martedì 4 giugno 2013

il Fatto 4.6.13
IMU, spiccioli dalla Chiesa
Quelli che non pagano mai
di Marco Politi


Dopo tante promesse, il gettito per lo Stato sarà inferiore perfino ai 100 milioni previsti Le regole restano misteriose, i controlli inesistenti, i moduli per giustificare le esenzioni del 2012 non sono mai arrivati. E a Roma negli alberghi degli enti ecclesiastici non sono affatto preoccupati: “Quanto dobbiamo versare? E chi lo sa... ”
Chiedeva domenica papa Francesco di pregare per le vittime delle nuove schiavitù e guerre. E in effetti con l’indebolirsi della democrazia, il progredire della crisi e il gonfiarsi del potere economico-finanziario si profila ogni giorno di più un nuovo tipo di guerra. La guerra spietata dei potenti contro gli indifesi, la guerra dei prepotenti contro la massa di chi rispetta la legge e pensa (ingenuamente) che la società dovrebbe orientarsi secondo i dettami di un’etica civile sancita dalle norme.
Potenti e prepotenti non vogliono pagare mai. Né rispondere delle loro azioni. Né risarcire morti e sofferenze causate da loro. Mai.
Prendiamo la sentenza Eternit: disastro doloso. L’imprenditore elvetico Herr Schmidheiny latita, come si conviene a “chi può”. Il predecessore barone Cartier de Marchenne è passato a miglior vita, reato estinto, gli eredi nulla devono. Andrebbe promossa exnovouna causa civile, con sentenze chissà quando... Chi ha avuto, ha avuto!
La storia non è nuova. Nel disastro di Bhopal del 1984, quando un’immensa nube tossica uccise 3.787 persone, poi arrivate secondo stime a 15.000, con danni ulteriori a mezzo milione di indiani, il management americano della multinazionale Union Carbide India Ltd. se la cavò senza un graffio.
Persino papa Wojtyla, coraggioso altrove, nel suo primo viaggio in India non disse una parola. Stesse impunità in altri regimi e latitudini.
Disgusta l’arroganza smisurata dei potenti e prepotenti. Quanto più è diffusa – sulla carta – la cultura della legge uguale per tutti e la retorica dei diritti umani, tanto più si scintilla l’atteggiamento sprezzante dei boss, che non devono sottostare alle leggi dei comuni mortali.
I comuni mortali pagano l’Imu? La Chiesa-potere non vuole proprio. Strano: il rigoroso Monti, così europeo e attento ad ascoltare la messa, aveva deciso che tutti dovevano dare sull’unghia nel 2012, solo la Chiesa nel 2013. Ora manca un reale catasto dell’uso degli edifici e il gettito sarà aleatorio. Curiosa coincidenza. Il governo Letta ne sa qualcosa?
Anche i pedofili ben collocati possono partecipare alla partita. Il sindaco Alemanno, costituendosi parte civile in ritardo contro il prete abusatore Conti, ha ritardato la sentenza di Cassazione con la prospettiva di un pacchetto di prescrizioni: senza risarcimenti.
Il gioco ormai è scoperto. Tu paghi e io no.

il Fatto 4.6.13
La legge è inutile: la Chiesa continuerà a non pagare l’Imu
La scadenza per la prima rata è vicina, ma mancano controlli e moduli
Nessuno vuole disturbare i vescovi. Il gettito non arriverà a 100 milioni di euro
di Marco Palombi


È un mistero. Da un lato è normale, visto che si tratta in larga parte di materia “religiosa”, dall’altro non tanto perché parliamo di fisco. Parliamo dell’Imu per il non profit – soprattutto per gli immobili appartenenti ad enti religiosi – che da quest’anno pagano l’imposta per la parte dei loro immobili utilizzata per attività commerciali. Si promettevano meraviglie: l’associazione di ricerca Ares stimò in oltre 2 miliardi il gettito potenziale per le sole proprietà della Chiesa, l’Anci parlava invece di 500-700 milioni, la commissione del Tesoro sull’erosione fiscale guidata da Vieri Ceriani nel 2011 stimò prudenzialmente 100 milioni di euro.
IL GOVERNO MONTI, modificando la legge per non incorrere in una multa europea per aiuti di Stato, si guardò bene dal fare previsioni, ma coi soldi promise di abbassarci le tasse: “Le maggiori entrate saranno accertate a consuntivo e potranno essere destinate all’alleggerimento della pressione fiscale”. Anche l’Europa ha gettato la spugna: nel dicembre scorso ha detto che la nuova legge sanava una situazione illecita, ma che quantificare il danno era impossibile. Risultato: un bel condono per gli illeciti 2006-2012.
E ora? Ora che tutto è a posto, quanto incasserà l’erario? Ufficialmente è un mistero, ufficiosamente non molto di più rispetto agli anni scorsi. Lo sostiene, anonimamente, una fonte dell’associazione dei Comuni e ne è convinto l’uomo che ha iniziato la battaglia a Bruxelles contro i privilegi fiscali della Chiesa, l’ex parlamentare radicale Maurizio Turco: “Il gettito non subirà variazioni sostanziali rispetto al passato. Il regolamento bizantino varato dal governo Monti non ha fatto altro che posticipare il momento della verità. Non è con l’autocertificazione che si risolve il problema: senza controlli non sapremo mai chi e quanto dovrà pagare”. Ma i Comuni non sono interessati a incassare “I sindaci – è la risposta – non fanno i controlli per la semplice ragione che sono nelle condizioni tecniche e politiche per farli”. Tradotto: non hanno il personale, né la volontà di mettersi contro un apparato che i governi d’ogni colore hanno dimostrato di non voler infastidire.
I FUTURI, MAGRI RISULTATI
dell’operazione di maquillage del governo Monti, infatti, stanno tutti nelle norme stesse. Bene il principio: sono esenti solo le attività non commerciali. Come individuarle? C’è un apposito “regolamento” emanato a novembre dal ministero dell’Economia (curiosamente in contrasto con quanto sostenuto dal Consiglio di Stato): sono quelle “svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale”. Bisogna, insomma, essere non profit almeno a metà. Chi stabilisce la media territoriale e come la calcola? Chissà. Alberghi e ostelli, asili e scuole, società sportive e circoli culturali che sarebbe meglio chiamare pub dovranno, per essere Imu-esenti, dimostrare solo che offrono i loro servizi a “metà dei corrispettivi medi” dei loro concorrenti profit. Per gli alberghi è previsto addirittura – qualunque cosa significhi – che possano pagare l’Imu solo per i periodi dell’anno in cui effettivamente svolgono attività commerciale. Per contestare un’eventuale dichiarazione infedele, infine, i comuni hanno cinque anni di tempo. Nota ancora Maurizio Turco: “In Campania ci sono migliaia di case abusive costruite sotto il naso di chi dovrebbe vigilare: come si può immaginare che i Comuni siano in grado di fare controlli su cosa avviene dentro edifici in regola? ”.
LA VERITÀ È CHE l’oscurità fiscale in cui si trovano gli edifici del non profit – enti ecclesiastici in testa – è contemporaneamente la garanzia e il mezzo con cui si preserva lo statu quo. Entro il 4 febbraio chi aveva beneficiato di esenzioni Imu nel 2012 ha dovuto consegnare un modulo in cui dichiarava la sua posizione (o anche una semplice variazione rispetto all’anno prima). In sostanza, una sorta di primo censimento di chi non paga l’imposta sugli immobili, che però non ha per ora riguardato enti senza fini di lucro e ecclesiastici: li ha esentati una circolare del ministero a gennaio. Motivo? Mancava il modulo o, nel loro linguaggio, “la successiva emanazione del decreto di approvazione dell’apposito modello di dichiarazione in cui verrà indicato anche il termine di presentazione della stessa”.

il Fatto 4.6.13
Gli alberghi del Vaticano
“Quanto dobbiamo versare? Chissà”
di Tommaso Rodano


I romani la chiamano in modo poco ortodosso ma evocativo: “Gran Pretagna”. É a ridosso del Vaticano, lungo il primo tratto della via Aurelia. Un’area disseminata di ville e grandi palazzi di pregio. Case di cura, centri congressi, alberghi, oratorii, scuole paritarie, ospedali privati, immersi spesso in ampi parchi verdi. Di pubblico rimane, a malapena, l’asfalto delle strade. Qui vive il 22 percento dei prelati e il 29,5 percento delle suore residenti in tutta Italia (fonte La Stampa). E si trova una bella porzione del patrimonio immobiliare della Chiesa che dovrebbe finire sotto la mannaia dell’Imu a partire dal 17 giugno 2013. Ma in “Gran Pretagna”, la sola evocazione del nome della terribile Imposta Municipale Unica sembra provocare imbarazzo, sbigottimento, vuoti di memoria. Al termine di un lungo percorso a ostacoli tra esercizi commerciali e strutture ricettive legate a confraternite, congregazioni e ordini religiosi, nessuno, ma proprio nessuno, sa o vuole rispondere a una domanda semplice e diretta: “A quanto ammonta la rata dell’Imu di giugno? ”. Casa La Salle, come recita il sito web dell’albergo, “è una struttura monumentale appartenente alla congregazione Lasalliana fondata da Giovanni Battista de La Salle nel 1680”. É inserita in un grande giardino privato, con palme, fiori e alberi da frutta. Nel parco ci sono sale convegni, campi da calcetto, un museo, un parcheggio interno per auto e pullman. E poi c’è l’hotel, che mette a disposizione circa 120 camere e 200 posti letto, la tariffa (al netto dei cambi di stagione) è sulla cinquantina di euro a notte per persona. Di Imu, nell’albergo, non si sa nulla. “Abbiamo assunto la gestione della struttura solo da un mese – spiega Francesco Casale, il responsabile della società esterna cui è affidata l’amministrazione della Casa La Salle– stiamo ancora acquisendo tutte le informazioni”. Eppure la rata dovrebbe scadere tra pochi giorni. “Non so cosa dirle. Provi a chiedere a qualcuno della Congregazione”. Ma anche all’interno della casa generalizia, la domanda è accolte da sguardi smarriti e nessuna risposta utile.
Sull’altro lato dell’Aurelia, al termine di un viale alberato, c’è la Casa di accoglienza delle Suore della Riparazione. “Noi la tassa l’abbiamo pagata sempre”, sostiene suor Vittoria, responsabile della pensione da una trentina di posti letto. “Non so dirle a quanto ammonti. Forse 500, 600 euro al mese”. La suora va in confusione: “Aspetti. Non saprei. Vede, noi facciamo capo alla Casa di Milano, siamo solo un ‘distaccamento’”.
Risposta simile, e visibile imbarazzo, da una sorella delle Piccole ancelle di Cristo Re, una casa per ferie nascosta in una strada interna di un comprensorio di palazzine. “Imu? Perché le interessa l’Imu? Cerco la madre superiora”. Passa qualche minuto, non si trova. “Aspetti, in verità la gestione amministrativa dipende dalle Piccole Ancelle di Napoli, deve chiedere a loro”.
Il copione è quasi immutabile, eccetto qualche ritocco, albergo dopo albergo. In quello delle Suore Rosminiane parlare con la direzione è impossibile. Appena suona la parola magica “Imu”, l’accoglienza è decisamente sgarbata. La reception indirizza a un numero di centralino. Al quale, beffardamente, risponde la reception stessa. “Per quale giornale ha detto che scrive? Arrivederci”.
La casa per ferie delle Suore del Preziosissimo Sangue è una pensione da ventisette stanze, prezzi in linea con la zona e un adesivo in bella vista sulla porta d’ingresso: “Consigliato da Tripadvisor”. La direttrice, dicono, è impegnata. Non può scendere a rispondere. Nemmeno a una domanda sola. All’inizio di via Aurelia, verso San Pietro, c’è il lussuoso giardino della Casa Bonus Pastor. Per una volta, la replica è immediata: “Facciamo parte del Vicariato di Roma, tecnicamente siamo in territorio vaticano”. La tassa invece è italiana, e non li riguarda.

il Fatto 4.6.13
Pd e Pdl ormai uguali sono e Napolitano dirige
Ieri convoca Letta. E venerdì le riforme vanno in Cdm
di Wanda Marra


Tutto cominciò il 22 aprile, durante il discorso di insediamento alla Camere di Giorgio Napolitano. Lui bacchettava i partiti, senza pietà: “Non si sono date soluzioni soddisfacenti” perché hanno finito per prevalere “contrapposizioni, lentezze, esitazioni, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi”. E loro, tutti in piedi ad applaudire. A spellarsi le mani. Pd e Pdl in un unico afflato uniti, tanto che il neo rieletto Capo dello Stato li invitava a non lasciarsi andare all’“autoindulgenza”. Al centro, i Cinque Stelle, fermi e muti. I parlamentari del Pdl e del Pd uniti nella (nuova) lotta. Più entusiasti e chiassosi, i primi, più sobri e mogi, i secondi.
ERA SOLO l’inizio. Col governo “di servizio” (meglio detto delle larghe intese) varato da Enrico Letta, eccoli insieme in maggioranza. Letta e Angelino Alfano, capo e vice, vengono entrambi dalla Dc e avrebbero pure in mente di rifarla. È il governo dei quarantenni. Allora, i giovani scherzano con i giovani: Andrea Orlando, ministro dell’Ambiente (Pd) e Nunzia De Girolamo, ministro delle Politiche Agricole (Pdl), l’uno accanto all’altra durante il giuramento, vicini di banco nello “spogliatoio” di Spineto.
Su tutto vigila Napolitano, che negli ultimi giorni ha dato nuova prova di attivismo. Fino a convocare ieri il premier (e più tardi Alfano), insieme a Franceschini e Quagliariello. Rispettivamente ministro per i Rapporti con il Parlamento e per le Riforme. Ormai abituati ad andare a braccetto, tanto da essere definiti i “pompieri” (o “i gemelli diversi”, copyright Roberto Giachetti). Obiettivo di Re Giorgio? Accelerare sulle riforme. Il governo è pronto ad eseguire, tanto che farà di tutto per portare il ddl in questione venerdì al Cdm. Per oliare il tutto, l’esecutivo pensa di nominare 25 saggi, già oggi o domani (ci saranno anche alcuni tra quelli scelti dal Colle dopo il fallimento del pre incarico a Bersani). L’ultimo tormentone è il dibattito sul semi-presidenzialismo: Pd spaccato (per ora), Pdl schierato a favore. Denuncia Beppe Grillo: “Presidenzialismo è un’idea di Berlusconi, vuol farsi eleggere presidente-duce d’Italia”. Nichi Vendola (l’altro leader della neo opposizione), in un’intervista a Repubblica mette il dito nella piaga: “Siamo al compimento di una resa, di uno sbandamento culturale”.
In effetti, il parlamentare del Pd e del Pdl si assomigliano sempre più. Già simili nel look e nel modo di parlare, ormai fanno dichiarazioni che si distinguono nelle sfumature. O nelle prospettive. Ma che arrivano alle stesse conclusioni. In un mese di governo, l’andamento è costante. La tensione monta, sale. Interviste, proclami, dichiarazioni. E al dunque, s’infrange nel nome della “governabilità”.
Feroce battaglia sull’Imu, con Berlusconi che la vuole a tutti i costi e il Pd che frena. Alla fine, il Cdm vara un decreto di “sospensione”. Cicchitto (Pdl): “Il debutto del governo Letta è positivo. C’è un’inversione di tendenza riguardo alla pressione fiscale”. Speranza, capogruppo Pd: “Bravo Letta. Dal governo atti concreti per i cittadini”. Trova le (vere) differenze.
LEGGE ELETTORALE, stesso balletto. Renato Brunetta si fa latore delle ragioni del Porcellinum, Quagliariello e Franceschini in fondo sono d’accordo, ma mediano, nel Pd a gran voce molti chiedono il Mattarellum. Giachetti presenta una mozione parlamentare per l’abolizione del Porcellum. Altolà del Pd, con tanto di riunione del gruppo. Alla fine se la vota da solo, con M5S e Sel. I Democratici insieme a Pdl e Scelta Civica dicono no. E nel Pdl? I falchi fanno il processo ai governativi, accusandoli di anestetizzare il dibattito. Ma poi votano la mozione della maggioranza (prime firme Speranza, Brunetta, Dellai, Pisicchio) dove di legge elettorale neanche si parla. “Il Pd non vuole più tornare a votare con questa legge elettorale”, dice il segretario Epifani in aula. E aggiunge: “Le parole non cancellano i fatti”. In effetti.
Finanziamento ai partiti, nuovo capitolo. Giorni di mediazione, si arriva a un disegno di legge (non un decreto), che sposta di 3 anni l’abolizione dei rimborsi elettorali e propone sgravi fiscali per chi dona alle forze politiche, che neanche alla ricerca sul cancro. “È un’operazione mediatica” (Bianconi, tesoriere Pdl). “Lisciare il pelo alla demagogia è una cosa che io combatto” (Sposetti, Pd, ex tesoriere Ds). S’arrabbiano pure insieme.
E se è per la giustizia, Nitto Palma s’insedia alla presidenza della Commissione Giustizia del Senato. Il Pd escedall’Aula. Commenta Oliverio (SC): “Una brutta pagina della vecchia politica”. E già, quella nuova non prevede differenze.

