giovedì 6 giugno 2013


Terni, botte sugli operai
Fabriano, dure proteste contro i tagli Indesit occupata la sede
Caserta, corteo nelle strade
Cagliari i cassaintegrati occupano la presidenza della Regione
Presidenzialismo, Berlusconi rilancia: «Finita la guerra civile.» e «Siamo riusciti a mettere insieme il centrodestra e il centrosinistra ponendo fine a una lunga guerra fredda, ad una guerra civile. Abbiano un governo forte che può fare quelle riforme e che una sola parte non poteva fare. Ora elezione diretta capo dello Stato»
Renzi: sì al sindaco d’Italia
Letta: “Renzi sarebbe un buon segretario”
Epifani: “Berlusconi dovrebbe garantire due anni di stabilità per fare le riforme”
Letta: possiamo durare tutta la legislatura

dai titoli de l’Unità 6.6.13

Repubblica 6.6.13
La road map anti-giudici del Cavaliere “Gli italiani mi voteranno per il Colle”
“In Francia è prevista l’immunità, così c’è la pacificazione”
di Carmelo Lopapa


ROMA — «Senza presidenzialismo non ci sarà mai alcuna riforma elettorale, se lo mettano in testa». A chi tratta per cambiare la Costituzione, Silvio Berlusconi ha iniziato a intimarlo perché il concetto sia ben chiaro. Elezione diretta del capo dello Stato, subito. Ma ancora una volta, la svolta istituzionale nei piani del Cavaliere finisce col coincidere con una personale via di fuga dai guai giudiziari, nel momento in cui la situazione per lui si fa assai complicata. «Sono l’unico che può farcela, se riuscissimo a votare col nuovo sistema, anche tra uno o due anni, posso ancora spuntarla e salvarmi».
Ne è convinto e lo ha ripetuto martedì notte nel vertice di Palazzo Grazioli col segretario Alfano, il coordinatore Verdini, i capigruppo Schifani e Brunetta, pochi altri dirigenti tra i quali Gasparri, Cicchitto e Fitto. Squadra ristretta per parlare di partito da snellire e rilanciare. Di governo da tenere in vita, salvo contrordine. E di possibile voto a ottobre. Tira aria pesante, al quartier generale del capo. L’ex premier al loro cospetto non fa mistero di essere «molto preoccupato» per il doppio appuntamento processuale che lo attende a fine mese, la Consulta sul legittimo impedimento il 19 e la sentenza Ruby il 24. «Lo vedete? L’attacco della magistratura è concentrico, picchiano forte su più fronti, dobbiamo restare uniti».
Così, anche la strategia politica del Pdl nel cammino delle riforme appena intrapreso ne risulta condizionata. «E ora elezione diretta del presidente della Repubblica» è il refrain nelle interviste registrate alle cinque tv locali per sostenere Alemanno e pochi altri
candidati al ballottaggio di domenica. «Il presidenzialismo è stato sempre il nostro cavallo di battaglia, la gente lo capisce, è una roba concreta, non come la riforma elettorale» spiegava l’altra notte l’ex premier ai suoi. E nei suoi piani proprio la via del semipresidenzialismo alla francese costituirebbe l’approdo più sicuro. Non solo perché il Pd sarebbe disposto a concedere con maggiore facilità la soluzione col doppio turno. Ma anche perché gli articoli 67 e 68 della Costituzione francese, viene fatto notare, stabiliscano come il presidente «può essere processato nell’esercizio delle sue funzioni solo in caso di alto tradimento» e «non può durante il mandato e di fronte a nessuna giurisdizione venir richiesto di testimoniare né essere oggetto di nessuna azione, atto di informazione, di istruzione o processuale». Con una chicca finale: durante il mandato, i tempi di prescrizione vengono sospesi. Se il blocco fosse così recepito — e questa è l’indicazione del Cavaliere — si tradurrebbe nel famoso salvacondotto a lungo agognato e mai per pudore invocato in modo esplicito.
Ma l’elezione diretta è lontana. Intanto c’è il doppio scoglio giudiziario
di giugno da evitare per non affondare. «Se non è legittimo impedimento presiedere un Consiglio dei ministri, non so cosa possa esserlo, se la Consulta non lo riconosce è un fatto grave» argomentava al vertice un Berlusconi agguerrito. In ogni caso, ripetendo ai falchi in sala che il governo Letta per ora «non si tocca, deve andare avanti» e continuando a definirlo nelle interviste un evento «epocale». Parla anche di «fine della guerra civile», il leader Pdl, laddove la fine dovrebbe passare attraverso garanzie di salvaguardia dai processi e in un intervento degli «arbitri» istituzionali. Un fedelissimo come Sandro Bondi lo dice in tv: «La pacificazione consiste anche nello stop
all’accanimento giudiziario».
Se tutto dovesse precipitare, poi, c’è l’opzione voto a ottobre: a Palazzo Grazioli viene tenuta in alta considerazione. Ecco perché al vertice notturno Verdini illustra il nuovo progetto di rilancio del partito leggero in cui perfino i parlamentari si trasformano in agenti di raccolta, stile Publitalia. Causa taglio finanziamenti pubblici, non solo i coordinatori regionali ma anche i parlamentari avranno a breve un budget di fondi privati da raggranellare. Pena la mancata ricandidatura. E dopo l’addio di fine mese alla costosa sede di via dell’Umiltà, il Pdl trova casa in Piazza San Lorenzo in Lucina, a due passi da Montecitorio.

La Stampa 6.6.13
Il Pdl pronto ad appoggiare i referendum sulla Giustizia
I Radicali hanno depositato cinque quesiti referendari sulla Giustizia e Berlusconi ha definito l’iniziativa «molto interessante»
Il centrodestra valuta l’appoggio ai Radicali per tenere sulle corde la maggioranza
di Amedeo La Mattina


Il 28 maggio scorso il comitato promotore dei referendum presieduto da Marco Pannella ha depositato in Cassazione 5 quesiti «per la giustizia giusta». Cancellazione del filtro di ammissibilità nelle richieste di risarcimento per responsabilità civile dei magistrati; separazione delle carriere; eliminazione della custodia cautelare per il rischio di reiterazione nel caso di reati non gravi; misure restrittive per il lavoro dei magistrati fuori ruolo; abolizione dell’ergastolo. Ci sono ora tre mesi di tempo per raccogliere le 500 mila per sostenere i quesiti.
Impresa difficile senza il sostegno e la mobilitazione di altre forze politiche. E infatti in quell’occasione il leader Radicale non è stato ottimista. «Temo che i partiti politici non appoggeranno facilmente la nostra iniziativa perché continueranno a far solo finta di sostenerci come fanno da 20 anni». E invece qualcosa è scattato nel Pdl. Martedì sera a Palazzo Grazioli, durante il vertice dello stato maggiore convocato dal Cavaliere, si è acceso un riflettore sui referendum alla cui stesura ha collaborato anche Peppino Calderisi (ex deputato del Popolo della libertà, Radicale da sempre, collaboratore del capogruppo Renato Brunetta e ieri nominato consigliere politico del ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello).
L’iniziativa Radicale è stata sottoposta all’attenzione di Berlusconi che l’ha definita «molto interessante», da prendere in seria considerazione al punto di aver dato il via libera a un sostegno attivo nella raccolta delle 500 mila firme necessarie. Sarebbe una mossa eclatante di una parte importante della maggioranza di governo che non ha questi temi nel suo programma. Anzi sono stati tenuti lontani dalle larghe intese essendo sempre stati divisivi e al centro delle furiose battaglie tra centrodestra e centrosinistra. Per Berlusconi e il Pdl sono state invece bandiere e proposte di governo però mai realizzate.
Nel 2000 il Cavaliere disse agli italiani di non andare a votare quando si presentò l’occasione di farlo su alcuni referendum, promossi sempre dai Radicali, tra i quali la separazione delle carriere e l’abolizione della possibilità per i magistrati di assumere incarichi extragiudiziari. Non venne raggiunto il quorum e il governo della Casa della libertà, che nel 2001 vinse le elezioni, non riuscì nemmeno quella volta a fare quella riforma giustizia che aveva promesso da più di un decennio. Ora all’ex premier Cavaliere si presenta un’altra occasione ghiotta e questa volta non vuole farsela sfuggire: se quella riforma non si può fare in Parlamento, perchè non ha e non mai avuto la maggioranza per farla, adesso ha intenzione di cavalcare i nuovi referendum. Intanto dando una mano a raccogliere le firme, poi si vedrà.
È un modo per tenere sulla corda l’attuale maggioranza, ma anche un rischio perché potrebbe creare fibrillazioni al governo che ha di fronte molte sfide da affrontare. Potrebbe essere la dura risposta alle eventuali decisioni negative della Consulta e della Corte di Cassazione sui diritti Mediaset per i quali Berlusconi è stato condannato a cinque anni con l’interdizione dai pubblici uffici. Niente di tutto questo, spiegano in casa berlusconiana. «Siamo semplicemente d’accordo sui quesiti referendari precisa uno dei partecipanti al vertice dell’altra sera a Palazzo Grazioli e stiamo valutando seriamente come sostenerli». Del resto, viene ricordato, lo stesso Cavaliere ha detto di stare calmi. «Nonostante tutto quello che gli è stato buttato addosso in ambito giudiziario, abbiamo mantenuto il timone dritto sostenendo questo governo in cui abbiamo riposto molte speranze, mettendo fine a una guerra fredda, a una guerra civile».

Repubblica 6.6.13
L’amaca
di Michele Serra


Lo sconvolgente voto di febbraio è stato riassorbito dalla politica italiana con un gattopardismo prodigioso, che quasi tutti i commentatori hanno definito “democristiano” ma ha visto protagonisti anche la sinistra consociativa e la destra populista, avvalorando la pessima ipotesi che non questo o quel partito, ma “la politica” nel suo complesso abbia serrato le file per difendersi dalla società, dai suoi malumori, dalle sue urgenze. Fa riflettere, ma fa anche sorridere, che l'utilizzatore finale di questa serrata di Palazzo, di questa romanissima restrizione del potere in quattro stanze, sia proprio quel Berlusconi che per vent'anni se l'è giocata da nemico numero uno del “teatrino della politica”, da capopopolo più a suo agio sui predellini che in Parlamento.
Oggi è lì che briga e stringe patti come un vecchio doroteo, per lucrare almeno qualche altra leggina di suo comodo, qualche riformetta di suo gradimento. Il famoso popolo, nel cui nome per anni se l'è giocata da “rivoluzionario”, non è più così affidabile: mai, nella storia della Repubblica, il centrodestra è stato così derelitto elettoralmente. E difatti, del popolo, il populista non parla più. Non gli conviene. È più rassicurante, e più proficuo, dedicare il proprio tempo ai sottosegretari in cravatta.

E il Pd?
«Il Pd non esiste, è una nostra invenzione. O un rimorso, a seconda. È fatto di persone dietro cui c’è il nulla. Puoi trovare uno, Civati o Barca, ma anche quando vai nel deserto trovi oasi che non sono miraggi».
il Fatto 6.6.13
Intervista a Barbara Spinelli
“Presidenzialismo? La Costituzione l’ha già forzata Napolitano”
Noi come l’Ancien Régime “Il presidenzialismo c’è già, il Colle ha forzato la Carta”
di Silvia Truzzi


Che l’attuale situazione italiana sia “istituzionalmente anomala”, lo si capisce benissimo a metà dell’intervista. Quando Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica e scrittrice, si ferma un secondo e dice: “Stavo parlando del presidente della Repubblica. Cioè del presidente del Consiglio”.
Il presidenzialismo non è certo la priorità dell’Italia. Pare che questa fretta sia un tentativo di ufficializzare una situazione già esistente de facto. D’accordo?
Non solo sono d’accordo: i poteri aggiuntivi che si vogliono dare al presidente, il presidente se li è già presi, forzando non poco la Costituzione. Ma c’è qualcosa di più: il presidenzialismo occulta e rinvia quel che urge davvero. E non voglio dire che l’unica e massima urgenza sia l’economia (è la teologia delle Grandi Intese). L’urgenza è come i valori: ce ne sono di supremi, e il resto è relativo. L’urgenza, in Italia, sono i partiti totalmente inaffidabili e moralmente devastati; e la politica rintanata in oligarchie chiuse, che nemmeno ascoltano il responso delle urne. Se sopra tale marasma metti il cappello del capo forte, non solo congeli lo strapotere presidenziale, ma cronicizzi le malattie stesse che il presidenzialismo – ma attenzione: è un inganno – pretende di guarire. Il presidenzialismo dilata ovunque le oligarchie: ergo in Italia dilata la corruzione.
Il capo dello Stato ha messo una data di scadenza al governo, una cosa mai vista. Grillo ha obiettato: “A che titolo dice queste cose? ”. Lei che ne pensa?
Grillo ha perfettamente ragione: dove sta scritto che il presidente determina in anticipo, ignorando le Camere, la durata dei governi? Perfino a Parigi, dove tale prerogativa esiste – ed è grave che esista – l’Eliseo si guarda da dichiarazioni simili. In Francia il presidente è contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri. La stessa cosa ormai avviene in Italia: il presidenzialismo nei fatti c’è già. Questo governo è un Monti bis, con i politici dentro. E alla presidenza c’è Napolitano. Intendo presidenza del Consiglio, non della Repubblica.
Così si sfalda il sistema delle garanzie e dei contrappesi costituzionali.
Salta completamente. E prefigura già la Repubblica presidenziale. Inoltre abbiamo un presidente della Repubblica-presidente del Consiglio che gode di privilegi extra-ordinari, che nessun premier può avere. Tanto più perniciosa diventa la storia delle telefonate tra Colle e Mancino sul processo Stato-mafia. Esiste dunque un potere che ha speciali prerogative e immunità, senza essere controllabile. La democrazia è governo e controllo. Perché Grillo dà fastidio? Perché è sul controllo che insiste.
Il professor Cordero parlando di Berlusconi ha evocato spesso il “golpe al ralenti”. Gli strappi di questi mesi suggeriscono la stessa idea: eppure l’informazione non ha quasi reagito.
Sul presidenzialismo, Repubblica e il Fatto hanno in realtà reagito con forza. Ma sulle derive oligarchiche della democrazia, e sul tradimento degli elettori avvenuto con le larghe intese, stampa e tv sembrano intontite, se non ammaliate. Io insisto sempre molto sulla questione morale, intesa come dovere di non tradire la parola data. Ma son pochi a insistere. Perfino Fabrizio Barca, il più cosciente del naufragio del Pd, ha tenuto a precisare, interrogato su Berlusconi: “Teniamo separati il piano dell’etica e della politica”. Ma da quando in qua?
Il tesoriere del Pdl Bianconi ha detto “Stella e Rizzo sono i tumori della democrazia”. Chiaramente i tumori sono tutti quelli denunciati dai due giornalisti. Sono anni che parliamo di Casta, per i privilegi e la gestione familistica del potere, e il risultato è un governicchio delle oligarchie.
La politica è del tutto sorda. Mi ha colpito il caso di Anna Finocchiaro. Gli elettori erano in rivolta contro i 101 traditori, e sono stati apostrofati così: “Non so cosa vogliano questi signori! ”. Poco dopo ha recidivato, quando i deputati Pd hanno prima firmato e dopo poche ore respinto la mozione Giachetti che aboliva subito il Porcellum: “La mozione è intempestiva e prepotente! ”. Intempestiva? Fuori c’è la rivoluzione, la gente chiede pane, e a Versailles Maria Antonietta stupisce: “Hanno fame? Dategli le brioches! . La cecità dell’Ancien Régime somiglia ominosamente alla nostra.
In relazione al presidenzialismo, il professor Zagrebelsky sul Corriere ha parlato di sindrome di Stoccolma del Pd.
Siamo nella continuità di un progetto che nella sostanza non è mai stato meditato né condannato. Tanto che quasi abbiamo realizzato il Piano di rinascita nazionale della P2 di Gelli. Siamo prigionieri di un’idea malata che incolpa la Costituzione d’ogni nostra stortura. Non si vuol vedere che invece siamo prigionieri di una cosiddetta classe dirigente prima compromessa col fascismo, poi coi clericali, poi con l’America, poi con la mafia, poi con Berlusconi. È quest’ultimo oggi a dettare le condizioni.
E il Pd?
Il Pd non esiste, è una nostra invenzione. O un rimorso, a seconda. È fatto di persone dietro cui c’è il nulla. Puoi trovare uno, Civati o Barca, ma anche quando vai nel deserto trovi oasi che non sono miraggi. Il Pd pare vivo e di sinistra, ma le due cose sono un trompe l’oeil. Andrea Camilleri al Fatto ha detto: “Dal momento della rielezione di Napolitano, tutto il fatto costituzionale è andato a vacca”.
Napolitano ha consultato anche il M5s. Non so se Grillo abbia fatto nomi. Presumo, però, che Napolitano gli abbia fatto capire che le candidature di rinnovamento non erano gradite. Inoltre non ha nemmeno mandato Bersani a verificare la fiducia in Parlamento. Questo vuol dire che il piano era molto chiaro. Il governo Monti doveva continuare con innesti politici, la democrazia intesa come tribunale dei governanti andava, senza dirlo, sospesa. Se questo è sanare i mali dell’Italia c’è da scappare.

Corriere 6.6.13
Canfora, pamphlet contro «la trappola» (incostituzionale) del maggioritario
di Antonio Carioti


Luciano Canfora è un uomo di sinistra. Ma il fatto che alle elezioni dello scorso febbraio lo schieramento progressista abbia conseguito una larga maggioranza assoluta di seggi alla Camera, pur avendo ottenuto meno del 30 per cento dei voti, gli appare «il più grande scandalo mai verificatosi nella storia politica italiana». E la sua critica non investe solo il deprecato Porcellum, ma il principio maggioritario in quanto tale.
D'altronde il filologo classico dell'Università di Bari, firma di prestigio del Corriere, non ha mai fatto mistero della sua netta contrarietà a tutte le tappe che hanno portato alla nascita della cosiddetta «seconda repubblica». Non c'è da stupirsi che ora prenda di petto uno dei pilastri principali della stagione che il nostro Paese sta vivendo da circa un ventennio. S'intitola «La trappola» l'agile pamphlet di Canfora, in libreria da oggi per l'editore Sellerio (pagine 101, € 10), in cui l'autore descrive come un autentico suicidio la scelta compiuta dalle sinistre, in particolare dagli eredi del Pci, quando gettarono a mare la legge proporzionale che avevano in precedenza sempre difeso. A suo avviso si è trattato di un errore clamoroso, che ha sacrificato la rappresentanza degli elettori senza neppure assicurare l'agognata governabilità. Solo il proporzionale, sostiene Canfora, garantisce che il voto di tutti i cittadini sia veramente «eguale» come prescrive la Costituzione, cioè che il suffragio di ciascun elettore concorra nella stessa misura a determinare la composizione delle Camere. In caso contrario, sottolinea, finisce per governare una minoranza e le basi stesse del suffragio universale, quindi della democrazia, vengono pericolosamente erose. A supporto della sua posizione, Canfora ricorda che il maggioritario venne introdotto nel 1993 per via referendaria solo grazie a un colpo di mano compiuto durante i lavori della Costituente, quando venne indebitamente modificata la norma che originariamente includeva le leggi elettorali tra quelle non sottoponibili a referendum. Inoltre elogia la battaglia combattuta dalle sinistre contro la legge maggioritaria introdotta nel 1953, passata alla storia come «legge truffa», che non scattò alla prova delle urne. Grande estimatore di Palmiro Togliatti, l'autore riproduce nel libro l'intervento che il leader del Pci tenne a Montecitorio per affermare l'incostituzionalità di quella riforma. Le ragioni di allora gli sembrano valide anche adesso, mentre fuorvianti gli appaiono i richiami alla necessità di favorire la definizione di coerenti indirizzi di governo attraverso la formazione di coalizioni omogenee, non logorate dalla concorrenza elettorale permanente tra i partiti alleati come erano quelle dell'Italia a dominanza dc. Canfora ritiene che l'unico correttivo accettabile al proporzionale sia la soglia di sbarramento per limitare la frammentazione. Può sembrare un approccio antiquato, ma in Italia il bipolarismo prodotto dal maggioritario ha dato finora una tale prova di sé da legittimare il rimpianto per il tempo dei partiti di massa e del sistema bloccato dal dualismo Dc-Pci.

l’Unità 6.6.13
L’ombra lunga del dispotismo
Dal presidenzialismo al dispotismo
di Michele Ciliberto


La discussione, accesa e a volte aspra, sul presidenzialismo va considerata con attenzione, senza condanne pregiudiziali. Essa conferma che nel nostro Paese è aperta la questione della sovranità: chi è oggi il sovrano, in quali forme si esprime, su quale equilibrio dei poteri è fondato?
È un problema cruciale ed è singolare che esso non sia mai afferrato e affrontato nella sua necessaria e obiettiva radicalità. Si continua a restare alla superficie dei process, senza capire che i fenomeni che abbiamo sotto gli occhi compreso quello che si è soliti definire «populismo» hanno questa radice e a questo livello vanno considerati. Che cosa sta facendo il Movimento 5 Stelle se non riaprire, in modo perfino brutale, la questione di chi oggi sia il «sovrano»? Il rifiuto che ha opposto, con durezza, al tentativo di Bersani non scaturisce da una risposta precisa a questa domanda che prescinde volutamente da una dialettica parlamentare ordinaria e si situa fuori dagli argini della «tradizione» repubblicana? Come non capire che su questo punto specifico i capi di quel Movimento si muovono su un’altra onda, che non si incrocia con gli ordinari soggetti della sovranità e con le sue forme tradizionali?
Eppure non è questione di questi giorni, di questi mesi e nemmeno di questi ultimi anni: si è aperta negli anni Settanta, e da allora è iniziato nel nostro Paese uno scontro nel quale sono stati impegnati forze e soggetti diversi politica, magistratura, forze economiche proprio come accade quando, rotto un equilibrio, si sviluppa uno scontro frontale, e di carattere generale, sui caratteri, i soggetti, le forme del nuovo equilibrio da costruire: in una parola, sulle «nuove» forme della sovranità.
Se si analizza la storia italiana da questo punto di vista, si vede che lo scontro ha visto in campo fin dall’inizio una ipotesi di soluzione di carattere autoritario, decisionistico, secondo una vocazione tipica delle classi dirigenti italiane fin dalla fondazione dello Stato nazionale. Che cosa è stato il craxismo, che pure si muoveva in un’area di tipo socialista, se non un tentativo di risolvere il problema della sovranità dall’alto, in una prospettiva di tipo autoritario con il progetto della Grande Riforma? È proprio su questo terreno insidiosissimo perché tocca la dimensione delle istituzioni repubblicane che si può individuare un filo rosso di continuità tra craxismo e berlusconismo (due fenomeni per tanti versi differenti).
Il problema del presidenzialismo viene quindi da assai lontano, e va collocato su questo sfondo per essere compreso e anche combattuto. Oggi arriva in superficie, assumendo questa forma, un problema che percorre come un fiume carsico tutta la nostra storia recente, al quale le forze riformatrici, spesso chiuse in una trincea difensiva, non hanno saputo dare una risposta. Certo, ha ragione Bersani quando sottolinea che la missione di un partito come il Pd esclude, in linea di principio, ogni forma di «uomo solo al comando». Ma per battere posizioni di questo tipo e capire perché esse si ripropongano periodicamente, assumendo come un Proteo varie forme e penetrando anche nel Pd occorre comprendere le ragioni storiche obiettive da cui questa spinta al presidenzialismo ha preso e continua a prendere forza.
È un fatto: gli equilibri della democrazia repubblicana si sono consumati, le forme della politica di massa sono finite, le culture dell’antifascismo sono tramontate; e sono venute anche meno alcune delle principali preoccupazioni che avevano animato i costituenti formatisi nel fuoco della lotta al fascismo. In breve, un mondo è finito e occorre costruirne un altro, sapendo quali sono i termini delle alternative oggi in campo: una soluzione di tipo presidenzialistico o una soluzione in termini di democrazia diretta soluzioni polarmente contrapposte, ma entrambe da respingere perché l’una e l’altra autoritarie e, sia pure in forme diverse potenzialmente, dispotiche? Oppure, e questa è la soluzione su cui lavorare, nuove forme istituzionali, politiche e sociali che risolvano in termini di espansione democratica la questione della sovranità ma confrontandosi con i problemi politici e sociali e anche con le nuove esigenze di governabilità proprie di un mondo complesso e globalizzato come il nostro?
È un problema assai vasto, analizzabile da molti punti di vista, a cominciare da quello rappresentato dal bipolarismo e dal rapporto, delicatissimo, tra presidenzialismo e bipolarismo. La forza dell’ipotesi bipolare sta infatti qui: nonostante i suoi limiti sconta un difetto di semplificazione in una storia complessa come le nostra essa può contribuire a una modernizzazione e a uno sviluppo in chiave democratica, del nostro sistema politico, specie se è fondata su un sistema elettorale a doppio turno. Ma se si sceglie questa strada come io ritengo che si debba fare il presidenzialismo, va respinto in tutte le sue forme. Se è vero, infatti, che «è nell’essenza dei governi democratici che il predominio della maggioranza sia assoluto», dal presidenzialismo scaturisce, in modo ineluttabile, una moderna forma di «dittatura della maggioranza», con uno stravolgimento dell’equilibrio dei poteri e un netto primato dell'esecutivo sia sul legislativo che sul giudiziario.
Se questa è la prospettiva, ciò di cui la nostra democrazia ha bisogno è precisamente il contrario: essa necessita di una alta magistratura che si configuri come principio di equilibrio, garanzia di un bilanciamento dei poteri, base e riferimento di una positiva ed efficace dinamica bipolare. Dunque una istituzione forte e condivisa, da delimitare con precisione nelle sue prerogative e nei suoi confini. E tanto più indispensabile in una situazione come quella attuale nella quale mancano, o sono assai deboli, strutture in grado di contrapporsi a forze che pur generate democraticamente possono svolgersi in termini autoritari e perfino dispotici, come avviene sempre quando si afferma, in modo incontrollato, il potere della «maggioranza». Ne abbiamo cominciato a fare esperienza negli ultimi venti anni.

