mercoledì 5 giugno 2013

Repubblica 5.6.13
L’ultimo uomo
Albert Camus. Una vita da portiere
Un libro racconta l’adolescenza algerina dello scrittore francese
La famiglia, la scuola la passione per il calcio. E per la letteratura
di Gian Luca Favetto


Meursault è un portiere. L’uomo che Albert Camus schiera in campo nel suo primo romanzo è un portiere come lui, abituato a difendere la linea bianca, pronto a uscire sulle gambe degli avversari e a volare per impedire che un’azione si realizzi. Lo straniero di Camus, l’uomo che sta di fronte all’esistenza, è prima di tutto straniero a se stesso. E poi è lo straniero del calcio. Stranieri del calcio, al di là di nazionalità e cartellini, sono i portieri. Nessuno è più straniero del portiere su un campo di calcio: l’estraneo su cui tutto si fonda, l’ultimo a opporsi e a cadere, il numero uno sulle cui spalle si reggono coloro che inseguono la palla; lui, invece, la blocca fra le mani e la porta al petto. Meursault non avrebbe potuto essere altro.
La sua partita comincia con un telegramma: «Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti». Un telegramma che è come un cartellino. Giallo. Come un’ammonizione. La riceve all’inizio, al secondo minuto, alla seconda riga. Alla fine del primo tempo, la fine della prima parte del romanzo, come un portiere si piazza di fronte all’arabo con il coltello. Sono distanti una decina di metri. È come se quello battesse un calcio di rigore. Si trovano sulla spiaggia, che è il campo di calcio dell’infanzia. Poco prima, c’erano anche Raymond e Masson. Controllavano due altri attaccanti avversari, come due difensori: tu occupati del tuo uomo, io mi incarico del mio. Breve confronto, e sono sistemati: ciascuno esce dalla mischia con le proprie ferite. Adesso Meursault aspetta
il calcio di rigore. Si prepara, si concentra. Fa un passo avanti. L’arabo estrae il coltello. La luce balena sull’acciaio, è come se una lama scintillante colpisse Meursault in fronte. Ha una pistola, il sudore cola negli occhi: spara.
Quattro colpi. L’arabo è morto. Così finisce il primo tempo, con il portiere che tira giù la saracinesca e non fa passare nessuno, nessun uomo, nessun pallone. I secondi quarantacinque minuti più recupero saranno tutti occupati dal processo. E qui entra in campo Albert Camus in persona a ricoprire il ruolo. Sa giocare, lui è portiere. E da portiere scrive. Come un portiere guarda, segue l’azione, infine scatta. È nello sguardo l’inizio del portiere. Così come nello sguardo è l’inizio della scrittura.
C’è un libro che testimonia e racconta bene quello che ho appena riassunto. Ha concimato e innaffiato queste idee, questa visione. Si intitola Il portiere e lo straniero (L’Asino d’oro, pagg. 142, euro 12). Lo ha scritto Emanuele Santi, uno che ha passione per il calcio e la letteratura e sa trovare dove si nascondono le storie. È un lungo racconto con pagine folgoranti. Può arricchire chi ama Camus e il gioco del calcio, lo scrivere e la letteratura, i viaggi e le scoperte. E poi solleva il velo su un ruolo, quello del portiere, che è uno stato d’animo, una condizione umana: continua nella vita dopo che hai lasciato il campo. A suo modo, anche questo libro è una partita. C’è da divertirsi a leggerla e a giocarla con l’autore e i personaggi che fanno la storia. La storia è quella di Camus che nasce in Algeria, a Mondovì – oggi si chiama Dréan –, in una modesta famiglia di pieds-noirs, orfano di padre, trasferito nella capitale, cresciuto dalla severa nonna materna nel popolare quartiere di Belcourt. Il racconto va. C’è Algeri con le sue strade, le sue case e il mare. Ci sono la famiglia e la scuola, i compagni di giochi. Ci sono il maestro Louis Germain e il professore Jean Grenier, mentore e amico. Ci sono i campi di calcio, i tornei, i campionati in Algeria. Ci sono Pierre Chayriguès, Ricardo Zamora, Maurice Cottenet, i portieri che il giovane Camus ammira. C’è il Racing Universitaire d’Alger, il Rua, la squadra dove gioca nelle giovanili fino a 17 anni, la squadra per cui tiferà. C’è la tubercolosi. C’è la sua vita e la sua carriera di scrittore nato portiere. E c’è il gran finale, l’ultimo capitolo, dove in campo arriva Meursault ed Emanuele Santi non sbaglia tattica, né strategia, né una frase, né un’azione. In un’intervista del 1959, l’anno prima di morire, Camus ricorda: «Il poco di morale che conosco l’ho appresa sui campi di calcio e sul palcoscenico dei teatri, che rimangono le mie vere università ». Le università di un uomo in rivolta contro l’assurdo della vita. Nel dicembre del 1957, a Stoccolma, leggendo il discorso per il Premio Nobel, dice: «Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga». E questo è un compito da portiere, uno che può «alimentare la sua arte e questo suo essere diverso solo confessando la propria somiglianza con tutti». Il portiere è la rivolta, è l’uomo in rivolta, l’uomo che dice no e si oppone alla storia. La storia vorrebbe sempre finire in gol, andare a segno. In genere, tutti tifano per la storia. Il portiere è solo, è quello che ballonzola laggiù in mezzo ai pali, fra l’erba e la traversa, a difesa di un vuoto. Si piega sulle gambe, cerca la migliore elasticità, prova la maggiore reattività e aspetta. Guarda, osserva l’azione e fantastica. Ha pazienza. Deve avere moltissima pazienza, e occhio, e misura. Deve avere ritmo interiore e scegliere il tempo giusto. All’ultimo, esce o scatta in tuffo. Il suo scatto si conclude con un volo e una caduta a terra. Sempre. Che la sua azione abbia successo o no, lui finisce comunque a terra.
Poi, si rialza. E ricomincia l’azione.
Albert si è appena tuffato sul cemento. L’ha deviata, questa volta, la palla. Si è sbucciato un ginocchio. Sanguina, è normale. Giocano nel cortile a scuola. È il dicembre del 1931. Su in classe, gli allievi del penultimo anno discutono chi sia il migliore studente di filosofia del liceo. Non la smettono. Chiedono al professore. Il professore non vuole rispondere. I ragazzi insistono. Alla fine Jean Grenier cede e li manda alla finestra. Lui rimane seduto alla cattedra. «Il migliore di tutti è lì nel cortile – dice – Vedete quello che gioca in porta? Si chiama Albert Camus». Da poco ha compiuto diciotto anni.

Il portiere e lo straniero di Emanuele Santi (L’asino d’oro pagg. 138 euro 12)

Corriere 5.6.13
Zagrebelsky,
«Il sì al presidenzialismo del Pd? Un caso di sindrome di Stoccolma»
intervista di Aldo Cazzullo


Professor Zagrebelsky, la maggioranza lavora alla riforma presidenzialista, il Pd si divide. Lei che ne pensa?
«Penso che il tema andrebbe trattato non come fosse al centro di una guerra di religione o di una disputa ideologica, ma guardando empiricamente come funziona il presidenzialismo nei vari Paesi. Non c'è forma di governo più camaleontica, visto che assume i colori e le caratteristiche dell'ambiente in cui viene impiantato».
Ad esempio?
«Sono sistemi presidenziali o semipresidenziali gli Stati Uniti come molti Stati del Sud America, che hanno avuto vicende di colonnelli che dall'esercito diventano capi di Stato. La gran parte dei paesi dell'Africa che noi consideriamo democraticamente sottosviluppati, per non dir di peggio, sono sistemi presidenziali».
Semipresidenziale è la Francia.
«Sì. Ma, guarda caso, pure la Russia di Putin. In materia costituzionale è sempre sbagliato ragionare di modelli astratti; in questo caso, è sbagliatissimo. Il modello astratto dice poco. Esistono regole formali, ma il modello che si viene a realizzare dipende da una serie di circostanze di natura sociale, politica, psicologica».
L'Italia è inadatta?
«Sotto ogni profilo. Sociale: il presidenzialismo può funzionare se il tasso di corruzione è nei limiti della fisiologia; altrimenti diventa il volano della corruzione. Politico: i Paesi in cui il presidenzialismo non crea problemi di eccessivo accentramento dei poteri sono quelli in cui il capo del governo è il prodotto di partiti che hanno una loro vita democratica e le loro regole. Negli Usa i partiti non sono solo comitati elettorali; in particolare quello che esprime il presidente ha una vita ricca, una dialettica che lo condiziona. In Francia, De Gaulle aveva dietro un partito. Hollande è stato per un decennio il segretario socialista».
E da noi?
«Da noi, la degenerazione personalistica nella politica è evidente. Più si accentua, più i partiti diventano macchine al servizio del padrone».
Berlusconi e Grillo per lei pari sono?
«Non dico questo. Bisognerebbe fare molte distinzioni: la prima riguarda il ruolo del danaro. In ogni caso, la democrazia nei partiti è questione che li riguarda tutti, quale più e quale meno. Vale la metafora della pagliuzza nell'occhio dell'altro e della trave nel tuo. Ma nella vita dei popoli, come notava Hegel a proposito della Rivoluzione francese, ci sono momenti in cui prevale l'insofferenza per le difficoltà e per la moderazione: e la democrazia è difficile e moderata. Frenesia di distruzione, per liberarsi dalle cose che sembrano gioghi. Qui entra la psicologia collettiva. Non è un segno di maturità, ma di decadenza. Ernst Bloch descrive questa sindrome collettiva nella Germania degli anni 20 e 30. Non dico che siamo a quel punto; ma certo oggi è un atteggiamento molto diffuso, e il presidenzialismo può essere la tentazione per liberarsi del peso della democrazia e, con il peso, della democrazia stessa».
Da costituzionalista come valuta la rielezione di Napolitano?
«Non c'è stata violazione di regole esplicite. La Costituzione non vieta la rielezione. Si pensava però che, ragionevolmente, il problema, in pratica, non sarebbe sorto. Persone onuste d'anni e di saggezza è buona cosa che non concorrano per la rielezione, anche perché una simile aspirazione potrebbe indurre a cercare appoggi politici e compromettere l'indipendenza. Quattordici anni? Un'enormità non repubblicana. L'articolo 85 dice che il Parlamento in seduta comune è convocato per l'elezione del "nuovo" Presidente della Repubblica: un residuo psicologico della convinzione che un secondo mandato non ci potesse essere. Del resto tutti i presidenti, compreso Napolitano, hanno sempre escluso l'ipotesi della loro rielezione. Il fatto che Napolitano, come s'è detto, abbia ceduto a uno stato di necessità è cosa che deve far riflettere: significa che la classe politica nel suo insieme è totalmente imballata, paralizzata al suo interno. In questi casi, non resta che congelare l'esistente. Ma è una sconfitta».
E come valuta il governo Letta-Alfano?
«Mi pare un'altra manifestazione di un sistema politico sovraccarico di tensioni, ricatti, di veti reciproci. Quando un sistema politico è in crisi per queste ragioni o implode, o si congela. Da Monti a Letta c'è un passaggio nel segno della continuità: si mantiene ferma la stessa formula in altra veste, con i politici al posto dei tecnici».
Lei pensa che la destra se ne avvantaggerà a scapito della sinistra?
«Dal punto di vista delle riforme, la danza la sta menando la destra. Il presidenzialismo è un tema tradizionale della destra autoritaria, cavallo di battaglia già del Msi, poi cavalcato dal partito di Berlusconi. Ed è uno dei punti centrali del piano di rinascita nazionale di Gelli. Queste cose non si usa dirle più. Sembrano politicamente scorrette. Ma la continuità di un'idea della politica che non è nata oggi vorrà pur dire qualcosa. Quelli che a noi paiono pericoli mortali, per loro sembrano opportunità. Invece alla visione e alla pratica della democrazia, secondo la sinistra e secondo la sociologia politica cattolica, quell'idea è stata sempre estranea. Non ricordo chi diceva: la destra propone, la sinistra segue; ma solo la destra sa quel che si fa».
Autorevoli esponenti del centrosinistra, a cominciare da Prodi, hanno aperto al presidenzialismo.
«Non so che dire. Non me lo spiego. I cattolici sono sempre stati irremovibili nel difendere una concezione politica che non poteva incarnarsi nell'uomo solo al potere. Alla Costituente, Calamandrei avanzò la proposta d'un sistema all'americana: presidenzialismo unito a federalismo, diritti di libertà, forti garanzie, a cominciare dall'indipendenza della magistratura e della Corte costituzionale. Ma non raccolse consensi. Riproporla ora mi pare effetto della sindrome di Stoccolma».
Anche Renzi sembra per il presidenzialismo. Che cosa pensa di lui?
«Lo conosco poco. Come innovatore lo apprezzo, ma nelle questioni istituzionali non si può improvvisare. La rottamazione, a parte la parola, può servire, se non significa liquidare gli anziani ma rompere le oligarchie. L'Italia è un Paese oligarchico. Governato ormai dalla "ferrea legge delle oligarchie" teorizzata da Michels, Mosca, Pareto. Un sistema che vive di privilegi, che ha bisogno di gestire il potere in modo non trasparente, quindi d'illegalità. Scuotere le oligarchie fa bene alla democrazia. Se davvero Renzi pensa ancora a questo, ben venga».
La rete è uno strumento per rompere le oligarchie, discutere, partecipare?
«A leggere certi blog, è uno strumento per scambiarsi insulti. La discussione non è questa, è dialogo, scambio di logos, di buone ragioni. La rete può far emergere bisogni, che però hanno bisogno di sintesi. E solo una struttura di persone responsabili di fronte a militanti ed elettori la può fare».
Grillo sostiene che gli eletti siano solo il terminale della rete. L'M5S è uno strumento di dialogo, o un'autocrazia?
«Gli eletti sono il terminale di un programma, che però va adeguato di continuo ai cambiamenti della realtà. Non hanno vincolo di mandato, ma non è che possono fare quello che gli pare. Quanto alla rete, è fondamentale la trasparenza».
Che effetto le ha fatto vedere il suo nome nelle «quirinarie»? Si è pure piazzato bene, al quarto posto...
«Sì ma con 4300 voti: cosa sono su 60 milioni di italiani? In ogni caso, nessuno mi ha mai interpellato. Neppure un colpo di telefono. Una cosa strana, che fa riflettere. Più che "quirinarie", sono state un limitato sondaggio di opinione».
Rodotà poi è entrato in urto con Grillo.
«Ringrazio il cielo che sia toccata a lui. Il Signore mi ha messo una mano sulla testa...».
Aldo Cazzullo

