lunedì 3 giugno 2013

il Fatto 3.6.13
La rivelazione.  Bersani poteva essere salvato dal Movimento
Tredici senatori di Grillo avevano detto sì a Bersani
Governo mancato. L’8 aprile il senatore Gotor volò a Palermo per incontrare in segreto Sonia Alfano
Una decina di giorni prima l’inizio delle votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica, ai vertici del Pd arrivò la proposta per far partire un governo a guida Bersani
di Loris Mazzetti


Ha ragione Beppe Grillo: all’interno del M5S esiste un gruppo di dissidenti, per questo, con l’aiuto dei fedelissimi, si è messo sulle loro tracce con l’obiettivo di non fare prigionieri. Più che dissidenti sono clandestini, perché da oltre due mesi si stanno incontrando discutendo sul fatto che finora, seguendo le indicazioni del capo, non hanno onorato il mandato degli elettori: cambiare la politica nel Paese e contribuire a fare le riforme indispensabili. Grillo può dire tutto quello che vuole, ma chi ci mette la faccia in Parlamento non è lui. La maggior parte di loro accusa il leader di aver buttato al vento una grande occasione non appoggiando, con le dovute garanzie, un governo Pd, permettendo così a Berlusconi di essere l’ago della bilancia di un esecutivo a larghe intese che oltre due terzi degli elettori non avrebbe mai voluto. Alcuni dei clandestini raccontano che dopo le promesse fatte in campagna elettorale nel Nord-Est, fabbrica per fabbrica, non hanno più il coraggio di presentarsi di fronte a chi li ha votati. Grillo preferisce un movimento al 15% ma coeso, senza ripensamenti, e grida ai quattro venti il rispetto degli accordi firmati dagli eletti in Parlamento altrimenti: la porta. Per i ballottaggi ha dichiarato: “Nessuna alleanza, la sinistra ci prende per il culo più della destra”. L’attacco di Grillo al candidato al Quirinale Rodotà, dopo l’intervista al Corriere della sera: “Un ottuagenario miracolato dalla rete”, e la successiva arrampicata sugli specchi per smentirla, sono state le goccia che hanno fatto traboccare il vaso.
Sulla storia dei clandestini M5S e dei rapporti con il Pd si stanno scrivendo tante leggende. Un contatto tra loro e Bersani si è consumato all’inizio di aprile. Allora il gruppo era formato da circa 30 eletti (Camera e Senato) in Sicilia, Calabria, Emilia, Piemonte, Lombardia e Nord-Est. Un personaggio serio e credibile come Sonia Alfano da sempre vicina ai clandestini, viene da questi incaricata di portare un messaggio di disponibilità a lasciare il Movimento per creare un gruppo autonomo, a votare la fiducia al Senato a un governo Pd, in cambio della condivisione di alcuni punti del programma e di garanzie di protezione mediatica contro l’inevitabile attacco del duo Grillo-Casaleggio. Contatta Bersani in modo riservato attraverso la Batteria del Viminale. Come il segretario sente il motivo della telefonata interrompe la comunicazione pensando ad uno scherzo del solito Cruciani della Zanzara. La Alfano mi chiama per un aiuto. Informo il portavoce Di Traglia che la telefonata non è uno scherzo e insieme creiamo un nuovo contatto tra i due, che si parlano più volte. Bersani, che non ha mai voluto un governo con Berlusconi, manda un suo stretto collaboratore, il senatore Miguel Gotor, in Sicilia per un incontro. Qualcosa non ha convinto i clandestini, ma soprattutto quella parte del Pd, che dal giorno dopo il voto pensava già ad un governo a larghe intese con Berlusconi e Monti mandando a casa Bersani.
Dopo la sconfitta del movimento alle amministrative il gruppo è aumentato a 40 eletti e la disponibilità di Rodotà (questa è la ragione dell’incomprensibile attacco di Grillo nei confronti del giurista) ed altri come Civati, Barca, Vendola di dare voce ai clandestini imbarcandoli nel progetto di costruzione di una nuova sinistra, pronta a non regalare per l’ennesima volta il Paese a Berlusconi, li sta trasformando sempre più in ammutinati pronti a mostrarsi alla luce del sole e Grillo, esaltato dall’idea di scontrarsi direttamente con Berlusconi, non a caso si è raffigurato sul sito nelle vesti dell’eroe scozzese di Braveheart, William Wallace: “Ci siamo solo noi: il capocomico e il nano, ne resterà uno solo”, rischia di fare la fine di un altro William di cognome Bligh, il comandante della Bounty, la fregata del famoso ammutinamento raccontato in tanti film epici.

il Fatto 3.6.13
Miguel Gotor
“Mi dissero di 13 senatori pronti a seguirci”
di Eduardo Di Blasi


Da storico navigato ha conservato il biglietto aereo: “Le posso dire che volai a Palermo per incontrare Sonia Alfano lunedì 8 aprile”, conferma il senatore democratico Miguel Gotor, nella cerchia più vicina all’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani che in quei giorni riteneva ancora possibile la difficile ascesa verso Palazzo Chigi. Aveva ricevuto il mandato dal presidente Giorgio Napolitano il 22 di marzo, Bersani. Aveva iniziato delle difficili consultazioni definite poi “non risolutive”. Era infine stato “congelato” il giorno 28 di quel mese e sostituito da un gruppo di saggi di nomina quirinalizia. Eppure, come conferma lo stesso Gotor “ancora riteneva di poter essere inviato alle Camere, semmai dal successore di Giorgio Napolitano”.
Perchè lei andò a Palermo?
Sonia Alfano, che da giorni lanciava “avvisi di chiamata” sui giornali, era riuscita a contattare il segretario. Aveva spiegato che c’era un gruppo di esponenti del Movimento Cinque Stelle che sarebbe stato interessato a discutere con noi...
Su cosa?
I temi del confronto erano quelli emersi anche dall’elezione di Pietro Grasso alla Presidenza del Senato: anticorruzione, legalità e lotta alla mafia. Io, per ovvie ragioni, ero interessato a comprendere quanti senatori fossero propensi a questo dibattito con noi. E potessero eventualmente consentire l’avvio di un governo a guida Bersani.
E quanti erano?
La Alfano mi spiegò che a Palazzo Madama erano circa tredici, quindi qualcuno in più dei sette che avevano votato in coscienza Grasso alla Presidenza del Senato. Per noi, con questi numeri, la pista diventava interessante.
Anche alla Camera c’erano grillini “tiepidi” pronti a far nascere un vostro governo...
Avevamo avuto dei segnali tramite Pippo Civati. Io mi occupavo fondamentalmente del Senato, dove non avevamo la maggioranza numerica per varare il governo.
Quei senatori non avrebbero votato il vostro governo...
Questo no. Avrebbero però consentito che partisse.
In quel viaggio in Sicilia incontrò anche esponenti dei Cinque Stelle?
Ebbi un solo incontro, in un ristorante, con l’europarlamentare Alfano, eletta da indipendente nelle fila dell’Italia dei Valori. Lei mi spiegò come stavano le cose. Quello che mi riferì mi risultò credibile. Tornai a Roma nella stessa giornata.
Perchè questa possibile intesa alla fine non è riuscita a concretizzarsi?
Le dò il mio parere: perchè bisognava attendere l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
All’operazione non fu dato alcun risalto...
Fu tenuta riservata, certo. Si riteneva di poterla rilanciare dopo l’elezione del Capo dello Stato. Ma quella partita finì come sappiamo.

l’Unità 3.6.13
Il presidenzialismo che rompe. Tensioni nel Pd
Bologna, il no della piazza «Costituzione da salvare»
Affollata manifestazione con Rodotà, Zagrebelsky e gli esponenti di Libertà e Giustizia
«Sbalorditive le parole del premier Letta sulle nuove norme per eleggere il Capo dello Stato»
di Andrea Bonzi


Sono sbalordito che un politico accorto come Enrico Letta sostenga che non si può continuare a eleggere il presidente della Repubblica con il sistema dei grandi elettori. La verità è che questa politica debole ha scaricato sulla Costituzione le proprie incertezze». Strappa applausi in quantità Stefano Rodotà, sul palco allestito a Bologna, in una piazza Santo Stefano gremita da migliaia di persone e baciata da un sole caldissimo.
IL PERICOLO PRESIDENZIALE
Le sue parole certificano che l’ipotesi di presidenzialismo (o semi-presidenzialismo) alla quale sembra aver aperto uno spiraglio la dichiarazione del premier subito la destra, con Alfano, ci si è infilata con entusiasmo è primo bersaglio del centinaio di associazioni che ieri si sono ritrovate in un’iniziativa in difesa della Costituzione dal titolo eloquente: «Non è cosa vostra». Non lo nasconde certo Sandra Bonsanti, presidente di «Libertà e Giustizia», capofila di questa rete di movimenti (sventolano bandiere arcobaleno, dei referendari pro scuola pubblica, No Tav, Anpi, del Popolo viola, tra gli altri) citando in apertura le dichiarazioni di Licio Gelli, Bettino Craxi e Walter Veltroni che, in periodi diversi negli ultimi trent’anni hanno indicato quest’ipotesi come una strada percorribile. E sta a Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista estensore del manifesto dell’associazione, spiegare che «il presidenzialismo porta a esiti diversi a seconda del Paese in cui viene applicato e, in particolare, a seconda del tasso di corruzione» perché l’accentramento del potere in un persona la porta «a diventare garante dello status quo». Da qui, la difesa della Carta: «Ci hanno detto che essere qui è un atto “divisivo” tuona Zagrebelsky -, che siamo la sinistra alternativa. Ma siamo qui non per appropriarci della Costituzione, per una battaglia di parte, ma per riaffermare che quel testo è di tutti. E dunque, sono coloro che ci criticano che sono alternativi». Un pensiero anche a Romano Prodi, «che abita qui vicino e di cui ho stima aggiunge Zagrebelsky -. Gli chiedo di riflettere sull’apertura al presidenzialismo che ha fatto. Quando si parla di modifiche “alle forme di Stato e di governo”, significa manipolare la seconda parte della Carta, che però non è indipendente dalla prima, quella sui diritti. I diritti, infatti, si garantiscono se la macchina dello Stato funziona». Questo non significa che la Costituzione sia del tutto intoccabile: «Una buona manutenzione può essere fatta senza stravolgerla osserva Rodotà -. La prima cosa da fare potrebbe essere ridurre i parlamentari. E poi il Porcellum, che è una pistola nella mani...indovinate di chi? Non modificarlo è un ricatto». Mentre, sul finanziamento ai partiti, Rodotà aggiunge: «La mia opinione di tanti anni è che la politica non può essere lasciata soltanto al denaro dei privati».
UN PEZZO DI CENTROSINISTRA
La piazza ribolle, e si spella le mani all’arrivo di Roberto Saviano, un altro dei big che hanno risposto alla chiamata di Libertà e Giustizia, che, dopo aver bocciato Gianfranco Micciché come sottosegretario alla Funzione pubblica, «ruolo a cui dovrebbero essere nominate persone inattaccabili e non ricattabili», si lamenta della scarsa attenzione del governo alla lotta alla mafia. Le organizzazioni criminali «in questo momento di crisi, dove c’è scarsa liquidità, arrivano in soccorso dell’economia legale, e la infiltrano», denuncia. Non mancano i politici. C’è il leader di Sel, Nichi Vendola, che rinuncia a parlare dal palco, ma ai cronisti consegna una stroncatura della riforma: «Il fatto che noi parliamo di presidenzialismo o semipresidenzialismo in un paese che non è riuscito nemmeno a fare la legge sul conflitto di interessi è segno di uno sbandamento culturale. Nei Paesi dove quel sistema funziona ci sono dei contrappesi straordinari, mentre il problema del berlusconismo avvelena l’Italia da 20 anni. E col Porcellum ha il coltello dalla parte del manico». C’è Rosi Bindi, ex presidente del Pd, c’è il deputato Pippo Civati, contrario alla nascita del governo delle larghe intese («In questa piazza il Pd non c’è, ci sono i singoli che cercano di mantenere il contatto tra il partito e la società»), ci sono i parlamentari democratici Sandra Zampa (prodiana) e Sergio Lo Giudice, Gennaro Migliore (Sel); c’è anche il deputato a Cinque Stelle Michele Dell’Orco («Perché mai dovrei aver paura di ritorsioni? Meglio festeggiare il 2 giugno qui che alla parata romana»). E c’è anche il magistrato Antonio Ingroia. Prove tecniche di un nuovo «polo progressista costituzionale», come lo definisce l’ex pm? O di un «partito ovunque, dentro a tutti i partiti, dovunque ci sia corruzione e disonestà, con a capo Rodotà», come invece sogna Nando Dalla Chiesa? In realtà lo stesso Rodotà dice «no a un’altra formazione del 2%» e gli interpellati glissano. A partire da Maurizio Landini, numero uno della Fiom che ha riportato al centro il lavoro, insieme alla leader Cgil Susanna Camusso. «Io faccio il sindacalista e voglio continuare a farlo chiude il numero uno delle tute blu Cgil -, di fronte al 50% degli italiani che diserta il voto, credo però che il problema della rappresentanza e della partecipazione vada affrontato».

il Fatto 3.6.13
Da Bologna pensando a Roma
L’altra sinistra in piazza contro inciucio e Pd
Da Rodotà a Landini e Saviano in difesa della Costituzione e alternativi alle larghe intese
di Emiliano Liuzzi


Bologna. Passa anche da Bologna la coscienza civile. Passa dalla Costituzione e dai volti di Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Roberto Saviano, Sandra Bonsanti, Nando Dalla Chiesa, Nichi Vendola, Antonio Ingroia, Salvatore Settis, Pippo Civati. Sul palco di Libertà e Giustizia si discute di politica e se la disaffezione esiste, a vedere così tanta gente in piazza Santo Stefano, è indirizzata verso la classe dirigente di Roma, verso il Pd e l'inciucio. Quella del governo Letta e Berlusconi. Quella che amoreggia quando c'è da spartirsi le poltrone e poi finge di litigare nei talk show.
TUTTO QUESTO è stata Bologna ieri. È stata analisi, ma anche la consapevolezza che oggi quest'incontro assume toni diversi rispetto come sarebbe stato due mesi fa. Parliamo di persone, tutte quelle che sono intervenute, molto critiche nei confronti delle larghe intese. E che da ieri hanno detto siamo qui, noi siamo al servizio di questo Paese, di questa Costituzione. Un appuntamento nel quale Rodotà si muove a suo agio. Anche se prima la voglia di togliersi un ulteriore sassolino ce la mette. Obiettivo: Beppe Grillo. “Non mi piacciono i partiti fatti a persona, non mi piace la demagogia”, dice. Sulle larghe intese poi è severo: “Lo scopo è visibile, condividerlo è particolarmente imbarazzante, se non difficile o impossibile. Serviva discontinuità dal recente passato”. Ma soprattutto punta dritto contro Letta: “Sono rimasto stupito che un politico accorto come l'attuale premier abbia detto che il prossimo capo dello Stato non sarà eletto con il sistema dei grandi elettori. I partiti non sono riusciti a eleggere il Presidente della Repubblica e cercano di risolvere le loro gravi difficoltà attraverso riforme istituzionali”. Il giurista si schiera così a capo di quel fronte che si batte contro qualsiasi ipotesi di presidenzialismo, e trova subito l'appoggio di Nichi Vendola, anche lui alla manifestazione. “Il fatto che parliamo di presidenzialismo, o di semipresidenzialismo, in un Paese che non è nemmeno riuscito a fare la legge sul conflitto d'interessi è segno di uno sbandamento culturale”, spiega il numero uno di Sel, mandando un messaggio preciso al Pd. Nessuno tra tutti coloro che si alternano sul palco montato sotto casa dell'assente più illustre, Romano Prodi, spezza mezza lancia in favore di Letta e del suo governo. Ma il momento più vero, palpabile, lo raggiunge Maurizio Landini, in lacrime, quando sale sul palco e ricorda il “partigiano” don Gallo: “Ha voluto andarsene, ma in una mano aveva la bibbia, nell'altra la costituzione”. E poi, giù durissimo il leader della Fiom: “Mi sono stancato di sentir dire che dobbiamo cambiare Costituzione. Dicono che sia la più bella del mondo, è vero. Ma applichiamola. Sarebbe la più grande rivoluzione che questo Paese potrebbe fare”. Anche lui poi se la prende con l'attuale sistema dei partiti, incapace di dare risposte ai propri elettori. “Quando il 50% delle persone non va a votare c'è un problema di rappresentanza, vuol dire che la politica non funziona più e bisogna immaginare nuove forme di rappresentanza”.
La giornata inizia nel primo pomeriggio. La piazza è piena, il sole picchia. Tocca a Zagrebelski aprire i lavori. Subito ci tiene a sgombrare il campo all'ipotesi che dalla manifestazione nasca una nuovo movimento per ricompattare tutta quella sinistra delusa dal grande inciucio Pd-Pdl. “Questo appuntamento è stato presentato come riunione della sinistra alternativa. Ma noi siamo qui per la Costituzione. È chi ci critica che è alternativo”. Sale poi sul palco Roberto Saviano, accolto con cori da stadio. Lo scrittore guarda a Roma e spara subito a zero: “Mi spaventa vedere Gianfranco Micciché alla Pubblica amministrazione, mi è parsa una gigantesca debolezza”.
ASSENTI I BIG del Pd, con le significative eccezioni di Rosi Bindi, della prodiana Sandra Zampa, di Sergio Lo Giudice e della voce critica numero uno tra i parlamentari, Pippo Civati, la giornata di ieri segna un punto di svolta nella sinistra italiana. Il 2 giugno 'alternativo' di Bologna può diventare, nonostante le parole di Zagrebelsky, la piattaforma per qualcosa di nuovo in attesa del congresso del Partito democratico. È stata la prima manifestazione organizzata nella gauche italiana, unita da Vendola a Ingroia, da Dalla Chiesa a Landini, da quando Enrico Letta è al governo. E a giudicare dalla partecipazione della gente, nonostante la giornata quasi balneare, la dirigenza di via del Nazareno una riflessione dovrà prima o poi farla.