«noi e il Pd siamo come l’anima e il corpo»
il Fatto 4.6.13
Nuove maggioranze, Alessandra Mussolini
“Noi e loro anima e corpo Com’è cambiato il mondo”
di Beatrice Borromeo


Cenette, cortesie e occhiolini: la quotidianità degli onorevoli Pd e Pdl, ora che l’inciucio si è consolidato, è fatta di piccoli gesti e premure reciproche. Sia fuori che dentro il Parlamento. “Vanno d’amore e d’accordo – racconta il deputato a Cinque Stelle Ivan della Valle – per esempio, durante le votazioni, si fanno segnali con le dita. ‘Siete favorevoli? ’, sussurrano. Pollice alzato e nessuna polemica”. L’episodio più esplicito, racconta l’esponente pantastellato, c’è stato quando il Pdl ha dovuto votare un emendamento proposto da Fratelli d’Italia: “Hanno avuto un attimo di crisi, non sapevano che fare. Poi il capogruppo Pdl ha telefonato a quello del Pd, e trenta secondi dopo si è alzato urlando: “Siamo contrari anche noi! ”.
E a lodare la serenità nata dalle larghe intese c’è anche una sostenitrice inaspettata, la senatrice Alessandra Mussolini. Che non rimpiange affatto i tempi in cui i due partiti erano su fronti opposti, “anche perchè io critico comunque chi mi pare. Adesso si sta benissimo, non c’è più il clima di sospetto di prima, nessun sorvegliato speciale”.
Onorevole Mussolini, si sente la differenza da quando c’è il governissimo?
Eccome! Sembra che non siamo mai nemmeno stati avversari, siamo in piena luna di miele.
Addirittura.
Certo, si scambiano tutti sorrisetti, occhiolini, pacche. Ammiccano…Non solo è un matrimonio: è pure in comunione dei beni. Fiducia totale.
Niente più dispetti?
Zero! Non ci facciamo più sgambetti in commissione nè proposte di legge che in realtà sono pugnalate, per arrivare primi o per fregare qualcuno. Ora discutiamo di ogni cosa.
Al bando tutto ciò che è “divisivo”, dunque?
Esatto, la parola d’ordine è condivisione. In armonia. E ci riusciamo benissimo.
Non sembra neanche lei, a parlare.
Invece io in questa realtà sono a mio agio. Ci sono colleghi ancora un po’ disorientati, ma in fondo basta accettare il fatto che ormai stiamo insieme, noi e loro.
Per la verità sono pochi i parlamentari che si lamentano: ai più l’inciucio viene naturale.
Tra di noi infatti, in linea di massima, è tutto chiaro. Mi trovo in imbarazzo solo davanti ai giornalisti.
E perchè?
Vi ostinate a far finta che non sia cambiato nulla, volete metterci gli uni contro gli altri, senza capire che è finita l’epoca in cui ci si criticava solo perchè si militava dall’altra parte. Lo volete accettare o no? E poi, se dobbiamo prendercela con qualcuno, ci focalizziamo sui Tre Stelle.
Intende M5S?
Sì, quelli lì. Almeno due stelle ormai le hanno perse per strada. Adesso si sono pure uniti con Sel: sono tremendi. Hanno totalmente perso l’imparzialità.
E voi, invece, l’avete ritrovata.
Certo, noi e il Pd siamo come l’anima e il corpo.
Socializzate anche nel tempo libero?
Per forza. Le cene sono inevitabili. Se devi trattare temi alti finisci per frequentarti, per stringere rapporti genuini. Magari ancora non sono diventate vere amicizie, ma capiterà.
Intanto sbocciano sempre più amori bipartisan.
Quello era successo durante l’ultima legislatura, con Nunzia De Girolamo e Francesco Boccia. Sa, gli opposti si attraggono. Però effettivamente ora si attraggono pure i simili... A pensarci bene è piuttosto destabilizzante.

il Fatto 4.6.13
Maggioranza Tv
Governissimi talk show. Le opposizioni non ci sono
di Ferruccio Sansa


Il Paese è cambiato. I talk show ancora no. Guardate un qualsiasi studio televisivo: da una parte il politico di centrosinistra con giornalista simpatizzante accanto. Dall’altra un berlusconiano con cronista al seguito. Procedono sempre insieme, in simbiosi come l’attinia e il pesce pagliaccio (o, in qualche caso, squalo e pesce pilota).
Ma nessuno sembra essersi accorto di una cosa: non ci sono più maggioranza e opposizione, non esistono più avversari, soltanto alleati. Il grande sogno della politica italiana, il volemose bene diventato regola universale: l’opposizione è abolita. Semplice, geniale, chissà perché non ci si è pensato prima.
Però almeno una controindicazione c’è: i talk show. Già, una volta gli italiani dopo aver passato la giornata a litigare con capi ufficio, mogli e mariti si sedevano stremati davanti alla televisione e con un pizzico di masochismo assistevano all’ennesima lite tra esponenti di centrosinistra e centrodestra. Certo, a volte ti veniva il dubbio che fosse tutta una recita, un po’ come la commedia delle maschere dove bisogna indossare gli abiti di Arlecchino o Brighella. Ma poco importa: in mancanza di una partita di campionato, Champions o perfino promozione, si poteva sfogare il tifo indossando il doppiopetto di Berlusconi o la giacca e cravatta di D’Alema. Un’ora di botte e risposte e potevi cullarti nell’illusione di avere ancora uno straccio di ideale e di appartenenza.
ADESSO È TUTTO FINITO. Senza quasi che ce ne accorgessimo. Giustizia, ambiente, lavoro. Senti la stessa cosa declinata in dieci modi diversi: come un concerto in cui ogni strumento suona lo stesso spartito, una mostra d’arte dove tutti i pittori ritraggono lo stesso paesaggio. Cambia qualche ombra, una tinta, ma il soggetto è sempre uguale. Insomma, tutti uniti. Un flirt scoppiato ai tempi della legge anticorruzione con i deputati Pdl che facevano scudo per difendere la norma salva-Berlusconi e gli “avversari” del Pd che spiegavano l’utilità della norma (di sicuro per la prescrizione di Filippo Penati). Ma l’outing avviene con il governo Letta. Basta guardare la puntata di Porta a Porta sull’ineleggibilità di Berlusconi. Roba da antologia: se ascolti a occhi chiusi fai fatica a distinguere il rappresentante del Pd da quello del Pdl. E infatti il luci-ferino Bruno Vespa ha precorso i tempi mettendo tutti dalla stessa parte. Che dire poi delle serate di Omnibus su La7, dove si possono incontrare Fabrizio Cicchitto, David Sassoli e Gianluca Susta di Scelta Civica tutti cinguettanti. “Non commentiamo le sentenze”, questa è la linea. Già, ormai c’è addirittura una linea comune.
E la rabbia – vera o finta che fosse una volta gonfiava le vene delle tempie? Sparita, o quasi. C’è un solo obiettivo: il Movimento Cinque Stelle.
Ecco allora il deputato Pd Anna Ascani, che con i suoi 25 anni ti aspetti possa spaccare il mondo da un momento all’altro. Ad Agorà trova davanti Renata Polverini che dopo i casini della Regione Lazio all’estero non comparirebbe più nemmeno alle riunioni di condominio (e invece in Italia è parlamentare). Dai Ascani, facce vede’ chi sei. Invece eccole all’unisono scagliarsi verso il vero nemico: Grillo. Mezz’ora filata di attacchi ad alzo zero contro il grande assente. No, Grillo e i suoi devono andare in televisione. Per pietà, fatevi avanti! Se non per conservare almeno un brandello di opposizione; se non per mettere un argine all’alleanza senza freni che ormai abbraccia partiti, finanza, gerarchie ecclesiastiche e buona parte della stampa; se non per questo almeno per salvare i talk show, per non farci addormentare alle nove di sera con le parole crociate sulle ginocchia. Ma intanto cambiamo i talk show. Non tanto, almeno la disposizione delle poltrone: mettiamole tutte dalla stessa parte. E dall’altra parte... il vuoto.

il Fatto 4.6.13
Inciucio e occasioni perdute
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, le chiedo: per una situazione politica come quella creata da questo governo, quando si può, e si deve, parlare di intesa politica parlamentare e quando, invece, di “inciucio”?
Gabriele

CARO FURIO COLOMBO, Leonardo Sciascia , quando si candidò nel 1975 disse: “Credere che non si possa governare l’Italia senza la Dc è toccare il fondo del pessimismo”. Mi sembra che adesso stiamo andando ben oltre il fondo del pessimismo.
Massimo

LE DUE LETTERE, insieme, ne rappresentano moltissime altre. Vuol dire – credo – che la perplessità di tanti per qualcosa che è difficile da capire si aggiunge alla netta repulsione di tanti altri (quasi tutti leali elettori del Pd profondamente delusi) che non riescono ad accettare questo tipo di gioco. Credo di poter dire al primo lettore che “l’inciucio” è una cosa squallida ma semplice (un accordo furbo e un po’ truffaldino che conviene ai contraenti) mentre ciò che sta accadendo in Italia, dal dopo voto in poi, è più complicato. Una serie di occasioni mancate (il non incarico a Bersani, la non elezione di Prodi, il rifiuto contro Rodotà) ha portato all’impossibilità di un governo normale e spinto alla necessità di credere in una alleanza che danneggia gravemente una delle parti (il Pd, la sua immagine, quel che resta della sua reputazione) ed è quasi completamente affidata agli umori e interessi del Pdl. Anzi, non del Pdl, ma di Berlusconi. E qui sta, come accade in Italia da vent’anni, il punto di squilibrio. Noi non stiamo discutendo di un Paese normale in cui, in condizioni di emergenza, può sempre accadere che parti contrapposte decidano, per necessità, di governare temporaneamente insieme. Qui la forza (strana e non sempre chiara) degli eventi ha spinto il principale partito di opposizione a governare assieme a Berlusconi, principale problema del Paese, assumendo, quindi, la responsabilità della reputazione devastata e devastante di Berlusconi. Per giunta il disorientante confluire insieme (che non può non avere colpito in modo grave e negativo gli elettori Pd), che in un primo tempo è apparso “d’emergenza”, si è rapidamente assestato in un fatto normale, un governo che si muove con la disinvoltura di chi ha davvero il sostegno dei cittadini, e non solo non ha fatto una lista di urgenze-emergenze da affrontare subito ma – benché non presenti piani e soluzioni – mostra l’intenzione di governare a lungo termine. Siamo dunque di fronte a uno spettacolo di normalità dietro cui tutto è finto e staccato dal Paese. Brutto segno specialmente se Berlusconi dovesse decidere (comunque tocca a lui) di votare presto, e senza cambiare nessuna delle sue pessime leggi.

Repubblica 4.6.13
Pd, spunta il referendum sul presidenzialismo
Due mozioni in direzione: votino i militanti. D’Alema: al Colle meglio un garante
di Giovanna Casadio


ROMA — Uno slalom oggi per Epifani. Il neo segretario del Pd, alla sua prima direzione, afferma che dedicherà tutta la mattinata pre-riunione a calibrare la relazione, così da assicurare la non belligeranza nel partito sulla scelta-clou: semi presidenzialismo sì (d’accordo con Alfano), oppure assolutamente no. La conta democratica è iniziata. Beppe Fioroni, leader degli ex popolari, schierato tra i dubbiosi, presenterà un ordine del giorno per chiedere un referendum nei circoli. «Noi siamo il partito della Costituzione, dobbiamo coinvolgere militanti ed elettori», ripete. Un altro ordine del giorno è stato preparato da Cesare Damiano e Vannino Chiti: anche loro per un referendum largo, che coinvolga il popolo delle primarie.
L’elezione diretta del presidente della Repubblica insomma è il “convitato di pietra” della Direzione, a cui Matteo Renzi, il sindaco “rottamatore”, sarà presente. Renzi — come Veltroni, Chiamparino e Prodi — è favorevole al presidenzialismo; Bersani e Bindi assolutamente contrari. Come del resto Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria al prossimo congresso, e tutta la “gauche”, i cosiddetti “giovani turchi”. «Ad oggi non ci sono le condizioni per il presidenzialismo», osserva Cuperlo, invocando cautela. Lo stesso D’Alema frena: «Meglio avere un capo dello Stato al di sopra delle parti». Epifani ha già detto che «non ha preclusioni», e però sono necessari contrappesi, a partire dalla legge sul conflitto d’interessi.
Dovrebbe oggi rinviare tutto ad una assise ad hoc, proprio perché sulla Costituzione non si scherza.
Intanto il segretario democratico attacca i partiti personali: «In Italia, tolto il Pd, abbiamo una serie di partiti personali che, lo dico con rispetto nei confronti dei loro leader, sono i partiti più anti democratici che esistono, perché dipendono dai destini del leader». Ma c’è molta carne al fuoco nella direzione, dove si avvierà il percorso per il congresso (entro la fine dell’anno). Pippo Civati e molti altri vorrebbero accelerare, temendo una sorta di melina, per non affrontare i “nodi” del Pd e per non disturbare il governo Letta. Sergio Chiamparino — che ha congelato la sua candidatura alla segreteria — bacchetta: «Serve una visione nuova della sinistra e un’identità nuova: i Democratici alle ultime elezioni hanno sbagliato un rigore in cui il portiere aveva le mani legate dietro la schiena. Oggi non c’è un partito in grado di offrire visione e speranza». L’ex sindaco di Torino minimizza la sua disaffezione al Pd: «Non è che ci sia un bando per il congresso... », e condivide la posizione veltroniana sulle riforme, ovvero di trovare soluzioni contro la demagogia.
Per Epifani si tratta di affidare oggi i nuovi incarichi: si parla di Enzo Amendola, Marco Meloni, Cecilia Carmassi, Pina Picierno, anche se nel posto che fu del bersaniano Migliavacca potrebbe andare Davide Zoggia (in nome della continuità) oppure il renziano Luca Lotti. E in direzione piomba la vicenda dei 200 dipendenti che il partito potrebbe mettere in cassa integrazione o licenziare, quando l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti diventerà legge. La riunione oggi dovrà approvare anche il bilancio del Pd, che Antonio Misiani, il tesoriere, ha spiegato essere già in rosso per 8 milioni. I lavoratori del partito hanno preparato un documento con quello che chiamano il “piano b”: i dirigenti e i parlamentari si autotassino in una sorta di contratto di solidarietà per mettere al riparo i posti di lavoro.
La vera sfida è comunque in vista del congresso e della segreteria. Renzi dovrà decidere se gli convenga candidarsi, invece di attendere le primarie per la premiership. La commissione per il congresso dovrà valutare anche se si affronterà una modifica dello Statuto. Epifani insiste: «D’accordo il partito leggero, ma con identità e valori forti».