il Fatto 6.6.13
Il giorno della fine della guerra civile
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, non so se ha notato, ma è finita la guerra civile. Lo ha dichiarato Silvio Berlusconi alle ore 14.12 del 5 giugno. Che cosa diranno gli storici?
Luigi

É MOLTO IMPORTANTE esaminare il testo del bollettino della vittoria firmato da Silvio Berlusconi. É scritto così: “Siamo riusciti a mettere insieme il centrodestra e il centrosinistra ponendo fine a una guerra civile”. Berlusconi dunque si attribuisce (“siamo riusciti...”) il merito dello storico evento e mostra di mettersi alla testa, novello generale Cadorna. Per capire l’improvviso comunicato straordinario, dobbiamo provare a metterci dalle due parti di chi vi partecipa. Dunque, visto da destra e visto da sinistra. A sinistra troviamo un evento piccolo ma esemplare. Il tema è giustificare la nuova vita insieme di una deputata di Berlusconi (Laura Ravetto ) e un deputato del Pd ( Dario Ginefra). Come può accadere una cosa simile? Semplice, spiega il giovane Pd: “Non sono accecato dall'antiberlusconismo” (Corriere della Sera, 31 maggio). Sulla destra compare in televisione (Tg3, 4 giugno) l’austera Gelmini che sillaba questo messaggio: “Una eventuale condanna di Berlusconi sarebbe lesiva della democrazia”. Che vuol dire “non fatevi venire delle strane idee sulla indipendenza della magistratura , perché allora la guerra continua”. Posso raccontare, senza che sembri un vanto, una storia del tutto simile che mi riguarda, ovvero “chi tocca i fili muore?” Dunque, leggo su “Dagospia” del 4 giugno questa frase di Paolo Madron che risponde a una mia obiezione al suo libro). “I ricordi di Bisignani sul suo soggiorno americano erano più precisi. Ricordava come, in quanto capo della Fiat Usa, Colombo fosse presente nei consigli di amministrazione di alcune banche, tra cui la Overseas Union Bank, entrate poi, ai tempi di Tangentopoli, nelle indagini del pool di Mani Pulite”. Strana memoria. Identica a quella del capo gruppo Pdl Renato Brunetta, che, per rispondere (anche lui) a una frase che non gli andava, è stato folgorato dallo stesso frammento di memoria, espresso con lo stesso argomento e le stesse parole. Ma tutto ciò, parola per parola, si trova in un articolo di due pagine (la 2 e la 3) con foto gigante, (ma con il titolo a bandiera a pag. 1) a firma Renato Farina, sul quotidiano “Libero” del 30 marzo 2001. Ti dicevano che tutto era già scritto in un libro di Marco Travaglio. Quel libro è stato ripubblicato e distribuito da “L’Unità” quando io lo dirigevo. Come vedete, la guerra è finita, ma solo per chi accetta la resa, che deve essere incondizionata, come allora. Non c’è posto, nel mondo delle larghe intese, per chi sia ancora “accecato dall’antiberlusconismo”.

Repubblica 6.6.13
Il grande inganno della pacificazione
di Piero Ignazi


NEL mondo orwelliano della neolingua il bianco è nero, il freddo è caldo, e la guerra è pace. Non abbiamo ancora un ministero della Verità deputato a tagliare le notizie che danno fastidio al grande fratello, ma il sottile, continuo e sordo limare i significati delle parole prosegue a ritmo incessante. Così il governo di emergenza diventa il governo delle larghe intese.
La difesa delle istituzioni un conservatorismo codino e reazionario, la legalità un fastidioso impedimento (non legittimo, ovviamente). E infine, a coronamento di questo strisciante rovesciamento del mondo, una situazione eccezionale e transitoria — come giustamente l’ha definita lo stesso auspice di tale situazione, il presidente Giorgio Napolitano — diventa nientemeno che la «pacificazione nazionale». Come fossimo all’indomani del 1945 dopo i due anni di morti e violenze per tutto il paese. C’è da rimanere allibiti per paragoni del genere. Nemmeno alla fine degli anni di piombo, nonostante venisse invocata anche allora dai protagonisti delle violenze, aveva senso parlare di pacificazione: non si poteva riconoscere alcuna legittimità a chi aveva imbracciato il mitra o maneggiato il tritolo contro la democrazia e i suoi rappresentanti. Figurarsi se ha senso adesso quando, per fortuna — e grazie anche al movimento di Beppe Grillo — la frustrazione e la rabbia di tanti non ha preso la via della disperazione distruttiva. Una via che ha solcato la storia della nostra nazione. Fino agli anni Ottanta lo scontro politico non conosceva limiti e l’avversario politico non aveva dignità alcuna, con tutte le conseguenze del caso. Ma poi si aprì una stagione nuova, di «riconoscimento» reciproco, in cui i neofascisti, con Giorgio Almirante in testa, andavano a rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer, e i comunisti, guidati da Giancarlo Pajetta, onoravano il feretro di Almirante. Quella stagione ha posto le basi per il superamento di antichi steccati e per il crollo del vecchio sistema dei partiti. Si avviava una fase inedita. Lo prova la fiducia che tanti riformatori riponevano nel cambiamento del sistema elettorale al tempo dei referendum del 1993: quel passaggio metteva in moto un «nuovo sistema», riformato ma intatto nell’impianto. Il bilanciamento tra rinnovamento e conservazione era garantito proprio da un quel clima di ottimismo riformatore. Poi tutto si è invelenito. Basti pensare al fallimento della Bicamerale.
Chi oggi invoca senza retropensieri la riscrittura della Costituzione dovrebbe tenere presente quella esperienza. Finché serve a Berlusconi il dialogo può continuare, ma se le «cose» cambiano allora viene buttato tutto alle ortiche. E per «cose» intendiamo, ovviamente, i processi del leader della destra. Il Cavaliere vuole una cosa sola, l’immunità/impunità. La cerca attraverso varie strade: un ennesimo intervento legislativo ad hoc (e in poche settimane ne abbiamo contati un bel numero), un intervento dall’»alto» per ammorbidire i procedimenti giudiziari, e persino un laticlavio senatoriale. E, in prospettiva, anche una repubblica presidenziale. Il suo destino personale, ancora una volta, si sovrappone al normale funzionamento di un sistema democratico, che si fonda sul bilanciamento e l’autonomia reciproca dei poteri e sul primato della legge. Contro il rispetto di questi cardini fondamentali la destra gioca le carte dell’emotività neo orwelliana, introducendo nel linguaggio politico il termine falso di pacificazione, e dello stravolgimento delle regole. Non c’è nulla da pacificare — ed è sconcertante che questa espressione abbia circolazione al di là del manipolo dei fedelissimi del Cavaliere — perché è la fedeltà alle norme democratiche sancite dalla costituzione che garantisce a tutti una «pacifica» cittadinanza politica. Pertanto, ogni intervento su quel patto fondante va fatto con molta cura e attenzione, per evitare un esito da apprendisti stregoni.

La Stampa 6.6.13
“I saggi? Ma dove vanno... Ci terremo il porcellum”
«Ai partiti in realtà delle riforme istituzionali non interessa nulla»
«Se si fosse scelta una via minimalista, sei o sette ritocchi, avrebbe potuto fare bene»
Sartori: come al solito non se ne farà niente
intervista di Mattia Feltri


Professor Sartori, ha fiducia nei trentacinque saggi?
«Sono troppi, non combineranno nulla. Trentacinque persone sono già un parlamentino e infatti questi trentacinque saggi sono stati scelti in rappresentanza dei partiti e dei loro interessi».
Bisogna presupporre che sia interesse dei partiti fare le riforme.
«No, guardi, ai partiti delle riforme costituzionali interessa poco o nulla, tanto è vero che potevano cominciare con la legge elettorale e non l’hanno fatto».
Sostengono che la legge elettorale va rivista in base a come è stata riformata la Costituzione.
«Questa è una stupidaggine alla grande. Che c’entra il tipo di assetto istituzionale che ti dài con la legge elettorale che scegli? Io, lo sanno tutti, l’ho scritto mille volte, sono per il doppio turno alla francese, e anche per il semipresidenzialismo. Ma le due cose sono disgiunte. A proposito, vorrei dire una cosa su Gustavo Zagrebelsky».
Il quale, al Corriere, ha detto che il presidenzialismo ha fatto danni alle democrazie immature, e che succederà anche in Italia.
«Per la precisione ha detto che il presidenzialismo e il semipresidenzialismo in America latina hanno favorito l’ascesa dei colonnelli. Ma il semipresidenzialismo non esiste nel Sud America. Che c’entra con Augusto Pinochet o con Jorge Videla? Possibile che non sappia distinguere tra le due cose? Zagrebelsky fa anche il caso della Russia ma, come ho scritto nel mio libro sulla ingegneria costituzionale, la Russia ha una legge elettorale di facciata ma falsa nella sostanza. Il problema è molto semplice: prendi il doppio turno francese, applicalo in Italia e funzionerà come funziona in Francia».
Sono in molti a pensarla come Zagrebelsky.
«Purtroppo. Ma i nostri giuristi spesso conoscono soltanto il diritto italiano. E questo argomento è il modo migliore per non fare nulla e tenersi il porcellum».
Vede anche questo rischio?
«Ma certo. Questo parlamentino non concluderà nulla. Non mi stupirei se tornassimo a votare col porcellum. Scusate, ma la Costituzione non c’entra con i partiti. Che senso ha riunire trentacinque saggi in rappresentanza dei partiti e delle loro interessate aspirazioni? E poi c’è la presenza dei berlusconiani che è deformante».
Addirittura.
«Sì perché i berlusconiani sono alla ricerca di una soluzione che garantisca un salvacondotto a Berlusconi: per esempio mandarlo al Quirinale. Su queste premesse non si va da nessuna parte o si va verso una pessima Costituzione».
Che alternativa propone?
«La riforma della Costituzione francese l’ha scritta uno solo, Michel Debré. E anche la Costituzione di Weimar, che fu spazzata via dalla grande crisi economica del 1929, ma nonostante questo era un’ottima Costituzione, è opera di Hugo Preuss...».
Però la nostra Costituzione del 1948 è figlia di un’Assemblea ampia.
«Ma la nostra era una situazione assolutamente eccezionale, si usciva dalla guerra e da vent’anni di fascismo e c’era non soltanto l’esigenza ma anche il desiderio di ricostruire il Paese, il che andava fatto col coinvolgimento di tutte le forze. Ne nacque una Carta basata sulla preoccupazione che uno dei due grandi blocchi, quello democristiano o quello comunista, conquistasse tutto il potere. Ne risultò una costituzione forse troppo garantista, piena di contrappesi. Ma è una Costituzione che, con qualche ritocco, andrebbe bene anche oggi».
Se si fosse deciso di volare basso?
«Direi che se si fosse scelta una via minimalista, limitata a sei o sette ritocchi, allora la commissione avrebbe potuto fare bene».
Il ritocco più urgente?
«Dare più poteri al premier, per esempio quello di sostituire i ministri e il voto, come in Germania, di sfiducia costruttiva».
Professore, se l’avessero chiamata a far parte dei Trentacinque, avrebbe accettato?
«Non credo, sono troppo vecchio e stanco per contribuire a un’impresa che oltretutto mi pare disperata. Comunque nessuno, proprio mi ha interpellato. Una bella fortuna».

Corriere 6.6.13
L'ambiguità degli interventi costituzionali nel Paese di disoccupati e aziende chiuse
di Corrado Stajano


Ci si dimentica troppo spesso che il nostro è il Paese del melodramma. I masnadieri, le traviate, i ciarlatani, i re e le loro corti, i capitani di ventura sono tra noi con i loro odi, i loro complotti, i loro balli in maschera con delitto, le loro vendette, tradimenti, veleni, stilettate, ricatti. Le parole più amate nel circoletto della Repubblica, tra Palazzo Chigi, Montecitorio, Palazzo Madama e qualche centrale lobbistica, amicale, bancaria, sono conciliazione, condivisione, pacificazione. Come se potesse esistere una pacificazione senza verità, senza cancellare il male generatore di un conflitto politico e di costume di vita che dura da vent'anni. Come se potesse nascere dal nulla una comune Weltanschauung quando i princìpi degli sposi promessi assomigliano alle rette parallele che non s'incontrano mai o non esistono neppure.
Se i problemi da risolvere, tanti in un momento di gravissima crisi come questa che stiamo attraversando, non fanno un passo in avanti, spunta sempre, per guadagnar tempo, la proposta di una commissione, di un comitato di saggi scelti col bilancino del farmacista o, almeno, di un tavolo, come si suol dire.
Le larghe intese, il governissimo, sono da sempre, anche nei periodi di vacche grasse, il goloso miraggio di una certa classe dirigente nazionale. Ma che cosa ha messo nel carniere questo governo di grande coalizione a termine, nato dallo stato di necessità? Doveva essere la legge elettorale il suo primo impegno, sembravano tutti d'accordo, anche perché è stata proprio quella legge sballata a causare il gran pasticcio. E invece no. La riforma non è più prioritaria. Berlusconi preferisce mantenere il Porcellum. Anche nel centrosinistra c'è qualcuno titubante. Che cosa si fa allora quando nulla è chiaro, l'ambiguità è sovrana, le menti obnubilate?
Si accantona la legge elettorale, si punta su un vasto piano di riforme costituzionali, si tira fuori dal cilindro del prestigiatore un altro tema, il presidenzialismo che non era proprio nell'agenda del fare. Questa nuova scelta viene fatta mentre manca il lavoro, l'Ilva sta andando a rotoli, la metallurgia può scomparire dall'Italia come la chimica negli anni Settanta; chiudono ogni giorno le aziendine che rappresentano la struttura portante del Paese; la disoccupazione tocca livelli impressionanti, non soltanto giovanile, anche tra i cinquantenni che difficilmente troveranno un altro lavoro; gli esodati sono il doloroso test delle follie governative del passato; le grida d'allarme, dalla Banca d'Italia alla Confindustria alla Corte dei conti dovrebbero entrare negli orecchi e anche nei cuori.
Il ministero Letta-Alfano è sotto il perenne ricatto dei processi di Berlusconi. È già affiorata la minaccia che il governo salterà se il 19 giugno la Corte costituzionale darà torto al Cavaliere sul problema dei diritti tv Mediaset. La decisione consentirebbe infatti alla Cassazione di pronunziare entro l'anno una sentenza con la quale l'ex presidente del Consiglio potrebbe essere condannato anche all'interdizione dai pubblici uffici. E poi c'è in arrivo la sentenza Ruby. Davvero non è la nipote di Mubarak? Si potrebbe certificarlo con un decreto (condiviso). E pensare che ministri di paesi europei si sono dimessi per non aver pagato i contributi alla domestica a ore.
Le elezioni amministrative hanno fatto tirare il fiato al Pd che ha vinto quasi dappertutto. E questo dovrebbe trattenere il Pdl dai suoi ricatti elettorali. È stata impressionante la parola d'ordine dei partiti dopo quelle elezioni: il governo si è rafforzato. Chissà come: il distacco tra i cittadini e le istituzioni non è mai stato così profondo, un burrone.
Hanno messo in cantiere qualcosa i governanti delle larghe intese per cercar di colmare quel pericoloso rifiuto della comunità? La proposta sul finanziamento pubblico dimostra il contrario. Figuriamoci se nel diffuso clima di disprezzo per la politica i cittadini correranno a dar soldi ai partiti. Li daranno gli abbienti, a tutela dei propri interessi.
Ci sono altri problemi gravi di cui non pare ci si curi nella politica che ormai viene fatta con Twitter o con i brontolii gergali borbottati davanti alle giungle dei microfoni. Manca una voce alta e priva di retorica, capace di dare una speranza possibile al popolo che si è chiuso nelle proprie sicurezze private anche perché non comprende quel che sta accadendo. Nuto Revelli, lo scrittore del mondo degli sconfitti e di quello dei poveri — una saga di sapore medievale — sessant'anni dopo provava ancora angoscia nel ricordare la catastrofe dell'8 settembre 1943, l'armistizio, per quel che aveva visto e sofferto: lo temeva sempre di ritorno sulla porta di casa. Ma allora, diceva anche, ci fu poi la Resistenza e la Costituzione che rimangono l'identità seria di questo nostro Paese del melodramma (e della commedia dell'arte).

La Stampa 6.6.13
Guglielmo Epifani: “Berlusconi garantisca due anni di stabilità”

Renzi è una persona intelligente
intervista di Carlo Bertini


«Berlusconi dovrebbe garantire una stabilità di due anni al governo, solo così si potranno varare le riforme» e bisogna evitare di «trasformare il presidenzialismo in una bandiera, altrimenti non si va lontano». Piuttosto la cosa urgente è cambiare la legge elettorale per evitare di «ritrovarci col porcellum se le cose dovessero precipitare». Guglielmo Epifani non crede che gli scossoni alla stabilità possano derivare dal suo partito, anche se venisse eletto segretario Matteo Renzi «di sicuro non farebbe mai cadere il governo, anzi»; e il Pd ritroverà una «identità forte» con un congresso costruito in modo da far tramontare «l’eccessivo peso che hanno avuto fin qui le correnti».
Quanto durerà il governo se l’Europa non allenterà i vincoli di bilancio?
«Certo, l’andamento economico è ancora negativo, non c’è una ripresa, a fine anno avremo ancora 120 mila disoccupati e ciò rafforzerebbe il bisogno di un governo stabile. Dall’altro lato, è chiaro che si amplia la forbice tra i bisogni di giovani, imprese e famiglie e la possibilità di fare manovre di sostegno agli investimenti. E qui sta il rischio per il governo, connesso pure a qualche rischio sociale, non ho mai visto una cosa come quella accaduta ieri a Terni. Ma è chiaro che il Consiglio europeo di giugno è un passaggio cruciale per poter incentivare l’occupazione».
In tutto ciò, Berlusconi benedice il presidenzialismo, ma lei frena su tutto il percorso. Paura di contraccolpi a sinistra?
«No, il problema è che bisogna fare le cose per bene. Questa discussione sul semipresidenzialismo sta diventando una bandiera per tifoserie. Non si affrontano così problemi delicati. Io invito a fare le cose coi tempi giusti perché voglio portare a termine le riforme e invece temo che questa accelerazione ideologica sia un modo per non farle. Dobbiamo procedere per gradi, far istruire bene tutto il dossier partendo dall’inizio: superare il bicameralismo, ridurre il numero dei parlamentari e varare il Senato delle regioni. Con una verifica attenta del rapporto tra poteri centrali e poteri regionali. E solo poi si arriva alla forma di governo».
E la sua preferenza a quale soluzione va, cancellierato o semipresidenzialismo?
«Ci può essere una soluzione nel solco della tradizione italiana, accentuando i poteri del capo del governo, oppure virare su una forma di semipresidenzialismo, più innovativa, ma che richiede un numero di interventi amplissimo su oltre trenta articoli della Costituzione. Se si antepone a tutto una soluzione del problema, non si costruisce nulla. E se questo tema delle riforme viene vissuto in maniera astratta, non viene capito dalle persone: bisogna collegarle alla condizione sociale del paese, per non farle sembrare una cosa molto lontana dai bisogni reali più immediati. Quindi la soluzione finale non va ideologizzata, ma va ben costruita per farne capire il senso».
Forse pensa che una rivoluzione copernicana come questa non si possa varare con Berlusconi ancora in campo?
«La mia preoccupazione non è legata alla persona, ma al fatto se il centrodestra intenda continuare o no con una politica di servizio per il Paese. Un percorso istituzionale come questo ha bisogno di una promessa di stabilità di due anni. Se sul Parlamento si dovessero scaricare le tensioni che una parte della maggioranza trasferisce sul governo, ciò finirebbe per riflettersi sul percorso delle riforme. Berlusconi dice oggi che il governo è stabile, poi magari domani qualcuno dei suoi dice l’opposto, ma sono i fatti che contano. E siccome sono vent’anni che ci si prova senza riuscirci, se dovessimo fallire anche stavolta si amplierebbe il solco tra politica e Paese. Nelle prossime settimane potremmo cominciare a capire le tensioni che possono provenire sul governo dal fronte giudiziario».
Quando lei dice «teniamoci pronti a tutto», intende che va cambiata subito la legge elettorale?
«Intendo dire che quando sarà, tra un giorno o tra cinque anni, non potremmo tornare a votare con questa legge, quindi dobbiamo predisporci ad avere un sistema elettorale che risponda a due requisiti: assicurare governabilità, quindi indicazione di maggioranze e minoranze e libertà di scelta dei candidati. Ma non faremo un referendum sugli iscritti con un sì o un no, coinvolgeremo nella discussione anche il popolo delle primarie, nei nostri circoli».
Lei accusa il Pdl di minare la vita del governo, ma anche il Pd non scherza. Che succederebbe se venisse eletto segretario Renzi?
«Siccome è una persona molto intelligente, come potrebbe far cadere un governo di cui è premier un esponente del suo partito? Il Pd gli si rivolterebbe contro. Escluderei questo rischio».
Lei lo voterebbe se si candidasse segretario?
«Intanto stiamo parlando di un’ipotesi di terzo tipo, dipenderebbe comunque dal contesto e dal programma. Lui appartiene a questa comunità ed è una persona di grande rilievo, non c’è alcun dubbio».
Si è pentito di aver accettato di portare la croce del Pd? O ci sta prendendo gusto?
«Il primo mese è stato durissimo, vissuto spesso in solitudine, ma ora le cose stanno migliorando, anche i ballottaggi andranno bene, addirittura i sondaggi ci danno in risalita: si sta stemperando il confronto interno e non c’è stato alcun braccio di ferro con Renzi sui ruoli della segreteria. Ma il problema è un altro: ho trovato una situazione piena di spifferi, con un ruolo eccessivo delle correnti che non possono diventare centri di potere, per scegliere non i migliori ma i più fedeli. Questa situazione va modificata, il congresso deve rimotivare e appassionare. E per questo, le candidature devono arrivare alla fine di un percorso, altrimenti la discussione è solo sul chi, mai sul cosa. Alla fine forse potrei svolgere positivamente la mia funzione di traghettamento». "Io invito a fare le cose coi tempi giusti perché voglio fare le riforme e invece temo che questa accelerazione ideologica sia un modo per non farle Nel caso in cui Renzi diventasse segretario, escludo il rischio che possa far cadere un governo di cui è premier un esponente del suo partito"

il Fatto 6.6.13
Letta: “Renzi sarebbe un buon segretario”


RENZI il segretario lo potrebbe fare bene. Non ho dubbi”. Così risponde Enrico Letta a domanda specifica ieri a Otto e mezzo. Poi aggiunge: “Come lo sta facendo bene Epifani”. Poi, argomenta, specifica: “Penso di dovermi occupare del governo. Sarebbe un errore se mi occupassi del partito o del congresso”. Ma, “sono un amico e un tifoso di Matteo Renzi”.
La dichiarazione di Letta arriva dopo che per giorni è montata la notizia che il Sindaco di Firenze starebbe cambiando idea sulla guida del Pd: “Potrei candidarmi”, ha detto lui. E i suoi stanno facendo un vero e proprio pressing. Ieri il deputato (ed ex vice Sindaco) Dario Nardella ha dichiarato in un’intervista al sito formiche.net  : “Ritengo che se il Pd vuole interpretare davvero lo spirito di cambiamento che gli chiede il Paese potrebbe scegliere Matteo Renzi, ha le caratteristiche giuste per farlo rinascere”.