Repubblica 3.6.13
Rodotà: vogliono scaricare le loro incapacità sulla Costituzione. Zagrebelsky: in Italia diventa garanzia di corruzione
Libertà e Giustizia, in 5mila a Bologna “No al presidenzialismo, la Carta va difesa”
di Silvia Bignami


BOLOGNA — Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Roberto Saviano. Sono solo alcuni tra gli intellettuali e i costituzionalisti che si sono ritrovati ieri a Bologna per la manifestazione organizzata da “Libertà e Giustizia” in difesa della Carta, e trasformatasi subito in un secco e corale no (c’erano almeno 5mila persone) a qualsiasi tentazione presidenzialista, «che sia un presidenzialismo intero o solo “semi”». Nel giorno in cui il vicepremier Angelino Alfano sente il profumo di una intesa col Pd sulle riforme istituzionali, la sinistra alza le barricate: «La Costituzione non è cosa vostra».
Una manifestazione, affollatissima a Bologna dove ha appena vinto il referendum in difesa dell’articolo 33 della Costituzione contro il finanziamento pubblico delle scuole private paritarie, che vorrebbe forse diventare anche il punto d’avvio di una nuova “Cosa” a sinistra. «Non un nuovo partito» precisa Rodotà, ma una «rete», come pensa Zagrebelsky, o un «polo progressista costituzionale» come lo chiama Antonio Ingroia. O magari un «partito ovunque, dentro tutti gli altri partiti» suggerisce il docente Nando Dalla Chiesa. Una suggestione per ora, che però ieri ha trovato un punto di incontro nel no al presidenzialismo, che «in un paese dove c’è molta corruzione diventa garanzia della corruzione» scandisce Zagrebelsky. Tanto che «stupisce», rincara Rodotà, che persino un «politico accorto» come il premier Enrico Letta «abbia detto che il prossimo presidente della Repubblica non sarà eletto dai grandi elettori. Non sono riusciti ad eleggere un presidente e vogliono uscirne scaricando le loro incapacità sulla Costituzione».
Intellettuali e docenti sono sul palco, con la segretaria Cgil Susanna Camusso e il numero uno Fiom Maurizio Landini. I politici come Nichi Vendola, leader di Sel, una sparuta pattuglia Pd, tra cui l’ex presidente Rosi Bindi, Pippo Civati e la prodiana Sandra
Zampa, e il leader di Azione Civile Antonio Ingroia, restano ad ascoltare. Non c’è Romano Prodi, nonostante fosse stato invitato e ieri girasse voce che proprio i prodiani potrebbero lasciare il Pd, se il congresso andasse male. «Per ora non succede nulla» assicura la Zampa, «prima vediamo il congresso. Forse si candida anche
Matteo Renzi, vediamo». Intanto è proprio la Costituzione a unire tutti in piazza, «perché un conto è la buona manutenzione della Carta, un conto è invece stravolgerla» attacca Rodotà dal palco. Un fuoco di fila a difesa dell'attuale assetto costituzionale cui hanno partecipato anche Settis, che ha invitato a contrastare la deriva verso una «democrazia senza popolo», e Roberto Saviano, per cui «difendere la Costituzione significa difendere la democrazia dalle organizzazioni criminali». Piuttosto si cambi la legge elettorale, come è tornato a chiedere ieri anche il presidente Giorgio Napolitano. «Il Porcellum che non è democratico» dice Susanna Camusso, mentre Rodotà va al nocciolo del problema: «È una legge corruttrice e illegittima che sostiene le oligarchie. Non modificarla è un ricatto, un'arma nelle mani... indovinate di chi? Di chi poi deciderà di far cadere il governo al momento più opportuno, tornando a votare con questa legge».

l’Unità 3.6.13
I guai del sistema francese
di Cesare Salvi


ENRICO LETTA HA PARLATO DI «ELEZIONE DIRETTA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA», e ha giustamente accennato all’autonomia di questa opzione rispetto a quella sulla forma di governo. In effetti, l’elezione diretta del presidente della Repubblica può coesistere con il parlamentarismo (Austria, Portogallo, Repubblica Ceca, ecc.), con il semipresidenzialismo e con il presidenzialismo.
Ma i tre modelli sono molto differenti. A proposito del semipresidenzialismo, è bene anzitutto domandarsi se sia vera la descrizione di quel sistema, molto diffusa da noi, secondo la quale, per usare le parole di Romano Prodi, semipresidenzialismo e legge elettorale a doppio turno consentono di «affidare al vincitore il compito di governare il Paese con un mandato stabile per un’intera legislatura».
In realtà non è così. Il governo, nel sistema francese, è espresso da chi ha la maggioranza in Parlamento, non dal presidente (perciò si parla di «semi-presidenzialismo»). Tant’è vero che spesso in passato si sono verificati periodi di «coabitazione», nei quali cioè un presidente di sinistra conviveva con un governo di destra, o viceversa.
Per tentare di ovviare a questo problema, da qualche anno il sistema è stato riformato, prevedendo mandati quinquennali per il presidente e per il Parlamento, e che l’elezione parlamentare si svolga subito dopo quella presidenziale. Nelle ultime occasioni i francesi hanno quindi votato in quattro domeniche per due mesi di seguito, e il risultato è stato quello auspicato della coincidenza fra le due maggioranze; ma non è detto che questo esito sia garantito. Lo è invece con il nostro sistema della elezione diretta per il sindaco, cioè del capo del governo, che sbagliando viene spesso considerato equivalente al semipresidenzialismo. Ma trasponendolo a livello nazionale si renderebbero troppo squilibrati i poteri del Parlamento rispetto a quelli dell’eletto dal popolo. In effetti, dove c’è (come in molti stati americani) il presidenzialismo vero e proprio, il Parlamento viene eletto in maniera del tutto autonoma, anche temporalmente dal presidente.
L’altra considerazione da fare è che non è vero che il sistema di doppio turno di collegio garantisce il bipolarismo e una stabile maggioranza. In effetti, il sistema a doppio turno può garantire troppo o troppo poco. Può garantire troppo, nel senso che anche con il 30% dei voti al primo turno si può arrivare (è accaduto in passato in Francia) all’80% dei seggi, dando quindi a una maggioranza relativa un potere pressoché assoluto, compreso quello di revisione costituzionale. Oppure può non garantire una maggioranza. Come si comporterebbero al ballottaggio da noi (dove non c’è la «disciplina repubblicana» tradizionale in Francia) gli elettori del partito escluso dal ballottaggio, in un sistema tripolare? Anche per queste considerazioni in Francia si discute da tempo, e il governo socialista ha avanzato una proposta in tal senso, di introdurre una limitata quota proporzionale, sia per dare rappresentanza a forze rilevanti escluse altrimenti dal Parlamento, sia per temperare i rischi di un eccessivo maggioritarismo.
In breve, bisogna evitare semplificazioni. Non è detto che quello che è accaduto in Francia negli ultimi anni accadrebbe anche in Italia. Se si vuole l’elezione diretta del presidente della Repubblica, bisogna chiarire bene i rapporti con il governo e la maggioranza parlamentare; se si vuole il sistema elettorale a doppio turno di collegio, bisogna valutarne le conseguenze sistemiche e approfondire, in particolare il tema dell’inserimento di una quota proporzionale.

l’Unità 3.6.13
Polito confonde il doppio turno con il semipresidenzialismo
di Michele Prospero


NELLA GIÀ CALDA CORRIDA DELLE RIFORME ISTITUZIONALI È ENTRATO NELL’ARENA ANCHE ANTONIO POLITO CON IL TEMERARIO PROPOSITO, DICE, DI «PRENDERE IL TORO PER LE CORNA». Dopo che il quadrupede gli ha fatto sentire sulla viva carne di cosa son fatte le aguzze sporgenze che ha sulla testa, ecco come Polito spiega lo scambio virtuoso anzi «nobile» (tra una legge ordinaria, come il doppio turno, e la completa revisione della forma di Stato e di governo!) che va siglato all’istante, senza più indugi e furberie.
«Tutti sanno scrive sul Corriere della Sera che c’è un solo compromesso possibile tra Pd e Pdl, ed è il sistema francese. Consentirebbe al Pd di avere la legge elettorale a doppio turno che lo ha servito molto bene nel voto per i sindaci. E consentirebbe al Pdl di avere finalmente una forma di presidenzialismo, ciò che il centro destra insegue come un Santo Graal». Che gran confusione, per colpa del toro sicuramente e delle sue poco indulgenti corna.
Il doppio turno è un sistema elettorale che concerne l’elezione dei deputati in ogni singolo collegio uninominale. Altra cosa è l’elezione diretta del sindaco, con un secondo turno eventuale riservato al ballottaggio. Nelle città peraltro vige una legge elettorale ad un solo turno per la composizione dei consigli. Polito confonde il doppio turno caro al Pd con il meccanismo dell’elezione diretta del sindaco d’Italia. Peccato che non c’entri proprio nulla. E poi, che compromesso sarebbe? Si tratterebbe di accordarsi su un presidente eletto ad un solo turno oppure a due. Comunque, anche nella sua versione corretta «alla francese» lo scambio è tutt’altro che vantaggioso e obbligato.
Il doppio turno maggioritario per l’elezione del Parlamento non si trova in alcun nesso causale con il semipresidenzialismo. L’Italia liberale lo ha sperimentato per 60 anni, senza avere a suo completamento logico il Capo dello Stato eletto dai cittadini. C’erano i Savoia. La stessa Francia della Terza Repubblica vi ha fatto ricorso per decenni senza però abbinarlo mai al presidenzialismo. E non c’erano monarchi.
Se, malgrado il fattore di incertezza costituito dal tripolarismo, al Pd va bene il voto e vince la gara nei collegi, e però anche alla destra riesce il colpaccio e si insedia finalmente nel Colle, ci sarebbe un bel pasticcio. Una infinita coabitazione (tra un’aula di sinistra che con difficoltà regge un governo e un Quirinale di destra che dovrebbe rassegnarsi a fare un passo indietro) o la paralisi eterna (presidente contro assemblea). Il Capo dello Stato non potrebbe governare senza una maggioranza favorevole a Montecitorio e il Parlamento dovrebbe scontrarsi ad oltranza con il Colle per garantire un governicchio al suo premier. E allora sì che si presenterebbe un Matador con la rinnovata promessa di strapazzare le corna del toro.

l’Unità 3.6.13
Pd tra aperture e tensioni. E Renzi pensa alla segreteria
Segretario Pd? Adesso Renzi ci pensa davvero
Domani la direzione avvia la discussione sulle riforme
E per il partito il sindaco di Firenze è pronto a lanciare la sfida. Proponendo Cuperlo come vice
di Maria Zegarelli


Nel giorno in cui Angelino Alfano accelera sul presidenzialismo e Renato Schifani rilancia Silvio Berlusconi candidato del Pdl alle prossime elezioni, nel Pd si agitano le acque sulla futura forma di governo. Da una parte i difensori della Costituzione e del parlamentarismo, dall’altra chi è pronto a discuterne mettendo però sul tavolo pesi e contrappesi (compresa una severa legge sul conflitto di interessi) tra i poteri dello Stato.
Altro fronte di discussione interna è il futuro assetto del partito e la corsa alla segretaria. Matteo Renzi sarebbe pronto a sciogliere la riserva e lanciarsi nella sfida per la guida dei democratici, «è vero, Matteo ci sta pensando sempre più seriamente», confida un suo strettissimo collaboratore. Dalla sua parte ci sarebbero Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Sergio Chiamparino, come gli stessi giovani turchi, in uno schema che vedrebbe Renzi candidato alla segreteria (e alla premiership) con Gianni Cuperlo numero due del Nazareno. Un’ipotesi su cui gli ambasciatori stanno lavorando intensamente e che non troverebbe il sindaco distaccato come appariva qualche tempo fa. Si tratterebbe di un ticket, quello Renzi-Cuperlo, che permetterebbe al sindaco, una volta indette le elezioni, la corsa verso Palazzo Chigi lasciando la reggenza del partito al suo vice, assicurando in questo modo anche quella sorta di equilibrio interno tra le posizioni più «moderate» del sindaco fiorentino e quelle più di «sinistra» del deputato dalemiano.
D’Alema e Renzi si sentono spesso al telefono, i «mediatori» lavorano, ma è evidente che molto dipenderà dalla durata del governo e dalle regole che il Comitato di lavoro per il congresso (che il segretario Guglielmo Epifani formerà martedì nel corso della direzione) si darà. Se il governo Letta scavalca l’autunno a quel punto Renzi potrebbe decidere di puntare anche al partito e secondo alcuni le «provocazioni» del sindaco all’esecutivo sarebbero anche un tentativo di capire quanto consistente sia la tenuta dell’esecutivo. Sospetti respinti con decisione dal diretto interessato, «io faccio il tifo per Letta» e dai renziani di stretta osservanza.
«Consiglierei a Renzi, Cuperlo e Epifani, nel caso in cui volessero candidarsi alla premiership di candidarsi anche alla segreteria e viceversa perché è evidente che il leader di un grande partito dice Nicola Latorre debba essere anche il candidato alla premiership. Nulla toglie, poi, che chiunque del Pd, possa candidarsi in primarie di coalizione, purché supportato, però, da un consistente numero di firme, il 30-40% degli iscritti». Di tutt’altro opinione Beppe Fioroni, sostenitore della separazione dei due ruoli. «Renzi premier con un'altra figura di unione alla segreteria del Pd? Mi auguro dice che si candidi anche a segretario di partito. Quello che va chiarito è che non si sovrappongano i ruoli». Pippo Civati avverte: «Io sono pronto a sfidare Renzi».
IL NODO PRESIDENZIALISMO
Da Walter Veltroni a Matteo Renzi, allo stesso Romano Prodi, il fronte democrat dell’elezione diretta del Capo dello Stato si allarga ma da qui a dire che questa sarà la linea del partito ce ne corre. Enrico Letta l’altro ieri ha aperto dicendo che non è possibile assistere di nuovo a quanto è accaduto durante la scorsa elezione del presidente della Repubblica e ieri Alfano ha colto la palla al balzo per rilanciare. Ma sia il premier, sia il suo vice, non possono non considerare il fatto che Giorgio Napolitano ha forti perplessità al riguardo e non ne ha mai fatto mistero.
La vicepresidente della Camera Marina Sereni non chiude ma si aspetta «che se ne parli nella direzione convocata da Epifani e poi nei gruppi parlamentari perché il Pd non ha mai espresso una posizione di questo tipo. Il mio timore prosegue è che con una riforma di questo tipo che comporterebbe una importante modifica di larga parte della Costituzione non si vada da nessuna parte e questo l’opinione pubblica non ce lo perdonerebbe. Sarebbe meglio cominciare dal superamento del bicameralismo e dalla riduzione dei parlamentari su cui siamo tutti d’accordo».
Fioroni domani in segreteria presenterà un ordine del giorno, su cui chiederà un voto se necessario, per far partire un referendum coinvolgendo i circoli, «perché finora abbiamo sempre sbagliato da soli. Sulla forma di governo stavolta sarebbe bene coinvolgere la nostra base». E sempre più sul piede di guerra è Rosy Bindi a cui l’apertura del premier non è andata giù. Esorta il governo a occuparsi di più di accordi di maggioranza sull’economia e a lasciare lavorare il Parlamento. «Per noi diceRepubblica e Costituzione stanno insieme in un legame storico ma soprattutto civile e popolare inscindibile, che è parte essenziale della nostra identità di italiani. Peccato che in contemporanea abbiamo registrato la sordità del governo che ieri con Letta e oggi con Alfano ci annunciano accordi già pronti sulla elezione diretta del Capo dello Stato».

Corriere 3.6.13
Democratici, il «fronte del no» prepara la battaglia in direzione Letta: non forzo sui contenuti
Ostili Bindi e giovani turchi. L'ipotesi di un documento
di Monica Guerzoni


ROMA — Come Giorgio Napolitano, anche Enrico Letta vuole restare «neutrale» rispetto alle riforme. La questione è troppo delicata e i partiti troppo inquieti perché al capo del governo convenga spostare platealmente il suo peso a favore di un modello e contro un altro. «Io voglio solo accompagnare il percorso di riforma e non forzarne i contenuti, né predeterminarlo», è la linea del premier. Il quale non conferma (ma neppure smentisce) le parole di due giorni fa al Festival dell'economia di Trento: «Non possiamo più eleggere il presidente della Repubblica con le modalità dell'ultima volta». Un'apertura al sistema semipresidenziale francese? «Che io sia francofilo non è una novità...», ha sorriso Letta, lasciando fioccare le interpretazioni.
Tanto è bastato per far scattare l'allarme tra quei democratici — una agguerrita minoranza — che guardano con diffidenza alle larghe intese e con preoccupazione ai tentativi di cambiare la Carta costituzionale. Domani, alla direzione nazionale del Pd, il tema rischia di deflagrare. Il segretario Guglielmo Epifani sta limando il suo intervento, in cui potrebbe rimarcare l'apertura al semipresidenzialismo.
Ma Rosy Bindi è pronta a dare battaglia. E non da sola. «Dopo le parole di Letta ho aspettato un giorno — attacca la ex presidente del Pd, ostile all'abbraccio col Pdl — Pensare che i problemi del partito si risolvano cambiando la Costituzione, mi pare francamente troppo. È singolare dare la colpa alla Carta per gli errori che la dirigenza ha commesso sull'ultima elezione del capo dello Stato». E se i «big» sono quasi tutti «francofili», lei li accusa di vendere una posizione che non è quella del Pd: «È pura oligarchia. È improprio legare il governo alla Costituzione». Rosy Bindi si è convinta che Letta e Alfano abbiano siglato un «accordo sottobanco». Sospetta uno scambio tra doppio turno ed elezione diretta del capo dello Stato «in barba» alle deliberazioni con cui l'Assemblea nazionale del Pd, nel 2011, votò il rafforzamento dei poteri del premier. E avverte: «Stravolgere la Carta senza discutere non è accettabile».
Per fermare il modello francese l'onorevole Bindi ha preso di petto persino Romano Prodi — favorevole al semipresidenzialismo come lo sono Renzi, Veltroni e, da qualche tempo, anche D'Alema — e ora sta pensando di presentare in direzione un documento contro il sistema francese, con una mossa che ricalcherebbe quella di mercoledì scorso: quando alla Camera il Pd è andato in crisi sul Mattarellum, la Bindi ha fatto girare un documento critico sulla posizione dell'asse Letta-Epifani-Franceschini, in calce al quale ha raccolto le firme di 44 malpancisti. Un «tesoretto» di consensi in cui qualcuno vede le basi di un movimento filo-prodiano. È solo un'ipotesi, ma la Bindi non smentisce: «Proviamo intanto a fare un buon congresso, poi vediamo...».
I popolari di Beppe Fioroni dicono di non avere pregiudizi, però ancora non si sbilanciano. Il disagio dei giovani turchi è invece forte, quanto esplicito. Matteo Orfini sfida il premier via Twitter: «A Enrico Letta dico: non si può sostenere per anni che abbiamo la Costituzione più bella del mondo e poi proporre di stravolgerla». Un attacco diretto, che annuncia altre grane in arrivo. Per Orfini il sistema con cui i francesi eleggono il capo dello Stato non è una modifica della Costituzione, bensì «un'altra Costituzione», e insinua che i contraenti del patto di governo non si stiano muovendo alla luce del sole: «Se dobbiamo parlarne, facciamolo senza ipocrisie».
È in questa cristalleria che Letta deve muoversi, stretto tra la fragilità del Pd e la determinazione del Pdl ad andare avanti sulla via di Parigi. «Abbiamo un'occasione irripetibile — spera l'onorevole Gianclaudio Bressa, franceschiniano molto esperto di riforme costituzionali —. Il semipresidenzialismo non è il sacro Graal, né belzebù. Ma si tratta di una revisione sostanziale della seconda parte della Costituzione. Serve molto equilibrio e con questo governo è la volta buona».