Repubblica 5.6.13
L’escamotage presidenzialista
di Barbara Spinelli


COME se fosse l’architettura dei poteri e una Costituzione difettosa, a impedire alla politica e ai partiti di ritrovare la decenza perduta, o a darsene una ex novo. Come se un capo di Stato eletto direttamente dal popolo, e più dominatore – è il farmaco offerto in questi giorni – servisse a curare mali che non vengono da fuori, ma tutti da dentro, dentro la coscienza dei partiti, dentro il loro rapporto con la cosa pubblica, con l’elettore, con la verità delle parole dette.
De Gaulle in Francia concepì la Repubblica presidenziale per sormontare la guerra d’Algeria: aveva di fronte a sé un compito immane – la decolonizzazione – e alle spalle una classe politica incapace di decidere. Non aveva tuttavia uno Stato intimamente corroso come il nostro, in cui i cittadini credono sempre meno. La costituzione semi-monarchica nacque per adattarsi a lui – l’uomo che da solo era entrato in Resistenza, nel 1940 – non per servire un capopopolo stile Berlusconi, che non sopporta il laccio di leggi e costituzioni. La politica francese prima del 1958 era inservibile, ma la corruzione morale e mentale non l’aveva sgretolata sino a farla svanire. La nostra guerra d’Algeria l’abbiamo in casa: è la nostra casa, squassata, che va decolonizzata. Sono qui dentro i golpisti, non lontani nelle colonie. Piazzare all’ingresso dell’edificio un padre-padrone, con poteri più vasti ancora di quelli che già possiede, non preserva la casa dalla rovina.
E poi non dimentichiamolo. Non fu facile far nascere la Quinta Repubblica. L’accentramento dei poteri all’Eliseo rese il Paese più efficiente, ma moltiplicò opache derive e non lo democratizzò. Avvenne piuttosto il contrario: un Presidente autocrate e decisamente di parte; un Parlamento in gran parte esautorato; un governo sempre sacrificabile dal Capo supremo, e non a caso chiamato fusibile: la Quinta Repubblica è anche questo, e venne confutata da politici e costituzionalisti di rilievo. Non si oppose solo il socialista Mitterrand, che nel ’64 scrisse Il colpo di Stato permanente, denunciando antiche vocazioni bonapartiste e la perdita – grave – della funzione di arbitro del Presidente. Pur esecrando il precedente regno dei partiti, pur approvando l’elezione diretta, si sollevarono anche costituzionalisti come Maurice Duverger: nella nuova Costituzione, egli scorse fin dal ’59 «spirito di rivincita» e partigianeria: “Ogni costituzione è un’arma politica, attraverso la quale un partito vincitore cerca di consolidare la propria vittoria e trasformare gli avversari in vinti”.
Né la rivolta fu solo di sinistra. L’attacco finale venne da Jean-François Revel che, osservando l’uso socialista della Carta gollista, scrisse un pamphlet feroce:
L’assolutismo inefficace.
Mitterrand fu accusato di indossare il detestato manto presidenzialista per spezzare la dialettica democratica: “Le costituzioni sono cattive quando il controllo può divenire invadente al punto di paralizzare l’esecutivo, oppure quando l’esecutivo diventa onnipotente al punto di annientare il controllo”. Testi simili aiutano a capire. Una costituzione è buona se consente controlli: “Senza contropoteri costituzionali – così Revel – il Presidente reagisce solo a forze esterne alle istituzioni: ai media e alle piazze”. Né si può dire che il presidenzialismo sia, almeno, più efficace: “Una buona costituzione non solo associa controllo ed efficacia senza sacrificarli l’un l’altro, ma garantisce l’efficacia perché esiste il controllo”.
Bisogna comunque avere uno Stato e virtù pubbliche ben solidi, per schivare questi pericoli. E l’Italia di oggi, dopo la Prima repubblica degradata in Tangentopoli, nella P2, nei patti Stato-mafia, dopo il ventennio dominato da uno scardinatore di istituzioni come Berlusconi, faticherà a salvaguardare la democrazia se cincischia la Carta proprio ora: è come se De Gaulle l’avesse negoziata con l’Organizzazione dell’armata segreta Oas. E non perché possediamo “la Costituzione più bella del mondo”, ma perché il vero check and balance, il reciproco controllo fra poteri indipendenti, non è compiuto. Più
che bellissima, la nostra Carta è finalmente da realizzare. Credere di raddrizzarla con il presidenzialismo vuol dire aggiungere un potere, lasciandola storta. Dicono che il popolo tornerebbe a esser sovrano, votando il Presidente. Non è detto affatto, rammentano i detrattori della V Repubblica. Mitterrand descrive rischi che saranno anche i nostri: una volta svuotati Parlamento, politica, governi, “si installa una tecnocrazia rampante, una sfera di amministratori indifferenti al popolo” che “confiscano il potere della Rappresentanza nazionale”. Citiamo ancora Revel: “La logica della V Repubblica
deresponsabilizza, perché il potere è attribuito da un onnipotente irresponsabile a creature che sono solo emanazioni della sua essenza, e che dunque partecipano del suo privilegio di irresponsabilità”. De Gaulle non era temuto come tiranno. Ma i suoi successori?
Altro scenario in Italia. Primo, perché non c’è un De Gaulle fra noi. Secondo, perché il contesto conta quando si disfa la Carta e il contesto nostro è quello di uno Stato diviso in bande, che ha patteggiato finanche con le mafie. Un male come il nostro nemmeno sappiamo più bene nominarlo, e proprio quest’afonia trasforma le discussioni sul presidenzialismo in furbo escamotage.
In doppia fuga: fuga dai fondamenti (quale bene pubblico è difeso da partiti o sindacati?) e fuga da noi, dalla nostra storia di colpe e misfatti. Una storia in cui si bagnano ormai destra e sinistra.
Se evochiamo parole morali come colpe e misfatti è perché qui è il nostro guaio, dilatatosi a dismisura: l’aggiramento voluto delle volontà cittadine, la parola sistematicamente non tenuta, il tradimento. Il governo Letta è visto come inciucio perché nato da intese tutte fuoriscena, ob-scaena.
È strano come i politici, perfino gli innovatori, evitino di menzionare una tema che resta cruciale: la morale pubblica. Giacché è per immoralità che si rinviano le cose prioritarie, anteponendo l’escamotage. Mai come adesso invece, la questione posta da Berlinguer nei primi ’80 è stata così attuale. Oggi come allora, è obbligo etico il «corretto ripristino del dettato costituzionale», il divieto ai partiti di occupare lo Stato. Nulla è cambiato rispetto a quando Berlinguer diceva a Scalfari che la questione morale «è il centro del nostro problema»: quell’«occupazione » produce sprechi, debito, ingiustizia. È questione morale allontanarsene subito. È urgente, fattibile, e però intollerato dalle oligarchie. Per questo pesa il contesto delle riforme istituzionali, e inane è mimare Parigi. Questo è un paese dove non è stata mai fatta una legge sul conflitto di interessi. Dove un magnate tv ha governato nonostante una legge del ’57 proibisca l’elezione di titolari di concessioni pubbliche (frequenze tv). E restano le leggi ad personam, grazie a cui quest’ultimo elude processi e condanne.
Questo è il paese dove si ha l’impressione che niente sia vero, di quanto detto in politica. Che tutto sia fumo o diversivo. Il Pd aveva promesso di non governare con Berlusconi, e ora Berlusconi comanda. Aveva promesso di cambiare subito la legge elettorale, restituendo all’elettore la scelta dei suoi rappresentanti, e neppure questo fa. Quel che è accaduto giorni fa è una pagina nera, simile alla pugnalata di Prodi. La mattina del 29 maggio il deputato Pd Giachetti raccoglie adesioni contro il Porcellum per tornare automaticamente alla legge Mattarella (1 milione 210.000 italiani hanno chiesto un referendum per ottenere proprio questo, il 30-9-11). Circa 100 firmano: di Pd, Sel e 5 Stelle. Ma arriva l’altolà di Enrico Letta e Finocchiaro («È intempestivo, prepotente!») e dei Pd resta solo Giachetti. Se ne parlerà, sì, ma se vorrà Berlusconi.
Questo è un paese dove si mente al popolo, annunciando pompose abolizioni del finanziamento pubblico ai partiti, e poi ecco una proposta che obbliga i contribuenti a sovvenzionarli col 2 per mille, anche quando non lo dichiarano (le cosiddette somme “inoptate”) Questo è un paese dove il presidente della Repubblica esercita poteri imprevisti. Con che diritto, sabato, ha definito «eccezionale» il governo: «a termine»? Il Quirinale già ha pesato molto, influenzando il voto presidenziale e favorendo le grandi intese.
Formidabile è la coazione a ripetere inganni, tradimenti. La chiamano addirittura pace,
responsabilità.
In realtà nessuno risponde di quel che fa o non fa. Deridono Grillo, che chiama portavoce i rappresentanti. Ma loro non sono affatto rappresentanti, essendo nominati. Nessuno è imputabile, e che altro è la non-imputabilità se non la fine d’ogni etica pubblica.

Repubblica 5.6.13
Belpaese
di Alessandra Longo

La difesa della Costituzione sembra ad alcuni un esercizio un po’ polveroso dettato da istinti di conservazione. Bisognerebbe intrecciare gli appelli di piazze come quella di Bologna, allestita domenica scorsa da Libertà e Giustizia, con le notizie che arrivano, per esempio, dall'Ungheria, quindi non tanto lontano da casa. Nell'indifferenza pressoché generale il premier Viktor Orban sta cancellando diritti che sembravano ormai garantiti dallo standard europeo. In queste ore protestano gli insegnanti. Un decreto dell’esecutivo li obbliga a iscriversi all'Ordine professionale e mette al primo posto la fedeltà alla Costituzione (quella voluta da Orban) e al governo. Una commissione etica stabilisce sanzioni per chi non risponde ai requisiti.
Basta davvero poco per tornare indietro.

il Fatto 5.6.13
Italia in crisi: boom di precari malpagati e suicidi in aumento


SONO 3.315.580 i precari italiani, guadagnano in media 836 euro netti al mese, solo il 15% è laureato, la pubblica amministrazione è il loro principale datore di lavoro e nella maggioranza dei casi lavorano nel Mezzogiorno (35,18% del totale). Sono i dati che emergono dal “Rapporto sui diritti globali 2013”, edito da Ediesse e a cura di Associazione Società Informazione Onlus, promosso da Cgil. ''Sono 121 le persone che tra il 2012 e i primi tre mesi del 2013 si sono tolte la vita per cause legate alla crisi: nel 2012 i suicidi sono stati 89, mentre nei primi tre mesi del 2013 32, il 40% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. 

il Fatto 5.6.13
Epifani, maxisegreteria con tutte le correnti Pd
di Wanda Marra


QUINDICI MEMBRI, RENZI ENTRA CON IL FEDELISSIMO LOTTI MA PERDE LA BATTAGLIA DELL’ORGANIZZAZIONE. RIMANDATA OGNI DECISIONE

“Guglielmo non sei più alla Cgil”. Epifani è arrivato alla fine dell’arduo compito di gestire la prima direzione da segretario Pd senza quasi intoppi. Ma poi evidentemente deve aver ceduto alla tensione, visto che per due volte nella replica si definisce “Segretario generale”. Brusio dal fondo della sala. Richiamato all’ordine. Per il resto, la riunione va nella migliore tradizione Pd. Un rimando di qua, una sospensione di là. “Fermiamoci un attimo”, dice al partito e al governo sulle riforme: si delega ad altre sedi (prima un seminario, poi una consultazione degli iscritti). Sulla data del congresso pure (“si farà entro l’anno”, assicura il segretario). E se arriva la squadra, anche le deleghe vengono rimandate alla prima riunione della segreteria. Non una squadretta, come sembrava deciso, ma uno squadrone: 15 membri, con una rigorosa spartizione dei posti tra le correnti. Dice Epifani, che evidentemente ha già capito quali sono le regole del gioco: “Le correnti sono utili se orientano il dibattito e la scelta”.
POSTI IN PIEDI ieri al Nazareno, gran pienone. La prima direzione democratica dell’era Epifani inaugura qualche abitudine e cancella immediatamente le ultime acquisite: invitati a partecipare tutti i parlamentari, regolarmente muniti di accredito. E niente diretta streaming. I grillini sono meno trandy, evidentemente .
All’entrata, un Superman che accoglie i democratici. E Matteo Renzi, che al solito catalizza le telecamere. “Io segretario? Ci sono cose più importanti”, dice lui, arrivando direttamente dalla Fiera del Lusso di Vienna, dove è stato a cena col direttore del Financial Times e l’amministratore delegato di Gucci. Ma ormai di queste riunioni che un tempo snobbava e non se ne perde neanche una. Certo fa un po’ effetto sentire Epifani chiarire che ci sarà la divisione tra candidato premier e segretario, proprio mentre tutti quelli che stanno intorno al sindaco di Firenze ammettono che lui potrebbe candidarsi al congresso. E la segreteria alla fine non è come lui la voleva. Perso il braccio di ferro sul fedelissimo Luca Lotti, che andrà agli Enti Locali, e non all’Organizzazione, che rimane al bersaniano Davide Zoggia. Nella squadra qualche sorpresa. In segreteria ci sono addirittura due presidenti di Regione: De-bora Serracchiani (Friuli) e Catiuscia Marini (Umbria) dei Giovani Turchi. E poi Roberta Agostini (bersaniana), Enzo Amendola (dalemiano), il segretario dei giovani Democratici Fausto Raciti (Giovani Turchi), Cecilia Carmassi, Matteo Colaninno, Alfredo D’Attorre (bersaniano), Antonio Funiciello (renziano), Andrea Manciulli (dalemiano) Alessia Mosca (lettiana), Pina Picierno (franceschiniana) Simone Valiante. Stessa logica Cencelli per la Commissione che dovrà stabilire le regole del congresso. Organismo forse più di rilievo di una segreteria a termine. Ne fanno parte tra gli altri uomini di fiducia di Letta (Gianni Del Moro), di Veltroni (Roberto Morassut), oltre all’ex uomo Organizzazione di Bersani (Nico Stumpo), al giovane Turco, Francesco Verducci al segretario dell’Emilia Romagna (Stefano Bonaccini). Per Renzi c’è Lorenzo Guerini (ex sindaco di Lodi, ora deputato Pd).
PER IL RESTO Epifani fissa punto su punto, la road map del “nuovo” Pd: “Reagiremo alle minacce di Berlusconi”. Perché, “la nostra idea di governo di servizio e il bisogno di riforme richiedono un impegno di due anni. Ma dobbiamo essere pronti a tutto se dovesse prevalere negli altri la decisione di far saltare il tavolo”. Un accenno ai dipendenti del Pd, che “non saranno lasciati soli”. I quali presentano un documento in cui chiedono un “tavolo di coordinamento aperto e plurale in cui si condividano le responsabilità”. Ma intanto viene approvato anche il bilancio 2012 con un disavanzo di 7,3 milioni. Alla fine, la direzione vota. Maggioranza bulgara, sei astenuti (tra i quali Civati, Tocci, Bachelet, la Bruno Bossio).

Repubblica 5.6.13
Il piano di Berlusconi per le elezioni “Il Pdl dovrà adeguarsi al predellino bis”
Il Cavaliere: la tregua non regge. Spunta il partito “a farfalla”
di Carmelo Lopapa


ROMA — È il piano B del Cavaliere per tornare al voto a ottobre. I segnali si moltiplicano di giorno in giorno, non c’è altro tempo da perdere, le motivazioni Unipol si sommano a tutto il resto. «Ormai è un cerchio che si stringe e il Pdl deve adeguarsi alla svolta, a quel che ci attende» dice un Silvio Berlusconi assai cupo al cospetto di falchi e colombe tornate a sedere allo stesso tavolo. Il suo: primo vertice notturno a Palazzo Grazioli dopo dieci giorni di blackout del capo, rientrato solo ieri a Roma Trascorre il pomeriggio a registrare spot e interviste alle tv locali per sostenere Alemanno al ballottaggio. Ma la testa dell’ex premier corre altrove. Al giudizio del prossimo 19 giugno alla Consulta sul legittimo impedimento nel processo Mediaset, alla sentenza Ruby del 24. «È evidente che la tregua non sta reggendo» ripete ai suoi interlocutori. Al vertice ci sono il coordinatore Verdini, il segretario Alfano, i capogruppo Brunetta e Schifani, compare Gasparri. Ma non Sandro Bondi, a sorpresa, benché invitato e in odor di rientro nei panni di coordinatore (dismessi un anno fa). «Non vado per evitare che la mia presenza venga strumentalizzata » fa sapere il dirigente che Alfano e altri “governativi” rivorrebbero ai vertici per compensare lo strapotere di Verdini in via dell’Umiltà. Anche di queste frizioni interne il Cavaliere si cura poco o nulla. «Avete letto le motivazioni Unipol? Io, l’uomo più intercettato d’Italia, divento l’unico condannato per la pubblicazione di intercettazioni» è il solo sfogo che si concede sulla vicenda. Per il resto, lascia che per tutto il giorno siano i parlamentari Pdl a menare fendenti con toni sempre più pesanti. Per Berlusconi, «è l’ennesima prova dell’accanimento per
eliminarmi dalla scena politica». E siccome i vertici istituzionali dai quali si attenderebbe un segnale, Quirinale in testa, tacciono, ecco che il Cavaliere non fa più mistero di prendere in considerazione l’ipotesi di un ritorno alle urne entro l’anno, in autunno. Gli consentirebbe, spiega, di affrontare la sentenza di Cassazione e l’eventuale interdizione dai pubblici uffici da presidente del Consiglio. E, a quel punto, innescare un conflitto di attribuzioni. Scenario da Armageddon, scontro aperto tra poteri dello Stato. Scenario da brividi, visto dal Colle. Tant’è che il leader Pdl a tutti spiega come l’unico ostacolo al suo “Piano B” sia proprio in cima al Quirinale, convinto com’è che difficilmente Napolitano scioglierebbe le Camere anche in caso di crisi del governo Letta. «L’esecutivo per ora va avanti, ma fatevi sentire su Iva, Imu e quant’altro» dice in serata al vicepremier Alfano. Ma tutto resta più che mai sospeso.
Tant’è che nella testa di Berlusconi — e nella macchina organizzativa che fa capo a Verdini — si lavora già a un nuovo partito, leggero, movimentista. È stato proprio Denis Verdini a illustrare ai commensali in serata il progetto del quale lui, la Santanché e Capezzone hanno parlato nel week end in Sardegna col leader. È il modello di partito «a farfalla», che riapre le ali giusto alla vigilia del voto. Ma la vera novità, che ha lasciato di stucco a Palazzo Grazioli e fuori, è la creazione dei “coordinatori regionali a budget”. Partiti senza più finanziamenti pubblici e allora — è il piano Verdini che piace al capo — ecco che i responsabili regionali d’ora in poi avranno una missione: racimolare un tot di finanziamenti privati. E saranno riconfermati al loro posto solo se il budget sarà centrato. Segretari-lobbisti, quasi. Una svolta senza precedenti per un partito italiano. Per il resto, partito leggero che punterà molto sul web per le campagne e dirigenti locali e nazionali ridotti al minimo (come sedi e dipendenti, del resto).
Il Pdl è schierato a testuggine in difesa del presidente. Daniela Santanché ieri sera a Otto e mezzo è arrivata a ipotizzare lo «sciopero delle tasse degli otto milioni che hanno votato per Silvio» come possibile reazione alle condanne. Ma ormai anche una moderata come la Gelmini va dichiarando che «la responsabilità ha un limite».

