domenica 9 giugno 2013

l’Unità 9.6.13
Appoggiare i quesiti di Pannella: l’ultima tentazione di Silvio
Berlusconi vuol dare un sostegno discreto
ai referendum sulla giustizia
In casa radicale è maretta
di A. C.


ROMA Berlusconi e Pannella, la strana coppia che da due decenni a fasi alterne si ritrova in sintonia su alcune battaglie politiche. Stavolta è la giustizia che rischia di far scattare ancora una volta la scintilla tra i due leader. Pannella ha depositato una cinquina di quesiti referendari in Cassazione, tutti sulle toghe, dalla responsabilità civile alla separazione delle carriere, dall’eliminazione della custodia cautelare nei reati non gravi, alle restrizioni per il lavoro di magistrati fuori ruolo fino all’abolizione dell’ergastolo. Tranne l’ultimo punto, difficilmente digeribile a destra, sugli altri quattro quesiti l’intesa col Pdl sembra irresistibile. Lo stesso Cavaliere ha già definito quei quesiti «molto interessanti», e in un paio di incontri con il suo stato maggiore ha già dato il via libera a un sostegno per la raccolta delle 500mila firme necessarie. Con discrezione, perché il Cavaliere sa che l’iniziativa, per avere qualche speranza di successo, non deve apparire come l’ennesima puntata della sua guerra contro le toghe. E tuttavia nel mondo che orbita attorno a Berlusconi la campagna è già partita. Libero è già schierato, ieri anche Vittorio Feltri ha lanciato il Giornale al grido di «Per rifare la giustizia basta un referendum». Brunetta, Prestigiacomo, Cicchitto si sono già fatti sentire dichiarando «grande attenzione» di tutto il Pdl verso l’iniziativa.
Berlusconi ha molti motivi per sostenere l’ennesima cavalcata referendaria di Pannella. E non solo per ragioni di merito, visto che molti dei temi sono anche suoi cavalli di battaglia da vent’anni. Visto che la giustizia, giocoforza, deve restare fuori dall’agenda del governo Letta e anche del Parlamento, questa è un’ottima occasione per poter mandare avanti la battaglia e per tenere sotto pressione il governo. Se poi le pronunce della Consulta e della Cassazione sui suoi processi dovessero essere negative per lui, ecco che la campagna referendaria potrebbe diventare il terreno adatto per tentare una rivincita. Non in nome suo, naturalmente. Ma di un ideale più alto. Pannella ha presentato i quesiti in Cassazione a fine maggio, nei giorni del 25esimo anniversario della morte di Enzo Tortora. E lo stesso Cavaliere, dal palco di Brescia, ai primi di maggio aveva paragonato la sua «persecuzione giudiziaria» a quella subita dal conduttore di Portobello, scatenando l’ira delle figlie.
Anche Pannella ha subito preso le distanze dall’improvvido paragone: «Silvio, dici cazzate, neppure tua mamma ti avrebbe perdonato...». E tuttavia il leader radicale ha svariati motivi per gradire il sostegno del Pdl. «Temo che i partiti faranno solo finta di sostenerci come fanno da vent’anni», aveva detto. Poi però è arrivato il sostegno del Pdl. Che si è già fatto sentire con la collaborazione tecnica di Peppino Calderisi (radicale, ex deputato Pdl e ora collaboratore di Brunetta e del ministro Quagliariello) alla stesura dei quesiti.
In casa radicale invece questo ennesimo matrimonio col Cavaliere rischia di creare qualche problema. Il tesoriere Michele De Lucia si è schierato contro Pannella, accusandolo di non aver informato né lui e neppure il segretario Mario Staderini della iniziativa referendaria. «Nel merito condivido i quesiti sulla giustizia. Ma è ignobile che per la prima volta in vent’anni non ci sia stato chiesto se volevamo essere tra coloro che depositavano i referendum», ha detto De Lucia alla web tv radicale «Liberitv». E se poi i nostri compagni ci correranno dietro col mattarello non avranno tutti i torti».
La campagna di Pannella si sovrappone infatti con un altro pacchetto di 6 referendum che i radicali hanno presentato già in aprile (la raccolta firme è iniziata il 7 giugno). Quesiti che riguardano la legge Bossi-Fini, le norme sulle droghe leggere, divorzio breve, abolizione totale del finanziamento ai partiti e restituzione allo Stato delle quote di 8 per mille di chi non esprime una scelta. Su questi 6 quesiti c’è stata l’adesione del Psi, di Sel e di alcune associazioni, oltre ad alcuni deputati del Pd come Sandro Gozi e Luigi Manconi e ad alcuni dirigenti della Cgil e dell’Arci.
Staderini conferma di non essere stato informato da Pannella sulla giustizia: «È vero, ma così gli italiani avranno 6 occasioni di riforma in più. Ora sono in campo 12 quesiti referendari, tutti proposti dai radicali. Quanto alle alleanze, noi manteniamo il metodo del “chi ci sta ci sta”...». E De Lucia aggiunge: «Sono laico, per cui se Berlusconi vuole dare una mano sulla giustizia è il... bentornato. Con la speranza che non faccia come nel 2000, quando prima sostenne un pacchetto molto simile e poi invito i cittadini a far mancare il quorum...».

Repubblica 9.6.13
Napolitano-Papa: “È l’ora dell’uguaglianza”
E Francesco scherza: qui siamo tutti registrati
Primo incontro in Vaticano
La radicale Bonino stringe la mano al Pontefice
di Paolo Rodari


In Vaticano la sostanza è sempre suggerita dalla forma. Così la sobrietà che ha caratterizzato ieri la visita ufficiale di Giorgio Napolitano al Papa, la seconda dopo la prima avvenuta nel 2006 con Benedetto XVI, dice della volontà di Francesco di normalizzare i rapporti col mondo delle istituzioni e della politica in generale dopo anni di amicizia ma anche di forti richiami ecclesiastici in difesa dei princìpi cosiddetti non negoziabili. Non a caso, alla delegazione italiana è stato chiesto dal Vaticano il vestito scuro al posto del consueto frac, l’abito che simboleggia il potere.
Nella delegazione che ha accompagnato Napolitano c’era il
ministro degli esteri Emma Bonino che oltre il Tevere non è da tutti apprezzata per le posizioni radicali. La sua presenza, tuttavia, non ha creato imbarazzo. Il ministro ha sorriso a Bergoglio, quando il Papa ha parlato di libertà religiosa ha annuito più volte convinta, e quando significativamente non ha voluto baciare l’anello del Pontefice ma semplicemente stringergli la mano in segno della laicità delle istituzioni che rappresenta, nessuno si è scandalizzato. Del resto, la volontà papale sembra chiara: depotenziare eventuali attriti ideologici nel nome di un superamento delle opposte barricate sui princìpi cosiddetti non negoziabili. Bergoglio di questi princìpi non ha fatto menzione. La sua idea, infatti, è di puntare su ciò che unisce piuttosto che su ciò che divide — “Insieme per una cultura dell’incontro”, titola non a caso oggi l’Osservatore Romano — , proprio come fece Karol Wojtyla quando nei primi anni Ottanta ricevette il leader radicale Marco Pannella e Bonino (fu la sua prima volta) per condividerne la lotta alla fame nel mondo. Allora come oggi il metodo
era quello di cercare il bene comune provando a superare le contrapposizioni ideologiche. Lo sforzo espresso sia da Napolitano sia da Francesco è far sì che laici e cattolici lavorino insieme alla costruzione della società italiana all’interno di un “regime” che prevede ruoli distinti e libertà religiosa: «Credenti e non credenti -ha detto il Papa - insieme collaborino nella promozione di una società dove le ingiustizie possano essere superate» Il colloquio privato fra Napolitano e Francesco è durato 25 minuti. Qui, e poi nell’incontro che Napolitano ha avuto con il segretario di Stato Tarcisio Bertone, anche altri temi quali il deterioramento dei conflitti che interessano l’area mediterranea orientale e che gravano anche su antiche
comunità cristiane, e l’instabilità dell’area nord-africana. Ma in generale è stato il comune contributo che i due Colli possono dare al bene comune a tenere banco. A partire dal monito del capo dello Stato contro quei «comportamenti diffusi lontani dalla morale » il cui cambiamento «si impone ».
Introducendo Napolitano nella biblioteca del palazzo apostolico, Francesco ha scherzato: «Tanto qui siamo tutti registrati», forse ironizzando sul presunto giro di vite alla sicurezza hi-tech predisposto all’epoca di Vatileaks. Una battuta che tradisce il clima di “lontananza” che Bergoglio avverte ogni volta che mette piede nel palazzo simbolo del potere pontificio. Il Papa ha riconfermato tutti gli incarichi della vecchia
curia romana “donec aliter provideatur”, ma di fatto l’operatività appare sospesa in attesa della riunione di ottobre del consiglio dei cardinali che dovrà aiutarlo a riformare la stessa curia. Certo, il palazzo è ancora in piedi, ma con due Papi residenti in Vaticano l’Appartamento rimane senza inquilino, l’emerito risiede in un monastero, il regnante in un residence, segno di una voluta vacatio formale che sembra preludere a un radicale mutamento di strutture.
L’allergia di Francesco per la pompa pontificia si è ben evidenziata anche due giorni fa, quando ha ricevuto gli studenti dell’accademia pontificia. E il Papa ha confidato il senso di estraneità per i conformismi di corte.

Corriere 9.6.13
E il Papa disse «cerea» a Emma Bonino
«Cerea»: così il Papa ieri ha salutato il ministro Emma Bonino, nata a Bra. «Cerea», in piemontese, significa «Vostra signoria»
È un saluto cordiale che il Papa riserva a Severino Poletto, cardinale emerito di Torino.
di Maurizio Caprara


ROMA — Il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo», e dunque poco immerso in tradizionali controversie nostrane, ha riservato un saluto tutt'altro che freddo a Emma Bonino, adesso ministro degli Esteri e per decenni conosciuta nel nostro Paese soprattutto come allieva di Marco Pannella, deputata radicale la prima volta nel 1976, quando sfilava in cortei femministi nei quali il sottofondo abituale era lo slogan «Tremate/ tremate/ le streghe son tornate». «Cerea», ha detto ieri Francesco, il Pontefice, secondo quanto risulta al Corriere, alla donna che in rappresentanza del governo italiano accompagnava in Vaticano il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Cerea è una parola piemontese. I linguisti la considerano una forma contratta dell'attestazione «Vostra signoria». Emma Bonino è nata a Bra, in provincia di Cuneo. Per dare l'idea della cordialità con la quale il Papa usa quel saluto piemontese basta sapere che lo riserva a Severino Poletto, cardinale emerito di Torino, nominato nel Collegio cardinalizio con Jorge Mario Bergoglio nel 2001 e nell'ultimo Conclave suo vicino di banco nella Cappella Sistina. Se in Piemonte la parola può avere anche qualcosa di abituale, ieri assolutamente no. «Il Papa è stato cordiale. Ero abbastanza emozionata», ci ha raccontato in serata Emma Bonino. Il Cerea è un segno della mancanza di ostilità con la quale era stata accolta dalla Santa Sede pur essendo stata in carcere, nel 1975, dopo essersi autodenunciata per aver abortito. Tuttora il sito Internet personale del ministro, www.emmabonino.it, ha tra i suoi link un collegamento con Anticlericale.net, finestra in rete di un «soggetto costituente il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito», così si definisce, che ha nel simbolo la scritta «No taliban-No Vatican». Lo stesso doppio rifiuto che accosta Santa Sede e afghani di scuole coraniche abituati all'impiego del mitra si trova nel cartello appeso al collo del patriarca radicale Pannella in una foto su Anticlericale.net. Ma per capire come mai Emma Bonino, nel suo tailleur nero suggeritole dal cerimoniale della Farnesina, sia stata accolta cordialmente ieri Oltretevere forse è utile tener presente un'altra foto, di solito in mostra nei suoi uffici. La ritrae con Papa Karol Wojtyla e Pannella. Risale al 1986. I due radicali andarono da Giovanni Paolo II per presentare azioni contro la fame nel mondo. Lei presiedeva Food and Disarmament International. I contatti con la Chiesa per Bonino sono aumentati durante il mandato di commissario europeo, tra 1994 e 1999. Una sua delega era per gli Aiuti umanitari. Con il clero la sua strada si è incrociata anche in campagne su carceri, difesa della libertà di fede, pace. Questo aiuta a spiegare come mai, ieri, il ministro sia stato ascoltato con attenzione riguardo alla Siria. E' successo nella riunione seguita al colloquio tra Bergoglio e Napolitano. Per il Vaticano c'erano il segretario di Stato Tarcisio Bertone, quello per i Rapporti con gli Stati Dominique Mamberti, il capo del «desk Italia» della segreteria di Stato Carlo Alberto Capella. Di fronte, Napolitano, la titolare della Farnesina, il segretario generale del Quirinale Donato Marra, l'ambasciatore presso la Santa Sede Francesco Maria Greco. «La pace si fa con i nemici», ha detto Emma Bonino parlando della conferenza sulla Siria messa in cantiere tra difficoltà da Usa e Russia. Il Vaticano, per sottolineature così, non è terra straniera.

il Fatto 9.6.13
Santa Casta
Nel Vaticano di Francesco stipendi d’oro e auto blu
Miracioli vaticani: sprechi benefit e buchi di bilancio
I gettoni da 150mila euro per sedere nel Cda dello Ior e i 35mila al mese del n.1 dell’antiriciclaggio
Il bubbone dipendenti: costano oltre 100 milioni
di Carlo Tecce


Gettoni da 15mila euro per ogni singola partecipazione nel Cda dello Ior, la “guerra” a suon di Mercedes e Ford e il buco di 20 milioni di Radio Vaticana. E sui 37 milioni per la comunicazione della Cei arrivati dall’8 per mille due cardinali chiedono trasparenza a Bagnasco Tecce

Non ha un suono familiare per il Vaticano: “Vorrei una Chiesa povera per i poveri”, ripete Francesco, il pontefice che non vuole pezzi d'oro ciondolanti e si mostra con una croce di ferro. Quel suono può diventare un tormento per i porporati e monsignori che siedono intorno a milioni di euro liquidi. E chissà se quel tormento avrà provocato la furiosa reazione di due vescovi, Diego Coletti di Como e Luigi Bressan di Trento, durante la recente assemblea generale della Conferenza episcopale italiana: “Dove vanno quei 37 milioni di euro per le comunicazioni sociali?”. Nessuno ha spiegato. Nemmeno il presidente Angelo Bagnasco. Perché quei soldi, tanti, ricavati con l'otto per mille per la Chiesa cattolica, in parte andranno a finanziare Tv2000, la televisione diretta da Di-no Boffo che non riesce a sopravvivere con lo 0,5 per cento di share. E chissà se quel tormento, ancora, avrà scosso la Santa Sede che vuole capire – attraverso una commissione – perché Radio Vaticana ha un disavanzo di 20 milioni di euro. E non sappiamo, però, se lo stipendio di René Brulhart, già consigliere di Tarcisio Bertone in Segreteria di Stato, sia giustificabile per un'impresa sinora mai compiuta: rendere più trasparente le finanze vaticane. Il tenebroso svizzero, che lavorava in Liechtenstein , dirige l'Autorità di antiriciclaggio (Aif) per 30.000 euro netti al mese più 5.000 euro per le spese, leggi voce privilegi, per i suoi nove-dieci giorni che trascorre a Roma ogni trenta. Brulhart fu raccomandato dal gentiluomo di sua santità, epoca Ratzinger, il tedesco Herbert Batliner, un benefattore di Santa Romana Chiesa beccato a evadere il fisco per oltre 250 milioni di euro. L'Aif è così efficace che per fare le ispezioni all'Istituto per le Opere religiose (Ior), la cassa infinita e segreta, deve chiedere l'autorizzazione. Quando Francesco ha messo in discussione l'esistenza del mitologico Ior, i cardinali avranno stretto il rosario fra le mani. Prima punizione: la commissione dei porporati, presieduta da Bertone, non riceve più il gettone di presenza. Per i laici, la pacchia continua.
UN CONSIGLIERE d'amministrazione, per un sacrificio che colpisce tre al massimo quattro volte l'anno, incassa 60.000 euro. Il vicepresidente, che dovrà scomodarsi il doppio, si ferma a 80.000. E il presidente, il tedesco Ernst Von Freyberg? In Germania, faceva buoni affari con la costruzioni di navi da guerra. In Vaticano, non ha raggiunto i livelli stratosferici di qualche stagione fa, prima di Ettore Gotti Tedeschi (che si accontentava di un onorario simbolico), ma viaggia sui 200.000 euro fra retribuzione ordinaria, indennità e autista. Già, le automobili. Un tema delicato per i porporati, che si fanno annunciare da berline di lunghezza sterminata con bandierine di ordinanza e vetri oscurati. Il parco auto vaticano dispone di una cinquantina di esemplari: soprattutto Mercedes di classe elevata e un gruppetto di Ford. Un paio di anni fa, un cardinale americano ordinò le connazionali Ford, che non danno lo stesso spessore e lo stessa autorevolezza dei tedeschi. Così i cardinali, in visita ufficiale o per pratiche private, pretendevano con tono perentorio di poter usufruire di una Mercedes. Ora che Francesco rifiuta di abitare nel sontuoso palazzo apostolico e non vuole nemmeno passare l'estate a Castel Gandolfo, i porporati sono assaliti da un senso di colpa e fanno a gara a procurarsi la Ford. Ci sono aneddoti che spiegano meglio di qualsiasi bilancio la gestione economica in Vaticano che, premesso, chiuderà in passivo anche il bilancio 2012, dopo aver ingerito un rosso di 15 milioni nel 2011. La rassegna stampa è un aneddoto di scuola. I cardinali che gestiscono i dicasteri vogliono e devono leggere: ricevono quattro pacchi al giorni di fotocopie, articoli di quotidiani, settimanali e riviste specializzate. Uno spreco di carta rilevante e di qualche migliaia di euro al giorno. Ma non si sono mai arresi a una piccola innovazione tecnologica: la posta elettronica, la mail. A proposito di carta, l'Osservatore Romano non se la passa bene, la svolta pubblicitaria non ha portato sollievo e la Santa Sede sta per imporre una riforma che, tradotto, vuole dire risparmi drastici. Perché in Vaticano, senza rivendicare miracoli, le cose si moltiplicano. Quando si rompe una lampada, il rigido protocollo dell'Apsa, la struttura che vigila sul patrimonio, si muovono tre operai. E si fa presto, giustificano in Santa a Sede, a contare 4.200 dipendenti che oscillano fra buste paghe di 1.500 e 4.000 euro netti. Una leggenda racconta che papa Giovanni XXIII, alla domanda di un monsignore inesperto di Curia che voleva sapere quanti fossero i lavoratori in Vaticano, rispose: “La metà”. Il Vaticano non farà licenziamenti, anche se il personale incide per oltre 100 milioni di euro. Quando eleggono il papa, ciascun dipendente riceve 1.500 euro. Con Bergoglio è andata male: quei soldi sono finiti ai poveri. Stavolta per davvero.
Ansa

il Fatto 9.6.13
I polacchi che moltiplicano le reliquie di Wojtyla
In tour boccette di sangue, un ciuffo di capelli, un lembo della mantella insanguinata, un quadretto della madonna
di Chiara Paolin


Padre Jarek Cielecki non fa una piega quando deve spiegare la piramide valoriale che contraddistingue il traffico di reliquie di Giovanni Paolo II. “Sangue e capelli è prima categoria, perché fa parte di corpo” dice col suo italiano velato di polacco. “Vestiti è seconda categoria, perché tocca suo corpo ma non è corpo”.
La cosa davvero importante, è che l’afflato popolare per il Beato Wojtyla trovi lo slancio necessario a un rapido processo di canonizzazione attraverso una capillare campagna in itinere del culto. La scorsa settimana un ciuffo di capelli tagliato a Sua Santità pochi giorni prima della morte ha battuto la Sicilia minore in un tripudio di entusiasmo. Dal paesino vip di Salemi (dove regnò Sgarbi) alla disastrata Termini Imerese, fedeli e autorità hanno omaggiato il reperto nelle mani di Padre Cielecki, che recava con sé anche il quadretto della Vergine cui il papa era devoto fin dal 1948, quando gli venne affidata la parrocchia di Niegowic, la prima.
PROPRIO DA LASSÙ viene Cielecki, incaricato dell’ex segretario personale del papa, Stanislaw Dziwisz, di diffondere la venerazione delle reliquie. E lui diffonde con impegno, perché dal 2010 a oggi le diocesi più popolose d’Italia hanno ricevuto visite generose. A Nord, con puntate decise sulla Lombardia: indimenticabile il viaggio di un’ampolla di sangue “portata in bicicletta da un cieco in tandem con un volontario” tra le parrocchie della Valassina. E a Sud, con una Puglia in tiro da Lecce (sala consiliare al completo) a Bari (sindaco Emiliano in testa, messa con benedizione delle donne incinte e coro dei bambini) per scendere in Calabria con un labirintico tour tra Reggio e Corigliano, Isola Capo Rizzuto e Rossano, Soverato e Taureana di Palmi.
Tutti in festa per il quadratino di mantella insanguinata nell’attentato del 1981, che sarà anche un reliquia di seconda categoria ma fa sempre il suo effetto. Anzi, per dirla tutta, il giro dei beati resti ha attizzato pure le fantasie malvage. Come quando fu organizzato un traffico di santini benedetti da Wojtyla e venduti via web. L’affare ebbe tale risonanza che Slawomir Oder, postulatore della causa di canonizzazione, fu costretto a prender carta e penna per precisare che non esiste un business sulle reliquie benché “come in ogni causa di beatificazione e di canonizzazione, i fedeli hanno la possibilità di esprimere il sostegno alla causa, tra l’altro, attraverso offerte libere”.
Dunque i soldi girano, e girano pure i ladri di polli. Un anno fa un sacerdote viaggiava in treno verso Allumiere, nella provincia romana, portando dentro lo zainetto un’opera preziosa: un vangelo in metallo, ornato d’oro, che contiene una bolla di vetro con il sangue del Beato. La Polfer mise a verbale che due individui distrassero il pover’uomo sottraendogli la borsa, ritrovata infine in un canneto di Cerveteri. Scena quasi biblica, felicemente chiusa dal giro della Ciociaria Nord (Anagni, Piglio, Filettino, Fiuggi, Trevi, Carpineto, Guarcino, Collepardo, Alatri), episodio che rimarrà nei miracoli accessori delle peregrinazioni insieme ad altri memorabili passaggi. Perché don Cielecki non è stato scelto a caso: giornalista, fondatore dell’agenzia televisiva Vatican News, ex volto di PolSat, ha trovato tanti modi per glorificare la missione. Basta andare su Youtube per trovarlo a fianco del principe Giuseppe Raphael Bossio, cantante e autore lirico che ha dedicato quattro lodi a Wojtyla.
NON TUTTI hanno apprezzato. Tra i commenti fioccano frasi rimosse e ordinatissimi “buuu”. Infatti, dopo una celebrazione cantata ai piedi dell’Etna nel 2011, il principe non s’è più visto in giro. In ogni caso, il lavoro non mancherà al talent scout Cielecki: lo scorso aprile Dziwisz ha regalato al Santuario di Collevalenza, vicino Perugia, un pezzo di garza intriso del sangue prelevato durante l’intervento del 1981. E siccome Dziwisz ha avuto in dote la metà del sangue estratto nell’occasione (il resto è rimasto alle suore del Bambin Gesù), chissà quante altre gocce di beatitudine potrà concedere ai fedeli di tutto il pianeta. Promozione live inclusa.