Corriere 6.6.13
Renzi: segretario e sindaco non sono ruoli incompatibili
«I saggi? La politica fa così quando non vuole risolvere le cose»
di Aldo Cazzullo


BRESCIA — Matteo Renzi fatica a camminare tra la stazione e la metropolitana di Brescia, tutti tentano di fermarlo, qualcuno ha scritto a mano su foglietti di carta: «Renzi segretario». «È così dappertutto. Sono stato in posti dove non è andato nessuno: prima in Friuli per la Serracchiani, poi a Treviso, Vicenza, San Donà di Piave, Villafranca. Visti i risultati dei nostri candidati sindaci, mi sono convinto che il Pd può vincere ovunque, anche in Veneto, anche qui in Lombardia. La nostra gente ci chiede soprattutto questo: stavolta fateci vincere davvero. Perché noi non abbiamo mai davvero vinto: nel '96 facemmo la desistenza che provocò poi la caduta di Prodi; nel 2006 arrivammo primi con 24 mila voti mettendo insieme Turigliatto e Mastella, Luxuria e Lamberto Dini; stavolta abbiamo mancato un gol a porta vuota. Noi dobbiamo dare una risposta alla nostra gente, agli emiliani che sono stati i primi a dire no a Marini, ai bersaniani che in queste ore mi chiedono: Matteo ora basta, ci stai o no?».
Appunto: ci sta o no? Si candiderà alle primarie per la segreteria del Pd?
«Dipende dal Pd, non da me. Se riusciamo a uscire dalla palude, a imporre i nostri temi, la nostra gente capirà il governo con il Pdl. Se tiriamo a campare, se ci facciamo dettare l'agenda da Berlusconi, se non riusciamo a fare le riforme, allora...».
Le pare che le riforme siano partite bene?
«La prima cosa dovrebbe essere la legge elettorale. Invece vedo che la si vuol mettere per ultima. È sbagliato. È l'idea che "il problema è ben un altro" che porta a non far niente. Se non si trova un accordo sul sistema elettorale, mi pare difficile che lo si trovi su tutta la riforma dello Stato».
La vedo scettico.
«Sento che si parla di saggi, di commissioni. Ma non occorre un saggio per dire ad esempio che la burocrazia italiana è da rifare; te lo dice anche uno scemo. Quando la politica non vuole risolvere le cose, fa una commissione. Invece bisognerebbe chiudersi in una stanza e decidere».
Quindi lei è a un passo dalla candidatura.
«Io mi sono stancato di passare per il monello in cerca di un posto, il ragazzo tarantolato con la passione del potere. Sono l'unico che non si è seduto su nessuna poltrona ed è rimasto dov'era prima. Se c'è bisogno di me, me lo diranno i sindaci, i militanti. Persone che stimo molto, mi consigliavano di non farlo; ora però si vanno convincendo anche loro. Di sicuro, se succede, non sarà come l'altra volta una campagna improvvisata, per quanto bella. C'è bisogno di una squadra ben definita».
A quali nomi pensa?
«I migliori in ogni campo: energia, scuola, innovazione tecnologica. Di solito ai politici interessa il loro futuro personale. Io non ho ancora le idee chiare sul mio futuro, ma le ho chiarissime sul Pd e sull'Italia. Noi tra dieci anni possiamo essere la locomotiva d'Europa. Ma dobbiamo cambiare. Dobbiamo aiutare gli imprenditori invece di ostacolarli. Dobbiamo abbassare il costo dell'energia. Dobbiamo avere il coraggio di dire al Sulcis che non ha senso andare avanti con il carbone di Mussolini pagato dallo Stato».
Perché non può farle il governo Letta queste cose?
«Io spero che Letta abbia successo. Lo stimo, abbiamo un bel rapporto. Apprezzo il suo equilibrio; mi convincerà meno se cercherà l'equilibrismo. Non so fino a quando potremo governare con Schifani e Brunetta, i loro capigruppo. Il governo dura se fa le cose. È come andare in bicicletta: se non pedali, cadi. Io posso anche uscire a cena con gente che non sopporto, ma solo se il cibo è buono, la conversazione decolla e dopo si va a vedere un bel film. Se invece si resta in silenzio, meglio alzarsi e andarsene».
A leggere il suo libro, sembra quasi che le abbiano fatto intravedere Palazzo Chigi mentre c'era già un accordo alle sue spalle...
«Non credo sia così. La verità è che non era il mio turno. A Palazzo Chigi io andrei per smontare tutto e ricostruire daccapo: il fisco, la burocrazia. Per fare questo occorre un mandato forte. Letta dice che ci vuole il cacciavite. Io userei il trapano».
Non crede che se lei fosse eletto segretario il governo rischierebbe di cadere in pochi mesi, come Prodi quando divenne segretario Veltroni?
«Il rischio c'è. Anche più grave di quello del 2007: allora c'era un governo di centrosinistra, questo è un governo che vede sinistra e destra insieme. Ma sarebbe ancora peggio vivacchiare senza risolvere nulla, perdere un altro giro».
Dovrà scegliere tra segretario del Pd e sindaco di Firenze?
«Il problema non si pone, almeno non si pone adesso. Non c'è incompatibilità. Avere una funzione nazionale sinora ha aiutato a fare meglio il sindaco, ad esempio a trovare i fondi per salvare il Maggio fiorentino. Ora poi l'Europa finanzierà direttamente i Comuni e non solo le Regioni. Con la riforma del titolo V della Costituzione abbiamo fatto un grosso errore: alla burocrazia statale si è aggiunta la burocrazia regionale».
Berlusconi chiede il presidenzialismo, lei frena. Ma non era presidenzialista pure lei?
«Non ho in mente una soluzione piuttosto di un'altra. Si può pensare all'elezione diretta del premier, che rafforza il governo, o del presidente della Repubblica, che però a questo punto non potrebbe più essere una figura di garanzia, dovrebbe essere un capo. L'importante è che ci sia qualcuno che si assuma la responsabilità, a cui dire grazie se ha successo o dare la colpa se fallisce».
Ma lei si vedrebbe al Quirinale?
«Le ho già detto che la mia preoccupazione non è il mio futuro politico. Ho 38 anni. Sa quali sono le due cose che mi danno più fastidio?».
Dica.
«La prima è quando mi descrivono roso dall'invidia, come se il mio treno fosse passato. Quando attribuiscono a me trame contro Letta, tipo la mozione di Giachetti per il ritorno ai collegi uninominali. Ora, se c'è uno che ha diritto di parlare di legge elettorale è Giachetti, ha fatto pure lo sciopero della fame, io non lo farei neppure se mi pagassero, ma rispetto le battaglie dei radicali. Nel merito sono d'accordo con lui; ma non ne sapevo nulla. Paradossalmente, sono proprio gli ex democristiani a dipingermi come un piantagrane. Tentano di logorarmi».
E la seconda?
«Quando mi dicono che non sono di sinistra. A me, il primo sindaco ad aver fatto un piano a volumi zero che ferma la cementificazione, con l'obbligo di aprire un giardino a dieci minuti di passeggiata da ogni casa, con le chiavi affidate alle mamme. Ora ho pedonalizzato un'altra parte del centro, dietro Palazzo Vecchio. Ma di questo non parla nessuno. Si parla solo del pranzo con Briatore».
Anche lei, però...
«Mi hanno dipinto come un'olgettina perché sono andato ad Arcore da Berlusconi, e ora con Berlusconi hanno fatto un governo. Mi hanno attaccato perché sono andato dalla De Filippi; dopo di me sono andati don Ciotti e Gino Strada e nessuno ha detto niente. Mi prendono in giro per il giubbotto di pelle, e non sanno che la pelletteria è un settore che tira, in dieci anni ha raddoppiato l'export. Ora mi attaccano perché ho incontrato Briatore. Io non la penso come lui. L'imprenditore cuneese con cui sono più in sintonia è Oscar Farinetti. Però sono curioso. Non voglio chiudermi nel mio steccato. Penso di poter imparare qualcosa da qualsiasi persona; a maggior ragione se è diversa da me, se ha avuto successo in quello che ha fatto, nello sport e nel lusso, se crea posti di lavoro».
Con il Billionaire?
«Non vado al Billionaire, non ho il fisico. Ma questo moralismo senza morale lo trovo insopportabile, questa saccenteria, questa pretesa di superiorità etica è la maledizione della sinistra. Per me la politica è una prateria, non una riserva indiana. Tra poco faccio il comizio. Sa qual è il passaggio su cui prenderò più applausi? Quando dirò che bisogna andare a cercare i voti della destra. Berlusconi vinse nel '94 con il milione di posti di lavoro e il nuovo miracolo italiano, nel 2001 con "meno tasse per tutti", e noi ironizzammo su questo. Fu un errore. Il Paese ha bisogno di speranza, sogni, fiducia. Berlusconi ha illuso gli italiani. Poi è seguita la disillusione. Ora è il tempo delle decisioni».
Lei ha preso l'abitudine di vedere pure D'Alema.
«Ma quale abitudine! Solo perché adesso ci parliamo... Ammiro il suo humour. Alla direzione Pd è andato da Matteo Orfini e gli ha detto: “Vedo che finalmente ci sono giovani turchi che fanno qualcosa di interessante. Peccato che siano a Istanbul».
Con D'Alema avete un patto?
«No. Con D'Alema è interessante discutere. Come con Veltroni. Io non rinnego la battaglia per la rottamazione. La rifarei; anche se rinunciare a D'Alema e tenersi Fioroni non è stato un affare. Però un partito ha bisogno di molte intelligenze e voglio ripartire dalle giovani leve, anche chi ha votato per Bersani. Voglio un partito vivo, in cui vengo fatto fuori e faccio fuori, ma in modo aperto, trasparente. Non chiedo fedeltà. Chiedo lealtà».
Non ha paura, da segretario di partito, di non avere più l'appeal sull'opinione pubblica che ha ora? Di non essere più Renzi?
«Io funziono solo se sono Renzi. Non sarò mai la copia di un funzionario di partito. La questione è un'altra: rimettere l'Italia in gioco, recuperare un pensiero lungo, passare dal Paese del piagnisteo al Paese dell'opportunità».
Il decreto sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti la convince?
«Ho fatto voto di non parlare male del governo; quindi taccio».
Non può cavarsela così.
«Mi pare la logica dell'"adelante con juicio". Si poteva avere più coraggio. Spero che il Parlamento lo migliori. E che venga abolito il Senato, trasformandolo in camera delle autonomie: 315 parlamentari in meno significano meno costi e più efficienza. Ma l'importante oggi non è dire; è fare. Subito. Non le sembra che a Roma abbiano già perso troppo tempo?».
Aldo Cazzullo

La Stampa 6.6.13
Segreteria, armistizio tra i quarantenni Pd
Con l’arrivo del renziano Lotti, la gestione è collegiale
di F. Mar.


C’era una volta la mitica segreteria del Pci, ma anche l’Ufficio politico della Dc, luoghi nei quali si decidevano buona parte dei destini dell’Italia, spazi di discussione riservata che oramai tutti i partiti hanno dismesso, con un’unica eccezione: il Pd. Due giorni fa il nuovo segretario Guglielmo Epifani ha proposto alla Direzione del suo partito i nomi della nuova segreteria del partito, con due novità: i quindici sono tutti rigorosamente trenta-quarantenni e sono tutti rigorosamente espressi dai capi delle componenti interne. Con l’ingresso per la prima volta nella nomenclatura del Pd di un uomo indicato da Matteo Renzi.
E proprio in quel gesto unitario del segretario tutti dentro, Renzi ma anche Fioroni si cela una sorpresa che potrebbe far strada: Epifani prova a proporsi come il «pacificatore» del partito il segretario di tutti, o quasi tutti anche dopo il congresso di fine anno. Da questo punto di vista, una mano ad Epifani potrebbero darla anche alcuni dei quarantenni promossi, visto che diversi di loro sono tra i quadri più svegli espressi negli ultimi anni dalle varie anime del Pd.
Dunque, anche Matteo Renzi la novità era attesa ma resta una novità ha indicato un suo nome, accettando così di partecipare alla ripartizione interna: si tratta di Luca Lotti, 30 anni, deputato da tre mesi, la cui fisionomia politica potrebbe sintetizzarsi nel ruolo che svolge da anni, da quando era giovanissimo: capo della segreteria di Renzi. Il sindaco si fida di lui più di ogni altro: a Luca telefona per sapere come vanno le riunioni a Roma, è Lotti che convoca tutte le assemblee dei parlamentari renziani ed è sempre lui che riferisce al capo come stanno andando quelle riunioni. Lavoratore instancabile, una capacità tutta sua nel saper districare i nodi delle discussioni complicate, Lotti non era considerato il più adatto ad assumere la responsabilità degli Enti locali dai parlamentari renziani di prima fila, ma Renzi non li ha ascoltati: strada sbarrata ad Angelo Rughetti, una vita da dirigente all’Anci e semaforo verde per l’ultrafedele Lotti.
I nominati in segreteria oltre ad esprimere un discreto rinnovamento nel gruppo di comando del Pd, continuano a rispettare i rapporti di forza dell’ultimo congresso. Dei 15, 4 sono di area Bersani-Epifani (Alfredo D’Attorre, Davide Zoggia, Matteo Colaninno, ma anche Debora Serracchiani, per la quale ha insistito il segretario) ; 4 di area D’Alema-giovani turchi, mentre le altre componenti (Letta, Renzi, Franceschini, Bindi, Veltroni, Fioroni, Civati) hanno un rappresentante a testa. In gran parte si tratta di giovani collaudati, in alcuni casi reduci da spericolati passaggi da una corrente all’altra, mentre altri rappresentano novità autentiche. Il più esperto della compagnia è Enzo Amendola, 36 anni, da 7 segretario regionale della Campania dei Ds e poi del Pd, un ragazzo tutto “pane e politica”, stimato (persino con affetto) da Massimo D’Alema. Dice Amendola: «Nel partito si è creato un clima positivo ma ora serve un congresso di rifondazione, di forte identità. Con due imperativi: abbattere le filiere di corrente e tenere aperto il partito col sistema delle Primarie». Napoletano anche il giovane più brillante della compagnia, Antonio Funiciello, 37 anni, ultimo della filiera migliorista partenopea iniziata da Giorgio Amendola, autore di un fulminante saggio “A vita”, pubblicato da “Donzelli” nel quale racconta come e perché «nel Pd i figli non riescano ad uccidere i padri»: dovrebbe diventare il responsabile Cultura e Comunicazione del partito. Ottimista anche un altro dei promossi, il veneziano Daniele Zoggia, che andrà dell’Organizzazione: «In questa tornata tutte le aree sono state coinvolte, ci sono le premesse per un buon congresso». Unica nota dissonante, l’ex ministro Beppe Fioroni: «Sì, siamo stati coinvolti, ma è la quiete dopo la tempesta o la dopo la quiete di questi giorni tornerà la tempesta? Io odo augelli far festa...».

Repubblica 6.6.13
Pd, il gran ritorno delle correnti un “patto di sindacato” anti-Renzi per frenare la sua corsa alla segreteria
Bersani cerca rinforzi. Giovani Turchi più vicini a D’Alema
di Giovanna Casadio


ROMA — «Al governo abbiamo mandato i democristiani, il partito l’abbiamo dato ai socialisti, e io me ne sto fuori». Mentre la direzione del Pd martedì sera proseguiva stancamente al Nazareno, Massimo D’Alema scherzava nei capannelli in terrazza, dove si discuteva di alleanze e patti tra correnti in vista del congresso democratico.
Nel partito stremato, il “traghettatore” Epifani ha adottato la strategia del “minor danno”, cioè una nuova segreteria all’insegna di quella che ha definito «collegialità». Una bella spartizione tra le correnti. Perché proprio le correnti sono risorte a nuova vita. L’obiettivo non è solo la conta congressuale ormai iniziata, ma anche bloccare l’ascesa di Renzi alla segreteria. Come? Con un nuovo “patto di sindacato” tra correnti appunto, che vede ora saldarsi un “correntone” Letta-Franceschini (ex Popolari) e l’area Bersani-Epifani.
Il sindaco “rottamatore” non sa ancora se scendere o meno nella mischia per la leadership del partito. Prende tempo. Sta valutando i pro e i contro: fanno sapere i renziani, tra i quali c’è chi lo invita alla prudenza e chi (Dario Nardella) lo sollecita a prendersi il partito. «Ammesso poi che glielo facciano fare!», avverte Paolo Gentiloni. Per ora, su una cosa Renzi sa di potere contare: sul “patto di sindacato” tra correnti che non lo vedono proprio di buon occhio. «Non tramo, né tremo», ha detto, spavaldo. Il quesito è: sarà più forte, il “rottamatore”, facendo il capo partito; o facendo il capo partito perderà l’appeal che ha tra i delusi centristi, dei 5Stelle, del Pdl? Oggi il Pd è una barca difficile da raddrizzare, dopo la tempesta delle elezioni politiche e le difficili acque delle larghe intese con Berlusconi.
Il premier Enrico Letta a proposito di Renzi ufficialmente dice: «Sono amico e tifoso di Matteo, penso potrebbe fare bene il segretario del Pd. Come lo sta facendo bene Epifani». Il neo segretario tiene il timone. Le grandi manovre già vedono saldarsi l’asse tra Areadem, la corrente di Franceschini, e i lettiani. Scomposizioni e ricomposizioni. I bersaniani ad esempio, mai avevano sentito l’esigenza di pesare come in questo momento e stanno gettando la rete per consolidare la loro corrente. Pronti a unirsi ex ds e ex Popolari in funzione anti Renzi? Davide Zoggia, bersaniano di ferro, è stato messo in segreteria e avrà il posto (che fu di Stumpo) all’organizzazione, delega-chiave in vista del congresso.
L’avrebbe voluto Renzi per il suo giovane braccio destro Luca Lotti, che va invece agli enti locali. Un’altra poltrona decisiva è per Matteo Colaninno all’Economia, là dove c’era Stefano Fassina. L’imprenditore equilibra il sindacalista Epifani.
Un mix. Ironie feroci per il bilancino delle correnti. Antonello Giacomelli, toscano, non rinuncia alla battutaccia: «A essere pignoli, si dovrebbe segnalare l’assenza di un rappresentante, possibilmente donna, del movimento dei kolkhoz che pure ha, nella tradizione del collettivismo socialista, un suo significato... «. Matteo Orfini, leader dei “giovani turchi” parla della deriva correntizia. «Qua, pure per prendere un bicchiere d’acqua bisogna appartenere a una corrente», si lamentano deputate outsider. Malumori sulle nomine nelle commissioni bicamerali: «Sempre gli stessi, a chi troppo e a chi niente», è la polemica. Beppe Fioroni, popolare, è invece piuttosto soddisfatto, ormai lontano da quell’asse con Veltroni e anti Bersani: «In avvicinamento a qualcuno? No, è la mia area che cresce». Apparentati Renzi e Veltroni che sembravano tifare entrambi per Chiamparino alla segreteria, ma la candidatura sembra tramontata. «Il Pd a me pare come quei malati che dopo una crisi grave sono in convalescenza e vuole evitare scossoni — rimarca Gentiloni — Però la convalescenza non può durare all’infinito, se no diventa letargo». E intanto la commissione per il congresso in 40 giorni dovrà proporre le nuove regole. I “giovani turchi”, che con D’Alema sostengono la candidatura di Cuperlo alla segreteria, puntano a primarie aperte. L’unica concessione a cui sono disposti è che il ruolo del segretario e quello del premier si divarichino: converrà a Renzi?

