna in primo grado e a
cinque anni di distanza dall’arresto del prete, senza che le vittime
abbiano ancora ottenuto alcun risarcimento, perché il tribunale non ha
riconosciuto né la parrocchia né la diocesi responsabili civili di
quanto commesso dal sacerdote. Questo nonostante l’acclarato
comportamento omissivo del vescovo, monsignor Gino Reali, indagato per
concorso in violenza sessuale ma subito prosciolto su richiesta del pm,
Francesco Scavo.
UN’ARCHIVIAZIONE che nelle sue motivazioni fa
intendere le responsabilità morali del monsignore. Scriveva il pm:
“Reali ha tenuto un comportamento eccessivamente passivo o indolente
nella conduzione della vicenda che (seppur rilevante sotto altri
profili) non è in alcun modo idoneo a costituire il fondamento di una
responsabilità penale”. Dei suddetti altri profili non risulta si sia
occupata in alcun modo l’Autorità ecclesiastica. Il vescovo, che pur
ricevette segnalazioni dai parrocchiani e un’accorata lettera di un
ragazzo violentato, riconfermò nel 2006, per i successivi nove anni, don
Ruggero parroco di Selva Candida. Reali non è mai stato oggetto di
provvedimenti disciplinari e a settembre del 2012 fu ricevuto con tutti
gli onori da Papa Benedetto XVI al termine di un’udienza generale.
D’altra parte il processo a don Conti, sin da subito, ha diviso in due
l’opinione pubblica: un nutrito gruppo di innocentisti ha gridato al
complotto fino all’ultimo ed era in aula anche l’altroieri.
il Fatto 2.6.13
“La preda”, storia dei violati
“LA
PREDA”, scritto da Angela Camuso per Castelvecchi (2012), è il libro
che racconta “le turpitudini commesse da don Ruggero Conti”, attraverso
le confessioni di una vittima e la rielaborazione delle carte
giudiziarie su una delle più gravi storie di abusi sessuali a carico di
un sacerdote italiano. La voce narrante è Vasco, adolescente ‘normale’
che racconta gli abusi subiti assieme a scorci della sua quotidianità
familiare, il suo rapporto coi coetanei e quello con la fede. Il libro
mette in luce come il prete non abbia mai utilizzato la forza fisica per
abusare dei minorenni, adescandoli bensì “in virtù del ruolo di Padre
che questi ragazzi gli avevano riconosciuto”.
LA PREDA LE CONFESSIONI DI UNA VITTIMA, Angela Camuso, Castelvecchi, pag 288 14,88 €
l’Unità 2.6.13
Il costo dei respingimenti
L’Italia ha speso in sette anni 1,6 miliardi per fermare gli arrivi irregolari
di Rachele Gonnelli
La
strategia della «tolleranza zero» è costata, dal 2005 al 2012, un
miliardo e 600 milioni. Per rimpatriare gli immigrati si è speso
soprattutto in voli, scorte, costo dei Cie. Una politica disumana e
dispendiosa. È il rapporto «Lunaria» sugli arrivi irregolari in Italia.
Andava
e veniva, Rasek. Quando lo ingaggiavano al pianobar, prendeva il
battello da Tunisi, faceva una serata, una settimana, una stagione a
Palermo, poi tornava, se invece non c’era lavoro restava a casa.
Funzionava così tra Italia e Tunisia nei primi anni Settanta. Costi per
lo Stato italiano, zero. È stato solo dopo, molto dopo, che Rasek ha
dovuto operare una scelta per non finire bollato come «clandestino». Ha
scelto di trapiantarsi armi e bagagli in Sicilia, abbandonando moglie e
figlie, portandosi dietro solo il figlio maggiore. Un grande dolore. Il
mare non è più un ponte, la via di casa, ma un fossato medievale,
militarizzato.
Non ci sono storie personali come questa nel
rapporto «Costi disumani», sottotitolo «la spesa pubblica per il
contrasto dell’immigrazione irregolare», presentato dall’associazione
Lunaria in una sala della Camera dei Deputati. Nel dossier ci sono solo
numeri, inediti. O meglio, analisi delle voci di spesa della politica
basata sui respingimenti. Si scopre così che gran parte dei fondi
utilizzati per i Cie servono per l’allestimento degli stessi, cioè
l’acquisto o l’affitto, la manutenzione, le mobilia, rispetto alle spese
per i servizi e il sostentamento degli immigrati. Questi centri di
detenzione, nati per identificare e rimpatriare le persone senza
permesso di soggiorno sono divenuti piccole prigioni dove attualmente,
dopo Maroni, si può essere reclusi fino a 18 mesi senza aver commesso
alcun crimine e senza altra possibilità di difesa che davanti a un
giudice di pace, non togato e non specializzato in materia di diritto
d’asilo. Mentre si risparmia sul vitto nei Cie e sugli stipendi agli
operatori, perché in epoca di spending review le gare si fanno al
massimo ribasso: costo medio al giorno pro capite 30 euro al giorno,
avvocati compresi.
Politiche analizzate sono basate poi sul
pattugliamento delle frontiere marittime e terrestri, inclusi sistemi di
radio e video sorveglianza sempre più sofisticati che rappresentano si
scopre una delle voci più dispendiose, sia a livello nazionale sia
comunitario. Radar, fuoristrada, minibus, motovedette, aerei, elicotteri
sistemi informatici non si sa con quali marchi -, questo si è comprato
con la maggior parte dei fondi stanziati a Bruxelles e a Roma nei
diversi Fondi per il contraso all’immigrazione. Tutto nel nome di una
presunta «sicurezza» declinata come «strategia di contrasto
all’immigrazione irregolare», così la chiamano i governi che si sono
succeduti dal 1999 ad oggi e che l’hanno individuata, senza distinzione
di colore e campo politico, come priorità, al posto dell’accoglienza. La
«politica del rifiuto», la chiama invece la presidente di Lunaria
Grazia Naletto, portavoce anche della campagna Sbilanciamoci. Per lei e
per tutte le associazioni con cui Lunaria fa rete non è affatto l’unico
approccio possibile. Non è certamente la scelta più giusta, perché
produce costi umani esorbitanti, dall’ecatombe di naufragi ai diritti
fondamentali violati nei Cie, «inaccettabili per uno Stato di diritto»
anche per l’Europa. Ma non è neanche la più efficace. Al contrario, è
dispendiosa e inefficiente. E resta funzionale solo ad alimentare
un’economia caratterizzata da una forte commistione tra attività
formali, informali e sommerse, alimentate da lavoro nero, sottopagato e
mancanza di diritti.
Tra il 1986 e il 2009 oltre 1 milione e 600
mila stranieri sono stati regolarizzati con successive sanatorie. Mentre
i migranti entrati irregolarmente e catturati sono stati, tra il 2005 e
il 2011, solo 540mila. Di questi quelli rimpatriati sfiorano il 14%
(73mila) e quelli allontanati cioè con decreto di esplusione, spesso
ignorato dal singolo sono il 26% (141mila). Nel complesso meno del 40%
degli immigrati irregolari rintracciati sono stati sottoposti a
procedura di via. Con un picco nel 2011 durante le cosiddette Primavere
arabe. Il tutto con costi abnormi: questa strategia di «tolleranza zero»
è costata dal 2005 al 2012 la bellezza di un miliardo e 600 milioni.
Dove
sono finiti questi soldi? Questo che è solo il primo rapporto sulle
politiche migratorie dell’Italia redatto da Lunaria (disponibile sul
sito www.lunaria.org) dimostra l’opacità del meccanismo con un capillare
lavoro di reperimento di dati ufficiali. Un lavoro non facile perché
come conclude con una chiamata in causa per una maggiore vigilanza della
Corte dei Conti, delle commissioni parlamentari competenti e del
Parlamento europeo la trasparenza è molto carente ovunque nel settore.
Mancano dettagli, documentazione, valutazione dei risultati. E anche nei
Cie, gli appalti spesso sono ancora senza gara perché dopo 15 anni di
detenzione amministrativa per i «clandestini» il sistema è ancora basato
sull’emergenza, senza omogeneità né rendicontazione. Neanche la
Commissione De Mistura nel 2007 è riuscita a fare luce sui fondi
impiegati.
Un capitolo a sé riguarda il Frontex, l’agenzia europea
nata nel 2004 per il controllo integrato delle frontiere meridionali
dell’Unione, che in pochi anni ha visto quadruplicare il suo budget e il
suo personale con interventi crescenti nel 2011, a fronte di finalità e
limiti sfumati, tali da farla apparire come «un servizio di
intelligence addetto ai migranti». Lunaria chiede l’immediata chiusura
dei Cie e in ogni caso il ritorno a una detenzione per identificazione
di massimo 30 giorni. Così come vorrebbe che la finalità principale del
Frontex, con i suoi potenti mezzi tecnologici, fosse il soccorso in mare
ai migranti. Uno strumento utilizzato molto poco, al contrario di ciò
che vorrebbero associazioni come Lunaria e l’Arci, è il rimpatrio
volontario assistito: incluso un aiuto per aprire un’attività e
reinserirsi nella terra d’origine ha un costo unitario medio di 4mila
euro, a fronte dei 4-9 mila di un rimpatrio forzato che prevede scorta e
spesso una missione di più giorni di agenti in divisa e procedure di
sicurezza altrettanto costose per il viaggio. Con una differenza: non
c’è divieto di tornare. Si rientra, si tenta, si torna inidetro. Un po’
come faceva Rasek quando le frontiere erano più aperte e l’aria
migliore.
il Fatto 2.6.13
La confessione
“1.500 euro al mese? Figuriamoci”
Il gioielliere: “Ecco i nostri trucchi per evadere le tasse”
di Beatrice Borromeo
Millecinquecento
euro al mese in media: meno di gelatai, imbianchini e muratori. La
dichiarazione dei redditi dei gioiellieri – diffusa dal dipartimento
delle Finanze del ministero dell'Economia – stupisce tutti tranne che i
gioiellieri stessi, che si guardano bene dal commentare questi numeri.
“Non ne so abbastanza”, spiega uno dei nomi più prestigiosi
dell'ambiente; “Non parlo, sennò vengono a farmi i controlli”, si
preoccupa un altro; “i conti tornano: ha idea di quanti piccoli
artigiani vendano pochissimo, soprattutto in tempi di crisi? ”, azzarda
un terzo. Poi arriva un grossista, i cui preziosi sono ben visibili in
tutte le più celebri vetrine italiane, e decide di svelare il decalogo
dell'evasore: “Voglio fare qualcosa per la società”, sorride.
Partiamo dai numeri: è verosimile che i suoi colleghi guadagnino meno di 18 mila euro all'anno?
Neanche
per sogno. È vero che ci sono piccoli gioiellieri di periferia che
hanno costi fissi molto alti – come i commessi, la porta blindata, le
spese di assicurazione – e che vendono poco. Questo è un mestiere a
rischio. Però direi che in generale la realtà è ben diversa.
Lei quanto dichiara?
Dipende.
L'anno scorso sui 50 mila, quest'anno circa 42 mila. Io non denuncio
tutto, anche perché vivo in Italia solo qualche mese all'anno quindi mi
autoregolo, mi sembra giusto così.
E non ha paura di essere scoperto?
Il
rischio c'è, ma per i grossisti è molto basso. Il modo più diffuso per
evadere, che usano molto anche i negozianti, è quello di vendere la
merce ai privati senza fattura, cioè senza far pagare l'Iva. Ci
guadagnano tutti: il cliente risparmia fino al 20 per cento, e noi
possiamo mettere a registro una cifra più bassa, così da pagarci sopra
meno tasse. Ci vuole poco per superare la soglia dei 60 mila annui e far
scattare l'aliquota più alta…
Lo fate con tutti i clienti?
Certo
che no. Agli sconosciuti, anche se scelgono gli oggetti più costosi, lo
scontrino si fa sempre. Questa dialettica si crea solo con gli
acquirenti più affezionati, di cui ci si può fidare. Poi ci sono altri
metodi.
Per esempio?
Si può risparmiare sul “magazzino”, che
è il nostro invenduto. Io ho 500 paia di orecchini e 400 anelli in oro:
per far tornare i conti ho dichiarato i numeri esatti, ma ho abbassato
il valore dello stock. Certo che se vengono a controllare magari se ne
accorgono, ma è improbabile.
E perché?
I grossisti non hanno
vetrine: siamo meno in vista. La Finanza, prima o poi, in negozio ci
va. Il che non significa che i commercianti non evadano, solo che devono
stare ancora più attenti di noi.
Altri sistemi?
Se compri
una pietra da un privato per 30 mila euro, in nero, ci metti nulla a
rivenderla per 50 mila al negoziante di via dei Condotti. Comunque sia, i
ricchi ormai comprano soprattutto all'estero, per esempio a Lugano. Poi
indossano gli orecchini e tornano in Italia tranquilli e felici. Chi
vuole che se ne accorga?
Che tipi sono i suoi clienti?
Al 99
per cento sono commercianti. Vista la crisi che c'è in questo momento,
per senso di responsabilità, provo a fatturare il più possibile. Certo,
se vendessi in nero guadagnerei di più, ma cerco di non farlo.
E ci riesce?
Mica
tanto. In parecchi si rifiutano di avere la fattura, e parlo di alcuni
dei nomi più prestigiosi e conosciuti in Italia, anzi nel mondo. Spesso
decidono a seconda della convenienza: se sono a corto di fatture, per
far quadrare i conti, me le chiedono. Altrimenti non le vogliono. Devi
essere bravo a bilanciare. Altri commercianti, invece, vogliono avere
tutto in regola, ma purtroppo sono pochi.
Qual è secondo lei il vero reddito medio di un gioielliere italiano?
A
occhio direi sui 60, 70 mila euro all'anno. Magari quello che vende i
ninnoli d'oro guadagna meno, ma stiate certi che supera i 1.500 euro al
mese.
l’Unità 2.6.13
Dilaga la rivolta
La battaglia degli alberi incendia la Turchia
Lacrimogeni contro i manifestanti
Un migliaio di feriti, alcuni sono gravi. La difesa del parco di Istanbul si trasforma in protesta politica
Erdogan: «La polizia ha ecceduto ma andremo avanti»
di Umberto De Giovannangeli
La
difesa del parco di Istanbul si trasforma in protesta politica. «Quel
parco è diventato un presidio di libertà. Gezi Park è la nostra Piazza
Tahir», dice Ahmet, 22 anni, dando voce alla rivolta dei giovani turchi.
Un migliaio i feriti, alcuni sono gravi.
Quel parco è
diventato un presidio di libertà. Gezi Park è la nostra “Piazza
Tahrir”». Le parole di Ahmet, 22 anni, danno conto dello spirito che
anima i giovani turchi protagonisti da giorni della «battaglia di
alberi». Occupy Gezy Park sfida Recep Tayyip Erdogan e il suo Islam
«temperato». Voci di libertà, da Istanbul. Quella di Ahmet, quella di
Lily, vent’anni, anche lei universitaria. «Ci sono 40mila persone sul
ponte sul Bosforo racconta Lily, raggiunta telefonicamente da l’Unità -.
Tutti i mezzi pubblici sono bloccati. La gente solidarizza con i
manifestanti...». La linea telefonica cade. Una decina di minuti dopo
riusciamo a ristabilire il contatto. «Ascolta dice Lily questa è la
risposta del potere...». La voce di Lily viene sovrastata dal rumore dei
lacrimogeni sparati dagli agenti di polizia che hanno preso d’assalto
il presidio di Gezi Park. L’aria si fa irrespirabile, si sentono le
grida dei ragazzi e il suono delle sirene delle ambulanze. «Da qui non
ci muoviamo afferma Ahmet siamo sempre più determinati, e la protesta si
è già estesa ad Ankara e in altre città», (anche quelle dove l’Akp, il
Partito per la Giustizia e lo Sviluppo di Erdogan, che guida il Paese
dal 2002, è forza ampiamente maggioritaria, ndr). «Siamo non violenti ma
non rassegnati. Erdogan non ci piegherà».
I ragazzi di Gezi Park
raccontano di una «Primavera turca» sbocciata nel cuore verde di
Istanbul. «Quella che si sta scrivendo è una nuova agenda dei diritti
fondata sul principio della laicità, un principio che non è più nelle
mani dei militari ma viene impugnato da giovani colti, che si sentono
cittadini del mondo», dice a l’Unità lo scrittore Alev Alatli. Mithat,
21 anni, è uno dei dirigenti della rivolta. «Il nostro obiettivo dice è
quello di impedire la distruzione del Gezi Park. Ma non c’è dubbio che
ogni ragazzo che partecipa alla protesta porta una sua istanza di
libertà».
I ragazzi di Gezi Park, assomigliano a quelli di Piazza
Tahrir del Cairo, come agli indignados di Madrid, Londra, New York: la
loro filosofia è «vietato vietare». Molti manifestanti portano nelle
mani ritratti di Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia laica
e moderna e giurano che non abbandoneranno la piazza finché Erdogan non
si sarà dimesso. È la Turchia laica in rivolta contro l’islamismo di
Erdogan.