Corriere 9.6.13
Il Papa: rafforzare le istituzioni
Incontro con Napolitano che lo elogia come «figura cara agli italiani»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — In un messaggio ufficiale, quando Napolitano accettò la rielezione, ne aveva elogiato la «grande disponibilità e lo spirito di sacrificio». Ma pochi sanno che il Papa, all'ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Francesco Greco, è arrivato a parlare ammirato dell'«heroicidad», l'«eroismo» esemplare di Giorgio Napolitano. Così, quando Francesco ha accolto il capo dello Stato sulla soglia della sala del Tronetto, nella seconda loggia del Palazzo apostolico, la stretta di mano e le battute sul tempo «insolitamente piovoso» andavano oltre la cortesia d'etichetta, nei due seguiti si parla di una «sintonia naturale» tra il presidente e il pontefice che in neanche tre mesi «è già divenuto figura familiare e cara agli italiani», ha detto Napolitano.
Certo la sintonia è notevole, tra Vaticano e Quirinale. Francesco evoca l'immagine dei «due colli» romani che «si guardano con stima e simpatia», un modello che «può essere un esempio nella comunità dei popoli»; Napolitano ricorda la «limpida collaborazione» e un rapporto «non freddamente istituzionale ma profondamente vissuto e radicato nella storia». Così il Papa esorta il «popolo italiano» a «superare ogni divisione», parla di «collaborazione tra credenti e non credenti», si augura che possa crescere «soprattutto nei giovani» una «nuova considerazione dell'impegno politico» («anche noi cattolici abbiamo il dovere di impegnarci sempre di più in un serio cammino di conversione spirituale») e dice come in tempo di crisi «globale e persistente» sia «fondamentale garantire e sviluppare l'impianto complessivo delle istituzioni democratiche». E il presidente della Repubblica parla della «necessità di una nuova visione dello sviluppo dell'economia e della società» aggiungendo: «Il cambiamento che s'impone in Italia non può non toccare anche comportamenti diffusi, allontanatisi gravemente da valori spirituali e morali che soli possono ispirare la ricerca di soluzioni sostenibili».
Oltretevere spiegano che i rispettivi discorsi non erano conosciuti. Tanto più colpisce, dopo 25 minuti di incontro riservato nella Biblioteca, la sintonia fra due interventi incentrati sulla crisi economica e, mentre si celebra l'editto di Milano, sul tema della libertà religiosa: una libertà che «nel mondo di oggi è più spesso affermata che realizzata», ha detto il Papa; e che resta, ha osservato Napolitano, un «cardine della Costituzione italiana come dell'ordinamento di ogni Stato di diritto».
Quando Napolitano si congedò da Benedetto XVI, nel concerto in Vaticano del 4 febbraio, la convinzione generale era che fosse il presidente a ritirarsi di lì a poco. Ironia della storia, è accaduto l'opposto. Napolitano e Bergoglio si erano già salutati in San Pietro il 19 marzo, dopo la messa di insediamento. Ma quello di ieri mattina è stato il primo incontro ufficiale e l'Osservatore Romano, col direttore Giovanni Maria Vian, notava le novità: la prima volta di un presidente italiano rieletto, di un incontro dopo la rinuncia di un pontefice, di un Papa che ha scelto il nome del patrono d'Italia. Resta la continuità essenziale rispetto a Ratzinger, Francesco ha ricordato «il rapporto di stima e di amicizia» tra Napolitano e Benedetto XVI e il presidente ha rivolto un «grato pensiero e augurio» al Papa emerito: già gli aveva scritto augurandosi di poterlo reincontrare.
E resta, assieme all'invito a «non smarrire mai la speranza», la preoccupazione comune per la crisi. «È tempo di riflessione e di cambiamento, di solidarietà e di giustizia», scandisce il presidente. E il Papa: «Preoccupanti appaiono fenomeni quali l'indebolimento della famiglia e dei legami sociali, la decrescita demografica, la prevalenza di logiche che privilegiano il profitto rispetto al lavoro, l'insufficiente attenzione alle generazioni più giovani e alla loro formazione. Temi che Francesco ha evocato, ieri sera, anche nel videomessaggio sui Comandamenti a «Rinnovamento nello Spirito»: «Purtroppo la storia, anche recente, è segnata da tirannie, da ideologie, da logiche che hanno imposto e oppresso, che non hanno cercato il bene dell'uomo bensì potere, successo, profitto».

Repubblica 9.6.13
Repubblica delle Idee, gran finale il dialogo Napolitano-Scalfari

 Nel grande Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, Scalfari, affiancato da Claudio Tito, mostrerà il video del suo dialogo con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, registrato al Quirinale pochi giorni dopo l’elezione per il secondo mandato.

Corriere 9.6.13
Letta-Renzi il Patto
Il governo e il partito Intesa premier-sindaco
Via libera per la segreteria al primo cittadino
di Maria Tersa Meli


Beppe Fioroni lo ha battezzato con ironia il «patto di Yalta», per «spartirsi il partito
e il governo del presente e del futuro».
Ma l'intesa siglata ieri tra Matteo Renzi ed Enrico Letta, al di là delle letture maliziose, è foriera certamente di novità per il Partito democratico. «Siamo una squadra», ha detto
il presidente del Consiglio al sindaco di Firenze. E ha aggiunto: «Quando ho finito io al governo, tocca a te».
I due hanno deciso di giocare insieme la loro partita, ed è evidente che gli altri si innervosiscano, perché capiscono che da ora in poi nel Pd le carte le daranno il premier e il sindaco di Firenze. «C'è una nuova generazione che prova a prendere la leadership della politica e questo è un fatto importante perché invece l'attuale gruppo dirigente del partito è intriso di conservatorismo», ha spiegato Renzi ai suoi.
Il primo cittadino ha deciso di fare le cose in grande. È vero che non ha ancora sciolto i residui dubbi sull'opportunità di una sua candidatura, ma ormai sta già pensando addirittura alla squadra: «Voglio portare al Pd gente che fino ad oggi è stata lasciata fuori della porta: sindaci, presidenti di regione, giovani imprenditori. E comprendo che chi è abituato a vedere le cose sempre nello stesso modo, ad andare avanti solo con sindacalisti e funzionari, possa essere preoccupato dall'arrivo di questo mondo nel partito. Ma sarebbe sbagliato avere paura: in politica chi ha paura perde». E non ha di certo timori Letta, il quale, anzi, è convinto che Renzi al Pd «garantisca il governo».
Del resto, è proprio dell'attuale esecutivo, oltre che del Pd, che i due hanno parlato ieri a palazzo Vecchio. «Io non voglio fare il segretario per avere nelle mie mani il destino del governo», ha assicurato il sindaco al premier. E ha aggiunto: «Ricorda che sono una persona leale. Non fedele, ma leale». E per questa ragione Renzi ha ribadito per l'ennesima volta a Letta: «Io ti darò una mano». Poi, sempre per lealtà, ha aggiunto: «Però ricordati che il governo durerà solo se funzionerà. È nato da uno stato di necessità, ma si potrebbe trasformare questa situazione obbligata in un'opportunità».
Anche su questo Letta e il sindaco rottamatore si sono trovati d'accordo: «Sono io il primo a dirlo — ha sottolineato il premier — vivacchiare non funziona e io non ho nessuna intenzione di vivacchiare». Dunque, Letta ha dato la sua parola d'onore a Renzi che se deciderà di scendere in campo per la segreteria lui lo sosterrà: «Saresti un ottimo leader per risollevare il Pd».
Come è ovvio, rimangono delle differenze tra i due. Caratteriali, innanzitutto. E non solo. Letta, per il ruolo che ricopre e il rapporto che per questo ha con Giorgio Napolitano, sponsorizza la Convenzione dei 35 saggi per le riforme, Renzi invece non crede a questo strumento. È convinto che non sia questa la via per raggiungere gli obiettivi più importanti, ma che anzi rappresenti un modo per «prendere tempo» e non fare quei «cambiamenti» e quelle «innovazioni» che secondo lui sono più che mai necessarie.
Ma è ovvio che un'intesa totale tra i due non sarebbe possibile. L'accordo raggiunto ieri, però, è già un passo avanti. Prova ne è il nervosismo che ha generato in una fetta del partito. Ora in molti guardano alle mosse di Bersani. Che cosa potrà fare l'ex segretario per sbarrare il passo al sindaco? Nella commissione che deve stabilire le regole del congresso c'è Nico Stumpo, uomo di fiducia di Bersani, nonché ideatore e strenuo difensore delle regole delle primarie che tanto fecero discutere all'epoca del duello tra l'allora segretario del Pd e il primo cittadino del capoluogo toscano. E adesso Stumpo e Bersani pensano di fare il bis: «Potranno votare per il segretario solo quelli che si iscrivono come fu per la registrazione delle primarie della volta scorsa». L'idea di far scegliere il leader addirittura solo ai tesserati è stata abbandonata perché ci si è resi conto che avrebbe sollevato troppe polemiche e proteste in un partito che già ha i suoi bei problemi.
Ma non ci sono solo le resistenze di Bersani. Un altro esponente del Pd che non nasconde le sue perplessità è Beppe Fioroni. A lui il «patto di Yalta» non va proprio giù: «Non vorrei che finissimo come l'Europa, che poi, dopo quel patto, dovette aspettare il crollo del muro di Berlino per poter giocare la sua partita». Ma Fioroni non sembra troppo convinto neanche degli altri possibili candidati segretari, come Zingaretti. Per lui sia Renzi che il presidente della Regione Lazio non giocano una partita corretta: «Stanno sfidandosi a chi si intesta la leadership della neonata corrente, che dovrebbe nascere per contestare le correnti. In realtà, questi sepolcri imbiancati sono gli stessi che si arrabbiano se non viene nominato uno dei loro in una commissione o se non ottengono un posto in segreteria. Tutto ciò nasce dal fatto che nel Pd ai valori sono stati sostituiti i valori... bollati: tu fai un piacere a me e io ti sostengo: in fondo su che altro si basa il patto di Yalta siglato ieri a Firenze?».
Maria Teresa Meli

Corriere 9.6.13
L’ambasciatore degli Usa a Roma David Thorne:
«Scelta eccellente di Napolitano indicare questo premier per l'Italia»


MILANO — «Penso che il presidente Napolitano abbia fatto una scelta eccellente nel dare l'incarico ad Enrico Letta. È un conciliatore di esperienza che ha prospettive nuove e che ha messo insieme un governo di larga coalizione composto da ministri estremamente capaci da entrambi i lati della sfera politica». È quanto ha sottolineato ieri l'ambasciatore degli Usa a Roma David Thorne (foto) intervenendo al 24esimo Workshop del Consiglio Italia-Usa, a Venezia. Nel suo discorso — che l'ambasciata Usa ha pubblicato anche sul sito —, Thorne ha ricordato come «Enrico Letta, che ha assunto l'incarico dopo due mesi di incertezza, abbia ereditato una serie di difficili sfide politiche ed economiche che noi tutti conosciamo bene». Ma — ha sottolineato — il premier «ha già mostrato la sua intenzione di muovere l'Italia verso le riforme necessarie, ha capito che deve stabilire un'impalcatura che parli a tutti gli italiani» e «lo sta facendo mettendo la disoccupazione giovanile in cima alla sua agenda». Thorne, che ha ricordato come presto terminerà il suo incarico a Roma, ha poi rimarcato le «forti» relazioni tra Italia e Usa. «Il nostro interesse per l'Italia va ben al di là dell'economia. L'importanza geostrategica dell'Italia non è mai stata più chiara e la direttiva prioritaria degli Usa è assicurare che le storiche relazioni tra i due Paesi continuino a crescere», ha affermato il diplomatico.

il Fatto 9.6.13
Il grande Inciucio
Pd, spiegami come posso avere indietro il mio voto
di Furio Colombo


Caro Furio Colombo, Come me, tanti compagni hanno seguito il partito che di sinistra aveva sempre meno, fino ad approdare al Pd. Alle ultime votazioni mi sono convinto che, dopo una vita a sinistra, quello doveva essere per forza il mio voto. Adesso, dopo quello che vedo accadere, voglio farti una domanda. Come posso riavere indietro il mio voto? Mi sento umiliato, derubato e offeso, dal fatto che governiamo insieme al peggior avversario che avevamo. Ed è qui che voglio arrivare. Sento parlare di presidenzialismo o di semi presidenzialismo. Come fanno a non vedere che, lungo questa strada, fra poco al Colle ci sarà lui, il cavaliere Silvio Berlusconi? Io sono laico e di sinistra. Ma temo che, contro una situazione così pazzesca che noi stessi stiamo costruendo, mi resti solo la preghiera. “Dio, se ci sei, pensaci tu”.
Daniele Bolzano

Ho pubblicato questa lettera esemplare perché ne rappresenta e ripete moltissime altre e perché racconta bene l’incredibile frustrazione non tanto per il passato di sinistra quanto per la tranquilla violazione del voto, proprio nel mezzo di un guado nel quale tutta la partita, persino per tanti elettori più cauti di Daniele e di me, sembrava giocarsi sul “sì o no” a Berlusconi. Ha ragione l’autore della lettera. Non avevamo votato per uno scherzo incomprensibile agli italiani, o almeno ai dieci milioni che hanno creduto di votare a sinistra. Neppure la fantasia più distorta avrebbe immaginato un governo Enrico Letta - Angelino Alfano (con Quagliariello ‘il buono’ come mite messaggero e Berlusconi che annuncia “la fine della guerra civile”). È una storia che qualunque produttore cinematografico avrebbe giudicato oltre ogni limite persino per un film satirico di cattiveria e irrisione. Purtroppo se guardi, in cerca di soccorso, verso l’alto (non parlo di Dio, come l’autore della lettera citata, ma del Qurinale) ti senti ammonire dalle parole “occorre porre fine a opposte forzature e rigidità” e “Nessuno pensi di tirarmi dalla sua parte” . Ma noi pensavamo che ci fosse una parte dentro la legge e una parte fuori dalla legge (come è stato e come sta per essere ampiamente sentenziato nei luoghi giusti, i tribunali). E poi non avevamo detto che era in gioco la difesa della Costituzione contro lo svilimento e la violazione continua della Costituzione?
Adesso ci ammoniscono: “State calmi, dobbiamo fare insieme le riforme”. La frase suona strana, un groviglio di sorpresa, insensatezza e ossimoro. Tanto più che il membro del governo, Santanchè dichiara con onestà: “Una eventuale condanna di Berlusconi sarebbe lesiva della democrazia”. Tutto era cominciato dal confronto fra due mondi incompatibili, uno costituzionale e uno personale (lui dice di essere un caudillo), uno nato dalla Resistenza e l’altro dalla negazione della Resistenza e di tutti i suoi valori, uno fondato sul lavoro, l’altro sul “prendi i soldi e scappa”. Dice Giovanni Sartori, uno dei maggiori politologi del mondo: “Ho avuto fortuna, non mi hanno chiamato. Ma un gruppo di 35 non può combinare nulla. Sarà solo un grande pasticcio” (Dagospia, 6 giugno). Ma il pasticcio è iniziato. E benché mi renda conto di aggravare la pena di Daniele Bolzano, autore della lettera qui riportata, devo confermare che il governo Letta - Alfano, “per snellire i tempi” ha scelto, nominato e convocato davvero un gruppo di 35 esperti di vario valore, ma con un rigoroso tratto in comune: nessuno di essi, mai, si è occupato della illegalità e del conflitto di interessi di Berlusconi. Ha fatto scienza, esperienza e professione restando alla larga da un mondo di imputazioni e processi che - se lo commenti - ti rovina qualunque carriera.
VEDI ZAGREBELSKY e Rodotà, che ormai ogni cronista si sente in diritto di trattare con bonario compatimento. Sono “antiberlusconiani”, dunque non più spendibili in attività politicamente o scientificamente utili. Purtroppo ha ragione chi ci scrive. Lui e noi (penso a molti lettori e a me) abbiamo votato Pd per il contrario esatto di ciò che ha fatto e che sta facendo. I motivi erano eleggere un nuovo presidente della Repubblica, aprire porte e finestre a un mondo italiano un pò migliore (basta, come primo criterio, una distanza di sicurezza dalla mafia e dalle imputazioni più gravi) e ricominciare a vivere. Invece questi Trentacinque scelti fra chi non si impiccia, e si impegna a non impicciarsi, di Berlusconi, saranno presto raggiunti dai gruppo dei Quaranta (questa volta senatori e deputati) che prenderanno la torcia delle riforme e la porteranno sulla collina del disorientamento totale: un fitto dibattito su presidenzialismo o semi-presidenzialismo, mentre intorno a noi, in cerchi sempre più stretti, si aggira Berlusconi in cerca di ciò che - lui pensa - gli è dovuto. Benché anch’io sia laico come la persona che ci scrive, non resta che constatare che il partito se ne è andato dopo l’appropriazione indebita di milioni di voti. Non resta che ripetere, sia pure da laici, “che Dio salvi i giudici”. L’invocazione significa: resti loro il coraggio che manca, in questo brutto momento, a molti italiani.

il Fatto 9.6.13
Attenzione, arriva Renzi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, alla fine, dopo molte resistenze, Renzi ha ceduto: sarà segretario del Pd. Se accade, come cambierà quel partito?
Lina

VEDIAMO. Primo, si dice: Renzi spaccherà il partito. Non credo. Renzi, agile come un torero, coincide con una parte e con l’altra. Attenzione. Non sto dicendo che è un camaleonte. Sto dicendo che le parti del Pd sono parti di potere e non idee diverse o incompatibili (salvo, forse, le cosiddette “questioni sensibili” risolte però dal fatto che cedono sempre i meno cattolici). Renzi è un manager svelto e abile con il potere dei dirigenti. Secondo: il governo. Quasi tutto l’elettorato del Pd non vuole governare con Berlusconi. Quasi tutto l’apparato direttivo del Pd vuole governare con Berlusconi. Pur avendo un notevole istinto per il pubblico (direbbe Berlusconi) anche Renzi vuole le grandi intese. Muove critiche astute e laterali a Letta. Ma solo perché Palazzo Chigi c’è Letta e non c’è lui. Il Pd si sta orientando su una forma o sull’altra di presidenzialismo (purché sia un percorso lento, complicato e probabilmente non realizzabile) anche Renzi. Dilaga nel Pd la persuasione che per parlare del conflitto di interessi c’è tempo, e quando si farà non dovrà essere “contro Berlusconi” come se possedere tutte le fonti di informazione di un Paese (attraverso proprietà, controllo, influenza o intimidazione) fosse un dato politico come altri. Renzi non solo non ha niente da dire in materia e non ne parla mai. Ma è stato in rispettosa visita ad Arcore, un gesto simbolico non da poco in un Paese in cui tutto dipende da Berlusconi. Nel Pd pochi vogliono che si dichiari, a norma di legge, l’ineleggibilità di Berlusconi. Anche Renzi pensa che sarebbe “un assassinio giuridico” ( Santanchè). Nel Pd la grande maggioranza dell’apparato direttivo ha sempre apprezzato il potere eccessivo di Berlusconi perché, alle giuste condizioni, si sarebbe sempre potuto condividere. Tanto che nelle ultime tre legislature (e comunque, appena liberati da Prodi) hanno diminuito la resistenza e aumentato la collaborazione, con un fitto intreccio di contatti (starei per dire legami) nelle commissioni parlamentari. E una emarginazione ferma di coloro - deputati o senatori - che avrebbero voluto netta contrapposizione. Renzi ha già teorizzato questo atteggiamento. Come la parte di Pd che ha preso il comando, non pensa che ci sia davvero una “anomalia Berlusconi”. Berlusconi è un avversario come un altro, con cui a volte conviene collaborare e che, data l’età e la lunga carriera potrebbe benissimo essere nominato senatore a vita e coltivare, come naturale e legittimo, il progetto di diventare presidente della Repubblica. Dunque un grande arrivo, quello di Renzi nel Pd. Porterà dinamicità e allegria giovane. Ma nessuno shock. È già tutto condiviso.