Repubblica 5.6.13
Il sottosegretario Biancofiore (Pdl): “Pronti a tutto per il Cavaliere. Qui sta venendo meno il principio della leale collaborazione tra poteri”
“La finestra per tornare alle urne è a ottobre”


ROMA — «Il ritorno al voto? Ma è nelle cose fin dal primo momento. Dal giorno in cui si sono chiuse le urne a febbraio. Il governo del quale faccio parte sta operando bene, sia chiaro. E Berlusconi ci dice in privato, come sostiene in pubblico, che le sue vicende vanno tenute distinte dai destini dell’esecutivo. Però... ».
Però, onorevole Michaela Biancofiore, amazzone e fedelissima del Cavaliere prima ancora che sottosegretario?
«Però, il Pdl ha un suo pensiero autonomo e potrebbe decidere, per affetto, di reagire in difesa del presidente Berlusconi, sfidando anche le sue resistenze. Di finestre per tornare al voto, se si vuole, se ne trovano anche in autunno. Il 27 ottobre ad esempio si riaprono le urne in Trentino Alto Adige».
Facciamo un passo indietro. Che succede dopo il 19 giugno se anche la Consulta darà torto a Berlusconi sul legittimo impedimento? Il governo rischia?
«Vedremo. Noi andremo dove lui ci dirà di andare. E quando dico noi, intendo noi berlusconiani “termopiliani”, berlusconiani eroici che di fronte al tentativo di annientare il loro capo rispondono ai vari Serse che ci intimano di gettare le armi: “Molon Labè”, “Venitele a prendere, se ne siete capaci!”»
Perché poi ci sarebbero i non «termopiliani», giusto?
«Ma sì, gli altri disposti a continuare la loro vita politica, legittimo. Non noi».
Tentativo di annientare Berlusconi, dice?
«L’accerchiamento giudiziario al quale stiamo assistendo, lei come lo chiama? Noi Guerra dei Vent’anni».
Certo, come altro chiamarlo. Pretendete anche che il Colle e la Consulta intervengano, giusto?
«Qui è venuto meno il principio cardine della leale collaborazione tra poteri. Ricordo che a suo tempo Berlusconi era il potere esecutivo E quando quel principio
viene meno, lo stato democratico entra in crisi. E se certa magistratura si fa potere di contrasto politico, allora occorre che qualcuno intervenga affinché non ci sia un giudizio contra personam».
Ma poi, intervenire per fare cosa? Bloccare le sentenze?
«Sia chiaro: io non mi permetto di dire che il Quirinale dovrebbe intervenire. Ma di fronte a una così persistente persecuzione giudiziaria con finalità politica, visto che prima del ‘94 Berlusconi non aveva mai ricevuto alcun avviso di garanzia, vorrei che qualcuno facesse semplicemente rispettare il diritto, ecco. Qui siamo alle congetture, al gossip, di violazioni vere, di prove non c’è traccia mentre i delinquenti veri sono a spasso».
E in caso di interdizione del capo, al termine del processo Mediaset?
«Vogliono questo? Bene. Sarebbe la classica vittoria di Pirro. Nessun potrà impedire a Berlusconi di fare politica fuori dal Parlamento. E il ripristino del simbolo di Forza Italia, che incarna ancora la rivoluzione liberale berlusconiana, segnerà il ritorno al partito movimentista, popolare. La rivoluzione liberale non si ferma ».
(c. l.)

il Fatto 5.6.13
Copasir, il pasticciaccio di Sel
di Marco Palombi


Di rinvio in rinvio sono passati la bellezza di tre mesi e mezzo e ancora non sono stati istituiti tutti gli organi parlamentari. Per la precisione il risiko sulle presidenze - che spettano all’opposizione - ne blocca ancora tre, tutti di un certo rilievo: le commissioni bicamerali Copasir (che controlla i servizi segreti) e Vigilanza Rai, più la Giunta per le elezioni e le immunità del Senato. Quest’ultima, in particolare, dovrebbe tenere la sua prima riunione oggi pomeriggio per eleggere presidente, vice e segretari e divenire abbastanza rapidamente un luogo di scontro politico centrale: è qui, infatti, che si dovrà discutere della ineleggibilità di Silvio Berlusconi in quanto concessionario pubblico (“presenteremo la richiesta alla prima occasione”, ha fatto sapere il M5S). Alla guida della Giunta, se non ci saranno sorprese dell’ultima ora, dovrebbe andare un uomo di Sel, il senatore Dario Stefàno: leccese, già vicepresidente della Confindustria pugliese, il nostro è stato iscritto alla Margherita e successivamente al Pd, partito a cui Nichi Vendola l’ha strappato candidandolo nella sua lista civica regionale nel 2010 e nominandolo poi assessore all’Agricoltura. Il tutto mentre Stefàno – bontà sua – si guardava attorno inquieto, flirtando con l’Udc. “E’ un democristiano: vedete che alla fine ci sarà modo di mettersi d’accordo”, prevede un senatore di centrodestra. Il problema è che la probabile elezione del senatore pugliese finirà per sbarrare la strada a Claudio Fa-va alla guida del Copasir: Pd e Pdl sembrano orientati a mettere su quella poltrona un uomo della Lega, per la precisione Giacomo Stucchi.
“Noi continuiamo a proporre Fava – insiste Ciccio Ferrara, dirigente di Sel – Non c’è accordo tra le opposizioni, visto che il M5S rivendica per sé ogni presidenza, e comunque la Lega sul governo si è solo astenuta. Serve un confronto sul merito delle candidature”. In sostanza, i vendoliani invitano il Pd ad uscire allo scoperto, ma non pare aria: Guglielmo Epifani e soci potranno sempre nascondersi dietro l’equa ripartizione delle poltrone (una a Sel, la Vigilanza al grillino Roberto Fico e il Copasir al Carroccio), a meno di non perdersi per strada il gruppo. Questo, peraltro, è proprio quello che sta già succedendo ai democratici nella Giunta per le elezioni proprio riguardo alla vicenda Berlusconi.
Il Pd ha otto membri (su 23) divisi in due sottogruppi: cinque (Lo Moro, De Monte, Cucca, Moscardelli e Pagliari) sono convinti che il Cavaliere sia eleggibile, tre (Casson, Pezzopane e Filippin) che non lo sia. Visto che il vecchio centro-destra conta almeno 8 voti, significa che in Giunta non c’è alcuna possibile maggioranza favorevole a cacciare l’ex premier da palazzo Madama, decisione che comunque sarebbe probabilmente bocciata dall’aula a scrutinio segreto. Il presidente, insomma, conta relativamente.
Più complicata potrebbe essere invece la situazione tra qualche mese, quando Berlusconi rischia di essere interdetto dai pubblici uffici con la sentenza definitiva del processo sui diritti tv. Successe già con Cesare Previti: condannato nel maggio 2006, la Giunta della Camera - a maggioranza centrosinistra - tra un rinvio e un’audizione ci mise allora un anno e tre mesi a prendere l’unica decisione possibile, dichiararlo decaduto da deputato. E’ in casi come questo che il presidente e l’ufficio di presidenza (tre vice e tre segretari, che saranno quasi tutti di Pd e Pdl) della Giunta hanno il loro massimo potere: la fissazione del calendario per discutere i provvedimenti gli lascia lo spazio per perdere tempo e rinviare l’inevitabile. E’ in casi come questi che potrebbe rivelarsi utile avere “un democristiano” con cui è facile andare d’accordo alla presidenza.
  
l’Unità 5.6.13
Il padre lo lascia in auto, muore a due anni
A Piacenza bimbo stroncato dal caldo dopo otto ore sotto il sole
Il papà avrebbe dovuto portarlo all’asilo ma è andato al lavoro dimenticandolo in macchina
Genitori sotto choc in ospedale
I precedenti di Passignano e Teramo
Lo psicologo: «Scatta un meccanismo di rimozione»
di Franca Stella


PIACENZA È morto per il caldo, perché in quell’auto, dove è rimasto per più di otto ore, non c’era più aria. Luca Albanese, un bambino di due anni di Piacenza, se n’è andato così, per asfissia, dimenticato dal padre convinto di averlo portato all’asilo aziendale nel quale era stato iscritto. Dove doveva andare ogni giorno, e dove doveva andare anche ieri. E invece Andrea Albanese, 39 anni, ieri mattina ha tirato diritto arrivando direttamente al lavoro. Ed è stato proprio lui a trovarlo senza vita. Lì dove aveva parcheggiato la sua monovolume, nella strada Borgoforte angolo via Bresciani a poca distanza dalla Copra, azienda di catering dove lavora.
La macchina è rimasta sotto il sole per tutta la mattina e una buona parte del pomeriggio. Il bambino era collocato nel seggiolino che a sua volta era piazzato nella parte posteriore dell’auto. E lì è rimasto per tutto il tempo. L’uomo, a quanto si apprende, era certo di averlo consegnato all’asilo e, con tutta probabilità, il figlio dormiva quando il padre è sceso dall’auto.
Secondo la ricostruzione fatta dai carabinieri, nel pomeriggio Andrea Albanese sarebbe stato chiamato al telefono dalla moglie, avvisata da suo padre. Il nonno del bimbo sarebbe andato a riprendere il piccolo all’asilo intorno alle sedici. Non trovandolo avrebbe avvertito sua figlia, la madre, che avrebbe, a sua volta, chiamato immediatamente il marito. A quel punto l’uomo, intuendo l’accaduto, si sarebbe precipitato all’auto scoprendo in preda alla disperazione il figlioletto ormai privo di sensi. Inutile ogni tentativo di rianimarlo. Arresto cardio-circolatorio causato da una prolungata esposizione ai raggi solari è la causa della morte ipotizzata dai carabinieri.
Il padre ha accusato un malore ed è stato trasportato in ospedale dove è ancora ricoverato. In ospedale è finita anche la madre. Entrambi versano in condizioni confusionali tanto che non è stato possibile procedere con l’interrogatorio. Per il momento non sono stati emessi provvedimenti penali. Il piccolo invece è stato trasportato all’obitorio della città dove sarà sottoposto a una autopsia che stabilirà con certezza le dinamiche di una morte tremenda.
Scatenata, come ha commentato Massimo Di Giannantonio, psichiatra all'Università di Chieti e membro del Consiglio direttivo della Società italiana di psichiatria, da un «meccanismo psicologico di rimozione», che non rappresenta una «patologia psichiatrica» ma vede alla base dei «profondi e seri conflitti irrisolti del soggetto». Non si tratta del primo caso di cronaca di questo genere: «Il fenomeno tipico alla base di queste manifestazioni spiega l'esperto è, dal termine tedesco, il cosiddetto fenomeno di “spaltung”, per indicare una frattura o dissociazione nella coscienza». In questa situazione, chiarisce Di Giannantonio, «la persona svolge normalmente dei compiti cui è abituato, come guidare l’auto, ma al tempo stesso separa e toglie dalla sfera della coscienza un elemento importante, come il compito di accompagnare all'asilo il proprio bambino in auto».
Come ricordato non è la prima volta che un episodio simile accade in Italia. Una tragedia molto simile era avvenuta circa due anni fa a Passignano sul Trasimeno in provincia di Perugia.
Jacopo, 11 mesi, fu lasciato dal padre nella sua auto parcheggiata per ore sotto al sole di fronte al Club velico del Trasimeno dove l’uomo, un quarantenne del posto, lavorava come una sorta di factotum. Durante quella giornata, era il 27 maggio, la temperatura si era avvicinata ai 30 gradi. Quando si accorse di lui era troppo tardi e i soccorsi furono inutili. Un tragico incidente per il quale a carico del padre del piccolo era stato ipotizzato il reato di omicidio colposo.
E ancora. Stessa sorte era toccata alla piccola Elena qualche settimana prima a Teramo. Il padre della piccola di 22 mesi, docente universitario alla facoltà di veterinaria della città abruzzese, invece di portare la figlia all’asilo la dimentica in auto. La ritrova alle 13 già senza conoscenza, la bambina morirà dopo tre giorni di coma in terapia intensiva. La donazione dei suoi organi ha aiutato a vivere altri tre bambini.
Infine, il 30 maggio del 2008 a Merate (Lecco), toccò alla piccola Maria. La mamma, un’insegnate, invece di portare sua figlia dalla baby sitter arrivò a scuola lasciandola in auto. Quando alle 13 la tata r chiamò la donna per sapere come mai non le fosse stata portata Maria la madre si rese conto che la bimba era rimasta in auto e la trovò agonizzante. Morì poco dopo.

La Stampa 5.6.13
“Ma quale stress È il nostro cervello che a volte va in tilt”
Il medico: “Tradito da una falsa coscienza”
di Marco Accossato


«Sarebbe troppo facile sostenere che la tragedia di Piacenza è dovuta allo stress, ai ritmi insopportabili di vita a cui è sottoposto quel padre». Il dottor Vincenzo Villari, direttore della Psichiatria ospedaliera presso la Città della Salute e della Scienza di Torino sgombra immediatamente il campo da una semplificazione: «Lo stress è un argomento che può giustificare qualsiasi cosa, sarebbe riduttivo e banale limitarsi a questa analisi».
Allora che cosa può far dimenticare per ore un figlio in auto?
«Se escludiamo una causa patologica come una malattia al cervello, le ipotesi sono due. Capita che il nostro cervello abbia improvvisi buchi della memoria a breve termine. Una falsa coscienza che ci porta a comportarci in modo assolutamente, e a volte drammaticamente, incongruo. Non c’è un perché: accade e basta, anche se generalmente le conseguenze non sono così tremende come quanto è accaduto a Piacenza. Non a caso la coscienza torna, mai spontaneamente, soltanto quando qualcuno ci riporta alla realtà: la moglie o la baby sitter che telefonano per sapere se il bimbo è arrivato bene all’asilo o se il papà è già andato a riprenderlo al pomeriggio».
La seconda ipotesi?
«È quella che gli psicodinamisti chiamano “atto mancato”, appellandosi all’inconscio».
Diversi suoi colleghi sostengono questa ipotesi freudiana: dimenticare il figlio in auto, fino a farlo morire, sarebbe la traduzione di un conflitto irrisolto con il coniuge, un meccanismo inconscio...
«L’inconscio non può essere analizzato con generalizzazioni. Bisogna conoscere le persone coinvolte, la loro storia. Se parliamo di inconscio l’origine potrebbe essere anche una rivalsa nei confronti dei propri genitori. O un conflitto non risolto con il proprio esser stati bambini. Ma, ripeto, non si può generalizzare».
Un fatto è certo: a qualunque genitore sembra un fatto inaccettabile. E quindi imperdonabile.
«Questo è l’altro aspetto della vicenda, aspetto che rappresenta il “dopo” la morte del bimbo. Un evento del genere è devastante, porta alla necessità di elaborare un lutto che è impossibile da elaborare, perché pieno di sensi di colpa, innanzitutto nei confronti del bimbo morto, ma anche dell’altro genitore. La cronaca ci ha raccontato altre vicende identiche. Parliamo di persone ad altissimo rischio di depressione, fino al gesto più estremo che è quello del suicidio».