E la rivolta non si placa. Gli scontri sono proseguiti
per ore con i reparti antisommossa che hanno lanciato, secondo alcuni
testimoni, anche lacrimogeni dagli elicotteri. I dimostranti sono
riusciti a entrare in piazza Taksim e hanno lanciato sassi contro i
blindati della polizia. È di almeno 1.000 feriti il bilancio provvisorio
degli scontri, secondo l’Associazione dei medici turchi, sottolineando
che almeno quattro persone hanno perso la vista dopo essere state
centrate dai candelotti lacrimogeni sparati dagli agenti mentre altre
quattro sono curate per fratture al cranio.
SFIDA AL POTERE
Molti
i dimostranti colpiti da manganellate o intossicati dai gas lacrimogeni
che hanno ricoperto di una coltre irrespirabile le strade trasformate
in campi di battaglia. La protesta è scoppiata a seguito della decisione
di sradicare 600 alberi, ma si è ammantata di molti altri significati
con il passare del tempo. Le opposizioni a Erdogan sono scese in campo
al fianco dei manifestranti.
Sulla rete numerosi messaggi di
solidarietà affollano i social network, al grido di occupygezi. Il capo
dell’opposizione, il socialdemocratico Kemal Kilicdaroglu ha chiesto al
premier Erdogan di ordinare «l’immediato ritiro» delle forze di polizia
che circondano i manifestanti a Gezi Park. «Non mettete la polizia
contro il popolo. Questa gente sta difendendo la sua città», rimarca
Kilicdaroglu.
Anche il regista turco Ferzan Ozpetek, come molti
altri intellettuali e artisti di Istanbul, sta sostenendo i manifestanti
di Gezi Park, aderendo ad un appello lanciato ai media internazionali
«perchè il resto del mondo sia messo a conoscen-
za di quello che
sta accadendo e dello stato di polizia creato dal partito Akp». Ma il
primo ministro non intende recedere alla linea del pugno di ferro con
gli oppositori. Erdogan ha previsto che al posto dell’attuale piazza e
del parco venga realizzato uno dei progetti faraonici con cui intende
caratterizzare il suo mandato governativo. Nel giro di pochi anni un
terzo delle vecchie abitazioni della città saranno rase al suolo per
fare spazio, tra l’altro, ad un aeroporto, a una nuova moschea, e a un
nuovo canale che sdoppierà il Bosforo.
Nel tardo pomeriggio la
polizia turca si è ritirata dalla piazza Taksim, Erdogan nel tentativo
di stemperare la tensione al secondo giorno di scontri ha riconosciuto
che la polizia ha calcato la mano. La piazza si è immediatamente
riempita di migliaia di persone. «La polizia è già intervenuta e
continuerà a intervenire perché piazza Taksim non può essere un’area in
cui gli estremisti fanno come gli pare», aveva dichiarato in precedenza
il premier in tv. Erdogan, pur ammettendo gli «eccessi» della polizia,
ha ribadito che il governo non intende bloccare il progetto. Poi
l’invito: «Chiedo ai manifestanti di fermare immediatamente le loro
proteste e di non causare ulteriori danni ai turisti, ai passanti e ai
negozianti», ha detto in tv il capo del governo turco.
Ma la
protesta non si ferma. A Istanbul, ma anche ad Ankara, dove nel centrale
quartiere di Kizilay centinaia di persone hanno lanciato pietre contro
la polizia mentre un elicottero sparava candelotti di gas lacrimogeno
sulla folla. È sbocciata una «Primavera turca»?
La Stampa 2.6.13
«Troppi divieti negli stili di vita La gente non ne può più»
domande a Ekrem Guzeldere analista
di M. O.
Una
protesta che dilaga e sfugge di mano; Erdogan che ha sbagliato a
calcolarne le conseguenze, peccando di eccessiva sicurezza. Ekrem
Guzeldere, analista politico esperto di Turchia dell’European Stability
Iniziative, un think-tank che si occupa di Europa sudorientale, spiega i
motivi della rivolta e quali conseguenze la rabbia dei giovani in
piazza Taksim potrebbe avere sul futuro del Paese».
Ekrem Guzeldere, migliaia di persona in piazza contro il governo in pochi giorni. Come se lo spiega?
«Ci
sono più fattori che hanno portato a questa rivolta. Sicuramente una è
la legge sulla restrizione di vendita di alcol, che è stata approvata la
settimana scorsa e che è stata percepita come una limitazione allo
stile di vita.
Ve ne sono altre?
Ce ne è una seconda: ovvero
alcune grand i o p e re promosse dal premier, come il terzo aeroporto o
il terzo ponte sul Bosforo. Entrambe mettono a rischio l’ambiente ed
entrambe sono state viste più come progetti faraonici, deleteri per
l’ambiente e la speculazione edilizia che altro».
Perché la gente è in piazza?
«La
gente è chiaramente in piazza contro un modo di governare il Paese, non
solo per l’ambiente. Abbiamo un premier che ha preso il 50% dei
consensi e che per questo ormai si sente onnipotente, può contare sui
media e su un sistema economico pronto a sostenerlo».
Come mai il premier Erdogan non ha fatto nulla per evitare che la situazione degenerasse?
«Perché
ormai ha acquisito una sicurezza eccessiva, che rischia seriamente di
diventare un problema per lui. Si vede da come sta governando. Ormai va
avanti da solo, non fa nemmeno più il gesto di ascoltare le opposizioni.
Una volta non era così».
Come vede la Turchia, adesso?
«Mi
pare che questo terzo governo Erdogan, che avrebbe dovuto rappresentare
il nuovo corso per la politica nazionale, sia nelle sue manifestazioni
molto vicino come impostazione a quelli della vecchia Turchia che lo
hanno preceduto. La differenza è che una volta c’erano alcuni tabù, come
la questione curda, ora ne sono subentrati altri, che riguardano
soprattutto gli stili di vita».
Corriere 2.6.13
Con le proteste di piazza Taksim è arrivata la Primavera turca
di Antonio Ferrari
È una stagione davvero difficile per la Turchia e per il suo primo ministro Recep Tayyip Erdogan, che soffre di arroganza e che si lascia sedurre troppo spesso dall'autoritarismo. La decisione di sventrare il polmone verde più affascinante di Istanbul, il Gezi Park contiguo alla celebre piazza Taksim, per costruirvi un ecomostro, cioè un altro gigantesco centro commerciale, ha scatenato la dura protesta dei giovani «indignados». Per difendere i seicento alberi che dovrebbero essere abbattuti per far strada a una colata di cemento, in Turchia è esplosa un'ondata di rabbia che pare incontenibile. Migliaia per strada ad Istanbul, ad Ankara e in altre città. Reazione durissima delle forze antisommossa con cannoni ad acqua, lacrimogeni e gas urticanti, centinaia di feriti, e il duro commento del premier: «Andremo comunque avanti con il progetto». Dichiarazione lievemente attenuata ieri pomeriggio, quando Erdogan ha concesso che in qualche caso vi è stato un uso sproporzionato della forza da parte della polizia. Il ricorso alla magistratura degli oppositori al progetto è all'esame della Corte, e le ruspe per ora si sono fermate. Però il fatto rivela — ben oltre la difesa dell'ambiente — il profondo malessere che attraversa il Paese. Il divieto delle effusioni nei luoghi pubblici si è rapidamente trasformato in una corsa alla trasgressione. Nei giorni scorsi il Parlamento ha votato il provvedimento che vieta di consumare alcolici in prossimità delle moschee e dalle scuole, e vieta di venderli dalla sera all'alba. Misure adottate anche altrove, d'accordo. Però in Turchia sono state attaccate duramente dai laici, convinti che si tratti di un altro passo per giungere alla re-islamizzazione del Paese.
Tuttavia, c'è un altro aspetto che indica la portata politica della protesta per la distruzione del Gezi Park. Appunto la contiguità con la piazza Taksim di Istanbul. Piazza Taksim, per i contestatori turchi, è quel che la piazza Tahrir del Cairo è per gli egiziani. L'accostamento è plausibile, e soprattutto non è improprio. Erdogan ha di che preoccuparsi, anche perché c'è già chi parla apertamente di «primavera turca».
Repubblica 2.6.13
Quella donna in rosso, simbolo della rivolta
di Renzo Guolo
PIAZZA Taksim come piazza Tahrir? Di sicuro la rivolta degli alberi, rappresentata dalla “donna in rosso” che resiste al getto degli idranti, mette per la prima volta in difficoltà il governo Erdogan.
Come spesso accade, è una vicenda apparentemente impolitica che fa scattare la scintilla. La protesta contro la distruzione del parco Gezi, il polmone verde cittadino, per fare posto a un enorme centro commerciale, a una caserma e a una moschea, diventa così occasione per parte della società turca, quella cresciuta all'ombra di una laicità alla francese e quella che guarda all'Europa, di manifestare il proprio rifiuto nei confronti del modello Akp.
Un modello ben visibile nel progetto contestato, caratterizzato da simboli economici, militari, religiosi. Una sintesi perfetta del neottomanesimo in versione Akp, fondato su una crescita economica onnivora e il gigantismo progettuale, sul ritrovato ruolo politico e militare del paese, sul marcatore religioso. È contro questa Turchia neottomana che protesta l'opposizione politica e la società laica, non certo riducibile al kemalismo autoritario. Gezi è il catalizzatore di un dissenso più vasto.
Divenuto egemone grazie alla capacità di garantire crescita e stabilità interna, l'Akp ha pigiato recentemente l'acceleratore sul versante dell'islamizzazione dei costumi. Il divieto di baci in pubblico, l'ostracismo verso trasmissioni televisive critiche nei confronti del passato ottomano e la pubblicità “lasciva”, così come altri segnali, dall'invito del sindaco di Ankara ai cittadini a adottare stili di vita consoni ai valori morali della nazione alla legge per limitare il consumo di alcolici, dalla condanna per blasfemia di uno scrittore di origine armena per aver criticato il Profeta alla decisione governativa di non riconoscere rilevanza culturale agli aleviti, branca minoritaria e liberale dell'islam, fanno temere una decisa virata verso l'islamizzazione dei costumi.
Del resto, più un partito islamista come l'Akp, al potere dal 2002, diventa “affidabile” sul piano sistemico, interno e internazionale, tanto più dovrà irrigidirsi sul piano dei valori e dei costumi. In Turchia come altrove. Se attenua troppo il suo profilo religioso, intacca il consenso dell'elettorato islamista. Ne va della stessa matrice originaria di una formazione che, nonostante la patente di “moderatismo” e il luogo comune secondo cui sarebbe assimilabile alla Dc italiana o quella tedesca, ha radici nell'islam politico.
Erdogan è riuscito a trasformare progressivamente il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo in partito “pigliatutto, capace di raggruppare pezzi di società dagli interessi e valori differenziati, che chiedevano essenzialmente normalizzazione e modernizzazione. La vittoria in tre elezioni consecutive gli ha consentito di ridurre il peso dei contro-poteri custodi, anche arcigni, della laicità: quello militare, quello giudiziario, quello burocratico, in passato efficienti attori di interdizione del nascente potere islamista. L'Akp è ora a un bivio: può optare per un generico conservatorismo religioso oppure, forte del consenso acquisito sul terreno economico e del prestigio assunto in Medioriente e in Asia Centrale, provare a introdurre nella società “elementi di islamismo”. Il clima degli ultimi mesi fa ritenere a molti turchi che l'Akp abbia imboccato questa seconda strada. Per questo la protesta dilaga e i manifestanti chiedono le dimissioni di Erdogan. La rivolta di Istanbul è il termometro della febbre di un paese diviso sulla sua identità.
il Fatto 2.6.13
“Noi sopravvissuti, anime morte del 4 giugno”
Le parole del Nobel per la Pace cinese incarcerato Liu Xiaobo per ricordare il massacro del 1989 in piazza Tien An Men
di Liu Xiaobo
Pubblichiamo
uno stralcio della raccolta di scritti di Liu Xiaobo (Nobel per la Pace
2010) per commemorare le vittime di piazza Tien an men di cui martedì
cade il 24° anniversario
Ora, mentre scrivo al computer
questo memoriale per il Quattro giugno, sento ancora le grida silenti
di quelle anime morte. Sono trascorsi tanti anni, e noi, carnefici,
sopravvissuti, cosa abbiamo fatto davvero per gli spiriti afflitti di
quegli innocenti? (…) Che ne è del popolo, con governanti di tal genere?
In una struttura di potere autocratico che trabocca di “discreto
benessere”, la maggior parte della gente tace, insensibile, imbevuta
dell’anticonformismo fasullo.
Se qualcuno dicesse che la nostra
generazione e quella dei nostri padri hanno subito il lavaggio del
cervello dalla lotta di classe comunista e dall’ascetismo buddista, noi
avremo perduto il ricordo e l’immagine di una umanità gloriosa. Ma le
nuove generazioni hanno veramente subito il lavaggio del cervello dal
materialismo, dall’edonismo del Partito comunista: non hanno memoria
delle sofferenze subite nel passato dal loro popolo. Settant’anni fa il
regime totalitario dell’Urss ha lasciato alla popolazione il nome
“Gulag”. La dittatura fascista della Seconda guerra mondiale ha lasciato
al mondo un altro nome: “Auschwitz”. E noi? Un vuoto desolato: torri
altissime e artificiose, da quattro soldi, e neanche un fiore sulle
tombe. E ancora, se penso a un sopravvissuto quale sono io, a una
celebrità del Quattro giugno autoproclamatasi membro dell’é-lite
culturale come me: che cosa abbiamo fatto per quelle anime dei defunti?
Il mio buon amico Liao Yiwu, poeta del Sichuan, dopo i sanguinosi
avvenimenti del Quattro giugno scrisse due poemi, Massacre e Requiem,
per i quali è stato accusato di essere il principale istigatore del
crimine “di incitamento alla propaganda antirivoluzionaria”, ed è stato
condannato a 4 anni di carcere. Fino a oggi noi cinesi non siamo stati
capaci di superare il crudele egoismo del totalitarismo, ma all’ultimo
momento abbiamo esercitato l’autodisciplina.
Sono stato spesso
tormentato dal senso di colpa. Ho tradito il sangue delle anime del
Quattro giugno con una confessione scritta mentre ero detenuto nella
prigione di Qincheng. Quando mi hanno rilasciato godevo ancora di una
certa fama e ho ricevuto un gran numero di attenzioni. Ma le vittime
comuni, quegli individui senza nome che ancora sono in galera, cos’hanno
ricevuto loro? Ogni qual volta ci penso non ho il coraggio di fissare
il fondo della mia coscienza: troppe debolezze da affrontare, troppo
egoismo, troppe bugie spudorate. Da troppo tempo siamo piegati verso la
lama della baionetta della menzogna, della spudoratezza, dell’egoismo,
della debolezza, tanto che ormai abbiamo completamente perduto la
memoria e il tempo. Conduciamo un’esistenza anestetizzata, incessante e
interminabile, che comincia da zero e a zero finisce: quali sono le
capacità che possiamo attribuire alla nostra potente nazione? Nessuna
che abbia un benché minimo merito. E a noi cosa resta?
Anch’io ho
mangiato panini al sangue umano cotti al vapore: riesco tutt’al più a
creare orpelli contro un sistema che è anti-umano. Son stato arrestato e
rilasciato, liberato e arrestato, e non so se a questo gioco vi sarà
mai fine, non so se ho fatto qualcosa per le anime dei defunti, per
poter ricordare. Con il cuore puro e la coscienza pulita. Desidero
ardentemente usare la resistenza e il carcere come forma d’espiazione,
per realizzare i miei ideali con integrità, ma ciò provoca alla mia
famiglia ferite profonde e dolorose. Liu Xiaobo, 57 anni, attualmente in
carcere
ELEGIE DEL QUATTRO GIUGNO, Liu Xiaobo Lantana ed., 96 pag., e.16,50
il Fatto 2.6.13
24 anni di censura. La Storia è ancora tabù
di Cecilia Attanasio Ghezzi
Pechino
A 24 anni dai fatti che sconvolsero il mondo, le Madri di Tian'anmen
non si arrendono. È un comunicato durissimo quello che diffondono
attraverso l'ong Human Rights in China di New York. Xi Jinping, il nuovo
presidente cinese, “ha mischiato gli aspetti più impopolari ed
esecrabili” di Mao Zedong e Deng Xiaoping. I suoi predecessori Jiang
Zemin e Hu Jintao “hanno perso 10 anni ciascuno”, se Xi si dimostrasse
anche un minimo degno di suo padre (che aveva fama di riformista), “non
dovrebbe seguire i loro passi”.
Imprigionate, costrette agli
arresti domiciliari e sottoposte a sorveglianza costante, ogni anno dal
1995 le madri di Tian'anmen presentano una petizione al governo.