Corriere 9.6.13
Fabrizio Barca:
«Nel Pd potere in mano a pochi. Perciò falliamo da 20 anni»

MILANO — «A livello nazionale falliamo da venti anni a causa di una ipotesi che si è infiltrata nella testa di tutta la sinistra italiana, generando impotenza. L'ipotesi è che un Paese si governa bene se il potere è concentrato nelle mani di pochissime persone. E la sinistra si è convinta di questo assunto». Lo ha detto l'ex ministro Fabrizio Barca, intervenendo ieri sera a un incontro con i giovani democratici a Bari. «Il Partito democratico mi è apparso, con le sue grandi debolezze — ha aggiunto sempre Barca — come una grande risorsa inutilizzata del Paese. Io credo che dobbiamo convincerci che il partito che vogliamo serve per governare».

il Fatto 9.6.13
Peggio di Alemanno non c’è nessuno
di Antonello Caporale


Si può essere scettici perché questi tempi giustificano il timore che ci si imbatta di nuovo in una promessa farlocca, nel classico dico e non faccio. Si può dunque dubitare, e anche legittimamente, delle promesse di Ignazio Marino di cambiare il volto dell’amministrazione capitolina, una macchina gigante di produzione del consenso e dello spreco, parentopoli perenne in cui legami familiari e correntizi sporcano ogni iniziativa. Non si può però fare confusione tra lui e Gianni Alemanno. Si prenda la biografia di ciascuno, il senso dell’etica e persino il livello degli infortuni occorsi per avere sotto gli occhi la distanza siderale che separa il primo dal secondo. La giunta Alemanno ha mostrato un tale ragguardevole score di insuccessi e di immoralità da restare senza fiato. È anche sua la responsabilità se oggi i romani che andranno al voto saranno saranno meno della metà degli aventi diritto, ed è il terribile esito della malapolitica se domani Roma consegnerà al Campidoglio un sindaco indicato da un terzo degli elettori. Il confronto tra idee e anche tra passioni è oramai destino che riguarda una minoranza, appendice numerica del grande magma sociale oramai travolto dalla disillusione, confinato alla protesta, relegato all’impotenza.
Roma è una metropoli grande e faticosa. Una città magnifica, unica al mondo, che si apre a imponenti questioni di convivenza, civiltà, sicurezza. È una città che è stata posseduta (spesso con la connivenza del centrosinistra) da poteri estranei alla democrazia. Si è potuta costituire una oligarchia del cemento che ha dominato ogni scelta urbanistica, traendone il massimo profitto economico da una deturpazione sistemica del territorio. Il fatto che Marino, tra le altre cose, oggi si impegni in una campagna di moralizzazione, iniziando a far rispettare il coefficiente zero di edificazione dell’agro romano è da salutare come il gesto più rivoluzionario possibile. Resiste, e qui siamo di nuovo al punto, la domanda: darà corso all’impegno preso? Finora ha fatto quel che ha promesso. Ha negato il suo voto al governo delle larghe intese, rispettando il mandato degli elettori, e si è dimesso da senatore prima di conoscere il risultato delle elezioni romane. Poco? Di questi tempi è oro che luccica.

Repubblica 9.6.13
E Zagrebelsky critica i Cinquestelle “Un partito personale, come il Pdl”
Il giurista con Rodotà e Diamanti: il populismo è un vizio italiano
di Maria Cristina Carratù


È una parola abusata nel lessico della politica italiana, ma su cui proprio per questo è indispensabile interrogarsi con franchezza. Populismo «vizio italiano » sul banco degli imputati, ieri sera in Palazzo Vecchio per Repubblica delle idee, con Ilvo Diamanti, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà intervistati da Lucia Annunziata su «L’Italia postpopulista », sebbene parlare di «post», al momento, ha osservato la moderatrice, non sembri ancora il caso. Nell’aria l’eco dell’ultimo j’accuse di Grillo sul parlamento «tomba», «espressione inaccettabile», commenta Zagrebelsky (con Rodotà fra i primi dieci candidati alla presidenza della Repubblica dal movimento 5 stelle), «alla cui radice, però, c’è il discredito delle istituzioni parlamentari », «lessico di tempi feroci di cui Grillo non ha l’unica colpa», dice Diamanti, introducendo il tema della serata in modo problematico: «Il populismo deriva da demos, popolo, cioè fa parte della democrazia, e se se ne parla tanto vuol dire che la democrazia rappresentativa è percepita come poco nobile, incompleta, escludente». E insomma si trovi il coraggio di dirlo, dati alla mano (quel 50% di elettori italiani che non si ritrova più nei maggiori storici): «La colpa è di chi non ti dà più buone ragioni per votarlo, non di Grillo». Non basta: «E se accusassimo di populismo semplicemente il cambiamento del nostro tempo? Cioè la democrazia ai tempi della tv, del web, dei social network?» propone Diamanti. Domande scomode, che intaccano sicurezze (politiche) sedimentate: «È vero» conferma Rodotà, «demonizzare la rete è un errore pericoloso», e bisogna ammetterlo: «La democrazia rappresentativa non è messa a rischio dalla democrazia partecipata, ma dalla ignoranza di questo strumento che può invece rivitalizzarla in modo straordinario». Perché sia chiaro: la democrazia, in Italia, non sta affatto bene, «e il populismo non è che un modo per usare il popolo facendolo coincidere con la democrazia». Basta vedere «come è facile distorcere l’idea stessa di sovranità popolare, usarla a favore della personalizzazione della politica», e magari sostenere che «se i cittadini mi votano ho il diritto al potere anche se ho addosso duecento condanne ». E’ l’effetto, nota Zagrebelsky, «del venir meno dei simboli, di cui, però, la politica non può fare a meno». Quelli che un tempo evocavano intere culture politiche (vedi lo scudo crociato), e «oggi sono soppiantati dai simboli semplificati dei leader in persona, movimenti e partiti che hanno successo solo perché sono personali, come Pdl e M5S. Ve lo immaginate - chiede al pubblico il costituzionalista - il Movimento 5 Stelle senza Grillo?».
Ma parlare di populismo e discutere di presidenzialismo, è un attimo, e il dibattito si schiera ben presto sul fronte rovente, toccando anche il tema riforme istituzionali, su cui il premier Letta, poco prima, nello stesso Salone dei ‘500, «ha dato, dice Diamanti, «risposte che non erano risposte». Concorda Rodotà: «Eludere il tema della legge elettorale mi sembra un fatto molto grave, quella attuale insidia anche la possibilità
di lavoro del governo» osserva il giurista a proposito della mancata «messa in sicurezza» del Porcellum, «quando lo ritenesse conveniente qualcuno che può dire “stacchiamo la spina e andiamo a votare con questa legge” ci sarà
sempre», e invece «una legge elettorale dovrebbe garantire sempre la neutralità del gioco».
Quanto al presidenzialismo «attenzione» avverte Diamanti, se «per fare riforme istituzionali non ci vuole molto», per quelle costituzionali «occorrono molte buone ragioni e condivisione», e insomma guai a confondere «la Costituente con il governo di larghe intese». «Le riforme costituzionali possono essere un salto nel buio» avverte Zagerbelsky, che insiste nel mettere in guardia l’Italia dal “salto” presidenzialista: «In un paese con un alto tasso di corruzione, e un basso tasso di istruzione e cultura, introdurre forme di governo semplificato sarebbe un pericolo». Anziché sulle ingegnerie istituzionali, che considerano la vita politica come un puro meccanismo mentre serve sempre «uno studio profondo dell’ambiente politico istituzionale cui si far riferimento», si punti piuttosto, dice Zagrebelsky, «a cambiare la qualità della politica », per non correre il rischio di «fare le riforme, e poi tenerci la politica così com’è, anche se non piace a nessuno».

Corriere 9.6.13
Al liceo con il fucile carico «Voglio fare giustizia»
Con sé 75 pallottole: «Non va quel che è successo in Vietnam»
di Mara Rodella


BRESCIA — Una tranquilla giornata di fine anno scolastico che rischia di trasformarsi in tragedia. Forse in massacro. Un ragazzo di 17 anni, alunno del glorioso liceo Bagatta di Desenzano, sul lago di Garda, fermato in tuta mimetica dopo aver introdotto a scuola un micidiale fucile da caccia con 73 cartucce e aver dichiarato propositi farneticanti. Un tranquillo liceo della provincia lombarda che rischia di vivere l'incubo di Colombine. È l'ultimo giorno di scuola. Quello in cui le lezioni cedono il passo alle feste in palestra e ai concerti in cortile. Che uno studente varchi la soglia impugnando la custodia di un basso, quindi, sembra più che normale.
Il punto è che lui, 17 anni, alunno di seconda liceo allo scientifico Bagatta, prima di uscire dalla casa in cui vive con i genitori a Calcinato, indossa una mimetica e al posto della chitarra mette nella custodia un fucile: la doppietta semiautomatica del padre, caricata con due colpi. Passano almeno un paio d'ore, prima che decida di estrarlo in classe. Che cosa avesse in mente davvero — se uno scherzo, un gesto estremo, o una strage — resta da chiarire. Certo è che durante la ricreazione il ragazzo mostra la doppietta a tre coetanei, nella sua aula, dicendo che si preparava a sparare dalla finestra, contro qualcuno. Il tutto condito da dichiarazioni confuse: «Io sono un pacifista, nel mondo c'è troppo egoismo, non lo sopporto. Sparo perché voglio giustizia». Gli amici non lo prendono sul serio, non dicono niente a nessuno.
È un'insegnante a lanciare l'allarme, seminando il panico: passando per caso davanti alla porta dell'aula al terzo piano vede il giovane che impugna il fucile. È solo. «Stia tranquilla prof, è a salve». La notizia arriva al dirigente scolastico, Francesco Mulas — «c'è un ragazzo che si aggira armato per la scuola», gli dicono al telefono — che ha il sangue freddo necessario per far scattare l'allarme antincendio, inizia l'evacuazione dell'istituto, comincia la caccia al giovane in mimetica. Che però non si trova: lui, consapevole che la situazione gli sta comunque sfuggendo di mano, scende al primo piano con 23 cartucce in tasca e il suo fucile nella custodia, che di munizioni ne contiene un'altra scatola da 25. Una terza confezione verrà ritrovata dai carabinieri di Desenzano nell'androne della scuola. In totale 75 cartucce Clever calibro 20, caricate a 28 grammi. Sufficienti per una strage.
Quando i militari, arrivati dalla caserma che confina con la scuola, hanno intercettato e bloccato il 17enne, era disarmato: si aggirava per i corridoi del primo piano. Una rampa di scale più su, in un'aula, aveva lasciato la doppietta, nella custodia. Senza agitazione ha ribadito di essere un «pacifista»: «Non tollero l'insensibilità delle persone, non mi va quello che è successo in Vietnam — ha aggiunto — e siccome io sono sensibile volevo compiere un atto dimostrativo...». Contro se stesso, avrebbe lasciato intendere. Ma la sua versione contrasta con i tre testimoni e con l'arsenale introdotto a scuola.
Alle 17.35 il giovane, in arresto per porto abusivo d'armi, è uscito dal comando di Desenzano, guidato dal capitano Fabrizio Massimi, diretto al Beccaria di Milano. Il capo tra le ginocchia e la maglia mimetica indossata come divisa. «Se quell'insegnante non l'avesse visto avrebbe potuto essere una strage», mormora qualcuno.

Repubblica 9.6.13
A scuola con mimetica e fucile, arrestato “Il mondo è egoista: volevo farla finita”
Panico a Desenzano per la minaccia di un diciassettenne. Evacuati mille ragazzi
di Sandro De Riccardis


MILANO — I suoi compagni lo hanno visto in classe col fucile in mano, tirato fuori dalla custodia della chitarra. E poi affacciarsi da una finestra al terzo piano che dà sul cortile della scuola, dove quasi mille ragazzini stanno per festeggiare la fine dell’anno.
È lì, alle 11 di mattina. Dentro la sua tuta mimetica, con il fucile da caccia del padre, regolarmente detenuto, nascosto al posto della chitarra, con trenta cartucce nelle tasche e una in canna. Pronto a fare fuoco e sprofondare il liceo Bagatta, maxi-istituto
che raggruppa diverse scuole, a Desenzano, nel peggiore incubo da provincia americana. «Ce l’ho con il mondo, la gente è egoista e insensibile, volevo sparare e farla finita», dice ai carabinieri lo studente, 17 anni, fermato e subito portato in caserma, dove il pm dei minori, Gianfranco Gallo, formalizza l’arresto per porto illegale di armi, aggravato dal fatto che il fucile è stato portato in una scuola.
Dal terzo piano, lo studente armato può fare fino a trenta vittime, ma può raggiungere anche i passanti in strada, diretti ai vicini uffici comunali. Poi sparisce e ricompare da un’altra finestra al primo piano, mentre l’atrio è ormai un vortice di ragazzini in fuga
verso qualunque riparo. «C’è uno con il fucile — si gridano l’un l’altro — State lontani dalle finestre ». I carabinieri lo trovano al primo piano, ma senza l’arma. «L’ho nascosta in un’aula» dice ai militari della compagnia di Desenzano, guidati dal capitano Fabrizio Massimi. Trasferito subito in caserma, ripete al pm, che formalizza l’arresto, sempre la stessa frase. «La gente comune è egoista, è insensibile..».
Dalla festa ai quindici minuti di panico, la mattinata al liceo Bagatta scivola in un enorme sospiro di sollievo collettivo. «Poteva sparare e far male, aveva trenta
colpi, poteva colpire chiunque » dice alla fine un investigatore. «Quando mi hanno detto quello che stava succedendo — ricostruisce il direttore scolastico Francesco Mulas — ho attivato immediatamente le misure di sicurezza, l’allarme antincendio e l’evacuazione della scuola. Per fortuna la situazione è tornata subito sotto controllo, siamo stati bravi a evitare conseguenze». Sullo studente, il preside spiega che «è un ragazzo come tanti, con una famiglia normale, con la sua storia e i suoi interessi». Lo scorso anno era stato bocciato, ma quest’anno il suo rendimento era nella norma. Eppure nei corridoi, alcuni docenti parlano di un «ragazzo che è sempre stato problematico, non aiutato dai genitori che lo difendono anche quando i professori segnalavano difficoltà di apprendimento».
Le indagini, proseguite senza sosta fino a tarda sera, hanno aggiunto altri elementi utili per ricostruire la personalità del giovane. Appassionato di armi, amante del Thrash metal, una musica che richiama il rock più frenetico ed estremo, sempre vestito con la mimetica, lo scorso anno nella prova scritta del test Invalsi, aveva consegnato un tema pieno di idee surreali, frasi indecifrabili, persino qualche svastica. Gli investigatori hanno perquisito la casa della famiglia e sequestrato il computer del giovane. E sperano di trovare nella memoria del pc un movente più concreto dell’odio indefinito verso il resto del mondo.

Corriere 9.6.13
Il ragazzo con la passione per svastiche e siti violenti
di M. Rod.


Diceva di essere un pacifista. Un giovane sensibile che non sopportava «l'egoismo» del mondo. Eppure amava disegnare svastiche e navigare in Rete, in cerca di violenza, e non di pace. Così, almeno, da un primo accertamento degli inquirenti che hanno posto sotto sequestro il computer del giovane: sarà sottoposto a perizia proprio per rilevare eventuali file che confermino la sua passione per la violenza. E per la guerra. Quella guerra che anche ai genitori diceva di detestare con tutto se stesso. Eppure, chi conosce questo 17enne che ieri si è presentato nel suo liceo in mimetica e con un fucile dal colpo in canna, lo descrive come un tipo strano. Riservato, a tratti cupo, senza amici all'interno della scuola. Figlio unico di due impiegati che ama vestire di nero, indossare le maglie heavy metal e disegnare svastiche e simboli satanici. Sì, lo faceva sui finestrini dell'autobus — ricorda chi sul pullman ci saliva con lui ogni giorno. Ma l'aveva fatto anche al test Invalsi, la prova scritta per valutare i livelli di apprendimento degli studenti: gli insegnanti dicono che il giovane aveva consegnato un elaborato pieno di frasi surreali, scritte strane, persino svastiche. Il test era stato annullato, episodio che il dirigente scolastico non smentisce. Ce l'aveva con il mondo, dice: il suo, di mondo, sembra andasse a cercarlo in Rete, nei siti che inneggiavano alla guerra e alla violenza. Ieri mattina, l'ultima dell'anno scolastico, aveva persino preso otto nell'interrogazione di Storia dell'arte. A scuola non andava male, quantomeno pare non rischiasse una seconda bocciatura consecutiva: nessun disagio particolarmente preoccupante — dicono dalla presidenza — ma alcuni docenti invece lo descrivono come un ragazzo difficile da gestire, esuberante al punto da diventare, a volte, arrogante, e più volte segnalato alla dirigenza scolastica. Ma qualcuno degli insegnanti si sbilancia, e punta il dito contro due genitori che avrebbero «rovinato» il figlio a furia di difenderlo sempre e comunque, anche quando l'anno scorso era stato bocciato: chi insegna al «Bagatta» ricorda che la madre non aveva reagito bene alla notizia, e che dopo aver minacciato di ritirarlo dall'istituto, aveva chiesto e ottenuto fosse cambiato di sezione. E nella sua nuova classe, al secondo anno, alcuni dei suoi compagni rivelano fosse silenzioso, distaccato, ma a tratti un prevaricatore: ricattava gli altri affinché si facessero interrogare al posto suo, ammettono. Ma non con tutti. Sotto sequestro adesso è finito il suo pc, che sarà sottoposto a perizia per rilevare eventuali file in grado di fornire ulteriori indizi sulla «passione» di questo ragazzo per la violenza, e la guerra, non per la pace.

Corriere 9.6.13
Chiediamoci perché i compagni non hanno dato l’allarme
di Gustavo Pietrpolli Charmet


Si porta a scuola di tutto: non era così una volta. Si lasciavano fuori il corpo, il desiderio, la passione, la rabbia. Anche la tristezza e la solitudine dovevano rimanere a casa, nella cameretta. Il contratto implicito si fondava sulla esclusiva legittimità di ingresso alle conoscenze, all'apprendimento, alle competenze. Anche l'amicizia era mal tollerata e doveva rimanere clandestina, per non parlare dell'amore e della sessualità.
Ora a scuola si porta anche la disperazione, si lascia intravvedere la fantasia suicidale e se si decide di lasciarsi tentare dalla morte volontaria si può scegliere la scuola come teatro ove ostentare il proprio cadavere. A scuola ora ci si bacia, ci si abbraccia, il corpo è sdoganato: i telefonini bisogna spegnerli, ma non la voglia di protagonismo e la protesta per la miseria delle dotazioni.
Un ragazzo arriva a scuola col fucile e tanti proiettili. Non lo ferma il metal detector come nelle scuole degli Usa. Da noi non è previsto che si vada a scuola armati fino ai denti e con lugubri propositi. Al massimo qualche coltellino; ma forse questo è sempre successo.
Esibisce l'arma ad un gruppetto di compagni, ma nessuno dà l'allarme. Nei Paesi già colpiti dalla follia delle armi a scuola ci sarebbe stato un fuggi fuggi. È davvero così imprevedibile che possa farne un uso devastante? In ogni caso è una trasgressione gravissima che dovrebbe essere segnalata, al di là di ogni complicità, ed invece i coetanei non sembrano spaventati e forse neppure del tutto scandalizzati dal comportamento abnorme e pericoloso.
Noi adulti invece dobbiamo cominciare a prendere in considerazione l'ipotesi che possa succedere anche nelle nostre scuole che si cominci a sparare all'impazzata, tanto si è già deciso di sparare anche al proprio corpo? È ipotizzabile che la globalizzazione radicale degli adolescenti e la loro massiccia omologazione planetaria comporti anche il contagio della follia distruttiva, del gesto onnipotente alla ricerca disperata dell'occhio delle telecamere? L'imitazione, l'emulazione, la competizione fra giovani maschi di nazioni diverse può spingersi fino alla gara vandalica a chi uccide il maggior numero di compagni di scuola e docenti?
Vorrei poter sostenere che da noi non può succedere, ma penso di dover dire che è necessario prendere le necessarie precauzioni. Ciò che spinge i dissennati guerrieri clandestini a gareggiare fra loro al tiro al bersaglio non è il bisogno di uccidere, ma la fame incontrollabile di compiere un gesto imperiale che regali la fama e la lugubre popolarità dell'assassino. La quotidiana invisibilità scolastica e la terribile fragilità che li affligge e li rende trasparenti agli occhi dei compagni, arroventa il desiderio di vendetta e il bisogno di una glorificazione massmediale. Possono fantasticare a lungo e consolarsi delle mortificazioni quotidiane suscitate dalla loro fragilità, ma può venire il giorno in cui sentono l'obbligo di fare finalmente ciò che hanno già deciso sia forse inevitabile.
Quando succede che in una scuola si uccida uno studente è una precauzione ineludibile quella di aiutare i compagni di classe a elaborare il lutto, ma si cerca anche di aiutarli ad esecrare il suicidio e di sostenerli nel capire quanta violenza nei loro confronti c'è nel gesto del ragazzo infelice che non ha saputo accettare la fatica di crescere e non ha chiesto aiuto agli amici. È necessario prevenire il contagio, l'emulazione, la beatificazione.
Anche nei confronti del ragazzo col fucile e della sua folle allusione, gli adulti e i ragazzi delle scuole sarebbe utile non sorridessero. Forse il ragazzo col fucile ci ha regalato un'occasione in più per riflettere sulla assoluta necessità di ridurre moltissimo la spinta dissennata verso il tentativo di conquistare la visibilità sociale a tutti i costi. Non credo ci pensi nessuno dei nostri ragazzi a seguire il suo esempio, ma sarebbe bello rinnovare il patto implicito che bisogna disamare la rincorsa priva di regole e valori verso la conquista della fama e della popolarità massmediale. E' una buona occasione per promettere che nelle nostre scuole non ci sarà mai bisogno di installare i metal detector. 

l’Unità 9.6.13
Afghanistan: Fabio Mini
Parla il comandante della missione Nato-Kfor nel periodo 2002-2003:
«Risultati insoddisfacenti sul piano della ricostruzione e su quello della sicurezza»
«Il bilancio della missione è fallimentare»
di U. D. G.