Repubblica 3.6.13
Nessuna scorciatoia
di Ezio Mauro

qui

Repubblica 3.6.13
Finanziamento pubblico: le basse intese tra i partiti
di Gianluigi Pellegrino


Le larghe intese all’italiana hanno la naturale e irresistibile inclinazione per accordi al ribasso.
Soprattutto quando c’è da proteggere ben precisi interessi. Non sorprende quindi la evidente preoccupazione del Capo dello Stato nel suo nuovo messaggio. E ciò a prescindere dalla buona fede del premier di turno, ieri Monti oggi Letta. Così fu per il colpo di spugna sulla concussione (di cui ha già goduto Penati e si appresta a fare Berlusconi), così è per la conservazione del porcellum chissà fino a quando e così è anche per questo pasticcio sul finanziamento ai partiti. Che non è tanto sbagliato, quanto fondato sull’ipocrisia di annunci smentiti dai fatti, con il rischio di partorire un ircocervo, che mette insieme il peggio sia dei sistemi a contribuzione pubblica che di quelli a finanziamento privato. In realtà a far sul serio bastavano tre righe dettate non da demagogia ma da un’elementare cultura riformista. Non abolizione del finanziamento pubblico che è essenziale in una democrazia, ma una sua riduzione dopo le abbuffate degli ultimi decenni e soprattutto connessione con spese giustificabili e realmente sostenute.
Ed invece la lettura del testo proposto dal governo lascia perplessi e a tratti interdetti, al di là delle rivendicate migliori intenzioni del ministro Quagliariello. In primo luogo si utilizzano formule da propaganda, «è abolito il finanziamento pubblico ai partiti», quando poi si spiana l’autostrada per un massiccio sistema di pubblica sovvenzione, ammantandolo però di una veste privatistica per affrancarlo da più penetranti controlli sulle spese. Un licantropo deforme, che emerge mostruoso con il bizantinismo del 2 per mille. Si era detto di voler riattivare il canale di fiducia tra elettori e politica. Bene, anzi benissimo. Ma allora si doveva prevedere l’attribuzione ai partiti esclusivamente delle quote destinate dai singoli contribuenti. Invece ecco il gioco delle tre carte sulle somme “inoptate”. Viene stabilito per legge che una parte delle mie tasse non va allo Stato ma ai partiti anche se io non l’ho deciso. È davvero uno schiaffo alla lingua italiana prima che al buon senso definirlo un atto “volontario”.
Il riparto di queste somme prescinderà poi del tutto da quanta gente sia andata a votare, come da quanti contribuenti abbiano espresso l’opzione sul due per mille. Altro
che riconnessione tra cittadini e partiti. Ne viene piuttosto certificata l’assoluta irrilevanza. Per non dire di quel comma dell’articolo 4 che attribuisce al solo governo la possibilità di innalzare il tetto di 61 milioni annui, se mai alla chetichella.
Vi sono poi le donazioni in teoria “private” e però detraibili dalle tasse sino al 52%, sicché la gran parte dell’esborso è in capo alla fiscalità generale. Della serie “io offro e tu paghi”. Tacendo poi su come sarà agevole far rientrare al privato anche la quota apparentemente versata.
Il tutto senza nemmeno uno straccio di rapporto con le spese effettivamente sostenute per reale iniziativa politica, come la sola certificazione dei bilanci ovviamente non garantisce. Rischiamo così il paradosso di abbandonare la strada almeno intrapresa dalla legge varata sull’onda degli scandali nella scorsa legislatura quando si era iniziato a rafforzare i controlli sui rendiconti in modo da evitare il rimborso per titoli in Tanzania, regali di nozze o per escort allegre e certo di buona compagnia. Allo stesso tempo il progetto dell’attuale governo omette di fissare tetti alle contribuzioni e alle spese elettorali. Unendo così il peggio dei sistemi pubblici e di quelli privati.
In conclusione, vogliamo ribadirlo, non siamo affatto contrari ad un finanziamento pubblico dei partiti purché sia ragionevolmente contenuto, meglio in servizi sul territorio (come pure si accenna nel disegno di legge) piuttosto che in contanti alle segreterie romane e comunque accompagnato da rigidi controlli sull’appropriatezza delle spese. E da una transitoria dieta più severa viste le abbuffate degli ultimi anni e i patrimoni accumulati.
Se il governo è d’accordo lo faccia con una legge breve e chiara, senza cedimenti a facili populismi ma anche senza inganni. E poi almeno restituisca il senso alle parole. Non fateci leggere che si “abolisce un finanziamento” che però si era negato esistesse e allo stesso lo si reintroduce sotto malcelate spoglie prestandogli anche la libertà di gestione che dovrebbe essere propria dei fondi privati. Un gran pasticcio che Letta e Quagliariello dovrebbero essere i primi a voler correggere, per non passare, non dico alla storia, ma anche solo alle cronache, per i garanti delle “basse intese”.

Corriere 3.6.13
Il salario della politica
di Angelo Panebianco


Quando si dice che in tutta Europa esistono finanziamenti pubblici ai partiti si dice solo mezza verità. Bisogna aggiungere che noi ne abbiamo fatto un uso particolarmente sciagurato (si veda l'ottima analisi di Sergio Rizzo sul Corriere di ieri a pagina 9). E che in quasi tutti quei Paesi il finanziamento pubblico si accompagna a un sistema ben disciplinato e legittimato (accettato dai cittadini) di finanziamenti volontari privati. Non avendo mai avuto un rapporto «laico», pragmatico, non ideologico, con il ruolo politico del denaro, siamo riusciti a fare del finanziamento della politica un mezzo di delegittimazione della democrazia.
Ora c'è l'obbligo di rimediare ma le resistenze sono formidabili. Nel disegno di legge del governo ci sono cose buone e meno buone. Il rischio è che al termine dell'iter parlamentare diventino pessime le cose meno buone e inefficaci quelle buone.
È buono che si prevedano agevolazioni fiscali per i contributi volontari. Incentivare tali contributi significa favorire una forma di partecipazione che avvicina il cittadino alla politica. I contributi volontari sono anche una valida misura della popolarità di cui gode ciascun partito. D'altra parte, è vero anche che occorre fissare un tetto alle donazioni (su questo punto quelli del Pdl non possono fare troppo i furbi). Solo con tetti alle donazioni si chiude la bocca a quelli che paventano lo strapotere dei più ricchi.
Vanno benissimo anche le agevolazioni statali indirette (bollette telefoniche, spazi in tv, eccetera). Ma poiché il diavolo si nasconde nei dettagli, bisognerà vedere quale sarà la formulazione finale. La cosa non buona, anzi pessima, riguarda la destinazione del 2 per mille imposta anche ai contribuenti che non esprimano preferenze. È un modo per mantenere in vita, surrettiziamente, il finanziamento pubblico centralizzato. Il più grave problema del finanziamento pubblico centralizzato è che esso concentra una grande massa di denaro nelle mani di pochissimi (coloro che controllano le tesorerie centrali dei partiti) dando così a piccole oligarchie i mezzi per riprodursi indefinitamente sbaragliando qualunque avversario. C'è differenza fra dare alla democrazia le risorse necessarie al suo funzionamento e permettere a piccoli gruppi di fare il bello e il cattivo tempo con i soldi del contribuente.
Se si pensa che un sistema di agevolazioni e di contributi privati non sia sufficiente per finanziare la politica allora si ricorra anche a forme «vere», non truffaldine, di rimborsi: l'eletto documenti le sue spese elettorali e riceva direttamente dallo Stato (senza la mediazione della tesoreria di partito) un parziale rimborso.
In un Paese in cui la questione del finanziamento della politica è sempre stata viziata da un eccesso di ideologia (e di ipocrisia, che ne è la compagna inseparabile) è difficile mettere in moto quella sanissima forma di partecipazione che è il contributo volontario del cittadino al partito che preferisce e che di per sé rafforza la democrazia.
Naturalmente, quando si parla di denaro e politica tutto si tiene. Non è possibile far decollare un sistema trasparente di finanziamenti volontari alla politica, senza dare anche un efficace statuto legale all'attività lobbistica. Una attività da sempre criminalizzata da coloro (esistono ancora, e sono tanti, in barba alle lezioni del Novecento) che continuano ad avversare il capitalismo di mercato. L'attività lobbistica va disciplinata. È il solo modo per legittimarla.

Corriere 3.6.13
Soldi ai partiti. Spunta il tetto ai contributi privati
di Dino Martirano


ROMA — Il disegno di legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti verrà calendarizzato in tempi brevi (probabilmente si parte dalla Camera) e seguirà, comunque, una corsia preferenziale in modo da compiere un primo passaggio in Parlamento prima della pausa estiva: «Adesso la celerità dell’iter parlamentare si deve coniugare con la massima apertura al contributo dei deputati e dei senatori, con emendamenti e proposte migliorative, anche se è chiaro che i pilastri del provvedimento vanno mantenuti. In ogni caso, la priorità che il presidente del Consiglio Letta dà a questo testo è assoluta», spiega il sottosegretario Giovanni Legnini (Editoria e Attuazione del programma) che ha partecipato al gruppo di lavoro che ha messo a punto il testo del governo.
Legnini conferma che il provvedimento, varato venerdì in Consiglio dei ministri «salvo intese», è ancora «affidato alle cure della struttura tecnica del governo» per gli ultimi ritocchi per essere trasmesso alle Camere «senza la necessità di ulteriori passaggi in Consiglio dei ministri»: «Le correzioni sono tecniche, non di sostanza. I punti forti del testo, infatti, sono noti: uscita graduale dal finanziamento pubblico che, vorrei ricordarlo, viene abolito all’articolo 1 del provvedimento; due per mille; detrazione d’imposta; obbligo per i partiti di adottare uno statuto. Io dico che non c’è trucco perché si è introdotto un concetto rivoluzionario: i partiti verranno finanziati solo se i cittadini lo vorranno. E non mi sembra un particolare irrilevante».
Eppure, l’ipotesi di una correzione in corso d’opera suggerita dal governo si era affacciata nel corso del weekend in seguito alla valanga di critiche scagliate contro il testo non solo da parte dell’opposizione grillina. Perfino una pattuglia di ministri (Gianpiero D’Alia paventa il rischio del «magnate che si compra tutto») ha provato ad alzare la voce per chiedere che venga introdotto un tetto per le donazioni dei privati ai partiti. Un limite alle elargizioni liberali che nel testo non c’è perché osteggiato dal vicepremier Angelino Alfano e dai colleghi del Pdl: «Io, personalmente, sono favorevole al tetto per cui spero che venga introdotto dal Parlamento», osserva Legnini. Che però aggiunge: «Va detto anche che quel tetto oggi non esiste e che molti, oggi in prima fila a contestare la “mancanza” del governo, finora non si erano posti il problema».
Tra i parlamentari renziani del Pd, poi, sta covando il vento di rivolta contro il meccanismo del 2 per mille che dovrebbe rimpiazzare in parte le risorse tolte ai partiti con il finanziamento pubblico: «La proposta dei renziani non è poi così diversa tanto che il testo Nardella e altri sono stati tenuti in grande considerazione dal governo», spiega infine il sottosegretario Legnini. Che comunque conferma la decisione di destinare il 2 per mille al «singolo partito» e non al «sistema dei partiti»: «La seconda opzione è stata a lungo analizzata ma poi abbiamo scelto la prima. Anche se c’è una grande differenza, si può pensare al meccanismo del 5 per mille: quello per cui scegliamo di dare il nostro contributo a “una onlus” e non a tutto il “sistema delle onlus”».
Il testo del governo, tuttavia, continua ad essere bersagliato dalle critiche. Caustico il giudizio di Marco Pannella che ha parlato a Radio radicale: «Ci dicono “noi passiamo alla scelta dei cittadini... tanto che potranno volontariamente scegliere con il 2 per mille... Avremo cittadini contenti perché sono liberi di pagare» ma «ci avevano già provato (nel 1993, ndr), ci riprovano con anni di partitocrazia in più».
Vito Crimi, capogruppo in scadenza del M5S, spara un’altra cartuccia: «Il finanziamento pubblico va abolito, il governo finge...». Ma si fa sentire anche l’autorevole voce di Stefano Rodotà, molto ascoltata dalla base grillina: «Da molti anni la mia opinione è che la politica non può essere lasciata soltanto ai soldi dei privati».

Corriere 3.6.13
Commissioni, per il Copasir sfida Sel-Lega
di D.Mart.


ROMA — Settimana decisiva per la nomina dei presidenti della commissione di Vigilanza Rai, del comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti (Copasir) e della giunta per le elezioni e le immunità del Senato. Le bordate di Beppe Grillo contro i giornalisti del servizio pubblico (Gabanelli e Floris in testa) non hanno certo reso più sereno il clima intorno all'annunciata elezione di Roberto Fico (M5S) alla presidenza della Vigilanza. Fico, già intervistato da Lucia Annunziata su Raitre, ha detto che «non c'è nessun editto di Grillo contro la Gabanelli e contro Floris... A questi giornalisti non capiterà niente...». Eppure, l'aria che tira in casa Cinque Stelle agita le acque: «Siamo stati in stallo per molto tempo, la prossima settimana ci occuperemo anche di questo. Sono commissioni che spettano all'opposizione. Prenderemo atto del candidato del M5S, non ci sono preclusioni di principio», ha detto ieri Renato Schifani.
Per legge solo il Copasir spetta all'opposizione: a San Macuto, a controllare gli «007», è in arrivo dunque un senatore della Lega (Divina o Bitonci) se Nichi Vendola (Sel) non ce la farà a imporre il deputato Claudio Fava. Nello schema dell'accordo la terza casella delle presidenze, quella della giunta del Senato (strategica per l'eventuale dibattito sull'ineleggibilità di Berlusconi) spetterebbe al senatore Dario Stefano (Sel).

Repubblica 3.6.13
Il Paese fluido che ha smarrito la fede
Mappe. È finita la fedeltà nell'urna, ora il voto è diventato fluido: nel 2013 il 40% ha cambiato partito.  I motivi della svolta: fine delle ideologie e antipolitica
di Ilvo Diamanti

qui

Repubblica 3.6.13
Il 19 si riunisce la Corte costituzionale sul caso Mediaset
Il Cavaliere: salta tutto se mi condannano
di Carmelo Lopapa


IL GOVERNO Letta andrà avanti senza contraccolpi, almeno fino al 19 giugno. Da quel giorno, però, lo scenario rischia di cambiare in modo repentino. «In effetti, non possiamo stare a guardare, a subire passivamente l’assalto giudiziario di chi vuol farmi fuori». Silvio Berlusconi se ne è ormai convinto dando ragione a Daniela Santanché, Denis Verdini e Daniele Capezzone.
I TRE sono stati suoi ospiti per due giorni a Villa Certosa, in Sardegna. Loro preoccupati, lui ancora di più.
Succede che il 19 la Corte Costituzionale si pronuncerà sul legittimo impedimento negato a Berlusconi nel processo sui diritti tv Mediaset. Se la Consulta a sua volta boccerà l’esistenza dei presupposti - è il suo ragionamento - allora quello sarà il segnale che si scivolerà facilmente verso una conferma di condanna in Cassazione entro l’anno (con interdizione). A quel punto, «la situazione può complicarsi e far saltare tutto», dicono i più agguerriti. «Non accadrà nulla, lavoriamo al governo e portiamo risultati» filtra dalla segreteria Alfano. Ma pochi giorni dopo, lunedì 24 giugno, incomberà anche la sentenza Ruby. Un unodue che rischia di far scattare nervi ed equilibri. La situazione dunque potrebbe precipitare.
In quel caso, meglio farsi trovare pronti. I tre “falchi” hanno portato infatti al capo un progetto per rilanciare un partito leggero, molto stile Usa, da far viaggiare con pochi soldi (dopo l’azzeramento dei finanziamenti sarà inevitabile) e con risorse da reperire anche con tesseramenti vip a tre zeri e col crowfunding,  raccolta di microdonazioni sul web, oltre che con le solite cene. E ancora, un’ala del partito più giovane e movimentista che sia pronta a seguire il leader in tutte le sue battaglie, anche quelle personali, lasciando ad Alfano e altri dirigenti il partito «di governo». Tutte idee che il capo metterà in ordine per illustrarle ai dirigenti Pdl che saranno convocati a Palazzo Grazioli tra domani e mercoledì. Sotto il segno dei falchi? Certo è che la presenza dei tre a Porto Rotondo ha mandato in fibrillazione tutta l’area “governativa”. E sicuramente Alfano non nasconde la sua irritazione. Di rimettere in discussione il doppio incarico del segretario e vicepremier, però, Berlusconi non ha voluto sentir parlare. Ma la polemica interna tra falchi e colombe ormai divampa. «Ognuno fa quello che vuole, ma questi incontri separati difficilmente portano esiti chiari, occorre discutere tutti insieme» attacca Maurizio Gasparri, che come altri non ha preso bene la missione sarda. «Polemiche stucchevoli», ribatte la Santanché appena sbarcata a Milano in serata: «Vorrei che tutto il partito prendesse coscienza che tra 15 giorni una sentenza potrebbe togliere dalla scena politica il nostro leader Berlusconi. Mi piacerebbe che da oggi ad allora tutti insieme ci preoccupassimo solo di questo perché una sentenza che non ripristinasse giustizia sarebbe inaccettabile». Il Cavaliere non pensa ad altro ed è bene che tutti facciano altrettanto, è il messaggio.
Berlusconi, prima di volare ad Arcore per incontrare in serata Allegri, ha ripetuto ai tre ospiti che il governo Letta va avanti «ma deve far valere le nostre priorità», dall’Imu all’Iva. Il fatto che alla Certosa abbiano rimesso mano alla macchina organizzativa tuttavia è un campanello, nel mondo berlusconiano preludio di elezioni non lontane. L’aria è elettrica, in attesa del vertice a Grazioli dopo una settimana di eclissi del capo. Per arginare lo strapotere di Verdini, rimasto coordinatore unico, torna in scena l’ex coordinatore dimissionario Sandro Bondi, pronto a riappropriarsi del ruolo. Il fedelissimo di sempre giovedì mattina, a freddo, ha ammonito i falchi interni con una nota: «In questo momento, chi non comprende che il Pdl ha il dovere di garantire il successo del governo Letta, lo fa sulla base di personalismi e smanie di potere». Posizionamento al fianco del segretario Alfano e dell’esecutivo che ha prodotto i suoi effetti. Da un paio di giorni, i capigruppo Brunetta e Schifani, oltre a Ravetto e altri parlamentari invocano in coro un suo ritorno al vecchio ruolo (oggi dovrebbe farlo lo stesso Alfano). L’obiettivo del segretario e dei suoi è rilanciare appunto Bondi ai vertici di via dell’Umiltà, facendone una sorta di contrappeso al potere solitario e straripante di Verdini. «In questo momento, c’è bisogno di coesione e unità, agirò con libertà nell’interesse del presidente Berlusconi», si limita a dichiarare lui pronto a reindossare i vecchi panni. Lotte di potere interne ormai senza fine, in un Pdl lacerato in correnti stile Dc. Il capo li lascia sfogare, ha la testa altrove, soprattutto pensa già ad altro, anche ad un altro partito.

l’Unità 3.6.13
Marino Mastrangeli
Il senatore espulso: i 5 Stelle sono destinati all’implosione in Parlamento
Il cerchio magico rinvia le riunioni perché andrebbe sotto
«Almeno 70 parlamentari per il dialogo con il Pd»
di Claudia Fusani