Chiedono che venga aperta un'inchiesta sui fatti del 4 giugno. Vogliono
che sia ristabilita la verità storica e che i famigliari delle vittime
vengano risarciti. Ma soprattutto vogliono che la politica confessi i
propri errori.
La notte tra il 3 e il 4 giugno l'Esercito di
liberazione popolare sparò sul popolo cinese per la prima e ultima volta
in sessantanni. Fino a quando non sarà fatta chiarezza su quello che
avvenne quella notte, non si conoscerà il numero e l'identità dei morti:
200 accertati, 2.000 e oltre secondo altre stime.
Né si conosce
il numero delle persone arrestate o costrette a fuggire all'estero solo
per aver preso parte a quel movimento che alla fine degli anni ‘80
chiedeva al Partito riforme economiche e politiche. Un movimento
trasversale che era nato per denunciare la corruzione dilagante dei
funzionari e per partecipare attivamente alla costruzione della nuova
Cina. Si dice che l'ultimo prigioniero incarcerato per “atti
controrivoluzionari” legati ai fatti di Tian'anmen sia uscito di
prigione lo scorso autunno. Si chiama Jiang Yaqun, ha 73 anni, soffre di
alzaheimer e non ha più una famiglia, un lavoro, una casa. Non sapendo
quante persone finirono in carcere all'epoca, è difficile affermare che
sia l'ultimo.
Per questo le Madri di Tian'anmen non si stancano di
chiedere l'apertura di un'inchiesta. Questa volta il portavoce del
Ministro degli esteri interrogato sulla lettera ha dovuto rispondere.
Ciò che ha dichiarato è che il governo cinese “ha raggiunto una chiara
conclusione” sui fatti del 4 giugno e che i successi raggiunti negli
ultimi vent'anni “dimostrano che il cammino scelto ha servito gli
interessi del popolo cinese”.
Allora chissà perché quando si
digita Tian'anmen su un qualsiasi motore di ricerca all'interno della
Repubblica popolare escono solo immagini e informazioni turistiche.
La Stampa 2.6.13
Cina, in India il furto di terra
di Brahma Chellaney
Docente di Studi Strategici al Centro per la ricerca politica di New Delhi
Fomentare
tensioni con il Giappone, il Vietnam e le Filippine per le isole del
Mar cinese orientale e meridionale non ha impedito a una Cina sempre più
assertiva di aprire ancora un altro fronte mettendo in atto
un’incursione militare sulla contesa, e interdetta, frontiera
himalayana. Circa un mese e mezzo fa, un plotone dell’Esercito popolare
di liberazione cinese si è intrufolato vicino al confine condiviso tra
Cina, India e Pakistan, ha installato un campo 19 km (12 miglia)
all’interno del territorio controllato dall’India e ha messo il governo
indiano di fronte alla potenziale perdita di un altipiano di 750
chilometri quadrati vitale dal punto di vista strategico.
Un’India
sbalordita, già vacillante per la paralizzante crisi politica interna,
ha brancolato cercando una risposta efficace al furto cinese, in effetti
la maggiore sottrazione di terra, e la più strategica messa a segno
dalla Cina da quando ha intrapreso una politica più muscolare verso i
Paesi confinanti. Resta aperta e controversa la domanda sulle intenzioni
della Cina se intenda restare, costruendo strutture permanenti per le
sue truppe sulle cime ghiacciate dell’altipiano, o intenda ritirarsi
dopo aver estorto all’India concessioni militari umilianti.
Il
fatto è che da quando la sua «ascesa pacifica» ha lasciato posto a un
approccio sempre più sgomitante nei confronti dei suoi vicini, la Cina
ha ampliato i suoi «interessi fondamentali» - che non tollerano
compromessi - e le rivendicazioni territoriali, mostrando anche una
crescente disponibilità ad assumere dei rischi per raggiungere gli
obiettivi. Ad esempio, la Cina non solo ha intensificato la sua sfida al
decennale controllo del Giappone sulle isole Senkaku (Diaoyu), ma sta
anche fronteggiando le Filippine da quando, lo scorso anno, ha assunto
il controllo effettivo dell’atollo di Scarborough.
Ciò che rende
l’incursione himalayana un simbolo eloquente del nuovo atteggiamento
aggressivo della Cina in Asia è il fatto che le sue truppe di intrusi si
sono accampate in una zona che si estende oltre la «linea di controllo
effettivo» (Lac), tracciata unilateralmente proprio dalla Cina quando
sconfisse l’India nella guerra di confine del 1962 che essa stessa aveva
iniziato. Mentre la marina cinese e una parte dell’aviazione sono
dislocate a supporto delle sue rivendicazioni revansciste nel Mar cinese
orientale e meridionale, l’esercito agisce nelle terre montuose di
confine con l’India, cercando di smontare pezzo dopo pezzo la «linea di
controllo effettivo».
Uno dei nuovi metodi impiegati dall’esercito
cinese è portare pastori di etnia Han nelle valli lungo la linea di
confine e dare loro modo di spaziare attraverso di esso, togliendo così
ai pastori indiani i loro pascoli tradizionali. Ma l’ultima crisi è
stata provocata dall’uso cinese di mezzi militari diretti in una zona
strategica della frontiera, nei pressi del Passo del Karakoram che
collega la Cina all’India.
Poiché la linea di controllo non è
stata mai reciprocamente chiarita – la Cina ha rinnegato una promessa
fatta nel 2001 per lo scambio di mappe con l’India – la Cina sostiene
che le truppe sono semplicemente accampate su «terra cinese». E, in una
replica della sua vecchia strategia di infilarsi furtivamente nelle
terra contese per poi presentarsi come il conciliatore, la Cina ora
consiglia «pazienza» e «trattative» per contribuire a risolvere l’ultimo
«problema».
Chiaramente la Cina sta cercando di sfruttare la
crisi politica indiana per alterare la realtà sul terreno. Il governo
indiano, paralizzato e senza direzione, inizialmente ha oscurato le
notizie sull’incursione, fino a che la pressione dell’opinione pubblica
non ha chiesto una risposta adeguata. La sua prima dichiarazione
pubblica è arrivata solo dopo che la Cina ha smentito blandamente
l’intrusione in risposta ai media indiani che citavano fonti
dell’esercito.
In più, il ministro degli esteri indiano, Salman
Khurshid, un vero pasticcione, inizialmente ha preso alla leggera la più
grave incursione cinese da oltre un quarto di secolo. Il garrulo
ministro l’ha definita «una piccola macchia di acne» sull’altrimenti
«bella faccia» del rapporto bilaterale – una semplice imperfezione che
si sarebbe potuta trattare con «un unguento». Commenti insipienti che
hanno fatalmente sminuito la convocazione dell’ambasciatore cinese da
parte del governo per chiedere di ripristinare lo status quo.
Con
il governo del primo ministro Manmohan Singh contaminato dalla
corruzione e sull’orlo del collasso, non c’è stata alcuna spiegazione
ufficiale di come l’India sia stata colta impreparata in una zona
militarmente critica dove, nel recente passato, la Cina aveva tentato
ripetutamente di invadere il territorio indiano.
In realtà nel
2010 il governo ha inspiegabilmente sostituito le truppe regolari con la
polizia di frontiera per pattugliare l’altopiano montagnoso ora invaso
dall’esercito cinese. Conosciuto come Depsang, l’altopiano si trova a
cavallo di un’antica via della seta che collega Yarkand nello Xinjiang
con la regione del Ladakh in India attraverso il passo del Karakoram.
L’India,
che ha una base militare e una pista di atterraggio a sud del Passo del
Karakoram, potrebbe tagliare la strada principale che collega la Cina
con il suo «alleato per tutte le stagioni», il Pakistan. L’intrusione
dell’esercito cinese, minacciando la base indiana, può essere tesa a
precludere la possibile capacità dell’India di interrompere i
rifornimenti per le truppe cinesi e i lavoratori nella regione pakistana
del Gilgit-Baltistan, dove la Cina ha ampliato la propria presenza
militare e i progetti strategici. Per salvaguardare quei progetti,
diverse migliaia di truppe cinesi, è stato riferito, sono state
dispiegate nella regione ribelle, prevalentemente sciita, chiusa al
mondo esterno.
Per l’India, l’incursione cinese minaccia anche il
suo accesso al ghiacciaio di Siachen, 6.300 metri, a ovest di Depsang.
Il Pakistan rivendica il ghiacciaio, controllato dall’India, che,
strategicamente incastrato tra le parte pakistana e quella cinese del
Kashmir, è servito come campo di battaglia, il più alto e il più freddo
al mondo (e uno dei più sanguinosi) a partire dalla metà degli Anni ‘80
fino al cessate il fuoco del 2003.
Le opzioni non militari
dell’India per forzare il ritiro cinese da Depsang spaziano dalla
diplomazia (sospensione di tutte le visite ufficiali o riconsiderazione
del suo riconoscimento del Tibet come parte della Cina) all’economia (un
boicottaggio informale delle merci cinesi, proprio come la Cina ha
danneggiato il Giappone attraverso un boicottaggio non ufficiale dei
prodotti giapponesi). Una possibile risposta militare potrebbe
coinvolgere l’esercito indiano nello stabilire un proprio accampamento
sul territorio cinese in un luogo che i leader cinesi reputino altamente
strategico.
Ma, prima che possa esercitare qualsiasi opzione
credibile, l’India ha bisogno di un governo stabile. Fino ad allora, la
Cina continuerà a rivendicare le sue pretese con qualsiasi mezzo -
lecito o illecito - ritenga vantaggioso.
Traduzione di Carla Reschia
Corriere 2.6.13
Il neonato nel tubo e il dramma dei bimbi cinesi abbandonati
Un caso di cronaca accende i riflettori su una piaga sociale: i piccoli rifiutati dai genitori
di Guido Santevecchi
L'allarme. Una giovane donna di Jinhua, nello Zhejiang, ha chiamato aiuto: il suo bambino era finito nello scarico. I pompieri hanno dovuto segare il tubo ma sono riusciti a salvarlo
Indagini. La polizia, dopo aver interrogato la ragazza, una cameriera di 22 anni, non sposata, ha creduto alla versione di un «parto accidentale» anche se restano ancora dei dubbi
PECHINO — Questa è la storia di Baby 59, un bambino che non doveva nascere. E di milioni di suoi fratelli e sorelle in Cina. Il piccolo è stato trovato nel tubo di scarico di un palazzone di Jinhua, nella provincia orientale dello Zhejiang: una donna ha dato l'allarme dicendo di aver sentito piangere; i pompieri hanno lavorato con le seghe per aprire il tubo di 10 centimetri di diametro senza tagliare il corpicino. Dopo due ore il miracolo: dalla lamiera è sbucato un bel maschietto, qualche sbucciatura, tutto congestionato e tremante, ancora semiavvolto nella placenta, sano. Quasi una seconda nascita.
La scena è stata ripresa da una telecamera ed è finita sui tg cinesi. Tutti hanno pensato che il piccolo fosse stato gettato nello scarico, perché questo succede spesso ai figli non voluti in Cina (e anche in Occidente, quanti casi di abbandoni nei bagni delle autostrade). In ospedale il neonato è stato messo in un'incubatrice, la numero 59 e a questo deve il suo nome provvisorio: Baby 59. È cominciata una processione di gente che ha portato pannolini, vestitini, latte in polvere. Molti si sono offerti di adottarlo, la storia è diventata così popolare che dalla Romania anche il calciatore Adrian Mutu si è fatto avanti.
Nel frattempo la polizia ha cominciato a ragionare: mentre i pompieri lavoravano c'era una ragazza che non smetteva di guardare la scena, pallida, emozionata, non diceva una parola. Aveva dato lei l'allarme. L'hanno interrogata, hanno voluto vedere dove viveva. Nella sua stanza gli agenti dello Zhejiang hanno trovato le tracce di una gravidanza avanzata e dei pupazzetti, pronti per un neonato. La ragazza, 22 anni, fa la cameriera in un ristorante, è diplomata ma non ha trovato di meglio perché se non si vuole finire in fabbrica comincia ad essere difficile anche per i giovani cinesi trovare un lavoro. Vive in un palazzo alveare, ed è anche fortunata perché ha una stanza tutta per sé. Quando è rimasta incinta non ha detto niente ai genitori, prima ha pensato di abortire, poi di farsi sposare, ma il ragazzo non ha voluto saperne. Alla fine, dice di aver deciso di tenere il piccolo e quei giocattoli nella stanza sono una prova. Per nascondere la gravidanza ha cominciato a indossare camicioni sempre più larghi. Quella mattina si è sentita male, è andata nel bagno comune, dice di aver partorito quasi senza accorgersene. Molti pensano che abbia invece gettato il piccolo, in un'altra fase di depressione. La polizia le crede.
Baby 59 ha 200 mila fratelli e sorelle: tanti sono i bimbi abbandonati ogni anno in Cina. E 712 mila sono finiti negli orfanotrofi, dicono le statistiche ufficiali. Non sono lasciati per la strada solo per condizioni di disagio o povertà dei genitori, ma anche perché padri e madri cinesi che per legge possono avere un figlio solo, pretendono che sia perfetto. Se si accorgono che il piccolo ha dei problemi, la tentazione di rifiutarlo e provare ad avere un altro «erede normale» è terribilmente forte.
I sociologi di Pechino spiegano che anche nella tradizionalista Cina ormai più del 70 per cento dei ragazzi hanno relazioni sessuali prima del matrimonio e siccome la scuola si vergogna di insegnare che esiste la contraccezione (e questo succede anche da noi in Occidente), le gravidanze inattese si moltiplicano. «La gente ha idee molto ambigue: molti non credono di commettere un delitto quando sopprimono un neonato o lo abbandonano», ha detto alla Associated Press il sociologo Li Yinhe. E poi ci sono altri 61 milioni di bambini e adolescenti che secondo l'Ufficio statistiche vivono senza i genitori, costretti a lasciare il villaggio per andare a guadagnarsi il pane come lavoratori migranti in città. I figli vengono rimandati a casa in campagna quando arrivano all'età della scuola (perché lì l'istruzione per loro che non hanno hukou in città, la residenza, è gratuita), se sono fortunati stanno con i nonni o con fratelli più grandi, altrimenti restano soli: i minorenni costretti a vivere senza parenti al villaggio sono 2 milioni.
Se si sommano tutti questi numeri si arriva a molti milioni di ragazzi a cui viene rubata l'infanzia. Baby 59 sta bene, affidato ai nonni in campagna, mentre la mamma è curata in ospedale e il presunto padre ora invoca il test del Dna. C'è un detto in Cina: «Un bimbo che nasce nel letame ha visto il peggio della vita. Da grande non può che diventare imperatore».
l’Unità 2.6.13
Etica digitale. Il lato oscuro della Rete
Incontro con Morozov l’ultimo guru dei new media
Il giovane studioso avverte i fanatici del web: «Crediamo di veicolare rivoluzioni e libertà attraverso Internet
Ma la tecnologia è controllata dal potere e dal business»
di Paolo Calcagno
MILANO
«LE TECNOLOGIE DIGITALI NON CONTENGONO SOLUZIONI GIÀ PRONTE AI DILEMMI
SOCIALI E POLITICI CHE ESSE CREANO». E, ancora, «Crediamo che Internet
abbia cambiato il modo in cui la conoscenza viene prodotta e ci siamo
convinti che “Web 2.0” significhi usare la Rete nel modo in cui essa è
stata pensata per essere utilizzata, ma Guglielmo Marconi immaginava la
vita oltre la radio?», firmato Evgeny Morozov. Il ventinovenne studioso
bielorusso dei new-media, che con il best-seller mondiale L’ingenuità
della Rete (Codice Edizioni) si è imposto quale capofila dei
tecnoscettici, è stato l’ospite di punta fra i 130 partecipanti che
hanno animato le 4 giornate del neonato «Wired Next Fest», organizzato
dalla rivista Wired e dal Comune di Milano.
Al centro
dell’incontro milanese con il «guru» dei new-media formatosi nelle
Università americane di Stanford, Georgetown e Washington il suo nuovo
saggio To Save Everything, Click Here (Per salvare tutto, digita qui)
con il quale Morozov sostiene che «Le tecnologie non sono le cause del
mondo in cui viviamo, ma le conseguenze» e che esse «non sono cadute dal
cielo», per cui andrebbero analizzate «per come sono prodotte,
precisando quali voci e ideologie sono state messe a tacere nella loro
produzione». E, soprattutto, lo scrittore bielorusso ha evidenziato come
«Le strategie di marketing che circondano queste tecnologie si
trasformino in Zeitgeist per farle apparire inevitabili».
Al
«Wired Next Fest» Morozov ha smontato la convinzione diffusa secondo la
quale Internet e la tecnologia rendono il mondo un posto migliore. Dopo
aver ricordato il «lato oscuro di Internet», riassumendo le riflessioni
del suo primo saggio sull’utilizzo della Rete a vantaggio di dittatori e
di regimi, contrastando i pur motivati entusiasmi per la tecnologia che
hanno accompagnato rivolte popolari quali «la rivoluzione verde in
Iran» e «le primavere arabe» di Tunisi e del Cairo, Morozov ha attaccato
l’ «Internet-centrismo che accredita la tecnologia della capacità di
risolvere problemi e questioni di qualsiasi tipo e ci fa rinunciare al
nostro approccio critico verso i servizi on-line che utilizziamo» .