Corriere 5.6.13
Quel buco nero che inghiotte il nostro essere genitori
In Usa negli ultimi 12 anni oltre 500 casi analoghi
di Paolo Di Stefano


In genere questo tipo di black out si associa agli oggetti: le chiavi di casa, il portafogli, i documenti, un orologio, una carta di credito lasciati chissà dove, perduti chissà per quale strano vuoto. Ma un bambino. È possibile trattare un bambino alla stregua di un oggetto? L'indignazione (degli altri che si ritengono al riparo da simili «dimenticanze») è facile, pur se comprensibile. Può darsi che anche il povero padre di Piacenza si sia indignato, in passato, leggendo di tanti altri padri (quello di Catania, quello di Teramo o quello di Passignano) che avevano abbandonato i figli nell'auto, sotto il sole cocente, scendendo, chiudendo la portiera e andando a lavorare come tutti i giorni, senza ricordarsi più del piccolo addormentato sul sedile posteriore. Indignarsi è facile, e anche comprensibile. «Come si fa a dimenticarsi di un bambino?». Ma si può mai pensare, ragionevolmente, che in quel cortocircuito, in quella distrazione clamorosa, in quel precipizio mentale ci sia davvero qualcosa di consapevole? Si parla di dissociazione, una specie di ipnosi: la tua coscienza se ne va dove vuole, non riesci più a dominarla, saltano le priorità, la cura, la responsabilità paterna. Salta tutto.
Non sarà scientificamente corretto, ma si può immaginare una piccola esplosione dei nessi logici e temporali, un fusibile andato in fumo, una bomba impercettibile che produce un buco nero, un cratere, un vuoto, una voragine, un'assenza, un lapsus fatale. E un vuoto non di un istante, ma di una mattinata, di una giornata intera in cui il ricordo e la «distrazione» non vengono a galla, ci si dimentica persino di essere un marito, un genitore, come se il cervello non riuscisse più a contenere nient'altro che quello che stai facendo in quel preciso momento e nel momento dopo e ancora in quello dopo, un'infinità di momenti accalcati l'uno contro l'altro, per ore. Come se la mente non lasciasse spazio al respiro, al riposo, al relax, alla riflessione, a una pausa, alla memoria, a un'emozione, alla coscienza. Una compressione che non concede spiragli.
Sarà l'abitudine vigliacca che divora l'identità, la consapevolezza, il proprio essere al mondo, le immagini familiari, una qualsiasi parola chiave che potrebbe diventare un gancio di lucidità, un motivo di risveglio da un sonno profondo, chi lo sa. Lo stress, il lavoro, l'ansia, la fretta? Prese una a una, sono tutte banalità. Banalità che però producono conseguenze mostruose, come il famoso battito di farfalla che provoca un uragano a migliaia di chilometri di distanza. Neurologia e psicologia insieme forse saprebbero spiegarlo. Forse no. Il sociologo noterebbe che c'è sempre (spesso) un'automobile che diventa una camera a gas e intorno c'è anche il non-luogo di Marc Augé, il parcheggio, magari immerso in una città assordante, frenetica. Banalità, anche queste. Probabilmente pensiamo di vivere vite ordinarie, senza sapere che ci sono diventate insostenibili. L'ordinario alterato, lentamente distorto, giorno dopo giorno, fino a diventare straordinario, sotto i nostri occhi non consapevoli. In America, dove negli ultimi dodici anni si sono verificati oltre 500 casi analoghi, stanno studiando dei prontuari per genitori «distratti».
Succede ovunque: Cina, Francia, Germania. Qualcuno prima o poi inventerà qualcosa: una suoneria collegata a seggiolino del piccolo e pronta a dare l'allarme quando si chiude la portiera. Ben venga ogni strumento preventivo. Ma è facile immaginare che stavolta la tecnologia, come l'indignazione, non basterà.

Repubblica 5.6.13
Lo psicanalista Lingiardi: un dramma più frequente di quanto si immagini
“Così il cervello va in corto circuito e annulla ciò che abbiamo di più prezioso”
di Caterina Pasolini


ROMA — «È come se un buco inghiottisse una funzione mentale, la sicurezza della memoria affettiva. È un corto circuito del cervello che cancella per ore la cosa più importante della nostra vita». Vittorio Lingiardi, psichiatra, (autore di La personalità e i suoi disturbi, Il Saggiatore), e docente alla Sapienza pesa le parole.
Dimenticarsi un figlio, come è possibile?
«Accade più spesso di quanto si pensi: in America sono decine i casi ogni anno, c’è persino un’associazione di genitori che hanno visto il figlio morire così».
Perché succede?
«È come se si verificasse una dissociazione tra due modi di funzionare della memoria. Quella affettiva si congela, quella procedurale prosegue e svolge i suoi compiti. Ci si ricorda di pagare il parcheggio e ci si dimentica il bambino nell’auto».
Cosa provoca la dissociazione?
«La memoria è una struttura complessa, a breve e a lungo termine, dichiarativa e procedurale, che è l’area di archiviazione dei ricordi in un certo senso automatici, come andare in bicicletta. Queste memorie agiscono tra loro e con la nostra vita emotiva. Difficile dire quale errore cognitivo o orrore emotivo mandi in tilt questa rete complessa».
Cosa scatena il corto circuito?
«Sicuramente non aiuta vivere in una società che ci costringe a essere multitasking, a funzionare come un computer aperto su dieci finestre contemporaneamente, ciascuna rivolta a un compito».

Repubblica 5.6.13
Ma nessuno giudichi quell’uomo
di Michela Marzano


NON è giusto che se ne vada via così, per una malattia o una sciagura, senza aver avuto la possibilità di scoprire la vita e diventare adulto. Non è giusto, ma talvolta accade. E non serve a nulla recriminare su quello che si sarebbe dovuto o potuto fare. Soprattutto quando la morte di un figlio dipende in parte da sé, da quell’attimo o quelle ore di disattenzione, quando si è presi dai ritmi frenetici di una vita sempre più piena, e magari si pensa di aver già fatto il proprio dovere di genitore.
Il dramma di Luca, il bimbo di due anni morto asfissiato nella periferia di Piacenza perché il papà, invece di portarlo all’asilo, lo aveva dimenticato in macchina prima di andare a lavorare, non è il primo e non sarà l’ultimo. È un dramma molto contemporaneo che non ha niente a che vedere né con la presunta irresponsabilità di alcuni padri di oggi, né con il disinteresse nei confronti dei bambini. È semmai il tragico sintomo di una società sempre più frenetica e sempre meno umana, in cui siamo tutti prigionieri di un fare irrequieto e convulso. A chi non è mai successo di dimenticarsi delle persone più care, persino dei propri genitori o dei propri figli, perché tanto si era sicuri di ritrovarli a casa alla fine della giornata? Chi può dire di esserci sempre quando gli altri – cui pure vogliamo tanto bene – hanno bisogno di noi?
Certo, i bambini, a differenza degli adulti, dipendono completamente dai genitori. Hanno bisogno di tutto e ne hanno il diritto, visto che non hanno domandato nulla e spetta ai genitori proteggerli, amarli, custodirli. Soprattutto quando i bimbi sono talmente piccoli da non potersi nemmeno esprimere. Come proteggere, amare e custodire qualcuno però quando, a forza di agire in automatico, correre dietro alle cose da fare, uscire presto di casa e tornare tardi la sera, non si è nemmeno più capaci di occuparsi di se stessi?
Ci sono casi in cui giudicare non serve a nulla, anzi. Perché sarebbe potuto capitare a chiunque di credere di aver portato all’asilo il figlio prima di andare a lavorare, anche a chi si permette di giudicare severamente questo padre considerandolo un irresponsabile o, ancora peggio, un mostro. C’è qualcosa di estremamente banale in questa tragedia, banale come il male di cui ci parlava Hannah Arendt quando spiegava che ognuno di noi può commetterlo, soprattutto se si smette di riflettere e ci si lascia andare alla routine. È forse per questo che si resta attoniti e che si preferisce immaginare che a noi non sarebbe mai potuto accadere. Invece di compatire quest’uomo che forse non si riprenderà mai dai sensi di colpa che lo assalgono, e riflettere sul modo in cui cambiare le nostre abitudini quotidiane, perché a forza di correre sempre rischiamo poi di perdere di vista il senso stesso della vita.

l’Unità 5.6.13
Stato-mafia, oltre l’anomalia dell’inchiesta
di Giovanni Pellegrino


Un autorevole studioso di diritto penale, Giovanni Fiandaca, in un saggio apparso su una rivista scientifica, analizza l’ipotesi accusatoria formulata dalla Procura di Palermo al termine dell’indagine sulla presunta trattativa Stato-mafia, scomponendola nei suoi elementi costitutivi per rivelarne la scarsa attendibilità e a tratti una tessitura giuridica abbastanza grossolana.
Spetterà ai cultori del diritto penale dello stesso livello di Fiandaca aggiungere nuovi elementi alla sua critica oppure prenderne le distanze con motivate opinioni di dissenso. Senonché Il Foglio di Ferrara ha pubblicato il saggio di Fiandaca come inserto di un suo numero recente, rendendolo così accessibile ad un pubblico più vasto; iniziativa indubbiamente opportuna, perché ha consentito a molti, tra cui chi scrive, di dare una base scientifica all’impressione negativa ricevuta da un’accusa, che da subito apparve loro porsi al limite estremo della verosimiglianza.
Difficile infatti credere che vertici mafiosi, ufficiali dei carabinieri e politici di primo piano abbiano operato insieme (perché è pur questo che l’accusa prospetta, imputandoli di concorso nella commissione di un delitto doloso) per imporre al governo l’instaurarsi di una trattativa volta all’attenuazione del contrasto legale alla organizzazione mafiosa con la minaccia, a partire dal delitto di Lima, di nuovi omicidi, e dopo Capaci, di nuovi attentati stragisti.
La minaccia avrebbe influito sulla stessa composizione del governo Ciampi con la sostituzione di Scotti con Mancino e di Martelli con Conso nella titolarità dei dicasteri degli Interni e della Giustizia; sostituzioni funzionali a rendere più agevole l’instaurarsi e lo svolgersi della trattativa; con l’esito paradossale che Mannino sarebbe uno dei coautori della minaccia ed insieme un destinatario della stessa, una volta che del governo era membro!
Secondo il giudizio di una fonte di indiscutibile autorevolezza, l’accusa palermitana risulta quindi non soltanto spinta ai limiti estremi della verosimiglianza, ma anche e per più profili, giuridicamente scorretta, anche se lo studioso non esclude che l’indagine palermitana possa risultare di qualche utilità, se nello svolgimento del processo emergeranno singoli episodi e responsabilità individuali suscettibili di essere sanzionati da norme diverse da quella impropriamente utilizzata dai Pm nel formulare l’accusa: la violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato punita dall’art. 338 del codice penale.
L’INDAGINE PALERMITANA
La pubblicazione su un quotidiano di questo giudizio critico offre peraltro spunti di utile approfondimento a quanti da anni si interrogano sulle ragioni storiche, per cui nel nostro Paese, assai più intensamente che in altri, si è acceso da oltre un ventennio un conflitto aspro tra politica e giustizia, che nuoce all’ordinato svolgersi della vita democratica e al complessivo funzionamento delle istituzioni.
Non vi è dubbio infatti che la indagine palermitana costituisce di questo conflitto una significativa pagina ulteriore, una volta che, come Fiandaca nota, il tentativo di far cessare le stragi costituiva un obiettivo legittimo e dovuto per il governo, rientrando nella sua discrezionalità la scelta dei mezzi da utilizzare a tal fine. Sicché la condanna politica e morale che permea di sé l’accusa palermitana si rivela scarsamente rispettosa del principio costituzionale della divisione dei poteri, in quanto prospetta come unica legalità possibile «una lotta alla mafia che vede come unica istituzione competente la magistratura, stigmatizzando come interferenza illecita ogni intervento autonomo di ogni altro potere istituzionale».
A ciò può aggiungersi soltanto che rientrava nei compiti di istituto degli ufficiali dei Carabinieri investigare autonomamente su quali fossero i fini che Cosa nostra intendeva perseguire con la scelta della strategia stragista; una attività di indagine che all’evidenza la Procura di Palermo ritiene in sé indebita e riprovevole, sol perché non preventivamente autorizzata dalla magistratura inquirente.
Peraltro, come Fiandaca sottolinea, rientra nell’ambizione confessata della Procura di Palermo affidare alla successiva fase dibattimentale un esame complessivo dell’azione posta in essere dal governo nel tentativo di bloccare l’escalation stragista e quindi «una sorta di processo alla politica governativa di allora, prima ancora che a singoli esponenti politico istituzionali sospettabili di comportamenti penalmente rilevanti».
Ma se è così, diviene evidente come la vera posta in gioco, anche nell’imminente processo palermitano, sia la determinazione di un nuovo punto di equilibrio tra i poteri nella democrazia del terzo millennio, per assegnare in questa una posizione di egemonia al potere giudiziario rispetto al potere politico ancorchè fondato sul mandato rappresentativo. È quanto di recente abbastanza chiaramente ha auspicato una corrente autorevole della magistratura associata (Md), quando ha postulato la necessità di un ritorno allo spirito del 1992. Vi è in questo auspicio un riferimento temporale preciso (gli inizi degli anni 90), che pure spesso ritorna nell’indagine palermitana e che induce a domandarci, perché fu proprio in quel torno d’anni che una parte non piccola della magistratura italiana fu spinta ad avocare a sé la descritta posizione di egemonia; riferimento temporale che non sfugge a Fiandaca quando, sul finire del suo saggio, opera un preciso riferimento alla «esperienza giudiziaria per vari aspetti emblematica di Mani Pulite».
Nell’investigare le ragioni, per cui il conflitto tra politica e magistratura si accese allora con tale virulenza da far prospettare l’ipotesi di una vera e propria rivoluzione giudiziaria, non è dato prescindere dal generale contesto, che segnò il trapasso tra gli anni 80 e 90 del secolo scorso, quando si diffuse nel mondo la filosofia della fine della storia e cioè una visione complessiva delle cose, che teorizzava la immutabilità del modello economico-sociale determinato da un mercato ormai globalizzato.
Tutto ciò condusse alla prospettazione, anche all’interno delle democrazie occidentali, di un diverso equilibrio tra i poteri, con l’assegnazione di un ruolo egemone a poteri giurisdizionali o comunque arbitrali, restringendosi l’ambito di intervento del potere politico, sottoposto ad un controllo tanto più intenso, quanto maggiore appariva la possibilità di suo intervento distorsivo sugli equilibri di mercato.
In molte richieste di autorizzazione a procedere che le Procure (e in particolare quella di Milano) indirizzarono in quegli anni a Camera e Senato questa visione del mondo fu pur chiaramente e lealmente enunciata per giustificare l’improvviso rigore, con cui la spada vindice della giustizia calava su un fenomeno pluridecennale, il finanziamento illegale della politica, che benché noto o comunque agevolmente accertabile era stato fino ad allora sostanzialmente tollerato.
Ancora una volta attengono al contesto storico le ragioni per cui questa autoaffermazione di egemonia da parte delle magistrature inquirenti non destò allarme (se non in pochissimi), ma fu generalmente accettata. È innegabile infatti che nell’ultimo decennio della prima Repubblica la partitocrazia aveva raggiunto il suo grado di massimo sviluppo, pervadendo profondamente l’economia reale e drenando da questa quantità sempre crescenti di ricchezza.
Non può stupire, quindi, che in questo contesto i magistrati si sentissero investiti dalla missione salvifica di liberare la società italiana da un peso ormai divenuto intollerabile, incidendo sui punti di debolezza del sistema politico di allora: l’uno, il più evidente, quello già ricordato del finanziamento irregolare, su cui agì soprattutto la Procura di Milano, l’altro quello costituito dal rapporto ambiguo venuto sin da epoche lontane a costituirsi, sia pure con momenti di differente intensità, nelle regioni meridionali tra potere politico e contropotere delle cosche, su cui si mosse con particolare vigore non solo la Procura di Palermo, ma anche quella di Napoli, con le iniziative assunte nei confronti di Antonio Gava e dei politici che a lui facevano riferimento, spesso concluse con esiti assolutori abbastanza clamorosi e di cui nel dibattito pubblico quasi nessuno oggi serba memoria.
LO SQUILIBRIO DEI POTERI
L’analisi storica di un recente passato attesta quindi, con l’evidenza dei fatti, non solo il contemporaneo attivarsi di inchieste da parte di uffici giudiziari diversi, ma il loro convergere verso un medesimo obiettivo, che storicamente può dirsi pienamente e opportunamente raggiunto: la destrutturazione di un sistema politico non più in linea con le esigenze proprie della modernità.
Raggiunto l’obiettivo, sarebbe stato naturale il ristabilirsi di un nuovo punto di equilibrio (ovviamente diverso da quello del passato) tra potere politico e potere giudiziario nella dialettica istituzionale, ma ciò è stato impedito da una nuova e non meno grave anomalia storicamente determinatasi nella politica italiana: l’assunzione di un ruolo di vertice da parte di uno dei principali imprenditori del Paese, capace di costituire un nuovo partito padronale con aspirazione maggioritaria, cui già nel 1994 arrise un imprevedibile successo.
Una volta che l’assunzione del ruolo politico da parte di Berlusconi non ha coinciso con un’abdicazione dal suo ruolo imprenditoriale, ne diviene innegabile l’effetto distorsivo non solo sulla dialettica democratica, ma ancor prima sulla competizione concorrenziale del mercato: una nuova anomalia, cui la magistratura non poteva restare e non è restata insensibile, così determinando l’aprirsi di una nuova fase nel conflitto tra giustizia e politica, in cui si inserisce il coinvolgimento di Dell’Utri nell’indagine palermitana.
Una conclusione a chi scrive sembra quindi dovuta: finché dura l’anomalia berlusconiana non è prevedibile che la conflittualità tra politica e giustizia possa in qualche modo cessare o almeno attenuarsi, rendendo così illusorio l’auspicio che da giurista Fiandaca formula nella conclusione del suo saggio.