Senatore Mastrangeli ha visto: adesso fanno quello per cui lei è stato cacciato dal M5s, vanno in tv.
«Non fatevi ingannare, Grillo in tv manderà il suo cerchio magico, gli yes men, quelli che non mettono in dubbio nulla. E per comunicare non la realtà ma quello che serve».
Fico ha spiegato a Lucia Annunciata che la differenza è che lei aveva disobbedito alle decisioni della maggioranza...
«E dove siamo, nel Terzo Reich? O forse Fico crede d’essere Himmler? Io ho sempre detto che era importante comunicare fuori quello che facevamo dentro. Adesso se ne sono accorti anche loro. Ma è troppo tardi».
Troppo tardi per cosa?
«La delegazione di 163 parlamentari Cinque stelle è destinata all’implosione. Per tre, quattro motivi che adesso vi spiego».
Chiariamo prima una cosa, lei è dentro o fuori il Movimento?
«Io sono un portavoce Cinque stelle adesso formalmente iscritto al Misto ma siedo ancora nei banchi del mio gruppo. E parlo con tutti, li ascolto, so cosa si muove. Ricordo poi che solo 62 parlamentari su 163 hanno votato la mia espulsione, e la matematica mi dice che non è la maggioranza. Quando hanno passato la parola al web, hanno votato solo il 40% dei cinquantamila aventi diritto. Ancora una volta, non è la maggioranza. Poi, sia chiaro: io ho contribuito a costruire il Movimento e da casa mia non me ne vado. Altri eletti che in questi giorni stanno trovando il coraggio di parlare, dicono questa cosa: non se ne vanno anche se la pensano in maniera diversa da Grillo».
Si parla di 30-40 frondisti, scissionisti, eletti che guardano con favore all’ipotesi di un intergruppo con cui votare insieme ad altre forze politiche su alcuni temi. Concorda con questi numeri?
«Ma sono molti di più. Adesso posso rivelare un retroscena che vi piacerà molto: prima del famoso confronto con Bersani, quello andato in streaming, erano almeno 60-70 i parlamentari che erano d’accordo per dialogare con la parte sana del Pd. Sono certo che sono aumentati. Giovedì è stato rinviata la riunione comune di deputati e senatori perchè il cerchio magico ha capito che sarebbe stato la minoranza e che quella riunione sarebbe finita male. Ecco perchè l’hanno cancellata».
Quindi c’è una bella fetta di voi disposta ad allearsi?
«Di chiacchiere a volte si può morire. Se otto milioni di italiani ti votano e raggiungi il 25 per cento, è chiaro che gli elettori vogliono mandarti a governare. Lo dicono i numeri. Grillo e Casaleggio hanno detto di no a questa assunzione di responsabilità. Guardate che è frustrante stare lì a presentare disegni di legge e sapere che tanto non cambieranno nulla quando invece abbiamo avuto l’occasione unica di cambiare veramente. Certo, non da soli. Ma chi se ne frega....».
Altri espulsi come lei, Tavolazzi in Romagna, Venturino in Sicilia, stanno creando movimenti. Sarà questa l’evoluzione dei Cinque stelle?
«Non credo. Io, come altri, lavoriamo per un M5S che dialoga e si allea con altre forze politiche per cambiare le cose».
Prefigura una specie di golpe interno? «Accadrà, è nelle cose. Per almeno quattro motivi: la batosta elettorale; la necessità di essere pragmatici e far vedere fuori che facciamo qualcosa di concreto; l’impossibilità di esprimere il proprio pensiero; nessuno, pochi, restituiranno i soldi. Non a caso Grillo ha detto l’altro giorno che verrà a prenderli per cacciarli uno per uno».
Che dice? Non restituite metà dello stipendio?
«Lei ha avuto la prova che questo è accaduto? No, perchè non è accaduto. Le aggiungo che alcuni senatori hanno già speso gli stipendi, qualcuno li ha impegnati per i prossimi anni».
Che ne pensa della violenza verbale di Grillo? Contro voi, i giornalisti, Rodotà, la Gabanelli
«Questo è un brutto vizio di Beppe, i post con le black list che scatenano e armano i linciaggi della Rete e poi delle persone. Lo ha fatto anche con me dopo il voto al presidente Grasso. Sono un ex poliziotto e chiesi l’aiuto della Digos».

l’Unità 3.6.13
Le pericolose idee grilline sulla televisione pubblica
di Vittorio Emiliani


Grillo credeva di poter continuare per un pezzo a urlare i propri anatemi contro tutti coloro che non gli dicono supinamente di sì. E invece comincia a prendere porte in faccia, a incassare, in pochi mesi, sconfitte brucianti.
Inizia a constatare che amministrare non è come chiacchierare e che in Parlamento non si vive di slogan e di frasi fatte, ma bisogna studiare le carte, impadronirsi di norme e regolamenti, approfondire i “precedenti” (e sono interi dossier) nazionali ed europei, decidere rapidamente senza il conforto suo e di Casaleggio. Fare politica è una cultura. Non un giochino. Comincia forse a capire che schifare i talk-show televisivi esaltando lo straordinario ruolo salvifico della rete non è forse un’idea geniale perché significa non comparire mai, nel bene e nel male, di fronte a milioni di spettatori/elettori lasciando ai partiti tradizionali tutta la scena. Allora manda un po’ dei suoi a lezione di comunicazione televisiva dall’altro socio fondatore Roberto Casaleggio per poi vararli in qualche arena. Non solo. Ma aspira a presiedere la commissione bicamerale di Vigilanza sulla Rai e sulle telecomunicazioni. E il suo parlamentare Roberto Fico, ieri da Lucia Annunziata, ha corroborato la pretesa di sedersi al posto di Sergio Zavoli col possesso di una laurea in Scienza delle Comunicazioni che, detto francamente, ce l’hanno decine di migliaia di giovani (puntualmente disoccupati).
Probabilmente crede anche che da Palazzo San Macuto si governi sostanzialmente Viale Mazzini. Questa, per la verità, è un’idea che in molti hanno coltivato. Sarà bene che qualcuno dica all’onorevole Fico che la Rai-Tv è una azienda, anzi un’azienda complessa, con dinamiche imprenditoriali, messa a suo tempo dalla Berlusconi-Gasparri in condizioni di inferiorità rispetto a Mediaset, costretta a competere sul mercato degli ascolti perché col canone più basso e più evaso d’Europa copre, a fatica, la metà dei costi e deve per questo attrarre pubblicità, altrimenti va in rosso, e il cavallo bronzeo di Francesco Messina stramazza.
Mesi fa Grillo avanzò la solita ricetta magica: ridurre le reti Rai alla sola Rai3 pagata dal canone. E le altre due reti storiche? Ai privati. E RaiNews24, e gli ormai numerosi canali del digitale terrestre? Ai privati. Già li vedo Berlusconi e i suoi cari che si fregano le mani. E la radio? Boh...Grillo non sa, o finge di non sapere, che nessuna Tv sta in piedi al mondo con una sola rete. E che il problema vero, assillante, mai risolto, è semmai quello di mettere “in sicurezza”, con una Fondazione o con altri strumenti, per intero questa azienda dall’enorme potenziale svilito dal prevalere, con la legge Gasparri, dell’impero berlusconiano e dalla indifferenza o cecità del centrosinistra.
Grillo non può pensare di affrontare la montagna di problemi che la comunicazione pone in Italia con gli editti, francamente ridicoli, contro Milena Gabanelli prima innalzata sugli altari e poi gettata in pochi attimi alle fiamme dell’inferno mediatico per aver fatto il proprio mestiere di «inchiestista» senza vincoli di appartenenza, e contro Giovanni Floris divenuto anch’egli un «nemico» da esecrare e possibilmente esiliare. Ma i talk show il M5S li vuole frequentare sì o no?
Se Beppe Grillo non si desta dal suo delirio solitario e assoluto, se non si dà una calmata e non ragiona sulla complessa realtà delle cose, rischia di buttare a mare un potenziale rilevante di cambiamento politico. Che poteva e può essere quanto mai utile ad un Paese depresso, bisognoso di ridarsi slancio, coraggio, progettualità. Nelle regole e nella trasparenza. La politica non è uno show. È insieme capacità di progettare e capacità di lavorarci sopra duramente, faticosamente, quotidianamente. Non è l’ora dei dilettanti allo sbaraglio. Se Grillo e M5S si illudono di poter risolvere i problemi con una battuta sarcastica più o meno felice, sbagliano di grosso. Prenderanno altre facciate, andranno a sbattere e butteranno via un’occasione importante. La satira e la politica son due cose diverse, due linguaggi, due impegni differenti, confonderli può suscitare applausi lì per lì. Ma, alla lunga, lascia soltanto cenere dietro di sé.

il Fatto 3.6.13
Ischia. I M5S e la legge pro abusivismo


''Se davvero i parlamentari 5 Stelle presenteranno il disegno di legge che sotto la maschera del 'ravvedimento operoso’ propone un nuovo condono edilizio generalizzato, questo li renderebbe di fatto complici dell’abusivimo e delle stesse ecomafie, che sul cemento illegale fanno affari da miliardi”.
Lo dicono Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, già parlamentari del Pd, commentando l'annuncio fatto ieri a Ischia di una legge proposta dai “grillini” che consentirebbe di sanare decine di migliaia di immobili abusivi in tutta Italia.

Corriere 3.6.13
Rodotà: «Non voglio spaccare M5s»
Il professore replica a Grillo: «Ho parlato bene dell'operato dei parlamentari grillini». «Non sono stato in freezer»

qui

Repubblica 3.6.13
Blitz a Roma di Grillo e Casaleggio pronta l’espulsione dei dissidenti
Beppe: Italia collassata, ecco gli elicotteri. Fico: via i partiti dalla Rai
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — A metà settimana, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio saranno a Roma. Incontreranno alcuni deputati e senatori, sicuramente i capigruppo (alla Camera c’è già Riccardo Nuti, al Senato ancora Vito Crimi). Parleranno di chi non vuole rispettare le regole, cercheranno «di trovare una linea più determinata nei confronti dei cosiddetti dissidenti». Chi ha parlato con il vertice, non nasconde che ci siano nuove espulsioni in vista. Non perché i malpancisti nuocciano all’azione del Movimento («in assemblea sono sempre minoritari»), ma perché «oscurano il grande lavoro dei parlamentari a 5 stelle. Il giorno in cui abbiamo fregato il Pd appoggiando la mozione Giachetti contro il porcellum, si è parlato solo della Lombardi che scriveva: “Siete delle merde”».
Non hanno paura di alcuna emorragia, il guru e il capo politico. Anzi, «per Casaleggio anche se in Parlamento fossimo la metà andrebbe bene lo stesso. La cosa importante è che si rispettino le regole». Così, nel nome del metodo, probabilmente giovedì potrebbero essere regolati un po’ di conti. Lo ha annunciato lo stesso Grillo l’altroieri in Sicilia. A chi dal pubblico urlava «Via i traditori», lui rispondeva: «Sì sì, avrete delle sorprese, questa settimana vado io in Parlamento e li prendo a calci nel culo». Dei deputati, nessuno è stato avvisato di possibili incontri. «Non so niente - dice Laura Castelli - forse si riferiva a quando sarà a Pomezia per i ballottaggi. E comunque, quando viene io sono sempre contenta». Come lei Massimo Artini: «È meglio avere un rapporto diretto, che se c’è da chiarirsi lo si faccia di persona. Per me non c’è nessuno da buttare fuori, ma quello che chiedo a queste persone è: qual è l’obiettivo? Diventare tutti come Giovanni Favia? Nessuno di noi ha un bacino elettorale autonomo». Andrea Cecconi è netto: «Vogliono cambiare cose che non possono essere cambiate, non c’è modo di farglielo capire, si stanno tirando fuori da soli. Ma non credo siano 40, come ha detto Alessio Tacconi, che parla solo per sé. Ci sono alcuni che ce l’hanno con i soldi, altri che da tempo vogliono alleanze con altri partiti. Sono questi i problemi».
I parlamentari più aperti al dialogo la vedono in un altro modo. «Grillo usa un linguaggio colorito com’è nel suo stile - dice Tancredi Turco - ma non c’è bisogno di prendere a calci nessuno, le diverse opinioni interne sono normali dibattiti, nessuno ha intenzione di uscire dal Movimento». Il senatore Lorenzo Battista è più reattivo: «Non mi piacciono questi toni. Mi va bene che si facciano incontri con gruppi ristretti, così almeno ci si conosce e confronta davvero, ma che senso hanno parole come “prendere a calci in culo”. Dobbiamo forse fare a botte? Come si fa a parlare con chi ragiona così? Viva la democrazia».
Intanto, l’offensiva mediatica è cominciata. Ieri Roberto Fico, il candidato dei 5 stelle alla presidenza della Vigilanza Rai, è stato a In 1/2 ora a dire che no, Grillo non è come Berlusconi, «lui parla in modo libero mentre l’editto di Berlusconi ha avuto effetto sui giornalisti indicati. Invece, a quelli di cui ha parlato Grillo non succederà niente. Noi vogliamo solo un giornalismo libero, lontano dalle mani dei partiti». «Cercheremo di andare nelle trasmissioni dove si parla di contenuti», ha detto ancora Fido, E poi: «Non esiste una possibilità di scissione nel Movimento. È possibile che qualche persona non si ritrovi in questo percorso, con tutto il rispetto ne trarrà le conseguenze». Stasera tocca al vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che mantiene il mistero sul programma
che lo ospiterà solo perché gli accordi non sono ancora tutti presi, ma che probabilmente sarà a Otto e mezzo da Lilli Gruber. Intanto, coloro che non sono rimasti male per non essere “i prescelti” fanno il tifo su Internet. Vega Colonnese e Giulia Di Vita twittano incantate le gesta televisive dei loro colleghi.
«Non andremo in tv, la occuperemo», ha rilanciato Grillo dal suo terzo comizio in Sicilia, dov’è in tour per i ballottaggi. E sul blog, al mattino: «Il cammello Italia collasserà e gli italiani, ignari, lo verranno a sapere in prima serata, dopo la pubblicità e prima degli elicotteri».

Repubblica 3.6.13
Gabanelli
La giornalista candidata alle Quirinarie ora è nel mirino del leader 5Stelle
“Non mi curo di questo rumore di fondo”
“Abituata agli insulti, l’ex comico fa comizi”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — «Sono abituata a ricevere insulti. Sono estranea a questo rumore di fondo. E continuo a fare la giornalista». Le saette dei grillini non sembrano minimamente sfiorare Milena Gabanelli. Eppure Beppe Grillo l’ha messa nel mirino. Da settimane. L’ultima volta dal palco siciliano di Mascalucia, piccolo centro alle porte di Catania. Il leader del Movimento cinque stelle ha demolito le due figure esaltate ai tempi delle Quirinarie: «Gabanelli e Rodotà si sono rivoltati contro!». Li ha rinnegati, in piazza, tra gli applausi. L’anima di Report si gode una domenica di riposo dopo le fatiche televisive. La linea va e viene, ma il concetto resta immutabile: «Grillo dica quello che ritiene nei suoi comizi. Ognuno è libero di dire ciò che vuole, non mi presto a polemiche che giudico inutili». La giornalista considera il pressing dei politici fisiologica conseguenza di chi fa il proprio mestiere: «Si scatenano reazioni, è normale». Così normale, assicura, che il cronista non deve cadere nel botta e risposta: «Il commento alla reazione del politico non è compito mio».
Però il leader dei Cinquestelle picchia duro.
«E io non ho commenti da fare. Non è la prima volta che mi accade. I politici se la prendono spesso con i giornalisti».
Grillo insiste, vi indica da un palco. Fa i nomi.
«I politici parlano davanti alle platee. Grillo dica quello che ritiene nei suoi comizi, faccia quel che vuole».
E un giornalista come si regola? Dopo averla candidata al Quirinale, Grillo continua ad attaccarla.
«Come ho già avuto modo di dire, ognuno fa il proprio mestiere. Io faccio quello di giornalista. E continuo a farlo».
Nonostante gli insulti della politica? Ormai accade sempre più spesso.
«Sono abituata a ricevere insulti. Uno fa il proprio mestiere. Se si scatenano reazioni, va bene: è ovvio che succeda. Ma il commento della reazione non è compito mio».
Si sente minacciata?
«Non mi sento minacciata».
E va avanti.
«Si, certo».
Ha avuto modo di sentire Grillo, ultimamente?
«No».
È assolutamente serafica.
«Ma per carità... sono estranea a questo rumore di fondo. Non mi tocca. Faccio il mio lavoro. E i comizi sono fatti così».

l’Unità 3.6.13
Anche tra i giovanissimi cresce il numero di chi si informa. Però aumenta l’astensione
Strana politica. Più sfiducia, più interesse
Per arginare la crisi i partiti devono riacquisire capacità di organizzare la partecipazione
di Carlo Buttaroni