«Il
mito dell'“Internet-centrismo” sta anche influenzando i governi e i
policy-maker di tutto il mondo ha aggiunto Morozov Il principio della
"openess" di Internet, ad esempio, è diventato anche un principio
inevitabile per la politica e i governi. Ogni esempio di trasparenza
viene definito come un avanzamento dal punto di vista della democrazia.
Ma se la Corea del Nord rendesse accessibili i suoi dati sulle carceri e
sui prigionieri che vi sono rinchiusi, questo sarebbe un reale
avanzamento verso la democrazia? Parte delle mie argomentazioni partono
dal presupposto che i criteri di Internet (la trasparenza, ad esempio)
hanno senso al di fuori di Internet se li inseriamo in un contesto più
ampio e non solo in “framework” digitali che li legittimano».
Il
«Soluzionismo» è stato il concetto maggiormente preso di mira dal
ricercatore bielorusso: «Non possiamo, aggiungere un sensore a qualsiasi
cosa facciamo e affidare alla tecnologia la soluzione di qualsiasi
problema».
Morozov ha indicato l’ esempio di Google Now: «Un
servizio che analizza qualsiasi cosa facciamo fino a predire quello che
faremo in futuro, ad esempio, anticipando il traffico sul percorso verso
l'aeroporto da cui partiremo. Il servizio si vende in modo molto
attrattivo ed efficiente, come tutto ciò che viene proposto dalla
Silicon Valley. Ma c'è un problema: Google Now è un' app che, grazie ai
sensori dello smartphone, può anche tracciare i nostri spostamenti,
aprendo molteplici questioni dal punto di vista della privacy. Siamo
davvero sicuri che debba essere Google a intervenire nella nostra vita,
anticipando, e risolvendo, i problemi che possono apparire sul nostro
percorso verso l'aeroporto?».
«Abbiamo tutte queste soluzioni
pronteha concluso Morozov, riferendosi ai nuovi occhialini di Google -,
ma sono davvero così entusiasmanti se pensiamo alle questioni politiche
che sollevano, come la violazione della privacy? Non dovremmo limitarci a
un'analisi soluzionista della tecnologia e della Rete, ma dovremmo
sempre tenere bene in mente quali sono le applicazioni concrete ed
etiche che esse hanno nelle nostre vite».
Corriere Salute 2.6.13
Violenza Sociale e Pregiudizi
L’equazione fra malattia mentale e comportamento antisociale è sbagliata e ingiusta
di Claudio Mencacci
Presidente Società Italiana di Psichiatria
Stiamo
assistendo in questo ultimo periodo a un'accelerazione dei fenomeni di
violenza, peraltro già segnalati in crescita negli ultimi trent'anni. Se
gli studi scientifici hanno individuato 130 variabili che possono
causare fenomeni di violenza, di fatto sono prevalentemente i fattori
socioeconomici, ambientali e culturali a essere i detonanti. L'attuale
crisi economica, i cui effetti si manifestano pesantemente in questo
ultimo periodo, ha certamente portato a un innalzamento della violenza
nella popolazione generale a causa dell'aumento dell'aggressività del
singolo individuo e dell'incremento nell'uso di alcol e stupefacenti.
La
vulnerabilità che colpisce la persona con difficoltà economiche fa
affiorare quel tanto di paranoia che alberga in ciascuno di noi. La
paranoia non è un male di per sé, ma può generare «il male» se episodi
individuali di violenza vengono emulati e divengono collettivi.
La
violenza è un comportamento, non una malattia, e ha poco a che fare con
le patologie mentali, malgrado il frequente luogo comune di associare
atti violenti a disturbi psichici. Non esistono i raptus, così come è
errato il pregiudizio che porta a considerare malati di mente tutti
coloro che uccidono. Dobbiamo invece accettare che la maggior parte
degli atti violenti siano compiuti con lucidità, rabbia e determinazione
da soggetti con comportamenti aggressivi che mal sopportano le
frustrazioni e che hanno spesso una personalità antisociale e una storia
personale di comportamenti delinquenziali. Solo il 5 per cento delle
persone imputate di omicidio viene dichiarato infermo di mente. Il
restante 95 per cento è dichiarato capace di intendere e volere.
Attribuire
automaticamente gli atti di violenza a persone con disturbi mentali
porta ancor più a stigmatizzare queste patologie e coloro che realmente
ne soffrono e che si curano. Aumentare la vergogna porta invece a un
allontanamento dalle cure di tutti quei soggetti che potrebbero trarne
grande beneficio.
Corriere 2.6.13
La sfida di Camus raccolta da Ravasi, essere santi anche senza Dio
di Armando Torno
Tra
il 6 e l'8 giugno si terrà a Marsiglia un dialogo per interposta
persona tra Albert Camus e Paul Ricoeur. Un confronto su umanesimo e
religione. Si svolgerà nell'ambito del Cortile dei Gentili, promosso dal
Pontificio Consiglio della Cultura guidato dal cardinale Gianfranco
Ravasi.
Dopo l'esordio del mese scorso a Bologna, con l'evento
dedicato a Rousseau (in collaborazione con Genus Bononiae), il Cortile
concentra l'attenzione su figure storiche che parlano al presente. Oltre
Ravasi — che di Camus e Ricoeur sottolinea: «Due personaggi
affascinanti, collocati su versanti opposti ma non antitetici» — vi
saranno, tra gli altri, Julia Kristeva, Jean-François Mattei, nonché
l'attore Robert Hossein. I luoghi dove si svolgeranno gli eventi sono
L'Alcazar (centro culturale, soprattutto biblioteca), il Mistral, la
Villa Mediterranée, il Vecchio Porto, la Cattedrale. Il dialogo
continua. Mentre stanno giungendo richieste per ospitare il Cortile da
ogni parte del mondo, Marsiglia accende i fari su due protagonisti del
pensiero contemporaneo, le cui opere continuano a suscitare domande.
Ricoeur parte dalla riflessione di Karl Jaspers e di Edmund Husserl per
analizzare la fondamentale tematica del linguaggio, dimensione ove abita
il problema del senso, a cui è legata ogni possibile interpretazione.
Già,
interpretazione. Ha due volti: l'esegesi e l'ermeneutica
demistificante. In quest'ambito le parole della rivelazione si
ripensano, rivivono in altre luci, acquistano valori laddove si pensava
li potessero smarrire. E Camus? Ravasi ricorda una sua frase, anzi «una
confessione» di questo straordinario «gentile»: «Come essere santi senza
Dio: è questo il solo problema concreto che io conosca».
C'è di più.
Il porporato sottolinea che La peste di Camus altro non è che la punta
di un iceberg letterario e spirituale del suo mare interiore, o meglio
«è il suo Giobbe intenso e tragico». La domanda sul male nella storia,
che si continua a ripetere anche perché il pensiero non è riuscito a
trovare una risposta soddisfacente, tormentava Camus. Dell'Uomo in
rivolta, Ravasi ricorda un passo altamente significativo a questo
proposito: «L'uomo deve riparare nella creazione tutto ciò che è
possibile. Dopo di che i bambini continueranno a morire ingiustamente,
anche in una società perfetta. Col suo grande sforzo, l'uomo può
soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma
l'ingiustizia e la sofferenza rimarranno e, benché limitate, non
cesseranno di essere uno scandalo. Il "perché?" dei Karamazov continuerà
a risuonare».
A Marsiglia dunque il Cortile dei Gentili si aprirà a
un dialogo tra l'ermeneuta e lo scrittore dalle domande ultime. Coloro
che daranno voce a Ricoeur e a Camus proseguiranno un percorso che ruota
intorno a Dio. Per chiedersi, per chiedere.
Corriere Salute 2.6.13
Giovanni XXI divenne Papa (anche) perché medico
di Antonio Alfano
Dopo
il brevissimo regno dei tre predecessori (Innocenzo V: cinque mesi;
Adriano V: 39 giorni; Vicedomino Vicedomini che non fece nemmeno in
tempo ad essere incoronato pontefice), tutti speravano in un papato che
durasse a lungo. Quale miglior scelta di quella di un Papa che era anche
medico e quindi avrebbe saputo prendersi cura della propria salute? Ma
anche quello di Pedro Julião, noto come Pietro Ispano (1205/1220-1277),
salito al soglio con il nome di Giovanni XXI, fu un pontificato breve,
interrotto da un incidente mortale.
Quando Pedro Julião divenne Papa
aveva alle spalle anni e anni di professione medica ed era una celebrità
assoluta nel suo campo. Dante, nella Divina Commedia, lo colloca in
Paradiso (uno dei pochi Papi a ricevere questo onore) e lo loda proprio
per la sua attività di medico e studioso. Nato a Lisbona da nobile
famiglia, il futuro Giovanni XXI aveva studiato medicina prima
all'Università di Parigi, poi a Montpellier e nella celebre scuola di
Salerno (si veda box).
Fu anche professore di medicina allo Studio
comunale di Siena, tra il 1245 e il 1249 e proprio nella città toscana è
conservato un curioso documento che lo riguarda: una ricevuta di 20
soldi rilasciata dal Comune come pagamento per un consulto medico ed
un'altra di 20 libbre d'argento, come onorario per la sua attività di
docente.
Il soggiorno senese risultò utile a Pietro Ispano per
entrare in contatto con un ambiente medico considerato di élite: quello
della corte di Federico II, al l'epoca molto influente nella città
toscana. Lo scambio di esperienze gli servì per scrivere alcuni
ricettari pratici: il De oculo, per la cura degli occhi, e il Diete
super cyrurgia, indicazioni alimentari pratiche in caso di interventi
chirurgici. L'opera che lo fa lodare da Dante nella Divina Commedia —
"lo qual giù luce in dodici libelli" — è la Summulae logicales, scritta
appunto in 12 libri e ispirata alle teorie di Aristotele.
La vita di
medico ed ecclesiastico di Pietro Ispano (i primi documenti che
descrivono la sua attività ecclesiastica risalgono al 1250, quando
Pietro aveva circa 40 anni e serviva la chiesa come decano di Lisbona e
arcidiacono di Braga) subì una profonda svolta a Roma, dove si era
recato per approfondire i suoi studi di medicina. Lì ebbe modo di
conoscere il Papa Gregorio X, al secolo Tedaldo Visconti, che lo nominò
prima suo archiatra, poi nel 1273 arcivescovo di Braga e quindi
cardinale di Tuscolo - Frascati.
A conferma di questa fiducia, appena
nominato, Ispano venne inviato da Papa Gregorio (insieme ad altri 500
vescovi, tra cui l'illustre San Bonaventura da Bagnoregio, e alcuni
importanti regnanti del tempo) a partecipare al delicato concilio
generale Lionese II, indetto per porre fine allo scisma tra la chiesa
latina e quella greca. Il senso pratico, la moderazione e la profonda
conoscenza scientifica e teologica di Pietro Ispano non sfuggirono
neanche a un altro importante ecclesiastico: il cardinale genovese
Ottobono de Fieschi, futuro Adriano V, uno dei Papi di breve durata che
si susseguirono in quei tempi. Alla morte di Adriano V, e dopo la
mancata salita al soglio di Vicedomino Vicedomini (per decesso a poche
ore dall'elezione), in un movimentato conclave a Viterbo,
inaspettatamente, il 20 settembre 1276 fu eletto Papa proprio il medico -
vescovo Pietro Ispano.
A soli otto mesi dalla sua nomina, però, il
14 maggio 1277, Giovanni XXI morì: gli crollò addosso il soffitto del
suo appartamento, nel palazzo papale di Viterbo, procurandogli
gravissime ferite. Estratto dalle macerie ancora in vita, il Papa
defunse dopo sei giorni di sofferenze e fu poi sepolto a Viterbo.
Una
morte così tragica e inattesa che, in considerazione della cultura del
tempo, non poteva sfuggire alle dicerie popolari. Illazioni alimentate
ad arte (e poi subito smentite) lo vollero, perché medico e studioso,
coinvolto nell'esercizio della magia.
I riferimenti dell'attività
medica di Pietro Ispano non furono solo i grandi autori del passato come
Galeno e Dioscoride; Ispano si rivolse con occhio attento anche alla
modernità, in stretto collegamento con la Scuola Medica Salernitana,
considerata all'epoca all'avanguardia degli studi clinici. Si occupò di
svariati argomenti: dalle malattie renali alle diete, alle patologie dei
bambini e agli Aforismi di Ippocrate. La malattia, secondo le
conoscenze dell'epoca, era dovuta per lo più al carattere della persona,
carattere che provocava disordini nei quattro umori presenti nel corpo
umano: sangue, flegma, bile nera e bile gialla. Una teoria, questa, che
fu condivisa da Pietro Ispano, tra i pochi a confidare nella validità
della terapia medica, e non solo nella preghiera, per contrastare i
disturbi umorali.
Ricette pratiche per la cura del corpo, diete e
prescrizioni per conservarsi in salute sono alla base dei suoi scritti
più noti, come il Summa de conservanda sanitate e il De regimine
sanitatis, o trattatelli come il De phlebotomia o il De anathomia
corporis, orientati verso le sane abitudini di vita, considerate utili
strumenti per preservare la salute e vivere a lungo.
Il papa-medico
dedicò una "moderna" e specifica attenzione alla preparazione
professionale del medico, che avrebbe dovuto basarsi non solo sullo
studio filosofico della natura umana, ma sulla pratica. Secondo Pietro
Ispano, la preparazione del medico doveva tener conto degli aspetti
innovativi della scienza, affinché il clinico potesse imparare a «non
disprezzare ciò che nella lettura sarà a lui ignoto» e a non applicare
«la cura ai corpi prima di valutare il tipo di infermità e le
caratteristiche del paziente».
«È importante — scrisse Ispano — che
(il medico, ndr) si dedichi con attenzione al fine di conoscere la vera
essenza delle cose, la costituzione fisica, la sostanza e il loro
pregio» per evitare seri danni ai pazienti.
I malati, soprattutto i
meno abbienti che non si potevano permettere di pagare cure spesso
costose, furono al centro dell'attività di Pietro Ispano e infatti la
sua opera più nota fu il "Tesoro dei Poveri" (Thesaurus Pauperum),
vicino alla tradizione caritatevole del cristianesimo: un trattato
medico, redatto sotto forma di ricette, sugli argomenti più diffusi
della medicina popolare. Il trattato ebbe tanto successo da essere
diffuso in più versioni e tradotto in diverse lingue, fino al XVIII
secolo. Il Tesoro, oltre alle normali cure mediche, abbondava di
consigli sui corretti stili di vita e di salute portando a esempio le
diete alimentari proprie dei medici salernitani, necessarie «per
preservare la salute e prolungare la vita». Lo stile pratico e concreto
della guida consentiva al medico di affrontare con immediatezza i
problemi clinici più diffusi: «Se letta attentamente — affermava Pietro
Ispano — si potranno trovare in essa i rimedi semplici e utili per quasi
tutte le infermità».
Corriere La Lettura 2.6.13
Il bello del capitalismo
Steve Jobs e Matteo Renzi vogliono redimerci con l'estetica del mercato (che ha trionfato)
di Guido Vitiello
Il
capitalismo, ovvero l'opera d'arte totale. Possibile? Tutti gli indizi
puntano all'evidenza contraria, e cioè che il mercato sia nemico giurato
dell'arte, che sia all'origine di una propagazione capillare del
brutto. Con gli anatemi scagliati per due secoli, dai tempi di Ruskin a
quelli di Adorno, si potrebbe mettere insieme una requisitoria
micidiale, una lista sfiancante di capi d'accusa: la profanazione
industriale della natura, le metropoli caotiche e asfissianti,
l'invasione delle catene alberghiere e dei franchising commerciali che
accomunano tutti i luoghi in una sola insignificanza, le cavallette
devastatrici del turismo di massa, la paccottiglia kitsch prodotta in
serie e rovesciata quotidianamente in grembo al mondo intero,
l'inquinamento visivo dei cartelloni pubblicitari, il neon che rende
spettrali piazze e monumenti...
In breve, l'inferno estetico. Non
sembra facile ribaltare una sentenza così ben motivata, ed è una ragione
in più per incuriosirsi al nuovo libro nato dal sodalizio tra due
saggisti francesi, il sociologo Gilles Lipovetsky e il letterato Jean
Serroy. S'intitola L'esthétisation du monde (Gallimard) e descrive
l'epoca del «capitalismo artista», un'epoca in cui i dominii
dell'estetica e dell'economia si compenetrano come mai era avvenuto
prima.