Repubblica 4.6.13
Rosy Bindi: non abbiamo potere costituente, solo quello di far funzionare l’impianto dei “padri”
“Addolorata dal premier e da Prodi è una scelta che stravolge la Carta”
Il calvario per l’elezione del capo dello Stato non fu colpa della Costituzione ma degli errori del Pd
Al primo posto mettiamo piuttosto il conflitto d’interessi. Vediamo se il centrodestra ci sta
intervista di Giovanna Casadio


ROMA — «Io non scambio il governo Letta e la sua tenuta con la Costituzione, che deve durare ben oltre le larghe intese».
Rosy Bindi, ha ricominciato a dare battaglia?
«Se la coerenza in politica è ancora un valore, faccio la battaglia che considero giusta per la Costituzione e che ho sempre fatto quando qualcuno ha cercato di indebolire e stravolgere la Carta. Ora, se vogliamo, ci sono le condizioni per le riforme di revisione costituzionale indispensabili perché funzioni la nostra democrazia».
Però lei è contraria sia al presidenzialismo che al semi presidenzialismo?
«Premetto che noi come Parlamento non abbiamo un potere costituente, ma solo di revisione della Costituzione, cioè non possiamo dare alla Carta un impianto completamente nuovo rispetto alla Costituente del 1946. Possiamo invece intervenire per rendere funzionante quell’impianto, le scelte che sono state compiute. E la nostra è una democrazia parlamentare».
Che però funziona male?
«Con il bicameralismo perfetto e mille parlamentari, con una riforma federalista incompleta, con il cambiamento delle leggi elettorali in senso maggioritario, senza pesi e contrappesi, il nostro assetto democratico non funziona. Cambiamenti quindi sì, ma per rendere efficiente la forma di governo e di Stato nella cornice costituzionale. Il Pd è stato in prima linea in questi anni contro i tentativi di stravolgere la Costituzione e ha vinto un referendum contro la destra. L’Assemblea del partito nel 2011 ha detto “no” a ogni forma di presidenzialismo e ha avanzato la proposta del modello tedesco con il cancellierato e la sfiducia costruttiva per rafforzare il capo del governo e rendere più funzionante il Parlamento».
Ma adesso il Pd ha cambiato opinione?
«Vedo prese di posizione anche molto autorevoli, che sembrano andare in senso opposto».
Come quella di Prodi?
«Penso al segretario Epifani; al presidente del Consiglio Enrico Letta che si è lasciato scappare che mai più eleggeremo in parlamento un presidente della Repubblica. Penso a Veltroni. C’è stata anche la presa di posizione di Prodi, che mi addolora in modo particolare. Ma non cambio idea».
Perché?
«La scelta del semi presidenzialismo è quella più innaturale per la nostra Costituzione e per il nostro paese».
Per via di Berlusconi e del rischio “caudillo”?
«Se diventa un’altra battaglia anti berlusconiana punto e basta, è più difficile vincerla. Il nostro è un paese che in questi anni ha visto crescere spinte populiste e tentazioni plebiscitarie, nel quale manca la legge sul conflitto d’interessi. Con il semi presidenzialismo alla francese, indeboliremmo la figura di garanzia del capo dello Stato, che non avrebbe più quel profilo di garante che è un capolavoro della nostra Carta. Renderemmo marginali il Parlamento e il capo del governo. Proporrei di fare come prima riforma il conflitto d’interessi in Costituzione. Vediamo se il centrodestra ci sta, e mettiamo poi mano al resto».
Sempre senza introdurre il semi presidenzialismo?
«In un paese così diviso, con una corruzione così forte, con un rischio di criminalità invasiva abbiamo bisogno di rafforzare la democrazia parlamentare e partecipativa, non di prendere la scorciatoia del presidenzialismo. Invocando questo tipo di riforma istituzionale, rischiamo - è l’errore dell’affermazione di Letta - di pensare che la settimana di calvario per l’ultima elezione del capo dello Stato sia dipesa dalla mancata riforma della Costituzione. No. La responsabilità è stata dell’inadeguatezza delle forze politiche e degli errori del Pd».
I partiti sono deboli?
«Vanno rafforzati e riformati profondamente».
È favorevole all’abrogazione del finanziamento pubblico?
«Ritengo sia una sferzata utile. Però dobbiamo stare in Europa dove ovunque ci sono forme di finanziamento pubblico».

Repubblica 4.6.13
L’ira del Cavaliere nel fortino Arcore “Il Quirinale adesso deve difendermi”
Il centrodestra: sentenze politiche, mobiliteremo i cittadini
di Carmelo Lopapa


ROMA — «Ho fatto tanto per pacificare questo Paese e ridargli un governo dopo lo stallo e ora assistono tutti in silenzio al tentativo di farmi fuori, non una reazione dalla Consulta né dal Colle». Nube nera come una cappa, su Arcore, e non è solo affare di meteo. Il clima è assai cupo, anche al pranzo di Silvio Berlusconi con i figli e i vertici Mediaset, al rientro dalla Sardegna.
Il dibattito politico sulle riforme e il presidenzialismo, visto dalla Brianza, appare lunare, lontanissimo. La settimana di relax è già cancellata, sul Cavaliere ha il sopravvento la preoccupazione che diventa ansia, in vista del pronunciamento «decisivo» della Corte Costituzionale del 19 giugno sul legittimo impedimento al processo Mediaset. L’esito negativo potrebbe aprire alla conferma della condanna in Cassazione e all’interdizione. Ecco perché quella decisione è attesa ben più che la sentenza Ruby di primo grado del 24 giugno. A Villa San Martino nel pomeriggio arriva Nicolò Ghedini, dopo l’arringa difensiva tenuta in mattinata in aula. Sia lui che Longo gli hanno spiegato che con molta probabilità la Corte negherà la sussistenza del legittimo impedimento o al più la riconoscerà, ma non tale da vanificare il processo Mediaset ormai approdato in Cassazione. Allora l’esasperazione avrà varcato il segno. Berlusconi confessa tutta la sua delusione, chiamando in causa «gli arbitri che restano a guardare». Non si attende certo un intervento del capo dello Stato o di chicchessia per bloccare sentenze ormai imminenti, spiega chi gli ha parlato nelle ultime 24 ore. «Ma se c’è la volontà e si riconosce l’accanimento, il modo per impedirlo si trova» è il suo ragionamento. «Napolitano è un grande presidente, siamo felici di averlo rieletto, ma il suo silenzio e l’immobilismo della Consulta pesano». Il leader Pdl nei lunghi e amari sfoghi ne fa una questione anche politica. «Mi sono battuto per ridare un governo al Paese, a fronte di tanti sacrifici nessuna forza politica ha nulla da ridire sul tentativo di farmi fuori?» E poi, ci sono i tentennamenti sulla cancellazione dell’Imu a mal disporre l’ex premier nei confronti del governo.
Delusione e rabbia. E in questo clima agisce da detonatore l’ultimo report consegnato ieri dalla sondaggista Alessandra Ghisleri, che riconosce al Pdl oltre il 28 per cento dei consensi e al centrodestra (prima coalizione) il 36, con Grillo in calo e tutti i partiti di governo in crescita. Cosa accadrà dunque dopo il pronunciamento della Corte del 19 sul legittimo impedimento? Berlusconi continua a dire ai suoi figli e ai vertici Mediaset che tenere in vita questo governo è una polizza per le aziende, basta scorrere i titoli in Borsa dalla fiducia del 29 aprile ad oggi. Detto questo, nessuno dei dirigenti di Via dell’Umiltà si sente ora di scommettere un euro sul fatto che le decisioni giudiziarie non avranno ricadute sugli equilibri politici e di governo. Cosa accadrà a fine mese, dicono un po’ tutti i pidiellini, non è dato sapere.
In realtà, neanche al capo è chiarissimo. Mario Mantovani, coordinatore lombardo ieri dimessosi da senatore, è tranchant: «Un’eventuale condanna sarebbe totalmente politica e di fronte a sentenze politiche mobiliteremo i cittadini contro i magistrati politicizzati». Al partito sperano tutti di sapere qualcosa in più questa sera. Dopo dieci giorni di black-out, Berlusconi rientra oggi a Roma e potrebbe riunire il partito a Grazioli in serata. Anche se il restyling del Pdl in versione Usa, sponsorizzata dai falchi, resta in stand by. «Spero che le indiscrezioni sulla rinascita di Forza Italia siano vere» dice la sottosegretaria Michaela Biancofiore. Di certo, il leader non terrà il comizio di chiusura né comparirà in strada al fianco del candidato sindaco di Roma Gianni Alemanno. Per lui, registrerà oggi uno spot e delle interviste con tv locali.

La Stampa 4.6.13
Marc Lazar: improbabile che l’Italia diventi semi-presidenziale
“Fascismo e fattore B sono ostacoli seri”
I limiti del doppio turno: «Da noi ne discutiamo molto Esclude le minoranze e polarizza le posizioni»"
intervista di Alberto Mattioli


Rifare l’Italia ispirandosi alla Quinta Repubblica francese? Presidenzialismo e legge elettorale a doppio turno? Il più italiano dei politologi francesi è scettico. «Sono vent’anni che se ne parla, e ho perso il conto dei convegni...», sorride Marc Lazar, professore a Sciences-Po e alla Luiss.
Lazar, potrebbe essere la volta buona...
«Ma la V Repubblica nacque, nel 1958, da circostanze eccezionali, da quel trauma terribile che fu la guerra d’Algeria. Una parte consistente della classe politica, specie di gauche, era contraria. E ancora di più quando, nel ’62, un referendum sancì l’elezione diretta del Presidente. Si parlò di plebiscito. Del resto, lo stesso De Gaulle diceva che con la sua costituzione aveva fatto la sintesi fra la Repubblica e la Monarchia».
In più, in Italia manca un De Gaulle.
«E’ significativo notare che nel 1958 quasi tutti i partiti italiani, non solo quelli di sinistra ma anche la Dc, criticarono la Quinta Repubblica francese. In Italia c’era, e c’è, una diffusa perplessità sul presidenzialismo. Per almeno tre ragioni».
Elenchi.
«Il ricordo del fascismo, che fa diffidare di un esecutivo troppo forte. Seconda: la forte tradizione parlamentare, un parlamentarismo “integrale” con un bicameralismo perfetto. Terza: il fattore B».
B come Berlusconi.
«A sinistra fa paura un’elezione presidenziale che diventa un plebiscito su Berlusconi. E del resto fra i berlusconiani più raffinati c’è sempre stata l’idea che lui possa assumere il ruolo di un De Gaulle italiano, l’uomo che sblocca un sistema bloccato».
Anche il sistema elettorale a doppio turno, in questo momento, piace molto alla pubblica opinione italiana.
«Se ne vedono solo i vantaggi, che sono essenzialmente due. Il primo è, ovviamente, che garantisce la governabilità, perché determina maggioranze forti. Il secondo, che in ogni collegio c’è un rapporto molto stretto fra eletto ed elettori, cioè quel che manca oggi in Italia con il porcellum. Ciò detto, ci sono anche degli svantaggi».
Quali?
«Intanto, il sistema non rappresenta le minoranze. Pensiamo al Front national, che con il 17% dei voti ha portato all’Assemblée due deputati in tutto. E poi le posizioni si radicalizzano. Bisogna scegliere: destra o sinistra, in mezzo non c’è posto. In Francia questi inconvenienti sono molto discussi e infatti nel programma di Hollande c’era l’introduzione di una dose di proporzionale. Per il momento, però, non se n’è fatto nulla».
Il pacchetto francese è spacchettabile? In altri termini, è possibile il presidenzialismo conservando la proporzionale?
«Secondo me, no. La dimostrazione la si è avuta nel 1986, quando Mitterrand cambiò la legge elettorale. Allora si vide molto bene che con la proporzionale il sistema si inceppava. E si tornò al maggioritario».
Il presidenzialismo alla francese non è troppo legato alla personalità del Presidente?
«Sì, richiede dei leader in qualche modo carismatici. Ha funzionato bene con De Gaulle, Giscard e Mitterrand. Molto meno con Pompidou e Chirac. E anche Hollande ha dovuto rendersi conto che la sua vagheggiata “presidenza normale” è in realtà incompatibile con le istituzioni della Quinta Repubblica».
Figuriamoci il Pd che produce un leader carismatico...
«Anche in Francia la sinistra ci ha messo molto tempo ad adattarsi al presidenzialismo, che in fondo è lontano dai suoi valori. Ci è arrivata soltanto con Mitterrand e ancor oggi è la gauche della gauche a chiedere una Sesta Repubblica».
Insomma, l’Italia non diventerà una Repubblica presidenziale.
«Diciamo che mi sembra molto improbabile».

l’Unità 4.6.13
Sette domande al Pd sullo stop agli F35
di Chiara Ingrao


CARO DEPUTATO/A DEL PD, CON IL SOSTEGNO DI 80.000 FIRME, E DI 650 ASSOCIAZIONI E 50 ENTI LOCALI, 158 TUOI COLLEGHI e colleghe (14 dei quali del tuo gruppo) hanno sottoscritto una mozione per interrompere la partecipazione italiana al programma di acquisizione e costruzione dei cacciabombardieri F35. Non è ancora nota la posizione ufficiale del Pd, quindi mi permetto di rivolgerti alcune domande.
1. Bersani affermava in campagna elettorale che «il lavoro viene prima degli F35»: il Pd mantiene ancora questa posizione o l’ha mutata, e perché?
2. Per l’Italia il costo complessivo del programma F35 è 14 miliardi di euro, e lo stanziamento 2013 per gli investimenti in sistemi d’arma (F35 e sommergibili U-212) è oltre 5 miliardi e 200 milioni di euro. Ritieni che siano cifre sostenibili, in un Paese in cui si stenta a trovare risorse per cassa integrazione, scuola, lavoro?
3. Il ministro Mauro ha dichiarato che gli F35, aerei armati anche di ordigni nucleari, sono «uno strumento di pace» necessario per la difesa. Si tratta di una posizione decisa collegialmente dal governo, e quando? Quale posizione hanno preso i ministri del Pd, e sulla base di quale mandato?
4. Molti Paesi partner del programma (Canada, Gran Bretagna, Danimarca, Olanda, Australia, Norvegia) stanno rivedendo la scelta degli F35, o l’hanno rinviata. Il Gao (la Corte dei Conti Usa) ha criticato le spese folli per un cacciabombardiere che presenta molti problemi tecnici (vulnerabilità ai fulmini, problemi al motore e al casco del pilota, ecc), documentati peraltro anche da un’inchiesta della Rai. Non servirebbe un supplemento di riflessione anche in Italia?
5. La mozione parlamentare chiede di destinare le somme oggi previste per gli F35 ad un piano di investimenti per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la tutela del territorio dal rischio idro-geologico, l’apertura di asili nido. Tale piano garantirebbe decine di migliaia di posti di lavoro, a fronte delle poche centinaia previsti per la costruzione degli F35. Il Pd ritiene più urgenti questi investimenti, o l’acquisizione di cacciabombardieri?
6. Durante la campagna elettorale anche Berlusconi dichiarò che agli F35 si può rinunciare: il Pdl non farà cadere il governo per difendere lo sperpero di 14 miliardi. Non credi che su questo tema valga la pena di far valere l’autonomia del Parlamento?
7. Non ritieni che questioni di così grande portata richiedano una trasparenza del dibattito e del percorso decisionale, e che dunque il Pd debba incontrare al più presto i firmatari della mozione e le associazioni che la sostengono, per ascoltarne e valutarne le ragioni? Tutto qui. Attendo con fiducia le tue risposte, non tanto a me, ma all’opinione pubblica e al tuo stesso elettorato.