presidente Tekné

L’interesse e l'attenzione nei confronti della politica è progressivamente cresciuto ma il numero di quanti si recano ai seggi per votare è contestualmente diminuito. Anche se si discute di politica più di quanto si facesse in passato, in realtà si pratica meno, e l'attività si limita a questioni che riguardano, direttamente o indirettamente, i momenti elettorali. La formazione del consenso è affidata alla rappresentazione della tv, perché la politica fa audience. Quando è «moderna», si affida ai pensieri (pensierini) dei leader postati sui social network, visto che anche i cinguettii permettono di contabilizzare gli ascolti. Il consenso solo marginalmente, e in misura sempre minore, si alimenta direttamente alle fonti primarie d'informazione politica, cioè i partiti.
I leader politici (grandi o piccoli, nazionali o locali) impegnano la grande maggioranza del tempo in tre attività: leggere le agenzie di stampa, emanare comunicati, parlare al loro interno. Si stima che queste tre funzioni assorbano, mediamente, più del 95% dei tempi della politica. Solo una parte residuale delle attività è destinata alla relazione con gli elettori e alla funzione di rappresentanza sociale. Con la conseguenza che le occasioni di partecipazione diventano più rarefatte. Perché stupirsi, quindi, se la distanza tra i cittadini e i partiti aumenta, se la fiducia nella politica diminuisce e se meno elettori si recano alle urne?
LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
La crisi della politica si riflette nel calo della partecipazione e investe in pieno la dimensione della democrazia rappresentativa. Un primo fattore che evidenzia la crisi, paradossalmente, è proprio il continuo richiamo al primato della sovranità popolare. Esso nasconde, in realtà, una deformazione profonda della rappresentanza stessa che trova forma nella verticalizzazione e personalizzazione delle leadership, nel rafforzamento degli esecutivi e nell’esautorazione delle assemblee legislative. Un assetto dove conta soprattutto il leader, identificato come espressione diretta e organica della volontà popolare, concepita a sua volta come la sola fonte di legittimazione dei pubblici poteri. È così che la scelta della maggioranza e del suo capo viene concepita come un fattore di valorizzazione e di rafforzamento della rappresentanza, tanto da far parlare di democrazia più diretta e più partecipativa. Il risultato è, invece, una deformazione in senso plebiscitario della democrazia rappresentativa con i partiti ridotti a comitati elettorali, dove il rapporto con l’opinione pubblica passa prevalentemente attraverso i media. Un approccio in cui sembrano prevalere quegli aspetti che ripropongono una tentazione pericolosa: l’idea del governo degli uomini, o peggio di un uomo – il capo della maggioranza contrapposto al governo delle leggi. Ma come affermava il giurista e filosofo Hans Kelsen «una siffatta volontà collettiva non esiste», e la sua assunzione ideologica serve a «mascherare il contrasto di interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro». Per questo, scrive Kelsen, «l’idea di democrazia implica assenza di capi».
Il secondo fattore di crisi della democrazia rappresentativa si ritrova nella crescente occupazione delle istituzioni pubbliche da parte della politica. La nomina dei parlamentari attraverso liste bloccate, prevista dall’attuale legge elettorale, rappresenta la forma estrema ed esplicita di questa identificazione tra partiti e istituzioni. Non bisogna dimenticare un altro aspetto della crisi della democrazia che si riflette nella riduzione della partecipazione politica e nel declino del senso civico. All’origine c’è il venir meno del loro radicamento sociale.
LA SFIDA
Quali possono essere i rimedi contro la crisi della democrazia rappresentativa? Occorre innanzitutto restituire ai partiti il compito di organizzare e tutelare la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale introducendo norme stringenti sulla loro democrazia interna. C’è un luogo comune, infatti, che occorre sfatare: l’idea che, in tema di diritti e di rappresentanza politica, le garanzie giuridiche non servirebbero, ma sarebbero addirittura lesive dei principi di autodeterminazione politica. L'esperienza ha purtroppo fornito una dura, sconfortante smentita di questa illusione.L’autoregolazione non è sufficiente a impedire la degenerazione dei partiti e solo la forza di una legge dello Stato è in grado di imporre l'applicazione di principi democratici interni alle forze politiche. Una legge che potrebbe prevedere il rispetto di taluni vincoli statutari in tema di democrazia nella vita dei partiti quale condizione, ad esempio, del finanziamento pubblico. In questo modo sarebbe garantita sia l’autonomia dei partiti stessi che la democrazia interna. Sarebbero, infatti, liberi di affidarsi incondizionatamente a un leader o organizzarsi come organizzazioni monocratiche quei partiti che decidessero di rinunciare al finanziamento pubblico, mentre sarebbero obbligati a soddisfare i principi di democrazia stabiliti dalla legge quelli che intendono godere del finanziamento pubblico. Una cosa è certa: la garanzia della democrazia rappresentativa passa attraverso il rafforzamento della democrazia costituzionale. Quanto più si indebolisce il rapporto di rappresentanza, quanto più i rappresentanti si distaccano dalla società, tanto più diventa essenziale il sistema di limiti e di vincoli, di separazioni tra poteri e di garanzie, idonei a impedirne la degenerazione autoritaria.
In Italia, dove la costruzione della democrazia è stata fatta con l’apporto essenziale dei grandi partiti la crisi di rappresentanza e di partecipazione delle istituzioni politiche incide direttamente sullo stato della democrazia. Il populismo mediatico e l’economia degli interessi particolari hanno cancellato il senso delle istituzioni, su cui prevaricano i partiti sempre meno rappresentativi della società. Il termine egemonia nella cultura politica riporta inevitabilmente ad Antonio Gramsci e alla sua ipotesi di «riforma morale e intellettuale». In questo processo, Gramsci affida agli intellettuali un ruolo fondamentale nella costruzione di un diverso rapporto tra cultura e politica. Oggi, il numero e le qualifiche degli intellettuali sono molto aumentati e diffusi nel corpo sociale con diverse mansioni rispetto ai tempi di Gramsci, ma hanno perso la loro funzione di formulare un pensiero collettivo, di esercitare l’egemonia culturale per la nuova società. E oggi si riaffaccia nuovamente l’esigenza di trovare un filo conduttore culturale e politico, in una società disgregata e individualista. Gli intellettuali devono, dunque, riprendere a svolgere il confronto tra valori, teorie, prospettive future. Oggi più che mai, infatti, non solo è necessario difendere i diritti connessi alla propria condizione di cittadino ma anche porsi l’obiettivo irrinunciabile di una cittadinanza globale, fondata sul riconoscimento concreto dell’universalità dei diritti e sul comune intento di costruire una società in grado di garantire a tutti una vita dignitosa.

Repubblica 3.6.13
L’intervista
“Bene il piano under 25 del governo ma incentivi solo per contratti stabili”
Camusso: non si può offrire ai giovani un inseguimento perenne
di Roberto Mania


ROMA — «È una scelta giusta quella di utilizzare le risorse che ci sono a favore dei giovani: sono la priorità. Se si vuole innescare un meccanismo di fiducia nel Paese non si può che partire da loro che finora sono stati marginalizzati. Stiamo rischiando di perdere un patrimonio umano», dice Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. La sua è nei fatti una promozione all’impostazione del Piano nazionale per i giovani del governo. «Ma - aggiunge - le misure che saranno prese non potranno rilanciare l’idea di una nuova flessibilità per l’ingresso nel lavoro. Quella ricetta è ampiamente fallita».
La parola flessibilità è scomparsa dal linguaggio dei ministri. Questo la rassicura?
«Al di là delle parole, quando si ragiona di un ulteriore liberalizzazione dei contratti a tempo determinato è di quello che si parla».
È contraria alla riduzione degli intervalli temporali tra un contratto e il suo rinnovo?
«Ma no, questo è già previsto dai contratti. La Cgil è contraria all’idea che possa aiutare l’occupazione giovanile l’estensione del contratto a tempo senza l’indicazione della causa per cui si fa l’assunzione. Di fronte al dato impressionante di oltre il 40 % di disoccupati giovani tutti sono pronti a dire che si deve abbattere quel numero, ma poi non si può offrire ai giovani un inseguimento perenne verso la stabilizzazione. Un primo contratto senza causale basta e avanza».
Dunque incentivi fiscali solo per i contratti a tempo indeterminato?
«Gli incentivi devono premiare chi dà stabilità, altrimenti quelle risorse finiscono per finanziare l’occupazione temporanea. Credo che la leva degli eventuali incentivi vada adoperata per favorire la trasformazione dei contratti a tempo in contratti a tempo indeterminato. Questo darebbe il segno del cambiamento».
La Cgil è favorevole alla staffetta anziani-giovani?
«È una nostra antichissima proposta. Ma va fatta bene: non si può fare riducendo i contributi previdenziali del lavoratore più anziano; non si può fare come è accaduto alle Poste dove un posto è stato diviso tra un part time e un nuovo contratto a tempo determinato. Invece si può utilizzare la staffetta per sfatare l’opinione che nel lavoro non ci siano competenze, proto.
fessionalità da trasferire. Può essere un modo per ridare centralità al valore del lavoro. Nessuno si illuda, tuttavia, che possa essere l’unico intervento sul versante delle pensioni».
In realtà, per i vincoli di finanza pubblica, il governo ha rinviato le pensioni a un secondo momento.
«E non va bene. Nell’ultima riforma ci sono ingiustizie sociali profondissime. Non si può ragionare di pensioni avendo davanti un concetto astratto di lavoro. Non si può lavorare fino a 65 anni alla catena di montaggio, non si può rincorrere un ladro a 65 anni, non si può guidare un aeroplano a 65 anni».
Mi dica dell’accordo sulla rappresentanza sindacale firmato con la Confindustria. Lo avete definito “storico”: ma cosa cambierà per i lavoratori?
«Ho detto che è storico non solo per i contenuti ma anche perché è dal ’43 che non si riesce a regolare il sistema della rappresentanza e a misurare la rappresentatività dei sindacati. Riguarda i lavoratori perché dà senso e significato alla loro scelta di iscriversi al sindacato e al loro voto per le rappresentanze».
Il sindacalismo italiano non è solo Cgil, Cisl e Uil. Gli altri sindacati, quelli più piccoli, potranno partecipare alle elezioni?
«Certo. È un accordo aperto. Purché assumano i vincoli che ci siamo presi noi».
Insomma un sindacato dovrebbe aderire ad un accordo che non ha negoziato. Ma lei lo farebbe?
«Sì perché aderirei a principii di democrazia e trasparenza. Per la prima volta si coniuga la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta. Mi pare possa diventare un esempio anche per i politici».
Qualcuno potrebbe dire che la soglia del 5% per poter sedere al tavolo delle trattative è troppo alta.
«È la soglia prevista dalla legge per il pubblico impiego».
Sarà necessaria una legge per estendere l’intesa a tutti i settori e dunque anche a chi, come la Fiat, non aderisce a Confindustria?
«Credo che questo accordo renda più facile immaginare una legge. Nel passato non si era mai riusciti a farla».
Oggi (ieri per chi legge, ndr) è stata contestata proprio sull’accordo: le hanno detto che non si potrà più scioperare. I lavoratori non potranno più« scioperare contro un contratto che non condividono?
«La critica è un diritto ma non si deve mai falsificare la realtà. L’intesa vincola chi l’ha sottoscritta e dice una cosa scontata: un accordo firmato si applica e si rispetta».
Fine degli accordi separati. Siete a un passo dall’unità sindacale con Cisl e Uil?
«Aver definito le regole ne è la premessa. Abbiamo fatto un accordo non per contarci ma per contare perché l’unità rende tutto il sindacato più forte. Lo dice la Costituzione che i sindacati rappresentato “unitariamente” i lavoratori. Questa è la strada».
Tra quanto l’unità?
«L’esperienza degli ultimi anni suggerisce a tutti una stagione di unità. Non a caso il 22 giugno dopo molti anni Cgil, Cisl e Uil manifesteranno insieme per chiedere lavoro e un cambiamento nelle politiche economiche».

«l’estendersi delle forme degenerative nella salute mentale dei minori»
Repubblica 3.6.13
Welfare, un primato e il suo contrario
di Mario Pirani


Fra i lettori di questa rubrica vi è una aliquota che vorrebbe una maggior presenza di temi politici a scapito degli argomenti sanitari, scolastici, culturali in genere. Una volta ancora li invito a riflettere quanto l’agire sociale sia interconnesso con i tempi e le finalità della politica. E come le lentezze di quest’ultima si riflettano sulla vita quotidiana delle persone.
Ripropongo per questo il problema già sollevato su queste colonne, e cioè l’estendersi delle forme degenerative nella salute mentale dei minori (in Italia sono oltre 800mila le famiglie con un figlio tra 0 e 18 anni che deve essere seguito). Ebbene un anno fa una rappresentanza di senatori di tutti i gruppi presentò una proposta di legge sulla salute mentale con alcune clausole per superare i ritardi e le pastoie burocratiche che avevano insabbiato i precedenti tentativi. Il tempo è passato ma nulla si è mosso. Ora un gruppo di sanitari, fra cui spicca per impegno il prof. Gabriel Levi, primario del centro di psichiatria infantile di via dei Sabelli a Roma, è tornato a riproporre la gravità crescente della situazione e l’urgenza di una legge regionale sulla salute mentale che coinvolga la nuova amministrazione del Lazio, il cui presidente Nicola Zingaretti ha esaminato con particolare interesse le linee di intervento.
La mancanza di un piano organico provoca anche nelle situazioni più esemplari gravi disorganizzazioni. Prendiamo il caso degli insegnanti di sostegno che in Italia superano i 100mila per 200mila bimbi con disabilità: un dato di eccellenza assoluta nel mondo. Solo che questa rete per funzionare al meglio ha necessità di una struttura di assistenti comunali e provinciali addetti ad assicurare la cura fisicopsichica dei disabili (dal trasporto al controllo degli sfinteri, dalla mediazione linguistica ad altre patologie specifiche). Ebbene questo corpo di indispensabili addetti alla persona diminuisce di giorno in giorno, molti comuni ne sono totalmente carenti e in mancanza di supporto i disabili sono costretti a ridurre l’orario o a ricorrere a un aiuto privato se la tasca dei genitori lo consente. Il ministero, privo di fondi, suggerisce alle scuole vicine tra loro di superare la burocrazia e di organizzare delle turnazioni comuni con il personale residuo.
Certo è che i tagli degli stanziamenti si fanno sentire con effetti gravi, sia con differenziazioni di reddito sempre più ingiuste (si stanno, infatti, moltiplicando anche in questo settore le strutture private ad alto costo) sia con l’impossibilità per la famiglie impoverite di far fronte anche a modesti ticket pubblici. Ad esempio allo storico Istituto romano di via Sabelli, a cui abbiamo già accennato, accedono ogni anno per una prima visita 2500 tra bambini e adolescenti, il 10% dei nuovi casi nel Lazio. Negli ultimi anni per abbreviare le liste di attesa l’Istituto ha organizzato un pacchetto di 3/4 approfondimenti clinici mirati, rapidi ed efficienti, per le prime consultazioni, con un ticket globale contenuto tra gli 80 e i 100 euro. La domanda è più vasta ma scoraggiata dalla spesa, quando arriva allo sportello un genitore su tre lascia capire che risente di un problema di spesa. Qualcuno paga con un sorriso amaro, qualcuno chiede un pagamento rateizzato, dilazionando le prestazioni. Qualcuno se ne va. Qualcuno borbotta: «Vergognatevi!» anche se il problema del ticket risale al Ssn e alla Regione. Eppure per certe cose basterebbe poco. Per le liste di attesa che arrivano a due anni, un neuropsichiatra infantile e uno psicologo dell’età evolutiva in più basterebbero per dimezzarle.
Non annoiatevi per queste letture rapide. Vi daranno una idea su cosa significa la devastazione del Welfare che nessuno difende più. Per questo è importante il Convegno regionale sulla salute mentale in età evolutiva sulla cui riuscita anche il nuovo governatore, Nicola Zingaretti e il sottosegretario Marco Rossi Doria, titolare delle deleghe governative in merito si giocano una delle prime uscite pubbliche.

Repubblica 3.6.13
3 giugno 2013
Comunali Roma - Videoforum con Ignazio Marino

Quasi 13 punti di vantaggio sullo sfidante Gianni Alemanno. Il chirurgo esperto di trapianti, senatore dimissionario del Pd, parte dal 42.6 per cento di consensi raccolti al primo turno delle amministrative per cercare di arrivare in Campidoglio. Oggi risponde alle vostre domande dalle 14.45
qui

l’Unità 3.6.13
Turchia. La sfida di piazza Taksim
Amnesty international denuncia due morti ma non ci sono conferme ufficiali
Nuove manifestazioni ad Ankara, sulla spinta dei social network
Il premier: «Raccontano bugie»
di Umberto De Giovannangeli


La «Primavera turca» potrebbe avere già i suoi primi martiri. Amnesty denuncia la morte di due manifestanti e un migliaio di feriti: sarebbe questo il bilancio degli scontri scoppiati a Istanbul e in altre città turche durante le proteste contro il governo, anche se non ci sono state finora conferme ufficiali. L’organizzazione per i diritti umani ha reso noto di aver messo a disposizione una ventina di medici nella propria sede di Istanbul, che si trova poco distante da piazza Taksim, per curare i feriti negli scontri. Anche per Human Rights Watch le cifre sono molto più alte di quelle indicate dalle autorità che parlando solo di 53 cittadini e 26 poliziotti feriti in tutto il Paese. Il direttore di Amnesty per l’Europa, John Dalhuisen, ha osservato che gli eccessi della polizia in Turchia sono ormai un’abitudine ma ha aggiunto che «la repressione della protesta pacifica di piazza Taksim è stata veramente vergognosa». La polizia ha riferito del fermo di 939 manifestanti, molti dei quali poi rilasciati, mentre sono state 90 le iniziative di protesta organizzate in 48 città turche.
ATATURK COME SIMBOLO
Il movimento di rivolta, partito lunedì scorso da una protesta contro lo smantellamento del parco di Gezi, nel cuore di Istanbul, per far posto ad un centro commerciale e a una moschea, si è esteso a tutto il Paese. Migliaia di persone hanno manifestato sabato notte ad Ankara, a migliaia sono scesi in strada per contestare il governo del premier islamico, Recep Tayyip Erdogan. Lungo la centrale arteria commerciale di Tunali nella capitale turca una folla variopinta, molti con la bandiera turca rossa con la mezza luna bianca o con stendardi rossi con le sigle del fondatore della Turchia moderna e laica, Moustafah Kemal Ataturk, sulle spalle, ha sfilato cantando «Tayyp vattene».
Moltissimi tenevano in mano bottiglie di birra, simbolo della resistenza contro il partito islamico Akp del capo del governo, che la settimana scorsa ha imposto un duro giro di vite sul consumo di bevande alcoliche. Su un marciapiede di Tunali i manifestanti hanno depositato una dietro l’altra una cinquantina di bottiglie, alcune decorate con lumini accesi. Lungo la via diverse le coppie che, a mo' di contestazione delle autorità islamiche, si sono baciate sulla bocca. La settimana scorsa la polizia di Ankara aveva tentato di impedire una «protesta del bacio» in una stazione del centro della capitale, convocata dopo che le autorità locali avevano invitato i passeggeri della metropolitana ad un «comportamento morale». Le telecamere a circuito chiuso avevano infatti ripreso alcuni giovani che si erano baciati.
Ma il centro della protesta resta la «Piazza Tahrir» di Istanbul: Piazza Taksim. Dopo due giorni di scontri, è calma tesa. Nel primo pomeriggio, migliaia di oppositori del premier Erdogan hanno rioccupato la piazza teatro l’altro ieri di violenti scontri con la polizia. Un fiume di manifestanti, autoconvocatisi sulle reti sociali, molti con bandiere turche e ritratti di Ataturk, è confluito verso la celebre piazza nel cuore della Istanbul europea.
Intanto, dai siti arriva una valanga di denunce della estrema brutalità l’altro ieri della polizia turca, che ha coperto i manifestanti di gas lacrimogeni e pallottole di gomma sparati ad altezza d’uomo. Sui social network circolano migliaia di video e foto di feriti gravi, di scene di caccia all’uomo e di grande brutalità da parte delle forze dell’ordine. C’è anche quello che mostra un manifestante travolta prima dal getto di un idrante e poi da un blindato, a sua volta circondato dai manifestanti subito dopo. Quattro manifestanti, colpiti agli occhi hanno perso la vista.
Chi siano i protagonisti di «Occupy Taksim», lo racconta uno dei più noti giornalisti turchi, Alì Isingor: «Tra di loro ci sono giovani arrabbiati, studenti, intellettuali, tifosi del Besiktas, la squadra di calcio del quartiere, e persino ragazze con il velo...».
Una moschea sarà costruita in piazza Taksim e il governo non chiederà il permesso all’opposizione o ai dimostranti. Lo ha ribadito Erdogan, che ieri ha attaccato la comunicazione on line: «Il cosiddetto Twitter è una minaccia, che finora ha causato problemi perchè è pieno di menzogne», ha detto. «Non chiederò il permesso (dell’opposizione, ndr) o di una manciata di teppisti», ha avvertito il premier. «Se chiamano dittatore chi ha servito il popolo, non hanno capito niente. Sono il servo del popolo». Ai manifestanti si è rivolto, via twitter, anche il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, chiedendo loro di porre fine alle proteste. La preoccupazione di Davutoglu non è la fondatezza o meno delle richieste ma il danno di immagine alla Turchia: «La prosecuzione di queste proteste non porterà alcun beneficio ma anzi danneggerà la reputazione del nostro Paese che è ammirato nella regione e nel mondo».
La tensione resta alta. La Farnesina mette in guardia «i connazionali a prestare la massima prudenza, evitando di recarsi in zone soggette a manifestazione» in particolare a Istanbul e Ankara.

Corriere 3.6.13
«Una rivolta contro l'islamizzazione strisciante»
«La crescita economica è illusoria senza le istituzioni democratiche»
di Mo. Ri. Sar.