L'arte sposa l'impresa. È un matrimonio d'interesse, certo, ma
anche d'amore ricambiato, tant'è che va avanti da più di mezzo secolo:
l'arte cessa di essere un contro-mondo ombroso e segregato ed entra
pienamente nella logica imprenditoriale; l'impresa creativa fa propri
gli stili e i capricci della bohème. Dalla strana unione si genera un
sistema estetico-economico che gli autori si raffigurano organizzato in
quattro gironi, seppure non infernali: nel primo, il più interno, sta
l'industria culturale con i suoi comparti (cinema, musica, editoria,
fumetti, videogiochi), la sede deputata alla produzione estetica
seriale; il secondo cerchio comprende tutti quei settori che operano per
abbellire la vita quotidiana (architettura, design, moda, cosmetica,
gastronomia); nel terzo si contempla l'arte propriamente detta
(gallerie, esposizioni, biennali, musei), che quanto più si fa esoterica
tanto più si trova al centro di una febbre speculativa; il quarto e più
remoto girone è quello in cui si producono gli strumenti tecnici che
rendono possibile questa perenne fucina creativa, dove tutti sono a un
tempo artisti e spettatori. Il risultato è una «inflazione estetica»
incontenibile, e il pubblico è condotto — la formula ammicca a
Kierkegaard — a una sorta di «stadio estetico del consumo», una
disposizione perenne alla stimolazione dei sensi. Sul pinnacolo di
questo tempio della bellezza diffusa e democratica svetta, neppure a
dirlo, la Apple di Steve Jobs, l'imprenditore-artista che con i suoi
oggetti totemici, dall'iPod all'iPhone, ha segnato la via per l'opera
d'arte dell'avvenire.
Lipovetsky e Serroy non ricorrono a queste
formule wagneriane e avanguardistiche, ma viene naturale prestargliele,
perché il loro libro suona come un'apologia del mondo nuovo, un
poema-manifesto un po' prolisso (un futurista se la sarebbe cavata in
mezza pagina), tre quarti inno e un quarto elegia. Dell'eroe eponimo, il
«capitalismo artista», propongono anche una genealogia: dopo l'arte per
gli dei, l'arte per i principi e l'arte per l'arte, trionfa oggi l'arte
per il mercato.
L'anello decisivo della catena sono le avanguardie
del primo Novecento. Fu infatti nel grande cantiere aperto da futuristi,
costruttivisti e surrealisti che si tentò la prima estetizzazione del
mondo. Quell'arte che i borghesi avevano confinato nei musei e relegato
nella hegeliana «domenica della vita», si doveva liberarla perché
contagiasse anche i giorni feriali, le strade, le case, il lavoro.
Ebbene, a sentire Lipovetsky e Serroy, la promessa che le avanguardie
non seppero mantenere — l'abbattimento del muro divisorio tra arte e
vita — l'ha esaudita a suo modo il «capitalismo artista». Nel suo regno
anche il più insulso dei cavatappi è un oggetto di design, ogni
gabinetto è un ready-made di Duchamp, gli artisti disegnano orologi e
poltroncine, la Bmw produce cabriolet «Magritte» e Picasso è ormai un
marchio registrato.
La tesi non è così nuova, e la si è declinata
anche in modi meno enfatici e più sottili. Dopo il «socialismo della
bellezza» di Beltrami saremmo dunque al capitalismo della bellezza?
Comunque la si pensi, la ricostruzione ha una lacuna vistosa, diciamo
pure una voragine: in tutto questo andirivieni tra l'estetica e
l'economia, i due autori si sono scordati della politica. Eppure è su
quel terreno che si sono svolti primi e più radicali esperimenti di
estetizzazione totale: l'idea di plasmare la vita e la società come
un'opera d'arte, un sogno bifronte estetico-politico nato nell'Ottocento
di Novalis e di Wagner, fu realizzata in forme aberranti da un
wagneriano spurio come Hitler, che volle fare della Germania il suo
Gesamtkunstwerk (opera d'arte totale), e in modi diversi nella Russia
staliniana. Certo, l'Artista collettivo del capitalismo è un demiurgo
mille volte più mite, e alla politica offre al massimo qualche imbeccata
retorica (non dimentichiamo lo «Stil novo» di Matteo Renzi, che va
predicando ogni giorno che a salvarci sarà la Bellezza, sotto l'egida di
Steve Jobs e di Leon Battista Alberti). Ma quei precedenti così truci
dovrebbero almeno immunizzarci dal tratto beffardo, parodistico, che
assumono fatalmente le utopie realizzate. Sono come i desideri delle
fiabe: esaudirli è una sciagura.
Re Mida chiese a Dioniso il potere
di tramutare in oro tutto quel che toccava, e poco mancò che morisse di
fame, perché anche una pagnotta gli diventava tra le mani
un'immangiabile pepita. Non è escluso che, a voler tramutare tutto in
arte, la nostra condizione somigli un poco alla sua.
Corriere La Lettura 2.6.13
Troppe le domande eluse La psicologia non sfida la crisi
di Dario Di Vico
Di
fronte ai mutamenti indotti dalla «grande crisi» sulla salute mentale
degli italiani, la psicologia finora è sembrata nascondersi, negarsi al
confronto. Eppure c'è infinito bisogno di comprendere quello che ci sta
avvenendo intorno, come tutto il sistema delle aspettative sia stato
terremotato (e non soltanto per le giovani generazioni), quanto sia
cambiata la nostra relazione con il futuro e, ovviamente, in quale
maniera la scarsità di risorse abbia modellato diversamente i rapporti
quotidiani tra le persone. La solidarietà e, all'opposto, l'invidia
sociale che contorni nuovi hanno assunto in questa fase storica? Chi si
era caricato degli oneri della mobilitazione individuale si rivela oggi
come un soggetto più fragile e maggiormente propenso a punirsi di fronte
al fallimento della propria scalata sociale? E la violenza
imprevedibile e «americana», quanto risente del sovraccarico di tensioni
dovuto all'incertezza assoluta? Il flusso delle domande potrebbe
continuare a lungo, la sensazione però è che la psicologia non ami le
terre incognite, si sia rintanata nell'esercizio della manutenzione
ordinaria e da lì abbia paura a uscire.
Corriere La Lettura 2.6.13
Ma nessun animale è animalista
È
giusto battersi per alleviare le sofferenze cui l'uomo sottopone gli
altri esseri viventi Tuttavia la discriminazione delle specie diverse ha
radici profonde nella nostra natura
di Antonio Carioti
Non
è facile, ma provate a mettervi nei panni di un maialino o di un
vitello: siete appena venuti al mondo e vi attende una vita di prigionia
e supplizi vari, destinata a concludersi con la macellazione. Vi
trovate in balìa di un potere spietato, che vi tratta come oggetti. Ma
non siete creature inanimate: provate fatica, dolore, paura. Non è
terribile?
La sofferenza animale è una realtà tragica, che di solito
gli umani rimuovono: uno dei pilastri della nostra civiltà è infatti il
cosiddetto «specismo», per cui consideriamo le altre specie viventi come
esseri inferiori, di cui possiamo disporre a piacimento. Un modo di
pensare e agire che ormai da alcuni decenni viene condannato e
combattuto da gruppi minoritari, ma risoluti e vivaci.
In genere si
parla degli animalisti o «antispecisti» solo quando compiono azioni
militanti clamorose, soprattutto contro la vivisezione. Ma dietro il
loro attivismo non troviamo solo spinte emotive: c'è un retroterra
filosofico che vale la pena di conoscere e valutare con l'aiuto del
saggio Il maiale non fa la rivoluzione (Sonda), appena pubblicato dal
giovane studioso Leonardo Caffo, un «vegano» che non solo si astiene dal
mangiare carne, latte e uova, ma evita di usare oggetti (per esempio di
abbigliamento) derivanti dallo sfruttamento degli animali.
È il
filosofo australiano Peter Singer a lanciare per primo nel 1975 la
parola d'ordine della liberazione animale: ciò che c'impone di
proteggere un essere vivente, afferma, è la sua capacità di provare
dolore, non la sua appartenenza alla specie umana. Si tratta di un
approccio utilitarista, che condanna le sofferenze inflitte agli
animali, ma accetta invece l'eutanasia neonatale di bambini menomati.
Altro teorico dell'antispecismo è Tom Regan, che invoca il
riconoscimento dei diritti fondamentali (alla vita, alla libertà, alla
tutela dalla crudeltà) in favore delle bestie dotate di una soggettività
cosciente. Il che significa abolire non solo la sperimentazione
scientifica su esseri viventi, ma altresì la caccia, i circhi, i
bioparchi, ogni allevamento a fini di lucro.
Tuttavia le posizioni
dei due padri fondatori lasciano perplessi altri studiosi, che le
reputano forme di specismo mascherato: «Salviamo l'altro da noi,
l'animale non umano, solo perché simile a noi in qualcosa: dolore,
diritti, ecc.», scrive in proposito Caffo. A suo avviso infatti le
capacità intellettive dell'uomo non lo rendono «moralmente più
rilevante» dell'armadillo o del gabbiano. Perciò la nostra specie
dovrebbe deporre ogni pretesa di superiorità.
Qui però il
ragionamento antispecista incappa in un'obiezione di fondo: se l'Homo
sapiens va considerato un animale in tutto uguale agli altri, perché non
dovrebbe comportarsi come la volpe con la gallina o il leone con la
gazzella? Nessuna bestia riconosce diritti a individui di altre specie.
Tra l'altro gli scienziati sostengono che le abitudini predatorie degli
ominidi sono state importanti nella loro evoluzione, perché il consumo
di proteine animali ne ha favorito l'espansione cerebrale e la pratica
della caccia ne ha acuito le capacità cognitive, necessarie a competere
con i grandi carnivori dotati di zanne e artigli. Per quanto possa
apparire orribile, sembra proprio che uccidere e mangiare altri animali
abbia contribuito a renderci umani. Ma se oggi ci poniamo i problemi
sollevati dagli antispecisti, è proprio perché nella nostra evoluzione
culturale abbiamo sviluppato una sensibilità morale di cui altri esseri
sono sprovvisti. Ed è da questa «superiorità» che si può far derivare
una responsabilità verso gli altri animali, con il dovere, se non altro,
di alleviare le loro pene.
Ciò emerge anche dal libro di Caffo,
quando l'autore enuncia la sua concezione etica dell'animalismo quale
«movimento totalmente altruista, di sacrificio e rinuncia in favore
dell'altro da sé». Non è un atteggiamento che si possa esigere dal
vivente non umano: a nessuno verrebbe in mente di chiedere che una
tigre, anche non troppo affamata, risparmi una preda per ragioni
altruistiche.
Probabilmente però Caffo pretende troppo anche da noi.
Come lui stesso ammette, l'uomo è segnato da quella che il filosofo
israeliano Tzachi Zamir chiama «intuizione specista», cioè privilegia
nettamente i suoi simili rispetto agli altri animali. Abbracciare un
antispecismo conseguente significa «sacrificare buona parte di ciò che
ci rende umani» (parole di Caffo) e se è vero che «in parte la cultura
ha proprio la funzione di "reprimere", in senso non violento, alcune
pratiche naturali dell'uomo», bisogna però riconoscere che l'Homo
sapiens non è plasmabile all'infinito e comportamenti atavici quali il
consumo di carne, almeno nella fase storica attuale, possono essere
inibiti solo in parte.
Né sembra che il rimedio possa consistere
nell'antispecismo politico di Marco Maurizi, con cui Caffo si confronta
al termine del libro. Solo se si elimina il dominio dell'uomo sull'uomo,
osserva Maurizi, si possono porre le condizioni per superare lo
sfruttamento degli animali. Eppure i fallimenti storici dei movimenti
anticapitalisti dovrebbero aver insegnato qualcosa, tanto più che
Maurizi contesta non solo la società borghese, ma più in generale la
rivoluzione neolitica, che segnò la nascita dell'agricoltura e della
vita urbana. Di certo la nostra civiltà gronda sangue, ma non sembra
consigliabile sovvertirne le fondamenta. D'altronde, senza la svolta del
Neolitico, nessuno di noi sarebbe qui a discutere di filosofia.
Tutto
ciò non significa negare il valore delle istanze poste
dall'antispecismo. È sacrosanto battersi per ridurre il tasso di
crudeltà esercitato sugli animali e per diffondere sempre di più una
dieta vegetariana, che tra l'altro giova anche alla salute degli umani e
agli equilibri ecologici del pianeta. Ma il pensiero antispecista
radicale, per quanto utile come provocazione intellettuale, non pare in
grado di uscire dal catalogo delle nobili utopie.
Corriere La Lettura 2.6.13
Siamo tutti cugini (guardate il Dna)
Nuovi
studi sulle distanze genetiche tra europei hanno ricostruito l'albero
degli antenati comuni. Noi italiani? Due progenitori condivisi con gli
altri Paesi in 1.500 anni
di Massimo Piattelli Palmarini
Ormai
è un luogo comune che l'umanità viva in un mondo piccolo. Varie sono le
misure per confermarlo. Il lettore, la lettrice immagini di voler far
recapitare a mano una busta, che verrà quindi passata di mano in mano,
fino a un remoto destinatario, per esempio un certo fornaio a Singapore o
una lavandaia a Manila. In un'epoca di posta elettronica, cellulari,
Internet e Facebook sembrerà strano immaginare una simile procedura, ma
facciamolo. Ebbene, per quante mani dovrà passare? La risposta è:
cinque. Infatti, la celebre formula «sei gradi di separazione» suggerita
alla fine degli anni Venti del Novecento dallo scrittore ungherese
Frygies Karinthy, poi ripresa nel 1967 dallo psicologo americano Stanley
Milgram, è stata sostanzialmente confermata dieci anni fa, alla
Columbia University, attraverso i calcoli di una rete di inoltri di
messaggi di posta elettronica in 13 nazioni sparse per il mondo.
Un'assai
diversa connessione, genomica questa volta, tra due persone prese a
caso in Europa è stata adesso calcolata da Peter Ralph e Graham Coop,
evoluzionisti e studiosi di genetica delle popolazioni dell'Università
della California a Davis. L'ultimo numero di «Plos Biology» riporta le
distanze genetiche tra 2.257 europei e, quel che più conta, il numero di
geni che ciascuno di questi condivide, sequenzialmente nel tempo, con i
propri antenati di 3.500, 1.500, 1.000 e infine 500 anni fa. Partendo
da circa due milioni di sequenze genomiche lunghe, questi autori hanno
esaminato come esse si accorcino a mano a mano che aumenta la distanza
geografica tra i loro soggetti. Molteplici processi naturali a carico
del genoma — come ricombinazioni, delezioni, inserzioni e simili — hanno
silenziosamente operato nel corso delle generazioni. La parte del
genoma che resta immutata, riscontrata in individui diversi, viene
considerata buon indicatore di una discendenza comune. L'idea che tutti
siano lontani cugini di tutti viene, in sostanza, corroborata. Più
prossimi di tutti tra di loro sono gli albanesi, con 90 antenati comuni
negli ultimi cinque secoli, ma ben 600 in circa 1.500 anni. Minore, ma
pur sempre dell'ordine delle centinaia, è il numero di antenati genetici
comuni a due individui presi a caso in Europa. Però gli italiani fanno
banda a parte, come pure gli spagnoli e i portoghesi. Appena due
antenati genetici in comune in 1.500 anni con il resto d'Europa.
È in
progetto di allargare questa storia genetica oltre i confini d'Europa,
aspettandosi di scoprire un più ristretto numero di antenati comuni su
scala mondiale. Qui va ben sottolineato che la storia delle popolazioni
ricostruita attraverso la genetica ha radici lunghe e insigni in Italia,
soprattutto grazie alla scuola di Pavia, iniziata da Luca Cavalli
Sforza, con Paolo Menozzi e Alberto Piazza, autori di varie celebri
monografie con circolazione internazionale. Sulla scia dei loro lavori
pionieristici, grazie alle attuali tecnologie di sequenziazione genetica
che oggi consentono di aumentare la precisione, abbassando costi e
tempo, e l'ausilio di possenti mezzi di calcolo, Ralph e Coop offrono
alcune ulteriori sorprese. Per esempio, che il numero di antenati comuni
recenti tra Regno Unito e Irlanda è superiore a quello all'interno del
Regno Unito, tra regioni non prossime. A dispetto di una recente storia
sanguinosa, i tedeschi hanno più antenati recenti comuni con i polacchi
che non tra di loro. Il numero degli antenati genetici comuni entro
l'Europa del Nord e dell'Est è triplo rispetto a quello medio. Il che
ben si allinea con le migrazioni degli unni e degli slavi, che non
toccarono in uguale misura Francia, Italia e Spagna.
Si noti, però,
che la tecnica adottata in questa ricerca fornisce una sorta di
conteggio minimo, perché nessun individuo porta in sé geni trasmessi da
ogni singolo antenato. Infatti, il termine (devo dire non molto felice)
«antenato genetico comune» lascia aperta la porta a un ulteriore, forse
superiore, numero di antenati comuni, chiamati invece antenati
genealogici, cioè quelli che hanno individualmente contribuito a una
parte solamente dei geni attuali nei discendenti. L'articolo di «Plos
Biology» è corredato da grafici, tabelle e mappe genetiche d'Europa.