Un tragico fallimento annunciato. Questa è l’«avventura afghana» analizzata dal generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze Nato del sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor nel periodo 2002-2003. Generale Mini, l’Afghanistan torna a far notizia per la morte del capitano La Rosa. «Questo è uno stillicidio penoso. Che è anche lo stillicidio delle coscienze, che sembra si risveglino solo quando ci sono dei morti da commemorare. La riflessione bisogna farle sempre, di continuo, perché le riflessioni devono portare alla verifica dei traguardi. Non si tratta più soltanto di capire cosa si fa in Afghanistan e fino a quando si dovrà fare. Qui si tratta di capire cosa si stia ottenendo...».
E costa si sta ottenendo?
«Ciò che abbiamo più chiaro di prima è che questo apparato di forze non riesce a conseguire risultati soddisfacenti né sul piano della ricostruzione afghana né su quello della sicurezza. Siccome il traguardo del 2014 (la fine della missione Isaf in cui l’Italia è impegnata, ndr) è vicinissimo, sembra sempre più plausibile il risultato finale di un clamoroso fallimento. Non solo dal punto di vista militare ma anche sotto l’aspetto sociale. In pratica, il “Grande Occidente” tra poco più di un anno dovrà tornare a casa mestamente, come fecero i sovietici dopo dieci anni di guerra d’occupazione, senza aver modificato la realtà afghana. Tra un anno, l’Afghanistan sarà di nuovo solo, in balìa delle stesse schegge impazzite che comunque hanno fatto fallire gli eserciti più potenti del mondo».
Alla luce di queste considerazione, le chiedo: qual è stato, a suo avviso, il vizio d’origine di questa «avventura afghana»?
«È stato quello di pretendere di trattare l’Afghanistan come se fosse un Paese occidentale in preda ad un colpo di Stato. È stato quello di pretendere di considerare una situazione sociale radicata ed estremamente diversa da quella occidentale, come se fosse una deviazione temporanea a cui porre rimedio con un pugno di soldati. Il vizio d’origine è stato in pratica quello di scambiare la guerra come un metodo per costruire le nazioni: un “nation building”. La guerra, soprattutto in Afghanistan, come peraltro era stata quella in Vietnam, non costruisce niente di diverso da quello che la cultura e la civiltà di un popolo riescono ad esprimere. Siamo impelagati in un circolo vizioso che, ad una sua estremità, ha la pretesa o la presunzione, e dall’altra, l’ignoranza com-
pleta della situazione».
Quale lezione l’Italia e l’Europa dovrebbero trarre da questi anni di guerra in Afghanistan?
«All’Italia dovrebbe insegnare una cosa fondamentale: non sempre le agende e le pulsioni degli Stati Uniti sono condivisibili. L’Italia e l’Europa in particolare hanno avuto in Afghanistan un approccio iniziale molto corretto sull’onda della solidarietà da esprimere dopo l’11 Settembre. Successivamente, però, gli Usa hanno voluto imporre alla situazione afghana una valenza politica e culturale che ha portato a fare dello strumento militare il classico martello che vede solo chiodi...Molti Paesi europei non si sono riconosciuti in questa nuova versione della guerra. Ma nessuno ha avuto il coraggio di essere tanto leale nei confronti degli alleati da dir loro la verità e ciò che realmente pensano anche quando stanno sbagliando. La vera lezione è quella di mantenere le proprie idee e rispettare anche gli avversari».
Generale Mini, in occasioni tragiche come quella che ha visto morire il capitano La Rosa, si sprecano le dichiarazioni di vicinanza ai familiari della vittima. Ma basta questo per rispettare chi ha perso la vita sul campo e quanti dovranno sopportare un dolore indicibile?
«No, non basta. Non può, non deve bastare. Il senso di vicinanza non può essere espresso solo quando la gente muore. Bisogna essere vicini ai soldato anche, soprattutto quando si decide sulle loro teste e sulla loro pelle. I soldati rispondono sempre di più alle logiche di cameratismo e di spirito di corpo. Questo li motiva e ne fa degli eroi proprio perché si allontanano sempre di più delle logiche della politica, soprattutto quando queste logiche si rivelano profondamente sbagliate».
E la politica come dovrebbe onorare gli uomini e le donne in divisa c impegnati in Afghanistan, come in Libano e in altre aree calde del mondo?
«La politica, insisto su questo, dovrebbe essere vicina ai soldati e alle loro famiglie quando si decide. Perché il dolore oggi per il capitano La Rosa, ieri per tutti gli altri caduti, o domani per quelli che potrebbero cadere, è un dolore tardivo ed anche ipocrita se non serve a modificare le situazioni».
Secondo una prima ricostruzione dell’attacco che è costato la vita al capitano La Rosa, a lanciare la granata sarebbe stato un bambino di 11 anni...
«A 11 anni in Afghanistan non si è più bambini, si è già cresciuti, induriti dalla guerra, costretti ad esserne parte, come protagonisti e, spesso, come vittime. Una guerra che ha violato anche l’infanzia».

l’Unità 9.6.13
Una sinistra che serve all’Italia
Il lascito di Berlinguer
Il leader del Pci morì a Padova l’11 giugno 1984
Dal compromesso storico alla questione morale: la politica come attività alta e potente, fondata su un pensiero forte per trasformare storia e società
di Carlo Galli


Non c’è solo la questione morale nel lascito politico di Enrico Berlinguer. Quell’accusa contro la corruzione dei partiti, la segmentazione corporativa della società, la chiusura delle istituzioni, il venir meno dello spirito pubblico, che andava di pari passo con un’ammissione di sconfitta storica del sistema politico democratico, che coinvolgeva in parte anche il Pci e che lo isolava in uno spazio vuoto di partner e di dialettica, è diventato giustamente famosa. Ma non può essere considerata la madre delle odierne indignazioni perché al contrario di queste suggella una parabola di pensiero e di azione politica di un’intensità senza pari, negli anni centrali e finali della prima Repubblica.
È in quel pensiero e in quell’azione dalla metà degli anni Sessanta alla morte di Moro il cuore della prestazione storica, politica e intellettuale di Berlinguer. Che ci consegna una costante declinazione democratica dell’orizzonte comunista quale egli lo interpretava, una costante sottolineatura del ruolo inclusivo, radicalmente innovatore e insieme profondamente nazionale perché impegnato a risolvere le questioni storiche del Paese -, che egli attribuiva alla sinistra. Una sinistra «di parte», ovviamente, eppure vocata a parlare a larghe masse anche esterne al perimetro della sua azione diretta; di una parzialità che riusciva a elaborare un orizzonte generale, un disegno per l’Italia.
Una politica di movimento e di trasformazione, in due direzioni: la prima fu la progressiva presa di distanze dall’Urss, fra il 1976 e il 1981 dall’accettazione del pluralismo democratico come specificità del socialismo italiano alla dichiarazione della fine della spinta propulsiva dell’Ottobre sovietico -, a cui si accompagnò l’elaborazione dell’eurocomunismo e il riconoscimento del ruolo positivo della Nato. La seconda fu la marcia d’avvicinamento rispetto alla Dc; non certo a fini consociativi, ma perché l’incontro fra la cultura cattolica e quella della sinistra doveva correggere l’impaludarsi della vita politica italiana, che si profilava alla metà degli anni Settanta. Un incontro non di gestione ma di cambiamento, che doveva porre le basi per una reale alternanza di potere (tanto reale da essere un’alternativa); un incontro non con la Dc regressiva ma con quella ispirata e guidata da Moro.
Fu questo il progetto di compromesso storico, l’aggiornamento della strategia di democrazia progressiva e delle larghe alleanze che apparteneva alla storia del Pci, e che non si era potuta realizzare nelle prime fasi del dopoguerra a causa della guerra fredda. Nonostante quella frattura, la sinistra comunista e le maggioranze si incontrarono di fatto, implicitamente, nella costruzione dello Stato democratico e anche dello Stato sociale, nella realizzazione della modalità italiana del «compromesso socialdemocratico». Ma il «compromesso storico» voleva essere di più che una coabitazione; voleva essere, per Berlinguer, il ritorno del Pci nel perimetro delle istituzioni repubblicane, in piena legittimità, per correggere le contraddizioni della nostra democrazia e per opporre alla «società dei consumi» un ideale civile e sociale di sobrietà e di rigore: l’austerità, destinata a scontrarsi con le potenti dinamiche dell’individualismo desiderante, che saranno il motore del consenso di massa al nuovo ordine neoliberale.
Questa politica come trasformazione paziente accanita e lungimirante delle condizioni date tanto in politica interna quanto in politica internazionale -, questa politica come forza democratica capace di intercettare in un movimento progressivo gli interessi e i bisogni pratici e morali dei cittadini, fu ciò che Berlinguer portò all’incontro con Moro; il quale preferiva parlare, anziché di «compromesso storico», di «terza fase» della politica democristiana: l’incontro con i comunisti, dopo quello con i centristi e con i socialisti. Non era proprio la stessa cosa: c’erano in gioco due progetti egemonici ciascuno però animato dall’acuta percezione che la Repubblica declinante doveva essere rifondata dal nuovo incontro fra i vecchi fondatori, che la storia aveva separato e che ora la politica tornava a unire.
Non ci fu né compromesso storico, né terza fase: la collaborazione fra Dc e Pci non avvenne sotto il segno dell’energia politica ma dell’emergenza, non del rinnovamento ma di un’unità nazionale difensiva, per salvare le libere istituzioni dalla minaccia terroristica. I molti poteri che volevano conservare lo status quo interno e globale, o che progettavano di uscire dalla crisi della democrazia uscendo dalla democrazia, vollero colpire Moro, vedendovi il portatore di un disegno troppo ardito, sovversivo. E con una Dc priva di Moro, impegnata in una cieca gestione del potere, Berlinguer non poté certo pensare al compromesso storico: la sua proposta dell’alternanza fu obbligata, ma non trovò la sponda socialista. E fu la fine, per il Pci, rimasto senza alleati e senza prospettive, e per l’intero sistema politico italiano.
Il molto che il tempo ha allontanato da noi, di questa temperie politica, non è recuperabile. Leninismo e democrazia non coesistono, il progresso non è una certezza, la polemica contro il consumismo, oggi, è quanto meno fuori fase; l’assetto del mondo è cambiato, e con esso il sistema politico italiano. Ma resta, di Berlinguer, una grande lezione di metodo: la politica come attività alta e potente, fondata su un pensiero forte e duttile; come strategia a lungo termine, cioè come progetto di trasformazione che ha radici in una lettura (concreta e di lungo periodo) della società e della storia; che non rimuove parzialità e contraddizioni in narrazioni edulcoranti o in proteste scomposte ma ne fa una leva per il cambiamento; che ha come centro il partito, come riferimento lo Stato, come orizzonte l’Europa; una politica popolare che sa unire le grandi tradizioni della storia d’Italia per contribuire con responsabilità e coraggio allo sviluppo della società e della democrazia, nella direzione di vero umanesimo del lavoro. Se poi questo metodo e questi obiettivi sembrano oggi lontani e improponibili, spaesati e velleitari, è un problema non di Berlinguer, ma nostro.

l’Unità 9.6.13
Turismo sessuale
Sono 80mila gli italiani a caccia di minorenni
Il molestatore adesso ha tra i 20 e i 40 anni. Cerca rapporti sessuali con i minori per provare una «esperienza nuova»
Massima allerta per i Mondiali di calcio in Brasile
Come in Sudafrica si teme che il racket inizi a reclutare tra i giovanissimi
di Ludovica Jona


IN QUESTO MOMENTO È IL KENYA IL PAESE PIÙ BATTUTO DAGLI ORCHI
E CAMBIA ANCHE IL PROFILO PSICOLOGICO DEL PEDOFILO

Ha dell’incredibile l’ultimo episodio di cronaca che riguarda il turismo sessuale: Un italiano, già arrestato in un centro turistico della Thailandia per aver adescato alcuni minorenni, è riuscito a portare in Italia un bambino thailandese, registrandolo all’ambasciata italiana a Bangkok come suo figlio, concepito con una donna locale. Nei giorni scorsi l’uomo, un sessantenne di Lecco, è stato farmato dai carabinieri su ordinanza di custodia cautelare da parte degli investigatori del Nucleo investigativo di Milano, nell’ambito di un’indagine sulla pedo-pornografia online e su segnalazione di un altro ragazzo che ha raccontato di avere da lui subito molestie quando era minorenne. Il bambino, portato in Italia all’età di tre anni, oggi ne ha dieci. Anche se al momento non sono state provate violenze su di lui, il piccolo è cresciuto con un uomo, accusato di reati sessuali, che per lo Stato italiano è suo padre.
«Se la documentazione rilasciata dall’ambasciata comprova che il bambino è suo figlio, il Tribunale dei Minori non interviene con accertamenti, a meno che, come è avvenuto in questo caso, vi siano atti giuridici sospetti, o segnalazioni, della scuola o dei servizi sociali», commenta Marco Scarpati, presidente di Ecpat Italia, l’associazione che fa capo al network internazionale che lotta contro lo sfruttamento sessuale dei minori Ecpat (End Child Prostitution and Trafficking).
Secondo una stima realizzata da Ecpat Italia, gli italiani negli ultimi anni sono arrivati ai primi posti come numero di turisti a scopo sessuale: un record mostruoso.
Circa 80.000 risultano i nostri connazionali che ogni anno si spostano in Repubblica Dominicana, Colombia e Brasile, Est Europa e Sud Est Asiatico per avere sesso con minorenni. In Kenya, in particolare, oggi siamo in assoluto i più presenti: il 18% degli stranieri che «comprano» minorenni locali, secondo l’Unicef. Significa circa 15.000 bambine che vivono tra Malindi, Bombasa, Kalifi e Diani. In genere hanno tra i 12 e i 14 anni. Ma possono averne anche 9, 7 o 5. «Non dobbiamo credere che il turista del sesso, che poi può essere anche una persona che viaggia per affari, sia per forza un pedofilo», sottolinea Scarpati. «Spesso avviene che persone che nel proprio Paese hanno un comportamento sessuale nella norma, ovvero diretto verso altri adulti, all’estero modificano la loro condotta cercando sesso con minori», denuncia l’avvocato presidente di Ecpat Italia.FUORI DAGLI SCHEMI
Secondo uno studio condotto dall’Università di Parma e coordinato da Ecpat, l’età del turista sessuale si è abbassata e non corrisponde più esclusivamente al vecchio cliché del pedofilo classico: Le persone che cercano all’estero sesso con minori hanno tra i 20 e i 40 anni, possono essere sposati o single, maschi o femmine (anche se la maggioranza sono maschi), ricchi o turisti con budget limitato. Possono avere un alto livello socio-economico o provenire da un ambiente svantaggiato. Nella maggioranza dei casi lo fanno per provare un’emozione nuova, in modo occasionale (60%), oppure abituale (35%), i pedofili, ovvero coloro che vengono attratti esclusivamente da bambini sotto i 12 anni, sono circa il 5%.
«Spesso ci chiamano parenti e amici di persone che vanno all’estero con lo scopo di avere rapporti sessuali con minorenni racconta Scarpatiè accaduto che ci abbiano contattato addirittura madri, chiedendoci consiglio su cosa fare». Ecpat in questi casi offre consulenza e informazioni, avvertendo che, secondo la legge 269/98 contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, l’italiano che commette il reato di abuso sessuale all’estero, è colpevole anche in patria.
Ecpat offre anche consulenza rispetto ai servizi sociali presenti sul territorio nazionale e nel caso di reati commessi, segnala alle forze di polizia. Per contrastare l’orrore dello sfruttamento sessuale sui minori, le segnalazioni fatte in Italia sono importanti come quelle che possono essere compiute anche all’estero, dalla Cambogia al Brasile, al Kenya: «Di fronte a casi sospetti di adulti stranieri con bambini locali, in bar o alberghi, si deve allertare subito una organizzazione che è attiva sul territorio e che è quindi in contatto con la polizia locale».
Soprattutto in questa stagione che anticipa l’estate, «è fondamentale il lavoro di sensibilizzazione», dice Scarpati. Ed è per questo che Ecpat Italia in collaborazione con Fiab onlus (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) ha organizzato la Marcia cicloturistica «Un altro viaggio è possibile» contro il turismo sessuale a danno di minori che si terrà oggi in 29 le città italiane. Si tratta di una campagna realizzata in previsione dei Mondiali di calcio in Brasile, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni e la società civile in vista del grande evento sportivo, che si terrà nell’estate del 2014.
In Brasile è enorme il numero di minori sfruttati nel mercato del sesso, circa 500mila, ma si prevede che crescerà in occasione dell’evento, perché «l racket della prostituzione si organizza per aggiungere nuove ragazze continua Scarpati -. In Sudafrica nel 2012, furono trasportati bambini da tutti i territori circostanti, per accontentare la richiesta». Per evitare che altri abusi si consumino è importante mettere al lavoro le polizie di tutto il mondo, ma anche lanciare l’al-
larme, già ora: «Partire in largo anticipo significa poter informare al meglio i possibili turisti in partenza, Chiediamo che i Mondiali siano ad impatto zero per i bambini», conclude il presidente. Se avete voglia di pedalare anche voi ecco, Regione dopo Regione, le località che hanno aderito alla campagna di sensibilizzazione: Abruzzo (Giulianova, Vasto); Campania: (Napoli, Benevento, Salerno, Pompei); Emilia Romagna: (Bologna, Rimini, Ravenna); Lazio: (Roma, Ostia); Lombardia: (Brescia, Cremona); Piemonte: (Torino, Caselette); Puglia: (Brindisi, Bari, Foggia, Lecce). Sicilia: (Catania, Caltagirone, Gela, Palermo, Piazza Armerina, Ragusa, Siracusa); Toscana: (Grosseto); Veneto: (Padova, Vicenza).

l’Unità 9.6.13
La denuncia di Meter
Pedopornografia, un giro anche su Facebook


Nuovo colpo alla pedopornografia online da parte dell’Associazione Meter Onlus: segnalati 440 profili di Facebook con materiale riguardante minori coinvolti in atteggiamenti sessuali espliciti. Profili da tutto il mondo che invitavano a caricare immagini di bambini tra i 12 e i 14 anni, pagine che promuovevano la pedofilia come «normale». È la prima volta che viene effettuato uno screening durato poco più di un ora sulla piattaforma Facebook e che volontari di Meter (italiani, argentini e brasiliani) dell’Osmocop (Osservatorio Mondiale contro la pedofilia di Meter) che in questo modo hanno potuto scoprire una rete molto ramificata di soggetti che producono e divulgano materiale pedopornografico.

l’Unità 9.6.13ù
Politica ebraica, di  Hannah Arendt, Cronopio
In difesa della libertà
Un intervento di Arendt mai pubblicato in Italia sui diritti dei popoli e la Realpolitik
«Da quasi cinquant’anni una generazione dopo l’altra manifesta apertamente
il proprio disprezzo per le idee “astratte” e la propria ammirazione per la bestialità “concreta”»