il Fatto 5.6.13
Indesit, 1.400 tagli per puntare a Est
di Salvatore Cannavò


La Indesit utilizza il termine “razionalizzazione”. Ma, in soldoni, il suo piano di ristrutturazione si traduce in 1.425 posti di lavoro che se ne vanno nel settore dell’elettrodomestico. Uno dei più colpiti dalla crisi con 50 mila posti di lavoro a rischio su 130 mila complessivi, compreso l’indotto.
IL PIANO della multinazionale marchigiana, leader in Europa con un fatturato di 2,9 miliardi di euro, 16 mila occupati e 8 poli industriali (dalla Polonia alla Turchia alla Russia), conferma sulla carta “la centralità strategica dell’Italia” ma prevede una “razionalizzazione dell’assetto produttivo”. La riorganizzazione, spiega Indesit, “è necessaria per l’attuale scenario competitivo europeo che vede il mercato ancora negativo rispetto ai volumi del 2007”. Il calo del mercato esiste ma non ha impedito alla Indesit di chiudere il 2012 con 137 milioni di margine operativo e 62,3 milioni di utile ai soci controllanti, al 60% la famiglia Merloni. Indesit, del resto, ha già ridotto la capacità produttiva in Italia: l’ultima volta, pochi mesi fa con la chiusura dello stabilimento di None (To) e lo spostamento della produzione in Polonia. Il nuovo piano punta ad accorpare la produzione italiana in “tre poli industriali” con Comunanza (Ap) “driver dell’innovazione per le lavabiancheria a carica frontale” e il sito di Caserta “dedicato alla produzione di frigoriferi e i piani cottura a gas da incasso”. Fabriano diventa l’unico polo produttivo per i forni, concentrando anche le produzioni oggi realizzate in Polonia. Le altre produzioni italiane, invece, “saranno riallocate in Paesi a miglior costo” come Polonia e Turchia. Saltano quindi gli stabilimenti di Melano (An) e Teverola (Ce). Lo spostamento dell’azienda verso est risale al 2000 con l’acquisizione della russa Stinol e poi è proseguita con nuovi stabilimenti ancora Russia e in Polonia.
La doccia fredda di ieri arriva dopo la nota aziendale che chiudeva il primo trimestre del 2013: “Nonostante l’anno si apra con mercati per noi importanti ancora in calo, in particolare Italia e Francia – scriveva l’ad, Marco Milani – registriamo segnali di crescita a Est. Guardiamo al futuro con ottimismo poiché Indesit ha le persone, le idee e le risorse per consolidare la propria posizione nel mondo dell’elettrodomestico”. “Questo piano ha conseguenze gravi sui livelli occupazionali” dice la Fiom-Cgil in sintonia con gli altri sindacati, Fim e Ugl in testa. I 1.425 esuberi, infatti “si aggiungono agli oltre 330 esuberi ancora presenti e alle chiusure di Brembate, Refrontolo e None”. Il sindacato ha proclamato 4 ore di sciopero e chiede l’intervento di governo e enti locali. Da segnalare anche l’intervento del vescovo di Fabriano, mons. Vecerrica: “Indesit è stata importante per questo territorio, ma da esso ha anche saputo trarre benefici, che oggi trovino il modo di ridare qualcosa a questo territorio”.

Repubblica 5.6.13
Ordini in crisi, dai gesuiti alle clarisse quattrocentomila i religiosi in meno
Un crollo dal ’70 a oggi. E le case generalizie sono vuote
di Paolo Rodari


UN PARADOSSO all’ombra di San Pietro. Ora che sul soglio pontificio siede il primo Papa degli ultimi 150 anni proveniente da un ordine religioso (prima del gesuita Francesco il precedente fu un camaldolese italiano), le congregazioni conoscono una crisi di vocazioni senza precedenti. A leggere i dati diramati dal Vaticano pochi giorni fa all’interno dell’annuario statistico 2013, fa rumore il crollo costante e continuo di vocazioni maschili e femminili. Dai gesuiti ai francescani, oggi sono poco più di centomila i religiosi nel mondo, 710mila circa le religiose. Ma erano rispettivamente più di 150mila e più di un milione all’inizio degli anni Settanta, gli anni del grande boom in scia al vento del concilio Vaticano II. Poi una decrescita inesorabile, che in proporzione ha colpito di più le donne degli uomini: il calo negli ultimi anni ha riguardato tre continenti (Europa, America e Oceania), con variazioni anche di rilievo (-22 per cento in Europa, - 21 per cento in Oceania e -17 per cento in America).
Le case generalizie degli istituti religiosi si trovano in ogni angolo a Roma. Enormi edifici nascosti dietro mura imponenti. Costruiti dopo il Concordato, per anni sono stati abitati da frotte di consacrati. Poi, dopo gli anni Settanta, una debacle che oggi fa felici gli agenti immobiliari della città pronti ad accaparrarsi, a prezzi stracciati, edifici dal valore immenso. Tanto che molti nella Chiesa si domandano cosa succederà in futuro. Arriverà l’anno zero delle vocazioni? Oppure no? Difficile rispondere. Di certo c’è un fatto: dalla prima messa da Pontefice nella Cappella Sistina fino a oggi, Francesco ha ribadito decine di volte la necessità della vocazione religiosa, spiegando che la Chiesa non è una onlus né un’organizzazione sociale e che la sua missione non si esaurisce nell’impegno sociale-caritativo. Parole che sembrano mostrare la consapevolezza del fatto che il crollo clamoroso di vocazioni dopo il Vaticano II ha un’origine nell’eccessiva mondanizzazione degli ordini che a forza di inseguire la modernità si sono, come disse il cardinale Giacomo Biffi in una celebre omelia per la festa della Madonna di San Luca, «disciolti in essa». Dagli anni Cinquanta a oggi i religiosi gesuiti sono calati del cinquanta per cento nel mondo. La diaspora più grande si è avuta con il “Papa nero” padre Pedro Arrupe, entrato in rotta di collisione con Wojtyla per l’eccesso di progressismo e indulgenza verso la teologia della liberazione in Sudamerica. In tanti in quegli anni hanno lasciato l’abito sia nel nome di un’opposizione allo sbilanciamento verso un’ottica progressista dell’ordine sia, al contrario, per seguire fino alle estreme conseguenze l’apertura al mondo. Così anche i francescani, fino a poco tempo fa il secondo ordine più numeroso, ora superati (si fa per dire) dai salesiani. Fra tutti, le perdite minori dai tempi del Concilio a oggi le hanno subìte i cappuccini, soltanto il 17 per cento in meno di aderenti: erano circa 15mila nel 1959, sono quasi 11mila oggi. Così sono calati anche i principali ordini femminili, le clarisse che negli ultimi dodici anni sono passate da 8 a 6mila e le domenicane da quasi 4mila a poco più di tremila.
Un caso a parte è quello dei Legionari di Cristo, l’istituto religioso fondato nel 1941 da Marcial Maciel Degollado, il prete messicano che post mortem si è saputo aver abusato per anni di minori. Nell’ultimo biennio, il tempo in cui il cardinale Velasio De Paolis è stato mandato dal Vaticano come commissario straordinario dopo l’emergere dello scandalo, sono state 269 le defezioni, non poche in un istituto oggi formato da 1993 membri.
All’interno della Chiesa la lettura di questi numeri è duplice. Da una parte c’è chi accusa il Vaticano II. Dopo il Concilio si sono riscritte regole e statuti, si è addolcita ascesi e disciplina, si è arrivati all’imborghesimento di vite che anche in virtù di una certa austerità aprivano la strada a nuove vocazioni. Per altri questa lettura è del tutto semplicistica. A Roma è il cardinale brasiliano João Braz de Aviz a essere a capo della Congregazione dei religiosi. Importante elettore di Bergoglio è lui a lavorare nel tentativo di fermare la grande fuga dagli ordini. I prossimi anni diranno come.

l’Unità 5.6.13
Taksim spiazza il governo. Il vicepremier chiede scusa
Sciopero di 48 ore dei lavoratori pubblici
di Umberto De Giovannangeli


Dopo il pugno di ferro, ad Ankara c’è chi prova a vestire i panni del «pacificatore». In Turchia esponenti del governo provano a placare i manifestanti, dopo aver esibito i muscoli di fronte alle proteste di piazza a Istanbul e nel resto del Paese. «Il governo ha imparato la lezione», assicurao il vicepremier Bulent Arinc in una conferenza stampa, «non abbiamo il diritto e non possiamo permetterci di ignorare la gente. Le democrazie non possono esistere senza l’opposizione». Arinc si è scusato a nome dell’esecutivo «con quanti hanno subito violenze a causa della loro sensibilità per l’ambiente», in pratica coloro che sono scesi in piazza per salvare il parco Gezi e non con finalità politiche. L’intervento del vice del premier Recep Tayyp Erdogan, impegnato in un tour nordafricano, è giunto mentre arrivava la notizia del terzo manifestante morto e mentre partiva lo sciopero di 48 ore proclamato dal sindacati dei lavoratori del pubblico impiego Kesk, sigla di sinistra con 240.000 iscritti.
Arinc ha ammesso che le proteste contro il governo sono «legittime e giuste» ma ha lanciato un appello a far cessare le manifestazioni. «Ci aspettiamo che tutti i sindacati, i partiti politici e chiunque ami e abbia a cuore la Turchia interrompa le proteste oggi stesso». Poi ha assicurato che l’esecutivo non vuole imporre un pensiero unico ispirato all’Islam: «Il nostro governo rispetta ed è sensibile a tutti gli stili di vita». Il vice premier incontrerà in mattinata gli organizzatori delle proteste di Taksim Gezi. A scriverlo è il sito internet del quotidiano Hurriyet. Resta il silenzio di Erdogan. Un silenzio pesante, politicamente significativo. È come se la piazza avesse spiazzato il governo e portato alla luce contrasti interni all’Akp, il partito islamista al potere.
Intanto, aumenta il numero delle persone che la vita l’hanno persa in piazza. Sale a tre il numero delle vittime degli scontri in Turchia ad una settimana dall’inizio dei disordini per difendere Gezi Park minacciato dalla costruzione di un centro commerciale. La nuova vittima, Abdullah Comert, è un ragazzo di 22 anni deceduto in ospedale dopo essere stato colpito da un colpo d’arma da fuoco durante scontri nel sud della Turchia al confine con la Siria. Lo ha annunciato la televisione privata Ntv. «Abdullah Comert spiega Ntv è rimasto gravemente ferito da alcuni colpi sparati da una persona non identificata». Comert dopo essere stato colpito è morto più tardi in ospedale. Secondo un parlamentare del partito di opposizione, Hasan Akgol citato da Ntv, Comert Abdullah era membro del Partito Repubblicano del Popolo (Chp). La polizia ha avviato un’indagine sulle circostanze della morte. La Confederazione dei sindacati dei lavoratori pubblici (Kesk) che rappresenta 240.000 lavoratori, ha lanciato uno sciopero di due giorni, il primo dei quali si è svolto ieri. «Il terrore di Stato messo in atto contro proteste pacifiche continua in modo da minacciare la vita i civili» afferma Kesk in una nota che stigmatizza «l’inimicizia del governo verso la democrazia». In serata migliaia di manifestanti tornano a riempire piazza Taksim. La protesta prosegue. Il diritto a manifestare pacificamente è un pilastro irrinunciabile della democrazia, come lo sono il pluralismo e la tolleranza».
CRITICHE DA ROMA
A sostenerlo è la ministra degli Esteri Emma Bonino. «Ci attendiamo che in Turchia tutte le parti si adoperino per far cessare ogni violenza e per promuovere il necessario clima di dialogo e pacifico confronto tra le diverse posizioni ed orientamenti», ha affermato Bonino. «Le notizie che provengono dalla Turchia sono fonte di forte apprensione, ed è molto grave che le tensioni di questi giorni abbiano causato anche un bilancio di vittime», ha insistito la titolare della Farnesina, secondo la quale «l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia non può essere una risposta accettabile alle proteste». La Turchia deve aprire un’inchiesta ampia e indipendente sulla condotta tenuta dalla polizia durante gli scontri con i manifestanti antigovernativi; a chiederlo è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. «Siamo preoccupati dai rapporti che parlano di un eccessivo uso della forza da parte degli agenti delle forze dell’ordine», ha dichiarato Cecile Pouilly, portavoce dell’Alto commissariato. «I responsabili devono essere portati davanti alla giustizia» ha concluso la portavoce.

l’Unità 5.6.13
L’arroganza di Erdogan unisce la piazza
La protesta di Gezi Park ha saldato voci diverse
Anche in passato la polizia ha usato la mano pesante Solo che stavolta la gente non è tornata a casa
di Claudia Bruno