La
conclusione è che, a dispetto di distanze geografiche a volte notevoli,
la condivisione di antenati genetici è notevole. La media, su mille
anni e oltre 2 mila chilometri di distanza, è un antenato genetico
comune ogni 32 persone. Sulla stessa distanza, se risaliamo indietro tra
i 2 mila e i 3 mila anni il numero sale a dieci. Allargando lo spettro
ad antenati genealogici, nozione più vasta, come abbiamo appena visto,
che non quella di antenati genetici comuni, il numero cresce fino a
qualche migliaio, anche per individui oggi geograficamente molto
separati. Facendo notare che mille anni sono circa 33 generazioni, Ralph
e Coop confutano l'idea che questo sia paradossale. Dato che vi sono
state molte migrazioni, seguite da matrimoni misti, e dato che si
facevano molti figli, tali numeri sono ben spiegabili.
Naturalmente,
il grado di parentela è assai variabile da regione a regione. Uno
spagnolo può essere geneticamente connesso a un antenato iberico per
mille cammini diversi, ma solo per dieci cammini a un antenato baltico.
La probabilità di aver ereditato geni nel secondo caso è, quindi, cento
volte inferiore. Uno stesso gruppo di antenati può aver trasmesso un
numero variabile di geni a due individui odierni. Le molteplici cause di
incertezza nei calcoli sono, comunque, ben descritte e le equazioni
rese esplicite. La conclusione, ammessa come contro-intuitiva, è che gli
europei sono genealogicamente tra loro più apparentati di quanto si
supponesse e che tale comunanza probabilmente si estende, seppur in
misura minore, a tutti gli esseri umani.
Corriere La Lettura 2.6.13
La cordiale intesa di Urss e tedeschi
La
vulgata sul trattato Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 cominciò con
una caricatura inglese che raffigurava Hitler e Stalin: si davano la
mano sinistra mentre con la destra impugnavano una pistola. Un accordo
bluff, insomma, che avrebbe consentito ai due dittatori di prendere
tempo e armarsi. Da poco è in libreria il saggio di Eugenio Di Rienzo ed
Emilio Gin, Le potenze dell'Asse e l'Unione Sovietica 1939-1945
(Rubbettino, pagine 414, € 19), che demolisce quest'interpretazione
anche sulla base di nuovi documenti provenienti soprattutto dagli
archivi londinesi. La tesi dei due storici è che quella fra i nazisti e i
sovietici fosse un'alleanza organica con solide radici già nei taciti
accordi per il reciproco riarmo successivi al trattato di Versailles, da
cui Germania e Russia erano state fortemente penalizzate anche dal
punto di vista territoriale. Materie prime sovietiche contro tecnologia
tedesca: era questo il refrain dei cordiali incontri diplomatici negli
anni Venti. I rapporti per la verità si raffreddano nel 1933 con
l'avvento di Hitler, anche se nel partito nazista era presente una
corrente ideologica filosovietica che aveva come scopo la
neutralizzazione dell'«anaconda anglosassone». L'accordo
Molotov-Ribbentrop, secondo Di Rienzo e Gin, non nasce dunque dal nulla e
soprattutto il dialogo continua anche dopo che nel 1941 Hitler sferra
l'attacco ai sovietici. A tratti può sembrare un libro di storia
controfattuale, anche se basata su solidi documenti. Ma è certo che
l'ipotesi di una pace separata tra i due grandi avversari rimase in
piedi fino all'ultimo. Come dimostrano i colloqui di Stoccolma del 1943 e
come fa pensare la fiducia in una pace separata tra l'Urss e le potenze
dell'Asse che nutriva Mussolini ancora la mattina del 25 luglio 1943.
Prima di andare dal re il Duce ricevette l'ambasciatore del Giappone,
Shinrokuro Hidaka. Di Rienzo e Gin hanno letto la versione del colloquio
mandata da questi in Giappone e intercettata dagli americani. Con la
carta diplomatica il dittatore italiano contava di convincere anche
Vittorio Emanuele III. Invece finì agli arresti.
Corriere La Lettura 2.6.13
De Chirico, la metafisica del falso
Vittima
dell'avidità e in conflitto con i surrealisti e la modernità
manipolando la sua arte depistò i giudici, i mercanti e se stesso
di Tommaso Pincio
La
vicenda è assai nota nell'ambiente dell'arte. All'epoca ebbe una
risonanza internazionale, vuoi per la notorietà delle persone coinvolte,
vuoi perché su di essa pesava l'ipotesi di un complotto. Il principale
attore le dedicò ampio spazio nelle sue memorie, uno spazio pari a
quello che riservò agli anni cruciali della sua vita, gli anni compresi
tra il 1911 e il 1915, quelli che Giorgio de Chirico (giacché di lui
parliamo) trascorse per lo più a Parigi, dipingendo opere destinate ad
avere un'incidenza fondamentale sugli sviluppi dell'arte contemporanea.
Il
fatto in questione risale però all'immediato secondo dopoguerra. Era un
pomeriggio d'aprile del 1947 quando una signora si presentò nello
studio dell'artista per mostrargli una Piazza d'Italia, ossia un tipico
esempio della pittura metafisica che egli era andato elaborando proprio
nel suo periodo parigino. La firma datata sulla tela diceva infatti:
«1913». Appena vide il quadro, de Chirico comprese però che si trattava
di un falso e, d'imperio, lo sequestrò: «Il meno che potevo fare era di
fermarlo onde non circolasse più. Non l'avessi mai detto: quella signora
cominciò a strillare e a dire che quello che volevo fare era una cosa
gravissima, che il quadro era stato affidato a lei, che lei ne era
responsabile, che il quadro aveva un valore enorme, ecc. ecc.».
Per
chi compra arte o se ne fa garante, per chi colleziona o si dichiara
esperto, quel che de Chirico liquida con un «ecc. ecc.» è l'insidia
peggiore. E non sono tanto i danni materiali, ai quali in fondo si può
trovare rimedio, quanto quelli morali, il vero problema. Lo smacco,
l'umiliazione, la perdita di credibilità. Diceva Friedrich Winkler,
storico dell'arte, che per affinare la propria capacità di distinguere
ciò che è autentico, il migliore esercizio è riconoscere ciò che è
falso. Ed è così. Disquisendo attorno alle opere autentiche si corrono
rischi scarsissimi. Sull'effettiva bellezza di un'opera autentica si può
bisticciare all'infinito, come pure sul suo significato, su quel che
l'artista ha inteso comunicare. Ma quando ci si imbatte in un falso, le
opinioni contano poco o nulla. Un'opera o è buona o non lo è. Non
riconoscere un falso significa annientare d'un colpo la propria
reputazione di intenditore, di connoisseur a vario titolo.
Ferite che
lasciano cicatrici. Il grande pubblico ancora sghignazza se ripensa
alla sicumera con cui certi critici insigni scorsero la mano di
Modigliani in tre false sculture riemerse dalle acque di un canale
livornese. Meno noto, ma ancor più sconcertante, è l'infortunio capitato
al Victoria Museum di Melbourne; soltanto nel 2007 si è scoperto che un
Van Gogh orgogliosamente esposto nelle sue sale per ben 67 anni era un
falso. In realtà, si dovrebbe essere più comprensivi. Riconoscere
un'opera d'arte contraffatta è a sua volta un'arte. Un'arte difficile
per di più. Persino più difficile dell'arte della falsificazione stessa,
che pure richiede abilità non indifferenti. Non per nulla Eric Hebborn,
leggendario contraffattore inglese scomparso nel 1996, ricorda che in
passato «non soltanto gli artisti si formavano eseguendo copie e
imitazioni, ma anche gli studiosi e tutti coloro che volevano diventare
esperti». Tirando per i capelli il principio di Aristotele per cui
l'arte è in primo luogo imitazione, il famigerato Hebborn cercò di
nobilitare il proprio mestiere sostenendo che la sola differenza tra
artisti e falsari è che i primi imitano la natura, mentre i secondi
imitano l'arte.
Il caso de Chirico è tuttavia più ingarbugliato.
L'eccetera eccetera ebbe un lungo strascico fatto di carte bollate,
tribunali e verdetti contrastanti. L'artista sbandierò ai quattro venti
la sentenza della Cassazione per avvalorare il teorema che
l'ossessionava da tempo: erano i surrealisti a invadere il mercato di
sue tele apocrife e ciò allo scopo di screditarlo. In prima istanza,
però, i giudici si erano espressi diversamente, stabilendo che il
pittore aveva mentito. Ma, se così stavano davvero le cose, perché mai
l'artista avrebbe negato l'autenticità del dipinto? E soprattutto:
perché mai gli premeva tanto toglierlo dalla circolazione?
Domande
cui danno risposta definitiva Paolo Baldacci e Gerd Roos, profondi
conoscitori del maestro, che hanno ricostruito la vicenda in Piazza
d'Italia. Con un piglio da legal thriller, il libro (pubblicato da
Scalpendi Editore per conto dell'Archivio dell'Arte Metafisica, in
libreria da domani, pagine 112, 25) risolve un mistero dell'arte moderna
e fa luce sul lato oscuro di un genio. Racconta la storia di un uomo
dal carattere fragile e irriflessivo che per turlupinare galleristi e
collezionisti divenne il principale falsario di se stesso. Ai «veri»
falsi che già inquinavano il mercato, si aggiunsero quindi i falsi veri
realizzati da de Chirico stesso. Da un certo momento in poi, il pittore
cominciò infatti a realizzare copie del periodo metafisico delle Piazze
d'Italia. Copie spesso mal dipinte che retrodatava per venderle a un
prezzo più alto, perché il periodo metafisico era quello che tutti
volevano. Lo fece sia per lucro, ovvio, sia per vendicarsi del mondo,
della modernità che detestava. Così facendo si screditò, ma dimostrò al
contempo che il falso può avere un suo doppio, qualcosa di autentico
che, alla maniera di un lapsus, lo rende più rivelatore del vero.
Corriere La Lettura 2.6.13
Munch, l'Urlo prima dell'Urlo
A Oslo arriva Disperazione, prototipo del dipinto più celebre
Inediti a Venezia, mentre tutt'Europa celebra l'artista
di Sebastiano Grasso
Ha
sempre vissuto come se si muovesse su un sentiero che costeggiava un
precipizio, mentre una sorta di forza sovrumana lo costringeva a
guardare nell'abisso, procurandogli attacchi di panico. Era l'ignoto,
l'inafferrabile ad attrarre Edvard Munch (1863-1944), del quale la
Norvegia celebra i 150 anni dalla nascita con una serie di
manifestazioni della durata di un anno. Clou, la grande rassegna di Oslo
che apre oggi, domenica 2. Altre mostre a Stoccolma (Thielska
Galleriet), Zurigo (Kunsthaus), Venezia (Fondazione Bevilacqua La Masa),
Genova (Palazzo Ducale).
Oslo presenta 250 opere divise fra il Museo
Nazionale (lavori 1882-1903), a cura di Nils Ohlsen e Mai Britt Guleng,
e il Museo Munch (1904-1944), a cura di Jon-Ove Steihaug e Ingebjørg
Ydstie. Naturalmente, sono presenti anche tre delle quattro versioni de
L'urlo, che fa parte della serie Il fregio della vita. Ma a Oslo, fra i
prestiti provenienti dalla collezione Ernest Thiel di Stoccolma, c'è
anche una grande sorpresa: Disperazione, del 1892. La qual cosa
permetterà al visitatore un accostamento interessante. Il dipinto, che
precede di un anno la prima versione de L'urlo, in realtà ne è il
prototipo.
Differenze? Il personaggio principale, che porta il
cappello, è visto di profilo, mentre si affaccia dal ponte di Nordstrand
(città oggi diventata uno dei quartieri di Oslo), e non è terrificante
come il volto, simile a un teschio, del celebre quadro di Munch. Sullo
sfondo di entrambi, invece, le due persone che parlano fra di loro e
che, forse, non si sono rese conto dell'angoscia del pittore.
Ricordate
la spiegazione dell'artista norvegese? «Passeggiavo con due amici
quando il sole tramontò e improvvisamente il cielo si tinse di
rosso-sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanchissimo al parapetto. Sul
fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I
miei amici continuarono a camminare mentre io tremavo ancora di paura;
sentii un urlo infinito che pervadeva la natura».
Ossessione e
tragedia, angoscia e morte. Ecco i binari su cui scorre la vita e la
pittura di Munch. Parte dei titoli ne sono testimoni: Morte nella stanza
della malata, Bambina malata, Angoscia di vivere, Morte, La madre morta
e la bambina, e così via, rappresentano una discesa agli inferi di un
uomo nel mondo pagano. Avevano tutti qualcosa in comune, anzi, come ha
scritto egli stesso, erano «apparentati».
Gli era sembrato persino
che, una volta accostati, «una stessa nota musicale li unisse. Da qui,
una vera e propria sinfonia». Sin da bambino, Munch viene colpito da una
serie di lutti familiari (la madre, la sorella Sophie, il fratello
Andreas). Nato a Løten, segue il padre, medico dell'esercito, a
Christiania (come si chiamava Oslo prima del 1925).
Pur non essendo
la Norvegia una protagonista dell'arte moderna, accoglieva gli artisti
che, rientrando in patria, portavano con sé le istanze europee di
rinnovamento. Un clima, questo, che serve a formare il giovane Edvard.
Si registrava uno scambio continuo fra pittori e scrittori. Kierkegaard
sosteneva che l'arte doveva trarre la linfa dalle proprie vicende
personali.
Nel 1889, un viaggio a Parigi convince ancora di più Munch
a guardare dentro di sé. Le emozioni prendono colore sulla tela. Una
buona mano gliela dà la letteratura. Come Gauguin, preferisce dipingere
le cose che ricorda, evitando di farlo nel momento in cui le vede. Sente
il bisogno di farle sedimentare e di tradurle, dando loro «un senso di
scopo ed emozione».
Sempre al 1889 risalgono la conoscenza di Van
Gogh e la morte del padre, con cui i rapporti non erano stati idilliaci.
Da qui quel senso di colpa che accrescerà la sua angoscia. Edvard
abbandona i ritratti, gli interni. «L'arte si nutre del sangue
dell'artista», dice. Per questo, adocchiando impressionismo e
simbolismo, Munch ingrana la marcia che lo porterà ad una sorta di
espressionismo sui generis, cui guardano un buon numero di artisti
tedeschi. Catapultatosi a Berlino, Edvard conosce una grande popolarità.
Anche stavolta le letture hanno una notevole incidenza (Strindberg,
Ibsen, Nietzsche e Freud), così come la musica (Wagner). La sua pittura
diventa una sorta di diario autobiografico e la sua angoscia acquista
una valenza universale.
Talvolta ripete gli stessi soggetti con
varianti, sino a quando gli sembra di avere esaurito la raffigurazione
delle proprie emozioni («Spesso riprendo un tema per scandagliarlo
sempre di più»). I suoi dipinti guardano non solo dentro l'uomo, ma
anche nelle realtà sociali. Munch allarga i suoi interessi alla grafica e
alla fotografia. Quest'ultima, addirittura, quando è casuale, diventa
la base dei quadri.
Anche se il successo gli arride (mostre,
riconoscimenti vari), è soggetto a crolli psicologici. Viene persino
ricoverato in una clinica di Copenaghen. I suoi personaggi diventano
sempre più sfatti, assomigliano a fantasmi circondati da ombre. E come
fantasmi rappresenta spesso le sue donne, con le quali ha rapporti
piuttosto difficili.
C'è di più: proprio nel 1913, la Norvegia
concede alle donne il voto e Munch registra questa trasformazione
sociale che non avviene senza traumi. Per lui, che le considera sante,
puttane e amanti infelici, esse vivono avvolte dal mistero.
E proprio
Attenzione alla puttana: Edvard Munch e Lene Berg è il titolo
dell'omaggio (curato da Marta Kuzma e Angela Vettese) che Venezia —
nell'ambito della Biennale — fa all'artista norvegese e alla
connazionale Berg (Oslo, 1965), autrice di un film sull'emancipazione.
In mostra 28 lavori poco noti: disegni e anche un paio di dipinti
inediti, fra cui Bambini e anatre, del 1906.
Attenzione alla puttana
riprende esattamente il titolo del film di Fassbinder, uscito nel 1971,
interpretato da Eddie Constantine, Hanna Schygulla e Lou Castel.
Non si capisce, però, quale rapporto ci sia fra i due artisti norvegesi e il regista tedesco.
Repubblica 2.6.13
Neruda: c’era un volta... il mio grande amore a Capri
Inedito del poeta cileno, una favola illustrata del ’52 dedicata a Matilde
di Pablo Neruda
C’ERA una volta un re della dinastia Hojo che, dopo molte guerre, venne con la sua regina a stabilirsi su un’isola dell’oceano, scoscesa e fiorita, di nome Kapra. I contadini lo vedevano sempre passare cingendo per la vita la sua regina, che amava più della pupilla dei suoi occhi.