Corriere 4.6.13
Roma, se il Comune paga 106 milioni d'affitto
Il paradosso: è costretto a occupare immobili privati mentre concede case e bar a in centro a prezzi stracciati
di Sergio Rizzo

qui

L’Unità on line 1.4.13
Psichiatri: «Femminicidio, c'è troppa tolleranza sulle minacce»


«Solo il 5% delle persone imputate di omicidio sono dichiarate inferme di mente, il restante 95% sono capaci di intendere e volere ed esprimono in maniera prevaricante e prepotente la loro sopraffazione o intolleranza nel non riuscire a possedere il proprio oggettò di amore, aggravate da aspetti di insensibilità nei confronti dell'altro, di ipocrisia e di menzogna». Lo afferma il direttore del dipartimento di neuroscienze dell'Ospedale Fatebenefratelli di Milano nonchè presidente della Società Italiana di Psichiatria, Claudio Mencacci, secondo cui le giustificazioni anche psicologiche creano più vittime ed è perciò fondamentale mettere in campo più prevenzione e meno tolleranza.
Donne innocenti, vittime della ferocia maschile ormai quasi quotidiana, dimostrano che gli uomini uccidono molto di più (e poi eventualmente si suicidano) con un un rapporto di 9:1.
Alla base dei fenomeni di violenza, i più recenti studi scientifici hanno individuato 130 possibili variabili, ma di fatto i detonatori sono prevalentemente i fattori socio economici, ambientali e culturali acuiti dalla crisi economica e dall'uso di alcol e stupefacenti. «Si tratta, il più delle volte, di individui con personalità antisociale - aggiunge Mencacci, in occasione del convegno "Disturbi affettivi tra ospedale e territorio" - e con una storia personale di comportamenti violenti che nulla hanno a che fare con problematiche o disturbi mentali». Per questo - secondo gli psichiatri - «gli apparati giudiziari e le forze dell'ordine non possono più permettersi superficialità, non è più possibile trovarsi di fronte ad un omicidio magari dopo anni di segnalazioni senza che vi sia stato alcun intervento serio dell'autorità giudiziaria. Occorre intervenire prima, subito, e con decisione, per evitare morti insensate».

l’Unità 4.6.13
Ankara sulle barricate Erdogan: non è primavera
Annunciate le prime due vittime ufficiali
Il sindacato dei lavoratori pubblici aderisce alla protesta
Il presidente Gul: «Messaggio ricevuto»
di Umberto De Giovannangeli


Non solo lacrimogeni. Ora anche auto scagliate contro i manifestanti. La «primavera turca» si tinge di sangue. Non si placa ancora la rivolta in Turchia, che entra ormai nel quarto giorno. E si contano i primi morti ufficiali: un taxi si è lanciato contro la folla che occupava una super strada, a Istanbul. Un ventenne Mehmet Ayvalitas, che faceva parte di un’associazione politica di sinistra è deceduto e quattro altri ragazzi sono rimasti feriti. A renderlo noto è l’associazione dei medici turchi Tbb. Morto anche un altro giovane ferito da un colpo d’arma da fuoco alla testa durante le proteste contro il governo di Tayyip Erdogan. Lo ha riferito il segretario generale della Fondazione turca per i diritti umani, Metin Bakkalci, da Ankara. «Il giovane si chiama Ethem Sarisuluk ed è stato raggiunto da un colpo di pistola alla testa», ha spiegato Bakkalci. La notizia, con la fotografia del corpo inerte a terra, ha iniziato a circolare ieri mattina sui social network.
Manifestazioni di protesta si sono ripetute anche ad Ankara e Smirne: il bilancio di quella che è diventata una vera e propria rivolta parla ormai di almeno due morti oltre 1000 feriti e di 1700 arresti. Oltre mille manifestanti avrebbero subìto da parte della polizia «maltrattamenti e torture». È quanto denuncia la Fondazione per i diritti umani della Turchia (Tihv), organizzazione non governativa che si occupa di documentare le violazioni di diritti umani nel Paese. I manifestanti, che chiedono le dimissioni del premier, denunciano la «censura» esercitata nei confronti del movimento di protesta da parte delle principali tv turche, che accusano di obbedire alle direttive del governo, e affermano che i collegamenti con internet spesso vengono interrotti nelle aree in cui monta la protesta. «Ne abbiamo abbastanza di quella che Erdogan considera democrazia e del modo in cui vuole dettare le regole», dice Ozgur Aksoy, giovane ingegnere, tra i protagonisti della protesta a a Gezi Park. «Non è solo questo parco, è tutto quel che è accaduto negli ultimi dieci anni. La gente è arrabbiata, molto arrabbiata», dice.
AVVERTIMENTO
A fianco dei giovani di Gezi Park si schierano i sindacati. Uno dei sindacati più grandi della Turchia ha proclamato uno sciopero di 48 ore. Si tratta, ha spiegato la Confederazione sindacale dei lavoratori pubblici (Kesk, che ha 200.000 iscritti), di uno «sciopero di avvertimento» al governo contro «lo stato di terrore applicato contro i numerosi manifestanti». «È da sette giorni che la gente è nelle strade e i sindacati sono chiamati a dire la propria», afferma il segretario generale del Kesk, Ismail Hakki Tombul, che ha invitato le altre organizzazioni dei lavoratori ad aderire alla protesta.
Ma la piazza non smuove Erdogan.
In partenza per un viaggio in Marocco, Algeria e Tunisia, il premier ha parlato in conferenza stampa, riservando risposte particolarmente dure soprattutto nei riguardi di chi ha osato paragonare le proteste in Turchia con la «Primavera araba». «Quelli che dicono che è in corso una Primavera turca non conoscono la Turchia». Il premier ha duramente respinto le accuse di coloro che parlano di una deriva autoritaria in Turchia, dichiarando di essere stato democraticamente eletto e chiedendo ai giornalisti se anche «nei Paesi della primavera araba» esistesse «un sistema multi partitico» come in Turchia». È un fiume in piena, Erdogan. Sempre in diretta esplosiva sentenzia: «Twitter è una minaccia per la società». Un’affermazione che già da sola spiega la rivolta turca.
Dagli Stati Uniti arrivano inviti alla calma. Il segretario di Stato manifesta la preoccupazione Usa «per l’uso eccessivo della forza». A vestire i panni della «colomba» è Abdullah Gul. Il presidente turco difende il diritto dei cittadini a manifestare. «Quando parliamo di democrazia, di certo il volere del popolo è prima di tutto. Ma la democrazia non significa solo elezioni», rimarca in implicita polemica con Erdogan. «Le opinioni di quanti hanno buone intenzioni sono state lette, viste e annotate, il messaggio è stato ricevuto», prosegue Gul. I duri scontri degli ultimi tre giorni e la situazione di alta tensione nel Paese hanno fatto registrare un forte calo della borsa di Istanbul, a -6,43% alla riapertura ieri mattina, e della lira turca, scesa al livello più basso da un anno e mezzo rispetto al dollaro.
In serata piazza Taksim torna a riempirsi, nonostante un imponente schieramento di polizia. «Non perdoneremo quello che avete fatto», gridano centinaia di giovani, «la storia ci renderà giustizia».

l’Unità 4.6.13
La sharia soft che terrorizza la Turchia laica
Non sono solo i faraonici progetti urbanistici Dietro alle manifestazioni, il timore che l’islam moderato sia solo una facciata
di U.D.G.


Giovani delle periferie e studenti universitari. Ultras di calcio e attivisti di ong. Percorsi diversi, ma con un con un denominatore comune: il rifiuto di un potere che sentono autoritario e invadente nelle loro vite. In questo i giovani turchi di Piazza Taksim assomigliano tanto ai loro coetanei egiziani di Piazza Tahrir e ai giovani tunisini in prima fila nella «rivoluzione jasmine». In un mondo globalizzato, i giovani di Piazza Taksim pretendono una globalizzazione dei diritti. E non accettano compromessi. Questa rivolta consiste nella lotta contro le politiche del governo, nella paura che si possa andare alla deriva verso una Repubblica Islamica, nella perdita delle libertà di cui l’attuale Costituzione, frutto di una guerra di liberazione, è diretta emanazione e garanzia. L’Ataturk Cultural Center, anch’esso in Taksim Square, dev’essere demolito, annuncia il premier Erdogan. Il messaggio è chiaro a tutti: Ataturk è stato il fondatore della Repubblica e, nonostante la sua figura sia controversa, rimane il simbolo di una Turchia che guarda a Occidente, ispirata da valori democratici. Gli oppositori poi accusano l’Akp, il partito di Erdogan, di essere troppo vicino a una classe di imprenditori che ha trovato fortuna parallelamente all’ascesa del partito islamista: quella dei costruttori. Gezi Park è al centro di un’ennesima speculazione immobiliare a Istanbul: al suo posto è prevista la costruzione di un nuovo centro commerciale. Per non parlare della maxi moschea, che sorgerà su una collina che sovrasta la parte asiatica di Istanbul e getterà la sua ombra sui gioielli dell’architettura religiosa ottomana in città.
Ma non è che il minore dei progetti faraonici promossi dall’ex sindaco Erdogan per la città sul Bosforo, dopo il terzo aeroporto, che dovrebbe accogliere 150 milioni di passeggeri l’anno, il terzo ponte sul Bosforo, che sorgerà in un’area poco abitata, passibile di nuova forte urbanizzazione, e il canale parallelo allo stretto, destinato ad alleggerire il traffico delle petroliere in città.
GAMBE IN MOSTRA
Non è solo questo. È anche il crescente martellamento contro i capisaldi di una società laica: nel 2004 l’Akp ha tentato invano di far approvare una norma che qualifica l’adulterio come reato, lo scorso anno Erdogan ha provocato l’indignazione dei gruppi femminili, definendo l’aborto un delitto, e della società civile varando una riforma della scuola che riporta in primo piano le scuole religiose, per l’educazione di future «generazioni devote». I giovani di Piazza Taksim temono che Istanbul si trasformi in una nuova Qom. La provocazione di confrontare la Turchia con l’Iran non è esagerata. Nella Turchia di Erdogan è stato proibito l’alcol, censurato internet. Vietato persino il rossetto rosso per le hostess della Turkish Airlines. Alla protesta contro la distruzione del parco di Istanbul si è unita la protesta delle birre e quella del bacio. Il 24 maggio il Parlamento turco ha approvato una legge che proibisce la vendita di alcol tra le 22 e le 6 del mattino, vieta le pubblicità di bevande alcoliche e impedisce a nuovi negozi, bar e ristoranti che vendono alcolici di aprire nel raggio di 100 metri da scuole e moschee.
Le bevande alcoliche sono state bandite anche dalle pubblicità e da film e telefilm. Il quotidiano laico Milliyet ha parlato del tentativo di introduzione di una sharia (legge islamica) moderata In risposta alle politiche del governo, molti giovani hanno sfidato le autorità e hanno sfilato con bottiglie di birra in mano, che hanno poi depositato lungo le strade. Anche i tentativi di limitare comportamenti considerati moralmente inaccettabili, come il divieto mostrare le gambe femminili nelle pubblicità o di baciarsi nell’area della metropolitana di Ankara, sono stati accolti dai manifestanti come il segno di una svolta fortemente conservatrice, di impronta islamica. Contro cui ribellarsi.

il Fatto 4.6.13
Occupy Taksim e la rabbia di Erdogan
La piazza di Istanbul resiste alla polizia
Almeno due vittime negli scontri
Usa e Ue criticano la strategia del premier turco
di Roberta Zunini


E ora, con i corpi delle prime due vittime ancora caldi - si tratta di due ventenni, uno ucciso da un colpo d’arma da fuoco alla testa, l’altro travolto da un auto mentre tentava di scappare dalle manganellate dei poliziotti - e nuovi scontri in piazza Taksim ma anche nella capitale Ankara dove gli agenti si sono esibiti in performance di una violenza inaudita, arriva il turno dei rettori universitari.
SENZA PIÙ alcun tentativo di nascondere la sua personalità illiberale, ispirata dal micidiale mix “islam e affari”, il premier turco Erdogan, uno dei pochi “statisti” internazionali a essere rimasto amico di B., si è scagliato pubblicamente contro presidi e rettori degli atenei pubblici laici, rei di aver sospeso le sessioni di esami per dare la possibilità agli studenti di continuare a esercitare il loro diritto costituzionale di manifestare nelle strade del paese. Prima di partire per il suo tour lampo nei paesi nordafricani (la cui popolazione araba condivide con i turchi la confessione islamica-sunnita), il premier, durante un intervento tv, ha esplicitamente puntato il dito contro Umran Inan, rettore dell’università Koc di Istanbul. Erdogan ha accusato il rettore “di incentivare i giovani a partecipare alle proteste” e ha ribaltato sull’ateneo le accuse che gli vengono rivolte in questi giorni dagli ambientalisti, affermando che per la costruzione della sua sede sono stati distrutti ettari di foresta. La Koc non è l’unica università ad aver preso posizione.
Nel frattempo le immagini - po-state via internet sul sito di “OccupyGezi” - dei pestaggi e dell’atteggiamento criminale dei poliziotti, filmati di nascosto con un cellulare mentre sparano contro la finestra di un’abitazione o picchiano persone ignare che ammirano le rive del Bosforo, hanno impressionato anche molte star americane, a partire da Madonna. Che ha messo sulla sua pagina Facebook, attraverso Istagram, una foto degli scontri con il commento: “Al via la Rivoluzione dell’Amore! Tolleranza=dignità umana e rispetto”. Anche il famoso regista turco naturalizzato italiano, Ferzan Ozpetek, che sta seguendo tutte le fasi della rivolta nonostante sia molto impegnato sul set del suo nuovo film, ha mandato numerosi tweet, poi ripresi anche da Sabina Guzzanti, Sandro Veronesi e altri nomi noti, in cui denuncia la censura operata dai media. La maggior parte dei giornali e delle tv turchi è alle dipendenze dirette del governo o è filo-governativa.
MA ANCHE i canali all news, apparentemente indipendenti, hanno censurato le manifestazioni mostrando poche immagini e solo di manifestanti incappucciati. Le violenze perpetrate dalla polizia non sono state mandate in onda. Come è avvenuto durante le manifestazioni in piazza Tahrir in Egitto o lungo viale Bourguiba a Tunisi o a Misurata durante la rivoluzione contro Gheddafi, sono i social network, come facebook e twitter a raccontare tutte le fasi della protesta.
Per questo Erdogan si è scagliato contro questi nuovi mezzi di comunicazione difficilmente controllabili. Nel tentativo di mediare tra opposizione laica e il premier, leader del partito islamico moderato, è sceso in campo il presidente della Repubblica, Abdullah Gul, che ha incontrato il segretario del principale partito di opposizione, Partito repubblicano popolare (Chp), Kemal Kilicdaroglu, dichiarando che “democrazia non significa solo elezioni libere”. Parole che non hanno tranquillizzato né l’Europa né la Casa Bianca. La comunità internazionale ha criticato “ la reazione sproporzionata delle forze dell’ordine turche” e la Casa Bianca ha sottolineato che le manifestazioni pacifiche sono vitali per la democrazia.

il Fatto 4.6.13
L’oppositore
“Dalla censura alla repressione”
di Rob. Zun.