Repubblica 6.6.13
Il Pd e la sfida della ricostruzione
di Massimo L. Salvadori


Abbiamo un governo che poggia su due partiti che si erano aspramente combattuti prima di stabilire un’intesa. Questi non si amano per niente, ma hanno deciso di convivere e di collaborare nella convinzione di dover far fronte ad uno stato di necessità. Da una situazione di emergenza è derivato dunque un accordo posto sotto il segno dell’eccezionalità. Il governo, nato per impulso del Capo dello Stato, ha compiti importanti e gravosi e ha bisogno di durare il tempo necessario a farvi fronte; ma è minato dall’essere frutto di una coalizione tra partiti che, già nemici, ora non sono amici, si guardano con diffidenza timorosi l’uno delle mosse dell’altro. Esso inoltre è caratterizzato dal fatto di essere presieduto dall’esponente di un partito uscito dalle elezioni alla guida di una coalizione sì vincitrice per un pugno di voti, ma la cui strategia è andata incontro ad una serie di insuccessi. Ha visto vanificata la speranza in una consistente vittoria alle urne; il suo segretario ha fallito l’obiettivo di guidare lui l’esecutivo; si è letteralmente lacerato nel corso del tentativo — ripetutosi per due volte, sabotato dall’interno e culminato nella vergognosa doppiezza dei 101 coperta da una solidarietà omertosa — di eleggere alla presidenza della Repubblica quelli che erano ufficialmente i suoi candidati; sicché il segretario, screditato da un tale comportamento irresponsabile, è stato costretto a rassegnare le dimissioni. Non è bastato. Si è eletto un nuovo segretario, incaricato di gestire la fase di transizione in preparazione di un inevitabile congresso; ma la sua posizione è indebolita in partenza dall’affacciarsi di altri candidati alla carica. Iniziato il difficile e contrastato percorso del governo, si sarebbe potuto pensare che il partito reagisse, quanto meno per salvare se stesso, ponendo la sordina se non fine alle divergenze, mostrando la capacità di convergere su scelte e proposte unitarie e coerenti. Al contrario: ben scarsa unità e coerenza. Si pensi, per fare solo alcuni esempi, alle contrastanti prese di posizione assunte da autorevoli esponenti del partito in relazione all’annosa faccenda della eleggibilità o non eleggibilità del Cavaliere, al proposto disegno di legge diretto a indurre i movimenti come quello di Grillo ad assumere lo status formale di partiti, alle modifiche da apportare al Porcellum e alle riforme istituzionali che hanno il loro centro bollente nella questione del semipresidenzialismo. Aggiungasi che la corsa alla leadership di Renzi, tanto gradita agli uni, dagli altri è maldigerita o decisamente avversata. Tutto ciò mostra che il Pd, diviso in correnti, percorso da continue polemiche interne, è entrato in uno stato di acuta fibrillazione, in un processo di divaricazioni che non è da escludersi possano, prima o poi, anche sfociare in scissione.
La situazione in cui versa il Pd è resa ancor più perigliosa non solo per le continue punture di spillo di Vendola, che non cessa di denunciarlo come un partito non più di sinistra bensì moderato, ma anzitutto per l’imprevisto miracolo compiuto dal Berlusconi riuscito a ricompattare il Pdl e a riportarlo pienamente sotto i suoi comandi padronali da un lato e dall’altro alla sorprendente e anch’essa imprevista ascesa alle elezioni politiche del Movimento 5 stelle, tenuto a sua volta (sebbene non sia dato sapere per quanto tempo) sotto la ferula di un altro padrone. Partito e movimento che, comunque li si giudichi, hanno al presente una loro leadership e non si muovono in ordine sparso. Nella coalizione di governo — che Berlusconi esalta come suo trionfo personale e a cui rivolge i suoi diktat — il Pdl si presenta dunque come il vaso i cui pezzi sono stati rinsaldati e il Pd come il vaso venatosi di crepe.
Quel che colpisce e induce alla riflessione è che nei tempi assai vicini della campagna elettorale il Pd riteneva di avere tutte le carte buone in mano. Passati pochi mesi, ha rivelato una grande fragilità. Sotto l’apparenza si celava una realtà tutta diversa e si è fatto palese il male peggiore per un soggetto politico: l’incapacità di reagire con forza quando la casa brucia. In una situazione tanto allarmante, la via della ricostruzione non può certamente essere quella delle sfide personalistiche, ma del serio dibattito e confronto sulle strategie. La via è interrogarsi sulle ragioni della malattia profonda che ha colpito un partito che, quando fondato nel 2007, aveva nutrito l’ambizione non soltanto di essere il perno della ricostruzione politica e istituzionale dell’Italia ma persino di diventare la forza promotrice, determinante per la ridefinizione dello schieramento progressista internazionale. Sono seguiti accorpamenti, scissioni, delusioni; anche, per fortuna, successi (come quello recente alle ultime amministrative). Ma dominanti sono rimasti tre tratti: l’incapacità di stabilire alleanze stabili con la sinistra minoritaria, ora pattuite ora rimesse in discussione e infine respinte; l’insuccesso nel far breccia nelle forze del centro; il non riuscito amalgama delle diverse culture politiche confluite nel Pd. Ne è derivato che il partito ha trovato in passato il suo più solido collante nell’opposizione a Berlusconi, insomma in un no; nel dire i sì ha invece incontrato difficoltà mai superate: in merito alle alleanze di coalizione e al loro mantenimento, alla formulazione delle politiche economiche, alla questione cruciale del rinnovamento generazionale, ai modi di concepire, affrontare e regolare gli aspetti più caldi dell’istruzione, dei diritti civili, della laicità dello Stato. Si potrebbe continuare.
Ora siamo giunti al precipitato dei limiti, delle contraddizioni, delle inadempienze. E la domanda che si impone sovrastante e inquietante è: come potrà il paese uscire dalla seconda crisi di sistema nella storia della Repubblica se il Pd non riuscirà a risolvere la crisi che lo attanaglia? Non si tratta di porre pannicelli caldi alle ferite, ma di andare alla radice dei suoi irrisolti problemi e di affrontarli.

La Stampa 6.6.13
Il Movimento perde i pezzi Furnari e Labriola lasciano il gruppo alla Camera
“Niente polemiche, ma sembra che il progetto non esista più” L’annuncio verrà dato su Facebook: “Ci sarà una sorpresa”
di Andrea Malaguti


«Ve ne andate?». «Scusi?». «Lei e il suo collega Alessandro Furnari lasciate il Movimento 5 Stelle?». Nel cortile di Montecitorio la deputata tarantina Vincenza Labriola si rigira la sigaretta appena accesa tra le dita lunghe e sottili. Tira una boccata piena per prendere tempo. Sgrana gli occhi castani. È pallida. Ha i capelli legati dietro la nuca. «Non confermo niente». Se ne vanno. Se non casca il mondo si iscrivono al gruppo misto. Si sono informati con l’ufficio di presidenza della Camera. «Come ci si muove, tecnicamente?». Il primo passo verso l’addio. Molti ne hanno parlato. Loro lo fanno. Lo annunceranno con un post su Facebook. Per spiegarsi agli attivisti. Forse già stasera. Forse domani. «Sì, abbiamo chiesto informazioni. Per sapere. Allo stesso modo con cui si chiedono informazioni per il telepass». Cioè come entrare in una autostrada per andare da un’altra parte? L’esempio le esce inconsciamente. È ovvio che si sente a disagio. Lei e Furnari sono amici. Tarantino anche lui. Le dà forza l’idea che siano assieme a fare questo passo. «Può darsi che con il suo post appaia anche il mio», concede. Stanno studiando le parole. Non hanno intenzione di attaccare Grillo. E nemmeno di passare per traditori. Quelli che se ne vanno per i soldi. «Il punto è che quando devi scegliere tra il senso di te e un progetto che ti sembra non esistere più...». Lascia la frase a metà, come se le fosse insopportabile l’idea di dare un dispiacere a chi l’ha portata fin lì. Non è riuscita a fare abbastanza, le pare. Soprattutto sull’Ilva. Come se fosse rimasta incastrata nei troppi dibattiti da sfinimento del suo gruppo. E sabato c’è questa manifestazione, proprio davanti allo stabilimento, alla quale parteciperanno i suoi (ex?) colleghi. E probabilmente lo stesso Grillo. Chiude gli occhi e dà l’impressione di vedersi dietro le palpebre come un punto nero in una distesa di neve. Questa storia che a Taranto sia inevitabile scegliere tra il lavoro e la morte, tra il posto in fabbrica e il rischio di un tumore, la fa impazzire. «Ma perché non si puòmettere a norma l’impianto? È tutto inquinato. Persino le cozze. Mia madre è stata operata per un tumore. E io stessa mi sentivo in colpa ad allattare i miei bambini». Era una casalinga. «Una mamma». Pensava che a Roma avrebbe potuto fare qualcosa di più profondo. «Aiutare i più deboli, non è questo il desiderio di chiunque? Io la conosco bene quella parte di società che fa fatica ad arrivare alla fine del mese. Noi veniamo da lì». Noi. Che fino a ieri erano i Cinque Stelle. E adesso che cosa significa «noi»? Esiste un modo per arginare il disincanto?
Alessandro Furnari è uno di quegli uomini pieni di storie fatte di destino e di casualità. Un ottimista diffidente. Abituato a gustarsi i momenti buoni finché durano, ma senza aspettarsi che durino a lungo. Faceva l’arbitro. Ed è stato il primo vero campione del Fantacalcio della Gazzetta dello Sport. In effetti lo è stato due volte. «Non credo che siano tanti quelli che hanno vinto i premi che ho vinto io. L’auto. Lo stereo. Un sacco di cose. Per questo quando sento dire che me ne andrei per i soldi mi viene da ridere». Per che cosa, allora? «Sarà una sorpresa». L’hanno accusato di volere fare la cresta sulla diaria. Si è ribellato. «Fesserie. La mia decisione è presa. La spiegherò a tempo debito nei modi che ritengo giusti. Non ho nulla contro Beppe. Anzi, gli sono grato». Cerca di evitare l’elogio funebre alla carriera folgorante di un fenomeno esploso dal nulla esaltando il Paese per pochi miracolosi mesi. E soprattutto vuole che sia chiaro che lui non c’entra niente col gruppo di dialoganti che invocano un rapporto stretto col Pd. «Sono sempre stato fedele alla linea». Fuori due. Da 109 a 107. Alla Camera il Movimento si accorcia un po’.
In Sicilia, intanto, Grillo attacca ancora i media. «Il Movimento in due mesi ha fatto molto, ma non esce niente perché c’è un’informazione collusa». Da Roma gli risponde indirettamente il deputato Cinque Stelle Adriano Zaccagnini, la pecora nera decisa a tornare ai confini del gregge che si era lasciato alle spalle. «Sarebbe bello avere la possibilità di usare il blog di Grillo per un mese per scrivere che cosa stiamo facendo qui». Se il Capo tace magari è più facile raccontare il lavoro nel Palazzo. Quanto a lui, Zaccagnini, continuerà per un po’ a fare opposizione interna, in attesa di capire cosa faranno Civati (Pd) e Rodotà, che stamattina si incontrano a Roma per parlare di un futuro a sinistra. Insieme a chi ci vuole stare.

«Civati rifletterà con lui sull’incontro che la rivista Left sta preparando già per la prossima settimana, invitando un fronte trasversale di Pd, Sel e 5 stelle»
Repubblica 6.6.13
M5S, arrivano due defezioni e i ribelli vanno all’attacco
“Beppe vuole solo piegarci”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — La crepa si aprirà stanotte, al massimo domani. Alessandro Furnari e Vincenza Labriola potrebbero sciogliere la riserva e lasciare il Movimento 5 stelle alla Camera. Senza entrare in polemica con Grillo e Casaleggio, senza «fare i dissidenti». Le loro motivazioni vogliono affidarle a un post su Facebook. La destinazione prescelta sarà il gruppo misto.
Non hanno avvisato gli altri “malpancisti” della loro decisione, i due deputati tarantini. Non hanno preso parte a cene o incontri semiclandestini. La loro è una scelta autonoma, delle ragioni non vogliono ancora parlare. Quel che è certo è che non si trovano più a loro agio nell’assemblea. E che il malcontento avevano cominciato a manifestarlo nei giorni in cui si era discusso della restituzione della diaria: come tanti, avevano raccontato di non condividere un’imposizione che va al di là di quello che i parlamentari a 5 stelle si sono impegnati a fare (dimezzarsi l’indennità base). «Non è una questione di soldi», dice Furnari a chi è riuscito a parlarci. «Il problema è un altro - spiega una deputata che comprende la loro scelta - quello della diaria è solo l’inizio. Grillo e Casaleggio sanno che una volta ceduto su questo punto, su cui ovviamente tutti sono molto sensibili, finiremo per cedere su ogni cosa. Per farci imporre ogni decisione».
Così, il probabile abbandono dei due tarantini si unisce al malcontento di chi - da almeno un mese - è in cerca di vie di fuga. «Sono buffi - racconta Pippo Civati - mi danno appuntamenti segreti, negli anfratti, dietro i vicoli, e poi arrivano i giornalisti a dirmi: hai parlato con tizio? Hai visto caio?». Eppure il deputato pd è certo che qualcosa si stia muovendo nella giusta direzione: «È ovvio che sarà un fatto esterno a far prendere loro una decisione. Magari una sentenza che faccia venir voglia a Berlusconi di mettere in pericolo il governo. Io ne conto in uscita 7 sicuri più 5 incerti alla Camera, e un’altra dozzina al Senato. Se Monti non facesse scherzi, per essere autonomi dal Pdl a Palazzo Madama basterebbero 20 voti: sono certo che davanti allo spettro delle elezioni anticipate ci si arriverebbe tranquillamente».
L’emorragia potrebbe cominciare dopo le riunioni cruciali di questi giorni. La vicenda dei soldi non è affatto conclusa, il fondo dove mettere l’eccedenza di stipendi e rimborsi ancora non c’è (bisognerà aspettare un travagliato iter del ministero dell’Economia). La creazione di un «salvadanaio temporaneo» non piace ai dissidenti. Non si fidano: «Perché dovrei affidarli a qualcun altro? Chi dovrebbe gestirli? chiede uno di loro - E se poi me ne vado? O se mi cacciano?». In più c’è il problema delle leggi. Il fatto che le proposte che vanno oltre il programma saranno sottoposte al blog prima di essere presentate è ormai assodato. Sullo ius soli, ad esempio, sta lavorando la commissione Affari Costituzionali, e il 5 stelle Giorgio Sorial fa parte di un intergruppo che conta di arrivare a qualcosa mettendo insieme le diverse sensibilità che esistono sul tema in Parlamento. E però, racconta Federica Dieni, «credo che prima dovremo fare un sondaggio sul blog. La nostra proposta passerà prima da lì».
È il punto focale del malcontento dei dissidenti, l’autonomia. È quello di cui ha parlato ai parlamentari Stefano Rodotà quando è stato alla Camera, la parte del suo discorso che ha dato più fastidio a Beppe Grillo. Li ha invitati a scoprire il confronto, la mediazione. Li ha spronati a cercare di ottenere dei risultati uscendo dal solipsismo. Non è che questa, la colpa di cui si è macchiato agli occhi del capo politico. Ma non è in disarmo, il professore. Tutt’altro. Adriano Zaccagnini e Tommaso Currò - in contatto costante con Civati continuano a guardare a lui e al movimento dei «beni comuni» come possibile approdo. Oggi Civati andrà a trovarlo a un convegno della fondazione Basso, di fronte al Senato. Gli parlerà ancora di un progetto che potrebbe vederlo protagonista. Rifletterà con lui sull’incontro che la rivista Left sta preparando già per la prossima settimana, invitando un fronte trasversale di Pd, Sel e 5 stelle. Così, anche se ieri - prima della riunione - Zaccagnini diceva di voler proporre un armistizio ai “talebani”, una sorta di patto fondato sul «tornare a decidere tutto in assemblea», il piano B rimane dietro l’angolo. La crepa aperta da Furnari e Labriola potrebbe diventare una voragine.

l’Unità 6.6.13
I falsi di Travaglio su l’Unità e il Fondo per l’editoria
di Claudio Sardo


Anche ieri Marco Travaglio su Il Fatto ha dedicato parte del suo articolo ad insultare il nostro giornale. Tra le balle che ha sparato, la più ingiuriosa è che lo Stato pagherà i debiti de l’Unità.
E Travaglio ha mentito ben sapendo di mentire.
Infatti, a l’Unità riportata in edicola nel 2001 dalla società Nie, dopo aver rilevato la testata dalla precedente editrice Travaglio ha lavorato, ha percepito il giusto compenso e quel lavoro contribuì in parte al suo successo professionale. La Nie è una società per azioni e come tale è soggetta al diritto comune: grazie ad essa l’Unità è tornata in edicola senza ereditare in alcun modo i debiti accumulati dallo storico giornale del Pci. Se ci fossero problemi residui legati a quel debito pregresso, non riguarderanno certo la nuova società e il giornale rinato ormai da tredici anni. Le parole di Travaglio appartengono dunque al genere del discredito gratuito, dell’insulto usato come arma polemica.
Lo Stato c’entra invece con il Fondo destinato all’editoria cooperativa, politica e di idee. Da qualche tempo Travaglio è contrario: evidentemente ha cambiato idea perché per lunghi anni ha lavorato, appunto, a l’Unità quando peraltro il contributo era assai più consistente di oggi. Sia chiaro, cambiare opinione è legittimo, anche se sarebbe meglio evitare toni così saccenti e dispregiativi, vista l’incoerenza che è alle spalle. Le tesi di oggi di Travaglio tuttavia meritano una risposta: del resto, sono le stesse che in forma meno esplicita esprimono i grandi gruppi editoriali. Vogliono il taglio immediato dei fondi, perché sperano così di far morire i giornali in cooperativa e quelli politici, soprattutto quanti hanno una distribuzione nazionale e sono dunque concorrenti diretti, sia pur marginali, dei maggiori quotidiani.
Dimenticano però di dire che il Fondo destinato a questo piccolo segmento è stato tagliato, anzi ridotto ormai ai minimi termini. Negli anni in cui Travaglio lavorava a l’Unità il Fondo era di 700 milioni di euro, oggi sono in bilancio poco più di 70 milioni da ripartire per un centinaio di piccole testate (che danno lavoro, nell’insieme, a qualche migliaio di persone). La quota del Fondo riservata ai giornali politici è di 16 milioni (Antonio Padellaro, oggi direttore de Il Fatto, sostenne a suo tempo su l’Unità che le risorse pubbliche erano scarse e andavano aumentate: stava parlando dei 700 milioni e, a dire il vero, usò argomenti molto più seri di quelli di oggi di Travaglio). Il Fondo ha la sua ragione negli squilibri del mercato editoriale italiano e nelle condizioni di estremo sfavore per le testate medio-piccole (a partire dai pesanti condizionamenti del mercato pubblicitario). Qualcuno pensa davvero che la nostra democrazia sarebbe più ricca, che il nostro panorama editoriale e culturale sarebbe migliore se morissero di colpo decine di giornali?
Ci sono stati nel recente passato episodi circoscritti ma gravissimi di truffa ai danni del fondo: giornali quasi inesistenti che hanno attinto al contributo pubblico. È stata una truffa innanzitutto contro di noi. Abbiamo chiesto (e ottenuto) un più rigoroso criterio di assegnazione delle scarse risorse: contributi legati ai contratti di lavoro a tempo determinato e alle copie effettive vendute in edicola (non più alla tiratura). Oggi il contributo è molto povero: per noi è un quinto del bilancio complessivo. E soprattutto non determina più un diritto soggettivo: sulla base della legge vigente siamo costretti a mettere in bilancio le risorse spettanti, ma poi, due anni dopo, ci vengono riconosciuti fondi largamente decurtati, spesso dimezzati. E questo è oggi uno dei fattori di maggiore squilibrio per i conti economici de l’Unità.
Sarebbe meglio per noi fissare una data oltre la quale chiudere definitivamente il Fondo. Tre-quattro anni, ad esempio, nei quali lo Stato sigla un patto con tutti noi: avete diritto a queste poche risorse, ve le daremo certamente, fate programmi con le banche, utilizzatele per ristrutturare, rafforzare l’integrazione carta-web, sostenere la necessaria innovazione, poi finirà ogni contributo. Per noi la certezza (che oggi manca) è importante non meno del contributo decrescente che viene dallo Stato. Ovviamente, questo impegno dovrebbe essere accompagnato da una seria legislazione anti-trust del settore, a partire dal mercato pubblicitario, in modo da avvicinare alle proporzioni europee la ripartizione tra quotidiani, tv, settimanali, web.
C’è infine un’ultima polemica di Travaglio che riguarda Grillo. Non merita molte parole, perché Travaglio è patetico nel negare il sostegno dato a Berlusconi. I Cinque Stelle avrebbero potuto far nascere un governo diverso. Invece Grillo ha detto no a Bersani e ha fatto di tutto per riportare il Cavaliere al governo, pensando così di lucrare sull’«inciucio» Pd-Pdl. Siccome gli elettori non hanno l’anello al naso, alle amministrative Grillo ha perso una valanga di voti. Invece Travaglio è contento così e non vuole assolutamente che si cambi: guai chi tocca Berlusconi al governo. Così può continuare a scrivere che è tutta colpa del Pd e de l’Unità. Invece anche tra i grillini in Parlamento c’è chi non è più disposto a servire il Cavaliere.