C’era una volta un re della dinastia Hojo che, dopo molte guerre e siccome erano stati allontanati a tradimento dal proprio regno, venne con la sua regina a stabilirsi su un’isola dell’oceano, scoscesa e fiorita, di nome Kapra. Questo re era di indole buona e gentile, nell’esilio aveva sostituito la spada con un bastone nodoso ricavato dagli alberi dell’isola, e i contadini lo vedevano sempre passare cingendo per la vita la sua regina, che amava più della pupilla dei suoi occhi.
E aveva ragione il buon re, perché la regina Pat Hoja riempiva di allegria il suo piccolo castello di Li Campi. Fin dal mattino presto si sentiva la penetrante risata della regina, simile alla voce di un uccello americano, voce fino ad allora sconosciuta nell’isola. La regina cantava anche con grazia inconsueta e in mille modi teneva prigioniero il cuore del re esiliato. Perciò si vedevano sempre passare abbracciati e da loro proveniva più il rumore di baci che di parole, e a baciarsi e ad accarezzarsi trascorrevano la loro esistenza.
C’era una volta un re della dinastia Hojo che, dopo molte guerre e siccome erano stati allontanati a tradimento dal proprio regno, venne con la sua regina a stabilirsi su un’isola dell’oceano, scoscesa e fiorita, di nome Kapra. Questo re era di indole buona e gentile, nell’esilio aveva sostituito la spada con un bastone nodoso ricavato dagli alberi dell’isola, e i contadini lo vedevano sempre passare cingendo per la vita la sua regina, che amava più della pupilla dei suoi occhi.
E aveva ragione il buon re, perché la regina Pat Hoja riempiva di allegria il suo piccolo castello di Li Campi. Fin dal mattino presto si sentiva la penetrante risata della regina, simile alla voce di un uccello americano, voce fino ad allora sconosciuta nell’isola. La regina cantava anche con grazia inconsueta e in mille modi teneva prigioniero il cuore del re esiliato. Perciò si vedevano sempre passare abbracciati e da loro proveniva più il rumore di baci che di parole, e a baciarsi e ad accarezzarsi trascorrevano la loro esistenza.
Repubblica 2.6.13
L’album di Pablo e Matilde
di Simonetta Fiori
Dopo settant’anni, dalla cassaforte della Fondazione Neruda, esce questo raro componimento in prosa di uno dei maggiori lirici del Novecento. «Un testo finora sconosciuto», dice Hernán Loyola, massimo specialista e amico personale di Neruda, curatore delle Obras Completas (Barcelona, Circulo de Lectores & Galaxia Gutenberg). «Una favola nascosta tra le pagine degli Albumes de Capri, finora mai pubblicati in versione integrale». Anche una meticolosa indagine di Darío Oses — direttore della Biblioteca presso la Fondazione — approda allo stesso risultato: «Un racconto inedito, che non figura in nessuna bibliografia nerudiana». Singolare impasto tra registro favolistico e cronaca medievale, il cuento de amor non è importante solo sul piano del documento biografico, ma anche perché è una sorta di controcanto in prosa dei Versi del capitano, scritti più o meno nello stesso periodo per Matilde e nel 1952 pubblicati anonimi in edizione limitata.
Tenerezza, passione, malinconia, che risuonano anche ne Il Postino, lo splendido ultimo film con Troisi ispirato dal libro di Skármeta ma soprattutto da quel soggiorno italiano e da quelle poesie irrequiete. Trionfo dell’eros che non poteva portare la firma di Neruda, ancora legato a Delia del Carril, la moglie di vent’anni più anziana. Con Matilde s’erano conosciuti sei anni prima a un concerto a Santiago. Lui era già Neruda, celebrato poeta di quarantadue anni e diplomatico di fama, sposato in seconde nozze con Delia, un’artista argentina che l’aveva guidato nella scelta di vita comunista; lei, Matilde Urrutia, era una cantante lirica dal passato incerto, una particina nel film La lunareja e ruoli di secondo piano in alcune opere, una Manon e un Lohengrin, in Cile ma anche fuori. Estroverso, sicuro di sé, occhi penetranti Pablo; poco loquace e languida la giovane donna, gli «occhi d’un nero lucente, come di chi ha pianto molto». Matilde sulle prime non lo riconosce. «Ignorante! È Pablo Neruda», la scuote l’amica Blanca. Lei cerca di calamitarne lo sguardo, lui l’asseconda. L’opera lirica l’ha sempre annoiato, Matilde no, non l’annoia. Ha trentaquattro anni, movenze lente, voce roca. Si rivedranno.
Cominciò per gioco, indecifrabile e misterioso come tutti i giochi d’amore. Prima in Cile, poi a Città del Messico, più tardi in giro per l’Europa, dove lui patisce il suo esilio per sfuggire agli sgherri del tirannello Gabriel González Videla. È un’amicizia passionale, quella tra Pablo e Matilde, ma non prevede domande né impegni per il futuro. S’incontrano, si amano, ridono pazzamente, ma poi lei «vola per il mondo», fiera del piccolo benessere accumulato. «Profumi di tenerezza», gli dice Matilde una sera a Berlino, il corpo allungato accanto al suo. «Attenta, questa è poesia», ironizza lui. «Adesso non farmi la letterata». Però qualcosa succede. All’improvviso. Gli sguardi cambiano, l’allegria cede il passo all’ansia, «la divertente pazzia», annota lei, «si trasforma in lotta sentimentale ». Nervosismo, turbamento, cupezza. Non è gelosa, Matilde. Considera Delia una madre o una sorella maggiore per Pablo. Però non è nata per vivere nelle tenebre, le piace ridere, cantare. È trasparente come l’acqua del ruscello, che scorre e mai ristagna. Scappa. Ma il “Capitano” lancia le sue reti di parole, e la “Regina” ne resta catturata. La prima volta le regala una lettera da aprire solo sul treno che la porta via da Bucarest. «Le tue ginocchia, i tuoi seni/ la tua cintura/ mancano in me come nel cavo/ di una terra assetata... ». La seconda volta Matilde è sul treno che da Nyon la conduce a Parigi. «Amore, quando ti diranno/ che ti ho dimenticata, e anche quando/ fossi io a dirtelo/... non credermi/, chi e come potrebbe/ tagliarti dal mio petto?... ». E ancora altri mille versi seguiranno. Non resta che vivere fino in fondo il sentimento, scegliendo Capri come meta.
È il biografo Loyola a fornirci alcuni dettaglisulsoggiornonell’isola.«Lanotte di Capodanno tra il ’51 e il ’52 Neruda è a Napoli con Mario Alicata, Paolo Ricci, Antonello Trombadori e il giovane Giorgio Napolitano. Durante l’incontro, lo scrittore esprime il desiderio di passare qualche mese a Capri. Ricci e Alicata si danno da fare, ma l’11 gennaio la Pretura — su richiesta di Videla — comunica a Neruda il decreto di espulsione dall’Italia. Il poeta viene messo sul treno, ma una folla riunita alla stazione Termini — tra cui un’agguerrita Elsa Morante, armata di ombrellino — impedisce l’attuazione del decreto. Così Neruda ottiene il permesso di soggiorno per tre mesi a Napoli, dove arriverà il 18 gennaio». Finalmente a Capri, e di nuovo insieme. Ma come reagirà Edwin Cerio, il mecenate che li ospita in una delle più belle case dell’isola, quando saprà che Matilde non è la signora Neruda ma un’amica? Il raffinato cosmopolita conosce gli usi di mondo. «Molto meglio! Le coppie sposate non fanno altro che litigare». È il principio di un sodalizio duraturo.
Se esiste il paradiso — scrive Matilde nelle sue memorie — io l’ho conosciuto nell’isola di Capri. Lei vitalissima, piena di premure, resa più affascinante dall’incipiente sfioritura del quarantesimo compleanno. Lui appagato nei sentimenti e nell’ispirazione, avendo trovato in Matilde la musa ideale che coniuga poesia e fisicità, grazia e materia, terra e sessualità. Matilde «selvaggia e dolce», Matilde la «chascona», la «scapigliata», con quella sua chioma ramata e ingovernabile. «Lei gli dava quel che Delia, la “madre” intellettuale e impegnata, non poteva dargli», dice Hernán Loyola, che conobbe Neruda in quello stesso anno. La casa andò riempiendosi di mille oggetti, tracce concrete della loro passione non più nascosta. Fiori, ciotoli, conchiglie, alghe, disegni, manifesti, ritagli di giornale, poi confluiti negli Albumes de Capri, che raccontano anche della breve parentesi veneziana. Una sera di luna piena Pablo le chiede di indossare il vestito a righe verdi e nere illuminate da fili dorati: «Con quest’abito sarai una sposa molto bella». La conduce sul terrazzo, e con aria compassata domanda alla luna lucente di sposarli. Sull’anello che dona a Matilde è incisa una scritta: «Capri, 3 maggio 1952. Il tuo capitano». Un matrimonio vero, da rispettare come la cosa più sacra.
Il paradiso prima o poi finisce, e anche quello caprese ebbe termine. A luglio Neruda riceve la notizia che può tornare in Cile. Neppure lo splendore della «cattedrale marina» che l’aveva accolto sette mesi prima poteva scalfirne la nostalgia. E il mare di Capri «non ruggiva», «non aveva odore» come quello di Isla Negra. Pablo e Matilde fanno rientro a Santiago, ma ad aspettarli c’è anche donna Delia, la moglie comunista a cui lo scrittore non riesce a rinunciare. Pur di tenersi Pablo vicino, Matilde sembra disposta a tutto, anche a vivere nell’ombra di un matrimonio freddo ma di architettura robusta. Neruda ha ancora bisogno di Delia, ancoraggio sicuro in un percorso politico non privo d’affanni. «Io in realtà non le toglievo nulla», racconterà più tardi Matilde. «Tra lei e Pablo c’era solo un’amichevole convivenza. E non desideravo che lei perdesse la sua condizione di moglie». Ma per Delia le cose sono più complicate. Sceglie di lasciare il marito. Morirà a 106 anni, sopravvivendo — suprema vendetta — sia a Pablo che alla rivale.
Il Capitano e la sua Chascona si sposeranno nel 1966 a Santiago, festa grande con una moltitudine di amici. Però gli sposi sembrano nervosi. «Volevamo starcene da soli, rivivere la notte del nostro primo matrimonio, quando fummo benedetti dalla luna». Ma presto lo capiranno anche loro, destinati a restare insieme fino alla morte di Neruda. I momenti di felicità non si ripetono mai allo stesso modo.
Repubblica 2.6.13
Tullio De Mauro
Tra ricordi passioni e ferite il grande linguista si confessa
La storia di mio fratello è terribile. È un lutto che ogni volta si ripropone
“Le parole cambiano senso e tramontano. È la stessa cosa che accade con la vita”
intervista di Antonio Gnoli
L’ultima immagine che mi cattura, dopo un paio d’ore trascorse con Tullio De Mauro, è lui alla finestra mentre fuma e io dal basso della strada che lo saluto. La scena si svolge in una stradina del quartiere Salario di Roma. Fa un cenno con la mano. Poco più che un movimento, come per dire ci sono, l’ho vista. Ma c’è davvero questo professore di 81 anni i cui pensieri sembrano portati sulla punta delle sue inconfondibili orecchie alate? Non so quanto quest’uomo abbia chiesto alla vita e ricevuto. Certo il successo accademico, i libri scritti (alcuni importanti), la politica, il ministero della Pubblica Istruzione, la Treccani, il premio Strega sembrano suggerire che a fine carriera il saldo sia largamente attivo. Eppure, tra le righe di questa esistenza tranquilla, si indovina un’irrequietezza smorzata dalla routine, una vita che va oltre quell’insieme di accorgimenti retorici con cui la si racconta, apparentemente senza dolore, senza spasmi, senza incertezze. Mi sforzo di trovare un punto di entrata, un passaggio a nordovest che renda questo impareggiabile cacciatore di parole anche un cacciatore di emozioni. Mi guarda, remoto ma al tempo stesso disponibile. Non rassegnato, ma attento a non lasciarsi cogliere di sorpresa.
Come è la vita di un linguista?
«Non diversa da quella di tutti gli altri. La nostra deformazione, se così la si può chiamare, sono le parole. Scatta come un sesto senso quando queste mutano, trasformano il senso; alcune hanno successo, altre tramontano. Un po’ come è la vita. Sono un termometro di ciò che accade nella società».
Che febbre misurano oggi?
«Nei duemila vocaboli di massima frequenza, che sono il cuore della lingua, sono entrate di forza un sacco di male parole. Giornali, televisione, Internet sono ormai un ricettacolo di parolacce. L’unico settore che ancora resiste è quello dei testi accademici».
C’è una differenza tra dire «rabbiosi» o «incazzati»?
«Sono sinonimi stretti. Ma il fatto che si sia più inclini a usare una mala parola, mi pare esprima un certo cambio di stile di pensiero e di costume. È l’Italia bassa e privata che sta prendendo il sopravvento».
E il linguista che fa?
«Prende atto. Non si possono ignorare il fattore tempo e la massa parlante se si vuole descrivere una lingua per come vive davvero. Lo ha insegnato più di un secolo fa Ferdinand de Saussure».
La lingua è storia?
«È un pezzo di storia. Saussure diceva che era un sedimento del bisogno di una comunità di esseri umani di esprimersi e di capire. Quindi un primato della storia che si intreccia però con la necessità di mettere ordine continuamente in questo sedimento».
A proposito di Saussure è lei che lo ha introdotto in Italia curando il Corso di linguistica generale.
«Un testo fondamentale della cultura europea. Ma poco letto almeno fino agli anni Sessanta. Devo al mio maestro Antonino Pagliaro le prime frequentazioni».
Personaggio controverso il suo maestro.
«È vero, dopo la guerra, fu epurato come fascista. Gli si chiedeva un atto di abiura. Lui tignoso reagiva dicendo “sono stato fascista e non ho niente da abiurare”. Venne radiato dall’insegnamento per la sua protervia. Alla fine fu riabilitato e gli dovettero restituire anche due anni di stipendio che gli avevano sospeso».
Lo accusarono di aver diretto il Dizionario di Politica della Treccani.
«Un’opera tutt’altro che infame. Pagliaro chiamò a collaborarvi molti antifascisti».
Come aveva fatto Gentile con l’Enciclopedia Italiana.
«Certo, fu Gentile, tra l’altro, a scoprire allora questo giovanissimo ragazzo. Ma i due finirono per diventare nemici. E alla fine si odiarono come solo può succedere tra siciliani. Un odio antico fatto di incompatibilità scientifiche».
Uno era glottologo l’altro filosofo.
«Pagliaro disprezzava il vaniloquio filosofico di Gentile».
E il suo rapporto con il fascismo?
«Intende il mio?».
Sì.
«Avevo quattro anni, ma ricordo una grande emozione per il discorso della proclamazione dell’Impero. Non avevamo ancora la radio, privilegio che arrivò qualche anno dopo, e la popolazione veniva portata nelle grandi piazze. Con la mia famiglia andammo a piazza del Plebiscito e attraverso gli altoparlanti ascoltammo il discorso del Duce che mi coinvolse tantissimo».
È nato a Napoli?
«Sono nato a Torre Annunziata, un po’ per caso. La mia famiglia proveniva da Foggia. In seguito mio padre, che era chimico e farmacista, aprì una farmacia fra Portici e Torre Annunziata. Ricordo meno il suo lavoro quanto invece che cambiavamo spesso casa. E la ragione di quei traslochi era dovuta a una certa inquietudine paterna, a un’insoddisfazione permanente che gli si leggeva in faccia».
E da cosa dipendeva?
«Non lo so. Era un uomo del fare. Non stava mai fermo. Da giovane aveva inventato un purgante effervescente al sapore di arancio e di limone. Una trovata niente male se si pensa agli intrugli che venivano somministrati. Propose a mio nonno, che aveva un patrimonio cospicuo, di finanziare il prodotto. Cosa che accadde. E fu un successo enorme che coinvolse l’Italia intera».
Diventaste ricchi.
«Macché. Solo alla fine si accorsero di aver sbagliato il conto economico. Per ogni bustina venduta perdevano un soldo. Fu un fallimento colossale. Mio nonno dovette vendere le sue proprietà e mio padre i beni che aveva. Ero piccolo, ma per anni la parola fallimento aleggiò nella casa come un orribile fantasma. L’unica cosa che non si riuscì a vendere furono i libri. E in fondo fu una fortuna perché su quelli appresi a leggere».
«Oltre me, mio fratello Mauro, Franco — il maggiore morto in guerra — e mia sorella. Un fratellino, prima che io nascessi, era morto di meningite».
A un certo punto, suo fratello Mauro aderì alla Repubblica di Salò.
«Partì volontario, con compiti che oggi definiremmo di ufficio stampa. Ci restò fino alla disfatta totale del 1945».