È una delle figure più scomode e perseguitate dal premier turco Erdogan, che nella seconda legislatura ha accelerato i suoi obiettivi nazionalisti-religiosi-affaristici per rendere il paese la potenza sunnita egemone in tutti i settori della società mediorientale, soprattutto a scapito della libertà di espressione.
Yildirim Turker è uno dei più noti giornalisti indipendenti finiti sotto processo più volte con l’accusa di “aver offeso l’identità turca, di aver insultato l’esercito e lo Stato”. Amico di Hrat Dink, il giornalista turco-armeno assassinato da un gruppo della destra nazionalista, Turker non si è mai piegato ai voleri del potere, da chiunque fosse rappresentato, e per questo ha pagato e sta pagando, assieme a decine di altri giornalisti e oppositori politici, la sua scelta di tenere la schiena dritta e di fare davvero il proprio mestiere: essere cioè “il cane da guardia del potere”, definizione coniata dal giornalismo anglosassone e sempre meno di moda ovunque, ma soprattutto nella Turchia di oggi. Nazione definita dalle organizzazioni non governative internazionali come Amnesty, la più grande prigione a cielo aperto per i giornalisti dopo la Cina. “ Ho lavorato per 16 anni al giornale Radikal ma dopo aver scritto un’inchiesta su Erdogan, che venne censurata, fui costretto a lasciare la redazione. Da quel momento sono entrato e uscito da una lunga serie di processi”. Turker è stato quasi sempre assolto ma la sua vita professionale ne ha risentito. “Anche perché Erdogan ha comprato praticamente tutti i mezzi di comunicazione, carta stampata e tv. Dal momento che la maggior parte dei magnati dei media hanno progetti estremamente ambiziosi anche in altri ambiti industriali, come la costruzione di autostrade per esempio, hanno bisogno del sostegno della politica per realizzarli e dunque preferiscono licenziare i reporter che scrivono delle collusioni e corruzione”. Secondo Turker, nemmeno durante il potere della giunta militare la stampa è stata così arrendevole. Quello che sta succedendo oggi in Turchia è la prima reazione dell’opinione pubblica dopo almeno un decennio di narcosi dovuta anche a una stampa servile.
“Questo sconvolgimento non è certo scoppiato solo per difendere un parco. “Erdogan sta facendo piazza pulita delle libertà civili: il 24 maggio ha imposto una legge che vieta la vendita di alcolici, li bandisce dalle pubblicità e dai film. Non vuole che le hostess mettano il rossetto e i ragazzi si bacino in pubblico. Ma soprattutto sta cercando di mettere fuori legge conquiste come l’aborto e la libertà di non fare figli anche se si è sposati”. La società laica turca è ancora troppo vigorosa per accettare che il velo venga imposto a poco a poco nelle università, tempio laico degli eredi kemalisti. “Non credo che le folle andranno a casa in un paio di giorni. Tutti i cittadini scesi in piazza continueranno a gridare per settimane: 'Taksim è nostra, questa città è nostra. Anche se di certo Erdogan non smusserà la sua estenuante arroganza”. E se non farà più manganellare pubblicamente i manifestanti, continuerà in privato a mandare i suoi agenti a tacitare chi denuncia gli abusi di potere, suoi e di una classe imprenditorial-giornalistica corrotta.

La Stampa 4.6.13
Reportage
“Noi, i ragazzi di piazza Taksim
Così è nata la rivoluzione”
L’associazione Gezi Parki: l’abbiamo preparata per mesi, andando fra la gente porta a porta
di Marta Ottaviani

qui

La Stampa 4.6.13
“La nuova classe media creata dal premier ora vuole più libertà”
L’analista turco Cagaptay: il benessere non basta
intervista di Maurizio Molinari


«La classe media si rivolta contro il premier Recep Tayyip Erdogan, che è vittima del proprio successo politico»: con questo paradosso il politologo Soner Cagaptay, titolare degli studi sulla Turchia al Washington Istitute e apprezzato analista nei talk show televisivi, interpreta la crisi in atto.
Da dove nascono le proteste?
«Nell’ultimo decennio le politiche economiche dell’Akp, il partito di Erdogan, hanno trasformato la Turchia in una società dove la classe media è diventata maggioranza. Si è alzato il tenore di vita, la povertà è stata arginata, c’è stata crescita economica. Ma adesso tale classe media chiede il rispetto dei diritti individuali, pone al partito al governo la questione di come definire la democrazia».
Perché la rivendicazione di tali diritti emerge adesso?
«Il partito Akp ha varato di recente leggi sulla limitazione della vendita dell’alcol e sulla trasformazione del parco centrale di Istanbul in un centro commerciale che hanno trovato una forte opposizione popolare. Erdogan ha deciso comunque di andare avanti e la percezione della popolazione è stata una voluta carenza di rispetto per i diritti dei singoli cittadini».
Quale può essere l’impatto delle proteste?
«La repressione del sit-in di Istanbul ha portato nel mezzo della notte decine di migliaia di persone a scendere nelle strade e ciò suggerisce che assistiamo alla nascita di una nuova Turchia».
Di che nazione si tratta?
«È una nazione composta da una classe media che crede nei diritti degli individui e dove le élites sono democratiche nel senso che credono in governi legittimati dal voto popolare. Ciò che più conta è che la classe media costruita dall’Akp sta dicendo al partito di governo che democrazia non significa solo vincere le elezioni ma costruire consenso popolare e dunque ascoltare i cittadini, senza forzarli a ingoiare qualsiasi decisione adottata dall’alto. Questo significa che in Turchia la base popolare della democrazia si sta rafforzando».
La Casa Bianca ha chiesto ad Ankara di «contenere l’uso della forza» e «rispettare i diritti dei manifestanti». C’è una crepa nei rapporti finora solidi di Obama con Erdogan?
«Lunedì si sarebbe dovuta svolgere la conferenza del Consiglio AmericaTurchia, uno dei maggiori eventi annuali bilaterali, ma la partecipazione dei ministri turchi all’ultimo minuto è stata cancellata. Ciò lascia intendere che il governo Erdogan ha dei problemi seri di immagine con Washington in questo momento. Credo sia il momento più delicato nei rapporti bilaterali da quando il partito di Erdogan arrivò al governo, nel 2003».

Corriere 4.6.13
«Non è una rivoluzione, siamo una democrazia»

La scrittrice Shafak: «Questo è un Paese con una lunga tradizione di modernità»
di Mo. Ri. Sar.


ISTANBUL — Nel 2010 aveva votato sì al referendum sulla riforma costituzionale voluta da Erdogan, convinta che «il Paese non si stesse affatto islamizzando» e che non ci fosse alcun rischio per la democrazia. Ma oggi Elif Shafak, la scrittrice turca che in Italia è diventata famosa con La bastarda di Istanbul, ammette l'esistenza di «tendenze autoritarie che hanno creato una grande tensione nel Paese». «Sono molto demoralizzata per quello che sta accadendo — dice in un'intervista al Corriere — il comportamento della polizia mi ha molto rattristato». Tuttavia Shafak rimane convinta che questa non sia una rivoluzione: «La Turchia — spiega — è molto diversa da altri Paesi musulmani perché è una democrazia e un Paese secolare, con una lunga tradizione di modernità e occidentalizzazione. Però lo ammetto: questa non è una democrazia matura».
Cosa le manca?
«Abbiamo bisogno di maggior libertà di espressione, i giornali devono poter dire quello che pensano e vanno dati più diritti alle minoranze e alle donne».
Erdogan si professa un sincero democratico e un difensore dello Stato secolare ma alcune decisioni, come la legge sull'alcol, sembrano andare in un'altra direzione.
«Anche i conservatori, quelli che magari non bevono mai, sono preoccupati da questo giro di vite. Il primo ministro addirittura equipara l'alcolismo al consumo occasionale ma così la gente si offende. Moltissimi turchi bevono ogni tanto e non si sentono per nulla alcolizzati, le sfumature sono importanti».
Una parte dell'elettorato sta voltando le spalle al premier?
«Anni fa Erdogan era molto più costruttivo e tollerante. Diceva che sarebbe stato il primo ministro di tutti, anche di quelli che non l'avevano votato. Ora invece sta proteggendo solo quella parte della popolazione che la pensa come lui. Il resto della società, più o meno il 50%, si sente alienato, distante».
L'esempio del velo è emblematico. Il governo ha fatto cadere il divieto a indossarlo nelle università ma ora si ha la sensazione che coprirsi il capo diventi quasi un obbligo. Lo stesso vale per i baci e le effusioni proibite in pubblico. Cosa ne pensa?
«Io appoggio i diritti degli individui senza discriminazioni. Per questo ero contraria a vietare il velo nelle università perché impediva a tante giovani donne di avere un'educazione. Allo stesso modo non vedo perché nella metro di Ankara non ci si possa baciare in pubblico. Lo Stato non può interferire nello stile di vita delle persone. Se difendiamo la democrazia solo quando le persone la pensano come noi allora non siamo democratici».
La protesta è iniziata per difendere piazza Taksim, un simbolo della Turchia laica. Costruire una moschea dove c'è il monumento ad Atatürk non le sembra un affronto?
«Tutto è iniziato con un sit-in pacifico in piazza Taksim, forse non sarebbe successo nulla se la polizia non avesse usato un atteggiamento così violento. È stata quella la miccia che ha innescato la rivolta. Quando vedi le immagini di un blindato che getta acqua e spara lacrimogeni su persone inermi ti sale un moto di sdegno. Molta gente è scesa in strada dopo le violenze. Questo non è un movimento kemalista, questa è la reazione agli errori del governo e delle forze dell'ordine. I manifestanti vengono dagli ambienti più diversi, a muoverli sono il risentimento e la rabbia accumulati in questi anni».

Repubblica 4.6.13
L’eterno ritorno
L’appello di Yehoshua “I palestinesi hanno diritto a riunirsi in una patria”
In un’intervista a “Limes” l’autore israeliano parla di sionismo, di identità e di democrazia
di Cesare Pavoncello


Che posto occupa, Abraham Yehoshua, l'identità nazionale nella singolare nascita di Israele, dopo una diaspora durata 2 mila anni?
«Il popolo ebraico che ha fondato la moderna Israele contiene in sé molto di nuovo, ma anche qualcosa di antico. È stato esiliato dalla sua terra e per quasi due millenni non ha fatto nulla di serio per farvi ritorno: né individualmente, né collettivamente. (...) Ciò fece sì che l'identità ebraica si distaccasse da qualsiasi caratteristica nazionale, riducendosi esclusivamente a identità religiosa. Tutto questo è durato quasi 2.500 anni: anni in cui gli elementi della terra e della lingua ebraica divennero praticamente virtuali. Questo è il poco che restava ai tempi della nascita del movimento sionistico, il quale iniziò a forgiare una nuova identità ebraica».
A cosa si deve questa “resurrezione”?
«Per secoli gli ebrei risiedettero presso le varie nazioni come gruppo che professava una fede diversa; la loro vita non fu sempre semplice e non mancarono le persecuzioni. Tuttavia, non sorse nessun re o papa o governo che propose e tanto meno promosse o attuò l'annientamento del popolo ebraico. Ciò è avvenuto solo nella storia più recente con Hitler. L'antisemitismo iniziò a divenire più virale e pericoloso nel XIX secolo, quando emersero due fattori concomitanti: l'indebolimento dell'identità religiosa, avvenuta in quasi tutte le società europee con il diffondersi delle idee illuministiche fatte proprie anche dagli ebrei, i quali svilupparono la loro Haskalà (Illuminismo ebraico); e la nascita del sionismo, avvenuta più o meno parallelamente ai movimenti nazionali nei vari paesi europei, che gradualmente attrasse consensi nell'ambito ebraico (...)».
Dunque, l'esperienza ideologica del sionismo...
«No, il sionismo non è mai stato un'ideologia. La sua aspirazione – in buona parte realizzata – era far uscire il popolo ebraico dalla innaturale condizione in cui si era trovato nella storia e riportarlo alla normalità: ovvero tornare ad essere un popolo che vive nel proprio Stato, che parla una propria lingua e che è responsabile del proprio destino. Esattamente come i danesi, i norvegesi o gli inglesi. Dentro a questo Stato “norma-le”, ognuno avrebbe potuto promuovere e aderire all'ideologia che più gli si addiceva – religioso o socialista, capitalista, liberale o comunista – sotto un governo che rispondesse alle caratteristiche irrinunciabili di ebraicità e democraticità (...)»
Ma le idee sono concepite da persone in carne ed ossa, che influenzano gli eventi e ne sono a loro volta influenzate. Quale peso ha avuto, e ha, la leadership sionista e israeliana sulla formazione della nuova identità ebraica?
«La leadership sionista ha mostrato chiaramente la strada. La nascita dello Stato di Israele doveva significare l'abbandono di qualsiasi dualismo e l'accettazione dell'esistenza della sola identità israeliana. Con la sua nascita, l'israeliano diventava 'l'ebreo totale': quello cioè che vive nel proprio territorio, parla la propria lingua, gestisce il proprio futuro con un proprio governo. Questo è Israele (...). È questa la struttura identitaria che il sionismo ci ha tramandato e che noi dobbiamo mantenere nella sua sostanza. Con ciò, è chiaro che l'identità di un popolo è un fatto dinamico e l'influenza della leadership è strettamente legata a fattori personali e a circostanze interne ed esterne».
Quale di questi fattori esercita la forza maggiore sulla formazione dell'identità israeliana?
«Senza dubbio il conflitto con il mondo arabo e con i palestinesi. Soluzioni diverse porteranno a identità israeliane diverse: basti solo pensare alla soluzione “due popoli, due Stati” rispetto a quella di un “Israele stato bi-nazionale”. Inoltre le dinamiche del conflitto, gli alti e bassi nella ricerca di una soluzione pacifica e le ricorrenti violenze influenzano tutti gli aspetti della vita in Israele: politica, economia, turismo, cultura e la sensazione di maggiore o minore apertura al mondo esterno. A ben vedere, vi è un divario enorme fra il peso della leadership nel passato rispetto ad oggi. Ben Gurion, al di là della grandezza del personaggio, aveva dalla sua di trovarsi a creare dal nulla o quasi; il suo margine di libertà, che gli veniva sia dalla forte personalità che dall'urgenza del contesto, era enorme. Oggi un primo ministro, come ad esempio Netanyahu, si muove in un campo molto più ristretto; qualche volta la sua funzione è più simile a quella di un direttore generale che a una figura istituzionale capace di dare un'impronta personale allo Stato. Certo, può esercitare la sua influenza sulla spesa, in tal modo rafforzando o indebolendo istituzioni e organizzazioni che veicolano i vari aspetti dell'identità israeliana; tuttavia, mi sembra che la leadership odierna sia troppo occupata a gestire le pressioni esterne e interne – politiche, geopolitiche, demografiche, economiche – per dedicarsi seriamente a dare un contributo originale alla formazione dell'identità israeliana. Credo si debba aspirare a un'identità in cui l'israeliano trovi il giusto equilibrio fra i vari retaggi storico–culturali che compongono il suo mosaico sociale e la sua ormai incontestabile presenza in una regione che fa da ponte fra Oriente e Occidente, fra Sud e Nord del Mediterraneo. Un'identità sostanzialmente mediterranea, in cui tutti questi elementi trovino un loro spazio ed equilibrio».
Molti le rimproverano che questa sua visione dell'identità israeliana sembri ignorare l'importanza dell'aspetto ebraico...
«Cosa significa questa distinzione artificiale? Il fatto di essere israeliano (mi riferisco ovviamente all'identità, non alla cittadinanza) non implica forse in sé che io sia ebreo? Come accennavo prima, la nascita di Israele ha fatto dell'israeliano un ebreo totale, che non ha più bisogno di ancorare la propria ebraicità alla religione. Un israeliano laico è forse meno ebreo di chi a Parigi o Roma va in sinagoga una volta l'anno o studia il Talmud una volta a settimana? È proprio questo il senso del passaggio identitario che ci ha trasformato da ebrei a israeliani: siamo legati alla storia ebraica, viviamo in uno Stato governato da una leadership ebraica, paghiamo come ebrei le tasse ad altri ebrei, andiamo in guerra per difendere altri ebrei e cerchiamo le strade della pace per il bene di altri ebrei. Tutto ciò è così ovvio che non meriterebbe neppure di essere discusso».
Lei stesso comunque ha prima citato l'ebraicità, insieme alla democraticità, come condizione essenziale dello Stato d'Israele.
«Un'ebraicità da intendersi però non come espressione religiosa, bensì come punto di raccordo tra la storia e i valori del popolo ebraico e l'esigenza di garantire il carattere moderno e democratico dello Stato. (...) Israele si trova a vivere e a gestire situazioni molto complesse. Tuttavia, i timori sulla sua democraticità e sulla garanzia di libertà al suo interno hanno spesso origine da un'incomprensione di base delle premesse che hanno portato alla sua nascita. Quest'ultima, perseguita dal sionismo, è stata sancita dall'Onu nel 1947, con la condizione che questo fosse lo Stato del popolo ebraico. Questo è il dato di partenza e ogni riferimento alla democrazia deve considerarlo come premessa. La giusta logica di spartizione del territorio fra i due popoli stabiliva che come esiste una Legge del ritorno riservata agli ebrei che vogliano tornare alla propria patria storica, così lo Stato palestinese – che non è mai sorto, ma che auspicabilmente sorgerà – abbia una propria legge del ritorno, a beneficio dei palestinesi che vogliano tornare nella loro patria. Israele deve continuare nella costruzione di una normalità al suo interno, nel contesto regionale e nell'ambito della più ampia famiglia delle nazioni. Ed è mia convinzione che l'identità israeliana – per il suo retaggio storico, per il percorso che ha portato alla nascita dello Stato e per la tradizione democratica ormai consolidatasi – non potrà mai fare a meno dei valori di libertà e democrazia».