«Ci sono mille ragioni per cui finora non abbiamo voluto la Turchia nell'Europa, però chiediamoci veramente come sarebbe l'Unione Europea se avesse vicino un Paese che assomiglia all'Iran». Francesco Giavazzi, professore di Economia alla Bocconi ed editorialista del Corriere, è arrivato a Istanbul sabato scorso nel mezzo della protesta contro il governo Erdogan: si è recato in piazza Taksim, ha parlato con la gente che manifestava ed è rimasto impressionato dall'atmosfera che si respira nel Paese. «Di sicuro — dice al telefono — quello che sta succedendo non ha nulla a che fare con il parco Gezi e con gli alberi. Qui se uno si guarda in giro vede tante donne, anche anziane, che ce l'hanno con il primo ministro per il suo tentativo di far diventare la Turchia uno Stato islamico».
L'impressione è che Erdogan stia diventando proprio come Putin, un autocrate insofferente: «La gente di questo se ne accorge. Ho visto ragazzi che vanno in giro con le lattine di birra per sfidare il divieto sull'alcol e ragazze che mostrano il capo scoperto in segno di sfida. Ma come? La Costituzione voluta da Atatürk vietava il velo in ufficio e ora diventa quasi un obbligo? Molte donne mi hanno detto che a scuola costringono le bambine a indossarlo».
Anche negli ambienti universitari c'è molta preoccupazione per il futuro. Giavazzi in questi giorni terrà delle lezioni di politica fiscale alla Koç University: «Mi hanno detto — racconta — che Erdogan preme per diventare il nuovo sultano del Medio Oriente, che insiste con gli americani perché entrino in Siria. Il problema è che quando un Paese cresce economicamente la gente è pronta a chiudere gli occhi su molte cose ma le ultime decisioni hanno un po' passato il limite».
Secondo i sondaggi Erdogan ha ancora fra il 40% e il 50% delle intenzioni di voto. Ma il suo elettorato non è monolitico. Ci sono i religiosi, le grandi masse dell'Anatolia cui il governo islamico ha ridato orgoglio e parola, ma c'è anche una fetta di elettori che lo vota perché dal 2002 ha dato stabilità al Paese, triplicato il reddito pro capite, fatto della Turchia la 17esima economia mondiale. «Queste persone — dice Giavazzi — non sono pronte a rinunciare alla laicità per una Repubblica islamica. È interessante vedere che cosa accade all'élite perché finora ha accettato di avere un Paese un po' più musulmano in cambio di buoni affari ma oggi non ci sta più e manda le figlie a studiare all'estero per non far mettere loro il velo».
Anche la crescita potrebbe essere illusoria. «Stanno costruendo dappertutto forsennatamente ma la Storia ci dice — è l'analisi del professore — che questi grandi boom immobiliari poi finiscono male se dietro non ci sono istituzioni che funzionano. È un po' quello che accade in Cina con la differenza che qui la democrazia c'è ma sempre di meno. Oggi il numero di giornalisti in prigione nel Paese è secondo solo alla Russia».
Le colpe di quanto sta accadendo sono anche dell'Europa. «Sicuramente la decisione di Bruxelles di non lasciar entrare Ankara nell'Unione o di rallentarne il processo di adesione ha messo la Turchia sulla strada dell'Islam radicale. Un ragazzo mi ha detto: se diventiamo come l'Iran sarete voi i responsabili, se ci aveste lasciato entrare nella Ue oggi saremmo un altro Paese».

Repubblica 3.6.13
In piazza con i “giovani turchi” che lottano contro divieti e censure
“Basta con la religione al potere”
di Marco Ansaldo


ISTANBUL IL DETTO del massimo poeta turco, inviso al potere e morto lontano dalla patria, si legge chiaro sui cartelli innalzati a Piazza Taksim, simbolo della rivolta turca.
E si adatta bene qui, davanti al Gezi Park, dove i 600 alberi da sacrificare per far posto a un grande centro commerciale, appaiono per ora al sicuro nonostante abbiano costituito la miccia di una colossale protesta laica che infiamma Istanbul e tutto il Paese contro gli islamici al governo.
«Tayyip, noi siamo qui. Tu dove sei?», scandiscono a migliaia al ritmo di un tamburo che attraversa lo slargo dove si erge il monumento ad Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, scolpito dall’italiano Pietro Canonica. Tayyip Erdogan, il primo ministro che ha alzato le tasse su tabacco e alcolici, che vuole vietare i baci in pubblico e le gambe delle modelle nelle pubblicità, accusato piuttosto di pensare troppo agli affari e a progetti faraonici, è da sette giorni e sette notti il bersaglio della piazza.
«Dimettiti, fascista!». «Vattene in Arabia Saudita». «Basta con la religione al potere». Parole come sassi, scritte di fuoco sui muri, mentre la polizia da un giorno ha infine lasciato il campo a una folla che impugna, come finora visto solo a Smirne, il centro più laico del Paese, la bandiera nazionale con impressa l’immagine simbolo di Ataturk.
E’ una massa adesso padrona della piazza. Con una protesta che si esprime in mille forme. Sono arrivati qui anche dalla parte anatolica, battendo i cucchiai contro le pentole, appendendo asciugamani bianchi alle finestre, accendendo e spegnendo la luce di notte nelle case in segno di perenne vigilanza.
«Il governo — dice Deniz, un giovane che indossa una maglietta senza maniche — fa pressioni su tutto: non fate due figli, ma fatene tre. Non baciatevi nelle stazioni della metropolitana. Non fumate. Non bevete. Ma io sono un figlio di Ataturk, accidenti, e mi oppongo». Spiega Ayshe, una donna sulla trentina: «Questa è la Turchia, è il mio Paese, dobbiamo difenderlo da chi vuole distruggerlo con divieti assurdi e con costruzioni che alterano l’immagine di Istanbul. Ora basta. La nostra è la “Primavera turca”». «A Erdogan è partito il cervello — aggiunge un altro dimostrante che tiene in mano una birra — dopo il terzo mandato ricevuto alle elezioni pensa essere il padrone della Turchia. Per lui la critica non esiste. Adesso è evidente a tutti che ha in mente una “agenda islamica”».
Non è facile arrivare fino a Taksim, fulcro di un Istanbul solitamente preda di un traffico ben superiore a quello di Roma. L’accesso è solo a piedi. Le vie in salita, dove spesso arrancano autobus colmi di turisti, sono ora sbarrati da barricate composte da mattoni divelti dai marciapiedi. Oppure da blindati della polizia, rivoltati, vuoti, come cadaveri gettati in mezzo alla strada. Vetri dappertutto, pezzi di cemento rimossi. E’ un’atmosfera da battaglia, mentre ristagna l’odore acre dei gas lacrimogeni, e le aiuole sono colme dei limoni a spicchi con cui i manifestanti hanno tentato di proteggersi il respiro.
A Piazza Taksim aleggia adesso un profumo di vittoria. E’ la piazza simbolo della sinistra repubblicana. Qui si sono tenute le rivolte del 1 maggio. Qui gli istanbulioti hanno dimostrato tutta la solidarietà ai concittadini ospitandoli e riscaldandoli nelle notti passate all’addiaccio nel terremoto del 1999. In una mattina di domenica in cui gli scontri sembrano essersi presi un giorno di tregua, decine di ragazzi si sono armati di scope, palette e sacchi, ripulendo gli angoli dai pezzi di vetro, dai proiettili di gomma, dai candelotti lacrimogeni esplosi, insieme a montagne di rifiuti lasciati da una settimana di occupazione.
La rivolta si è invece trasferita di giorno ad Ankara, dove un assembramento è stato disperso da una carica della polizia che ha fatto uso di lacrimogeni e idranti: almeno 8 i feriti. E poi a Smirne, considerata dagli integralisti “gavur”, l’infedele, dove cortei di auto hanno marciato per il centro suonando i clacson ed esponendo la bandiera nazionale. In 7 giorni, più di 1.700 le persone arrestate. «La maggior parte — ha riferito il ministro dell’Interno, Muammer Guler, che ha infine obbedito all’ordine del capo dello Stato, Abdullah Gul, di far ritirare la polizia — sono state rilasciate». Due persone sono state uccise, sostengono i dimostranti. Ma è una notizia che non trova conferma a livello ufficiale, e anche Amnesty International riferisce unicamente di «cinque persone in pericolo di vita per ferite alla testa».
Prima di sera è Erdogan a farsi vivo in tv con un discorso. «Dicono che Tayyip Erdogan è un dittatore — esordisce, riferendosi a sé stesso —. Se vogliono chiamare dittatore uno che serve il popolo, mi mancano le parole». Poi, in tono di sfida, contro i socialdemocratici, suoi avversari in Parlamento: «Il principale partito di opposizione è la causa di queste proteste, che hanno una motivazione ideologica e non riguarda invece lo sradicamento di una dozzina di alberi. Naturalmente, non chiederò a loro né ai saccheggiatori il permesso per andare avanti. In realtà, sono incapaci di sconfiggere il governo alle urne». In ultimo, dopo aver accusato Twitter e i social network di fomentare la rivolta, l’attacco ai dimostranti ma con una sostanziale marcia indietro sul progetto che ha scatenato la rivolta: «Bruciano, danneggiano negozi, è questa la democrazia? Il problema sono gli alberi? Qui nessuno vuole tagliare gli alberi. Non c’è nessuna decisione finale sulla costruzione di un centro commerciale. Forse ci sarà un museo cittadino».
Eppure, il “cahier de doleances” dei laici nei confronti del premier, nonostante le 3 indiscutibili vittorie alle elezioni nei 10 anni in cui è al potere, è lungo: il velo ammesso nei luoghi pubblici e negli uffici statali, le scuole coraniche pure per i bambini, le tv controllate e i media sotto scacco, i procedimenti a intellettuali e giornalisti critici. Il giro di vite sull’alcol è solo l’ultima goccia. Assieme agli imbarazzi e agli attentati subiti per la vicina crisi siriana. Gli alberi di Gezi Park, la miccia finale.
E’ ormai buio quando da Piazza Taksim la battaglia si trasferisce al porto di Besiktas, nei
pressi dei grandi alberghi per i turisti. Dove l’altro ieri, in un’inedita riunione, i tifosi delle 3 squadre di Istanbul, Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas, si sono ritrovati vestiti delle magliette dei propri club, mischiandosi fra loro e intonando cori contro il leader: «Tayyip, dimissioni! Viva la Turchia laica». Ma questa è un’altra notte di battaglia. Spari, urla, ancora lacrimogeni, ancora rulli di tamburi. Elicotteri della polizia si alzano in volo. Creata dai gas, una nuvola nera staziona sopra il Bosforo. I dimostranti si disperdono, mentre scatta la caccia all’abitazione di Erdogan, presidiata dalla polizia.

Repubblica 3.6.13
La Primavera di Istanbul
Addio al “modello turco” la Primavera di Istanbul mette in crisi il mondo arabo
di Gilles Kepel


LE MANIFESTAZIONI a Istanbul, Smirne e Ankara sono il primo esempio di una massiccia disobbedienza civile nei confronti del potere di Erdogan.
E ANCHE nei confronti del partito islamico Akp che dirige il Paese da più di dieci anni. Queste manifestazioni che potrebbero rappresentare l’inizio di una “primavera turca” costringono il premier a ridisegnare l’immagine e il ruolo della Turchia, tenendo conto delle sue pretese di servire come esempio “islamo-capitalista” a quei Fratelli musulmani che hanno conquistato il potere in Egitto e Tunisia.
Paradossalmente, però, se per quei regimi arabi nati con le recenti rivoluzioni la Turchia è diventata il modello di sviluppo economico da imitare, le rivolte di Istanbul, Smirne e Ankara evocano le manifestazioni del Cairo contro l'autoritarismo del presidente Morsi o quelle di Tunisi dopo l’assassinio dell'avvocato laico Chokri Belaid da parte di un gruppo islamico radicale. La prosperità turca si è infatti scontrata a diversi ostacoli interni e regionali, che hanno rotto gli equilibri di quella “democrazia islamica” che predicava Erdogan, spingendo il Paese verso una deriva dittatoriale e un coinvolgimento sempre più rischioso nella guerra in Siria.
Sul piano interno, ad allontanare le classi medi democratiche che avevano votato l’Akp, e a farle scendere nelle piazze, sono state sia le leggi recentemente annunciate per limitare severamente la vendita di alcol, sia la volontà di Erdogan di presentarsi nel 2014 alle elezioni presidenziali (e, una volta eletto, trasformare la costituzione in modo da gestire da solo tutto il potere). Ora, il successo dell’Akp fu provocato dal rifiuto del popolo turco dell’onnipotenza dei militari, i quali dagli inizi della repubblica, e con un guanto di ferro, avevano controllato ciò che i turchi stessi chiamano “lo Stato profondo”.
A queste ragioni interne di scontento e di timore si sono aggiunti gli interrogativi sui rischi che fa correre alla Turchia un suo coinvolgimento sempre più importante nel conflitto civile che sta dilaniando la Siria e che ormai sconfina un po’ ovunque dal suo territorio.
Basterebbe citare il fatto che le forze del presidente Bashar al Assad hanno effettuato più volte dei provocatori bombardamenti sul territorio turco e che l’esercito di Ankara, fino a pochi anni fa sovraequipaggiato dalla Nato, è sempre stato colto di sorpresa, fino allo schieramento sul suo confine di una batteria di missili Patriot. L a situazione è tanto più preoccupante che oggi gran parte dei generali dello Stato maggiore turco è in prigione, dove l’ha rinchiuso l’Akp per il ruolo svolto dai militari nello “Stato profondo”.
La Turchia si trova confrontata a una crisi che potremmo definire di “crescita” e bisognerà vedere se riuscirà o meno a far coincidere le sue ambizioni con le realtà economiche, sociali e politiche del momento. E soprattutto se potrà mantenere la sua compattezza interna e il suo ruolo di Paese dominante tra Paesi vicini, in un ambiente regionale profondamente minacciato dal potenziale di destabilizzazione della crisi siriana.
Detto ciò la Turchia è uno degli elementi chiave dell’improbabile alleanza che sostiene la rivoluzione siriana e che è composta da attori diversissimi tra loro. Tra questi si contano infatti le petro-monarchie del Golfo (all’interno delle quali c’è l’enorme conflitto tra Qatar e Arabia Saudita per il dominio del mondo arabo), le democrazie occidentali ma anche Israele. A loro si oppone il fronte dell’alleanza pro-Assad, nel quale si tengono per mano la Russia, l’Iran, parte dell’Iraq e l’Hezbollah libanese. In questo complicato scenario geopolitico, la Turchia potrebbe interpretare il ruolo del gendarme con l’intento di garantire alla regione una pax turca. Sempre che piazza Taksim non si trasformi in piazza Tahrir.

Repubblica 3.6.13
“Così ho scattato la foto-simbolo della rivolta”
di M. Ans.


ISTANBUL — «Quando ho visto la ragazza con la giacca rossa che si rivolgeva alla polizia, e gli agenti che aprivano gli idranti per colpirla, ho subito tirato fuori la macchina fotografica e ho scattato. Dopo sono andata dai miei colleghi e ho detto loro: guardate un po’ questa foto».
Sinem Babul ha 26 anni, ed è una fotoreporter freelance che collabora al quotidiano online T24, dove T sta per Tempo. L’altro giorno, nel pieno della protesta, Sinem ha capito che quell’immagine, scattata da queste finestre, era diversa dalle altre. Perfetta nella sua rappresentazione, l’icona della rivolta.
Che cosa ha fatto dopo il clic?
«Sono scesa a cercare questa ragazza. L’ho ammirata. Sui vent’anni, impavida, coraggiosa, ferma a prendersi il getto degli idranti. Niente: volatilizzata. Non sappiamo se l’abbia presa la polizia oppure sia semplicemente sparita».
Che cosa aveva visto prima di questa scena?
«In quegli attimi la protesta era allo stato iniziale, pacifica. Ho notato questa giovane staccarsi e camminare da sola verso la polizia. Si è messa a parlare con gli agenti, che avevano caschi e scudi. Diceva: “Non state lì. Smettete. Venite a sedervi con noi, parliamo, e capirete i motivi per cui ci battiamo”».
La risposta?
«Un violento getto d’acqua in faccia. La prima volta la ragazza è caduta. Era completamente bagnata. Alcuni dimostranti l’hanno portata in un bar vicino, le hanno fatto prendere qualcosa. Poi lei è tornata davanti agli agenti. Stessa scena. Ma questa volta è rimasta in piedi, senza cadere, come una statua. Dopo lo scatto, mi sono precipitata giù. Ma hanno iniziato a sparare i gas lacrimogeni. L’ho persa di vista. Non so nemmeno come si chiama».

