lunedì 10 giugno 2013

Due successive Direzioni del Partito avevano escluso (all’unanimità) qualsiasi possibilità di una alleanza con Berlusconi e che il Partito su questa linea - e non su un’altra! - aveva ottenuto i nostri voti alle politiche di Febbraio. Ma secondo Macaluso se il Pd adesso sta con Berlusconi non si tratta di "tradimento"...
l’Unità 10.6.13
Il gioco sporco di chi accusa il Pd di tradimento
di Emanuele Macaluso


Non è certo la prima volta che in Italia il sistema politico si inceppa e non è in grado di esprimere governi che corrispondano alle attese popolari e alla stessa nazionalità politica. Oggi il Paese si trova in uno di questi momenti.
Sulle ragioni per cui è in carica un «governo di necessità» come l'ha definito il direttore di Repubblica, si è discusso e polemizzato, a destra e a sinistra. Soprattutto a sinistra. Tuttavia, la cosa che più colpisce in queste polemiche è la posizione di chi contesta radicalmente l’operazione politica che ha indotto il Pd a formare il governo con il Pdl e Scelta civica, presieduto da Enrico Letta, senza mai dire se c’era un’alternativa.
Ieri, Furio Colombo ha risposto a un lettore de il Fatto che chiedeva di riavere indietro il voto dato al Pd dopo che questo partito è al governo «insieme al peggiore avversario che avevamo». Colombo risponde: «Ha ragione l’autore della lettera. Non avevamo votato per uno scherzo incomprensibile agli italiani, o almeno ai dieci milioni che hanno creduto di votare a sinistra». Anche lui vuole restituito il voto. Non capisco però, perché Colombo parli a nome di dieci milioni di elettori del Pd! E anche lui, che non è uno sprovveduto, non dice quale era l’alternativa che aveva il Pd, partito di cui è stato parlamentare per molti anni e quindi ne conosce anche i limiti.
Nel momento in cui si fece il governo non c’erano altre alternative. I tentativi fatti da Bersani per fare un governo con il sostegno dei parlamentari di Grillo e Casaleggio sono registrati in un video che rivela il degrado della politica incarnata proprio da chi urla contro la politica. C’è chi pensa che l’errore del Pd sia rintracciabile nel fatto che, esaurita la partita del governo con il sostegno di pezzi del gruppo dei grillini e aperta la partita della presidenza della Repubblica, Bersani e i suoi non sostennero la candidatura di Stefano Rodotà. È il cavallo di battaglia di Vendola e de il Fatto, di alcuni pezzi grossi e piccoli di Repubblica e di qualche parlamentare del Pd. Bersani e i dirigenti di quel partito fecero errori seri nella vicenda politica apertasi dopo il deludente risultato elettorale, ma la sua ostinazione nel ricercare un rapporto con i grillini era anche condizionato dalle posizioni di Sel e di giornali come Repubblica e il Fatto. Pensare che il Pd potesse votare Rodotà è una balla che non riguarda il professore, degnissima persona, ma il fatto che Grillo usava solo strumentalmente il giurista facendo di tutto per non trovare una convergenza. La quale era possibile solo se il movimento Cinque Stelle avesse fatto un passo politico verso il Pd, al quale, invece, continuava a sputacchiare.
Nel 1955, in piena guerra fredda, il Pci votò Gronchi alla presidenza della Repubblica, il quale incontrò Di Vittorio e gli anticipò il discorso che avrebbe fatto che poi fece sul ruolo del mondo del lavoro, rompendo i vecchi schemi centristi. Nel 1964 il Pci votò Saragat e il suo partito firmò un documento (siglato da Natta e da me) con cui chiedeva i nostri voti. Tutti i presidenti eletti con il voto del Pci o del Pds sono stati concordati con le altre forze politiche. Ma c'è di più. Nei gruppi parlamentari del Pd, dopo gli esiti disastrosi delle candidature di Marini e Prodi (il quale era nella rosa di Grillo), se fosse stato messo in votazione Rodotà, i franchi tiratori sarebbero stati duecentocinquanta e il Pd non ci sarebbe più. Io potrei dire: l’avevo detto! Ma sarebbe da irresponsabile. Cosa restava nel centrosinistra? Nulla.
Insomma, non dovrebbe essere difficile capire che nel corso delle elezioni del Capo dello Stato si manifestò una crisi politica e istituzionale senza precedenti: non c’era un governo, il presidente non poteva sciogliere il Parlamento, i gruppi parlamentari erano paralizzati, non in grado di trovare una convergenza su un candidato. A questo punto per salvare il salvabile fu chiesto a Napolitano di restare al Quirinale, per evitare una crisi istituzionale senza sbocco. Non riconoscere il sacrificio personale e il senso del dovere verso la Repubblica che indussero Napolitano a restare al suo posto, la dice tutta sul carattere della campagna che in unità d’intenti, conducono Cinque Stelle e il quotidiano diretto da Antonio Padellaro.
Il fatto che i Grillo e i Travaglio giochino con le istituzioni non stupisce. Abbiamo visto cosa pensa il padrone del movimento Cinque Stelle del ruolo del Parlamento. Stupisce, invece, che persone come Furio Colombo e Barbara Spinelli, con la loro storia di democratici moderati, giochino a cambiare le carte in tavola. E con loro Vendola che ha una storia di comunista radicale. Un governo di necessità tra Pd Pdl Scelta civica è indicata da questi oppositori come una scelta libera e strategica del Pd, come un tradimento, non facendo il governo che era possibile fare. Io non so quanto durerà questo governo. So che Berlusconi, tra i suoi interessi personali e quelli del Paese, privilegia i primi; so quindi che può rovesciare il tavolo. Ma il Paese aveva e ha bisogno di un governo per tentare di dare risposte a chi soffre la crisi. E dunque la sfida dato che di una sfida si tratta andava raccolta. Per tentare di creare un terreno nuovo alle sfide del futuro che vedranno contrapposte la sinistra e la destra è giusto. Spero che il congresso del Pd affronti i nodi veri che rendono debole e vulnerabile questo partito.