La Stampa 4.6.13
Cina, la strage dei 119 operai chiusi a chiave
Fabbrica a fuoco, non hanno avuto scampo
di Ilaria Maria Sala


Hanno cercato di salvarsi dalle fiamme e dal fumo correndo verso l’uscita della fabbrica. Sono morti uno dietro l’altro, mentre cercavano di aprire i cancelli sbarrati dall’esterno. Sono morti schiacciati, soffocati, bruciati vivi.
A Dehui, nel Jilin, Cina del Nord, si è consumata l’ennesima tragedia sul lavoro: almeno 119 persone sono rimaste uccise in un incendio all’interno di un allevamento di polli. Altri sessanta operai sono in ospedale, con bruciature di varia entità e intossicazioni provocate dai fumi. Moltissime persone mancano ancora all’appello, anche se le ricerche dei sopravvissuti stanno continuando.
Le fiamme, probabilmente causate da un guasto elettrico, si sono rapidamente diffuse nell’intero edificio della Pollami Baoyuanfeng, che impiega 1200 persone e che, oltre ad allevare gli animali, li macella e li rende pronti per la vendita, producendo 67.000 tonnellate di pollame l’anno. Le fiamme hanno avvolto la fabbrica e imprigionato gli operai. I sopravvissuti hanno raccontato che la struttura della fabbrica è complessa, con numerosi corridoi, stretti e ricurvi, bloccati da una serie di porte. Secondo quanto riportato dall’Ong sindacale indipendente China Labour Bulletin (Clb), con sede a Hong Kong, «la porta principale dell’edificio era chiusa a chiave», e molti operai sarebbero dunque morti schiacciati dai loro colleghi che cercavano di fuggire. Secondo le notizie diffuse da alcuni canali televisivi, che confermano quanto denunciato da Clb, la fabbrica non aveva mai eseguito esercitazioni di sicurezza e il cancello era sempre tenuto chiuso per impedire agli operai di uscire durante le ore di lavoro o durante la notte.
Sui social network cinesi sono immediatamente comparse fotografie di spesse fiamme nere che fuoriuscivano dall’edificio e molti blogger hanno «colto l’occasione» per lamentare il pessimo stato in cui lavorano molte aziende cinesi. Di solito ad essere messe sotto esame sono le fabbriche di subappaltatori stranieri per conto di multinazionali (come la Foxconn, per esempio, che produce per conto della Apple, e che è stata spesso al centro dell’attenzione per le dure condizioni lavorative e i lunghissimi turni che impone ai suoi operai), mentre quelle nazionali sono di più difficile accesso agli osservatori internazionali e alla pressione dell’opinione pubblica mondiale. Un problema che esiste tanto per le aziende cinesi private che statali. Quello di lunedì è il più grave incendio nella storia recente del lavoro cinese, stando a quanto denunciato da Clb. Nel 1993 a Shenzhen, le fiamme distrussero la fabbrica di giocattoli Zhili, che produceva per conto della Chicco. Rimasero uccise 87 lavoratrici. Ma, dice Clb, «la scarsità di apparati di sicurezza contro gli incendi, le l’assenza di uscite di sicurezza e di ogni addestramento degli operai su come agire in caso di incendio sono costanti nelle fabbriche cinesi».
Stando ad alcune dichiarazioni governative (e in assenza di statistiche ufficiali), nel 2012 i morti sul lavoro in Cina, escludendo le campagne, sarebbero stati poco meno di 10.000. Ma le ultime stime Ilo, invece, ne darebbero quasi 100.000.

Repubblica 4.6.13
Cina, le donne che fanno tremare il regime
Dal diktat sul figlio unico alle leggi anti-mamme single: cresce la protesta rosa
La rivolta delle madri coraggio che spaventa il potere di Pechino
di Giampaolo Visetti


PECHINO VENTIQUATTRO anni dopo che i carri armati soffocarono nel sangue la rivolta in piazza Tienanmen, un altro esercito spaventa il potere che governa a Pechino. Sono le “madri cinesi”.

Ventiquattro anni fa i carri armati soffocarono nel sangue la rivolta degli studenti in piazza Tienanmen. Il 4 giugno 1989 il partito comunista negò ad oltre un miliardo di cinesi il sogno di vivere in un Paese democratico e di poter esprimere liberamente il proprio pensiero. Il mondo sconvolto dalla caduta del muro di Berlino è cambiato per sempre, ma un altro esercito spaventa oggi lo stesso potere, che continua a governare la Cina come se quel giorno nulla fosse accaduto nel cuore di Pechino. È quello delle “madri cinesi”, il soggetto sociale più oppresso dell’Asia, che dopo decenni di persecuzioni comincia ad unire le forze per chiedere che la seconda economia del pianeta si trasformi in un luogo capace di tutelare i diritti individuali.
Alla vigilia del primo vertice tra Xi Jinping e Barack Obama scoppia così in Cina la “rivolta delle donne”, mobilitate per costringere il presidente a spiegare agli Usa e al resto del mondo se il “sogno cinese”, slogan del nuovo leader, si estenda fino al rispetto delle mamme e dei bambini, razza in via di estinzione in un Paese sempre più vecchio. A innescare l’inedita protesta rosa contro il potere rosso, che censura e repressione non riescono per ora a soffocare, il degenerare di drammi vecchi e la denuncia di nuove tragedie: la selezione sessuale innescata dalla legge del figlio unico, la “guerra del latte sicuro” tra le madri cinesi e quelle straniere, una legge che vorrebbe multare le donne che si permettono di rimanere incinte senza prima essersi sposate.
Ad accomunare questa trasversale opposizione, estranea ad ogni ideologia, un’insopportabile evidenza concreta: una madre, o una donna che aspiri a diventarlo, in Cina è sommersa da una montagna di problemi, ignoti al resto dell’umanità. A far traboccare il vaso ci hanno pensato i funzionari del partito di Wuhan, metropoli dell’Hebei. Le autorità hanno presentato una legge che punta ad imporre «tasse
di risarcimento sociale» alle donne che partoriscono figli fuori dal matrimonio. Il popolo del web, ormai ingovernabile anche per la censura online, l’ha subito ribattezzata «multa contro le madri nubili», sollevando un’indignazione senza precedenti. La norma intende punire le donne non sposate che «consapevolmente fanno figli». In discussione, oltre all’ammenda, anche la possibilità dell’arresto.
Lo stesso Quotidiano del Popolo, nell’edizione inglese, è stato costretto a sollecitare una riflessione sulla legge, che potrebbe essere estesa all’intera nazione. I funzionari di
Wuhan hanno spiegato che multare le madri nubili «servirà a mantenere basso il tasso di natalità», favorendo al contrario i matrimoni e «la costruzione di nuove famiglie». Tali giustificazioni, in queste ore, stanno facendo dilagare la protesta delle donne. Le nuove oppositrici spiegano che la norma non farà che ingigantire il divario tra i ricchi, che possono pagare le multe, e i poveri, per i quali ogni spesa risulta inaffrontabile. Il neonato “Movimento per la libertà femminile”, fondato a Shanghai, ha scritto che il governo cinese si illude di «riparare un fallimento (la legge del figlio unico) con un altro disastro (la persecuzione delle ragazze madri)» e che la conseguenza sarà «un nuovo boom di aborti, abbandoni, infanticidi e traffico di bambini». «È l’ennesimo atto politico – ha dichiarato Chen Yaya, sociologa dell’Accademia delle scienze – mirato esclusivamente contro le donne. Maschi e padri restano sollevati da ogni responsabilità, mentre già oggi le madri single cinesi non hanno diritto ai sussidi di maternità».
Ondata di proteste anche su Weibo, il Twitter made in China: «Il potere di Pechino ha perso la testa — scrivono migliaia di internauti — e sta solo cercando di fare soldi. Prima il divieto ad una generazione di avere un fratello, ora la tassa contro le mamme che preferiscono restare indipendenti. Nessuno si finga sconvolto se poi trovano i neonati nello scarico del wc». La nuova leadership tace, ma i membri appena nominati nel Politburo sono molto preoccupati. Ricchi e classe media, il terzo più influente della popolazione urbanizzata, premono da mesi per l’abolizione della legge del figlio unico, che in trent’anni ha sottratto al Paese oltre 300 milioni di neonati. Alla “rivolta delle madri nubili” si somma poi il dramma della “guerra del latte”, che rilancia lo scandalo
del cibo tossico nella potenza che ambisce a comandare il mondo contemporaneo.
Simbolo imbarazzante di quest’incubo, l’opera “Baby Formula 2013” dell’archistar dissidente Ai Weiwei, esposta ad Hong Kong: un’enorme mappa della Cina, composta da 1800 barattoli di latte in polvere per bebè, prodotti da sette multinazionali straniere. L’installazione, che la polizia non è riuscita a fermare, denuncia la realtà che ogni cinese subisce: la paura di bere il latte e in particolare di garantirlo ai neonati. Il dramma esploso nel 2008, quando il latte arricchito con la melamina causò sei morti, 300 mila intossicati e migliaia di affetti da malattie croniche, si è rivelato inutile. Nelle ultime settimane le denunce di prodotti caseari avvelenati si sono moltiplicate. Il direttore di una società di Suzhou, partner della multinazionale svizzera Hero, è stato arrestato con l’accusa di aver alterato 25 tonnellate di latte per l’infanzia. Tra i reati più comuni, il cocktail fra latte straniero in polvere e latte cinese scaduto, il cambio della data di scadenza sulle confezioni, o la produzione chimica di lattosio. Per le mamme cinesi, tra le quali solo il 16% ha la possibilità di allattare, pena il licenziamento in caso di maternità, è il panico. In Rete e sui giornali locali, meno controllati dalla censura, spopolano le notizie di coniugi che, per non intossicare il figlio, si riducono ad allevare una capra in casa, si svenano per acquistare latte di bufala, si indebitano per mantenere una balia, oppure pagano fino a quattro volte il prezzo medio pur di assicurarsi latte in polvere straniero.
E’ questa la nuova “guerra del latte”, che oppone la mamme cinesi a quelle del resto del mondo. Ogni madre, in Cina, si trasforma oggi in una dipendente dal latte in polvere per bebè prodotto in Europa, Usa e Australia ed è costretta a diventare cliente degli spacciatori di cibo per l’infanzia. Dai supermercati cinesi, il genere è scomparso da mesi. Milioni di donne hanno prima svuotato gli scaffali nei centri commerciali di Hong Kong e poi dato l’assalto ai negozi di Inghilterra, Francia, Germania, spingendosi fino in Sudamerica e Nuova Zelanda. L’ex colonia britannica, scossa dall’insurrezione delle donne locali, ha limitato a 1800 grammi la quantità di latte in polvere esportabile: per le trafficanti di latte sono previsti due anni di carcere. Anche Usa, Ue e Australia hanno approvato norme contro le cinesi «svuota-scaffali», mentre le quotazioni del latte di soia sono andate alle stelle. Nel silenzio di Pechino, balie e massaggiatrici del seno, che promettono di aumentare fino al 60% la montata lattea delle puerpere, sono arrivate a guadagnare l’equivalente di 1800 euro al mese, il quadruplo di un operaio. E’ infine scoppiato l’e-commerce clandestino dall’estero. Organizzazioni cinesi, dotate di decine di dipendenti in Paesi stranieri, garantiscono il latte per l’infanzia necessario alle connazionali. Lo acquistano in negozi e farmacie locali e, sulla base delle ordinazioni, lo spediscono in patria.
«Il problema – spiega Shao Xiaoming, attivista della prima Banca del latte, appena fondata nel Guangdong – è che passa oltre un mese per la consegna: così le donne, pur di non restare senza, ne ordinano decine di confezioni». Uno scandalo globale ignorato, con le mamme cinesi che, da vittime, vengono fatte passare quali spietate razziatrici del latte per i neonati altrui. E’ tale esercito di donne esasperate che, nell’anniversario del massacro dei figli indifesi di altre donne, spaventa oggi i nuovi “principi rossi” di Pechino. A loro si uniscono artisti, studenti, dissidenti e attivisti che, per denunciare il dramma sommerso della pedofilia nella nazione, si fanno fotografare con la scritta “Preside, affitta una camera con me, lascia gli studenti in pace”, dipinta sul corpo nudo. Denunciano il caso del dirigente di Hainan che ha violentato quattro ragazzine, attirandole in un albergo. Donne, madri, neonati e bambini, l’anello debole di una Cina incapace di collegare i diritti umani alla crescita economica. Il potere ora teme però che le sue vittime si rivelino il vero soggetto forte, capace infine di una rivoluzione: e che questa volta la storia non finisca come in piazza Tienanmen.