La Stampa 6.6.13
Il rapporto della Federazione degli editori sull’informazione dal 2010 al 2012
Fieg: “Internet e più aiuti per la ripresa dei giornali”
Il presidente Anselmi: in 5 anni perso un milione di copie, crollo della pubblicità
I quotidiani rappresentano ancora il 90% del business degli editori
di Raffaello Masci


Il mercato dell’informazione va a gonfie vele, quello della carta stampata langue: se il popolo di Internet e dei cliccatori gratis si gonfia, quello degli aficionados dell’edicola si assottiglia. Ma i giornali non battono in ritirata ma reagiscono, si reinventano, transitano sul digitale. E tengono il passo. A patto che vengano garantiti alcuni supporti anche economici per ristrutturarsi (come avviene in altri paesi) e che si agevoli il ricambio generazionale dei giornalisti, favorendo l’arrivo dei nativi digitali al posto di quelli che si ricordano ancora il piombo.
A leggere le quasi 90 pagine piene di tabelle e di grafici del rapporto Fieg (la federazione degli editori di giornali) relativa agli anni dal 2010 al 2012, questo è il senso che si evince e che ieri mattina è stato illustrato dal presidente della Federazione, Giulio Anselmi: «Il 2012 è il quinto anno consecutivo che si chiude con dati negativi per il settore ha detto Anselmi I quotidiani hanno registrato una flessione delle copie vendute del 6,6%, i settimanali del 6,4% e i mensili dell’8,9%. Negli ultimi cinque anni i quotidiani hanno perso il 22% delle copie, più di un milione di persone ha smesso di comprare ogni mattina il proprio giornale».
A questa diagnosi va aggiunto il dato drammatico del mercato pubblicitario: meno 17,6% per i quotidiani, meno 18,4% per i periodici. In questo scorcio di 2013 le cose sono ulteriormente peggiorate: -26,1% per i quotidiani, 22,3% per i periodici. Tutto questo ha un riverbero diretto e implacabile sui bilanci, con un calo dei ricavi del 9% per i quotidiani, il cui utile di esercizio è passato da 92,8 a 42,3 milioni di euro.
Responsabilità del web? Certamente. Ma Anselmi fa notare che i siti web dei giornali vanno forte perché sono spinti dalla potenza del brand: se La Stampa.it per esempio va a gonfie vele, è perché la gente si fida de La Stampa come quotidiano cartaceo. Da qui l’esigenza di volgere una criticità in elemento di forza, e rafforzare, quindi, il quotidiano cartaceo (che è ancora oltre il 90% del business degli editori Fieg) e veicolare il prodotto giornalistico anche attraverso i nuovi media.
Come tutte le grandi trasformazioni, l’editoria dei quotidiani ha bisogno di un supporto da parte della politica. Tradotto: servono soldi, non per assistere ciò che non starebbe sul mercato, ma per consentire uno sviluppo a ciò che già funziona. E poi agevolare il ricambio generazionale consentendo degli scivoli verso la pensione ai giornalisti più anziani, per fare spazio agli «smanettoni» di ultima generazione. D’altronde c’è già in itinere il ddl Levi che consentirebbe di dare risposte a queste istanze e il sottosegretario con delega all’editoria, Giovanni Legnini, ha assicurato che da lì si riprenderà: «Serve un intervento pubblico ben delimitato, con strumenti normativi e finanziari che accompagnino il turn over e l’innovazione».

l’Unità 6.6.13
Il processo non vuol vedere il cuore nero di questa storia
di Luigi Manconi


Ilaria Cucchi, appena dopo la sentenza, ha detto: oggi mio fratello è stato ammazzato per la seconda volta. A ben vedere, con la sentenza di ieri, Stefano Cucchi è stato ucciso per la terza volta.
All’agonia solo come un cane nel reparto detentivo del Sandro Pertini, ha fatto seguito la seconda morte: l’orribile processo di stigmatizzazione della vittima, realizzato da molti media (un piccolo giornalista lo ha ostinatamente chiamato per mesi «il piccolo spacciatore di Torpignattara»); e da un parlamentare di questa Repubblica, al quale la virtù cristiana della misericordia degradata a odio sordo ha suggerito per Cucchi questa definizione: «anoressico tossicodipendente larva zombie»; e, infine, dai pubblici ministeri che hanno dedicato le critiche più aspre al morto e al suo stile di vita e ai suoi familiari piuttosto che ai responsabili di quella stessa morte.
Ieri la sentenza di primo grado ha ucciso Cucchi per la terza volta. Ed è stato proclamato il fallimento delle indagini condotte dalla Procura, in quanto i poliziotti penitenziari sono stati assolti, non perché abusi e lesioni e violenze non si siano verificati, bensì perché la pubblica accusa non ha portato prove sufficienti della loro colpevolezza. E tra quelle violenze che, inequivocabilmente, sono state inferte all’interno delle celle di sicurezza del tribunale di Roma e la morte di Cucchi afferma la sentenza non vi sarebbe alcuna relazione.
Prima che un oltraggio al diritto, qui sembra consumarsi un’offesa al buon senso: Stefano Cucchi si trovava nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini non certo perché intendesse sottoporsi a un check up. Bensì perché vi era stato ricoverato a seguito delle lesioni subite e delle condizioni di salute prodotte da quelle stesse lesioni. Vale la pena ricordare che una delle fratture accertate viene considerata dalla scienza medica tra le più dolorose che il corpo umano possa subire. Infine, la sentenza condanna alcuni medici per omicidio colposo, ma il senso finale sembra essere fatalmente uno: quello di ridurre la morte di Stefano Cucchi a un ordinario caso di malasanità.
Sfugge completamente il cuore nero di questa storia. E sfugge perché è tuttora saldo nel nostro Paese un senso comune, che contamina anche una parte della magistratura giudicante. L’idea perversa, cioè, che chi si trovi in una cella, in una caserma, in un reparto detentivo, in un ospedale psichiatrico giudiziario, in un centro di identificazione e di espulsione, perde i propri diritti o gran parte di essi. E, dunque, il suo destino, e ancor prima il suo corpo, si squalifichi, si deprezzi, perda peso e valore, venga «cosizzato».
Mentre è vero esattamente il contrario. Una persona che si trovi sotto la custodia dello Stato, dei suoi apparati, dei suoi uomini, deve essere considerato, dallo Stato, il valore più prezioso: un bene, direi, sacro. Per una ragione insieme elementare: perché la legittimità giuridica e morale dello Stato a chiedere lealtà e ubbidienza ai cittadini si basa sulla sua capacità di garantire l’integrità del corpo datogli in custodia, la sua incolumità fisica, e i suoi diritti. Ecco, di questo elementare diritto, le tante istituzioni che come in una dolente via crucis hanno trattenuto per otto giorni un giovane uomo di nome Stefano Cucchi (caserma e cella, tribunale e infermeria, reparto detentivo e pronto soccorso), hanno fatto semplicemente strame.

Corriere 6.6.13
Se si paga con la vita per regole e cavilli
di Giovanni Bianconi


Quell'accusa che ieri ha ribadito con la sua rabbia composta, «Stefano è morto di giustizia», Ilaria Cucchi l'aveva già lanciata prima del processo e del suo esito deludente. Perché era, e resta, una dato di fatto. Una realtà oggettiva. Suo fratello, trentunenne con problemi di tossicodipendenza e una salute instabile che però non gli impediva di condurre un'esistenza normale, è morto perché il sistema giudiziario in cui è incappato una sera di tre anni e mezzo fa l'ha inghiottito vivo e l'ha restituito cadavere. In condizioni pietose, che escludevano il «decesso per cause naturali» certificato troppo frettolosamente.
Con la sua sentenza la Corte d'assise ha distribuito poche colpe, punendole con pene molto lievi, e di questo si discuterà a lungo. Ma è un dettaglio. Importantissimo per i destini degli imputati, condannati e assolti, e per le altre persone direttamente coinvolte, a cominciare dalla famiglia Cucchi. Ma resta un dettaglio che non cancella e nemmeno scalfisce la gravità di quello che è successo, e che per molti versi è rimasto fuori dal processo.
Stefano Cucchi è morto perché nei giorni dell'agonia voleva parlare con un avvocato e per questo ha rifiutato il cibo, senza che nessuno si preoccupasse di portare all'esterno dell'ospedale-prigione in cui era rinchiuso la sua legittima richiesta. È morto perché nei verbali d'arresto risultava «senza fissa dimora» anche se la casa in cui ufficialmente abitava era stata appena perquisita dai carabinieri, e quella falsa attestazione ha impedito che gli venissero concessi gli arresti domiciliari. È morto perché mentre era detenuto i suoi genitori hanno tentato invano per tre giorni di incontrarlo e avere sue notizie, ma una regola glielo impediva; una regola talmente illogica che dopo questa storia è stata cambiata dall'amministrazione penitenziaria. Almeno per questo non è morto inutilmente, ma è una magra consolazione.
Questi e altri particolari, sommati uno all'altro, hanno determinato la fine precoce e tragica di una giovane vita; perciò Ilaria Cucchi ha ragione quando accusa il meccanismo burocratico e cieco che ha stritolato un semplice indagato per la cessione di due dosi di hashish a un amico e il possesso di qualche grammo di stupefacenti. Reati da pagare col carcere, non con la morte come invece è accaduto.
Di un simile destino, drammatico e assurdo, la sentenza di ieri non ha fatto giustizia. Né poteva farne, per buona parte. Di qui il rammarico, che si aggiunge allo sconcerto per quello che s'è verificato in aula, subito dopo la lettura del verdetto. Mentre dal fondo dell'aula qualcuno tra il pubblico gridava «Vergogna!» e «Assassini!», qualcun altro tra i parenti degli imputati assolti e in festa reagiva alzando contro di loro il dito medio, nel più classico e volgare dei gesti offensivi. Il tutto a pochi metri dai resti di una famiglia in lacrime: padre, madre e sorella di Cucchi, talmente immersi nel riacutizzarsi del proprio dolore da non accorgersi nemmeno di un confronto a distanza consumato sulla loro disgrazia. Un'immagine orrenda, conseguenza di un processo dove lo Stato doveva giudicare se stesso e caricatosi di tensioni che dovrebbero rimanere fuori da un'aula di giustizia. Stavolta invece sembra che sia rimasta fuori la giustizia. Anche per via di quella scena indecente.

La Stampa 6.6.13
Quell’assurdo errore di Andrea: il papà perfetto tutto lavoro e famiglia
Il figlio è morto dimenticato nell’auto: “Adesso è un uomo distrutto”
Bocconiano, manager di un’azienda di ristorazione, era in ansia per un appalto
Messaggi e fiori Per il bimbo morto dopo essere stato dimenticato in auto dal padre, a Piacenza foto, messaggi e mazzi di fiori
di Fabio Poletti


Prima che la cornetta del telefono toccasse terra Andrea A. era già per le scale. Al diavolo il lavoro, i documenti per la gara d’appalto da consegnare assolutamente entro le sette, i capi che stressano come sempre, al diavolo tutto. Ma quella corsa del manager sempre in corsa stavolta è servita a niente. Suo figlio Luca, due anni e due giorni appena, era già morto nel seggiolino messo dietro alla Citroen Picasso. Morto forse da quattro ore anche se ci vorrà l’autopsia per dirlo con esattezza perché il corpicino nell’auto parcheggiata al sole scottava ancora, 42 gradi almeno. «Quando ha capito quello che aveva fatto ci siamo messi in sette a tenerlo fermo...», racconta il capitano dei carabinieri di Piacenza Rocco Papaleo, l’inchiesta aperta per dovere, l’accusa di omicidio colposo come prevede il codice, ma zero dubbi che non sia stata una di quelle cose che capitano in quelle giornate quando va tutto storto. «Non ci ho dormito la notte pensando a quel padre...», racconta il capitano, che non è nemmeno riuscito a interrogare il giovane manager sedato in ospedale e controllato a vista perché non si sa mai.
Dove c’era la Citroen con dentro Luca adesso ci sono le paraboliche delle televisioni e i fiori e il peluche di un pulcino e un agnello e il biglietto che dice «addio piccolo angelo» in questa storia dove di angeli non se ne è visto nemmeno uno. Solo diavoli che ci mettono la zampa e la vita infernale di questo manager, responsabile del settore ristorazione della Copra, un’azienda che macina fatturati milionari e a questo punto pure i dipendenti. «Andrea è uno dei nostri migliori manager. Una persona fidata», guarda all’organigramma dell’azienda Guido Molinaroli, il direttore generale di Copra Elior, ventimila dipendenti in tutta Italia, settore pulizie e ristorazione, pure lo scudetto della squadra di volley maschile vinto da pochissimo.
Ma quella di Andrea A., 38 anni, la laurea in Bocconi e poi a testa bassa nel lavoro, è la storia un uomo che ha perso l’unica cosa che contasse nella vita. Sul suo profilo Facebook i ricciolini biondi di suo figlio sono in primissimo piano. Non c’è uno che lo conosca, che dica qualcosa di male di questo uomo tutto casa e lavoro, famiglia e lavoro, il figlio Luca e lavoro, alla fine troppo lavoro. «Viveva per Luca», racconta uno dei suoi colleghi, tutta la giornata sulle carte per quell’appalto da vincere a tutti i costi, a costo di saltare il pranzo e sarebbe il meno. O dimenticare il figlio in auto ed è davvero troppo. «L’ho sentito urlare Andrea. Non ho capito cosa stesse accadendo mentre correva per le scale. L’ho seguito... Abbiamo provato a rianimare il bambino con l’acqua fredda, gli ho fatto anche la respirazione bocca a bocca...», ricorda il collega, tra i tanti qui davanti con gli occhi umidi e le troppe sigarette in mano.
Elisa la direttrice dell’asilo nido dove Luca era atteso sta sulla porta. Troppi giornalisti. Gli altri tredici bambini che hanno due o tre anni non capiscono cosa sia successo ma tutto questo andirivieni li innervosisce. «La settimana scorsa Luca non era venuto. Non stava bene mi ha detto suo padre lunedì, quando abbiamo fatto una festa al bambino che il giorno prima aveva compiuto due anni. Capita che i bambini si ammalino. Non ci preoccupiamo. I genitori di solito neanche ci avvisano...», spiega lei di fronte a questa valanga di coincidenze che alla fine fanno una tragedia. «Il signor Andrea e sua moglie Paola sono i genitori perfetti. Partecipano alle attività del nido. Da settembre tutte le mattine passava lui a portare il bambino prima di andare in ufficio. Poi passava il nonno a riprenderlo alle quattro del pomeriggio...».
Abitudini di una vita ordinaria scandita da gesti sempre uguali. Dall’appartamento al quartiere 2000 di Piacenza dove abita la famiglia di Andrea A. e dove adesso c’è nessuno, fino a qui ci sono dieci minuti in auto. Come ogni giorno la prima tappa di Andrea A. era al bar davanti a casa e poi all’angolo dove comprava la «Gazzetta dello sport» rimasta sul sedile davanti. Non si fermava nemmeno davanti all’asilo «Con la testa tra le nuvole...», un nome beffardo adesso. A parcheggiare davanti all’ufficio e tornare indietro con Luca in braccio per venti metri era la cosa più facile del mondo. L’altro giorno semplicemente non l’ha fatto. Se ne è dimenticato, troppo preso dal lavoro, da quell’appalto da vincere. «Ma come hai fatto? Come hai fatto?» gli ha chiesto sua moglie in ospedale l’altro giorno, prima di essere sedata pure lei. Andrea non le ha risposto. Non gli basterà una vita per farlo.

Corriere 6.6.13
La temperatura nell'abitacolo della macchina ha raggiunto i 60 gradi
Bimbo morto in auto, la madre al marito:
«Come hai potuto dimenticare Luca?»
Il padre è indagato per omicidio colposo. Il manager 39enne sotto choc è stato sedato ed è in ospedale, controllato a vista
di Francesco Alberti

qui

Corriere 6.6.13
Il bimbo nell’auto, i tempi delle nostre vite e l’attenzione perduta
di Susanna Tamaro


La morte del piccolo Luca, il dolore assoluto dei genitori: alla base del dramma c’è la frantumazione dell’attenzione.
Il terribile fatto che ci ha offerto la cronaca di ieri, con l'ennesima morte accidentale di un bambino dimenticato in macchina, e il dolore assoluto dei genitori del piccolo Luca pesano su di noi come un macigno. La disattenzione che è alla base di questo dramma, che purtroppo potrebbe ancora ripetersi, è un campanello di allarme molto forte che non possiamo più ignorare. L'evoluzione tecnologica degli ultimi trent'anni, infatti, ci ha proiettati con troppa rapidità in un ritmo di vita per il quale il nostro corpo e la nostra mente non erano ancora preparati. In un mondo ciecamente devoto al progresso, ci siamo convinti di essere solo cultura e che proprio questo nostro essere cultura ci permettesse rapidamente di adattare la nostra vita alle nuove esigenze. Il tragico episodio di Piacenza ci parla probabilmente di qualcosa di diverso. Le galline sono in grado di riconoscere solo una ventina di loro simili, quelle che solitamente sono destinate ad incontrare nella loro vita nel pollaio. Quando questo numero viene superato, ogni nuova gallina che arriva viene percepita come nemica e dunque attaccata. Il mondo che ci vuole solo esseri culturali nasconde in realtà una grande fragilità. Noi siamo frutto dell'evoluzione: se la nostra storia fosse una torta, la cultura ne sarebbe una meravigliosa e spessa guarnizione, ma non l'essenza stessa. La base della torta è la natura, e la natura porta con sé delle leggi per ognuna delle specie. Anche l'uomo ha la sua etologia, ed è questa etologia, costituita da migliaia di anni di evoluzione parallela — di natura e cultura — ad essere stata scardinata negli ultimi trent'anni. Scardinata nei suoi comportamenti, nelle tappe della vita, nei ritmi della quotidianità, nel lento fluire del pensiero. È stata la nostra capacità di attenzione e di concentrazione a costruire nei secoli quel che noi chiamiamo cultura. Ci è voluta attenzione e concentrazione per capire i ritmi della terra e dare via all'agricoltura. E ancora attenzione, e concentrazione sono state necessarie per costruire, ad esempio, il Duomo di Orvieto, senza l'aiuto di macchine, computer, colate di cemento. Eppure, se lo si guarda, non c'è dettaglio o ornamento che non sia perfetto L'attenzione è il pilastro portante della nostra vita ma, per esistere nella sua feconda creatività, ha bisogno di radicamento, di profondità, di una direzione univoca verso cui andare. L'irruzione delle tecnologie di comunicazione veloce degli ultimi vent'anni ha completamente frantumato la nostra capacità di attenzione profonda. Siamo attenti, sì, terribilmente attenti, ma solo ai crepitii di superficie, agli squilli, ai cinguettii, ai led luminosi, sempre pronti alla risposta, sempre raggiungibili da tutti e sempre terrorizzati di perdere quell'onda che ci tiene connessi col mondo virtuale che ci circonda. Ma questo nostro essere eternamente connessi ci ha portato inevitabilmente a vivere in uno stato di continuo allarme. Il nostro cervello è fatto per la profondità e la lentezza, allontanarlo da questa condizione non può che metterlo in uno stato di grande instabilità. Non si tratta di essere contro la tecnologia, ma di capire quanto la tecnologia serva a noi e quanto noi, invece, siamo destinati ad essere servi della tecnologia. Senza attenzione profonda, uno scrittore non riesce a scrivere un libro, un poeta una poesia, uno scienziato fare una scoperta. Senza attenzione profonda si disgregano anche i rapporti umani, perché quel che costruisce i rapporti umani è soltanto l'amore, e l'amore non è altro che una forma di attenzione prolungata nel tempo.

La Stampa 6.6.13
Bergamo
Scordata a 3 anni sullo scuolabus


Una bambina di 3 anni è rimasta per 6 ore chiusa sullo scuolabus che l’avrebbe dovuta accompagnare all’asilo che frequenta, ad Albino, in provincia di Bergamo. Inspiegabilmente nessuno, né l’autista né l’accompagnatore, si è accorto che la bimba, salita alla fermata vicino casa, giunta davanti alla scuola materna attorno alle 9 del mattino, non è scesa con il resto dei bambini, una quindicina in tutto, forse perché si era appisolata. Il pulmino è stato così riportato al deposito della società, dove è rimasto fino alle 15. Soltanto a quell’ora, infatti, le porte dello scuolabus sono state riaperte e l’autista si è trovato davanti la piccola. Nonostante le 6 ore trascorse da sola sul veicolo, la bimba sta bene e dopo le visite mediche del caso è ritornata regolarmente a frequentare l’asilo.



Turchia, i manifestanti a Gezi Park cantano Bella Ciao
E' diventata una colonna sonora del movimento di protesta che sta scuotendo la Turchia. L'inno della resistenza italiana risuona anche a Gezi Park, Istanbul

l’Unità 6.6.13
Ho visto in piazza la solidarietà della nuova Turchia
La protesta per difendere Gezi Parki, simbolo della laicità della società turca
la cronaca delle giornate di protesta e della brutale repressione della polizia
di Eda Su Neidik


Quello che è più strano è vedere le strade della tua città, quelle che attraversi tutti i giorni, magari di fretta, come un contesto di guerra. Perché per le strade di Istanbul oggi si respira un clima di guerra civile. Mentre scrivo siamo all’ottavo giorno di protesta in Turchia e gli scontri si sono estesi in quasi tutte le maggiori città. Tutto è nato per non permettere al governo di distruggere Gezi Parki, il parco di piazza Taksim. Eravamo contrari all’ennesima speculazione edilizia e l’abbiamo detto manifestando pacificamente.
Giovedì scorso, il 30 maggio, il parco era talmente animato da sembrare una festa. Il clima era sereno, tanto che quella sera la polizia, pur presente, non ha effettuato alcun intervento. La notte sono tornata a casa a dormire. Ma altri sono rimasti a Gezi Parki, riposandosi nelle tende e nei sacchi a pelo.
Alle cinque del mattino la polizia ha iniziato la sua offensiva. La voce si è diffusa velocemente. Un fiume di persone, fra cui io, ha invaso le strade della città, come un unico corpo che si è diretto verso Piazza Taksim. Ma non siamo riusciti ad entrare.
All’ingresso c’erano infatti una decina di Toma e Panzer, pronti a chiudere ogni accesso. In sottofondo si sentivano arrivare dalla piazza i rumori degli scontri. Con una amica abbiamo provato ad aggirare il blocco, dirigendoci verso le strade intorno. Ma la polizia, per tenere lontano le persone, sparava su chiunque passasse i gas urticanti.
Quando siamo arrivati a Çihangir una piazza vicina a Taskim avevamo gli occhi bruciati e pieni di lacrime. Lo spettacolo che ci si è presentato davanti era impressionante. I manifestanti cercavano di proteggersi dai gas con maschere occasionali. In molti venivano portati all’ospedale perché colpiti alla testa dalle bombe. E la polizia entrava nei vicoli intorno alla piazza per scovare chi aveva trovato rifugio.
I FERITI E GLI ELICOTTERI
Nel tardo pomeriggio la piazza era ancora piena di persone. Mentre stavamo cercando di medicare alcuni feriti, abbiamo sentito il rumore degli elicotteri. In un attimo mi sono trovata accecata da altre bombe al gas. Con gli occhi in fiamme mi sono messa a correre senza capire dove stavo andavo. Un medico sceso in strada mi ha raccolto e mi ha portato a casa sua, poco lontano da lì. Ma l’aiuto arrivava un po’ da tutti: ai bar, dalle farmacie, dai semplici cittadini.
La notte sembrava aver riportato la calma, ma era un’illusione. Al mattino i rumori sono ripresi. Rumori di stoviglie che venivano sbattute dalle persone nelle case. Un segnale per far capire che la protesta non era ancora finita.
La polizia ha attaccato nuovamente verso le otto del mattino. Le strade, a quel punto, erano devastate. Sono riuscita a tornare a casa, esausta, verso le nove e mezza della mattina. In piazza Taksim gli scontri sono continuati fino alle quindici.
Quando la stampa internazionale ha iniziato a raccontare quello che stava accadendo in Turchia, la polizia si è ritirata dalla piazza permettendo alla gente di protestare. Ma la tregua però è durata poco. Arrivata la notte la polizia è tornata ad attaccare i manifestanti a Besiktas. In piazza Taksim, invece, quella notte è passata in tranquillità. Una calma che è servita per riunire medicine, maschere antigas, limone, balsami, talcit e tutto quanto poteva essere utile.
In questi giorni, in cui momenti di calma e di tensione si sono alternati, Gezi Parki non è mai stato vuoto, ne lo è in questo momento. Mai mi è capito di vedere una tale solidarietà tra gli uomini, un aiuto reciproco che ha coinvolto ognuno. In tanti fanno i turni per stare in prima linea e permettere ad ognuno di non sfiancarsi. Non riesco a descrivervi l’orrore che ho visto e quanto questo mi è rimasto impresso nella mente.
Ieri sera, come ogni sera dopo il tramonto, la polizia ha ripreso a cospargere i manifestanti di sostanze. Questa volta era «agent orange», il diserbante che gli statunitensi usavano in Vietnam e che ha gravi effetti su chi lo subisce. A Dolmabahçe molti cittadini hanno ricominciato ad usare le stoviglie per fare rumore dalla finestra e la reazione della polizia si è intensificata. Hanno arrestato molta gente e ieri sera a Hatay un ragazzo di 22 anni è morto.
USANO IL GAS DISERBANTE
Nonostante la repressione a Izmir, Ankara, Hatay, Bodrum ed in molte altre città, la protesta continua. Finalmente anche la stampa ha cominciato ad avere meno paura di raccontare cosa sta accadendo, anche se inizialmente solo due TV Halk tv e Ulusal tv hanno divulgato la protesta. Una protesta che è nata per proteggere un parco e che ora vuole difendere il proprio popolo dall’intolleranza e dalla violenza che ogni giorno il governo usa contro i propri cittadini.