«È vero non comparabili con quelli di oggi. Si maturava prima. Ma tutto sommato era un ragazzo che per collocazione sociale e regionale si era lasciato sedurre da quell’alternativa perdente. Ma non credo avesse illusioni».
«In generale fu una reazione moralistica di tutta la mia famiglia al tradimento, cominciato con il 25 luglio; il re che scappa; la percezione dell’armistizio vissuto come un ulteriore tradimento. È in questo clima piccolo borghese che maturò quella scelta».
Negli anni precedenti cosa aveva fatto suo fratello?
«Si era iscritto all’università, scegliendo prima ingegneria e dopo giurisprudenza. Poi cominciò ad avere le prime esperienze giornalistiche nella stampa locale, infine partì volontario nel 1941. E quando tornò dalla guerra si allontanò dal fascismo per tutte le baggianate che aveva raccontato. Alla fine ci fu quella reazione istintiva dinanzi al tradimento. Dopo la liberazione ebbe un sacco di guai processuali».
«Era scappato da un campo di concentramento, fu accusato di reati mostruosi e condannato pesantemente in contumacia. In seguito è stato pienamente assolto. E dal 1948 tornò alla vita civile».
«Male, malissimo. Nonostante gli errori commessi ho sempre pensato a mio fratello come a una bella persona che ha portato su di sé il peso di una coerenza stravolta».
Si può dire che quella coerenza lo abbia spinto in seguito a indagare sul caso Mattei?
«Il caso è stato riaperto l’anno scorso e a settembre ci sarà il processo di appello. Il magistrato è convinto che mio fratello avesse trovato qualche prova seria sull’attentato a Mattei e per questo la mafia lo fece sparire. Il punto vero da accertare non è se dietro la scomparsa di mio fratello ci fosse la mano di Totò Riina, ma chi era il vero mandante».
«Molto duri. È duro non avere una tomba; è duro che ogni tanto il caso si riapra e si ricominci da capo. È terribile per tutti noi. Ogni volta è un lutto che si ripropone».
«È una ferita che non si è chiusa. Ma perché scosso?».
L’immagine che di solito lei dà di sé è quella di uno studioso accademico molto posato, perfino un po’ noioso.
«Da giovane ero un rompiscatole terribile. Ne facevo di tutti i colori, cose di cui oggi mi vergogno solo a pensarle. Però col tempo ammetto di essere diventato più posato».
Quello che volevo dirle è che dietro questa apparente imperturbabilità lei nasconde sorprendenti curiosità intellettuali.
Per esempio ai suoi studi oltre che su Saussure, su Wittgenstein, in anni in cui pochi se ne occupavano.
«Wittgenstein mi ha aiutato a capire meglio Saussure».
Come sono stati gli anni dell’insegnamento universitario? Si dice che nell’ambito della linguistica ci fossero le due scuole: la sua e quella di Garroni.
«Con Emilio eravamo molto legati e la sua amicizia fu per me oltre che personalmente, intellettualmente fondamentale».
«Adoperiamo la stessa parola sia per quello che consideriamo il lavoro più umile con i bambini di una elementare, sia quello che trasmette il suo sapere ai discepoli. Roman Jakobson diceva che per diventare dei veri maestri non bisogna essere troppo precisi, ma un po’ confusi».
«Molti romanzi italiani, come sa presiedo il Premio Strega».
«Ci sono state edizioni del premio in cui concorrevano Sciascia, Pasolini, Moravia, Gadda. Quella qualità non esiste più. Però la produzione odierna è di tutto rispetto».
Chi l’ha preceduta — Maria Bellonci e Anna Maria Rimoaldi — interveniva e orientava pesantemente. E lei?
«Preferisco il ruolo del notaio, cercando di limitare l’invadenza dei gruppi editoriali. Ma il problema oggi è un altro: la fondazione vive con pochi soldi e molti debiti. Rischio di finire in prigione. Scherzo, naturalmente».
Prima che la mettano dentro un’ultima cosa: è soddisfatto per tutto quello che ha realizzato?
«Potrei dirle che avrei dovuto fare molte altre cose che non sono riuscito a studiare. Ma cosa cambierebbe? Mia madre, quando ero piccolo, mi raccontava la storiella dell’Accademico di Francia che durante un pranzo viene interrogato da una signora: Perché il Polo Nord è così freddo? E lui: non lo so. Perché le cavallette emigrano? Non lo so. E così via. A un certo punto la signora si scandalizza e lui le risponde: vede, io sono pagato per quello che so, ma se dovessi essere retribuito per tutto quello che non so, non basterebbe tutto l’oro del mondo».
Tullio De Mauro è nato nel 1932 Traduttore del Cours de linguistique générale di Fernand de Saussure. accademico della Crusca, presiede il Premio Strega
Repubblica 2.6.13
Jacques Lacan l’inconscio visto da vicino
di Luciana Sica
Se gli Scritti usciti negli anni Settanta dicono “come” funziona l’inconscio, gli Altri scritti
che Einaudi pubblicherà in settembre dicono “perché” funziona in quel modo: «Lacan mette in chiaro qual è il motore dell’inconscio che consente ai sintomi quelle infinite ripetizioni che sono la delizia e lo strazio degli esseri umani».
Sarà anche dubbio che Lacan “metta in chiaro” qualcosa, spesso somiglia tanto a un ossimoro, ma è così per Antonio Di Ciaccia, l’analista che ha legato il suo nome alla traduzione e alla cura dell’opera lacaniana in Italia. L’uscita degli Altri scritti, più di seicento pagine, è attesa perché - a differenza dei Seminari sono testi redatti di pugno dal maestro francese, sempre lettissimo da studiosi (non solo analisti) di ogni parte del mondo. E per le “chicche” che contiene, dall’inaugurale Discorso di Roma del ’53 a Lo stordito, un vero e proprio compendio teorico, fino alle riflessioni sulla capacità (o meno) dell’analista di decifrare le formazioni dell’inconscio. Altri testi riguardano filosofi come Merleau-Ponty e scrittori, da Wedekind a Marguerite Duras. E Joyce, naturalmente. La scrittura è discontinua, si passa da uno stile barocco, prolisso, involuto - “alla Bossuet”, dice il curatore - a un linguaggio scarno, essenziale, costruito con precisione millimetrica.
Sono gli Altri scritti lo spunto iniziale per un libro-intervista che Di Ciaccia firma con Doriano Fasoli, una conversazione imbevuta di lacanismo sin dal titolo enigmatico - Io, la Verità, parlo (Alpes), anche con il rischio che la citazione si presti all’equivoco. Né Lacan infatti né chiunque altro - forse con l’eccezione del Figlio di Dio - può arrogarsi la pretesa di rappresentare la Verità, che pure esiste e quando “parla” lo fa sempre in prima persona e va anche presa per buona. Gli analisti lo sanno, e proprio per questo lasciano parlare il paziente che dice “tutto quello che gli passa per la mente”, obbedendo alla regola freudiana dell’associazione libera, il carburante essenziale perché il motore inconscio si metta in funzione. La Verità “parla” allora attraverso il paziente, che dice di amare una persona e qualche minuto dopo di detestarla: solo all’apparenza una contraddizione, visto che tutte e due le affermazioni sono vere.
A dispetto del titolo, il volume è di segno divulgativo, fedele all’impostazione di Fasoli che sin dalle prime righe della prefazione ne chiarisce il senso: «Avevo desiderato rendermi conto se un sapere così complesso come quello di Lacan non rimanesse una pura elucubrazione sulla scoperta freudiana, ma potesse diventare veramente linfa per uno psicoanalista nel suo lavoro quotidiano».
Di Ciaccia asseconda il suo intervistatore, spiegando in modo accessibile questioni anche molto complesse: cos’è un’analisi nell’indirizzo di Lacan e che differenza c’è tra una psicoanalisi e una psicoterapia, quando inizia davvero un’analisi e in che modo l’analista investito dall’amore transferale del paziente, dovrà ben guardarsi dal farne uno strumento di potere. O anche come valutare che l’analisi sia conclusa in modo valido, e sempre “uno per uno”, magari con la riscoperta di una capacità più inventiva di stare al mondo. L’elemento personale affonda nei ricordi che l’autore insegue con sapore nostalgico. Sono tanti gli aneddoti legati alla sua lunga e intensa frequentazione di Lacan. Ma qui Di Ciaccia tira in ballo anche un altro genere di affetti: «In fondo - mi dice - un libretto così antiaccademico è nato tanti anni fa quando, viaggiando in macchina, i miei due figli allora adolescenti approfittavano di quel nostro tempo insieme e del sonno della madre per farmi delle domande che avevano a che fare con la psicoanalisi. In realtà, facendo finta di niente, mi chiedevano chiarimenti sui problemi che a quell’età li assillavano. E io, facendo altrettanto finta di niente, rispondevo usando nel modo più semplice l’insegnamento di Lacan... Credo però che rimarranno inedite le parti più salienti di quelle “lezioni”, come le chiamavano loro, con ironia».
IO, LA VERITÀ, PARLO “Lacan clinico” di Antonio Di Ciaccia e Doriano Fasoli, alpes Pagg. 92, euro 12
Repubblica 2.6.13
Il codice segreto di Kandinsky è nascosto in quel cavallo che corre verso il futuro
di Melania Mazzucco
Cavalli e cerchi. Anche se Kandinsky non avesse dipinto altri quadri, per me sarebbe tutto. Li metterei tutti intorno a me, come facevano i Sirieni della Vologda nelle loro izbe. Quando le vide, nel 1889, Kandinsky era ancora un ventitreenne avvocato moscovita, figlio di un commerciante di tè di origine siberiana e di una aristocratica, travestito da etnografo studioso di diritto rurale, ignaro di quanto avrebbe cambiato l’arte moderna e se stesso: ma le pareti sgargianti di quella baita, tappezzate di pitture, gli rivelarono la bellezza pura dei colori. Dei Sirieni non sapeva niente. Né io di lui, quando ho scoperto i suoi cavalli, che mi chiamavano alla libertà, e i suoi cerchi, capaci di provocarmi una vertigine.
La stessa dei mosaici delle moschee islamiche. I calligrammi sinuosi si arrampicano sulle piastrelle della cupola, attirandoti irresistibilmente verso l’alto. E tu vieni rapito, anche se sei consapevole che quei segni non sono ghirigori di colore, ma lettere di un alfabeto ignoto, portatrici di un messaggio sacro. Non puoi comprendere ciò che significano davvero. E tuttavia in qualche modo il loro senso ulteriore non ti è precluso — ma anzi ti si svela. L’esperienza della visione di un quadro astratto di Kandinsky — la contemplazione di una forma pura — è analoga. E così deve essere.
Ce lo spiega lui stesso, nei suoi testi teorici. Kandinsky infatti è uno scrittore non meno che un pittore, e un filosofo oltre che un colorista. Non ha mai smesso di interrogarsi sul significato dell’arte — anche della sua. Ha detto che negli anni Venti e Trenta si interessava ai cerchi come un tempo ai cavalli. È stato come se mi avesse svelato il codice del linguaggio segreto. E perché il cavallo di Rotterdam suona esattamente come i suoi cerchi rossi, rosa o neri — pianeti ardenti o spenti su cieli di pittura — degli anni del Bauhaus.
Il cavallo di Rotterdam, intitolato Lirica, è una delle sue opere “di transizione”. Perché, pur avendo nel 1910 già dipinto il suo primo olio interamente astratto, ancora per qualche tempo Kandinsky lasciò che gli oggetti del mondo esterno affiorassero — parzialmente riconoscibili — sulle sue tele. Forse a beneficio dei futuri spettatori — che voleva educare a comprendere, giacché in lui bruciava un’irresistibile vocazione profetica. Ma anche perché già sapeva che il vero contenuto di un quadro non è ciò che rappresenta, ma l’emozione che comunica. E il 1911 di Lirica può essere definito il suo “anno del cavallo”.
Il tema del cavallo e del cavaliere era antico e universale come la pittura stessa. Legato alle fiabe, al folclore, al cristianesimo (a cavallo San Giorgio combatte col drago, e San Martino divide col povero il suo mantello). Era privato e autobiografico, dal momento che un cavallo (di latta) abitava i suoi più remoti ricordi d’infanzia. Era simbolico e magico (la lotta contro il Male e il Caos). Era anche un tema caro alla pittura moderna: basti pensare ai fantini di Degas. Kandinsky aveva seminato cavalli e cavalieri ovunque, anche nelle Improvvisazioni e nelle Composizioni. Ma quella figura, come un ideogramma del transitorio, era già soltanto sinonimo di slancio in avanti, cambiamento. “Il cavaliere azzurro” (Der Blaue Reiter) era il nome che aveva appena scelto, insieme al giovane amico Franz Marc, per l’almanacco artistico che preparò nel corso dell’estate per farne il manifesto dell’arte nuova. A quel tempo viveva a Monaco e d’estate soggiornava a Murnau, sulle Alpi bavaresi. Era già convinto che la pittura non deve essere pittura del visibile — replica, riproduzione, imitazione di oggetti esistenti nel mondo. L’arte non può che essere astratta e dipingere l’Interno, l’invisibile — cioè la vita stessa.
E la vita è l’oggetto di Lirica. Non c’è profondità né paesaggio: solo una superficie solcata da una linea nera ruggente. Quella linea è il cavallo. Il cavaliere è ormai solo un cerchio giallo e un semicerchio verde. Gli alberi, tratti grafici che sembrano dipinti a inchiostro di china; la terra un globo viola-blu, il cielo una striscia. L’economia delle forme non deve ingannare. Kandinsky aveva già scritto in russo e stava traducendo in tedesco Lo spirituale nell’arte, che avrebbe pubblicato in dicembre — attirando subito l’attenzione di tutti i pittori che non potevano non dirsi moderni. Già conosceva il potere quasi magico dei colori, e a quale vibrazione interiore corrispondono, e li distillò dalla tavolozza di conseguenza. Il bianco è silenzio. È sprovvisto di forza attiva, ma è la possibilità che precede ogni nascita e ogni inizio: ed è nel silenzio che si leva il grido della corsa. Il verde ha una potenzialità intrinseca di dinamismo. Il blu placa, calma, richiama l’uomo verso l’infinito, suscitando in lui la nostalgia della purezza e del trascendente. Un cerchio blu fa l’effetto di allontanarsi dallo spettatore: dunque quella tonda massa nell’angolo destro del quadro aumenta l’effetto di velocità che trascina il cavallo nella direzione opposta.
Ma perché il titolo, Lirica? Kandinsky sostiene che il lirismo è il pathos di una forza la cui espansione non conosce ostacoli. La lirica si realizza quando la linea retta procede senza incontrare una forza che vi si oppone. Quando sono presenti forze contrarie, che generano perciò conflitto (come una curva o una linea spezzata), ci troviamo in un dramma. Sulla superficie di un quadro, una forma che sale acquista leggerezza. Una linea che si sposta verso sinistra va verso la lontananza, l’avventura, l’infinito. Una linea che si sposta verso destra viene letta invece come ritorno — a casa, all’origine. Qui d’un balzo viene scavalcata la perpendicolare che intralcia la fuga del cavallo, e nulla ostacola più la sua ascesa. Lo scatto e il movimento ignorano tragitto, mèta e distanza, e comunicano solo la travolgente energia della vita.
Kandinsky direbbe che Lirica ha un suono squillante, che nulla vela. Quando non si conosce lo scopo pratico di un movimento (dove sta andando il cavallo?), esso agisce su di noi come qualcosa di misterioso, spirituale. Cos’altro è la vita se non movimento — esperienza, conoscenza e accrescimento di sé? Ha ragione. Questo quadro trasmette benessere: mi rende felice.
Vasilij Kandinsky: Lirica (1911) Rotterdam Museo Boymans von Beuningen
Repubblica 2.6.13
Da Verdi a Beethoven l’omaggio Tv a Claudio Abbado
È UN omaggio al grande direttore d’orchestra Claudio Abbado, che il prossimo 26 giugno compirà ottant’anni, il ciclo operistico-sinfonico in onda su Rai5 nelle cinque domeniche di giugno, alle 9.30. Il primo titolo in programma, oggi, è Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, diretto da Abbado nel 2003 a Firenze, nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino. Protagonisti dello spettacolo, che ha la regia di Peter Stein, sono Carlo Guelfi nel ruolo di Simon Boccanegra, Karita Mattila in quello di Amelia, Vincenzo La Scola nei panni di Gabriele Adorno, Lucio Gallo in quelli di Paolo Albiani, e Julian Kostantinov che interpreta Jacopo Fiesco. Il ciclo prosegue il 9 giugno con Così fan tutte di Mozart, andato in scena a Ferrara nel 2000 con la regia di Mario Martone; il 16 giugno in cartellone la Carmen di Bizet, prodotta dalla Scala di Milano nel 1984; mentre il 23 e il 30 giugno sarà proposta l’integrale delle sinfonie di Beethoven con i Berliner Philharmoniker, eseguita nel 2001 all’Accademia di Santa Cecilia di Roma.
Claudio Abbado compirà 80 anni a fine mese