SE LA TERRIBILE CATASTROFE DELL’EBRAISMO EUROPEO E LE DIFFICILI E TRISTI BATTAGLIE PER COSTITUIRE UN ESERCITO E OTTENERE IL RICONOSCIMENTO DEGLI EBREI come alleati delle Nazioni Unite faranno finalmente capire a noi ebrei che facciamo parte dei popoli oppressi di questa terra, nonostante tutti i nostri milionari e i nostri filantropi, e che i nostri Rothschild hanno più chance di diventare mendicanti o venditori ambulanti di quante ne abbiano i nostri mendicanti e venditori ambulanti di diventare dei Rothschild, se insomma questa guerra ci politicizzerà ficcandoci finalmente in testa che la lotta per la libertà è tutt’uno con la lotta per l’esistenza, allora e soltanto allora, i nostri nipoti potranno commemorare i morti senza vergogna e con un lutto vivo.
I popoli che non fanno la storia ma la subiscono soltanto tendono a considerarsi le vittime di un accadere superiore, insensato, inumano; tendono a starsene immobili aspettando miracoli che non arriveranno mai. Se nel corso di questa guerra non ci sveglieremo da questa apatia, non ci sarà più posto per noi in un mondo futuro; forse i nostri nemici non riusciranno a sterminarci completamente, ma ciò che resterà di noi sarà poco più di un cadavere vivente.
Gli ideali politici dei popoli oppressi possono essere soltanto la libertà e la giustizia; la loro forma organizzativa può essere soltanto democratica. Che quegli ideali e quella forma appaiano oggi compromessi nel mondo della nostra cultura e che siano stati trascinati nel fango da una bohème priva di radici è uno degli ostacoli più seri alla costruzione di una politica ebraica – e non solo ebraica. Da quasi cinquant’anni una generazione dopo l’altra manifesta apertamente il proprio disprezzo per le idee «astratte» e la propria ammirazione per la bestialità «concreta».
Libertà e giustizia sono considerati concetti per vecchi decrepiti; l’égalité-liberté-fraternité della Rivoluzione francese testimonia impotenza e mancanza di volontà di potenza, nel migliore dei casi è un pretesto per arricchirsi. La cosiddetta giovane generazione, la cui età oscilla fra i venti e i settant’anni, pretende dai propri uomini politici la scaltrezza ma non la convinzione, l’opportunismo ma non i principi, la propaganda ma non la politica. Ricava la sua visione del mondo da una vaga fiducia nei grandi uomini, nel sangue e nel suolo, negli oroscopi.
La politica che nasce da questo tipo di mentalità viene chiamata Realpolitik. L’uomo d’affari finito in politica, convinto che la politica sia soltanto una gigantesca transazione economica con gigantesche occasioni di perdite e guadagni, e il gangster che dichiara «quando sento la parola cultura, tiro fuori la pistola» sono le sue figure centrali. Solo quando le idee «astratte» sono state sostituite da speculazioni bancarie «concrete», il diritto «astratto» ha potuto cedere facilmente il passo al revolver concreto. Ciò che sembrava una ribellione nei confronti di tutti i valori morali ha prodotto una sorta di idiozia collettiva: chiunque sia in grado di vedere oltre la punta del proprio naso viene considerato uno che vaneggia. Ciò che sembrava una ribellione contro lo spirito ha prodotto l’abiezione organizzata: la violenza vale più del diritto.
L’annientamento della democrazia e l’idolatria di forme di organizzazione dittatoriali sono particolarmente nefasti per la politica dei popoli piccoli e oppressi che non hanno altra risorsa che l’impegno convinto di ciascun singolo. Tale politica non può in alcun modo fare a meno di quella convinzione democratica che Clemenceau, al momento dell’affaire Dreyfus, aveva così definito: la vicenda di uno è la vicenda di tutti. Nella dittatura l’individuo non è politicizzato – nonostante tutte le uniformi che gli fanno indossare – perché in essa il singolo ha perduto la coscienza di una responsabilità che oltrepassi la conservazione della propria vita. In una colonna di SA in marcia si può uccidere chiunque per «ordine superiore» senza che la colonna interrompa la sua marcia. Ognuno è pronto a marciare sul cadavere del compagno. E se l’opportunismo degli uomini d’affari ha atomizzato e soffocato popoli e nazioni in una politica di cricche e famiglie, il dispotismo spinge l’atomizzazione fino a quella logica conclusione nella quale i figli denunciano i propri padri, i vicini e gli amici per ottenere vantaggi o sicurezza personale.
La politica ebraica, sempre che esista, viene fatta quasi interamente da persone cresciute in questa idolatria opportunistica del successo e del potere – e che per giunta non sono nemmeno diventate potenti! Il loro orrore per i principi, la loro paura di puntare sulla cosa sbagliata, la loro ammirazione per i potenti della terra e la riluttanza a mobilitare le forze del proprio popolo hanno reso impossibile che si costruisse un esercito ebraico.
Se, nell’immane confusione in cui si trova attualmente il mondo intero, non si vuole rischiare niente, si può star certi di perdere tutto. Il tempo dei compromessi è finito. Chi oggi pensa ancora di poter vivere in ginocchio, imparerà a proprie spese che è meglio vivere e morire in piedi. Non abbiamo bisogno di opportunisti della Realpolitik, ma certo non abbiamo neanche bisogno di «Führer». La nostra difficoltà sta nel fatto che miriadi di organizzazioni e di burocrati riescono a impedire che i democratici radicali parlino al popolo; e il nostro popolo, sempre che non stia già dietro a un filo spinato, è talmente demoralizzato da centocinquant’anni di dominio filantropico che ricomincia a fatica a comprendere la lingua della libertà e della giustizia.

Una raccolta di saggi e interventi che costituiscono la testimonianza della genesi del pensiero politico di Hannah Arendt durante l’esilio parigino e i primi anni del soggiorno in America. Tra i temi trattati: giovani e questione ebraica, e l’interessante analisi sulla preistoria dell’antisemitismo in Germania

l’Unità 9.6.13
Intervista a Massimo Monaci
Giù il sipario
Dal Nord al Sud decine di teatri rischiano la chiusura
Eliseo, Arena del Sole, Archivolto... L’elenco è lungo La crisi sta mettendo in ginocchio sia gli spazi privati che quelli pubblici
Quello che manca è una buona politica
di Francesca De Sanctis


VIDEO, PETIZIONI, LETTERE, PERFINO PROTESTE SUI TETTI. I PICCOLI E GRANDI TEATRI D’ITALIA, PUBBLICI E PRIVATI, METTONO IN CAMPO TUTTI GLI STRUMENTI CHE HANNO A DISPOSIZIONE PER DIRE «NO ALLA CHIUSURA». La crisi sta ammazzando anche loro. Basta fare un rapido giro d’Italia, dal nord al sud, per capire che in molti casi è già andato in scena l’ultimo spettacolo. Se n’è accorto pure Maurizio Crozza, che di recente, in un monologo sulla crisi della cultura aveva denunciato: «Centinaia di teatri stanno chiudendo in tutta Italia!». Spesso quelli in difficoltà sono spazi storici, con anni e anni di esperienza alle spalle: parliamo dell’Arena del Sole Bologna, dell’Archivolto di Genova, dell’Eliseo di Roma, e poi il Sancarluccio di Napoli, il Teatro Bellini e lo Stabile di Catania... L’elenco è molto più lungo e fa una certa impressione. Gestire gli spazi è sempre più faticoso, dunque. Così succede anche che molte sale romane chiedano un affitto da pagare alle compagnie ospiti. Di conseguenza, per gli attori che non lavorano nella capitale, trovare una «piazza» a Roma è diventata un’impresa ardua. E questo vale non solo per le giovani compagnie, ma anche per i grandi nomi. Il problema serio è che il tutto si traduce in un abbassamento del livello qualitativo dell’offerta, che solo in parte riesce ad essere compensato dai mille e vitali festival che pur autoproducendosi ce la mettono davvero tutta per presentare programmi originali.
Che la crisi avesse messo in ginocchio un po’ tutto il settore culturale, in verità ce ne eravamo accorti già da tempo. E i dati Siae dello scorso anno, relativi al settore spettacoli, ce lo avevano confermato. Dallo studio di oltre 4 milioni di spettacoli censiti dalla Siae nel 2011 emerge una generale diminuzione della spesa al botteghino (-0,98%) e della spesa del pubblico (-1,90%). In particolare, per quanto riguarda l’attività teatrale, si registra una flessione in tutti gli indicatori: l’offerta di spettacoli segna un -3,1%, gli ingressi -2,31%, la spesa al botteghino -4,73%, la spesa del pubblico -4,29% e il volume d’affari -2,74%.
Ma come si è arrivati a queste cifre? E quando è iniziata la crisi? «È cominciata senza dubbio con i tagli al Fus e poi è andata avanti senza tregua» ci dice Massimo Monaci, presidente di Agis Lazio (l’associazione di categoria che annovera tra i propri associati 80 teatri, 45 compagnie di prosa e 18 istituzioni musicali e 70 parchi divertimento in tutto il Lazio) nonché direttore artistico dello storico Teatro Eliseo di Roma, purtroppo in forte difficoltà, tanto da aver lanciato un appello per la ricerca di nuovi soci e sponsor. «È vero dice Monaci l’Eliseo cerca nuovi soci. Il periodo è molto complicato, dunque lo è anche per noi. Ci sono due livelli secondo me da considerare in questa crisi: il primo è la crisi generale che il nostro Paese sta attraversando da circa un anno e mezzo, il secondo riguarda il nostro sistema teatrale, che ormai non regge più perché gli enti istituzionali (Comune, Provincia, Regione), che un tempo facevano rete, ora non hanno la forza, il peso, la volontà di intervenire. Tutto questo per il Teatro Eliseo, come per tanti altri teatri privati, si è tradotto nel venir meno di tanti sponsor, per noi essenziali. L’80% del budget dei privati è fatto proprio di sponsor e ricavi del botteghino, gli Stabili pubblici, invece, soffrono della lentezza e dei tagli agli enti locali. Inoltre, arriva ora la notizia che il Fus per il 2013 subirà un nuovo taglio per oltre il 5%!».
A tutto questo va anche aggiunto il calo dei ricavi, «dovuto non a una diminuzione del pubblico pagante precisa Monaci -, che è rimasto sostanzialmente lo stesso, ma ad un aumento di biglietti last minute, offerti a prezzi ridotti». E a Roma e nel Lazio, a differenza di altre regioni come la Lombardia (dove tuttavia la scorsa estate ha chiuso i battenti un sala storica come il Teatro Smeraldo) più attrezzata dal punto di vista legislativo, la situazione è sempre meno gestibile a causa dell’alto numero di teatri presenti. «Qui non c’è una legge quadro per lo spettacolo dal vivo, dunque è la giungla. Attraverso l’Agis abbiamo cercato di fare rete, ma se non c’è un interlocutore reale diventa difficile».
Ed ecco che la politica entra in gioco: «la politica deve decidere che la cultura è anche rilancio economico. Le modalità di assegnazione delle risorse economiche sono poco trasparenti. A Milano esistono convenzioni con parametri chiari, in Puglia c’è una legge regionale... Ci vorrebbe una buona politica, segnali concreti però».
È quello che chiede anche Giorgio Gallione, direttore artistico con Pina Rando del Teatro dell’Archivolto di Genova, in serio pericolo a causa dei tagli ai contributi pubblici: «Chiediamo al Ministero un adeguamenti del contributo annuale e al Comune di Genova e alla Regione Liguria di adoperarsi affinché il problema possa essere risolto». Intanto si raccolgono firme on-line: «Abbiamo superato le 5mila firme sul sito internet, alle quali vanno aggiunte altre duemila raccolte su carta. Questi numeri dimostrano che non siamo soli e ci fa molto piacere, significa che in questi anni abbiamo fatto un buon lavoro, purtroppo però capita spesso di dover lanciare degli allarmi. Anni fa ormai abbiamo restaurato il Teatro Gustavo Modena e la Sala Mercato, ora abbiamo bisogno di aiuti altrimenti è difficile andare avanti con una programmazione di qualità. Abbiamo avviato dei contratti di solidarietà per circa 20 persone, ma non molliamo, perché questo teatro è un presidio culturale in una zona difficile». Tra i primi firmatari dell’appello ci sono, tanto per citarne alcuni, Stefano Benni, Claudio Bisio, Stefano Bollani, Lella Costa, Maurizio Crozza, Angela Finocchiaro, Neri Marcorè, Marina Massironi, Michele Serra...
Ma appelli, raccolte firme, allarmi generali purtroppo da soli non bastano. Di certo il neo ministro Bray dovrà occuparsi, fra le tante questioni urgenti, anche del settore spettacoli, partendo magari proprio dal disegno di legge sul teatro che era stato presentato a fine 2012. Prevedeva, tra le altre cose, che gli Stabili dovessero lavorare di più sul territorio, che non ci potesse essere un mandato se non triennale e rinnovabile una sola volta, che i finanziamenti fossero triennali, che le direzioni artistiche dovessero essere date a organizzatori e non a registi che fanno solo i propri spettacoli. Insomma, potrebbe essere un buon punto di partenza per ricominciare a far vivere e a dare speranza a chi da anni lavora con passione e professionalità.

il Fatto e The Independent 9.6.13
La versione di Fred OTash
“I due Kennedy? Per loro sono solo un pezzo di carne”
Da Marilyn a Rock Hudson: nell’archivio dello “spione di Hollywood” liti ed eccessi delle star e dei potenti
di Tim Walker


Fred Otash, nato nel 1922 e morto nel 1992, è stato un personaggio leggendario della Hollywood del periodo d’oro. Investigatore privato, ma anche scrittore e attore, indagò su quasi tutti i divi dello schermo e fino alla sua morte custodì gelosamente nel suo privatissimo archivio i segreti di molte star. Fred Otash, “Private Eye” per eccellenza, ha anche ispirato due dei tre romanzi della trilogia Underworld USA di James Ellroy e il personaggio di Jake Gittesh, interpretato da un superbo Jack Nicholson, nel film Chinatown diretto nel 1974 da Roman Polanski. Per oltre venti anni sul contenuto dell’archivio di Otash, già agente della polizia di Los Angeles prima di mettersi in proprio, solo qualche indiscrezione e molte voci incontrollate. Qualche giorno fa invece lo Hollywood Reporter, con straordinario tempismo viste le polemiche in corso sulla violazione della privacy degli utenti di Internet autorizzata da Obama, ha pubblicato una serie di sensazionali rivelazioni che riguardano divi dello schermo e uomini politici. Per tutti gli anni ’50 e fino a metà degli anni ’60, Otash fu il terrore di Hollywood e condusse indagini sulle attrici e gli attori più famosi e su diversi uomini politici. “Posso lavorare per chiunque tranne che per i comunisti e sono disposto a fare qualunque cosa meno che uccidere”, era solito dire. Ma lo Hollywood Reporter come è entrato in possesso dell’archivio cui tutti hanno dato la caccia per due decenni? I documenti sono stati consegnati al giornale dalla figlia di Otash che intendeva semplicemente dimostrare che il padre non era il farabutto che molti dipingevano, ma un investigatore privato serio e affidabile che aveva fatto il suo mestiere con scrupolo e riservatezza.
L’attore, l’omosessualità e le farfalle: “Lo sanno tutti che rimorchiavi ragazzetti al bar”
Nel gennaio del 1958 la moglie di Rock Hudson, Phyllis Gates, affrontò il famoso rubacuori pretendendo che gli dicesse se era veramente omosessuale come sembrava essere risultato da un esame cui si era sottoposto nello studio di uno psicoanalista. Non contenta delle sue spiegazioni, Phyllis Gates si rivolse e Fred Otash e gli affidò l’incarico di registrare tutte le loro conversazioni che ora sono di dominio pubblico. Ecco cosa si dissero i due dopo che Rock Hudson si era sottoposto al test delle macchie di Rorschach. Phyllis: “Mi hai detto di aver visto nelle macchie un mucchio di farfalle e serpenti. Secondo il mio analista le farfalle sono segno di femminilità e i serpenti rappresentano il pene maschile. Non ti condanno, ma penso che se vuoi risolvere i tuoi problemi devi prima accettarli”. Rock Hudson: “come debbo dirti che non sono omosessuale?! ”. Phyllis: “Lo sanno tutti che rimorchiavi ragazzetti per la strada subito dopo il nostro matrimonio e che hai continuato a farlo pensando che il matrimonio fosse un’ottima copertura”. “Non ho mai rimorchiato ragazzi per la strada”, replica risentito Hudson. “E non ho mai rimorchiato ragazzi nei bar. Può essere capitato che qualche volta abbia dato un passaggio a qualcuno”. Tre mesi dopo questa conversazione Phyllis Gates chiedeva il divorzio. I rapporti di Otash erano sempre molto rigorosi e dettagliati oltre che corredati da alcune, spesso acutissime, osservazioni personali sul carattere e la personalità di coloro che sottoponeva ad indagine. Tra le sue “vittime” e/o clienti figurano tutti i bei nomi della Mecca del cinema: da Frank Sinatra a Judy Garland, da Rock Hudson a Bette Davis, da Errol Flynn a Lana Turner, da James Dean a Marilyn Monroe. Per non dimenticare Esther Williams scomparsa pochi giorni fa che era tutt’altro che la “brava ragazza americana della porta accanto”. Otash, che tutti chiamavano “Mr. O”, morì nel 1992 a 70 anni di età dopo aver completato un libro dal titolo Marilyn, Kennedy e io. Il manoscritto, che non è mai stato pubblicato, faceva parte dell’archivio custodito dalla figlia. Nel libro Otash sostiene di aver piazzato decine e decine di microfoni in casa di Marilyn su incarico – almeno così sembra – del magnate repubblicano Howard Hughes che voleva rovinare la reputazione dei fratelli Kennedy. Otash sostiene anche di aver registrato una furibonda litigata tra Marilyn, Bobby Kennedy e suo cognato Peter Lawford avvenuta poco prima della morte dell’attrice. “Vengo passata da uno all’altro come un pezzo di carne, disse Marilyn con voce alterata ai due uomini. Marilyn urlava a squarciagola rinfacciando a Bobby le promesse che i Kennedy le avevano fatto. I due cercavano di calmarla. Ma invano. La scena si è svolta in camera da letto di Marilyn. Poi non ho sentito più nulla”, ha detto Otash prima di morire. A cosa alludeva? Quanto alla famosa registrazione di Marilyn e John Kennedy, Otash ne aveva già parlato a Vanity Fair prima del 1992: “Non ho intenzione di dilungarmi su lamenti e gemiti. Stavano facendo l’amore; questo è chiaro ed è anche tutto. Posso solo dire che FBI e CIA erano in possesso di numerosi nastri”. Prima di morire l’investigatore disse che Peter Lawford gli aveva chiesto di distruggere tutto il materiale in suo possesso sui fratelli Kennedy. Ovviamente Otash non lo fece.
“Psicofarmaci anche nel materasso”: la bonifica della stanza di Judy Garland
Un’altra coppia finita sotto la lente di ingrandimento del famoso “private Eye” fu quella formata da Judy Garland e da suo marito Sid. Nel 1963 Judy Garland, all’epoca all’apice della fama, chiese a Otash di proteggerla nel corso del divorzio da Sid Luft che si presentava alquanto contrastato. “Ne aveva bisogno”, commentò Otash. “Judy era continuamente sotto l’effetto della droga e dell’alcol”. Ma Otash fece di più: “Scovai tutte le bottiglie nascoste in casa e le feci sparire. Poi mi misi a caccia delle pillole. Non avete idea dell’abilità con cui una donna riesce a nascondere sonniferi e tranquillanti. C’erano psicofarmaci di ogni genere. Erano nascosti un po’ dappertutto: sotto il materasso, nello scarico del lavandino, nelle tubature della doccia. Buttai tutto nel water”. Quando Judy Garland se ne accorse chiese una spiegazione e Otash rispose: “Mi creda, alcol e psicofarmaci sono le migliori prove che suo marito potrebbe portare in tribunale”. Siamo appena agli inizi. Dall’archivio usciranno moltissime altre rivelazioni. “Colleen, la figlia di Otash, ed io volevamo solo ristabilire la verità che, in fin dei conti, è sempre più interessante dell’invenzione”, ha detto Manfred Westphal, un amico di famiglia, allo Hollywood Reporter.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 9.6.13
Neuro letteratura
Nuove tecniche evidenziano le parti del cervello che leggendo, generano giudizi estetici
Perché tali indagini hanno tanto fascino?
C’è sudditanza degli umanisti agli scienziati?
di Paolo Legrenzi


Per capire dove si dirige l’attenzione quando si apre un libro, prima si registravano i movimenti oculari Ora la risonanza magnetica permette di fare molto di più Le stesse ricerche si praticano per la visione di immagini Robert Musil si sofferma sulla predilezione di alcuni “nell’attribuire i moti dell’animo alle secrezioni interne e la bellezza alla buona digestione” Ci sono i maniaci di queste indagini, ma sono stati filosofi e scrittori a dar loro man forte