Facebook, Twitter, Tumblr: i social network continuano a essere invasi dalle foto e dai video dei ragazzi che scendono in piazza in decine di città della Turchia, notte e giorno, per chiedere libertà d’espressione e protestare contro la politica autoritaria di Recep Tayyp Erdogan. Si è rotto un tabù: per la prima volta dalla sua ascesa al potere nel 2002, Erdogan sente il proprio potere scricchiolare. Lui stesso non si aspettava una protesta così violenta, e la prima reazione è stata di fermezza «andremo avanti qualsiasi cosa facciate», poi di ridimensionamento degli episodi «stiamo già vivendo una primavera turca e non ascolteremo chi vuole farla tornare all’inverno», infine di avvertimento ai manifestanti «posso far scendere in piazza il 50% della popolazione che ha votato per me». Ma a dispetto dei tentativi governativi di minimizzare le proteste, le manifestazioni vanno avanti coinvolgendo studenti, lavoratori, casalinghe, donne in minigonna e col velo, tutti uniti per dire che Erdogan non può sentirsi il padrone del Paese.
Funda Basaran Özdemir insegna Comunicazione all’Università di Ankara; è rimasta fino a mezzanotte in facoltà per restare vicino ai suoi studenti. «La polizia ha spesso usato lacrimogeni contro i manifestanti anche in passato, ma questa volta le persone hanno rifiutato di andar via. Gli agenti hanno dato fuoco alle tende dei ragazzi che occupavano il Gezi Park a Istanbul, ma loro le hanno rimesse su. La gente ha cominciato ad arrivare sempre più numerosa, la protesta ha avuto l’appoggio di diverse ong e si è sviluppata anche in altre città. Lunedì la polizia ha attaccato con cannoni ad acqua e lacrimogeni ad Ankara, Smirne, Adana, Antiochia. E il premier Erdogan si è limitato a chiamare i manifestanti “terroristi, estremisti, teppisti”. È evidente come in gioco non ci sia solo un parco: la vera ragione di queste proteste è la politica autoritaria dell’Akp, gli attacchi oppressivi, reazionari e fascisti verso le scelte e lo stile di vita delle persone».
Il riferimento è alla politica di Erdogan e alla sua idea di modernizzazione basata su un inarrestabile sviluppo edilizio e su una ristrutturazione della società in chiave islamica. Molti gli episodi controversi degli ultimi mesi: una riforma scolastica, contestatissima dall’opposizione, che accorcia l’obbligo scolastico e favorisce l’accesso alle scuole islamiche; la restrizione sulla vendita degli acolici dopo le 22; gli appelli ai cittadini a un comportamento «morale» e a limitare gli scambi di effusioni in pubblico. E poi il silenzio dei media ufficiali, che hanno spesso taciuto o riportato solo parzialmente episodi gravi quali l’esplosione di un’autobomba nel Sud della Turchia all’inizio del mese scorso.
Un mix di rabbia che aspettava solo una scintilla. Davanti alla definizione di «Primavera turca», Basaran si mostra però scettica: «È molto difficile immaginare conseguenze politiche a breve, ma di sicuro ci sono tensioni interne al partito di Erdogan, l’Akp. Il premier vuole sedare la rivolta a tutti costi, altrimenti il suo potere potrebbe cominciare a incrinarsi all’interno della sua stessa forza politica». Qualcosa che ricorda le sollevazioni di piazza del 2011 in Nord Africa e Medio Oriente però c’è, ed è la forza dei manifestanti, la loro voglia di unirsi senza etichette politiche e senza bandiere, a parte quella onnipresente e più che mai simbolica del padre della patria Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia laica e moderna. «Con queste proteste continua Basaran la battaglia contro il governo è entrata in una nuova fase. Anche in passato studenti, operai, sindacalisti, accademici, artisti, aleviti, curdi, rivoluzionari, donne, le Madri del sabato (movimento delle madri dei desaparecidos curdi ndr), hanno sempre protestato contro le politiche del governo. Ma la protesta di Gezi Park li ha messi insieme e li ha resi consapevoli della propria forza e della battaglia collettiva. Questa consapevolezza, queste esperienze, questi movimenti sociali continueranno e cresceranno».
E non manca una critica verso i partiti di opposizione in Parlamento, incapaci di opporsi in modo efficace alle politiche dell’Akp: «Ci sono esponenti dell’opposizione per strada spiega ancora Basaran ma la maggior parte delle persone non ha alcuna etichetta politica. Al momento non c’è nessun partito politico in Parlamento che possa rappresentare queste persone e soddisfare le loro richieste».

il Fatto 5.6.13
Generazione Taksim, più forti della politica
La protesta di Istambul ha unito la società civile come l’opposizione non era mai riuscita a fare
di Lorenzo Mazzoni


Istanbul Anche ieri a piazza Taksim è tutto molto tranquillo, c'è un clima sereno e di festa. Si discute, si chiacchiera, vengono distribuiti volantini. A Gezi Parki, cuore pulsante della rivolta, le persone stanno sedute sul prato, c'è chi fa ginnastica, chi suona. Ci sono i venditori ambulanti di mascherine antigas e di occhialini per proteggersi da eventuali nuovi attacchi della polizia, ci sono i venditori di acqua, quelli che vendono le bandiere con l'effige nazionale, o con il volto di Atatürk, il padre della patria. Sui gradini dell'Akm, il teatro che da anni la municipalità promette di restaurare e che è ancora in disuso, è stato allestito una specie di supermarket all'aperto dove viene raccolto il cibo poi distribuito gratuitamente.
I VOLONTARI del comitato Taksim Platformu raccolgono rifiuti, con fare certosino cercano di prendere anche le centinaia di mozziconi di sigaretta incastrati fra i sampietrini della piazza. Taksim è chiusa da barricate rudimentali costruite con travi di legno e tubi di ferro presi dal cantiere abbandonato dopo l'inizio della protesta. Qualcuno raccoglie i sassi e li mette in sacchetti della spazzatura per non dare pretesto ai violenti di poter fomentare il disordine, anche se, il disordine, in questi giorni, è stata una prerogativa dei poliziotti che anche ieri sera hanno fatto il solito carosello di cariche e lacrimogeni a Gümüssuyu. La polizia ha avuto l'ordine di attaccare i manifestanti in caso di provocazione, ma dato che i ragazzi di Taksim Platformu si stanno dimostrando pacifici, sono stati infiltrati dei provocatori, presenti soprattutto a Besiktas, per fomentare la risposta poliziesca e dare addito alla violenza indiscriminata.
Ma chi sono queste migliaia di persone che continuano a occupare la piazza? Nonostante siano presenti tutte le sigle dell'opposizione, dai maoisti dell'Hkp, al Partito dei Lavoratori, ai vari partiti comunisti, socialisti, dalle associazioni degli studenti, ai sindacati, dagli islamici anticapitalisti, al Bdp, che rappresenta il Pkk curdo in Parlamento, la protesta non si può definire politicizzata, o non solo. È una protesta trasversale, perché a Gezi Parki ci sono soprattutto i cittadini, la società civile, che è cambiata molto rapidamente. Il capo del partito kemalista, Chp, Kemal Kiliçdaroglu, ha dichiarato: “Questa è una generazione nuova ed è diversa dalla nostra. I loro metodi sono diversi e noi dobbiamo provare a capirli. Dobbiamo cambiare le nostre politiche per avvicinarci alle loro aspettative. Le autorità dichiarano che la gente in strada viene organizzata dal nostro partito. No, non è vero. Lo dicono solo perché non riescono a capire”. Eloquenti anche le parole del ministro della Pubblica Istruzione, Nabi Avci: “Abbiamo fatto qualcosa di incredibile, qualcosa che i partiti di opposizione non erano mai riusciti a fare. Li abbiamo uniti tutti”.
La gente continua a riversarsi, come ogni sera, verso Taksim. I leader del movimento hanno annunciato ufficialmente che la protesta, da ieri, è diventata una festa, e fra cori e canti i mani-festanti regalano fiori ai poliziotti. Oggi una delegazione di Taksim Platformu incontrerà il vice-presidente del consiglio, Bülent Arinç. Tra le richieste, oltre a fermare i lavori di rimozione del parco, ci sono le dimissioni del prefetto, il processo ai poliziotti per le violenze e la liberazione immediata per gli arrestati.

il Fatto 5.6.13
La strategia di Erdogan per mettere fuori gioco l’esercito
Il premier ha screditato le forze armate, garanti della laicità
di Roberta Zunini


Come fecero gli egiziani durante le prime fasi della rivoluzione contro Mubarak, anche i giovani turchi di “OccupyGezi park” si stanno domandando attraverso tweet incrociati e messaggi postati su Facebook perché l’esercito abbia assistito in silenzio alle brutalità dei poliziotti. E i vertici delle forze armate non abbiano emesso nemmeno un comunicato su quanto accaduto. “Dove sono i militari? ” chiede con un breve tweet Bulent. “Perchè l’esercito non interviene in difesa del suo popolo”, ritwittava ieri alle 16:26 @SimonekeNaomo. “Lasci perdere le bombe e finalmente appoggi il popolo”, aggiunge sarcastico e provocatorio @Freiravmpazer. Sì certo, le bombe. Numerosi generali, ufficiali e sottufficiali, si trovano in carcere da mesi e mesi in attesa di vedere istruiti i processi di primo grado o d’appello - il cosiddetto “affaire Ergenekon” - in cui dovranno rispondere dell’accusa di stragismo ed eversione nei confronti della Repubblica. Di cui sarebbero i garanti dalla sua fondazione quando Kemal Ataturk, il padre fondatore della Turchia moderna, diede all’esercito il compito di difendere la Repubblica e la sua laicità.
L“AFFAIRE ERGENEKON”, scoppiato durante la prima legislatura del premier Erdogan, è tuttora in corso. Nel senso che ogni settimana qualcuno finisce in carcere per avervi preso parte. Ma secondo i giornalisti indipendenti, pochi e quasi tutti in carcere con l’accusa, questa volta, di “vilipendio della Nazione” - in realtà per aver criticato Erdogan e il suo vasto entourage che influenza tutte le categorie sociali - ritengono che i militari, gli agenti dell’intelligence, gli intellettuali e imprenditori sotto accusa, sarebbero degli oppositori del premier che sta portando la Turchia nel solco delle dittature soft islamiche.
Come quello egiziano, anche se per ragioni storiche ben diverse, l’esercito della Repubblica turca avrebbe dovuto e dovrebbe inoltre garantire l’indipendenza dei poteri dello Stato. Non sempre è stato così però durante la storia della Turchia kemalista. “I militari hanno anche abusato a lungo del loro potere e molte tra le persone scese in strada in questi giorni per manifestare e che ora chiedono il loro intervento, fino a qualche settimana fa vedevano ancora di buon occhio le inchieste e le carcerazioni di alcuni di loro, anche se con accuse create ad arte dai magistrati corrotti dal premier”, dice al Fatto un giornalista che vuole rimanere anonimo. Il problema è che l’esercito è stato zittito da anni di lavorio incessante da parte del partito islamico moderato di Erdogan, che è riuscito a mettergli il collare.

Repubblica 5.6.13
Le democrazie islamiche e i ribelli di Istanbul
di Ian Buruma


Le dimostrazioni antigovernative in corso nelle città turche potrebbero essere interpretate come un’imponente protesta contro l’islam politico. Quella che era partita come una manifestazione contro la proposta, appoggiata dallo Stato, di radere al suolo un piccolo parco nel cuore di Istanbul per far posto a un centro commerciale di dubbio gusto, si è rapidamente trasformata in uno scontro di valori. La disputa sembra apparentemente riflettere due concezioni diverse e opposte della Turchia moderna: secolare e religiosa, democratica e autoritaria. Si sono fatti paragoni con “Occupy Wall Street”; si parla addirittura di una “primavera turca”. È evidente che molti turchi, soprattutto nelle grandi città, sono stanchi dello stile vieppiù autoritario del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, del pugno d’acciaio con cui controlla la stampa, delle restrizioni al consumo di alcol, del suo vezzo di erigere nuove, grandiose moschee e di arrestare i dissidenti politici.
E adesso della sua violenta risposta ai manifestanti. La gente teme che alle leggi secolari possa sostituirsi la shari’a, e che le conquiste dello Stato secolare di Kemal Atatürk vengano sacrificate all’islamismo. C’è poi la questione degli aleviti: una minoranza religiosa legata al sufismo e allo sciismo. Gli aleviti, che lo Stato secolare kemalista tutelava, nutrono una profonda diffidenza nei confronti di Erdogan il quale se li è ulteriormente inimicati decidendo di intitolare un nuovo ponte sul Bosforo a un sultano del XVI secolo che massacrò il loro popolo.
All’apparenza, al cuore della questione turca vi sarebbe la religione. L’islam politico è considerato dai suoi oppositori come intrinsecamente antidemocratico. Naturalmente, però, la faccenda non è così semplice. Lo Stato secolare kemalista non era infatti meno autoritario del regime islamista populista di Erdogan. Tutt’al più è vero il contrario. Ed è inoltre significativo il fatto che le prime proteste di piazza Taksim, a Istanbul, non siano sorte a causa di una moschea, ma di un centro commerciale. La paura della shari’a si accompagna alla rabbia suscitata dalla rapace volgarità dei costruttori e degli imprenditori sostenuti dal governo di Erdogan. La primavera turca sembra animata da sentimenti di sinistra.
Così, anziché soffermarsi sui problemi del moderno islam politico, che sono certo considerevoli, sarebbe forse più proficuo osservare i conflitti in atto in Turchia da una prospettiva diversa, e oggi decisamente fuori moda: quella legata alle classi sociali. I dimostranti, che si tratti di persone di ampie vedute o di gente di sinistra, appartengono di norma all’élite urbana, occidentalizzata, istruita e secolare. Erdogan, dal canto suo, rimane invece assai popolare nelle zone rurali e provinciali del Paese, tra i cittadini meno scolarizzati, più poveri, più conservatori e più religiosi.
A dispetto delle personali tendenze autoritarie di Erdogan, che sono certo evidenti, sarebbe fuorviante credere che le attuali proteste riflettano semplicemente il conflitto tra democrazia e autocrazia. Dopotutto, il successo di “Giustizia e Sviluppo”, il partito populista di Erdogan, così come il diffondersi sempre più capillare di consuetudini e simboli religiosi nella vita civile, non sono che il risultato della diffusione della democrazia nel Paese. Le tradizioni che lo Stato secolarista aveva abolito, come l’usanza delle donne di coprirsi il capo nei luoghi pubblici, sono riemerse perché è aumentata l’influenza esercitata dai turchi delle zone rurali. Le giovani donne religiose oggi frequentano gli atenei delle città. I voti dei turchi conservatori che vivono nelle province contano.
L’alleanza tra uomini d’affari e populisti religiosi non è certo un fenomeno esclusivamente turco. Molti dei nuovi imprenditori, così come le donne che si coprono il capo, provengono dai villaggi dell’Anatolia. Sono nuovi ricchi di provincia, e nutrono nei confronti della vecchia élite di Istanbul un risentimento paragonabile all’odio che un uomo d’affari del Texas o del Kansas prova nei confronti dell’élite liberal di New York e di Washington.
Affermare che la Turchia oggi è più democratica non equivale però a dire che è anche un Paese di più ampie vedute. Questo è uno dei paradossi evidenziati dalla primavera araba. Assicurare a tutti una voce all’interno del governo è considerato essenziale in ogni democrazia. Raramente però quelle voci sono tolleranti – soprattutto in tempi di rivoluzione.
Ciò a cui assistiamo in Paesi come l’Egitto (ma anche in Turchia, e persino in Siria), è quello che il grande filosofo britannico Isaiah Berlin definiva “l’incompatibilità tra beni equivalenti”. È un errore credere che tutte le cose buone arrivino sempre contemporaneamente. Talvolta cose altrettanto buone si scontrano le une con le altre.
Ed è questo che accade durante le dolorose transizioni politiche del Medio Oriente. La democrazia è una cosa buona, così come l’ampiezza di vedute e la tolleranza. Certo: idealmente dovrebbero coincidere. Oggi però nella maggior parte del Medio Oriente non è così. Più democrazia può significare, di fatto, minore ampiezza di vedute e minore tolleranza.
È facile, ad esempio, prendere le parti dei ribelli che in Siria si oppongono alla dittatura di Bashar al-Assad. Ma quando Bashar se ne sarà andato le classi più agiate di Damasco, gli uomini e le donne in grado di apprezzare la musica e i film occidentali, che in alcuni casi appartengono alle minoranze religiose dei cristiani e degli alawiti, faranno fatica a sopravvivere. Il baathismo era oppressivo, dittatoriale e spesso violento, ma tutelava le minoranze e le élite laiche.
È forse questo un motivo per sostenere i dittatori? Solo perché tengono a bada l’islamismo? Non proprio. Poiché la violenza dell’islam politico è in gran parte il prodotto di questi regimi oppressivi. Più rimangono al potere, più le rivolte islamiste saranno violente.
Ma non è nemmeno un motivo per sostenere Erdogan e i suoi palazzinari a scapito dei dimostranti turchi. I manifestanti fanno bene ad opporsi alla sua sprezzante noncuranza dell’opinione pubblica e alla repressione che esercita sulla stampa. Ma sarebbe altrettanto sbagliato interpretare gli scontri come una lotta virtuosa contro il manifestarsi della religione. La maggiore visibilità dell’Islam è l’inevitabile conseguenza della diffusione della democrazia. Fare in modo che questa maggiore visibilità non vada a scapito della tolleranza rappresenta il compito più importante a cui i popoli del Medio Oriente devono fare fronte. Erdogan non è certo un liberale, ma la Turchia è ancora una democrazia. C’è da augurarsi che le proteste contro di lui la rendano anche più tollerante.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 5.6.13
“Noi, ragazze di piazza Taksim in giacca rossa per i nostri diritti”
Le donne protagoniste: “Vogliamo essere libere”
di Marco Ansaldo