«Confesso: quello che mi ha più colpito del recente incontro tra l’attuale pontefice e il presidente della repubblica italiana è stata la presenza di Emma Bonino»
 l’Unità 10.6.13
Se «libera Chiesa in libero Stato» non basta più
di Vincenzo Vitiello


CONFESSO: QUELLO CHE MI HA PIÙ COLPITO DEL RECENTE INCONTRO TRA L’ATTUALE PONTEFICE E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA è stata la presenza di Emma Bonino. È questione di età: ricordo presidenti della Repubblica che negli incontri ufficiali col Papa piegavano il ginocchio. Testimonianza, voglio credere, di una fede personale, ma che non era lecito manifestare in quella forma di simbolica sottomissione nell’atto di rappresentare ufficialmente un Paese certo allora a maggioranza cattolica, ma costituito anche di appartenenti ad altre fedi religiose evangelici, ebrei, islamici, questi ultimi pochi allora, anzi pochissimi e pur di non-credenti. La figura minuta di Emma Bonino, il suo volto sorridente, il passo spedito nell’avvicinarsi a Papa Francesco col rispetto che si deve ad una persona eminente, ma nell’eguaglianza della comune umanità, mi è parsa il simbolo di questa minoranza, nel momento in cui il presidente Napolitano rappresentava, giustamente, tutta la Nazione. Dico questo per significare qualcosa che è più che una perplessità: è un’insoddisfazione teorica e un’inquietudine morale, che voglio esprimere con ogni rispetto, ma anche con tutta sincerità. La difesa della libertà religiosa che abbiamo ascoltato, e non solo in questi giorni e per questa occasione, anche da fonti autorevolissime, mi è parsa abbastanza scontata. Chi si oppone almeno a parole al dialogo tra fedi religiose differenti, all’obbligo etico del reciproco rispetto? Chi non condanna almeno a parole i conflitti religiosi? Chi non s’indigna dei massacri di cristiani inermi che avvengono in Paesi islamici sotto lo sguardo indifferente dei tutori dell’ordine? Si è parlato addirittura di un rivoluzione antireligiosa, anzi anticristiana in Europa (Galli della Loggia sul Corriere del 2 giugno). Ripeto: chi non condanna tutto questo? Ma qui la domanda si può ridurre la libertà religiosa alla libertà di coscienza? Alla libertà del «foro interiore»?
Questa difesa appare oggi storicamente inadeguata. Oggi, nell’età del secolarismo compiuto, in cui è pienamente riconosciuto il diritto delle Chiese parlo al plurale: mi riferisco non solo alla Chiesa di Roma di far politica. Non ha parlato Papa Francesco del
«dovere» dei cattolici di impegnarsi politicamente? E vogliamo ancora difendere la religione e la politica col vecchio principio di «libera Chiesa in libero Stato»?
Piuttosto che parlare retoricamente del dialogo e dell’interiorità della coscienza, non è più utile non ad altro che alla convivenza civile tornare ad interrogarsi su cosa s’intende con libertà? E cioè: se sono lo stesso libertà religiosa e libertà politica e/o etica? È un problema, questo, che riguarda essenzialmente il cristianesimo. È bene guardare anzitutto in casa propria.
Maria Zambrano, la filosofa spagnola che la dittatura di Franco costrinse ad emigrare in America latina, alla fine del secondo conflitto mondiale lei che aveva posto Agostino tra i Padri dell’Europa si chiedeva, considerando l’esito della storia religiosa del nostro continente, se il cristianesimo europeo sia stato vero cristianesimo, e se sia ancora possibile un cristianesimo europeo.
A questa domanda non mi sembra si sia data risposta. Rispondervi significa lo dico anzitutto agli amici storici allargare l’orizzonte ben oltre la storia moderna, tornando a riflettere sulle radici del cristianesimo, sul grande problema paolino del rapporto legge-fede: lì è l’origine della nostra domanda; forse della possibile risposta. In questa sede non posso che azzardare un desiderio, e una speranza: il desiderio e la speranza di un cristianesimo che sia «assoluto» uso di proposito la definizione hegeliana, per rovesciarla solo perché capace di riconoscere l’assolutezza di tutte le religioni; di un cristianesimo che non si limiti a rivendicare il rispetto delle altre religioni, ma pratichi questo rispetto non politicamente, ma nella forma ch’è sua propria: quella della religione. La cui libertà si esplica, prim’ancora che nell’operare storico e comunitario, nella sospensione di ogni fare in quell’istante, in quel «battito d’occhio» per dirla con Paolo, in cui sorge la domanda sull’orizzonte di senso del fare che diciamo nostro, e che neppure sappiamo sin dove ci appartenga.
Questa sospensione ha un nome, Shabbat, che è di una religione, ma la cui esperienza è di ogni religione, e si pratica nella preghiera. Spero in un cristianesimo i cui credenti sappiano pregare il loro Dio, accanto oltre ogni comunità ordinata secondo leggi e principi a fedeli d’altre religioni, parlanti col loro Dio con parole loro proprie; accanto, soprattutto, a chi non ha parole di fede e di preghiera. Spero in un cristianesimo che non è dottrina, ma testimonianza. Memore delle parole di Paolo: «La speranza che vede non è speranza».