La Stampa 3.6.13
Verso le presidenziali del 14 giugno
L’Iran va alle urne per consolidare il potere di Khamenei
Candidati eliminati, in lizza solo gli uomini graditi all’Ayatollah
di Roberto Toscano

qui

Repubblica 3.6.13
Le donne dimenticate dai media che hanno fatto le rivoluzioni arabe
Un libro di una giornalista e di una antropologa racconta quello che non abbiamo visto e sentito nella Primavera dei Paesi arabi: il ruolo delle donne. Dando voce a storie singole e collettive

di Alessio Sgherza
qui

Repubblica 3.6.13
I nuovi atei
Quei filosofi senza fede non arrabbiati con dio
Dopo l’antireligione, si fa strada un pensiero laico aperto al dialogo
di Giancarlo Bosetti


Il picco del successo editoriale i «missionari» dell’ateismo lo hanno raggiunto nel decennio passato, tra il 2004 e il 2007, quando uscirono l’uno vicino all’altro La fine della fede di Sam Harris, il Trattato di ateologia di Michel Onfray, La delusione di Dio di Richard Dawkins, Rompere l’incantesimodi Daniel Dennett e Dio non è grande di Christopher Hitchens. A conclusione del ciclo, nel 2009, la campagna pubblicitaria di Dawkins arrivò sugli autobus annunciando che «probabilmente Dio non c’è, adesso smettila di preoccuparti e goditi la vita». Il biologo inglese suggeriva contemporaneamente di sostituire negli alberghi di tutto il mondo la Bibbia con La fine della fede.
Ma la cosa non si fece.
Ora questa fase sembra passata e l’aggressione antireligiosa lascia il passo a riflessioni più moderate. Parlo di «aggressione» perché la linea di attacco dello scienziato del gene egoista è esplicita: il suo bersaglio sono proprio gli agnostici o anche gli atei tiepidi, che manifestano un senso di rispetto per le credenze religiose «degli altri». È quel rispetto che, per Dawkins, va contestato sul piano del discorso, non attaccando certo la libertà religiosa, ma negandone la dignità intellettuale. Sul settimanale inglese Spectator, il teologo Theo Hobson ora tira le somme del decennio e può scrivere che «Dawkins ha perso»; la fase più acuta della febbre «dawkinsiana» è passata, per lasciare il posto, anche tra gli atei, a una nuova interessante conversazione.
L’onda lunga della predicazione antireligiosa era cominciata indubbiamente l’11 settembre del 2001: un attacco terroristico di quelle dimensioni, condotto nel nome del Dio dell’Islam, provocava una catena di reazioni all’insegna della frustrazione dei laici che avevano scommesso sulla liquidazione delle tradizioni di fede. Con l’attacco a Twin Towers fu subito annusato il «cattivo odore» (Nietzsche) della religione: Harris dichiarò di aver cominciato a scrivere il suo pamphlet quel giorno stesso. Ma ora una serie di editorialisti inglesi, sempre atei, non accetta l’eredità del «duro» Dawkins, è imbarazzata dall’idea, arrogante, di definire bright (brillante, sveglia, intelligente) la propria posizione contro l’«idiozia» della fede, rifiuta insomma l’attacco generalizzato.
Lo scatenato polemista Hitchens, scomparso un anno e mezzo fa, non aveva alcuna difficoltà a dichiararsi, come Dawkins, furiosamente ostile alla religione non solo perché falsa e non solo contro il male commesso in suo nome, ma perché essa è un male in sé: la religione uccide, danneggia la salute, avvelena ogni cosa, addestra alla malvagità e abusa dei minori. E così, secondo lui, tutte le religioni, compresi i buddisti, il Dalai Lama e Madre Teresa di Calcutta, in particolare, contro la quale promosse una campagna denigratoria, accusandola di amare e sfruttare la povertà degli altri. Dawkins, con piglio più analitico, si scaglia contro tutti tentativi di provare o sostenere l’esistenza di Dio da Sant’Anselmo a Pascal fino ai simposi contemporanei della Fondazione Templeton sulla compatibilità tra scienza e fede. E si addentra fin nel calcolo sperimentale dei rapporti tra le preghiere per gli ammalati e le percentuali di guarigione, dimostrando «scientificamente» quel che, per altro, si sospettava: che la preghiera non funziona come un antibiotico.
Dawkins non prende seriamente in considerazione l’idea che, invece, si affaccia in una pubblicistica filosofica più recente in forma popolare con Julian Baggini (la rivista Prospect) e Alain de Botton (Del buon uso della religione, 2012), secondo i quali i tentativi di dimostrare la non esistenza di Dio sono un gratificante intrattenimento per atei, ma ancora più interessante è, una volta deciso che Dio non esiste, spostare l’argomento e cercare di riconoscere le buone ragioni per cui abbiamo inventato la religione. Con la religione la nostra specie ha affrontato problemi che la società secolare non è stata capace di risolvere con particolare abilità: elaborare il dolore che nasce dalla nostra vulnerabilità, dalla morte dei nostri congiunti, alimentare la coesione delle comunità, controllare gli impulsi egoisti. Guardando a come la religione funziona, nel definire spazi architettonici per la spiritualità, nell’ispirare arte, gentilezza, metodi per imparare, per concentrarsi, cerimonie e riti che aiutano la vita delle comunità, potremmo ricavarne anche qualche insegnamento.
In questi ultimi anni una serie di interventi sulle riviste americane e inglesi (Ian Buruma, Zoe Williams, Tanya Gold) ha ridicolizzato l’idea che le religioni in se stesse siano responsabili di iniquità verso le donne o di maltrattamenti per gli omosessuali. La pretesa avanzata dalla scrittrice somala Ayaan Hirsi Ali che solo diventando atee le donne musulmane possano scrollarsi di dosso la sottomissione al tutoraggio maschile è stata criticata a fondo dalla iraniana Shirin Ebadi: più forte e concreta la ribellione femminile dall’interno della propria cultura musulmana, contro l’eredità di una tradizione sociale oppressiva. Certo il tema di tutte le tradizioni religiose del Medio Oriente (ebraismo, cristianesimo, Islam e altre ancora) che si sono definite attraverso il disprezzo per il corpo della donna (Polly Toynbee) rimane aperto, ma è una sfida capace di modificarle: si sconsigliano progetti di ateizzazione forzata in stile giacobino o bolscevico.
Ai nostri giorni la atea British Humanist Association promuove non gare verbali sulla esistenza di Dio, ma la sua offerta educativa e riti e servizi (matrimoni, funerali, «battesimi») in competizione con quelli religiosi e con officianti non credenti. Il cambiamento di stagione, che la stampa inglese registra, ha alle spalle non solo questi aspetti di cultura diffusa, ma anche lavoro filosofico e pensiero politico. È stato John Gray, il più noto allievo di Isaiah Berlin, a definire «atei evangelici» gli adepti di Dawkins, attribuendo così una impronta missionaria e paradossalmente «religiosa» alla loro predicazione della miscredenza, dietro la quale ricompare l’aspetto monista dell’Illuminismo: una sola è la risposta giusta a tutte le domande della storia del pensiero umano. Quella forma di ateismo, in realtà, in una prospettiva pluralista e berliniana, finirà forse accademicamente per trovar posto nei Dipartimenti di studi religiosi, come una setta contemporanea, non meno di quella dell’intelligent design.
Del resto, sullo sfondo degli ultimi dieci anni, a partire dal dialogo tra Jürgen Habermas e Ratzinger nel 2004, la riflessione «post-secolare» si è affermata largamente in Europa, suggerendo un atteggiamento più prudente, da parte laica, nei confronti delle fedi, possibili depositarie di una «riserva semantica», e cioè di risorse di senso che potrebbero tornare utili a una società liberale che ne scarseggia. Così come pensiamo giusto tutelare la varietà delle lingue, anche la varietà delle religioni contiene una valore di pluralità da difendere: è un principio di precauzione per la tutela della specie.
Se poi cerchiamo le cause di questo calo della popolarità dell’ateismo missionario, troveremo forse qualche risposta nel cambiamento generale di spirito, sotto i colpi del crash economico del 2008. La più grande ricerca mai fatta sul piano globale circa l’ateismo nel mondo è quella di Ronald Inglehart (Human Values and Beliefs) e mostra una correlazione significativa tra ateismo e sicurezza sociale: a parte i regimi laici autoritari, le percentuali di non credenti sono più alte dove più forte è lo stato sociale, più basse dove è più debole. I tempi di crisi e incertezza sul futuro non si addicono dunque ai brights.

Repubblica 3.6.13
Da Breton a Ernst, artisti degenerati in fuga dal nazismo
di Giuseppe Dierna


Nell’estate del 1940 Marsiglia è un gigantesco centro raccolta profughi, una stazione di transito per transfughi ad alto grado di genialità. I tedeschi hanno occupato più di metà della Francia, lasciando libero solo il Sud del Paese in mano al governo di Vichy, e in città affluiscono pittori, scrittori, intellettuali in fuga dalla Germania, tutti in attesa di un documento per raggiungere Lisbona, da dove prendere il volo. Ma un solo documento non basta, ne servono cinque: un passaporto, il visto di un paese ospitante, un visto d’uscita, uno portoghese e uno spagnolo di transito. E tutti validi assieme.
A metà agosto arriva a Marsiglia Varian Fry, giovanottone americano con occhiali tondi e modi eleganti. Deve aiutare intellettuali e artisti a fuggire dalla Francia. Per farlo dovrà barcamenarsi con una burocrazia proteiforme, francese come americana, dalla spiccata tendenza a mutare le regole in corso d’opera e mettergli i bastoni tra le ruote. Fino alle pressioni congiunte del Consolato americano e della Prefettura per espellerlo l’estate successiva. Tornato negli Usa, Fry narrerà le sue vicende in un accorato volumetto dal ritmo incalzante: Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941.
Nei suoi uffici sfilerà il meglio della cultura europea: il poeta Walter Mehring, lo scrittore Lion Feuchtwanger, Konrad Heiden, autore di una feroce biografia di Hitler. Oppure sarà lui stesso ad andarseli a cercare nei loro nascondigli, per suggerire rocambolesche vie di fuga, magari concordate con l’esule Emilio Lussu. Come avverrà con Franz Werfel e la moglie Alma, a cui si uniranno Heinrich Mann e Golo, figlio di Thomas Mann. Sarà lo stesso Fry a scortarli, ma la mancanza di visti d’uscita impedisce al gruppo l’espatrio in treno: attraverseranno i Pirenei a piedi (Heinrich ha settant’anni, Werfel qualche chilo di troppo), mentre Fry porterà con sé in treno i diciassette colli dell’inverosimile bagaglio (nella valigia di Alma anche gli spartiti di Mahler). Si rivedono al di là del confine spagnolo, a Portbou, dove due settimane più tardi si sarebbe suicidato Walter Benjamin, bloccato anche lui in frontiera senza visto d’uscita. Preoccupato di dare troppo nell’occhio a Marsiglia, Fry decide di trasferirsi a Villa Air-Bel, un passo fuori città: specchi macchiati e rubinetti a forma di cigno. E qui la storia diventa leggenda, ben ricostruita da Rosemary Sullivan in un avvincente volume uscito alcuni anni fa (Villa Air-Bel, Edizioni dell’Altana). Come in un poliziesco vecchia maniera, nelle diciotto stanze della villa, di proprietà di un inquietante collezionista di sbiaditi uccelli impagliati che si mangiava la carne dei volatili che impagliava, s’incroceranno destini spaiati: un rivoluzionario di professione come Victor Serge, reduce dalle galere sovietiche e un rivoluzionario della parola come André Breton, lì con l’affascinante Jacqueline («bella e selvaggia, con pezzetti di specchi tra i capelli») e la figlia Aube. E poi Miriam Davenport, anima del Comitato di Soccorso, Danny Bénédite (ex impiegato alla Prefettura di Parigi e gran mistificatore nel ramo documenti d’identità), la contessa Consuelo de Saint-Exupéry in attesa di riunirsi al marito, un giovane medico rumeno e la miliardaria americana Mary Jayne Gold, generosa sostenitrice dell’impresa Fry. Per non parlare poi dei comprimari.
Incuranti delle restrizioni, Breton e Serge lavorano imperterriti nella biblioteca dalle pareti affrescate. E’ Breton a stabilire il tono delle giornate. Già la prima sera piazza a centro tavola una bottiglia piena di mantidi religiose, organizza giochi surrealisti, tira fuori vecchie riviste, forbici e colla e coinvolge tutti a fare collages. E la domenica arrivano gli ospiti dai dintorni: Max Ernst con Leonora Carrington, Péret, Victor Brauner, André Masson, quasi a voler ricostruire la regolarità dell’infranta atmosfera parigina. Si organizza anche un’asta (fallimentare), con quadri surrealisti appesi agli alberi attorno alla villa e monete sotterrate nel parco per eludere le perquisizioni.
E poi l’idea: perché non ridisegnare le carte da gioco? Ci si mettono i Breton, Wilfredo Lam, Ernst, Oscar Dominguez, Brauner, Jacques Hérold. I semi tradizionali sono sostituiti da Amore, Sogno, Rivoluzione e Conoscenza, mentre al posto delle figure ci sono ora il Genio, la Sirena e il Mago. Le figure del Sogno saranno Lautréamont, Alice, Freud; quelle dell’Amore: Baudelaire, la Religiosa Portoghese, Novalis. L’asso di Rivoluzione è una ruota insanguinata, quello di Conoscenza (opera di Breton) è un buco della serratura in cui s’intravede una fiammella. Il jolly è Ubu Roi come l’aveva disegnato Jarry. Sarà il Mazzo di carte di Marsiglia.
Lo stallo persiste. Le autorità americane rifiutano a Serge anche solo un visto di transito. A fine marzo s’imbarcherà con Breton su un cargo diretto in Martinica: a bordo anche Anna Seghers e Claude Lévi-Strauss, che ricorderà il poeta «muoversi su e giù come un malinconico orso da circo nella sua giacchetta di velluto». Per gli altri è solo questione di mesi. Senza Breton la villa è triste. Ci passerà ancora Peggy Guggenheim, persa dietro Ernst ma ben attenta ai suoi quadri, che compra in abbondanza. Il 1° maggio il pittore taglia il confine spagnolo diretto negli Usa. Quattro giorni dopo, Peggy organizza tra i platani una mostra di Ernst e della Carrington, entrati ormai nella sua già ricca collezione: con i tedeschi alle porte, l’arte degenerata occupa di nuovo il parco di Villa Air-Bel.

IL LIBRO Consegna su richiesta di Varian Fry (Sellerio, trad. di V. Parlato e R. Sferzi, pagg. 312, euro 16)

l’Unità 3.6.13
Juliette e Victor, amare per vivere
Un sito dedicato alle lettere tra Hugo e la sua amante
Una relazione appassionata da riscoprire nelle missive on line
Mentre la Francia chiede di dedicare un parco a questa eroina innamorata
di Anna Tito


«CIASCUNO DI NOI SVOLGE UNA PARTE: TU SCRIVI I TUOI CAPOLAVORI, IO TI AMO, E LA MIA OPERA NON SARÀ PER NULLA INFERIORE ALLA TUA», così si rivolgeva Juliette Drouet (1806-1833) al poeta, drammaturgo e scrittore Victor Hugo (1802-1885), di cui fu amante per cinquant’anni nonché instancabile corrispondente. Si incontrarono nel 1833, quando lei, attrice avvenente, recitava in Lucrezia Borgia e lui, trentenne autore di Hernani, opera manifesto del Romanticismo, era all’apice della gloria.
Non aveva mai tradito la moglie Adèle, ma cedette, in quel fatidico 16 febbraio del 1833 al biglietto inoltratogli da Juliette, che più esplicito non si potrebbe: «Vieni da me stasera, dalla signora K. Ti amerò fino ad allora per avere pazienza. A stasera, quando tutto sarà! Mi donerò tutta a te!».
Da allora formarono, l’attrice e il letterato, una coppia inseparabile, destinata a durare fino alla morte di Juliette. Lui divenne un dongiovanni, e pur amandola, non di rado frequentava le case di piacere, ma lei sempre gli fu fedele. 16 febbraio 1833 s’intitola non a caso ne I Miserabili il capitolo sulla prima notte d’amore di Marius e Cosette, che in realtà fu quella di Victor e Juliette.
Con l’aiuto della sua musa e ispiratrice Hugo – o meglio «Toto», come lei era solita chiamarlo lasciò, con la moglie e i quattro figli, la Francia per Bruxelles nel 1851, a seguito del colpo di Stato di Napoleone III, per poi raggiungere le isole britanniche di Jersey e Guernesey. E l’amante non esitò a seguirlo, con la figlia Claire, e il baule contenente il manoscritto de I miserabili.
Vanno «riconosciuti i meriti della donna che fu accanto al grande uomo», e pertanto l’équipe universitaria del Centre d’études et de recherches Editer/Interpréter di Rouen che ha preso l’iniziativa di dedicare un sito alle lettere scritte da Juliette all’amore della sua vita, e quasi un migliaia si trovano già disponibili online (www.juliettedrouet.org). Juliette divenne l’ombra del poeta, il suo angelo custode: «il mio primo titolo, quello che voglio conservare fra tutti, è quello della tua amante appassionata, ardente, devota e che conta solo sul tuo sguardo per vivere».
C’È ANCHE UNA PIÈCE PER LORO
Lo spettacolo Victor Hugo, mon amour, è in tournée da ben sei anni. «Amare è agire»: creare uno spettacolo per mettere in luce la magnifica storia d’amore di Juliette e Victor, a partire dalle ventitremila missive da lei inviate all’amato, replicare lo spettacolo per più di cinquecento volte, fare in modo che migliaia di applausi significhino altrettanti inni all’amore, «non basta, poiché le parole volano e gli scritti restano»; e la compagnia teatrale, con a capo l’attrice e regista Anthéa Sogno, hanno rivolto un appello al Presidente Hollande e al Ministro della Cultura Aurélie Filippetti, affinché alla loro eroina venga dedicato un parco, una strada, un giardino, una biblioteca. O almeno una panchina, con su scritto: «Amare è più che vivere», dove gli innamorati possano scambiarsi promesse di amore eterno.

La Stampa 3.6.13
L’ultimo mistero di Neruda
Caccia a un agente della Cia
Cile, la procura sulle tracce del presunto killer del poeta morto quarant’anni fa
di Paolo Manzo

qui

La Stampa 3.6.13
Qualcosa non va nel “maschile” E nel “femminile”
Dietro alla tragedia del femminicidio:
il problema è che le immagini di uomo e di donna a cui siamo abituati non funzionano più
di Franca D’Agostini


Bisogna modificare le visioni di genere che ancora circolano nelle nostre menti, e nei media
È uno dei i compiti primari della filosofia politica femminista Che però raramente è ascoltata
Del “sesso debole” deve essere valorizzata la sua differenza o difesa la sua uguaglianza?
Essere donna è un modo particolare (migliore) di essere: quello di chi non ama il potere