ISTANBUL — «La ragazza con la giacca rossa? Quella che resiste in piedi agli idranti della polizia turca? Tutti la cercano. Nessuno sa dov’è». A Piazza Taksim il tamtam è in atto da giorni. Non solo qui, ma sui social network, sui blog, Facebook, Twitter, tutta la galassia della comunicazione usata dai giovani che, seduti in cerchio, digitano di continuo con i polpastrelli sui loro telefonini. Ma la donna simbolo della rivolta contro il governo islamico sembra scomparsa.
Anche Sinem Babul, la fotoreporter che l’ha immortalata nell’attimo in cui la giovane si opponeva al getto d’acqua delle forze dell’ordine, la cerca. «Non credo che sia stata portata via dalla polizia — dice nella redazione di T24, il giornale online autore in questi giorni non facili di un gran lavoro di informazione sul terreno — forse è tornata a casa e non vuole farsi vedere». Eppure, a Istanbul, le sue immagini sono un po’ ovunque. La foto di lei con la sua giacca grondante d’acqua e le scarpe da tennis rosse è diventata un’icona sui manifesti, sugli sticker, pure come un fumetto. Ci sono poster, addirittura, in cui la sua figura appare ingigantita rispetto a quella degli agenti dotati di caschi e scudi. Sotto, la scritta: “Più spari, più diventa grande”.
«Questa foto incarna l’essenza della protesta — commenta Esra, che studia matematica all’università — e cioè la violenza della polizia contro manifestanti pacifici, persone che cercano di proteggere sé stesse e i valori in cui credono».
Del resto, basta guardarsi intorno, qui, e vedere quante sono le ragazze di Piazza Taksim, giovani turche belle e determinate nella difesa dei propri diritti. Indossano magliette delle marche di moda, come le loro coetanee a Parigi o Berlino. Ma dal loro colletto penzola con disinvoltura la garza con la mascherina antigas, mentre sulle spalle portano la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella.
C’è Hasine che, come una moderna Erinni, non nega di aver lanciato, «per esasperazione» ammette, qualche pietra contro un blindato. E Secil, con una piccola fascia bianca attorno al capo, che guata con occhi feroci una foto del premier Tayyip Erdogan: «Lui dice che noi siamo dei “vandali”. Non ha proprio capito, anzi forse uscirà da questa crisi senza aver imparato nulla. Il governo non può intromettersi nella vita privata delle persone, impedendogli, come sta cercando di fare, di bere, fumare, persino di baciarsi in pubblico. Ma stiamo scherzando?».
Tutte rigorosamente non velate («ci mancherebbe pure — ironizzano, tornando subito serie — quello è un simbolo dell’Islam politico, noi siamo musulmane laiche»), ai polsi braccialetti e perline, con le loro sciarpe leggere al collo vengono da Nisantasi, Sisli, Levent, i quartieri della Istanbul bene. Lavorano come impiegate, nelle scuole, o sono iscritte all’università. Adorano i film di Nuri Bilge Ceylan, il pluripremiato regista turco, ascoltano il rock-pop dei Mor ve Otesi (i Viola e oltre), e si abbeverano ai libri di Orhan Pamuk, il premio Nobel nazionale. Rappresentano l’elite della Turchia repubblicana e moderna, come le loro colleghe scese in strada in queste giornate drammatiche a Smirne, Ankara e persino nella Cipro turca divisa a metà. Appartengono, come la ragazza con la giacca rossa, ai ranghi della borghesia più articolata, che teme di soccombere sotto l’ombra autoritaria e poco tollerante dell’invadente premier.
Erdogan è il bersaglio dei loro strali. «Ha fatto una legge per impedire l’aborto — dice Hasine, che studia chimica — Invita le famiglie a fare almeno tre figli. Si fa forte di essere stato votato dal 50 per cento degli elettori. Bene, io appartengo a quell’altro 50 per cento, la metà della popolazione per la quale lui non mostra né rispetto né considerazione, quelli che vuole stroncare. Ma io voglio avere un futuro qui, una carriera, libertà totale. Tutti concetti adesso minacciati».
Questa sera, in piazza, sotto al monumento ad Ataturk, il fondatore laico, si prepara un’altra notte di resistenza. Può fare freddo, e la polizia turca ha la mano piuttosto dura. Le ragazze si sono attrezzate. Indossano cappelli pesanti, sono vestite di nero, hanno comode scarpe da corsa. Esra torna col pensiero al poster con la ragazza che diventa un gigante. Ha un’idea: «E se domani — dice — venissimo tutte a Piazza Taksim con la giacca rossa?». E comincia subito a inviare messaggi alle amiche, ovunque, digitando con i polpastrelli sul suo cellulare.

l’Unità 5.6.13
Anna Freud con il celebre padre
Quella lunga storia d’amore tra Anna e Dorothy
Il libro di Roberta Calandra sulla relazione tra la figlia di Freud e la sua amica
Oggi la presentazione
di Delia Vaccarello


IN UNA CASA LONDINESE UNA DONNA ANZIANA MOLTO FAMOSA TRASCORRE LE SUE GIORNATE lottando con le forze che a poco a poco l’abbandonano. A riempire di «presente» le sue stanze saranno due ventenni con il loro carico di rabbie, dolori, segreti. Hanno bisogno di lei per trovarsi. Ad aiutarle sarà anche un’immagine. «A circa metà della sequenza scura di scaffali, troneggia una foto di Anna e Dorothy, ormai visibilmente anziane, entrambe vestite di chiaro e con un buffo cappello in testa». Sono Anna Freud e la sua amica.
Narrando gli ultimi giorni di vita della celebre figlia del padre della psicanalisi, Roberta Calandra nel suo romanzo L’eredità di Anna Freud (edizioni Controluce) indaga la relazione di oltre mezzo secolo che la unì ad una donna e legge in questo rapporto un lascito, un messaggio per le nuove generazioni che ognuna raccoglie a modo proprio come segnala il successo a Cannes del film La vie d’Adele.
«Un giorno mi è capitato in mano un link ad un assurdo pamphlet che parlava delle “dieci lesbiche che hanno cambiato il mondo" e mischiava grossolanamente Cristina di Svezia, Maria Antonietta e Anna Freud. Sapere che Anna ha vissuto 54 anni con la sua migliore amica e che accanto a lei ha voluto essere sepolta mi ha toccato: il padre di tutte le nostre presunte idee di normalità e anormalità aveva una figlia che viveva comunque in una situazione così particolare? Mi sono documentata e ho scoperto questa storia che ha risvolti commoventi e sorprendenti», dice l’autrice.
Il libro ripercorre la vita relazionale di Anna Freud, e lo fa attraverso il personaggio di una giovane studentessa di psicologia, Judith, tendente all’autolesionismo, a vivere l’amore come un assoluto, alla distruttività ma che con lucida determinazione vuole «salvarsi» e strappare ad Anna confidenze e racconti. Introducendosi con maniacale voracità nella vita di Anna, la studentessa altera l’equilibrio un po’ sonnolento che si era creato tra la psicoanalista e la giovane badante Sarah. Veniamo a sapere così che Sigmund Freud sostenne la relazione tra la figlia e Dorothy, arrivando a dire di Anna che con Dottie si era «sistemata».
Ancora: «Ho scoperto che Freud faceva trattenere a Budapest in analisi da Ferenczi Robert, il marito pazzo di Dorothy poi morto suicida, per lasciare tranquilla sua figlia e l’amica» aggiunge Calandra. Eppure Anna Freud considerava “anormale” l’omosessualità: «Anna non era tenera con gli omosessuali e non voleva essere confusa con loro, io però credo, come cito in un passo, che ne disprezzava soprattutto il vittimismo e l’autocommiserazione. Ma la sua amicizia con Dottie, la gelosia verso l’unico tentativo di un interesse al maschile, la richiesta di condivisione di un’urna mi fanno pensare all’amore, forse sì asessuato, perché una delle chiavi di Anna mi appare la sublimazione».
Il romanzo (sarà presentato oggi a Roma alle 19.30 alla Libreria del cinema in Trastevere) si muove tra realtà e finzione, ma resta fedele alla biografia di Anna, della quale Calandra ha già scritto traendone il monologo Anna Freud, un desiderio insaziabile di vacanze insignito del premio europeo Tragos. «Se per la storia di Anna mi rifaccio alle fonti, Judith e Sarah sono nate come contrappunto al tema del padre: Anna è stata molto dipendente da Sigmund Freud, Sarah ha un padre stupratore e Judith uno suicida: queste tre figlie dove si fanno ombra, dove si rispecchiano? Mi piaceva suggerire che se Anna avesse avuto l’età di Judith negli anni 80 sarebbe stata simile a lei. E anche che una qualsiasi Judith può applicarsi e diventare Anna Freu»”, aggiunge l’autrice.
Il libro calamita dentro camere segrete: nella biblioteca e nello studio di Freud i misteri delle due giovani donne affiorano e spingono all’azione. Judith e Sarah, prima acerrime rivali si espongono a un contatto con le proprie parti oscure che trasformerà il loro rapporto. L’autrice riesce a farcele «vedere» grazie a un uso felice dei dialoghi che offre a chi legge l’illusione di stare insieme a loro. Passando al monologo, Roberta Calandra sa restituire la voce interiore di ciascuna, nonché il carattere forte e insieme debole, per l’età, la malattia, le fragilità di sempre, di Anna Freud. C’è in questa tensione sapientemente resa un desiderio profondo dell’autrice: «È prima di tutto una storia di maestro e discepolo ma declinata al femminile. Queste dimensioni vengono sempre descritte tra uomini. A me le professoresse che amavo hanno quasi salvato la vita».

La Stampa 5.6.13
Archeologia Dall’età del Bronzo fino a noi
Riemersa una flotta di tremila anni fa
Nel Cambridgeshire, quasi nel centro dell’Inghilterra, gli archeologi gridano alla scoperta sensazionale:
«E’ venuta fuori dalle sabbie umide, dove un tempo scorreva un fiume»
di Claudio Gallo

qui

La Stampa 5.6.13
Adam Smith chi ha visto la mano invisibile?
di Tonia Mastrobuoni


L’economista Kaushik Basu smonta il mito alla base delle teorie sull’infallibilità del mercato Che non era centrale neppure per il suo autore
Il filosofo e economista Adam Smith (1723-1790) è considerato il padre dell’economia politica classica. La sua opera più importante è l’ Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni
L’economista indiano Kaushik Basu, 61 anni, professore alla Cornell University, è vicepresidente della Banca Mondiale

Esiste un mito che ha impregnato più di altri, pur tra mille contraddizioni, la teoria economica degli ultimi tre secoli: quello della «mano invisibile». Un mito che il suo stesso autore, Adam Smith, non doveva ritenere così centrale, se nell’indice della prima edizione della Ricchezza delle Nazioni non compariva neanche. Un motivo in più per riflettere sull’errore che hanno commesso in molti di fossilizzarlo in un’ideologia, secondo Kaushik Basu. Nel suo ultimo, magnifico libro Al di là della mano invisibile (Laterza) l’economista della Cornell University non confuta la teoria di Smith, ma le miopi interpretazioni che l’hanno trasformata in un’arma per dimostrare l’infallibilità del mercato, attraverso un credo cieco sulla sua capacità di autoregolamentarsi e con l’obiettivo di ridurre al minimo la sfera d’influenza dei governi.
Chi prospetta un mondo del genere intende precipitarci in un incubo simile a quello in cui si risveglia Joseph K., il tragico protagonista del Processo di Kafka, trascinato in tribunale per motivi oscuri e da forze ignote. Lo scrittore praghese «concorda con Smith riguardo alle forze che possono essere scatenate dalle azioni individuali atomistiche, senza nessuna autorità centrale, ma allarga la nostra visione mostrandoci che possono essere non solo forze di efficienza, di organizzazione e di benevolenza, ma anche forze di oppressione e di malevolenza». Un passo più in là c’è solo un altro incubo, ben più opprimente: quello dei totalitarismi novecenteschi. Quello impersonale delle società «dove il potere maligno del sistema trascende ogni individuo», così come lo descrisse il protagonista della «Rivoluzione di velluto» del 1989 in Cecoslovacchia, il politico-poeta Vaclav Havel.
L’opera di Smith abbonda di «se» e «ma» che molti economisti hanno deciso di ignorare, prendendo alla lettera la convinzione del filosofo scozzese che ogni individuo che deve prendere una decisione economica miri soltanto al proprio guadagno e garantisca così il benessere collettivo. Basu ricorda che questa interpretazione letterale, esattamente come quella che molti adottano dell’equilibrio di Pareto, è fallace. Si tratta di teoremi, come quelli matematici, che non sono immediatamente verificabili dal punto di vista empirico. Presumibilmente per dimostrare ad esempio il teorema di Pitagora, «bisognerebbe andare in giro con un metro a nastro per vedere se la tesi del matematico greco sia valida nella realtà». Cosa che nessuno si sogna di fare, ovviamente.
Basu ricorda che una delle più importanti conquiste della riflessione economica recente, la teoria dei giochi, confuta un pilastro dei dogmatici della mano invisibile: quello dell’autosufficienza dell’ Homo oeconomicus (che Amartya Sen bolla a ragione come un «idiota»). È nell’interazione con l’altro che si prendono decisioni, e non sempre quelle più razionali sono anche le migliori. Anzi, nel dilemma del prigioniero non lo sono affatto: la decisione migliore è quella che implicherebbe fiducia nel prossimo. In quel modello due prigionieri devono decidere se collaborare o no con le autorità. Se uno dei due collabora e l’altro tace, il primo esce e all’altro viene inflitto il massimo della pena (esempio: 7 anni). Se entrambi collaborano, vengono condannati a una pena intermedia (esempio 6 anni). Se nessuno collabora, rischiano solo 1 anno di carcere. È ovvio che quest’ultima è la soluzione migliore per entrambi (è un «ottimo paretiano»), ma per gli economisti non è un equilibrio. Difficile, cioè, che qualcuno si fidi al punto tale da non confessare, sapendo che rischierebbe il massimo della pena, se l’altro confessasse. Meglio, dunque, collaborare e rischiare la pena intermedia. È quello che, probabilmente, farebbero entrambi. Invece, se entrambi si fidassero, uscirebbero appena dopo un anno. È la soluzione migliore, se si guardano ai risultati, ma non è quella più razionale.
Qui si arriva al cuore del libro: «l’individualismo metodologico» della «mano invisibile» presuppone una visione limitata e limitante dell’uomo, che non tiene conto delle norme sociali che lo caratterizzano, del fatto insomma che ogni essere umano ama, imita gli altri, crede, ruba, salta la fila, fa l’elemosina, eccetera. Per Basu esistono leggi macroscopiche che sono sui generis e si applicano al sistema come un tutto organico, insomma leggi che governano un’economia aggregata e da cui si possono dedurre i singoli comportamenti degli individui. L’economista della Banca mondiale suggerisce di passare da un «individualismo» a un «olismo» metodologico, per tener conto anche dell’influenza dei gruppi sugli individui.
Un esempio rende meglio l’idea: è una storiella che Basu sentì raccontare quando era in India. Un venditore di cappelli schiaccia un pisolino sotto un albero che pullula di scimmie. Quando si sveglia, gli hanno rubato tutti i cappelli. Lui, adirato, butta il suo in terra, e le scimmie fanno lo stesso: gettano tutti i cappelli giù dall’albero. L’uomo, soddisfatto, prosegue per la sua strada. Qualche decennio dopo, il nipote del venditore passa sotto lo stesso albero e si addormenta. Quando si sveglia e si accorge che le scimmie gli hanno rubato i cappelli, si ricorda la storia del nonno. Prende il suo cappello e lo getta in terra. Per un po’ non accade nulla, poi una scimmia scende dall’albero, gli dà uno sganassone e gli dice: «Pensi di avercelo solo tu, un nonno? ».
Il passo successivo, richiamandosi nuovamente alla teoria dei giochi, è che se invece il comportamento umano è collaborativo, fiducioso e improntato a una morale, non c’è legge che tenga. «Un requisito minimo per la corretta comprensione dell’economia è essere consapevoli che le nostre relazioni economiche sono parte di una sfera più ampia di interazioni e istituzioni sociali e culturali» scrive Basu. Il gioco degli incentivi è insomma importante, ma ancora più importante è la morale.
Basu, infine, cita un esempio macroscopico per la fallacia delle tesi dei fondamentalisti del mercato e per la necessità di una morale individuale, ma anche di interventi pubblici: le mostruose e «inaccettabili» diseguaglianze sociali che caratterizzano moltissime società, anche in Occidente. E in quanto intollerabili, conclude Basu, vanno combattute. Anzitutto smontando l’impianto teorico di chi le accetta così come sono in nome della libertà del mercato. Come sottolineato da Basu di recente, al Festival dell’Economia di Trento, «ci sono persone che nascono in una capanna con nessuna possibilità di riscatto. Dirgli che lavorando duro ce la faranno da soli, è raccontargli una colossale bugia».