La Stampa 10.6.13
Francesco come Luciani: Dio ama da madre
La questione aveva sollevato polemiche 35 anni fa
Oggi il mondo cattolico abbraccia la tesi di Bergoglio
di Giacomo Galeazzi


«Dio ha compassione di noi, come la madre con i figli». Sulla scia di Luciani (al quale lo uniscono la bontà, il rifiuto della pompa pontificia, i discorsi improvvisati, il «question time» con i bambini, lo stile personale di umiltà informale) Francesco equipara l’amore di Dio a quello materno, mentre Benedetto XVI nel suo libro «Gesù di Nazaret» ha ribadito la visione tradizionale della teologia: il titolo di madre non spetta a Dio che è solo ed assolutamente padre poiché nei Vangeli Gesù nomina sempre «Dio padre», allontanando così ogni archetipo femminile dall’assolutezza divina che è esclusivamente maschile. Francesco, invece, segue Luciani nell’immagine di un Dio che antepone la misericordia (materna) della compassione alla severità (paterna) del giudizio.
«Nelle sacre scritture i profeti usano più volte l’immagine dell’amore materno, perciò vi è una assoluta continuità rispetto ai testi biblici», evidenzia il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Dunque la «compassione» che Dio prova per «la miseria umana» è paragonabile alla reazione di una madre «di fronte al dolore dei figli». «Così ci ama Dio», ha detto papa Francesco ieri alla recita dell’Angelus, soffermandosi sul concetto della «misericordia» divina, che «non è solo sentimento, è una forza che dà vita, che risuscita l’uomo». Con i suoi consueti toni naturali, affabili, di fronte ai centomila fedeli che affollavano piazza San Pietro, Bergoglio è arrivato a evocare un atteggiamento «materno» di Dio, di una sua «compassione» verso gli esseri umani che «richiama le viscere materne».
Espressioni vicinissime alla celebre e allora discussa affermazione di Giovanni Paolo I che, all’Angelus del 10 settembre 1978, disse che Dio «è papà, più ancora è madre». E anche Giovanni Paolo II, in almeno un paio di occasioni, ha parlato della paternità di Dio che «riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno» (udienza del 20 gennaio 1999) e ha attribuito a Dio «mani di padre e di madre nello stesso tempo» (udienza dell’8 settembre 1999). Commentando il brano evangelico sulla vedova di Nain che porta a sepoltura il suo unico figlio morto, Francesco ha sottolineato che «l’amore di Dio per l’uomo» è fatto di compassione: «E’ la misericordia cioè l’atteggiamento di Dio a contatto con la miseria umana, con la nostra indigenza, la nostra sofferenza, la nostra angoscia».
Per Bergoglio, «il termine biblico “compassione” richiama le viscere materne: la madre, infatti, prova una reazione tutta sua di fronte al dolore dei figli». Un’apertura alla teologia femminile che 35 anni fa abbracciò la tesi di Luciani. «Così ci ama Dio, dice la Scrittura». Quindi, «la misericordia di Dio dà vita all’uomo». Inoltre «il Signore ci guarda e attende con misericordia: non abbiamo timore di avvicinarci, se gli mostriamo le nostre ferite interiori e peccati, ci perdona, Dio è pura misericordia». Il modello per «essere miti, umili e misericordiosi con i nostri fratelli». Poi su Twitter mette in guardia dalla «cultura dello scarto», che emargina i più deboli e bisognosi di aiuto. No ad aborto ed eutanasia: «La vita umana è valore primario da rispettare e tutelare».