Repubblica 4.6.13
Le madri coraggio di Pechino
Da sempre in seconda fila vogliono riprendersi il corpo e i sentimenti
di Renata Pisu


C’è qualcosa di immutabile e sconcertante nel disconoscimento cinese del privato nella sfera sociale e nella sfera del sentimenti. Non nella sfera della proprietà che quella ormai viene riconosciuta come forse davvero “privata” dopo che il socialismo ha assunto i “colori cinesi”, cioè è diventato capitalismo. Molti cinesi però ancora sono scettici, dicono “vedrai che da un giorno all’altro il partito metterà la mano anche sulle nostre fabbriche, le nostre case, la nostra terra”. Non si fidano. E le prime a non fidarsi sono le donne che del loro corpo non sono mai state proprietarie, nemmeno dei loro sentimenti, nemmeno di quello che si considera ovunque sotto il cielo come l’amore più puro, disinteressato, sublime: l’amore materno.
Prima che venisse adottata su scala nazionale la politica del figlio unico per coppia, il partito, tutore della pubblica morale, aveva lanciato negli anni Sessanta una vasta campagna ideologica per sradicare la concezione assai diffusa che l’amore materno non avesse connotazione di classe, che le madri proletarie e contadine amassero i loro bambini come le madri borghesi.
Non era così: opuscoli, storie a fumetti, addirittura opere teatrali e romanzi, svilivano il sentimento materno di quelle donne che consideravano nemiche di classe. E se la madre non apparteneva a una delle classi popolari impegnate nella costruzione del socialismo, cioè operai, contadini e soldati, anche il frutto del suo ventre era sin dal momento del concepimento nemico di classe. Questo perché, come è stato più volte ribadito durante la Rivoluzione culturale, “da uovo marcio nasce uovo marcio”, coloro che non potevano vantare origini di classe come si deve, venivano esclusi dalla scuola e dall’università, sottoposti alla gogna della loro comunità che non li considerava figli di mamma. Una mamma reazionaria non era una mamma. Sul libretto di identità di ogni cinese era obbligatorio che venisse menzionata la classe sociale di origine.
Mentre questa campagna si stava spegnendo, ecco che viene lanciata la politica del figlio unico per coppia e le prime coppie ad aderirvi furono quelle borghesi. Perché più istruite? Perché residenti in città? Perché più spaventate dal rigore delle sanzioni applicate in caso di disubbidienza? O perché ormai convinte di non poter amare un figlio di vero amore proletario? Chissà: comunque tra le masse popolari la politica di limitazione delle nascite ha avuto più difficoltà a imporsi ma, alla fine, ha trionfato con milioni e milioni di aborti, volontari o coatti: aborti dolorosi anche a gravidanza inoltrata, perpetrati su donne per lo più da altre donne, le ostetriche di villaggio, come si racconta in “Rane”, l’ultimo romanzo dello scrittore cinese Mo Yan, Premio Nobel per la letteratura. E in tutta questa tragedia, in queste storie atroci, in queste ripetute violenze, aspirazioni senza anestesia, allargamenti del collo dell’utero, forcipi infetti, piccoli crani schiacciati con le pinze, urla di dolore e torrenti di sangue, gli uomini restano sullo sfondo. I dolori che hanno subito e continueranno a subire le donne, perché l’abolizione della politica del figlio unico è prevista per il 2015, appena li sfiorano. Loro incarnano il Potere, loro non hanno mica l’utero.
Oggi però per la prima volta nella Cina moderna, comunista o meno che sia, sembra che le donne siano sul punto di rivendicare la loro intima proprietà privata, se non l’habeas
corpus totale, almeno quello del loro utero. Reggevano la Metà del Cielo, come si usava dire negli anni di Mao, ma del loro utero non erano padrone, come non lo erano dei loro sentimenti, nemmeno di amore materno. Riusciranno a vincere questa battaglia per abolire la proprietà pubblica dei corpi femminili? L’onta di severe multe per le ragazze madri il cui utero, diteci, a chi apparterrà mai? Se riusciranno in questa battaglia per l’unica cosa che forse vale davvero la pena di privatizzare, anche noi che da decenni diciamo inascoltate “l’utero è mio e me lo gestisco io” dovremo essere loro molto grate.

il Fatto 4.6.13
Il ricordo
Zincone e il Corriere. Splendidi quegli anni
di Antonio Padellaro


Al Corriere della Sera arrivai nel lontano 1971, eravamo una nidiata di giovanotti che dovevano dare una mano in redazione e ricordo che volevamo essere tutti Giuliano Zincone. Mettevamo in pagina notizie a una colonna seduti intorno al tavolone Albertini in un silenzio monacale, sorvegliati da un capo che al minimo bisbiglio batteva il legno con un righello riportando l’ordine. Nelle pause ripassavamo, alla scoperta di qualche segreto narrativo, l'ultima brillante inchiesta del così giovane inviato speciale pubblicata sul mitico spallone di terza pagina, leggendario e per noi inarrivabile eldorado giornalistico. A farci sognare era la parola “speciale”, in testa all'articolo, decorazione attestante sicuro successo e raggiunta carriera. Ma Giuliano non si dava mai delle arie e con gli umili mozzi della corazzata di via Solferino si fermava volentieri a parlare, sempre con quel sorriso beffardo che forse voleva dire: ragazzi, non prendiamoci troppo sul serio. In un ambiente dominato dai monumenti viventi degli altri inviati, troppo speciali per degnarci di uno sguardo, Zincone incarnava naturalmente lo stile elegante e rigoroso di quel Corriere come se ci fosse nato dentro. Cosa in qualche modo vera essendo figlio di Vittorio, altro grande nome del giornalismo. Ma lui rappresentava anche l'avanguardia migliore di una nuova generazione di reporter che univano alle qualità di scrittura, racconto e capacità di analisi. Da liberale autentico indagò le morti sul lavoro (era il 1977) e le loro cause, dovute ieri come oggi all’ansia di profitto. Argomento fino a quel momento limitato alle pagine dell’Unità e che spalmato per diverse puntate sull’organo della cosiddetta borghesia produttiva (o, come si diceva allora, dei padroni) fece l’effetto di una bestemmia in chiesa. Da liberale autentico ebbe il coraggio (era il 1979) di raccontare contro l’ideologismo di sinistra imperante (da cui io stesso ero attratto) l’altra faccia del Vietnam: che non fu soltanto la guerra di liberazione di un popolo oppresso, ma anche la violenza che ne seguì. A Giuliano mi ha legato un’amicizia che, purtroppo, nel corso degli anni non ho coltivato come avrei voluto. Non avevamo le stesse idee, ma ci sentivamo parte di un tutto: il giornalismo dei fatti inteso come descrizione accurata di ciò che si vede e di ciò che si sa. Oggi gli devo soprattutto il ricordo di anni splendidi, di un’età dell’oro per chi si accostava a questa professione. Scrivevamo per un grande giornale e tutto sembrava andare per il meglio. Alcuni anni dopo approdai anche io al mitico spallone di terza pagina. Sotto la mia firma c’era scritto inviato, non più speciale, termine abolito ma per quanto mi riguarda certamente eccessivo. Quella mattina ripassai l’articolo con il cuore che batteva. Mi parve imperfetto e a tratti mediocre. Non ero riuscito a essere Giuliano Zincone.

La Stampa 4.6.13
Primo Levi, quel suicidio non si lega ai partigiani
Sergio Luzzatto replica a Cavaglion: la chiave del “segreto brutto” non sta nei sentito dire del parroco
L’anziana ebrea viennese si tolse la vita dopo la fucilazione dei due giovani e il nesso fra gli episodi  è improbabile
di Sergio Luzzatto

qui

La Stampa 4.6.13
Cavaglion: ma la “voce” raccolta dal curato è realistica
di Alberto Cavaglion


Stupisce che Sergio Luzzatto, conoscendo la vicenda dell’ebrea di Vienna morta suicida al col de Joux e degli altri ebrei là rifugiati e vessati dai partigiani ne abbia taciuto nel suo libro così ricco di dettagli e testimonianze, alcune delle quali decisamente meno rilevanti. Resta il fatto che alla data del 17 dicembre il parroco di Brusson scrive del suicidio della signora e lo mette in rapporto alla fucilazione di partigiani decisa dal loro capo perché colpevoli di averla minacciata. Per quanto il parroco riflettesse una «voce», è piuttosto singolare che quello stesso 17 dicembre il sacerdote fosse già al corrente della fucilazione e ne sapesse dare una spiegazione che collimava con un fatto storico, sia pure avvenuto qualche giorno prima, che noi abbiamo appreso soltanto molti anni dopo. Lo stesso autore di Partigia – d’altra parte – non esclude che i due avessero partecipato alle minacce dell’anziana ebrea, contraddicendo in parte la dettagliata e assertiva ricostruzione appena compiuta.
Quando ho saputo di Barmaverain in un primo tempo avevo creduto si trattasse di un manoscritto non facilmente accessibile. Poi ho appreso che si trattava di un libro stampato. Non inseguo scoop, ma non aspetto nemmeno la manna dal cielo. Cerco e qualche volta trovo un libro in biblioteca. La risposta di Luzzatto al mio articolo conferma – a mio parere - che la sua ricostruzione è stata selettiva: il «segreto brutto» era un segreto più ampio, l’averlo circoscritto al «rimorso» per l’esecuzione dei due partigiani rimane il frutto di una manipolazione delle citazioni di Levi. In particolare di quella tratta da Se questo è un uomo, dove Levi parla di arresto «conforme a giustizia» riferendolo alla sua intera per quanto breve esperienza di partigiano, compresa – forse – la scoperta che nella sua banda vi era chi «minacciava e vessava» gli ebrei. La storia non si fa con i «corse voce che…» (salvo poi riscontrare che riferivano un fatto realmente accaduto), ma nemmeno con i «non ricordo» collezionati da Luzzatto nella sua indagine. Soprattutto se poi su di essi si costruisce un’interpretazione arbitraria delle piccole frasi di Levi. La storia è dolorosa per tutti.

Repubblica 4.6.13
Primo Levi, i partigiani e la donna del mistero
Un episodio non raccontato nel libro di Sergio Luzzatto al centro delle polemiche
di Massimo Novelli


Un nome. E un cognome trascritto con la grafia errata. Un data di nascita, una data incerta di morte. Per molto tempo il ritratto di Elsa Pokorny, nata il 5 ottobre del 1878 a Vienna e deceduta per cause non chiare a Brusson, in Valle d’Aosta, nel dicembre del 1943, non è andato oltre gli scarni contorni. Adesso la sua vita e la morte, il nome senza volto di anziana ebrea in fuga nell’Europa insanguinata dalla guerra e dal nazifascismo, riemergono dalla storia dimenticata. E viene restituito un frammento della sua esistenza. Vedova dal 1932 di Leopold Amster, forse un avvocato di origine ucraina, nell’autunno del ’43 si era rifugiata ad Angera, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore. Le stragi compiute dai nazisti nella zona piemontese del lago, dal settembre all’ottobre di quell’anno, la costrinsero con ogni probabilità a lasciare Angera e a partire per la Valle d’Aosta, così come fecero numerosi ebrei. A Brusson, dove aveva trovato riparo nella casa di una donna, Cécile Révil, morì in un giorno di dicembre, il 13 o il 17, secondo altre fonti, suicida o per ragioni diverse. In ogni caso a Brusson, in quei giorni, il suo destino si intrecciò a quello di Primo Levi.
Il primo a ritrovare Elsa è stato il professor Gian Carlo Pavetto, un medico torinese che nel ’43 era un bambino di otto anni, figlio del medico condotto di Brusson e della Val d’Ayas. Lo ha fatto leggendo Partigia di Sergio Luzzatto, e seguendo le polemiche scatenate dei fatti ricostruiti dallo storico. Un vicenda, questa, che ha al centro la lacerazione interiore che Primo Levi, per poche settimane nella Resistenza in Valle d’Aosta, nella zona fra Brusson e il Colle di Joux, avvertì a causa dalla fucilazione di due giovani partigiani, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, da parte dei loro compagni. Secondo Luzzatto, i due vennero eliminati per «futili motivi».
Il dottor Pavetto, che già a fine aprile lo scriveva su un sito Internet, è di differente avviso: «Sono subito andato a prendere in biblioteca la cronaca che il curato don Adolphe Barmaverain, parroco di Brusson, stese su quegli anni. Un libro difficile da trovare, pubblicato nel 1970 e ignorato dai più. Don Adolphe racconta esplicitamente che Elsa Polkorny (così è indicata) venne rinvenuta cadavere il 13 dicembre e che si suicidò per le vessazioni e le minacce di due partigiani, successivamente giustiziati per ordine dei loro capi. Credo che siano Oppezzo e Zabaldano: non furono uccisi per “futili motivi”, bensì per ragioni assai più importanti. È possibile che la donna avesse reagito alle minacce, dicendo che li avrebbe denunciati». Aggiunge Pavetto: «La data del ritrovamento del corpo di Elsa, è posteriore a quella della fucilazione, il 9 dicembre, di Oppezzo e Zabaldano, e coincide con la cattura di Levi e degli altri partigiani, il 13 dicembre. Tuttavia don Barmaverain non dice esattamente quando Elsa morì. E non ho potuto rintracciare il certificato di morte che mio padre Andrea sicuramente aveva stilato. Nel trasferirci da Brusson a Livorno Ferraris, nel 1950, diverse carte si sono perdute». Sono le stesse ipotesi e i dubbi che lo storico Alberto Cavaglion, dopo avere parlato anche con Pavetto, ha avanzato su La Stampa alcuni giorni fa.
Ma chi era Elsa Amster Pokorny? Il Centro di documentazione ebraica di Milano, come spiega Michele Sarfatti, uno studioso che collabora con questa fondazione, ha scoperto qualcosa: «Grazie alla corrispondenza tra organi di governo locale e il comando tedesco, sappiamo che Elsa Pokorny, figlia di Adolphe Pokorny e di Regine Verther, era residente ad Angera. Il recapito rimase quello dopo la partenza. Lasciò Angera in seguito alle stragi degli ebrei del Lago Maggiore? È possibile. Non si conosce la data del suo arrivo in Italia, né è noto se fosse andata in Valle d’Aosta da sola o in gruppo». Cercava di espatriare in Svizzera? Continua Sarfatti: «Si poteva raggiungere la Svizzera dal Lago Maggiore. Dalla Valle d’Aosta il passaggio era più difficile, per le alte montagne da valicare e per il periodo invernale». Come morì Elsa Pokorny? Conclude Sarfatti: «Tutte le supposizioni sono plausibili, in mancanza di indicazioni persino sulla data di morte. Il suicidio non si può escludere: magari per colpa di chi la vessava, o perché fu presa dallo sconforto quando, il 30 novembre del ’43, la Repubblica di Salò ordinò l’arresto di tutti gli ebrei».