Repubblica 5.6.13
L’idea che di noi hanno i più piccoli
La coscienza nei bimbi di sei mesi. Una ricerca su “Science”
Science ha pubblicato la ricerca di un gruppo di neurobiologi francesi e danesi
di Massimo Ammaniti


La percezione sociale dell’infanzia si è profondamente trasformata, com’è confermato dall’approccio educativo di oggi che tende alla comunicazione col neonato praticamente fin dalla nascita. Eppure per molti secoli l’immagine del lattante è rimasta inalterata, quasi congelata, come ci ricordano gli infanti avvolti dalle fasce nei medaglioni di ceramica dell’Ospedale degli Innocenti a Firenze. Vigeva infatti una diversa tradizione educativa, il lattante non doveva essere esposto a stimoli troppo forti, protetto dal velo della culla che sembrava prolungare l’ambiente materno della gravidanza, un piccolo fantolino, come scrive Svevo ne La coscienza di Zeno rievocando la propria infanzia in fasce.
Dopo la Seconda guerra mondiale ha preso corpo una diversa immagine del neonato, molto diversa dalla metafora dell’uovo usata dallo stesso Freud per descriverne la condizione. Un contributo decisivo è venuto dalla ricerca in campo infantile che ha mostrato come il neonato di poche ore sia già in grado di interagire con le persone che si prendono cura di lui. Anche sul piano cerebrale, si è visto che il suo cervello ha quasi lo stesso numero di neuroni degli adulti, anche se le connessioni non si sono ancora sviluppate, come poi avviene nel primo mese di vita con un’iperproduzione di sinapsi legata all’apprendimento e all’interazione fra l’ambiente e l’espressione genica. Ma i bambini di pochi mesi sono anche in grado di avere la coscienza percettiva di quello che vedono? A questa domanda quasi impossibile hanno cercato di rispondere un gruppo di neurobiologi francesi e danesi con una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Science.
È difficile capire se abbiano la coscienza di quel che vedono perché a differenza degli adulti non sono in grado di esprimere con le parole quel che provano, anche se ora vengono utilizzati altri mezzi di indagine, come ad esempio le tecniche di visualizzazione del cervello.
Anche in età adulta la comprensione dei meccanismi cerebrali che sostengono i processi di coscienza costituisce ancora oggi un enigma irrisolto dalla neurobiologia, nonostante lo studio della coscienza abbia molte implicazioni in campo clinico, ad esempio nell’anestesia oppure nel coma. Il neurobiologo francese Dehaene ha proposto un modello teorico per spiegare il funzionamento della coscienza: un’informazione diverrebbe cosciente quando stimola il coinvolgimento globale del cervello, ossia sistemi cerebrali multipli.
Ritornando ai bambini di pochi mesi, anche la psicoanalisi ha ipotizzato che intorno ai 6-7 mesi inizi una prima consapevolezza della differenza fra sé e i genitori, ossia un senso di separatezza secondo l’analista americana Margaret Mahler. Va tuttavia ricordato che molte ipotesi psicoanalitiche sulla mente infantile sono state criticate perché ritenute letture ricostruttive troppo condizionate dall’ottica adulta, che non riconosce la specificità e i tempi di sviluppo del bambino.
E’ comunque inevitabile chiedersi come i ricercatori siano riusciti a studiare il grado di coscienza in bambini di 6 mesi. In questo studio è stato utilizzato un metodo di indagine già sperimentato con gli adulti, mostrando inizialmente un’immagine subliminare di brevissima durata che non viene soggettivamente percepita ed una successiva immagine di più lunga durata che invece ne suscita la consapevolezza percettiva. Con gli adulti quando vengono presentate le due immagini, si è osservata una risposta cerebrale lineare con la prima immagine ed una non lineare con la seconda, che ne confermerebbe per quest’ultima il carattere cosciente.
E’ stupefacente che la stessa risposta sia stata messa in luce fin dal 6° mese: anche i bambini di questa età sono consapevoli di quello che stanno osservando.
Naturalmente questa osservazione richiede ulteriori conferme, ma apre fin da ora un interrogativo filosofico su come si possa studiare la coscienza, ossia l’attività più soggettiva della mente umana, ricorrendo a dei dati oggettivi legati all’indagine neurofisiologica. Forse una conferma della precocità della coscienza percettiva dei bambini può scaturire anche da altre ricerche che dimostrano la complessità del loro funzionamento percettivocognitivo. Infatti i bambini di 7-8 mesi sono in grado di riconoscere le finalità e le intenzioni nei comportamenti delle persone con cui entrano in rapporto. Ad esempio, sono in grado di seguire in modo corretto il movimento di un adulto che cerchi di mettere una pallina in una tazza ma sbagli il bersaglio, dimostrando in questo modo che ne capiscono le intenzioni. Addirittura a 12 mesi i bambini sono in grado di prevedere quel che può avvenire intorno a loro utilizzando un pensiero probabilistico: vedendo un oggetto che si muove nella stanza, raccolgono immediatamente le informazioni sulla regolarità, la velocità, la direzione dell’oggetto che si muove e sono in grado di prevederne i movimenti successivi costruendosi delle aspettative, necessarie per vivere in un mondo prevedibile.
Per riprendere il concetto di stati di coscienza non solo nei bambini ma anche negli adulti questi riguardano livelli consapevoli ed inconsapevoli, anche perché molti aspetti della nostra esperienza rimangono “il conosciuto non pensato” secondo lo psicoanalista Bollas. Allo stesso tempo, quando i bambini interagiscono e comunicano con i genitori, possono scoprire nuovi significati relazionali che comportano espansioni diadiche di coscienza in cui si inizia a sperimentare la reciprocità: io so che tu sai che io so.

Repubblica 5.6.13
“Amleto aveva torto” L’Odissea di Hirshman
Una biografia dell’economista che ai numeri preferiva il dubbio e le parole
di Nadia Urbinati


Albert Otto Hirschman era un economista scettico che preferiva le anomalie, le sorprese e il potere degli effetti inattesi, forze che la letteratura faceva vedere meglio dei modelli economici. I colleghi pensavano a lui come un non-economista, perché non traduceva le idee in numeri e usava troppe parole, anzi coltivava l’estetica della parola. Uno scienziato sociale quasi immerso nel secolo diciannovesimo, un umanista che trovava negli scritti di filosofi e poeti le indicazioni per conoscere le passioni umane, il rapporto tra gli interessi e le passioni, tra i calcoli di convenienza e il bisogno di giustificarli con visioni del mondo. Racconta Jeremy Adelman, l’autore di Worldly Philosopher. The Odyssey of Albert O. Hirschman (Princeton University Press, pagg. 740), che, dovendo spiegare a Daniel Bell il carattere della sua ricerca, Hirschman diceva che se non traduceva «le idee in modelli matematici» era perché «la matematica non è in grado di eguagliare la metafora in inventiva».
Scrive Adelman che l’odissea nella lingua e tra i linguaggi (diversi dei quali Hir-
schman dominava alla perfezione) era come lo specchio di una vita che fu una vera odissea. Cominciata nel 1915 in una Berlino vivace e tumultuosa e conclusasi pochi mesi fa in una casa nei boschi dell’Institute for Advanced Study di Princeton. La storia di AO, come il narratore lo chiama, fu cosmopolita per necessità e per scelta. Nato e cresciuto in una famiglia ebrea di medio-alta borghesia fortemente integrata e secolarizzata, la sua formazione era imbevuta di arte e letteratura, votata comunque al mondo. Ma il modo in cui si lascia la propria terra è indicativo del proprio tempo. E AO scelse la via dell’esilio nel 1933, appena Hitler prese il potere. Si trasferì a Parigi insieme all’affezionatissima sorella Ursula, disposta più del fratello a farsi coinvolgere dalle ideologie, diventata comunista quando ancora vivevano a Berlino (è stata anche moglie di Altiero Spinelli).
Ma AO non era né fu mai capace di darsi a ideologie di partito e trovò nel nuovo amico, poi marito di Ursula, Eugenio Colorni, il mentore forse più importante. Studioso del pensiero di Leibnitz e promettente filosofo ucciso dai fascisti, Colorni offrì a AO le parole delle quali era in cerca, ci dice il biografo, fin da quando, ancora poco più che bambino, si rese conto che il padre «non aveva una Weltanschauung», in un tempo e un Paese nel quale nulla sembrava muoversi senza una visione del mondo. Come raccontò alcuni anni fa in una bella intervista rilasciata a Franco Ferraresi, tra lui ed Eugenio nacque un’amicizia forte, cementata dal progetto di dimostrare che «Amleto aveva torto», che cioè il dubbio non paralizza ma è propellente all’azione, perché la libertà dalle imposizioni ideologiche costringe a cercare strategie, a tenere aperte diverse opzioni, a conoscere bene i limiti per poterli superare. Il dubbio ci fa comprendere la “crisi” e mette in moto la nostra immaginazione per cercare vie di uscita. “Voce” e “uscita” — ovvero libertà di ricerca e di movimento — erano per AO più produttive di ogni lealtà di fede. Sul metodo del dubbio le sue posizioni si incontravano con quelle di Carlo Rosselli di Giustizia e Libertà.
Nella biografia di questo Odisseo vi è un pezzo importante della storia del nostro Paese, a partire dalla lotta clandestina contro il fascismo che AO cominciò forse per istigazione di Colorni. Collaborò con la resistenza internazionale che lo portò a operare a Marsiglia come falsario di documenti che dovevano servire a fare uscire gli ebrei dall’Europa. Odisseo anche per la sua riconosciuta capacità di aggirare ostacoli e avversari: di lui si diceva che falsificasse così bene i documenti da rischiare di destare sospetto. Lasciata l’Europa insieme a Sarah (sua moglie e ironica ispiratrice), dopo i campus americani decise di lavorare ai piani di riforma sociale e di crescita di Paesi dell’America Latina, dalla Colombia al Brasile. Hirschman restò un viaggiatore del mondo, alla ricerca di rompicapi da risolvere e limiti da superare, una mente indagatrice e innamorata del dubbio, sulla traccia di segni lasciati dalle “piccole idee” che, diceva Sarah, gettano luce sul nostro percorso, come una torcia.

LA BIOGRAFIA Worldly Philosopher di Jeremy Adelman (Princeton University pagg. 740 euro 28,26)

Repubblica 5.6.13
I nostri registi si uniscono alla battaglia dei cineasti europei contro la cancellazione della “eccezione culturale”
Benigni, Bellocchio e gli autori italiani appello per difendersi da Hollywood
di Arianna Finos


ROMA «UN principio minimo di difesa non è solo giusto ma vitale. Rinunciarvi sarebbe un suicidio», sostiene Marco Bellocchio. Il regista è tra i firmatari, con Bernardo Bertolucci, Roberto Benigni, Gabriele Salvatores e Giuseppe Tornatore, della lettera-appello che il mondo del cinema ha inviato a Enrico Letta: associazioni, sindacati, imprese, registi e attori chiedono aiuto al Presidente del Consiglio per «evitare l’abbattimento radicale dell’eccezione culturale». Il prossimo 14 giugno, i 27 Stati membri dell’Unione Europea decideranno sul mandato negoziale che definirà gli accordi commerciali di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. E voteranno se escludere le opere dei servizi culturali e audiovisivi dall’ambito della trattativa. «Venti anni fa — scrivono i firmatari dell’appello — l’espressione “eccezione culturale” ha consentito la nascita dell’industria di produzione culturale europea di oggi. Adesso è il momento di adeguare quella definizione alle tecnologie e ai tempi nuovi».
La campagna italiana affianca quelle avviate nelle scorse settimane in Francia, Germania, Spagna, Grecia. Appoggiate dai rispettivi ministri, ma anche da registi come Almodovar, Ken Loach, Bertrand Tavernier. Secondo Wim Wenders «la diversità culturale non può essere oggetto di scambio. In Europa il cinema è parte del nostro linguaggio, della nostra cultura. Se accettiamo l’idea americana di usare considerare i film un prodotto industriale, rischiamo di vedere sparire entro pochi anni le opere europee ». «Cosa che — aggiunge il regista tedesco — sarebbe anche un disastro per Hollywood, per cui il cinema europeo costituisce un arricchimento e una controparte».
Anche in un buon anno per il cinema europeo come il 2012, il 62,8 per cento dei biglietti venduti nei 27 paesi Ue hanno riguardato produzioni americane. Per Bellocchio «la globalizzazione uccide la creatività locale. È chiaro che non sono più i tempi di I pugni in tasca, quando i confini erano le Alpi. Ma c’è una cultura europea, un gusto, una tradizione, una storia a cui apparteniamo tutti noi, nuove generazioni comprese: basta guardare al film La grande bellezza di Sorrentino o al successo a Cannes del film Salvo degli esordienti Piazza e Grassadonia». Nella petizione gli autori italiani individuano rischi concreti e immediati, legati alle reti di distribuzione online. «Gli operatori digitali americani oggi non hanno sedi, dipendenti, fatturato, fornitori e vincoli in Europa. Non creano valore aggiunto né reddito fiscale. Considerano le differenze impedimenti. Liberalizzare significa danneggiare le imprese locali, deprimere la domanda di prodotto non mainstream, limitare l’accesso allo scaffale dei prodotti nazionali». «Siamo stretti in una tenaglia — sospira Bellocchio — Sembra non esserci più posto per bellezza, ricerca, sperimentazione. Ma la legge del mercato, se diventa unico riferimento, stritola la libertà di immaginare. Noi autori speriamo sempre che i nostri film guadagnino soldi, ma ci sono capolavori che non ne hanno fatti».