*Pittrice. Nata in Francia da genitori turchi, ha studiato arte a La Sorbona e allo Ied di Madrid. Vive a Istanbul

il Fatto 6.6.13
Taksim, tutte le voci della Turchia
I motivi dei manifestanti che hanno occupato la piazza di Istanbul
di Lorenzo Mazzoni


Istanbul Abdullah fa lo spazzino e ha 49 anni. Sta ballando da solo vicino allo stand della delegazione degli studenti leninisti, dalle cui casse escono le note di Bella ciao. “Sono qui perché mi piace ballare”, scherza. “È da sabato che vengo. Bisogna supportare questi ragazzi. Ci stanno facendo vedere il vero volto del paese. In passato io ho votato per l'Akp (il partito del premier Erdogan, ndr), ma non lo voterò più. È il momento che al governo si vedano facce nuove, sono qui per questo. Perché se ne vadano a casa”. Fahriye è insieme ad altre due amiche. È un'artista e ha 31 anni. “Sono qui perché sono una donna libera. Sono qui per protestare contro la repressione. Sono qui per far capire a Erdogan che il popolo è più forte dell'Akp. Sono qui perché voglio che il governo ci ascolti. Voglio che il premier si dimetta e che ci porga le sue scuse per aver lasciato che la polizia violentasse in questo modo la propria gente”. Emre, 31 anni. Sarto. Appartenente all'organizzazione Antikapitalist Müslümanlar, i musulmani rivoluzionari, sta dipingendo, insieme a due compagne velate, uno striscione. “L'Islam deve stare sempre dalla parte del popolo, e il popolo è qui. La Turchia che vuole Erdogan non ha nulla a che vedere con il vero Islam. Siamo qui per affermare e dimostrare al mondo che questa protesta non è solo laica, ma di tutto il popolo. Spero che faccia capire anche ai tanti musulmani che hanno votato in passato per l'Akp che non devono più votarlo”. Kadir ha 34 anni e lavora come guida turistica con italiani. “Venerdì ero per caso a Taksim, aspettavo due amici quando la polizia ha iniziato a sparare gas. Io che sono un fifone per natura mi sono messo in prima linea a protestare. Sono stanco di sentirmi dire come devo comportarmi, come mi devo vestire, come devo vivere. Quello che voglio per prima cosa è che facciano un passo indietro e rinuncino all'idea di abbattere gli alberi del parco e poi che dialoghino, che capiscano che senza il consenso popolare non possono andare da nessuna parte”. Ebru, 24 anni, pubblicitaria. “Sono qui per affermare che c'è un solo padre della patria, ed è Atatürk. Erdogan è solo un buffone. Voglio un governo che rappresenti tutto il popolo. Voglio che si dimettano”. Il marito, Batu, 28 anni, anche lui pubblicitario. “Sono qui per fargli capire che la democrazia non sono solo elezioni, ma anche rispetto per le persone. Sono molto stanco di questo loro remake del periodo ottomano. Vorrei un paese più libero dove musulmani e laici possano convivere in pace. Vorrei che la vera democrazia scorresse nelle vene di tutto il popolo”. Ayla, che ha 17 anni ed è una liceale, in piazza Taksim con amici. “I miei genitori non mi facevano venire perché avevano paura di nuovi scontri, ma io credo sia giusto esserci. Vorrei una stampa libera, un paese libero, una religione libera. Vorrei un governo che rappresenti anche l'altra metà della popolazione. Chiedo a Erdogan di dimettersi”.
Allo stand dei collettivi gay due signore con il velo ridono e scherzano con i ragazzi. Mualla, 60 anni, pensionata, viene da Izmir. “Sono qui per questi giovani, che sono il nostro domani. Questi ragazzi stanno dimostrando di sapere cosa vogliono per il futuro, ed è senza dubbio un futuro migliore di quello che ci vuole imporre l'Akp. Questo deve diventare un paese libero. Guardati intorno, hai mai visto una cosa così? Comunisti, socialisti, kemalisti, gay, lesbiche, islamici, ultras, tutti insieme per dire basta. Erdogan deve andarsene, ha fatto il suo tempo”. “Sono qui per il mio nome”, mi dice Umut (“Speranza”), 20 anni, studentessa di letteratura tedesca, “e poi per gli alberi, perché ci lascino le piazze per gridare, perché vengano dati più soldi a istruzione e sanità, per avere una democrazia diretta, per i diritti a tutte le minoranze”. Uscendo dal parco una scritta su un cartellone appeso a un albero: “Turchia, diventi bellissima quando ti arrabbi”.

Repubblica 6.6.13
Il Nobel Pamuk si schiera con la rivolta di piazza Taksim: deriva autoritaria del regime
L’albero dei ragazzi di Istanbul
L’intervento dello scrittore premio Nobel Orhan Pamuk
Sto con i ragazzi che combattono
di Orhan Pamuk


Il rapporto più recente sui diritti umani nel nostro Paese è il peggiore degli ultimi dieci anni. Mi riempie tuttavia di speranza e di fiducia vedere che la mia gente non rinuncerà alle manifestazioni pubbliche né a lottare per difendere il rispetto della propria libertà

PER dare un senso agli eventi di Istanbul, e per capire quei coraggiosi che scendono in strada e si scontrano con la polizia soffocando tra i fumi velenosi dei gas lacrimogeni, vorrei cominciare con una storia personale. Nel mio libro di memorie Istanbul, ho scritto su come tutta la mia famiglia abitasse negli appartamenti che componevano il palazzo Pamuk a Nisantasi. Di fronte a questo edificio si trovava un castagno che aveva circa cinquant’anni, che per fortuna è ancora lì. Un giorno, però, nel 1957, il comune decise di tagliare quell’albero per allargare la strada. Burocrati presuntuosi e amministratori autoritari ignoravano l’opposizione del quartiere. Così, il giorno in cui l’albero doveva essere abbattuto, mio zio, mio padre, e tutta la famiglia rimasero in strada giorno e notte, facendo a turno per fare la guardia. In questo modo, abbiamo protetto il nostro albero, ma abbiamo anche creato una memoria condivisa che l’intera famiglia ricorda ancora con piacere, e che ci lega l’un l’altro.
Oggi, piazza Taksim è il castagno di Istanbul e deve continuare a esserlo. Ho vissuto a Istanbul per sessant’anni e non riesco a immaginare che possa esistere una sola persona che viva in questa città e non abbia almeno un ricordo legato in qualche modo a piazza Taksim. Negli anni Trenta, nella vecchia caserma di artiglieria che ora vogliono trasformare in un centro commerciale, c’era un piccolo stadio di calcio che ospitava delle gare ufficiali. Il famoso Gazino di Taksim, che fu il centro della vita notturna di Istanbul per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, sorgeva un tempo in un angolo del parco Gezi. In seguito, tutti quegli edifici vennero abbattuti, gli alberi furono tagliati, piantarono nuovi alberi, e lungo un lato del parco costruirono una serie di negozi e la più famosa galleria d’arte di Istanbul.
Negli anni Sessanta, sognavo di diventare pittore e di poter esporre le mie opere in questa galleria. Negli anni Settanta, la piazza fu sede delle entusiastiche celebrazioni dei sindacati di sinistra e delle Ong per il Primo Maggio e, una volta, partecipai anch’io a una di queste celebrazioni. (Nel 1977, quarantadue persone furono uccise in un’esplosione di violenza provocata e nel caos che ne seguì). Da giovane, assistevo con curiosità e con piacere alle manifestazioni che tutti i partiti politici — partiti di destra e di sinistra, nazionalisti, conservatori, socialisti, socialdemocratici — tenevano a Taksim.
Quest’anno, il governo ha vietato di celebrare in questa piazza la Festa del Lavoro. E in quanto alla caserma che avrebbe dovuto essere ricostruita, a Istanbul tutti sanno che alla fine ci costruiranno un altro centro commerciale al posto dell’ultimo spazio verde rimasto nel centro della città. Il fatto che dei cambiamenti così significativi, in una piazza e in un parco che custodiscono i ricordi di milioni di persone, siano stati progettati e messi in atto, per quanto riguarda la fase dell’abbattimento degli alberi, senza prima consultare gli abitanti di Istanbul, è stato un grave errore per il governo di Erdogan.
Questo atteggiamento insensibile è chiaramente dovuto a una crescente deriva del governo verso l’autoritarismo. (L’ultimo rapporto sui diritti umani in Turchia è il peggiore degli ultimi dieci anni). Mi riempie, tuttavia, di speranza e di fiducia vedere che la gente di Istanbul non rinuncerà né al suo diritto di tenere manifestazioni politiche in piazza Taksim, né ai suoi ricordi, senza combattere.
(Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 6.6.13
Piazza Taksim
Se la Turchia in rivolta realizza la vera primavera
Come capita a chi resta troppo a lungo al timone Erdogan ha perso il senso della misura e nello stile ricorda un dittatore
La protesta in corso ha messo in evidenza tutti i limiti di un capo che sognava un impero in cui specchiare l’ego
di Lucio Caracciolo


Il marchio “primavera” non porta bene. Da Praga a Damasco, passando per Tunisi, Il Cairo e Bengasi, evoca enormi aspettative e risultati deludenti, contraddittori, spesso tragici. Ma se c’è un paese in fermento dove tale slogan può avere qualche senso, ebbene questo è la Turchia. Se “primavera” vuol dire risveglio di una popolazione consapevole dei propri diritti e stufa di governanti autoritari o paternalisti, non v’ha dubbio che quanto sta accadendo a Istanbul, Ankara e decine di altre città turche risponda a questa definizione.
Recep Tayyip Erdogan è da quasi undici anni il capo democraticamente eletto del governo di una potenza in ascesa da quasi ottanta milioni di abitanti, che fino allo scorso anno ha avvicinato le performance economiche dei Brics, gode (e soffre) di una collocazione geopolitica cruciale fra Medio Oriente, Russia, Europa e Mediterraneo, è un nostro alleato chiave in ambito Nato e non nasconde (forse troppo) vaste ambizioni d’influenza regionale e globale. Il leader del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), nel quale confluiscono varie correnti islamiste, il più delle quali moderate, può vantare di aver modernizzato un paese instabile e tuttora segnato da visibili sacche di arretratezza, di aver sedato con polso fermo le velleità golpiste delle Forze armate, un tempo prevalenti sui poteri politici, di aver esplorato con coraggio il sentiero della pace con la minoranza curda. Da qualche tempo però, come capita a chi resta troppo a lungo al timone, Erdogan ha perso il senso della misura. Il suo stile di governo ricorda quello di un dittatore — o aspirante tale — che consulta solo se stesso. Quasi un nuovo sultano, dai modi sprezzanti, incapace di capire e di farsi capire da buona parte della sua gente, compresi diversi elettori e militanti dell’Akp. Un leader che secondo i suoi critici intende rovesciare le basi laiche dello Stato fondato nel 1923 da Kemal Atatürk per affermare la sua idea islamica della società e delle istituzioni. E pretende di imporre ai cittadini turchi un treno di vita piuttosto rigido e regolamentato, con misure largamente impopolari — soprattutto sulla scena metropolitana di Istanbul e nelle più ricche regioni costiere — come la limitazione nel consumo di alcolici.
Quando nella notte fra il 30 e il 31 maggio la protesta di alcune migliaia di dimostranti contro la “ristrutturazione” del Gezi Park si è trasformata da raduno ambienmila
talista in manifestazione contro il “dittatore fascista” ed è stata repressa con esibita violenza dalla polizia, la scena politica turca è entrata in fibrillazione. Non che la leadership di Erdogan sia oggi in questione, né che le sue prospet-
tive politiche ed elettorali siano compromesse. Il consenso per lui e il suo partito resta forte soprattutto nell’Anatolia profonda, anche se la sua baldanzosa sicumera — «porterò in piazza un milione di miei sostenitori ogni cento-
mobilitati dagli estremisti» che lo contestano — appare ad oggi poco fondata. Tanto che dall’interno stesso del suo partito e del governo si levano pubblicamente voci che lo invitano a calmare i toni, a considerare le obiezioni dei manifestanti, a riportare la polizia nelle caserme. Il presidente Abdullah Gül, suo antico sodale, ha preso le distanze dalla retorica del primo ministro. E persino alcuni giornali in genere inginocchiati davanti a Erdogan ne hanno criticato le megalomanie urbanistiche e denunciato la mano dura delle forze di sicurezza, mentre l’influente Hürriyet titolava sulla “sconfitta” del “non più onnipotente” capo del governo.
Sarebbe semplicistico classificare lo scontro in atto solo come espressione della frattura laici/islamisti. Certo, il principale partito di opposizione, il neokemalista Chp, ha cercato di cavalcare la protesta. Ma fra le centinaia di migliaia di persone scese in piazza anche nelle roccaforti dell’Akp, come Konya e Kayseri, oltre alla stessa Ankara, c’erano manifestanti d’ogni colore, dagli islamo-ecologisti alla sinistra radicale o moderata, dai curdi agli aleviti fino ai seguaci del piuttosto esoterico movimento di Fethullah Gülen, classificato come islamico temperato. Sicché l’obiettivo di Erdogan — riformare in senso presidenziale le istituzioni e farsi eleggere capo dello Stato — non è più così a portata di mano come poteva sembrare fino alla scorsa settimana. Allo stesso tempo, non è emersa un’alternativa credibile all’egemonia dell’Akp. Tanto meno si profila all’orizzonte un leader della statura di Erdogan.
Ironia della storia: il leader turco che due anni fa cercava inutilmente di convincere l’allora “fratello” siriano Bashar al Assad, ad ascoltare la voce del popolo e a inaugurare una stagione di riforme, oggi sembra incapace di capire le ragioni di chi gli si oppone. E mentre Assad resiste armi in pugno contro ribelli che in molti casi fanno riferimento ad Ankara, Erdogan non appare più intoccabile. Forse le sue ambizioni geopolitiche e la sua idea di Turchia sono morte a Gezi Park? Presto per stabilirlo. Di certo la rivolta in corso ha esposto i limiti di un capo fin troppo battagliero e carismatico, che sognava un impero a propria immagine e somiglianza, in cui specchiare il suo formidabile ego. Un sogno che per molti turchi, non solo laici, era e rimane incubo.

Repubblica 6.6.13
Piazza Taksim
di Nazim Hikmet


Dentro di me c’è il dolore di un ramo dai frutti spiccati, non scompare dai miei occhi l’immagine della strada che scende al Corno d’Oro, / è un coltello a due occhi piantato nel mio cuore / la nostalgia del figlio, la nostalgia di Istanbul. / Il distacco non si regge? / A noi la nostra sorte sembra tanto tremenda? / Invidiamo la gente?
Il bravo padre è in prigione a Istanbul, / il bravo figlio lo vogliono appendere / in mezzo alla strada / in pieno giorno. /Per quanto mi riguarda qui son libero/ come la brezza o un canto popolare, / tu sei laggiù, piccolo mio, / ma sei ancora così piccolo che non potranno spedirti sulla forca. Non diventi assassino il bravo figlio, / non muoia il bravo padre, / che per portare a casa il pane e gli aquiloni/ hanno rischiato il cappio. / Uomini, / uomini buoni, / passatevi la voce da ogni angolo del mondo, / ditegli di fermarsi, / che non infili il cappio il giustiziere.

il Fatto 6.6.13
Femen. Il pugno di Tunisi carcere a oltranza
di Paolo Hutter


Il conflitto sempre più esasperato sulle Femen in Tunisia ha rischiato di incrociarsi con gli echi della rivolta della opposizione turca a Erdogan. Alla vigilia della visita del priemier turco a Tunisi sono stati rafforzati i presìdi all'ambasciata turca, dove la polizia temeva anche una protesta a seno nudo. Due giovani ucraine e una bielorussa sono state rintracciate negli hotel dove si trovavano ed espulse, per il timore che stessero preparando una protesta. Femen ha dichiarato che una delle tre è effettivamente una sua militante, ma le altre due sono delle turiste sconosciute.
Contemporaneamente all'episodio paradossale ma che rischia di ripetersi della espulsione di turiste presunte Femen, al tribunale di Tunisi si è tenuta la prima udienza del processo contro le due francesi e la tedesca di Femen che effettivamente avevano protestato a seno nudo la settimana precedente, a Tunisi. Anche in questo caso come già accaduto qualche giorno fa per la stessa Amina il giudice ha rifiutato la libertà provvisoria. L'udienza è stata breve e disturbata dal presidio salafita contro le ragazze. Per pronunciarsi sulla richiesta degli integralisti di costituirsi parte civile contro le Femen, il tribunale si è preso una settimana di tempo. Le giovani resteranno in carcere almeno fino all’udienza del 12 giugno. Al collegio di difesa delle Femen si è unito uno dei più noti giovani avvocati francesi, il socialista e vicepresidente di Sos racisme Patrick Klugman. È ottimista sulle conseguenze della modifica del capo d'imputazione, da attentato al buon costume a “depravazione”: a suo parere è più smontabile. La giornata si era aperta con una manifestazione a seno nudo di Femen a Parigi all'ambasciata tunisina al grido di “Amina Akbar”. Amina, che è all'origine di tutto ciò, è stata interrogata senza pubblico a Kairuan e continua a stare in prigione.

La Stampa 6.6.13
Avviso alle donne cinesi: “Per evitare molestie non mettete minigonne”
Il consiglio della polizia di Pechino per ridurre i crimini legati agli abusi sessuali
Ma i dati sono sconcertanti: il 20% dei cinesi dichiara di aver violentato una donna
di Ilaria Maria Sala

qui

La Stampa 6.6.13
Wei Jingsheng è considerato il padre del movimento democratico in Cina; ha subito 18 anni di prigione e poi la deportazione negli Stati Uniti
“Nazionalismo e riforme il leader cinese in bilico”
Il dissidente Wei: ha capito che il Partito è una cricca, rischia molto
di Paolo Mastrolilli


Il paradosso, secondo Wei Jingsheng, è tutto qui: «Il nuovo presidente cinese Xi Jinping sarebbe un riformista, ma proprio la lotta interna con i conservatori lo spingerà a prendere posizioni più aggressive sulla scena internazionale».
Wei è considerato il padre del movimento democratico nella Repubblica popolare, da quando nel 1978 pubblicò il manifesto «La Quinta Modernizzazione». Quella sfida diretta all’allora leader Deng Xiaoping gli è costata in totale 18 anni di prigione, fino alla deportazione negli Stati Uniti nel 1997. Lo incontriamo davanti al consolato cinese di New York, dove è venuto a guidare una manifestazione per l’anniversario del massacro di Tiananmen.
Chi è Xi, e in quale direzione guiderà la Cina?
«È un riformista, nel senso che ha capito la necessità di aggiornare il sistema economico e politico, prima che venga travolto dal malcontento della gente. Però si trova in una posizione molto difficile, perché è arrivato al potere durante lo scontro più duro di sempre nel Partito comunista».
Quale scontro?
«I conservatori ormai sono una cricca guidata dagli interessi economici, non dall’ideologia. Hanno fatto molti soldi, e con i soldi hanno acquistato ancora più potere. Questo gruppo dice che non si può dare più spazio al popolo, perché ne verrebbe solo il caos. I riformisti rispondono che la gente è stanca, anche perché l’economia sta frenando, e se i politici non cambieranno il sistema corrotto al potere, il popolo si rivolterà e taglierà loro la testa, come durante la Rivoluzione francese. Questa però è la posizione di minoranza, e i conservatori minacciano di esautorare i riformisti, con l’aiuto dei militari, se cercheranno di toccare il sistema politico».
Che posizione prenderà Xi in questo scontro?
«Di natura sarebbe un riformista, ma da quando è al potere è sotto controllo e ha cambiato linguaggio. Basti pensare al fatto che dopo la nomina è sparito per due settimane, e nel frattempo la lista dei membri del Politburo è completamente cambiata. Lo hanno scelto proprio per le sue doti diplomatiche, ma trovare un compromesso fra le due fazioni sarà difficilissimo. Credo che lui si stia lavorando soprattutto i militari, per evitare che vengano usati dai conservatori per neutralizzarlo. Poi, per riuscire nel suo progetto di riforma, ha bisogno del sostegno popolare e della corrente nazionalista, sempre più forte nella società cinese».
Che cosa comporterà questo sul piano internazionale?
«Dovrà prendere posizioni più dure, proprio per garantirsi il consenso interno di cui ha bisogno per realizzare le sue riforme. Se potesse, userebbe la diplomazia per risolvere i problemi, ma sa che non basterà. I suoi predecessori, Jang Zemin e Hu Jintao, volevano solo lo status quo interno, e un’immagine decente sul piano internazionale. Xi vuole cambiare la Cina, e quindi avrà bisogno di una politica estera più dura».
Prevede tensioni su Corea del Nord, Siria e attacchi digitali?
«Non solo. Anche nella disputa per le isole contese con il Giappone, e nel Mar Cinese meridionale».
C’è il rischio di incidenti militari?
«Sì, perché nella storia i leader cinesi hanno sempre guadagnato autorità interna con la guerra».
Un rompicapo per Obama: da una parte, gli Usa preferirebbero il successo dei riformisti, ma dall’altra rischiano di doverlo pagare con un aumento delle tensioni.
«Xi vorrebbe l’appoggio di Obama, soprattutto sul piano economico, ma non può mostrarsi troppo vicino a lui, perché perderebbe l’appoggio dei nazionalisti sul fronte interno. Dovrà fare un gioco molto delicato, e pericoloso».