Corriere 4.6.13
Chiesa anestetizzata dal fascismo
Tra percezione del pericolo e apprezzamento dell'anticomunismo
di Alberto Melloni


Il rapporto fra Chiesa e fascismo è questione storica di ovvia importanza. Appassiona i professionisti del mestiere così come lo studio delle relazioni tra cattolicesimo e Terzo Reich, ortodossia e Urss, clero e franchismo, o tra episcopati e giunte militari dell'America Latina. Tuttavia nel rapporto Chiesa-fascismo del periodo 1921-1945 c'è qualcosa di più: perché ciò che si consuma riverbera nella storia italiana ben oltre la parabola della dittatura. Quasi che il cattolicesimo romano abbia allora acquisito mentalità che perdurano nell'Italia della guerra e in quella repubblicana, in quella democristiana e in quella postdemocristiana. Una cultura del nemico, una presunzione d'astuzia nel giudicare le situazioni, un agnosticismo istituzionale e costituzionale che si fida di interlocutori improbabili: purché capaci d'interpretare gli «interessi superiori» della Santa Sede, così come appaiono al fallibilissimo giudizio di chi se ne fa custode.
È per questo, a mio avviso, che non sbaglia chi dietro ai grandi disastri antichi e recenti della storia nazionale postula una qualche responsabilità ecclesiastica: mai univoca (il cattolicesimo porta sempre in sé gli anticorpi della riformabilità); mai generalizzabile (le opzioni sconfitte lasciano spesso le tracce di un possibile riscatto); mai priva di compensazioni (il lavoro di formazione delle coscienze fatto negli anni del «Du-ce, Du-ce» ha alimentato per decenni le scorte morali del Paese). Eppure una responsabilità reale: che dipende dalle posture politiche apprese durante il fascismo e con le quali la Chiesa italiana non si è mai misurata con la limpidità d'altri.
I vescovi tedeschi, all'indomani della sconfitta, avviarono edizioni e studi organici sul rapporto col nazismo; i vescovi argentini, per prendere un caso diverso ed ora a tutti noto, hanno accolto l'appello alla purificazione di Wojtyla e hanno fatto solenne ammenda della loro tiepidezza e complicità davanti alle sparizioni. Il cattolicesimo italiano non ha fatto né l'uno né l'altro. Associatasi in nome di Pio XII defensor urbis al riscatto resistenziale, rigenerata nella sua credibilità politica dalla Dc di Dossetti e De Gasperi, la Chiesa ha rinviato, derubricandola a propaganda ostile, la domanda di fondo: perché un mondo capace di vedere i mali del regime, di elencarli nero su bianco, ne subisce la propaganda e la seduzione? E la ricerca storica, che quarant'anni fa aveva iniziato una riflessione su questo problema, s'è poi frantumata in molte analisi specialistiche tutte di pregio, ma di scarso costrutto.
Oggi le cose sono cambiate: l'apertura delle carte di Pio XI permette di progettare un «progetto culturale» degno di questo nome per rispondere alla domanda sul cattolicesimo; e la mancanza di un quadro rigoroso d'insieme è stata colmata dal ricchissimo volume di Lucia Ceci L'interesse superiore. Il Vaticano e l'Italia di Mussolini (pp. 338, 22), in libreria per i tipi di Laterza. A Lucia Ceci, punta di lancia dell'Università di Roma Tor Vergata, si dovevano già scoperte documentarie fondamentali su quell'assioma — il Papa non deve parlare — che poi deflagrerà durante la Seconda guerra mondiale e la Shoah. In questa sua nuova fatica ripercorre invece i rapporti Chiesa-fascismo nella loro interezza, quasi a riprendere il filo d'un discorso lasciato interrotto da Pietro Scoppola quarant'anni fa: riconnette con intelligenza in una visione di insieme quasi tutti gli studi che avevano trovato, capito o equivocato, singoli episodi. L'opera è seria e profonda: ma insieme ha una leggibilità di tipo anglosassone (quanto mai apprezzabile in una storiografia come la nostra, che ritiene sgradevole rendersi comprensibili o, peggio che mai, interessanti) e si presta, se avrà le traduzioni che merita, a far conoscere fuori dall'orto italico lo spessore di una ricerca di cui è un frutto alto.
Nel concreto L'interesse superiore fa capire che la grande anestesia del cattolicesimo, davanti a un regime di cui volta a volta qualche voce riconosce la pericolosità e la bestialità liberticida, è la somma di una infinità di microanestesie locali: la paura dei rossi, il sogno di una restaurata cristianità, il trascinamento della predicazione del disprezzo antiebraico, l'anticomunismo, la dottrina del matrimonio, si mescolano e fin dalla prima apparizione di Mussolini sulla scena pubblica convincono i grandi opinion leader della Santa Sede a comparare costi e benefici. Un sistema di cui alla fine della vita Pio XI percepisce la perversione: ma il tardivo pianto (quando pronuncia la frase sul «siamo tutti spiritualmente semiti», Papa Ratti piange) non muta l'atteggiamento di fondo. Pio XII, nota giustamente Lucia Ceci, arriva a far sparire il discorso del predecessore sul Concordato non perché questo fosse particolarmente puntuto: ma solo perché avrebbe ridotto le capacità di interlocuzione che durano nel tempo, fino a poche ore dalla fucilazione di Dongo. In questo volume appaiono le figure di questa interlocuzione: da quella meschina e viscida di Pietro Tacchi Venturi a quella contraddittoria di Ildefonso Schuster. Emergono i percorsi, da quello degli allucinati difensori del razzismo cattolico (quello «sano», che non offendeva gli ebrei convertiti) fino a quello dei Montini e dei De Gasperi.
Mentre viene mostrato il progressivo soffocamento dell'antifascismo alle origini del regime — oggetto di un non meno importante studio di Alberto Guasco in uscita dal Mulino — la riemersione di una ostilità al regime non viene censita con la stessa metodicità: e per un motivo ragionevole. È proprio la cultura della sottrazione — quella che pensa che la verità storica si ottenga sottraendo gli eroismi dei singoli agli errori delle istituzioni — che L'interesse superiore rifiuta: e in questa opzione mostra cosa sia stato, alla luce di una ricerca vasta ma prima d'ora dispersa, il rapporto fra la Chiesa e il regime, nel suo tempo e forse anche un po' dopo.

Corriere 4.6.13
Storia, una passione che cancella le distanze
Il racconto del passato affascina i contemporanei
di Alice Patrioli


«Il tempo non c'entra per nulla. Mi ha sempre sorpreso che i miei contemporanei, convinti d'aver conquistato e trasformato lo spazio, ignorino che si può restringere a proprio piacimento la distanza dei secoli». Così scriveva Marguerite Yourcenar nei suoi Carnets de notes de Mémoires d'Hadrien. E come si potrebbe darle torto quando intorno a noi la storia antica rinasce costantemente a nuova vita grazie a romanzi, fumetti, film e perfino cartoni animati? Le vicende della Grecia e di Roma antica contengono in sé un nocciolo di umanità tale da ispirare forme e generi letterari estremamente diversi tra loro, ma tutti impegnati nella stessa ricerca di passioni e inquietudini che dal passato più remoto riescano a lambire i lidi del nostro tempo.
Il genere che ha ricevuto maggiore ispirazione dalle vicende dell'antichità greca e romana è stato — ed è tuttora — il romanzo storico, una definizione oggi quantomai varia e capace di contenere in sé forme espressive molto diverse l'una dall'altra sia nei metodi che negli intenti.
Per esemplificare questa estrema varietà si potrebbe scegliere una data e analizzare le vicende di due romanzi storici che in quella stessa data videro la pubblicazione: siamo nel 1951, in Francia Marguerite Yourcenar pubblica Mémoires d'Hadrien; negli Stati Uniti Howard Fast dà alle stampe il suo Spartacus. Una stessa fonte d'ispirazione — la storia romana — per due romanzi dagli esiti radicalmente diversi, ma ugualmente importanti ai fini della nostra riflessione.
Memorie di Adriano è un romanzo che si muove con agilità tra documentazione storica, filosofia e poesia: l'autrice s'immerge a fondo nella personalità e nell'anima di un uomo del II secolo d. C. compiendo un cammino a ritroso fino a raggiungere quegli elementi essenziali — emozioni, pensieri, moti dello spirito — che, in virtù della comune appartenenza al genere umano, una donna del XX secolo può senza difficoltà condividere con un uomo vissuto diciotto secoli prima di lei. Un'operazione come questa richiede studio e documentazione, ma soprattutto capacità di annullare le distanze temporali attraverso il riconoscimento degli universali che si celano nell'animo degli esseri umani.
La scelta di Adriano e del II secolo d. C. risponde esclusivamente agli interessi e alle passioni dell'autrice — ancora nei Carnets de notes Yourcenar dichiara: «Il secondo secolo m'interessa perché fu, per un periodo molto lungo, quello degli ultimi uomini liberi» —, ma l'altissima qualità letteraria del romanzo e il suo successo ininterrotto dimostrano che v'è nella storia antica un'anima che ha solo bisogno di essere riconosciuta da un uomo o da una donna del nostro tempo per tornare ad avere voce. Nel romanzo le vicende storiche non possiedono forse i netti contorni forniti loro dall'archeologia o dall'indagine storiografica, ma conoscono un'esistenza più intima e universale perché fondata sull'individuazione delle passioni comuni a tutti coloro che condividono l'«avventura umana».
Ma nell'anno in cui a Parigi vedeva la luce Memorie di Adriano, oltreoceano si concludeva la vicenda editoriale di un altro romanzo ispirato a un personaggio dell'antico mondo romano: Howard Fast dava finalmente alle stampe Spartacus, destinato a diventare il suo romanzo di maggior successo e a ispirare l'altrettanto fortunata versione cinematografica di Stanley Kubrick e Kirk Douglas (Spartacus, 1960).
L'idea di narrare la grande rivolta degli schiavi che tenne impegnato l'esercito romano dal 73 al 71 a. C. maturò durante i tre mesi di carcere che Fast dovette scontare per via di una condanna da parte del Comitato per le attività antiamericane (House Committee on Un-American Activities). Lo scrittore era noto per la sua militanza nel Partito comunista statunitense (che abbandonerà pubblicamente nel 1957) e per il suo impegno nelle lotte per i diritti civili: tale «notorietà» gli procurò non poche difficoltà nel periodo del maccartismo. Una volta uscito di prigione, Fast si trovò davanti al concorde rifiuto delle più grandi case editrici americane di pubblicare il suo Spartacus, che fu dato alle stampe con un'operazione di auto-pubblicazione e ottenne un notevole successo di pubblico. Ma cosa vide nello schiavo Spartaco lo scrittore Howard Fast?
Lo rivela la dedica del romanzo, nella quale Fast dichiara di aver scelto la rivolta degli schiavi contro Roma come simbolo delle lotte per la libertà e la dignità che si combattono in ogni epoca, poiché l'ingiustizia e l'oppressione appartengono alle società antiche così come a quelle moderne. Spartacus, dunque, nasce sì come romanzo storico popolare, avvincente e destinato ad appassionare il grande pubblico, ma con un forte slancio ideale che l'autore affidò simbolicamente a quel gladiatore di origine trace che guidò la ribellione contro la potenza (e la prepotenza) romana.
La storia antica può, dunque, essere fonte d'ispirazione per romanzi storici che presentano profonde diversità: Marguerite Yourcenar ha composto un'opera raffinatissima, destinata a un pubblico che è chiamato ad attingere alle proprie esperienze intellettuali ed emotive più intime e profonde; Howard Fast ha realizzato un romanzo avvincente, di lettura scorrevole e destinato a un pubblico che desideri soprattutto lasciarsi catturare da una vicenda coinvolgente. Romanzi che rispondono a esigenze differenti, ma che condividono, pur nella loro estrema diversità, il tentativo — più che riuscito — di rivelare quel nocciolo di umanità che le vicende antiche contengono e che s'incarna nelle figure di uomini le cui riflessioni, passioni e inquietudini possiamo facilmente riconoscere come nostre. E davanti a una tale condivisione non c'è distanza temporale che valga.

Repubblica 4.6.13
Essere giuristi nel mondo global
La versione di Rodotà e Amato


ROMA — Qual è oggi il ruolo del giurista di fronte alle sfide che il contraddittorio mondo globale pone al diritto e alla cultura dei diritti? Su questo e altri temi domani 5 giugno, alle ore 17, presso la sede del Consiglio nazionale forense di via del Governo Vecchio a Roma, si terrà una tavola rotonda con Stefano Rodotà dal titolo “La vocazione civile del giurista”. All’incontro parteciperanno anche Giuliano Amato, Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Maria Rosaria Ferrarese e Pietro Rescigno. Durante la tavola rotonda sarà presentata una raccolta di saggi dedicati a Rodotà, La vocazione civile del giurista
(Laterza, pagg. 390, euro 24), recentemente pubblicata e curata dal presidente del Consiglio nazionale forense, Guido Alpa, e Vincenzo Roppo.

La Stampa 4.6.13
Più lettori ma meno tempo. Il paradosso dell’informazione
Il rapporto annuale World Press Trends
di Marco Bardazzi


Al mondo non ci sono mai stati tanti lettori di giornali come oggi: carta e digitale, sommati insieme e integrati, stanno creando una platea planetaria senza precedenti. Ma sui siti d’informazione - su cui gli editori puntano buona parte delle strategie per uscire dalla crisi - si trascorre poco tempo. Il consumo delle notizie sta diventando «mordi e fuggi» e questo frena la crescita dei ricavi pubblicitari digitali.
Tra le tante indicazioni sul futuro dei quotidiani che arrivano dal rapporto annuale «World Press Trends», quella sui tempi di permanenza dei lettori sul web è la novità del 2013. Anche perché si tratta di un ulteriore campanello d’allarme che va ad aggiungersi ai tanti con cui si confronta il settore. Il rapporto sulle tendenze dell’editoria è stato presentato a Bangkok ai 1500 editori e direttori che partecipano al 65° Congresso mondiale dei quotidiani, l’appuntamento con il quale ogni anno l’organizzazione internazionale degli editori, Wan-Ifra, fa il punto sullo stato di salute di un settore che a livello globale vale oltre 200 miliardi di dollari.
Più della metà degli utenti del web visitano siti di news, ma poi trascorrono gran parte del tempo altrove. Ai siti di informazione è dedicato l’1,3% della permanenza in rete, mentre solo lo 0,9% delle pagine viste a livello globale si trovano su giornali online.
I trend registrati nel 2012 sono ricchi di luci e ombre. Metà della popolazione mondiale adulta legge un quotidiano: 2,5 miliardi di persone lo scelgono in forma cartacea, mentre sono già diventati 600 milioni coloro che lo «sfogliano» in formato digitale. I numeri sulla distribuzione dei quotidiani sono scesi globalmente solo dello 0,9% rispetto al 2011, ma è un dato che nasconde realtà diverse. Il Nord America ha visto calare del 6,6% in un anno la circolazione dei giornali, mentre l’Europa ha registrato un -5,3% nell’area occidentale e -8,2% ad Est. A frenare la tendenza complessiva al calo sono i Paesi asiatici (+1,2%), l’Oceania (+3,5%) e l’America Latina in sostanziale stallo (+0,1%). Il Medio Oriente e i paesi del nord dell’Africa frenano un po’, ma negli ultimi cinque anni sono cresciuti del 10,5%, in un periodo in cui i giornali in Usa e Canada calavano del 13% e la parte occidentale dell’Europa segnava un drastico -25%.
Cala anche la pubblicità a livello globale (-2%), portando il declino dal 2008 a oggi a quota -22%. A pesare, in questi anni, è stato soprattutto il crollo delle inserzioni sui quotidiani Usa (i cosiddetti «classified»), su cui si reggeva buona parte del mercato editoriale cartaceo americano: oggi sono per l’80% digitali. Le cifre sui ricavi pubblicitari dei quotidiani, proiettate nell’arco di cinque anni, sono pesanti: -42% in Nord America, -23% in Europa occidentale, -30% in quella orientale, -22% in Medio Oriente e Nord Africa. A crescere sono state America Latina (+37%) e Asia (+6,2%).
Il futuro si conferma all’insegna del digitale, ma le ricette presentate a Bangkok sono molteplici. Robert Dickey, presidente delle edizioni locali del colosso americano Gannett, ha raccontato per esempio il successo della trasformazione digitale della testata più importante del gruppo, «UsaToday», che dopo 6 anni di crisi ora è tornata a crescere grazie a ricavi digitali saliti al 28% del totale. I «paywall», a cui ricorrono ormai quasi metà degli editori nordamericani con modelli diversi, hanno fatto calare il traffico su siti come quello del canadese «Globe and Mail». Ma il direttore John Stackhouse ha spiegato che il giornale ha aumentato gli abbonati, valorizzato la qualità, lanciato nuovi contenuti e rafforzato il brand. Un discorso analogo a quello di Tobias Trevisan, ceo della tedesca «Faz», secondo il quale i lettori digitali sono disponibili a pagare e abbonarsi se la qualità dell’informazione è quella che si aspettano e che cercano.
Uno dei «case history» esaminati a Bangkok è quello de «La Stampa» e della sua innovativa redazione integrata multipiattaforma, che è stata presentata al congresso mondiale degli editori e sarà di nuovo protagonista, a fine giugno, al Gen News di Parigi, un altro degli appuntamentichiave del settore. «La Stampa», tra l’altro, avrà un ruolo centrale nel 2014 alla prossima edizione del congresso di Wan-Ifra, per la quale è stata scelta Torino come città ospitante.