Helene von Druskowitz, filosofa austriaca dell’Ottocento, morta in manicomio dopo aver scritto opere geniali e stravaganti, come il Vademecum per gli spiriti più liberi. Proposizioni cardinali pessimistiche, così descriveva «il maschio»: «micidiale per attitudine, violento e invidioso, generatore di guerra, amante del potere, ottuso distruttore della natura e di se stesso». Dal punto di vista di Von Druskowitz tutti i problemi dell’umanità si riducono a uno solo, e semplicissimo: il rissoso individuo ha preso possesso della storia umana, e sta portando rapidamente l’umanità alla rovina. Brillante provocatrice, un po’ come Nietzsche (che conobbe), la von Druskowitz era omosessuale, e principalmente per questo trascorse in manicomio vent’anni della sua vita. Ma era paziente «tranquillissima», dissero i medici; e in fin dei conti oggi si direbbe sanissima, visto che l’unica sua malattia era a quanto pare la «misandria», l’odio per il maschio.
Non c’è bisogno di raggiungere gli eccessi della von Druskowitz per riconoscere che nel «maschile» c’è qualcosa che non va. E correlativamente qualcosa non va nel «femminile» così come si è configurato e modellato, nella prospettiva del maschile. E quel che non funziona, beninteso, non sono gli uomini e le donne, ma appunto il maschile e il femminile, vale a dire: quel che gli uni e le altre si aspettano e devono aspettarsi dal loro essere nel modo in cui si suppone siano.
È questo in definitiva il problema di fondo da cui si genera il fenomeno del «femminicidio». La diagnosi non è difficile: il problema è che le immagini di «uomo» e di «donna» a cui siamo (specie gli uomini) abituati non funzionano più, e a contatto con le nuove realtà esplodono e si traducono in follia. Come notano Loredana Lipperini e Michela Murgia, in L’ho uccisa perché l’amavo: falso! (Laterza 2013), l’amore non c’entra nulla, la vera spiegazione è: «l’ho uccisa perché metteva in crisi la mia immagine di maschio possessore e dominatore». E in Se questi sono uomini, Riccardo Iacona (Chiarelettere 2012) lascia vedere molto bene, ri-narrando i diversi femminicidi, che per lo più le donne uccise erano donne brave, forti, e gli uomini erano deboli, senza lavoro, umiliati nella loro difficoltà di essere «maschi». La malattia si è rivelata dunque in tutta la sua chiarezza. Ed è chiara anche la soluzione. Come hanno ribadito di recente Laura Boldrini su Repubblica, Lorella Zanardo sul Fatto, Simonetta Agnello Hornby sulla Stampa, i provvedimenti devono muoversi in due direzioni: sul piano istituzionale (creando leggi, e aggravanti «di genere»), e sul piano culturale: modificando la visione del maschile e del femminile che ancora circola nelle nostre menti, e nelle immagini propagate dai media.
La direzione numero due è la più profonda e radicale. Ma resta un dubbio. Che cosa mettiamo, esattamente, nelle «nuove» immagini che dobbiamo diffondere, insegnare, difendere? Chi siamo? Siamo diverse, e siamo meglio degli uomini, come ritiene Luisa Muraro ( Non è da tutti, Carocci 2011)? Siamo uguali, se non altro siamo umane come gli altri umani, come dice Catharine MacKinnon ( Le donne sono umane?, Laterza, 2012)? Soprattutto: siamo come erano le nostre madri-nonne, e le nostre figlie-nipoti sono come noi, per cui funzionano le stesse teorie, e gli stessi programmi?
Il ripensamento dell’identità femminile (e maschile) è uno dei compiti primari della filosofia politica femminista. Però, proprio su questo punto, la filosofia oggi è raramente ascoltata, e quel che è peggio fatica a trovare una vera convergenza. Sopravvive la vecchia ruggine che ha sempre percorso la storia del femminismo, tra differenzialismo (le donne sono diverse, e deve essere valorizzata la loro differenza) ed egualitarismo (le donne sono uguali, e deve essere difesa la loro uguaglianza). Sopravvive anche la disputa metodologica: c’è chi ritiene che il «pensiero femminile» da valorizzare e difendere sia pensiero contrario a ogni teoria generale, e forse a ogni teoria, e chi tenta una riconsiderazione fondamentale del problema, a partire da una prospettiva universalista.
Il libro di Nadia Fusini, Hannah e le altre (appena uscito da Einaudi) offre un modo ingegnoso per ripensare l’intera questione, forse proprio perché narra di tre autrici non femministe, ma che hanno evidenziato alla perfezione, come dice Fusini riprendendo Virginia Woolf, «the woman’s angle», il punto di vista femminile. Il libro racconta lo sfiorarsi dei destini di Hannah Arendt, Simone Weil e Rachel Bespaloff: unite non soltanto dal fatto di essere ebree, filosofe ed esuli a New York, ma anche da incontri fortuiti, strane coincidenze; e soprattutto: da un’affinità di pensiero che mette in luce le ragioni del loro essere donne in un modo diverso da come si suppone si debba essere donne.
Lo stile di Fusini, magistrale nelle biografie, consente di vedere all’istante il nucleo essenziale di ciascuna figura, restituendone il pensiero dominante con rapidi accenni concreti. Simone Weil viene sedotta alla teoria e alla pratica della vita difficile dalla fiaba che le racconta sua madre, nel dormiveglia di bambina febbricitante. Hannah Arendt, a cui manca il «tatto del cuore», come le rimproverano Scholem e il suo maestro Jaspers, ha nell’animo «socratico» «un’ironia pungente, che sconfina nell’arroganza». Meno nota la biografia di Bespaloff, musicista e filosofa, afflitta da incombenze famigliari che la imprigionano e la portano al suicidio. Fusini sottolinea la convergenza delle tre posizioni: nell’avversione per la violenza, nell’interesse per i greci e per il Cristianesimo. Tutte e tre sono dotate dell’«altro sguardo»: ma la peculiarità di questo sguardo non è legata a oscuri fattori biologici, e neppure a un «femminile» benevolo e antiviolento. È piuttosto lo sguardo di chi è «senza potere», ed è tanto più evidente in tre personaggi così tipicamente deraciné, sradicati, e capaci di tradurre lo sradicamento in teoria.
Ecco dunque il punto cruciale: le tre autrici partono dall’umanità, dunque da una prospettiva «neutra», e senza genere; ma nelle loro voci si rivela all’istante «l’altro sguardo». La «differenza» affiora, inequivocabile, nel momento stesso in cui il discriminato inizi a parlare, e parli onestamente, a partire dal suo avvertirsi «straniero». Ma se dobbiamo tenere conto di questo, la risposta alla domanda «chi siamo? » cambia radicalmente. Essere donne significa anzitutto un modo particolare (migliore) di essere esseri umani: il modo di chi, uomo o donna che sia, non ama il potere. E in questo senso, come Von Druskowitz, non ama «il maschio».

Corriere 3.6.13
Perché vediamo un volto umano in una foglia o sulla luna
di Massimo Piattelli Palmarini


Sarà capitato anche a voi. Scorgere un volto guardando la Luna, riconoscendo occhi e naso. Individuare le sembianze di qualcuno in una montagna, un edificio o addirittura un toast. La Bbc ha raccontato alcuni casi di pareidolia, quell'illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili dalla forma casuale. Qualche volta il fenomeno si è trasformato in business: lo store JcPenney ha esaurito in poche ore una caffettiera con i «tratti» simili a quelli di Hitler. Non era la prima volta che il capo del Terzo Reich si materializzava: era accaduto nel 2006, quando il sito Tumblr aveva sottolineato la somiglianza con la facciata di una casa a Swansea. Il caso ha voluto che sempre nel Galles, la famiglia Allen abbia intravisto nel coperchio rovesciato della marmellata l'immagine di Cristo, e qualcosa di simile è accaduto nel 1994 all'americana Diane Duyser che nel toast al formaggio ha avuto una visione sacra: il panino è tuttora conservato come una reliquia con il nome «di Virgin Mary Grilled Cheese».
Quanto poco basti per innescare in noi il riflesso di vedere un volto umano e le espressioni in quel volto, è dimostrato da quei semplicissimi tondini, quelle figurette, chiamate emotici, spesso usate nei messaggi di posta elettronica e nei siti web. Vediamo, per un profondo involontario riflesso dettato dalla natura del nostro cervello, un volto nella luna piena, in certe nuvole, in certe foglie, in certi ghiribizzi scolpiti dalla natura sulle rocce. Un'utilitaria francese di qualche anno fa, avendo disegnato i fari a forma bislunga, ben si prestava a disegni pubblicitari che la trasformavano in una simpatica faccetta. Infatti, il volto umano ha per noi, fin dalla nascita, una rilevanza specialissima. Già poche ore dopo la nascita, un bebè ci imiterà se, ponendoci alla distanza giusta dal suo volto, spingiamo fuori la lingua, oppure formiamo una O con le labbra. Riconosciamo senza incertezza e istantaneamente migliaia di volti, quelli di parenti, amici, conoscenti, attori, campioni sportivi, politici, personaggi di cronaca. Li riconosciamo spesso malgrado i cambiamenti dell'età, l'aggiunta di baffi e barba, trucco e simili. I bimbi di circa cinque o sei anni identificano molto meglio di noi adulti il sesso in foto di volti di altri bimbi, nelle quali si è ritagliato solo l'ovale, senza mostrare i capelli.
Quanto sia efficiente e specifico il riconoscimento dei volti è dimostrato da alcuni casi patologici di grande interesse. Il primo, studiato da tempo anche da neurologi e cognitivisti italiani, si chiama prosopoagnosia (letteralmente, dal greco, mancanza di conoscenza del volto). Questi soggetti, nei quali sono colpite selettivamente particolari regioni cerebrali, tra le quali una chiamata, appunto, area fusiforme per il volto, ci vedono benissimo, ma non riescono a riconoscere le persone guardandole in viso. Il caso assolutamente perfetto di prosopoagnosia fu riportato qualche anno fa dall'insigne neurobiologo e cognitivista italiano Ennio De Renzi. Il suo soggetto era assolutamente incapace di riconoscere i volti, ma non aveva alcuna incertezza, né alcun indugio, nel riconoscere il proprio rasoio elettrico tra tanti, il suo mazzo di chiavi in un mucchio, i suoi occhiali tra tanti, la propria calligrafia e perfino ad identificare, dall'alto di una finestra, la sua auto che sapeva essere stata ad arte parcheggiata in un posto diverso da quello nel quale l'aveva lui stesso parcheggiata. Un caso opposto è stato studiato dal neurologo canadese Morris Moscovitch. Il suo paziente C. K. soffriva di gravissimi disturbi della vista in generale, non poteva nemmeno andare in giro da solo per le strade, ma era infallibile nel riconoscere i volti. Un caso ancora più curioso, riportato dalla neurobiologa olandese Beatrice De Gelder è quello di pazienti profondamente prosopoagnosici, i quali, però, si può dimostrare che ben intuiscono, senza esserne consci, le espressioni (sorriso, rabbia, disgusto, odio) in quei volti che pur sono per loro inscrutabili.
Il riconoscimento dei volti costituisce quello che in gergo tecnico si chiama un modulo, cioè un'unità mentale e cerebrale a sé stante, che può essere colpita lasciando tutto il resto intatto, oppure restare intatta quando il resto della cognizione visiva è gravemente compromesso. Questa modularità ben spiega il nostro riflesso di vedere volti anche laddove, in realtà, non ve ne sono. Siccome è stato dato il nome di pareidolia al processo che induce a vedere figure dotate di senso e forma in chiazze createsi a casaccio, e posto che esiste un disturbo della percezione chiamato paraprosopia, il brutto termine paraprosopolia potrebbe identificare una specializzazione, quella di vedere in alcune chiazze o forme naturali, un volto. Il modulo delle facce interagisce con altre aree cerebrali, assai meno modulari, quelle che cercano sempre un senso a tutto e spesso si illudono di trovarlo. Quindi, alcuni si sono illusi di vedere Madonne, Cristi o altri volti emblematici, benevolenti o malevolenti. Dato che siamo, in un certo senso, macchine per cercare significati, la paraprosopolia è la naturale, involontaria, proiezione di un angolo della nostra natura umana.

Corriere 3.6.13
Cavaglion contro Luzzatto: una grave lacuna nel libro su Primo Levi
di Antonio Carioti


Il rimprovero è pesante, specie se rivolto da uno storico a un collega. Alberto Cavaglion, sulla «Stampa» di ieri, ha accusato Sergio Luzzatto di aver trascurato nel suo libro Partigia (Mondadori), recensito sul «Corriere» il 16 aprile da Paolo Mieli, una fonte essenziale per ricostruire la breve militanza resistenziale di Primo Levi. Fra l'altro si tratta di un testo facilmente reperibile, che sembra fornire indicazioni di rilievo proprio sull'episodio più scottante della vicenda: la fucilazione di due giovani membri della banda partigiana cui apparteneva Levi, eliminati dai loro stessi compagni per colpe che Luzzatto non individua e che, a suo avviso, potrebbero essere state di entità non molto grave.
La fonte citata da Cavaglion è il diario pubblicato nel 1970 da Adolphe Barmaverain, curato del paese valdostano di Brusson, il quale riferisce che nella zona del Col de Joux, il 17 dicembre 1943, venne ritrovato il cadavere di una profuga ebrea sessantacinquenne, Elsa Polkorny, «suicidatasi in seguito alle vessazioni e alle minacce subite dai partigiani». Si disse allora, aggiunge Barmaverain, che i responsabili «sarebbero stati fucilati dal loro comandante venuto a conoscenza di queste vessazioni».
Pare insomma, ne deduce Cavaglion, che i due giovani non ancora ventenni passati per le armi, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, si fossero macchiati di una «non lieve colpa», come l'avrebbe definita in una poesia del 1952 (ma pubblicata nel 1984) lo stesso Primo Levi. Il quale del resto, nel libro Il sistema periodico (1975), avrebbe scritto a proposito della fucilazione: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna».
Tuttavia l'ipotesi che proprio Oppezzo e Zabaldano avessero spinto Elsa Polkorny al suicidio lascia perplessi per una questione di date. I due vennero uccisi il 9 dicembre, mentre il cadavere della donna, sostiene il sacerdote, fu ritrovato il 17 dicembre, quando Levi e i suoi compagni erano già stati catturati, il giorno 13, dai fascisti della Rsi. E il corpo della signora suicida non fu rinvenuto in qualche luogo isolato, bensì in casa di Cécile Révile, nel paese di Fontaines. Era in quell'abitazione da oltre una settimana e nessuno si era accorto di nulla, fuorché i partigiani? Di primo acchito non sembrerebbe molto plausibile.
Interpellato dal «Corriere», Luzzatto respinge le accuse: «Conoscevo benissimo il diario del curato e la tragica vicenda della profuga ebrea suicida, ma dalle mie approfondite ricerche sull'argomento risulta che i fatti non andarono come Cavaglion ritiene di aver scoperto e comunque non ebbero alcun rapporto con l'esecuzione di Oppezzo e Zabaldano. Ho preferito non parlarne nel libro, perché la documentazione di cui dispongo ha un carattere privato e mi è stata fornita in via riservata, sulla base di un rapporto fiduciario. Si tratta di una vicenda molto delicata, che a mio avviso rimane irrisolta e non andava buttata in pasto al pubblico». Comunque l'autore di Partigia preannuncia un'ampia risposta nel merito sulle colonne della «Stampa».
Cavaglion attende la replica senza deflettere dalla sua posizione: «Anche se il cadavere della signora suicida — osserva — fu ritrovato il 17, il decesso poteva essere antecedente. Non do per certo che responsabili della sua morte fossero Oppezzo e Zabaldano, ma mi fa specie che il diario del parroco non sia neppure menzionato in un libro che si sofferma anche su minimi particolari della lotta partigiana in Val d'Aosta. Luzzatto non gli dedica neppure una noticina, anzi non cita mai il curato. Adesso forse demolirà quella fonte come inutile nella sua replica, ma è un po' tardi, dopo che gli è stata rinfacciata la lacuna».
Dura la conclusione di Cavaglion: «Luzzatto ha allestito un processo indiziario per dimostrare che i due ragazzi vennero uccisi per futili motivi, ignorando non solo la testimonianza del curato, ma anche quella del medico condotto, che ora sta venendo fuori. Il suo è un libro a tesi, scritto con l'obiettivo di gettare un'ombra su Levi».

Corriere 3.6.13
Addio a Giuliano Zincone, grande firma del Corriere
di Paolo Conti

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Corriere 3.6.13
Zincone, il maestro imprevedibile che aveva il coraggio dell'umiltà
La denuncia delle morti sul lavoro, l'autocritica sul Vietnam
di Francesco Cevasco


Se parliamo di Giuliano Zincone, giornalista del «Corriere della Sera», bastano due date: 1939-2013. Quella di ieri e quella di oggi. Il resto, la sua storia, è sì compresa in queste due date, ma fa parte di un mondo, di un mondo che non tiene conto, non teneva conto, di tempi e spazi. D'altra parte lui era un cugino di Samuel Beckett, un altro cui tempo e spazio non interessavano più di tanto. Quindi, Zincone. Proviamo a raccontarlo. Come piaceva a lui raccontare le storie che aveva in testa.
Per esempio: siamo nel 1977, nessuno, almeno nei giornali borghesi, si occupa con passione di morti sul lavoro. Lui fa un'inchiesta e poi un libro: ma come? Quello snob liberale si appassiona tanto a quei poveracci? Zincone è sempre stato così: lo pensi in un modo e ti compare in un altro, magari l'opposto. Ma è anche capace di raccontare l'opposto di se stesso.
Nel 1979 scrive un destabilizzante articolo di fondo, quello più importante del giornale, sulla presunta «liberazione» del Vietnam. Finisce con una parola: «Orfani». Una parola che racchiude tutto il senso della disillusione: «Io, come molti altri, ho avuto un anello di lega leggera con la scritta Flnsv: Fronte di liberazione nazionale del Sud Vietnam… Io seguivo i cortei dei ragazzi che cantavano: Vietnam vince perché spara… Io mi sono fatto stampare sulla camicia il profilo della guerrigliera vietnamita, e immaginavo che i combattenti vestiti di scuro fossero angeli che passavano senza ferire nelle foreste di caucciù, tra gli alberi bruciati dal napalm, sopra le stragi che le televisioni americane trasmettevano ogni giorno, con sincerità dovuta alla libera concorrenza». Zincone ha avuto il coraggio di scrivere, di scrivere non soltanto di pensare, che quella era proprio una grande illusione.
Voliamo sopra un decennio: Zincone, il grande inviato speciale del «Corriere della Sera», carica nel piccolo bagagliaio della sua «Zincomobile», una piccola Porsche rossa che puzzava orribilmente di benzina, il suo snobismo che diventa all'improvviso vera umiltà, e va a fare il direttore del «Lavoro» di Genova. Un piccolo giornale pieno di gloria (lo aveva diretto anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini), ma conciato male.
Lo rimette a posto (anche come arredi: eleganti pareti grigie, tubi del riscaldamento gialli, archivio che i padroni volevano buttare via salvato da lui, pale di elicottero appese al soffitto per assicurare l'aria fresca, come in Vietnam, appunto). Ma esagera: continua a fare il giornalista vero e onesto. E sfida la P2. Che oggi ci fa ridere, ma allora era un grosso centro di potere, vero potere. E Zincone salva una vita umana. Quella del giudice Giovanni D'Urso sequestrato dalle Brigate rosse nel dicembre del 1980.
Quei deficienti delle Br, in cambio della pubblicazione su un giornale di un comunicato dei detenuti nelle carceri speciali di Palmi e Trani, erano disposti a liberare il magistrato anziché ucciderlo. Zincone lo pubblica quel comunicato: proprio in fondo a una pagina di fumetti, in corpo 5 (che vuol dire tanto piccolo da essere quasi illeggibile). Zincone «frega» le Brigate rosse, ma la P2, che non voleva «cedere ai terroristi», «frega» lui: lo caccia dalla direzione del «Lavoro».
A proposito, adesso bisogna dare la parola a uno dei suoi due amici: Antonio D'Orrico. Dice D'Orrico: «Giuliano mi ha insegnato una cosa: prima di lasciare un posto devi sempre fare la pipì». Qualcuno ha provato a fare la pipì addosso a Zincone, come quel tipo che, citando l'improbabile rapporto Mitrokhin, lo accusò di essere una spia dei sovietici. Rideva quel liberale di Zincone e parlava del Milan calcio: «Anche se c'è Berlusconi presidente, mi sembra un discorso piu' serio».
Zincone era, è, uno scrittore maverick, cioè anticonformista, indipendente, individualista, cane sciolto. I suoi testi teatrali raccolti sotto il titolo Lo stivaletto malese, il poema Giovanni Foppa vuole cambiare vita, il romanzo Niente lupi, i racconti Palazzo Cuccumo, la psicanalisi del papa in Vita vita vita!, il calambour di Ci vediamo al Bar Biturico, il sofferto Miele delle foglie girano ancora nell'aria di chi legge i libri, libri così apparentemente diversi tra loro.
D'altra parte Zincone era uno che, quando la chiacchiera ideologica diventava inutile, troncava la discussione dicendo: «Qui, voi, finite in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione… Troppo comodo».
Zincone era, è, anche un uomo elegante. Sosteneva tesi estreme, controcorrente (e non parliamo soltanto di politica), ma lo faceva con garbo aristocratico. Diceva le «peggio» cose, cose scandalose, ma mai, mai condite con una parolaccia, una volgarità. E se la parolaccia la usavi tu, che parlavi con lui, ti zittiva con la citazione di un filosofo, spesso francese. E poi ai suoi giornalisti dava anche lezioni di abbigliamento: d'estate ci si veste con polo bianca o color pastello, pantaloni di cotone, scarpe da tennis (ma soltanto di una certa marca). L'eleganza era parte della sua prassi quotidiana. L'eleganza che aveva addosso, nei vestiti, l'eleganza che aveva addosso nel suo modo di parlare, l'eleganza che aveva dentro il suo modo di scrivere.