Corriere 6.6.13
Cina e Usa
Sindrome da egemonia, una nuova Cartagine?
di Sergio Romano


Quando decise di resuscitare la Società delle nazioni, nell'ultima fase della Seconda guerra mondiale, Franklin D. Roosevelt volle che alla Cina venisse assegnato un seggio permanente e il diritto di veto. Quale Cina? Alla fine del conflitto l'«Impero di Mezzo» precipitò in una guerra civile fra le due forze — i nazionalisti del Kuomintang e il Partito comunista di Mao — che negli anni precedenti avevano separatamente combattuto contro i giapponesi. Ma non appena Mao, nel 1949, proclamò da Pechino la nascita della Repubblica popolare, gli Stati Uniti scelsero i nazionalisti di Chiang Kai-shek, fuggiti in quella che era negli atlanti l'isola di Formosa. Da allora la Cina divenne per l'America ciò che Cartagine aveva rappresentato per Roma dal 241 al 146 avanti Cristo. Se il generale McArthur, durante la guerra di Corea, non fosse stato tenuto a freno dal presidente Truman, i bombardieri americani avrebbero gettato bombe nucleari sul territorio cinese. Tutto cambiò negli anni Settanta quando Richard Nixon e Henry Kissinger, presidente e segretario di Stato, approfittarono del peggioramento dei rapporti cino-sovietici e resero il mondo, con due memorabili viaggi a Pechino, un po' meno bipolare di quanto fosse stato sino a quel momento. Qualcuno ha forse dimenticato che il migliore alleato del regime comunista cinese, dopo la repressione dei moti di piazza Tienanmen, fu George H.W. Bush, da qualche mese presidente degli Stati Uniti?
Oggi il quadro è confuso e contraddittorio. Gli Stati Uniti sono ancora, nonostante le zoppicanti vittorie militari dell'ultimo decennio, la prima potenza militare del mondo e presidiano con basi e flotte tutti i mari dell'Asia, dall'India alla California. Ma una somma astronomica di cartelle del debito pubblico americano è depositata nei caveaux della Banca centrale cinese e i due Paesi sono rispettivamente il più grande debitore e il più grande creditore del pianeta. Non basta. Gli Stati Uniti (classe politica e società) sono divisi in due campi: quelli che credono nell'utilità di un rapporto pragmatico, da cui entrambi possano trarre qualche vantaggio, e quelli per cui la Cina è semplicemente «delenda», come il falco Catone diceva di Cartagine negli anni in cui Roma e i fenici si disputavano il dominio del Mediterraneo. I cinesi parlano meno, ma non credo che i pensieri di Pechino siano molto diversi da quelli di Washington. Siamo ancora una volta di fronte, quindi, a un fenomeno molto noto agli storici che potremmo definire la sindrome dell'egemonia. Si manifesta ogniqualvolta un Paese giunge alla conclusione di non potere continuare a esistere se non avrà prima tolto di mezzo un nemico, vero o fittizio, che gli impedisce di sviluppare tutte le sue potenzialità. Roma tirò un sospiro di sollievo soltanto quando Scipione conquistò Cartagine, uccise quasi tutti i suoi abitanti e vendette sul mercato degli schiavi le donne e i bambini (50 mila) che erano usciti dalla città prima dell'ultimo attacco. Se la corsa al potere e i motivi di una guerra fossero razionali, le soluzioni concordate sarebbero sempre possibili. Ma la sindrome dell'egemonia è una velenosa combinazione di ambizioni, paura, diffidenza, senso di superiorità. Quando l'Invencible Armada di Filippo II (130 navi e 24 mila uomini) salpò verso le coste inglesi nel 1588, la guerra sembrò provocata da fattori religiosi (cattolici gli spagnoli, scismatici e protestanti gli inglesi). Ma qualche anno dopo, quando l'Inghilterra decise di mettere in riga le ambiziose Province Unite dei Paesi Bassi, nel 1652, la comune fede protestante non impedì lo scontro. Lo stesso accadde durante la guerra dei Trent'anni quando la Francia, per strappare agli Asburgo il dominio del continente, non esitò a fare fronte comune con la Svezia e i principi protestanti.
Quale era il disegno strategico di Napoleone? Diffondere in Europa i principi della Rivoluzione francese? Li aveva traditi con il colpo di Stato del 18 brumaio e, pochi anni dopo, con l'ascesa al trono imperiale. Liberare i popoli dai re tiranni? Li sostituì con fratelli, sorelle, amici e cognati. Da un punto di vista strettamente politico non v'è grande differenza fra le ambizioni egemoniche degli zar di Russia e quelle di Stalin. Il meraviglioso georgiano riconquistò tutti i territori perduti durante la Prima e la Seconda guerra mondiale: le repubbliche del Baltico, l'Ucraina, il Caucaso, l'Asia centrale, la Siberia.
La Germania è un caso a sé, particolarmente interessante. La sua unificazione, nella seconda metà dell'Ottocento coincise con una straordinaria esplosione di studi umanistici, ricerche scientifiche, organizzazione militare e industriale. Bismarck cercò di spiegare ai suoi connazionali che un tale capitale andava amministrato con prudenza e saggezza. Ma Guglielmo II e una parte della società del secondo Reich credettero che la Germania avesse il diritto di affermare la propria superiorità e di sferrare un «Assalto al potere mondiale», come uno storico tedesco, Fritz Fischer, intitolò il suo libro sulle cause della Grande guerra. Perdette la partita, fu umiliata a Versailles e cadde nelle mani di un anti-Bismarck, Adolf Hitler, che tentò nuovamente l'avventura con stravaganti argomenti pseudo-filosofici. Dopo due clamorosi fallimenti, la Germania non ha rinunciato alla ricerca dell'egemonia, ma ha deciso che la sola per cui valesse la pena di battersi fosse quella economica nell'ambito di un progetto che avrebbe eliminato le ambizioni egemoniche dei suoi vecchi nemici. È una versione moderna della politica che Bismarck raccomandava al suo Paese. Credo che anche gli Stati Uniti e la Cina abbiano oggi bisogno di un Bismarck.

Corriere 6.6.13
Le occidentali violentate in India e la maturità di una democrazia
di Marco Del Corona


Una trentenne americana è stata stuprata da tre uomini a Simla, in India, uno dei crocevia più popolari tra i cultori del trekking himalayano. Lunedì a Calcutta la polizia ha arrestato un uomo d'affari locale sospettato di avere abusato dell'addetta irlandese, 21 anni, di una ong. Ancora, in marzo: la turista svizzera violentata in Madhya Pradesh e la britannica morta per sfuggire a un'aggressione. La successione spinge, senza nulla togliere alla brutalità degli episodi, a mettere a fuoco il fatto che le vittime siano tutte straniere. Donne bianche, donne nostre: il riflesso — non nascondiamocelo — vira implacabilmente verso un'indignazione che non è neppure neocoloniale, come la natura del Paese in questione pare suggerire a chi indugia in orientalismi fuori tempo e fuori luogo: è un riflesso razzista, semplicemente. E ci fa forse dimenticare che in dicembre una ventitreenne indiana è stata massacrata su un bus di New Delhi ed è morta dopo giorni di agonia. Un'intera nazione si è indignata, scendendo nelle strade, sfidando la polizia, contestando una legislazione inadeguata e la compiacenza di autorità spessissimo intrise, a ogni livello, di un maschilismo alimentato da retaggi ancestrali e alibi (pseudo)religiosi.
È da lì che occorre partire. Dalle folle offese di donne e, anche, di uomini. Perché a essere state aggredite non sono state straniere o indiane, ma donne. Donne e basta. In modo confuso, contraddittorio, come può accadere in una nazione di un miliardo e 200 milioni di persone polverizzate in una costellazione di etnie, si profilano — se non altro — le premesse di una presa di coscienza che dalle città promette, prima o poi, di diramarsi anche nelle vastità rurali di un Paese multiplo di se stesso.
Gli stupri e la subalternità della donna sono prassi abituale in India. (Non solo lì, viene da aggiungere). Lo scarto tra stato delle cose e i primi passi di un riscatto è difficile e muove, dolorosamente, anche attraverso la sequenza di drammi che toccano donne che solo per accidente sono straniere. È una prova di maturità, l'ennesima, a cui è chiamata la democrazia dell'India. Che non è un gigante addormentato ma, forse, già un gigante che apre gli occhi.

Repubblica 6.6.13
Giappone, al lavoro per una vita
Età della pensione: mai
di Carlo Clericetti

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La Stampa 6.6.13
Gran Bretagna: “Fra dieci anni un bambino su quattro sarà povero”
Report dell’Istituto di Studi fiscali: «La riforma delle tasse e dell’assistenza introdotta nell’aprile del 2010 è la prima causa di aumento della povertà infantile»
di Claudio Gallo

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il Fatto 6.6.13
Carcere e maternità
L’infanzia negata è un cielo a sbarre
Pubblichiamo un estratto di “Mamma è in prigione”, indagine sulla maternità in carcere
di Cristina Scanu


Sono le donne più disgraziate del Paese. Quelle che non hanno scelta: se sei in carcere e hai un figlio sotto i tre anni che nessuno può tenere e non vuoi darlo in affido, perché hai paura di perderlo, sei obbligata a tenerlo con te. Condannato all’umido delle celle e al sole visto a spicchi dietro sbarre arrugginite. Sono una sessantina i bambini in cella, nell’Italia che detiene il record assoluto di pronunciamenti della Corte europea per condizioni di detenzione disumane. Eppure, nell’ultima campagna elettorale, la questione “carceri” è stata ignorata, e con essa i piccoli innocenti di questo sistema. Meglio non sapere che in galera vive anche chi non ha alcuna colpa: le decine di bimbi che crescono circondati da quelle mura di cemento.
In Italia le carceri femminili sono cinque, così la maggior parte delle detenute sta scontando la pena in una delle 62 sezioni ricavate all’interno di istituti maschili (il 77% è recluso in luoghi che contengono al massimo 50 donne), progettati e pensati per gli uomini. Ed è forse per questo che, ancora oggi, manca un’attenzione alla differenza di genere che permetta di cogliere i loro bisogni specifici. Molte delle donne che ho incontrato sono madri: madri di figli rimasti fuori, ma anche di bimbi che vivono in cella con loro e che, quando compiranno tre anni, dovranno lasciarle, come prevede la legge. Non è semplice gestire il distacco dai figli, in qualunque momento esso avvenga. L’umiliazione nei confronti di questi piccoli rende ancora più dolorosa la pena.
I sensi di colpa per averli abbandonati accompagnano queste donne per tutta la carcerazione. Se l’Italia avesse veramente a cuore le sorti di questi bambini, darebbe loro la possibilità di crescere insieme alle madri in un luogo diverso dalla prigione. Che Paese è quello che ti costringe a tenere tuo figlio dietro le sbarre? Che mette la certezza della pena davanti al diritto di un bambino di crescere sereno? In Parlamento non ci sono mai state così tante donne. Non so quante di loro sono madri, ma so che, all’uscita del libro, ognuna di loro ne avrà avuto un estratto. Le voci rotte dei bambini che ho incontrato sono un grido che le sfida. nella speranza che non termini l’ennesima legislatura con quei piccoli dietro le sbarre.
DONNE E MADRI: “Quando mi hanno arrestata era quasi mezzanotte, mio figlio di quattro anni dormiva nel letto con me. L’ho svegliato, ho cercato di tranquillizzarlo, ma gli agenti mi strattonavano e lui si è messo a piangere. Mi hanno portata in questura e abbiamo passato lì la notte”.
Incontro Susanna nel carcere di Empoli, dove sta scontando una pena per furto. Capelli raccolti e occhi scuri. Ha voglia di parlare, di raccontare. Perché da quando vive qui, le uniche persone che incontra ogni giorno sono donne disperate e depresse, compagne di cella che non parlano la sua lingua. Nessuno con cui confidarsi, con cui condividere paure e sofferenze. E quando i nostri sguardi si incrociano, sento tutta la solitudine che Susanna ha dentro di sé. Il suo bisogno di affidarsi, di essere ascoltata e abbracciata.
Da cinque mesi non vede suo figlio: in assenza di qualcuno che potesse occuparsene, il tribunale lo ha affidato a un istituto di religiose. Manuel è troppo grande per stare in carcere con la sua mamma: solo se hai meno di tre anni puoi farlo. Lo dice la legge. “Lui non sa che sono in prigione”, aggiunge fissando la parete alle mie spalle, “gli ho detto che sono in ospedale”. Susanna ha voglia di condividere con qualcuno il dolore che ha dentro. E non importa se quel qualcuno è una persona che ha appena incontrato. Ha voglia di parlare di suo padre che quando tornava a casa ubriaco picchiava la madre se la cena era fredda. Del compagno che l’ha abbandonata quando, a diciannove anni, è rimasta incinta. Del suo lavoro come barista in nero per sopravvivere. Del fratello, fermato dalla polizia a quindici anni mentre cercava di rubare un motorino: “L’unica gioia della mia vita”, dice, “l’ho provata quando l’infermiera mi ha messo mio figlio tra le braccia”.
Un figlio di cui Susanna si è occupata da sola, passando da una casa famiglia alla strada, per poi finire, da abusiva, in un alloggio popolare sfitto. Un figlio che oggi ha paura di non rivedere più. “Quando mi hanno arrestata ho pensato che per lui sarebbe stato un bene, almeno potrà avere un piatto di minestra ogni sera e una coperta calda in inverno. Io me la caverò, ho già superato momenti difficili”.
La sua voce inizia a tremare, poi scoppia in un pianto disperato. Di donne come Susanna, in carcere ne incontri a centinaia: mamme a cui il tribunale ha portato via i figli, a volte per il tempo della detenzione, altre per sempre. Donne che non hanno altra scelta, in assenza di amici o familiari cui affidare il proprio bambino. Il 90% delle detenute è madre di uno o più figli che, nella metà dei casi, sono minorenni. Basterebbe questo dato per capire cosa significhi per loro la carcerazione.

l’Unità 6.6.13
Janet Frame. Volti nell’acqua
Libro-testimonianza sulla sofferenza
Anticipiamo stralci dall’introduzione di Hilary Mantel


In libreria da oggi il volume della scrittrice neozelandese che per otto anni visse rinchiusa in vari ospedali psichiatrici
Un romanzo bello e doloroso, un racconto drammatico che riesce a entusiasmare e a straziare nello stesso tempo

VOLTI NELL’ACQUA di Janet Frame introduzione di Hilary Mantel traduzione Giovanna Scocchera pagine 253 euro 12,00 Neri Pozza

La grande scrittrice neozelandese trascorse otto anni della sua vita in vari ospedali psichiatrici e fu sottoposta a più di duecento elettroshock. La sua intera opera è attraversata da cima a fondo dal ricordo di questo doloroso capitolo della sua esistenza. «Volti nell'acqua» è il libro in cui la sua esperienza ospedaliera viene restituita nella maniera più cruda.

ANCOR PIÙ DI VIRGINIA WOOLF, JANET FRAME È PRIGIONIERA DELLA SUA BIOGRAFIA, O MEGLIO DEGLI OTTO ANNI DI VITA IN CUI FU STIGMATIZZATA COME PAZZA E RINCHIUSA IN VARI OSPEDALI PSICHIATRICI. Janet Frame ritornò a questo periodo doloroso quando scrisse Faces in the Water (Volti nell’acqua), sottolineando però che Istina Mavet, il personaggio principale del romanzo, non era la rappresentazione di se stessa: era molto di più. Istina è come un alambicco umano, il recipiente di un alchimista in cui si riversano e si rimescolano le acque della vita; la materia che scorre nel romanzo è bella e dolorosa, e ha la stessa complessità del sangue e delle lacrime dell’uomo. Istina è il risultato di molti incontri, di lunghe e ansiose giornate di osservazione, e il suo stesso nome è un amalgama: come disse la stessa Frame, «Istina significa “verità” in serbocroato, e Mavet significa “morte” in ebraico».
Nata nel 1924 e cresciuta in Nuova Zelanda, nell’Isola del Sud, Janet Frame era la terza di cinque figli. Il padre lavorava come operaio per le ferrovie e la loro era una famiglia povera, per di più colpita da una serie di disgrazie: il fratello di Janet soffriva di epilessia, mentre due delle sue sorelle morirono annegate. Quando Janet lasciò la famiglia per andare a studiare da insegnante, ebbe un tracollo emotivo. Ricoverata in ospedale, le venne diagnosticata la schizofrenia, e sarebbe stata sottoposta a un intervento invalidante di chirurgia cerebrale se ai medici non fosse arrivata la notizia che la paziente, per la quale sembrava non ci fosse più niente da fare, aveva pubblicato un libro di racconti che aveva vinto un premio nazionale.
Dopo la dimissione dall’ospedale, Janet viaggiò per l’Europa, e durante la sua permanenza a Londra scrisse cinque libri, tra cui Volti nell’acqua. Sempre a Londra fu visitata da uno psichiatra, il quale dichiarò che non era schizofrenica né lo era mai stata – non rientrava cioè in quella definizione fin troppo elastica, e forse assurda, del termine. Ritornò in Nuova Zelanda nel 1963, e alla sua morte – avvenuta nel 2004 – aveva ormai pubblicato undici romanzi, un libro di poesie, alcune raccolte di racconti, un libro per bambini e una famosa autobiografia in tre parti. Altre poesie e un dodicesimo romanzo, Verso un’altra estate, sono apparsi postumi. Una vita tanto creativa, attenta e autonoma, più che di infermità o trascuratezza è indice di una presenza emotiva e una lucidità ben superiori a quelle di tanti che hanno vissuto un’intera vita senza che la loro salute mentale venisse mai esaminata o messa in discussione.
Molti scrittori si lamentano del fatto che il loro lavoro viene troppo spesso considerato autobiografico, e che lettori e critici letterari hanno la mania di voler stanare tutti i riferimenti a luoghi o persone della “vita reale” nascosti in un’opera di fantasia. Ma dal punto di vista dell’autore, realtà e finzione non sono poi così diverse come talvolta si immagina. La fantasia non necessariamente nasconde, né l’autobiografia rivela: entrambe devono sottostare alle stesse decisioni per ciò che riguarda forma, scelte e prospettiva. La verità nuda e cruda produce risultati banali. Molti lettori di tutto il mondo hanno conosciuto Janet Frame attraverso il film diretto da Jane Campion nel 1990, Un angelo alla mia tavola, una versione condensata e drammatizzata dell’autobiografiadella Frame, il film forse più intenso che sia mai stato realizzato su uno scrittore. Introduceva, tuttavia, una certa confusione tra ciò che accadeva a Janet Frame come persona e ciò che le accadeva in quanto personaggio cinematografico. In occasione di varie interviste l’attrice Kerry Fox, interprete di Janet da adulta, tracciò una giusta distinzione fra “la persona Janet” e “il personaggio Janet”, una distinzione che però risulta sfumata quando a “Janet” a Londra viene suggerito di scrivere sulle sue esperienze in ospedale e poi, nella scena successiva, la vediamo pubblicare Volti nell’acqua. In effetti, alcune scene di quel libro sono state incluse nel film, e dunque è inevitabile che la linea di demarcazione tra l’esperienza reale e la sua trasposizione romanzesca risulti sfocata, e che una certa dimensione metaforica venga smorzata a favore della semplice cronaca. Janet Frame disse che in Volti nell’acqua aveva ammorbidito la verità: temeva che altrimenti non le avrebbero creduto.
Istina Mavet è una figura che arriva nella vita del lettore senza contesto né informazioni che la riguardano. La sua storia ha carattere di purezza e universalità. Non ci viene detto quale sia l’origine della sua sofferenza emotiva: è sufficiente capire che la prova, e che subisce gli attacchi di un’angoscia intensa e intollerabile. L’ospedale dove resta più a lungo è una struttura che accoglie pazienti di ogni età, dai bambini agli anziani – malati di demenza senile, criminali, persone con patologie genetiche e chiunque abbia subito sofferenze emotive e crisi esistenziali. L’ospedale ha lo scopo di allontanare i pazienti dalla società e indurli alla condiscendenza, e il personale ha compiti di controllo più che di cura. I medici non si fanno vedere quasi mai, e quando arrivano nei reparti sono accompagnati da infermiere che “interpretano” i pazienti in modo da individuare la “lezione” di cui hanno bisogno. È palese un certo sadismo, una stupidità generalizzata. I pazienti più rumorosi, quelli che non obbediscono subito agli ordini o che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato, vengono inseriti nella lista della terapia elettroconvulsivante. I vari reparti sono organizzati in una gerarchia che prevede livelli sempre maggiori di umiliazione, che anche Istina avrà modo di conoscere. Arrivati all’ultimo stadio, i pazienti regrediscono a una condizione infantile – avvolti in camicie o cinture di forza, senza più il controllo di vescica e intestino. Ma sono neonati che non cresceranno mai, non avranno mai un ruolo nella società, un loro posto nel mondo. Istina si vede trasferita, suo malgrado, dalla categoria di quelli che guariranno alla categoria di coloro che resteranno in ospedale a vita. La sua unica possibilità di essere dimessa, le dicono, è sottoporsi a una lobotomia. Il suo destino è ora nelle mani di medici che la conoscono a malapena e non capiscono a cosa andrà incontro: il suo futuro dipende da un loro capriccio.
Il libro è una testimonianza di umiliazione e terrore, squarciata da riflessioni raggelanti. Il vissuto dei suoi personaggi viene trasferito sulla pagina con una leggerezza tale che il lettore non lo vive mai come un’esperienza punitiva. È un racconto di sofferenza che riesce a entusiasmare e straziare allo stesso tempo, perché la sua stessa esistenza – il fatto che Istina sopravviva e racconti la storia – dimostra che quella sofferenza non l’ha distrutta. Le pagine più buie sono illuminate dalla consapevolezza che la vita umana è qualcosa di prezioso, e che ogni vita è unica. Questo è anche un libro acuto e intelligente, capace di rivelare senza tanti giri di parole (né usare il gergo della sociologia) come funzionano le istituzioni repressive. Se non riesci a vivere in un ospedale psichiatrico, viene detto ai pazienti più difficili, come pensi di poter vivere nel mondo? Istina paragona l’ospedale a una fabbrica, una prigione, un macello; le immagini vengono create, ampliate, enfatizzate. Il romanzo ci permette di Frame capire, con il cuore così come con la mente, le pratiche violente della psichiatria dell’epoca, e le convinzioni autoreferenziali che le animavano. A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, la tendenza della psichiatria era quella di formulare risposte fisiche e concrete a disturbi mentali invisibili: procedure faticose che richiedevano tempo e risorse competenti. Ma queste soluzioni davano ai medici la sensazione che stessero facendo qualcosa. Rabbonivano i parenti. Là dove le terapie venivano eseguite privatamente, diventavano molto redditizie.
Janet Frame raccontò di essere stata sottoposta a più di duecento elettroshock, «ognuno pari per intensità di paura a un’esecuzione capitale». In Volti nell’acqua, Istina ce li descrive. Il terrore trasuda dalla pagina mentre i pazienti-carcerati, come reclusi condannati a morte, aspettano di sapere ogni mattina quale sarà il loro destino. È una situazione da cui non si esce vincitori: se non sei in lista per l’elettroshock, e mostri con entusiasmo il tuo sollievo, è probabile che ti mettano in lista per un trattamento di emergenza. Il paziente ideale è impassibile, un sasso, le emozioni forti rischiano di passare come sintomo di malattia. Istina non si fa illusioni sulla finalità di quel trattamento. È «il nuovo metodo alla moda per calmare la gente e farle capire che si deve obbedire gli ordini e lucidare i pavimenti senza protestare e le facce vanno atteggiate al sorriso e piangere è un delitto».

La Stampa 6.6.13
Il “segreto brutto” di Primo Levi: basta calunnie su nostro fratello
Scrivono i famigliari di uno dei due partigiani fucilati dai compagni nel 1943 in Valle d’Aosta “Non un delinquente ma un ragazzo onesto, è stato ucciso per coprire colpe di altri”
Albina, Bruna, Marina e Roberto Zabaldano

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Corriere 6.6.13
Arte e filosofia, il grande armistizio
Millenni dopo la condanna di Platone, ora il pensiero si inchina alla pittura
di Bernard-Henry Lévy


I due testi che seguono fanno parte del libro «Le avventure della verità»: esce oggi in Francia e accompagna la mostra che verrà inaugurata il 29 giugno alla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence, in Provenza.