Natalie Phillips, giovane ricercatrice dell’Università del Michigan, sta per pubblicare una serie di ricerche che potremmo definire di neuro-letteratura. Durante la lettura di passi tratti da romanzi, come Mansfield Park di Jane Austen (1814), Phillips osserva le modificazioni del cervello dei lettori utilizzando le tecniche di risonanza magnetica. Il cervello è un insieme di aree specializzate e molte di queste aree sono attive mentre leggiamo, da quelle che recuperano i significati delle parole a quelle corrispondenti alle emozioni del lettore.
Natalie Phillips non è la sola a usare questa nuova tecnica che ci permette di esaminare le aree cerebrali responsabili delle più diverse attività, come leggere, far di conto, risolvere problemi, guardare figure o quadri o, più prosaicamente, avvisi pubblicitari. È una tecnologia duttile, da cui sono scaturiti campi d’indagine come la neuro- estetica, la neuro-etica e tanti altri neuro+, tra cui la neuro- letteratura.
Per capire dove si dirige l’attenzione mentre si legge un testo o si guarda un’immagine, tradizionalmente ci si limitava a registrare i movimenti oculari. Le tecniche di risonanza magnetica ci permettono di fare di più. Dato che conosciamo le specializzazioni delle varie zone del cervello, possiamo indirettamente misurare le variazioni dei livelli di attenzione e di coinvolgimento emotivo durante la lettura.
Altre università statunitensi, come Vanderbilt e Duke, stanno allestendo centri specializzati non solo di neuro-letteratura, ma più in generale di neuro- humanities.
Il principio è sempre lo stesso, sia che si legga un libro o che si guardi un quadro. Quando una determinata funzione mentale è in atto, le aree cerebrali corrispondenti sono attive. Se stiamo cercando un amico in un ambiente affollato, si attivano le aree cerebrali che presiedono all’orientamento dell’attenzione nello spazio (sono situate nel lobo parietale) e quelle che presiedono al riconoscimento dei volti noti (sono situate nel lobo temporale). Lo stesso potete fare con la visione d’immagini. Semir Zeki, dell’University College di Londra, dapprima ha studiato i correlati neurali delle caratteristiche percettive dei quadri, poi è passato a ricerche più vicine a quelle di neuro-letteratura. Per esempio, Zeki ha mostrato 300 dipinti e ha registrato le aree cerebrali coinvolte nei giudizi di bellezza o di bruttezza.
Nel numero della rivista Nation uscito il 27 maggio, Alissa Quart fa un bilancio critico di queste “avventure nelle neurohumanities” interpellando storici dell’arte e letterati. Todd Cronan della Emory University, insieme ad altri, si lamenta della subalternità degli umanisti agli scienziati. C’è del vero in queste critiche. Molte di queste rassegne, e Nation non fa eccezione, sono arricchite da immagini colorate che inducono a credere che gli scienziati siano davvero capaci di vedere il cervello al lavoro. In realtà i colori sono un artificio grafico. Gli scienziati si limitano a registrare le differenze segnalate dalla diversa risonanza nel campo magnetico degli atomi di idrogeno presenti nel flusso sanguigno. Conoscere queste differenze è decisivo per individuare quello giusto tra più modelli di una stessa funzione mentale. È meno utile per sapere se il passo di un romanzo provoca paura oppure no. Ve ne accorgete leggendolo. Inoltre la paura può dipendere dalla lettura di quel passo, ma anche dalle circostanze e dagli stati d’animo del lettore.
Come mai, allora, le neonate discipline del tipo neuro+, come la recente neuro-letteratura, piacciono tanto? Questa è un’altra storia. Carlo Umiltà ed io l’abbiamo raccontata in Neuromania (2009), un libretto che cerca di difenderci dal fascino dei neuro-riduzionismi. Va però precisato, a difesa degli scienziati, che il fascino eccessivo non è colpa loro. L’origine è antica, e la troviamo già ben formulata da Robert Musil, nel capitolo 72 del romanzo-saggio L’uomo senza qualità (1930). Musil si sofferma a lungo sulla «predilezione per le definizioni materiali alle quali è stato come cavato il cuore … attribuire i moti dell’animo alle secrezioni interne e la bellezza alla buona digestione … trovano sempre una specie di preconcetto favorevole». Questo preconcetto serpeggia anche nella letteratura popolare. Per il celebre investigatore Nero Wolfe, creato da Rex Stout, l’innamoramento si origina, à la Darwin, dagli «attributi delle giovani donne che costituiscono il principale appiglio della nostra specie nella sua coraggiosa lotta contro la minaccia degli insetti» (Prisoner’s Base, 1952). Ci sono scienziati neuromaniaci, ma sono stati filosofi e letterati a dar loro man forte, creando il gusto per le definizioni alle quali è stato come cavato il cuore. E tuttavia è troppo facile fermarsi qui, sorridere di fronte all’ingenuità di ricerche rese possibili dalla risonanza magnetica. Lo stesso Robert Musil alludeva con ironia al preconcetto volto a ricondurre i nostri stati d’animo alle condizioni del corpo. E Rex Stout vuol divertirci quando il suo investigatore dichiara che l’uomo non è altro che una tra le tante specie animali in lotta. È troppo facile dileggiare i tentativi di concentrare nel cervello l’origine di fenomeni apparentemente non riducibili ai segnali del flusso sanguigno. Finisce così che non ci accorgiamo che l’antico sogno dei naturalisti ha preso oggi nuova forza perché questa “concentrazione” della mente nel cervello si alimenta sempre più della materializzazione della mente all’esterno del corpo. L’estensione della mente è resa possibile da protesi tecnologiche, smartphone e reti di computer. L’interazione tra cervelli naturali e artificiali si deposita in miriadi di documenti, che ne sono messaggeri e testimoni. La mente umana, concentrandosi nel cervello, si frantuma in localizzazioni neurali indipendenti. E tuttavia, in parallelo, si espande nel mondo tramite le nuove protesi.
La prospettiva naturalista si afferma perché permette una sempre migliore comprensione dei meccanismi interni del cervello e delle sue estensioni. Se esaminate le opere dell’arte contemporanea non dal punto di vista dei fruitori, ma da quello dei creatori, esse vi appariranno come i prodotti di un sorprendente laboratorio, dove le immagini mentali vengono concentrate, frammentate ed estese prima di tradursi in oggetti o eventi che stupiscono lo spettatore e, poi, lo fanno pensare. Vi invito a visitare la Biennale che si è aperta questa settimana nella città da cui scrivo.

Repubblica 9.6.13
Ma Joyce e l’Amleto non si apprezzano scrutando lobi parietali
di Giuseppe Montesano


Capire il legame tra il fisiologico e lo psicologico è utile Però la descrizione della mente non spiega una metafora Signori che volete applicare le neuroscienze alla letteratura, vi prego, siate cauti, perché quando si scava il terreno iper-complesso di un sonetto di Shakespeare o di una pagina dell’Ulisse di Joyce, servono vanghe magnetiche agili e pensanti, e memorie le quali ricordino che la neuro- letteratura non sta al di fuori del labirinto della letteratura, ma va a tentoni in quello stesso labirinto. Cosa che sapeva Aleksandr Lurija, autore di Le funzioni corticali superiori nell’uomo e di The working brain, lui che con Vygotskij inventò la neuropsicologia ma trovò necessario scrivere romanzi neuropsichici come il meraviglioso Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla o come il drammatico Un mondo perduto e ritrovato: vale a dire che Lurija, per poter esprimere alcune “verità” scientifiche, raccontò delle vite vere in forma di romanzi. Del resto il signor Freud di Vienna aveva scritto già romanzi sublimi e intricati come L’uomo dei lupi o Il piccolo Hans: i casi clinici dove la psicanalisi, per giungere più a fondo nella mente, rinunciava ai concetti scientifici e usava la letteratura. E se i Maestri antichi vi potranno apparire troppo lontani e superati, cari neuro-studiosi letterari, allora basterà che vi rivolgiate a Maestri viventi come Oliver Sacks, alle storie degne di Edgar Allan Poe che troverete in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello e a quelle lisergiche che vi colpiranno in quel romanzone epico alla Kerouac che è Risvegli. Poi, resi cartesianamente dubbiosi da queste letture, converrà che diate un’occhiata all’Etica di Spinoza e all’Etica Nicomachea di Aristotele, in modo da accorgervi definitivamente che i vostri studi sono una branca all’interno di una mappa più ampia: quella della Letteratura Universale. Dite che la risonanza magnetica studia la zona corticale che regola l’orientamento? Ottimo! Ma quando qualcuno legge l’Amleto di Shakespeare e capisce che in Danimarca tutto è “rotten”, marcio, a pezzi, sfasciato, di cosa dà conto la risonanza magnetica alla parola “Danimarca”? Della funzione che si attiva quando devo cercare se via Turati è o no a Copenhagen? No, la mente che si attiva con l’Amletosi orienta nel tempo metaforico, e da lì nello spazio storico, e da lì in quello immaginativo: la Danimarca del principe Amleto si trova dovunque c’è marcio e sfascio, non nella Danimarca geografica. La letteratura opera attraverso il linguaggio, che è storico e culturale, e ha un grado di complessità massimo: si può applicarle la risonanza magnetica, ma purtroppo con essa non si scopre niente che scrittori e lettori attenti non sappiano molto meglio e molto più in profondità. Per non dire del fatto che la letteratura opera con categorie come la menzogna e la metafora, decisamente più complicate di ciò che sappiamo dei lobi parietali e frontali. Arrivare a toccare il legame tra il fisiologico e lo psicologico è essenziale per la conoscenza, lo sapeva già Spinoza quattro secoli fa, ed è ciò che tenta di fare la neurobiologia, forse la più importante delle scienze che studiano il cervello: ma la neurobiologia sa bene che la descrizione che dà del funzionamento mentale è uno schema riduttivo, e che persino la chimica del cervello adoperata dalla moderna pratica psichiatrica è un po’ come la pratica terapeutica per i primitivi: vi diamo questo psicofarmaco perché funziona sul sintomo, ma non sappiamo da cosa derivi il sintomo, dato che ignoriamo quasi tutto della mente e delle sue passioni.
Forse alla neuro-letteratura non resta che rassegnarsi a leggere con impegno Gli elisir del Diavolo di Hoffmann per sapere come un uomo possa essere insieme buono e malvagio, e a studiare Delitto e castigo di Dostoevskij per capire come funziona il senso etico. La logica matematica ci parla degli insiemi, e spiega che un insieme più vasto ha dentro si sé vari sotto-insiemi, ma che il sotto-insieme non può contenere l’insieme: la logica ci sussurra che è l’insieme Uomo senza qualità a contenere dentro di sé il sotto-sotto-insieme neuro-letteratura, e che è l’insieme Don Giovanni di Mozart a contenere il sotto-sottoinsieme neuro-estetica musicale, ed è l’insieme Simposio di Platone a contenere il sotto-sotto-insieme neuro-erotica. È chiaro e distinto, come direbbe Cartesio, no? Ma se per gli scienziati si spalancano baratri, per gli scrittori si spalancano le porte di una letteratura neuro-letteraria, con personaggi fantastici, abitatori di laboratori che si combattono per il predominio di un’idea come gli eresiarchi in un racconto di Borges. A quale nuovo Proust toccherà in sorte scrivere Alla ricerca del neuro- studioso di letteratura perduto? E chi sarà il nuovo Philip K. Dick che ci offrirà Ma i neuro-psicoletterati sognano risonanze magnetiche?

Repubblica 9.6.13
La malinconica solitudine del Cane di Goya che anticipa le tenebre delle “pinturas negras”
di Melania Mazzucco


È il muso di un cane, che affiora su un piano inclinato e si staglia contro uno spazio vuoto, color ocra chiaro. Nient’altro: il quadro è tutto qui. Eppure quel cane, confinato nella parte bassa del rettangolo, perso nell’immensità dorata che lo circonda e sembra sul punto di inghiottirlo, comunica una vertigine quasi metafisica. Il pittore usa una tavolozza povera, di pochi colori, e ha eliminato tutto il superfluo. Non esiste paesaggio, né realtà riconoscibile. Nessun dettaglio, quasi un’astrazione. L’immagine cattura una porzione esigua del visibile. È impossibile dire cosa stia accadendo al cane o dove si trovi. Se la macchia bruna che s’impenna verso destra e nasconde il suo corpo sia l’acqua fangosa di un fiume o la terra che lo seppellisce in una frana o la sabbia di una duna nel mondo ridotto a un deserto. Ma che qualcosa stia accadendo lo rivelano le pupille spaventate, il naso umido e nero, e le orecchie pelose, rese sommariamente con strisce di biacca. Gli occhi rivolti verso l’alto, il cane cerca un segno, o aspetta qualcosa. Che però non si materializza. Il cane è disperatamente solo. Questo quadro non ha titolo. Charles Yriarte, il primo studioso che lo citò, e che dedicò a Francisco Goya una monografia nel 1867, lo descrisse come “il cane che lotta contro la corrente”. Altri lo definirono il “cane semisommerso dalla sabbia”. Goya non vi fece mai cenno, e quando partì per Bordeaux lo abbandonò: apparteneva a un passato che intendeva lasciarsi alle spalle. Ci vuole un magnifico coraggio per andare in esilio a settantotto anni e per voler ancora creare, nonostante la fine del mondo in cui sei vissuto e che ti ha dato la gloria. Goya dipinse il Cane quando lasciò definitivamente Madrid e la corte dei Borboni che aveva servito per decenni, e si ritirò in una casa vicino al ponte di Segovia, sulla riva del fiume Manzanares. La casa aveva un nome profetico: Quinta del Sordo, poiché sordo era il precedente proprietario. E sordo era anche Goya, da quasi trent’anni, in seguito a una malattia. Goya vi si trasferì nel 1819, e quasi vi morì, perché fu colpito da un’altra gravissima malattia (immortalata nello scioccante Autoritratto col medico Arrieta). Quando si riprese, dopo il 1820, decorò le pareti della casa con quattordici pitture murali, dipinte a olio sull’intonaco secco. Sono note come pinturas negras, sia perché prevale il colore nero, sia perché le immagini stesse hanno a che fare con la tenebra, la malinconia saturnina, il lato oscuro del mondo: processioni notturne, stregonerie, congiure, duelli mortali. Quelle pitture - giocate su registri che variano dalla satira all’allucinata poesia - Goya non intendeva venderle. Le dipinse per sé, ignorando il gusto della sua epoca, nella solitudine e nella libertà più totale. La sarabanda di figure inquietanti che evocò in un rito privato, quasi una cerimonia segreta di cui era sacerdote e destinatario, apre uno squarcio su ciò che sarebbe stata la storia dell’arte occidentale se i pittori avessero dipinto per sé e non per i committenti. Goya proiettò sulle pareti di casa sua una sorta di lanterna magica della psiche. Le immagini, ricche di riferimenti culturali, trasudano angosce personali e collettive e si offrono a molteplici interpretazioni. Ma qualunque cosa significassero per lui, Goya portò con sé la chiave per decifrarle. A tutt’oggi, restano un enigma.
Il Cane si trovava al piano superiore, a destra della porta. Se Goya aveva pensato a un itinerario dello sguardo, allora era l’ultima immagine che si donava prima di lasciare la stanza. Quella testa protesa nel vuoto dell’universo era dunque il senso del percorso stesso. La Quinta del Sordo fu ereditata dal nipote, e in seguito venduta. Le pitture murali deperivano e il banchiere francese che ne era divenuto proprietario, il barone Émile d’Erlangen, decise di traslarle su tela. Le presentò al pubblico per la prima volta all’Expo di Parigi del 1878: suscitarono spavento e stupore. Nessuno le acquistò e il barone si convinse a donarle al Prado, dove sono ancora. In previsione dello strappo, ordinò delle fotografie. Studiate recentemente, esse mostrano che le pitture non erano esattamente come ora le vediamo, e che alcuni particolari sono andati perduti. Nel Cane, per esempio, quella che oggi è solo un’ombra verticale, sul lato destro, era leggibile come una rupe e, in alto, si riconoscevano due uccelli. Dunque quel chiarore luminoso era un cielo, ed erano gli uccelli che il cane stava guardando. Ma ciò non toglie all’immagine la sua ambiguità. Perché se si può avere l’impressione che il cane stia annegando, può essere vero anche il contrario. Cioè che il cane stia invece emergendo. Che stia lottando contro una corrente contraria per salvare la sua vita. Una vita insignificante e fragile come quella di un misero cane: e però degna, orgogliosa e irriducibile. Alla fine, per me non c’è niente di più drammatico del cane di Goya. Un essere sconfitto, abbandonato, rimasto solo, senza branco e senza compagni, lotta contro una forza superiore, che lo artiglia, lo trascina, sta per annientarlo. Alza il muso, aspetta un aiuto che non arriverà, eppure non si arrende. È debole, destinato alla sconfitta. E però resiste. Se si può dipingere un autoritratto dissimile, è questo. Nessuno meglio del “cane nella corrente” incarna lo spirito di un pittore come Goya. Un uomo libero che volle provare e conoscere tutto il fasto della corte e la miseria del popolo, l’erotismo e la violenza, la ragione dell’illuminismo e l’irrazionalità, il sogno della democrazia e della libertà e il fanatismo nazionalista. Che ogni illusione vide perire distrutta dalla storia. Quando recise il contatto col mondo, rimase solo con la pittura. A questa rimase fedele fino all’ultimo giorno. Il cane, nella pittura occidentale, è simbolo di fedeltà. Il cane di Goya è una creatura che solo accidentalmente ha la forma di un cane. Rappresenta invece chi lo guarda. Ognuno - solo, perduto - davanti alla morte: all’ignoto.

Francisco Goya: il Cane (1820-1823) Madrid Museo del Prado

Corriere La Lettura 9.6.13
Lombroso è Vivo e Lotta insieme a Noi: Chiedetelo all'Fbi
di Emilia Musumeci


«Mi chiamavano allora l'alienista della stadera. Ebbene da qui a qualche secolo del mio povero nome non resterà forse altra traccia che questa». Questo paventava nel 1886 Cesare Lombroso, acclamato da allievi e seguaci, deriso da colleghi e detrattori. Così come rapida fu la sua ascesa, altrettanto repentinamente calò l'oblio sulle sue teorie dopo la morte. Eppure oggi lo spettro di Lombroso sembra riapparire in controluce, come in una seduta spiritica di fine Ottocento. Basti pensare alle nuove teorie biologiche del crimine elaborate da neuroscienziati e genetisti e basate sul funzionamento del cervello e sull'importanza dei fattori ereditari e genetici nel comportamento antisociale e violento. Adrian Raine, psicologo e criminologo di fama internazionale, non sembra farne mistero tanto da far riferimento alla ricerca lombrosiana nel suo ultimo lavoro, intitolato, non a caso, The anatomy of violence. The biological roots of crime («la Lettura», 12 maggio). Lo stesso dicasi per le ricerche del neuroscienziato Kent Kiehl, tese a dimostrare la diversità dei cervelli dei criminali psicopatici per l'impossibilità di provare empatia che richiamano i folli morali ottocenteschi incapaci di provare emozioni. Tuttavia, se Lombroso è ricordato Oltreoceano come il padre della moderna criminologia, in Italia il riferimento al medico veronese assume una connotazione negativa, come si evince dall'aggettivo lombrosiano — appunto — usato per indicare, in maniera semplicistica, la possibilità di identificare un delinquente dal suo volto. Lombroso è stato accusato altresì di ogni tipo di nefandezza: dalla diffusione di pregiudizi nei confronti del popolo meridionale e della donna fino alle politiche di eugenetica del regime nazionalsocialista.
In realtà, malgrado gli errori scientifici, il lascito di Lombroso è ben più profondo, avendo sovvertito l'approccio agli studi penalistici: grazie al metodo positivista, lo studio astratto del reato è soppiantato dallo studio diretto ed empirico del criminale in tutte le sue sfumature. Non solo il suo volto e la sua conformazione cranica ma anche il suo modo di esprimersi attraverso il linguaggio verbale (il gergo) o corporeo (i tatuaggi) e persino i suoi manufatti.
La spiegazione lombrosiana del crimine dunque non è cristallizzata in una teoria ma è un quadro composito in cui le cause scatenanti dell'agire criminoso (dall'atavismo all'epilessia), pur avendo un substrato soprattutto biologico, si intrecciano con i fattori socio-culturali, dando vita a una spiegazione multifattoriale del crimine, simile a quella adottata dall'Fbi americano a partire dagli anni Settanta del Novecento, base del moderno criminal profiling. Ma l'odierna neurocriminologia e le ricerche lombrosiane, a dispetto dell'ovvia diversità di contesti e strumenti, sono accomunate soprattutto dagli stessi interrogativi di fondo, ancora senza risposta: l'uomo è predisposto dalla nascita alla violenza? Che ruolo ha il cervello nelle nostre decisioni morali? Siamo davvero liberi di scegliere tra bene e male?