Nietzsche è lui. Il Nietzsche di Torino di cui, dieci anni prima di questo quadro, ha ripercorso i passi. Il Nietzsche di Palazzo Carignano e della statua equestre di re Carlo Alberto di cui ha seguito le orme. Poi il Nietzsche greco, il Nietzsche apollino-dionisiaco della Nascita della tragedia. Il Nietzsche per il quale è sempre stato molto chiaro: che da un lato ci sono «Socrate-e-Platone», la loro malattia, la loro decadenza e, dall'altro, «i filosofi greci», i poeti anteriori a Platone, gli oracoli anteriori a Socrate, che si chiamano Eraclito, Parmenide, Anassagora, Empedocle, Alcmeone di Crotone; e che tanto meno bisogna confonderli in quanto i secondi sono l'antidoto al veleno dei primi, il rimedio da contrapporre, la parola giusta da ritrovare se si vuole guarire l'umanità, come vuole lui, Nietzsche, dal nichilismo che essi le hanno inoculato.
Sono loro, certo, che de Chirico ha rappresentato. Sono i corpi senza volto, perché senza opera realmente accertata (si sa solo, grosso modo, quel che ne riferiscono Aristotele e Platone. È tutto dire!) che anch'egli chiama, senza altra forma di processo, «i» filosofi greci. Sono quei nomi leggendari, necessariamente mascherati perché senza identità certa, e di cui si percepisce bene che, anche per lui, sono enigmatici e tali devono restare.
Cosa fanno? Dove sono? Perché quei corpi in vetro o in trompe l'oeil, issati su trampoli, mal articolati? Si direbbe che hanno la testa fra le nuvole. Hanno i piedi su uno strano pavimento, ma le teste sono altrove, lassù, nella nebbia; è come un vestibolo del cielo, dove già si trovano. Si direbbe anche che si divertano. O addirittura che si torcano dal ridere per il destino di statua che si addice loro così poco? Per il marmo pieghettato con cui li hanno agghindati, loro, i pezzenti, i filosofi da strada e da taverna? O per i cattivi greci, per i greci avvelenati che, come vedono da lassù, gli corrono dietro, e tentano di sfigurarli?
Per fortuna tuttavia, il pittore, una volta incaricato dagli dei, si preoccupa di dare il cambio e di vendicarli.
***
«Alkahest», Anselm Kiefer
Non è più a dio che Kiefer fa concorrenza, è alla geologia. Ma la geologia in atto. Ma la geologia in movimento. Ma una geologia impazzita i cui processi, le generazioni e degenerazioni, gli smottamenti, la formazione delle ondulazioni, dei gessi e degli scisti, i crateri e le cime, le colate di fango o di neve, le eruzioni, i detriti, le furie di solito silenziose, le convulsioni gigantesche, i caos in sospensione e in profondità, fossero stati accelerati. Un'accelerazione resa possibile solo dal fatto che il pittore-geologo fa concorrenza anche — nello stesso tempo e sulla stessa tela — agli alchimisti, cioè a quelli che, con le loro formule sacre, i loro alambicchi e, qui in primo piano, le bilance su cui dosano sale e solfuro, elementi e contro-elementi, poi, più in là, forme e antiforme, hanno fatto concorrenza, durante il Medio Evo in generale e il Medio Evo ebraico in particolare, al dio delle soluzioni e delle dissoluzioni, al dio che guida tutte le cose, al dio che le trasforma e, quando lo fa, le resuscita.
Faust richiama in vita non più Elena e Paride, ma il folle di Sils-Maria, di cui non posso fare a meno di indovinare, nella parte sinistra del quadro, la silhouette. Non contento di trasformare il piombo in oro, o l'oro in argento, egli trasmuta tutti gli elementi, quindi tutti i valori, compreso quello di cui son fatti gli uomini e la cui forza di devastazione barbarica ormai non è, ahimè, da dimostrare.
Il paesaggio è Kiefer, non più le Alpi. È il suo desiderio d'essere montagna. È il suo stesso corpo che geme, ruggisce, vomita il detto maledetto della terra. È il pittore che, allucinato e tragico, demiurgo del mondo e di sé, entra in guerra con la materia o — è la stessa cosa — le fa buttar fuori la sua verità.
Non sono sicuro di sentirmi molto vicino a questa filosofia. Ma è certo che, se Contro-Essere ha un senso, se l'idea di un dire che non dice più la verità ma le succede, ha messo radici da qualche parte, è qui, su questa tela stupefacente che, come quelle di Newman, si avvicina anch'essa al sublime.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere 6.6.13
Dall'antica Grecia a Kiefer cercando l'origine di tutto
di Stefano Montefiori


PARIGI — Una grande mostra sulle «Avventure della verità»: dal 29 giugno all'11 novembre la Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence illustra il rapporto tra pittura e filosofia nei secoli, da Platone a Anselm Kiefer, attraverso 126 opere scelte da Bernard-Henri Lévy, il commissario dell'esposizione (nella foto sotto).
Dopo l'impegno per la rivoluzione libica l'intellettuale francese ha raccolto la sfida lanciatagli un anno fa dal direttore della fondazione, Olivier Kaeppelin, che gli ha lasciato carta bianca per la tradizionale esposizione estiva. «Un filosofo oggi deve prendere esempio dall'arte e dalla pittura in particolare — sostiene Lévy —. L'arte non è più un semplice fenomeno culturale né, ancora meno, decorativo: non è più un ornamento della verità; è la sua instaurazione radicale, l'apertura all'essenza, all'origine; l'arte si trova al fondamento e alla fine di tutto».
Ogni opera viene accompagnata da un testo di Bernard-Henri Lévy, che ripercorre lo scontro tra pittura e filosofia partendo dalla celebre condanna che Platone fece dell'arte, imitazione della realtà sensibile a sua volta imitazione del mondo delle idee.
Il volume «Les Aventures de la vérité», che esce oggi in Francia co-edito da Fondation Maeght e Grasset, raccoglie quei testi facendoli precedere da una sorta di diario, la testimonianza di come la mostra è stata concepita e via via realizzata con l'aiuto, tra gli altri, di François Pinault, Miuccia Prada, Daniela Ferretti. Bernard-Henri Lévy ha chiesto a venti grandi artisti contemporanei di leggere, davanti alla telecamera, brani di altrettanti filosofi: i film saranno proiettati durante l'esposizione ma intanto, nel libro, Lévy racconta di quando, per esempio, Jeff Koons ha preteso di leggere Aristotele o come Marina Abramovic, in una sorta di anti-performance, a New York abbia perso d'un tratto la sua abituale sicurezza per intimidirsi di fronte alla lettura di Antonin Artaud.
Alla fine l'impostazione platonica è capovolta, l'arte ritrova tutta la sua centralità. Come già scrisse in La barbarie dal volto umano, oltre trent'anni fa, con la mostra alla Fondation Maeght «Bhl» ripete che di fronte alle tragedie del ventesimo secolo — fascismo, nazismo, Kolyma — «il filosofo deve tacere per lasciare la parola a Guernica, Fritz Lang, Solzenicyn».

Corriere 6.63
La libertà incomincia dalla rottura dei legami
Fu così che Stuart Mill elogiò il santo traditore
di Giulio Giorello


«Ogni vincolo, in quanto tale, è un male», dichiarava John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà (1859). Il contesto era quello della dottrina del libero scambio; ma per Mill l'idea aveva una portata ben più ampia, tanto più che il liberismo economico non era per lui necessariamente connesso a un più generale principio di libertà individuale. Ma quando quest'ultima era davvero a rischio, Mill non esitava ad abbandonare la sua vittoriana imperturbabilità per prendere appassionatamente le difese di chi contro la tirannide era disposto a ricorrere ai mezzi più radicali. E per quanto fosse disincantato nei confronti del conformismo ispirato da qualsiasi religione, in realtà riprendeva in chiave laica un passo di Isaia (58,6): il digiuno che il Signore raccomanda ai suoi eletti non è quello di astenersi da particolari cibi o bevande, ma «sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo».
Mill sapeva pure che questa straordinaria forma di «digiuno» comporta rischi e responsabilità. Chi pretende di infrangere dei legami, imposti dalla forza o consolidati dall'abitudine, può sempre incappare nell'accusa di tradimento per aver violato gli impegni più sacri. Tuttavia, ciò che rende drammatica la sua situazione è soprattutto l'ambiguità della figura del traditore, ribelle perfino contro il Signore, se si pensa che il potere venga da Dio; ma difensore della libertà propria e dei suoi compagni di avventura, se si pensa invece che il vero tradimento sia stato commesso da coloro che si sono eretti ad autorità in modo illegittimo. È dunque la qualità del legame che fa la differenza: come spiegavano agli esordi della nostra modernità coloro che criticavano l'indissolubilità del matrimonio e però non escludevano una equa regolazione del divorzio. Ma come una relazione sbagliata può fare di una famiglia una prigione, così un governo dispotico può tramutare un intero Paese in una terra ove regnano solo paura e oppressione.
Sotto questo profilo il preteso traditore può trasformarsi nel protagonista di un cambiamento che apre nuovi orizzonti; anche se le cose gli vanno male, è stato perlomeno capace di opporsi alla pretesa inevitabilità del corso della storia mostrando che il nostro libero arbitrio non può essere del tutto spento.

Repubblica 6.6.13
Quando il boss si finge pazzo
“Mafia da legare”, un saggio su casi clinici e perizie compiacenti
di Enrico Bellavia


Li vedi riemergere sorridenti e spavaldi da bunker sotterranei o da improbabili rifugi di campagna. Spentisi i riflettori, assorbito l’impatto col carcere, sono all’opera per uscirne presto in qualche modo. Prima o poi, tutti i mammasantissima giocano la carta della malattia. Meglio se mentale.
Mafia da legare (Sperling & Kupfer pagg. 280, euro 18), il libro scritto a quattro mani dallo psichiatra Corrado De Rosa e dalla giornalista Laura Galesi, cataloga i casi, ricostruisce le storie dei boss finti pazzi e offre un campionario completo di malati immaginari.
Dal depresso all’anoressico. Passando per chi matto non vuole neppure essere riconosciuto ma solo apparire. Magari per lanciare messaggi all’esterno.
De Rosa, davvero i mafiosi ne sanno più degli specialisti?
«Se fai finta di romperti una gamba una radiografia può smascherarti, se ti fingi folle è più difficile dimostrare la farsa. Lo diceva Tommaso Buscetta, lo ripetono oggi i collaboratori. Ci sono intercettazioni che sembrano trattati di psichiatria: Peppe Pelle da Bovalino spiega al medico che ha bisogno di un certificato di depressione maggiore perché sa che quella diagnosi gli sarà utile dal punto di vista processuale».
C'è un uso sapiente della follia utilizzata come elemento di valore per gli uomini d'onore e quella esibita, chiassosa, enfatica dei protagonisti del primo maxiprocesso.
«Quando con Laura Galesi abbiamo iniziato a studiare l’uso della follia tra gli affiliati di Cosa nostra, abbiamo incontrato gente che diceva di essere Napoleone o che in tribunale comunicava solo con borbottii. Non parliamo di bassa manovalanza, ma di Nino e Pino Marchese, di uno dei basisti della strage di Capaci, del boss Agostino Badalamenti. Ci siamo chiesti se questo non contraddica l’immagine di affidabilità che deve veicolare un uomo d’onore. La risposta è no. Perché attraverso quella pantomima il boss ottiene benefici giudiziari: proscioglimenti o riduzioni di pena, scarcerazioni, sospensioni dei processi. In una parola: l’impunità, un valore che val bene una recita, per quanto grottesca».
Ci sono casi limite come i boss che riescono a spuntare una diagnosi di anoressia.
«Sono tanti. Antonio Pelle per il suo deperimento viene ricoverato a Locri, da lì scappa ed è tuttora latitante».
Recentemente, si è aperto un acceso dibattito sulle condizioni di salute di Bernardo Provenzano. Lei cosa pensa?
«Che la sua salute si porta dietro troppi misteri, che con le malattie Binnu ha comunicato con l’esterno per esempio quando a maggio del 2012 si è messo una busta in testa probabilmente simulando un tentato suicidio. E che le immagini del dicembre 2012, che lo riprendono dopo le cadute sospette, sollevano un dubbio: in carcere in questo momento c’è un simbolo o una persona in condizioni compatibili con la detenzione? Al momento, per i giudici lo è».
Andiamo per ordine: il suicidio, secondo lei, sembra simulato. Altra questione sono le condizioni di salute, le cadute e la possibilità che possa essere curato in carcere. Poi c’è il mistero su quello che i suoi dialoghi con il figlio lasciano intendere. Lei che idea si è fatta?
«Ogni interpretazione si muove sulla sottile linea che separa un’ipotesi ragionevole da una complottista. È un fatto, però, che Provenzano non fa niente a caso, che all’epoca del tentato suicidio non c’erano segni clinici che lasciassero intendere un rischio del genere e che un gesto così eclatante non è nelle corde di un boss che si muove tutta la vita sotto traccia. A meno che non sottenda qualcosa di altrettanto eclatante. Poco dopo, Provenzano viene ripreso mentre parla con il figlio Angelo che gli chiede del sacchetto in testa. Fa come se non fosse successo niente, poi dice: 'È questione da interpretare bene, o mi sbaglio?'. Pochi secondi dopo dice che non lo fanno parlare, infine fa un criptico riferimento a quando il figlio aveva 'sedici anni'. Bene: quando si progettavano le stragi del 1992 Angelo aveva proprio sedici anni».
Boss a parte, resta il fatto che in carcere si muore anche di malattia mentale...
«Non c’è dubbio: il rischio suicidario è molto più elevato che fuori».
In ogni caso, per ogni perizia compiacente, c'è un medico compiacente...
«È vero, ma il livello di corruzione tra i medici non supera quello di altri professionisti. C’è dell’altro: i clan, per esempio, hanno consulenti esperti e prestigiosi, li pagano anche 20 volte più di quanto non faccia lo Stato. Questi medici conoscono i tranelli in cui far cadere i periti dei giudici, soprattutto quelli meno esperti. Ecco quindi relazioni in cui un disadattamento carcerario diventa depressione grave o una condotta autolesiva strumentale si trasforma in tentato suicidio».
Esiste un problema deontologico?
«Il diritto alla difesa è sacro. Gli specialisti di mafiosi e camorristi, però, sono troppe volte anche consulenti dell’Autorità giudiziaria. Nessuna legge lo vieta e non c’è incompatibilità. L’opportunità della scelta è lasciata all’etica dei singoli. Questo meriterebbe una riflessione e una proposta di riforma sulle attribuzioni degli incarichi peritali spesso auspicata ma passata nel dimenticatoio».

IL LIBRO Mafia da legare di Corrado De Rosa e Laura Galesi (Sperling & Kupfer, pagg. 280, euro 18)

Repubblica 6.6.13
Dopo il Manifesto di “Repubblica”, esce un libro firmato da Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia e Zojadottor Freud
Difendere la psicoanalisi anche dagli psicoanalisti
di Massimo Recalcati


Quando sulle pagine di questo giornale nel febbraio del 2012 appariva, grazie ad una iniziativa illuminata di Luciana Sica, un “Manifesto” in difesa della psicoanalisi sottoscritto da quattro autorevoli rappresentanti delle principali correnti storiche della psicoanalisi (Simona Argentieri, Stefano Bolognini, Antonio Di Ciaccia, Luigi Zoja), un vento di primavera sembrava prendere corpo. Finalmente gli psicoanalisti mostravano di saper fare squadra per difendere la loro disciplina di fronte alle critiche che le venivano mosse, in quella circostanza a partire dalla sua inaffidabilità scientifica e terapeutica nella cura dei bambini autistici.
Si trattava di una polemica feroce che era rimbalzata nel nostro paese dalla Francia. La psicoanalisi veniva schernita, ridotta a una specie di rituale superstizioso o a un ferro vecchio dell’Ottocento e i suoi maestri (in particolare Lacan) ritratti come degli impostori. Non era il primo attacco alla nostra disciplina e non sarà certo l’ultimo, ma, soprattutto, non conteneva niente di nuovo rispetto alle invettive critiche che sin dal momento della sua nascita l’hanno accompagnata nella sua storia: la psicoanalisi non è una scienza, non è una cura efficace, agisce tramite la suggestione, colpevolizza i genitori, imprigiona i pazienti in un legame di dipendenza infinito, non può trattare casi gravi, ecc.
La novità non consisteva dunque nei contenuti della polemica, ma di come — grazie all’intuito di una giornalista attenta alla psicoanalisi —, si potesse utilizzare questo ennesimo attacco per aprire finalmente un dibattito all’interno dei vari orientamenti sul futuro della psicoanalisi nel nuovo secolo. Come lettore interessato avevo accolto con entusiasmo questa novità: finalmente si parlano, provano a cogliere che cosa ci accomuna più di quello che ci divide, finalmente l’occasione per entrare in un nuovo tempo della storia della psicoanalisi italiana, vista l’autorevolezza scientifica e istituzionale dei firmatari del “Manifesto”.
Quando ho iniziato la lettura dei loro interventi successivi a quella polemica, raccolti ora sotto il titolo In difesa della psicoanalisi da Einaudi, mi aspettavo di trovare un avanzamento del dibattito se non nella prospettiva di una riunificazione critica della famiglia psicoanalitica, almeno di una pacificazione feconda in grado di aprire un confronto su ciò che è ancora davvero vivo nella nostra disciplina e su cosa invece esige di essere rinnovato profondamente.
In realtà in questo libretto non ho trovato molto in questa direzione. Piuttosto una ricapitolazione dei temi già presenti nel “Manifesto”: rivendicare la psicoanalisi come scienza a statuto speciale, centrata sulla singolarità irriducibile del soggetto, precisare l’importanza dell’intervento clinico della psicoanalisi anche nel trattamento delle patologie gravi come l’autismo, avvertire sui rischi del dilagare dell’ideologia scientista. Solo Stefano Bolognini e Antonio Di Ciaccia si affacciano — anche se lateralmente e solo per un attimo — sul tema che mi aspettavo fosse messo in gioco con più coraggio. Il primo quando afferma che «una certa idealizzazione della psicoanalisi ha nuociuto in primis proprio alla psicoanalisi»; il secondo quando si chiede se «il pericolo maggiore per il futuro della psicoanalisi non venga proprio dagli psicoanalisti».
Ecco finalmente un’apertura critica che ci spinge ad affrontare la responsabilità che ci concerne come psicoanalisti nella crisi attuale della psicoanalisi. È evidente a tutti noi o quasi a tutti, sicuramente agli autori di questo libro, che la psicoanalisi deve poter rispondere con forza persuasiva a un esercito agguerrito e composito di suoi detrattori che va da un certo uso delle neuroscienze alla psicologia cognitivo-comportamentale,
dall’egemonia dell’ideologia della valutazione e della misura che vorrebbe rendere tutto calcolabile compresa la vita psichica, alla montata dilagante di psicoterapeuti abilitati all’esercizio della professione senza un valido training personale.
Ma forse è meno evidente riflettere su come la psicoanalisi stessa ha chiuso gli occhi sulle trasformazioni epocali che hanno investito la nostra società, sulle rigidità anacronistiche relative al percorso di formazione dei suoi candidati, sui costi della terapia, sulla possibilità di prendere parola e intervenire attivamente nella vita della città, sulla risposta che può dare alla crisi etica della nostra vita civile, sulle azioni istituzionali per rispondere terapeuticamente ai sintomi provocati dalla precarietà sociale che la crisi economica ha enfatizzato, sulla necessità di creare un fronte culturale comune per difendere la nostra disciplina dal dilagare delle scuole di specializzazione, per lo più sponsorizzate dalle Università, ad indirizzo cognitivo- comportamentale, sul destino dei giovani che si rivolgono a noi per iniziare un processo di formazione lungo e dagli esiti incerti, sulla necessità di vivificare la dottrina attraverso contributi nuovi e originali che non si limitino a ripetere il verbo dei padri.
Chiediamocelo davvero: non c’è forse qualcosa da “rottamare” anche nelle Scuole di psicoanalisi?

IL LIBRO In difesa della psicoanalisi di Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia, Zoja (Einaudi pagg. 112 euro 10)

l’Unità 6.6.13
Se l’Europa unita diventa una terapia psicoanalitica
La paura degli altri, il localismo esasperato
sono sintomi di vere patologie trattate anche da Jung
di Luigi Zoja


L’IDEA DI EUROPA HA RADICI CHE RISALGONO SINO A ERODOTO E ATTRAVERSANO LE OPERE DI DANTE E GOETHE, DUNQUE NON SARANNO CERTO VICENDE CONTINGENTI COME LA CRISI DELL’EURO A METTERLA IN DISCUSSIONE. La storia di quest’idea ha a che fare sin dalle sue origini con una nozione fondamentale, il pluralismo. Narrare l’Europa significa descrivere il tentativo di condivisione, e quindi di organizzazione, di gestione spesso conflittuale di uno spazio comune da parte di soggetti diversi, che si esprimono con voci diverse e provano desideri diversi. Sotto questo profilo la storia europea si riflette bene nella vicenda assai più breve di una disciplina, la psicanalisi, sorta proprio nel cuore della Mitteleuropa durante il secolo lungo, quello che si è chiuso con la grande guerra e con l’esplosione dei nazionalismi novecenteschi. Grazie a Carl Gustav Jung, infatti, si è compreso che ciascuno di noi è animato da una molteplicità di voci: Jung fece luce sulla nostra natura intimamente plurale, superando il monoteismo materialista della sessualità d’impostazione freudiana. Il pluralismo è dunque, ad un tempo, un concetto politico e psicologico: al pluralismo della nostra psiche corrisponde, o potrebbe corrispondere, uno spazio politico, quello europeo, intimamente polifonico e politeista. Nella mia personale esperienza di vita, ho potuto apprendere a fondo il valore di un autentico pluralismo vivendo e lavorando come psicanalista nel paese federalista per eccellenza, la Svizzera. Negli anni di Zurigo ho capito come per gli svizzeri l’esperienza stessa della cittadinanza rechi con sé un’idea di appartenenza molteplice. Qualcosa di analogo, in fondo, accade anche per il concetto di cittadinanza negli Stati Uniti. Ma in molti altri paesi europei le cose vanno diversamente, perché il feticcio delle identità nazionali cresciuto nel secolo scorso gioca ancora un ruolo di primo piano. È il caso di noi italiani, che siamo stati tra i più convinti europeisti solo finché ci è convenuto dal punto di vista economico, mentre oggi, di fronte alla complessità della globalizzazione e al continuo superamento dei confini che essa impone, ci spaventiamo. E così, di fronte ad un’Unione Europea che è una sorta di sperimentazione su scala ridotta e controllata della globalizzazione, non rispondiamo promuovendo un pluralismo di stampo federalista. Al contrario, reagiamo provando una gran paura, che ci fa chiudere le porte e ripiegare sui localismi e sugli interessi privati. Ebbene, questa chiusura, magari in nome della difesa della sovranità nazionale dalle misure di politica economica imposte dall’esterno, costituisce un problema anche dal punto di vista psicologico: rifiutare di sentirsi pienamente europei corrisponde, sul piano politico, al rifiuto di accettare che anche ciascuno di noi è molteplice, pieno di desideri che, come scriveva Platone, lo tirano in direzioni contrarie. L’intuizione junghiana è che il sintomo nevrotico deriva proprio da una riduzione della nostra complessità. Ciascuno di noi, ad esempio, è naturalmente androgino: ci pensano poi la cultura e l’educazione a incanalare e arginare le nostre pulsioni, portando i maschi a esprimere più aggressività rispetto alle donne, un dato che è ancora vero per l’Italia di oggi e che il femminismo con tutti i suoi sforzi contro le differenze di genere non è riuscito a modificare. La sofferenza e la depressione si generano così, sono un sintomo di parzialità, di riduzione della nostra natura.
Il rifiuto della pluralità dentro e fuori di noi, prodotto in Italia e altrove dalla paura di un mondo complesso, ci chiude a un rapporto autentico e appagante con gli altri uomini e donne che attraversano la nostra vita. Se la morte di Dio annunciata da Nietzsche fece risuonare lo spirito di fine ‘800, oggi è giusto decretare anche la fine di un altro comandamento biblico: l’amore del prossimo. Il prossimo è scomparso, frammentato dalle tecnologie di comunicazione e allontanato come una minaccia. In questo scenario, i cittadini europei immemori della loro pluralità originaria si rendono sempre più disponibili a seguire le sirene dei populismi, che fanno leva sulla chiusura e sulla riduzione della complessità. Ma anche il populismo è legato a una patologia psichica dell’Europa: la paranoia, la follia lucida che ha pervaso il ‘900 e che, semplificando all’eccesso, oggi spinge a dar tutte le colpe agli altri, a inesistenti complotti di Berlino o di Bruxelles.
Un’Europa politicamente più unita potrebbe forse costituirne la terapia, ma oggi ci appare troppo conservatrice e basata sul primato dell’economia.