Corriere La Lettura 9.6.13
Don Giovanni e lo stalking di Elvira
Femminicidi, scambi di coppia, turismo sessuale, persecuzioni. Quei grandi romanzi borghesi che sono i libretti d'opera sapevano anticipare e descrivere i drammi di oggi
di Pierluigi Panza


Non saranno state in francese le ultime parole tra Chiara e Cristian, Alessandra e Marco, Denise e Matteo… ma nella solita, livida notte, il dialogo a due sarà stato scandito dai palpiti furiosi di un Don José «de noantri». Lui che dice: «J'implore... je supplie». Lei, sul sedile accanto, che gli risponde sprezzante: «Pourquoi t'occuper encore/ d'un coeur qui n'est plus à toi!». Accecato, le rivolge la domanda delle domande: «Tu ne m'aimes donc plus?». Fatale la risposta: «Non! Je ne t'aime plus».
La maglietta fina di Baglioni s'intinge del sangue della Carmen di Bizet. Poi le sirene, i familiari, i giornalisti. E così, a pensarci bene, scopri che femminicidi e casi di stalking sono storie di secoli fa, raccontate — e capite meglio di ora — in quei grandi romanzi borghesi che sono stati i libretti d'opera. Per «sentire» il dolore per i 124 omicidi del 2012 chiamati femminicidi, e per capire i non nuovi fenomeni del cosiddetto stalking e del disperato turismo sessuale, più che i reportage o le valutazioni à-la-carte dei commentatori tv può essere utile la lettura estetica del melodramma.
Sul Don Giovanni di Tirso de Molina / Lorenzo Da Ponte (musicato da Mozart) si è scritto di tutto e Kierkegaard docet: è l'incarnazione dell'uomo che antepone l'estetica all'etica. È vero, solo in Spagna di donne ne ha avute «mille e tre»; ma nell'opera è un perseguitato, vittima dello stalking delle donne abbandonate. Dunque, a vederla con gli occhi di oggi (si può liberamente sedurre e abbandonare, ma non far venire sensi di colpa in chi ha lasciato) lui è un perseguitato. Anna, Elvira e Zerlina non si danno pace e non pensano un solo istante di ricorrere alla magistratura: armano Don Ottavio e Masetto per cercare di «uccidere» il seduttore. Si travestono, tendono agguati, vanno alle sue feste per rovinargliele. Le donne si vogliono vendicare: non tanto dell'omicidio del Commendatore avvenuto a duello, quanto dell'esser state sedotte e abbandonate (oggi avviene il contrario, per alcuni ragazzi). Elvira è una stalker, diciamo: lo delegittima pubblicamente come si farebbe con telefonate e pagine Facebook. Mette in atto comportamenti che costringono Don Giovanni a «mutare le proprie abitudini di vita» (questo è lo specifico del reato di stalking). A dire il vero, anche chi è abbandonato deve mutare le proprie abitudini: ma mentre questo interessa l'opera (dove le donne, in fondo, sono vittime), non interessa le discussioni contemporanee. E i reati contro Don Giovanni e il servo Leporello non si limitano allo stalking! No. Masetto e la sua baby gang con tanto di bastoni in mano minacciano, ingiuriano, commettono i reati di lesioni e tentato omicidio (premeditato).
La disillusa arguzia di uomini di mondo come i poeti Da Ponte e Giovan Battista Casti ci offre un antidoto ai tradimenti e agli esiti imprevedibili degli scambi di coppia: il disincanto. I libretti di Così fan tutte e di La grotta di Trofonio invitano chi è stato tradito per colpa della sua assenza, oppure per sconforto o stato confusionale del partner, al perdono immediato. Le coppie si possono scomporre e ricomporre, calmi! E anche Le nozze di Figaro lanciano un monito e invitano a una soluzione. Il monito è per i capifamiglia che mettono nel mirino badanti e babysitter giovani e bellocce come la serva Susanna; la soluzione è per le agiate signore che, come la contessa, possono forse ritrovare «i bei momenti» attraverso la comprensione.
Dell'esito di Carmen abbiamo detto sopra. La seducente sigaraia non coniuga libertà con responsabilità. La sua bussola è solo la rivoluzionaria liberté: «Io sono mia». Passa il brigadiere in piazza e va bene; poi passa il torero nella brigantesca locanda di Lillas Pastia e si cambia cavaliere. Non capisce che il Domingo di turno ha lasciato per lei la lagnosa Micaela, una mamma moribonda e la guarnigione? Attenta! Se Don José perde tutto, farle perdere la vita (e di rimando la sua) non è tanto. Lui è in completa dispnea; non riesce a respirare senza lei. Non affrontarlo in piazza, non andare «a ridere» di lui dal toreador! Mérimée e il libretto di Meilhac e Halévy invitano a ritenere che a questo punto non si debba arrivare. E il genio, quasi medianico, di Mario Praz vedeva in questo scontro tra «il diabolico fascino della donna» e «la violenza della passione che fa perdere all'uomo ogni riguardo» una specie di vertice della «proiezione fantastica di un bisogno sessuale».
La morte, ovviamente, è il pegno dell'amore: se uno straniero vuole prendersi la sdegnosa principessa (Turandot) bisogna sciogliere i tre enigmi. Se si sbaglia, il boia di Pechino taglia la testa all'aspirante innamorato. Sì, è vero: Turandot lo fa per vendicarsi di una vecchia progenitrice che era stata rinchiusa in una torre da uno straniero. Lo fa per vendicare le donne, insomma. Ma quando Calaf svela gli enigmi, perché non si vuol concedere? Saranno il padre, la comunità di Pechino a spingerla nell'accettazione che diventa amore.
E già che siamo a Puccini, che scoperta sarebbe il turismo sessuale a Pattaya e dintorni? Reportage su reportage guardoni… Non è già, la Madama Butterfly, una storia di turismo sessuale? Il tenente Pinkerton ha sposato la giovane farfalla al modo giapponese, che è un po' il modo della fidanzatina delle vacanze. Il turismo sessuale è un'espressione — vecchia come il mondo — attraverso la quale i cittadini dei Paesi economicamente dominanti esercitano una sopraffazione. Meno bieca oggi, in quanto manifesta senza illusioni, mentre ai suoi tempi, Butterfly non capiva cosa stesse avvenendo e attendeva l'amore in «un fil di fumo».
Se si ripartisse da una lettura estetica e psicologica, anziché sempre giudiziaria, si potrebbe attenuare, se non la ferinità dei sentimenti, almeno il conformismo dei commenti. E capire che nessun assassino nel melodramma è mai stato frenato da leggi di genere o dall'inasprimento delle pene. Ciò deve allertarci: la pena non svolge grande azione dissuasiva in chi uccide per sopravvivere al male che lo ossessiona! Forse che Otello o Don José non sappiano a cosa vanno incontro? Solo il sostegno di una comunità a chi è solo e disperato (e i protagonisti degli attuali omicidi sono sempre «soli e disperati»), l'amicizia di uomini e donne già passati dalla violenza o dall'abbandono, il preventivo intervento psicologico sulla dipendenza dall'ossessione può salvare dalle tragedie. E anche il perdono. Almeno questo pare suggerire all'oggi quel grande romanzo romantico che sono i melodrammi.

Corriere La Lettura 9.6.13
La questione tedesca è chiusa. Quasi
A colloquio con Angelo Bolaffi, che illustra l'emancipazione della Germania: la caduta del Muro come spartiacque, l'occidentalizzazione, Auschwitz come mito fondante
di Paolo Valentino


«Quando Thomas Mann formulò la famosa drammatica alternativa tra una Germania europea e un'Europa tedesca, aveva memoria delle tragedie della Storia... Oggi è possibile ipotizzare che l'Europa si germanizza proprio e nella misura in cui la Germania si è completamente e convintamente europeizzata. Liquidare la questione tedesca significa infatti costruire finalmente l'Europa. E la Germania ha la forza, l'interesse e soprattutto la necessità storica e morale di farlo». Si chiude così il libro che Angelo Bolaffi, filosofo della politica e tra i pochi germanisti italiani di fascia alta, pubblica per Donzelli. Cuore tedesco è un viaggio colto, avvincente e rigoroso dentro un triangolo in pieno corto circuito — il modello Germania, l'Italia e la crisi europea — che non nasconde l'ambizione di colmare una lacuna più che evidente, oggi, nel nostro Paese: non si tratta tanto di amare la Germania, spiega l'autore a «la Lettura», quanto «di capirla e conoscerla, forse cominciando a vedere se è possibile pensare alla Storia d'Europa dal e non contro il punto di vista tedesco».
L'evento intorno al quale ruota la narrazione del libro è la caduta del Muro di Berlino, «spartiacque spirituale, equivalente geopolitico della presa della Bastiglia, rappresentazione simbolica e fisica del crollo di tutti i presupposti storici e strategici dell'integrazione europea». Piaccia o no, l'Europa aveva un padre e una madre: il problema tedesco e la minaccia sovietica. Sparito il Muro, venne meno la sua placenta.
Bolaffi ricostruisce il panico di cui furono preda i leader politici europei: Thatcher, Mitterrand, Andreotti, ognuno a suo modo, cercarono di ostacolare l'ipotesi dell'unità tedesca. «Fu uno scherzo della Storia, imprevisto e non voluto. C'erano due strade: costruire l'Europa politica, come proponevano i tedeschi. Oppure, quella indicata in un secondo tempo da Mitterrand, che riprese il Piano Delors e indicò la prospettiva della moneta unica: l'idea era di togliere alla Germania la sua particolare bomba atomica, il marco. Kohl, nonostante il parere contrario di tutti gli economisti, disse che non si poteva tradire il mandato europeista e dette il suo accordo. Funzionò all'inizio. Ci si illuse che l'euro fosse da solo la garanzia della stabilità tedesca portata a tutta l'Europa. Ma senza sovrano, senza pagatore di ultima istanza e senza unione politica, non poteva funzionare nel lungo periodo. Oggi, quando la cancelliera Merkel dice che bisogna correggere gli errori iniziali dell'euro, dice una cosa vera».
Il che non assolve del tutto la classe politica berlinese. «La tesi del libro è che il modello socio-economico tedesco non è solo quello socialmente più inclusivo ed equo, ma anche quello più efficace dal punto di vista produttivo. E per questo ha vinto, mettendo la Germania in una condizione egemonica. Ma a questa condizione oggettiva non ha corrisposto una cultura di governo dell'egemonia da parte delle élite tedesche. Soprattutto negli ultimi anni, sono state riluttanti: in effetti non hanno deciso di assumersi in pieno le responsabilità imposte dalla Storia, dalla collocazione geopolitica e dall'economia. Detto questo, la cancelliera Merkel è stata l'unico leader europeo a visitare tutti i 27 Paesi dell'Unione, pur sapendo che in alcune capitali sarebbe stata accolta malissimo. È la dimostrazione che si rende conto della responsabilità egemonica della Germania. E parlo di egemonia in senso gramsciano, quindi benevola, gentile, che organizza il consenso e non impone agli altri la propria volontà».
Bolaffi individua una delle cause della crisi attuale nell'abbandono della Germania da parte dell'Italia. È un'analisi intrigante, che indica il nostro Paese, insieme all'Urss, come uno dei due perdenti della Guerra Fredda. Nel 1989, Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna erano grosso modo sullo stesso livello dal punto di vista della potenza politico-economica. Caduto il Muro l'equilibrio strategico si è allontanato dal Reno, spostandosi verso l'Elba, isolando Francia e Italia. La Germania, anche sul piano demografico, è diventata il Paese decisivo. Francia e Gran Bretagna hanno compensato in qualche modo con l'antico status di potenze vincitrici, il seggio al Consiglio di Sicurezza e l'arma nucleare. Mentre l'Italia si è ritrovata su una faglia geopolitica in pieno movimento sussultorio.
Avremmo potuto gestire diversamente quella fase? «Sì, se avessimo capito ed elaborato cosa significava. Ricordo che firmammo Maastricht, un accordo che vincolava le generazioni future, senza un dibattito parlamentare, invano invocato dal solo Marco Pannella. Guido Carli commentò "non sanno cos'hanno fatto". In quel momento rinunciammo ai pilastri del sistema italiano, governi deboli e moneta debole. Il modello vincente fu quello tedesco, governi stabili e moneta stabile. Ci abbiamo provato dieci anni dopo, col governo Prodi-Ciampi, facendo uno sforzo sovrumano per entrare subito nell'euro. Qualcuno fece cadere Prodi e lì abbiamo perso non solo la Guerra Fredda, ma anche la battaglia con noi stessi. Poi venne il decennio berlusconiano, che non solo ha snaturato la tradizione italiana dell'europeismo, ma ha sprecato un tempo prezioso nel quale, grazie all'euro, prima che scoppiasse la crisi dei mutui in America e il contagio si estendesse all'Europa, avevamo avuto gratis uno spread ai minimi storici. In quegli anni, mentre la Germania si ristrutturava grazie all'Agenda 2010, l'Italia dilapidò quel tesoretto per una politica di sperpero pubblico».
Bolaffi pensa tuttavia che siamo ancora in tempo per aprire una nuova pagina. Non crede, al contrario del ministro degli Esteri, Emma Bonino, che proprio la drammaticità della situazione rilanci l'ipotesi del federalismo. Obietta che «i popoli, non i governi hanno già detto di no alla Costituzione europea, il più generoso tentativo di darsi una struttura federale». E critica l'idea che «l'unica istanza democratica sia il Parlamento europeo isolato da quelli nazionali». Sostiene invece che «bisogna costruire una legittimità nuova, fondata su quest'ultimi». Gli Stati Uniti d'Europa, a differenza di quanto succede in America ed è scritto sul dollaro, ex pluribus unum, dovranno rimanere ex pluribus plures, salvaguardando la loro incomparabile ricchezza di culture e di linguaggi».
Tornando a Thomas Mann e alla dicotomia di cui il libro celebra il superamento, perché questa Germania è diversa? «Perché è post tedesca. Peter Sloterdijk parla di metanoia, di auto-ravvedimento della Germania. C'è stata una occidentalizzazione politica, iniziata da Adenauer. Poi c'è stata l'occidentalizzazione dello spirito tedesco, avvenuta attraverso la riscoperta della colpa tedesca della Shoah, i conti col passato innescati dalla generazione del Sessantotto. Auschwitz è diventato il mito fondante della Repubblica Federale. Sulla base di questo ravvedimento, che è stato spirituale, politico, storico, oggi la Germania è un Paese più europeo degli altri».

Corriere La Lettura 9.6.13
Dentro il puzzle di Epicuro c'è la Natura
di Armando Torno


Proviamo a leggere questa frase: «Non si generò, dunque, un solo cosmo soltanto, neppure...». Il testo del papiro si tronca. Le parole sono di Epicuro, il maestro del Giardino, uno dei grandi filosofi greci vissuto tre secoli prima di Cristo. Il passo riportato sarebbe piaciuto ad altri pensatori, più o meno a lui vicini. Anassagora, per esempio, che era morto oltre un centinaio di anni prima, riteneva la Luna abitata; non avrebbe però trovato d'accordo Platone e Aristotele, che credevano nell'unicità della Terra. Sarà il latino Lucrezio, due secoli più tardi, nel De rerum natura, a parlare di nuovo dell'esistenza di «altri mondi in altre parti dell'Universo, con tipi differenti di uomini e animali». Queste possibili altre Terre non troveranno requie; del resto il dibattito su eventuali abitanti, rintracciabili oltre il nostro pianeta, continua. Giordano Bruno credeva in un universo infinito e Bernard de Fontenelle in un'opera fascinosa del tardo Seicento, Conversazioni sulla pluralità dei mondi, asseriva la presenza di altre civiltà su Mercurio o Venere. Torniamo al papiro. Il frammento di Epicuro ricordato è tratto dal II libro Sulla natura, l'opera capitale del maestro, citata da Diogene Laerzio al primo posto tra le migliori. Doveva essere in 37 libri. Ci è giunta solo parzialmente. Nella Biblioteca ercolanese della Villa dei Papiri ci sarebbero stati almeno due esemplari di questo II libro. Quasi sicuramente vi erano in essa testi integrali o parziali di tutta l'opera. E ora Giuliana Leone, dopo un lavoro immenso, costatole «pezzi di vita», ha pubblicato di Epicuro Sulla natura. Libro II. È un'edizione critica ben più ampia e continua delle precedenti, basata sui due testimoni — attualmente smembrati in diverse parti — presenti nella celebre biblioteca di Ercolano. C'è anche una proposta multimediale. È una nuova e più completa ipotesi di ricostruzione. Né in essa mancano conferme rispetto ad altri libri dell'opera. Nella chiusa del II libro, seguendo uno schema che non tutti i critici accettano (il lavoro di Leone ricorda altre ipotesi e offre materiale per tentarne ulteriori), Epicuro afferma di aver dato dimostrazione dell'esistenza di eidola, della velocità della loro generazione, che è uguale a quella del pensiero; del loro movimento di traslazione nello spazio che avviene con insuperabile velocità. Già, eidola. Il termine verrà tradotto dai latini con idola, simulacra; noi potremmo renderlo con idoli o meglio immagini. La loro dottrina, esposta nell'antichità da Democrito, sosteneva che la sensazione e il pensiero nascono appunto da immagini corporee provenienti dall'esterno. La scuola di Epicuro la fece propria. Se ne occuperà ancora Francis Bacon tra il XVI e il XVII secolo per denunciare gli ostacoli che esse (o essi) pongono alla conoscenza. Ma questa è un'altra storia. Per ora osserviamo che il libro di Bibliopolis aiuta a meglio comprendere il filosofo greco. Integra e richiama il lavoro fondamentale che Graziano Arrighetti lasciò nella raccolta, edita nella compianta collana gialla di Einaudi nel 1973, delle Opere di Epicuro.

Corriere La Lettura 9.6.13
È lo squallore che mi commuove
Le stanze delle meraviglie, ecco i tesori del conte
Arte, fotografia, architettura, design, mercato
«Narro la dissoluzione e la fatica di vivere. Cerco mio padre» Paolo Sorrentino racconta «La grande bellezza». Cioè Roma
di Alessandro Piperno


«Dopo un libro del genere all'autore non resta che scegliere tra due opzioni: o spararsi in bocca o stendersi ai piedi della croce».
È una battuta di Barbey d'Aurevilly. La scrisse dopo aver letto À rebours di Huysmans. La propongo a Paolo Sorrentino. Anzi, gliela sbatto in faccia. Gli chiedo se non si possa dire altrettanto di lui, e soprattutto di Jep Gambardella, l'insuperabile eroe de La grande bellezza.
«Be'» sorride Sorrentino «per me non saprei, ma sono certo che per Jep esista una terza via».
Il colloquio avviene a poche ore dalla partenza di Sorrentino per Cannes: non so ancora che La grande bellezza non otterrà premi; né che, en passant, sbancherà i botteghini italiani; tanto meno so (come potrei?) che la controversa ricezione del film da parte della cosiddetta stampa ufficiale sarà motivo di accigliate riflessioni sullo stato di salute della militanza critica in Italia.
Tale verginità rende ancor più semplice attenermi a un vecchio credo: fidati solo dei sensi, dei tuoi sbadigli e di radicati pregiudizi estetici.
«La terza via di Jep è lasciare tutto così com'è» dice Sorrentino. «Del resto il film finisce con Jep che scrive la prima frase del nuovo romanzo. Non sapremo mai se riuscirà a scrivere anche la seconda, la terza, la quarta, e così via».
Tu che dici, ce la farà?
«Direi di no. Se lo conosco non ce la farà. Jep mi somiglia: è un dissipatore. Anche a me capita di trovare un buon incipit e di fermarmi lì. Ho i cassetti pieni di incipit promettenti».
Quindi anche la riscoperta della vocazione di Jep è l'ennesima patacca?
«Forse sì. Lui non vuole rompere con quel mondo, con quella vita. E Dio solo sa se lo capisco».
Anche tu sei invischiato con la mondanità?
«Parlavo del film. Del mondo del film. Di solito riesco a staccarmi abbastanza presto da un film. Stavolta no. Se mi chiedessi che film mi piacerebbe girare adesso, ti direi: il sequel de La grande bellezza. Che so, Jep molla il romanzo, torna a Roma e ricomincia da dove ha lasciato».
Uno dei segni della sopraggiunta maturità artistica è la perdita di interesse per la trama: l'ellissi è la più ambiziosa delle figure retoriche.
«In me la ricerca ossessiva di un plot è quasi evaporata. E pensare che quando ho cominciato questo mestiere ne ero così ossessionato. Ora sento il plot come un ostacolo. Prima di dirottare l'idea su un film avevo pensato di fare di Jep l'eroe di un libro. Nei romanzi (almeno per come li concepisco) si può essere molto più liberi. Solo facendo i primi sopralluoghi, le immagini hanno preso il sopravvento sui personaggi e sull'intreccio».
La grande bellezza è un titolo ironico?
«Mi dispiacerebbe se qualcuno lo intendesse così. Non volevo puntare il dito sulle volgarità di un certo milieu! Volevo raccontare la fatica di vivere. Tanto più nel privilegio, nell'agiatezza. Ecco, diciamo che la fatica di vivere, questo titanico tirare a campare, ha una sua bellezza. Persino nel vuoto che attanaglia i personaggi, e che in fondo attanaglia anche me, c'è bellezza. Alla fine mi piacerebbe che passasse questo piccolo pensierino: che la vita è una gran fatica ma che non si può dire che non sia bella».
Mi torna in mente la scena del film in cui il marito della scrittrice progressista nuota in piscina contro una corrente artificiale: nuota, si sbraccia, e non avanza di un centimetro.
Non è un caso se nel film ricorre una famosa battuta di Flaubert. Erano gli anni febbrili della Bovary quando il giovane Gustave confessò all'amante il desiderio di scrivere un «romanzo sul niente». Avrebbe dovuto attendere un'altra quindicina d'anni, e alla fine quel romanzo l'avrebbe scritto: L'educazione sentimentale. Quello sì che è un romanzo sul niente. La storia di una non-vita. Un libro stagnante (come le nostre vite), che ancora oggi fatica a trovare un pubblico: non fa piacere a nessuno immedesimarsi in un individuo così sprovvisto di qualità e ambizioni, che frequenta solo persone come lui.
«Il cazzeggio è sottovalutato» chiosa Sorrentino ridendo.
Sei un nichilista?
«Credo di avere una tendenza nichilista che cerco di tenere a bada. In questo film c'è molto di me. Finisco con l'annoiarmi di tutto ciò che è profondo. Distrarmi è una delle cose che mi viene meglio. Quando sono solo e lavoro riesco a concentrarmi, ma nei rapporti sociali sono vago e superficiale. Temo l'intimità del rapporto a due. La triangolazione mi consente di scappare».
Eppure sei uno stacanovista.
«È come se incanalassi tutte le risorse nel lavoro. Il dopolavoro, per me, è solo calcio e cazzeggio. Idealmente sono rimasto seduto sul muretto sotto casa su cui passavo le giornate da ragazzo. Lì nessuno si prendeva seriamente. Anzi la sola occupazione era trovare un nuovo modo per prendersi gioco dell'altro. E neanche in famiglia eravamo troppo seriosi. Media borghesia. Un padre bancario. Pochi libri. Il cazzeggio era una grande risorsa».
E ora il lavoro ti salva dal cazzeggio?
«O forse il cazzeggio mi salva dal lavoro, chissà...».
E durante il lavoro ti capita di cazzeggiare? «Vorrei farlo di più».
Per esempio?
«Quando scrivo i dialoghi spesso mi vengono in mente calembour demenziali. Mi piacerebbe schiaffarli nei film. Purtroppo, per darmi un tono, tendo a censurarmi. Per questo amo tanto i fratelli Coen. Loro non si censurano. Si abbandonano alle divagazioni. Sono eccitati dalla stupidità e dall'insensatezza».
Vorrei rassicurare Sorrentino: La grande bellezza non è un film magnifico nonostante i suoi difetti. È un film magnifico in virtù dei suoi difetti: squilibri, divagazioni, false partenze, volgarità, avanspettacolo, scorciatoie retoriche, sentimentalismi...
Sei attratto dalla volgarità?
«La parola "volgarità" non mi convince, e non mi piace. Più che altro mi attrae lo squallore. Ogni tanto sono tentato di gettare un occhio giudicante e censorio sulla volgarità, ma questo non avviene mai con lo squallore. Lo squallore mi commuove. Nasconde sempre un dolore, una malinconia. Non c'è niente di amabile nella volgarità tout court, che so, Bossi in canottiera e bretelle. Mentre le scene che mescolano squallore e tristezza m'inteneriscono. Forse perché mi riguardano. Sento che potrei esserne l'ignaro protagonista».
Uno dei colpi di genio de La grande bellezza è che Jep Gambardella, a dispetto delle apparenze e del suo ruolo in società, è un uomo buono, a suo modo premuroso. È come se l'idea della propria miseria lo spingesse a guardare gli altri con misericordia. L'indolenza, la passione nel dissiparsi non sembrano provenire dalla paura del fallimento, bensì dall'intuizione della propria irrilevanza e della gratuità della vita. Come tutti i veri cinici Jep è un sentimentale in pensione. Come tutti i veri moralisti Jep è un immoralista. Ecco perché i sodalizi di Jep sono così memorabili: i duetti mattutini (si fa per dire) con la domestica; gli affettuosi pasti con la direttrice della rivista di gossip per cui Jep lavora; le ciarle insensate con il marito della donna amata; le scorribande notturne con la spogliarellista (una Ferilli in forma magnanesca). Persino prima di umiliare pubblicamente la scrittrice progressista, Jep la mette in guardia almeno un paio di volte (per inciso, si tratta di un monologo che, per intensità e disperazione, non è secondo a quello finale de L'uomo in più). Toni Servillo è il più grande attore italiano vivente perché è capace di questa pietà. Il suo Jeb Gambardella è una specie di Lebowski: uno che sta lì per riscattarci tutti. Da qui l'eloquenza impareggiabile, una sentenziosità degna di Oscar Wilde. Jep parla in nostra vece. Siamo contenti che almeno lui sappia cosa dire.
«Hai presente quando qualcuno ti dice una cosa che ti prende in contropiede? Là per là non sai che rispondere. Poi non fai che ripensarci. Te ne vai a letto tutto incazzato ed ecco che finalmente, a bocce ferme, la battuta arriva. Ti maledici per non averci pensato al momento giusto. Ecco, a me piace mettere in bocca ai miei personaggi la risposta perfetta. Sai perché adoro Céline? Perché lui ha sempre la battuta definitiva. È vero, questo nella vita avviene di rado, ma perché non farlo avvenire al cinema?».
Raddrizzare le gambe storte della vita: una delle ragioni sociali dell'arte. L'arte ti offre la seconda chance che tutti invochiamo. E ti permette di lavorarci su in santa pace.
A giudicare dai protagonisti dei tuoi film direi che te la intendi bene con individui a dir poco ambigui... Da Tony Pisapia, passando per Andreotti fino a Jep Gambardella. Non mi pare che nessuno si segnali per civismo e dirittura morale.
«Quando devo scegliere il protagonista di un film la sua moralità non mi interessa, e neppure la sua fedina penale. Di norma mi interessa chi sa fare veramente bene una cosa».
E Andreotti, cosa sapeva fare?
«La capacità di Andreotti di gestire il potere è, almeno in Italia, tutt'ora ineguagliata. Certe forme di furbizia sono talmente sofisticate da sfiorare il talento e l'intelligenza».
Paolo Sorrentino parla con la stessa cadenza del suo Jep. La «erre» blesa, svogliata e strascicata, mi ricorda un vecchio amico di mio padre, un avvocato napoletano frequentatore indefesso di circoli nautici, ironicamente ribattezzato dai suoi sodali «Il cavaliere del lavoro». Un fancazzista di professione che sembrava uscito da una svolazzante pagina di Ferito a morte. Del resto, che Dudù La Capria sia il santo patrono di Sorrentino lo capimmo dalla prima scena del suo film d'esordio, L'uomo in più, spudoratamente ispirata al famoso incipit di Ferito a morte. E lo si comprende ancor più oggi lasciandosi andare ai molli deliqui de La grande bellezza: più partenopei che romani. La nostalgia struggente del tempo perduto. La sensazione terribile di non essersi goduti fino in fondo tutta la felicità disponibile. Il cuore si gonfia di commozione e non sai nemmeno il perché.
I soffitti di casa Sorrentino sono alti, imponenti. Mi ha accolto nello studio dalle cui finestre si gode uno scorcio di cielo alle prese con un burrascoso maggio romano. La Roma de La grande bellezza è dannunziana, quella de Il piacere: tra Barocco e Neoclassicismo. La Roma fatta apposta per incantare i non-romani.
«Ho provato a fare il contrario di quello che fa Woody Allen nei suoi ultimi film. Lui ha un'immagine preconcetta di una città, costruita su un immaginario cinematografico codificato. Che lui riproduce pedissequamente. Un'analoga accusa mi fu rivolta, soprattutto dai critici americani, per This must be the place. Più di qualcuno lo accostò a Paris, Texas di Wenders. E dire che quando iniziai a girare mi ero detto: non devo fare gli errori di Wenders. Evidentemente sia io che Wenders avevamo visto poca America e troppi film americani. Con Roma no. Almeno di questo sono certo: il mio sguardo su Roma non è viziato dal cinema. Se non da Fellini, naturalmente. Hai presente quando, ne La dolce vita, Mastroianni e la Ekberg si inerpicano sulla scala elicoidale che conduce alle campane della chiesa? Ecco, per me quello è il luogo più misterioso dell'universo».
È per colpa di Fellini allora se nel film ci sono tutti quei prelati? Gli chiedo. Io, ad esempio, sono romano: la mia famiglia, per causa di forza maggiore, è qui da qualche secolo, e ti assicuro che a Roma i preti non ci sono più.
«Ma scherzi?», ride. «Sono ovunque. Proprio ieri ero qua sotto sullo scooter: una decina di preti in bicicletta, con tanto di tonaca e di cappello circolare, ostruivano il passaggio. Una scena degna di De Sica. Vivo da qualche anno in questa città e mi sembra immensa e misteriosa. Ci sono luoghi nel centro storico — chiese, piazzette, vicoli — che, pur essendo antichissimi, sembrano completamente privi di identità, svincolati dal contesto come la lounge di un aeroporto. Non conducono da nessuna parte. Sono disabitati. Non servono a niente e a nessuno. Capisci quanto tutto questo sia eccitante per chi fa cinema! Insomma come vedi il mio sguardo su Roma è provinciale. La parrucchiera del Minnesota in vacanza a Roma in confronto a me è una donna di mondo, una spregiudicata».
Da qui allora il passatismo? Lo sguardo ostinatamente rivolto al passato?
«Sai, mi è rimasta impressa la risposta che diede un grande scrittore (non ricordo più quale) a chi gli chiedeva perché scrivesse libri. "Cerco il padre" fu la risposta. Si tratta di una sintesi perfetta del mio lavoro. È vero, sono un nostalgico. Il presente non mi interessa, non mi smuove. Provo nostalgia per un'epoca che non ho vissuto. Forse perché ho perso mio padre quando avevo solo sedici anni. Tutto quello che faccio è un tentativo di conoscere mio padre nella deprimente consapevolezza che non ce la farò mai».

Corriere La Lettura 9.6.13
L'oppio a Kabul vale 203 dollari al chilo e il grano 43 cent
Cosa coltivereste voi?
di Lorenzo Cremonesi


La notizia non è delle migliori: la produzione di oppio in Afghanistan cresce. Quest'anno il raccolto sarà eccezionale. Nel 2012 un parassita e la siccità avevano penalizzato i contadini. Ma ora le piante sono floride e da ottobre ad aprile ha piovuto e nevicato in continuazione. Una manna per i signori del narcotraffico internazionale. Lo confermano le autorità di Kabul. «Non siamo riusciti a bloccare la coltivazione della droga. Purtroppo ha fallito la Nato, che ora se ne va lasciandoci la patata bollente. Vedremo cosa potranno fare le nostre nuove forze di sicurezza» ammette lo stesso ministro del Commercio, Waifullah Ulhaq Ahady, che abbiamo incontrato nel suo ufficio nella capitale afghana.
Soprattutto lo si legge nero su bianco in un recente rapporto della Unodc (che sta per United Nations Office on Drugs and Crime), l'agenzia delle Nazioni Unite che cerca di studiare e debellare il narcotraffico. Unodc che ammette apertamente il buco nell'acqua. La potente coalizione internazionale che dal 2001 opera in Afghanistan, infatti, se ne andrà entro la fine del 2014 senza aver sostituito in modo significativo i campi di papaveri con grano, zafferano o alberi da frutta, come avevano invece promesso i Paesi donatori nel periodo di esuberante ottimismo seguito alla caduta del regime del Mullah Omar e la fuga di Osama Bin Laden in Pakistan, eventi che risalgono a 12 anni fa. Peggio di Colombia, Bolivia e Perù. L'Afghanistan sta diventando il numero uno tra i narco-Stati nel mondo. Già ora dai suoi campi si ricava il 75 per cento dell'eroina mondiale. E il dato pare destinato a salire di 15 punti, sino a superare il 90 per cento. Male, perché se è vero che la produzione della droga si associa tradizionalmente all'instabilità dei governi, ciò significa che la sovranità dello Stato centrale afghano è destinata a restare minacciata, caduca, in costante pericolo. Secondo il rapporto Unodc, almeno dodici delle 34 province del Paese vedono una netta crescita della produzione. Nelle altre la situazione è questa: sette non fanno registrare mutamenti significativi nei livelli di produzione, 14 sono considerate non produttrici, ma in tre (Balkh, Faryab e Takhar) pare che la coltivazione sia ripresa dopo le sospensioni degli anni scorsi. L'unica regione nella quale il raccolto viene segnalato in evidente diminuzione è quella occidentale di Herat, dove sono acquartierati i circa tremila soldati del contingente italiano. Ma quelle dove invece il fenomeno appare in grande espansione sono soprattutto Kandahar, Helmand, Nangharar, Kunar e Badakshan: non a caso tradizionali roccaforti delle milizie talebane e dove i signorotti della guerra locale ormai da qualche anno sono tornati a imporre la loro autorità a spese del governo di Kabul. Secondo esperti americani citati dal «New York Times», le aree coltivate sarebbero tornate a superare per estensione quelle censite nel 2008, considerato uno degli anni di massima produzione. Da allora i contingenti Nato si erano concentrati nella lotta alla droga. Nel 2010 la cosiddetta surge, la massiccia e capillare presenza delle truppe anglo-americane nel Sud e nell'Est del Paese, parve condurre a risultati concreti. Per la prima volta persino Helmand e Kandahar segnalarono nette diminuzioni nel raccolto. Ma poi gli americani se ne sono andati (assieme ai contingenti più piccoli di britannici e canadesi) e i contadini non hanno saputo resistere alle leggi del profitto: per un chilo di oppio ricevono 203 dollari, contro un dollaro e 25 cent per un chilo di riso e 43 cent per il corrispettivo in grano. Spiega a «la Lettura» il ministro Ahady: «Abbiamo calcolato che il nostro export di droga frutti complessivamente ai contadini tre miliardi di dollari. Tanto, specie se si pensa che l'export nazionale di frutta fresca non supera i 300 milioni e quello di frutta secca 500. In più, visto che è illegale, non pagano tasse. Le loro entrate sono nette. Ma naturalmente i guadagni veri li fanno i grandi narcotrafficanti, che possono spartirsi annualmente un bottino pari a 50 o anche 60 miliardi di dollari».
Soldi facili, dunque, e con investimenti poco rischiosi a parità di entrate. La droga si coltiva infatti da un anno all'altro. La sospensione dell'attività non danneggia gli investimenti. Tutto diverso invece per gli alberi da frutta, dove in media per almeno un decennio dalla prima semina non ci sono guadagni. Nel 2001, l'anno dell'eclissi della teocrazia talebana, la produzione e il commercio della droga costituivano la metà del prodotto nazionale lordo. Oggi quel dato è sceso a un settimo. Ma la situazione resta instabile, l'insicurezza sulle strade, le difficoltà dei trasporti potrebbero aggravarsi danneggiando ulteriormente la già fragile economia locale. E allora l'oppio rischia di tornare il prodotto bandiera afghano.

Corriere La Lettura 9.6.13
L’uomo che ricominciava a vivere ogni 30 secondi
l più famoso paziente neurologico: senza memoria, ogni giorno imparava tutto da capo
Suzanne Corkin lo ha studiato per 40 anni
di Massimo Piattelli Palmarini


Immedesimiamoci per un momento, come in un suo giorno ordinario, con Henry Molaison, noto per decenni agli studiosi delle neuroscienze cognitive come HM. Abbiamo intatte intelligenza, percezione e comprensione del linguaggio; ma abbiamo perduto la memoria. Si badi bene, non quella che ci fa ricordare eventi, fatti e conoscenze che risalgono a mesi o anni addietro, bensì la memoria di qualsiasi cosa che sia accaduta appena trenta secondi fa. Quindi, l'articolo che abbiamo appena letto in questo supplemento è già svanito e tra un momento svanirà per noi perfino l'attacco di questo stesso articolo. Permanent Present Tense, «L'eterno presente», titolo del recentissimo libro di Suzanne Corkin, professoressa emerita di neuroscienze al Massachusetts Institute of Technology, riassume il vissuto di HM.
La Corkin ha esaminato questo straordinario paziente per oltre quarant'anni, sottoponendolo — con sua immancabile buona volontà — a un'enorme e variatissima serie di test. Nel lontano 1953, all'ospedale di Hartford, Connecticut, il povero Henry, allora ventisettenne e affetto da frequentissime e incurabili crisi epilettiche, venne sottoposto, con il suo pieno consenso e con quello dei suoi genitori, a un'operazione definita ufficialmente come «sperimentale» dal compianto neurochirurgo William Beecher Scoville. Vennero rimossi dal cervello di HM gran parte dei due ippocampi, della corteccia peririnale ed entorinale e parte dell'amigdala. In altre parole, le regioni che adesso ben sappiamo, largamente per merito di HM, essere deputate alla fissazione della memoria a lungo termine e all'emotività. Al suo risveglio, Henry mostrò di reagire normalmente agli stimoli circostanti, ma non aveva idea di dove si trovasse e del perché. Come ben precisa la Corkin in questo suo straordinario volume, l'espressione memoria a lungo termine è fuorviante, in quanto copre non solo i ricordi di giorni, settimane o più, ma anche pochi minuti. Nella sua disgrazia, HM ebbe anche alcune fortune. Serenissimo e gentilissimo, non faceva mai progetti per il futuro, non era perturbato dai piccoli accadimenti negativi quotidiani e mostrava un ottimo carattere. I risultati più interessanti di questo lungo studio riguardano il suo silenzioso, ma netto, miglioramento nell'eseguire compiti, anche complessi, che sono governati dalla memoria motoria, non da quella proposizionale. Ogni giorno la professoressa Corkin doveva di nuovo presentarsi a Henry e di nuovo spiegare da capo in cosa consisteva il compito. Ma lui ne eseguiva alcuni con sempre maggiore destrezza, precisione e in minor tempo. Era contento, sul momento, di ricevere lodi. Si fidava di quanto gli dicevano, dimentico delle sedute precedenti. In uno scambio memorabile con la Corkin, disse: «Si vive e si impara. Io vivo, lei impara».
Un test classico consiste nel tracciare una linea spezzata continua, mantenendosi all'interno di un corridoio segnato da una stella. La difficoltà sta tutta nel fatto che lo si deve fare vedendo la propria mano e il tracciato solamente in uno specchio. HM migliorava ogni giorno e ancora eseguiva il compito meglio di un normale soggetto venti anni dopo. In contrasto, si registrarono risultati negativi nel suo trovare manualmente l'uscita da un labirinto scolpito su una tavoletta. E pure negativi sono stati i risultati di molti altri test. L'allora direttore dell'istituto dove lavorava la Corkin a Toronto, Brenda Milner, riporta un caso davvero sbalorditivo. La Milner chiese ad HM di ricordare in sequenza i numeri 5, 8, 4. Lo mise alla prova dopo venti minuti, un'eternità per lui, ma HM rispose correttamente. La sua spiegazione fu: «Cinque, otto e quattro danno come somma diciassette. Dividendo per due si ha otto e nove. Tenendo fisso otto, si ottiene cinque e quattro, quindi cinque, otto e quattro è la risposta, molto facile».
Ecco a cosa assomiglia un'intelligenza intatta, anzi, al di sopra della norma, ma privata di memoria. HM era affetto da amnesia anterograda, cioè un vuoto dal momento dell'operazione al presente, ma conservava una discreta memoria del vissuto precedente all'operazione. In particolare si ricordava ogni dettaglio di una sua gita in un piccolo aeroplano biposto, offertagli da suo padre quando lui era adolescente. Il pilota lo aveva fatto pilotare e per HM questo era stato l'episodio più gradevole della sua vita. Rivelò modi curiosi e allora imprevisti di consolidare anche un po' delle memorie recenti, proiettandole all'indietro nel tempo. Avendo, di fatto, visto Suzanne Corkin per anni, infine sviluppò una certa familiarità per la studiosa e si persuase che era una sua compagna di liceo, cosa assolutamente non vera. Mostrò anche un discreto ricordo di figure e pannelli che vedeva molto spesso. Disegnò accuratamente la pianta di una casa nella quale si era trasferito cinque anni dopo la sua operazione. La complessità del caso HM emerge, pagina dopo pagina, nel libro della Corkin, perfettamente accessibile ai non esperti e ricco di ricostruzioni storiche dei protagonisti, le tecniche e le teorie delle neuroscienze in un arco di circa un secolo.
Il «New York Times» riportò il decesso di HM, il 2 dicembre 2008, e finalmente apprendemmo la sua vera identità: Henry Molaison. Un buon numero di sue foto, sparse lungo oltre 40 anni, sono ora disponibili su Internet e raccolte nel libro della Corkin. Si può ben sostenere che sia stato il più celebre caso di deficit neurocognitivo di ogni tempo. Io stesso ho dedicato un intero capitolo ad HM nel mio manuale di scienze cognitive del 2008, scritto quando era ancora vivo e ancora solo noto come HM (Le scienze cognitive classiche. Un panorama, Einaudi).
Per trovare un caso di notorietà professionale comparabile, occorre risalire a Tan Tan, al 1861, al celebre paziente afasico di Paul Broca, nello studio che introdusse i disturbi del linguaggio, poi rivelatosi essere Monsieur Louis Victor Leborgne. Broca era talmente bravo che individuava lesioni cerebrali della corteccia battendo dall'esterno, con un dito, una placchetta metallica. All'epoca dell'operazione di HM esisteva un metodo assai invasivo, raggi X del cervello sotto pressione interna di gas. Poi sono venuti metodi più precisi e non invasivi, come la risonanza magnetica funzionale. Questa rivelò in HM un notevole restringimento del cervelletto, adesso noto come conseguenza delle massicce terapie farmacologiche antiepilettiche cui era stato sottoposto, senza risultato, prima dell'operazione. Chiedo a questo punto alla Corkin quale terapia si applicherebbe oggi a un caso identico. «Forse si impianterebbero dei sottilissimi elettrodi nel cervello, in regioni ben selezionate e se ne seguirebbero i segnali per molti giorni per individuare il fuoco da cui iniziano le convulsioni epilettiche. Fatto questo, la rimozione chirurgica sarebbe molto più limitata e mai si farebbe una rimozione bilaterale. Se nessun fuoco venisse individuato, allora niente operazione chirurgica, ma trattamento farmacologico massiccio e perenne. Scoville può essere oggi, in retrospettiva, criticato per aver operato ablazioni piuttosto estese, senza aver prima identificato il fuoco delle convulsioni».
Oggi il cervello di HM è stato minutamente sezionato in tantissime fettine, consentendo di mappare in dettaglio i suoi deficit a specifiche lesioni cerebrali. È legittimo dire, non senza profonda tristezza, che, anche dopo morto, Henry Molaison continua a contribuire alla conoscenza del nostro cervello, della nostra mente e quindi della nostra natura umana.