Corriere 10.6.13
I buoni rapporti e il cambio di rotta
di Alberto Melloni


Gli incontri fra il presidente della Repubblica e il Papa sono buoni per definizione. Buone le relazioni diplomatiche, buona la condizione dei cittadini cattolici che in una società pluralista riescono ad essere l'una e l'altra cosa senza retropensieri. Ciò non toglie che ad ogni incontro ci siano peculiarità: e così è stato sabato in un incontro nel quale Francesco e Napolitano si sono liberati da abiti antiquati sia in senso fisico sia in senso metaforico.
Il Papa ha parlato col suo stile apparentemente semplice. Francesco sa che Bertone, liquidato il ruinismo, s'era intestato l'esclusiva delle relazioni col centro-destra. Sa che nella Cei qualcuno s'era adattato, qualcuno aveva saggiamente imparato a mimare i gesti e il labiale di Giorgio Napolitano, e qualcuno aveva resistito alla avocazione. Sa che queste tensioni prima del conclave venivano sovente regolate con colpi bassi, nomine e compromessi di cui ha un inventario. E mentre s'attende che rimpiazzi un Segretario di Stato quasi ottuagenario, Francesco ha confermato un cambio di rotta radicale: i rapporti politici non «tornano» alla Cei, ma «vanno» ai vescovi ai quali chiede di comportarsi non come titolari di un negoziato di potere, ma da vescovi, padri e parti di una società alla quale da decenni le chiese forniscono più ripetitori furbi che coscienze formate sul piano spirituale. Con un danno — il presidente della Repubblica l'ha rilevato con tatto e schiettezza — che è parte della crisi del Paese e con rimedi che s'iscrivono nella speranza di un risorgimento civile.
Francesco, d'altronde, ha visto dal vivo dove arrivava questa deriva nella settimana dell'elezione quirinalizia. In quei giorni alcuni para-manovratori «cattolici» avevano alluso ad alcuni candidati (in ispecie Giuliano Amato e Romano Prodi) come se fossero portatori di dubbi e freddezze vaticane. Una menzogna: perché la Santa Sede non voleva certo interferire e avrebbe visto con compiacimento come presidente un altro statista di rango europeo. La lipotimia del Pd ha convinto Napolitano a una rielezione che papa Francesco in una irrituale telefonata ha lodato come atto di «eroicismo» (sic). Ma il lieto fine di quella vicenda ha ricordato a tutti che se la chiesa non riguadagna autorevolezza spirituale rischia d'essere usata. E modularsi sulla statura pastorale del Primate d'Italia è il compito arduo che Francesco ha dato ai vescovi e ai fedeli.
Resta sullo sfondo dei rapporti Italia-Santa Sede di domani la questione della Costituzione. Nella carta in vigore il cattolicesimo organizzato s'era rispecchiato e impegnato in modo totale: con la sua università, coi suoi consacrati, coi suoi sindacalisti, politici, con le sue gerarchie, passati dalla impreparazione e dalla diffidenza all'adesione. È la Costituzione (citata in Concordato) che ha fidelizzato vescovi e fedeli imbottiti di clericofascismo alla democrazia repubblicana e alla società pluralista: e senza quella adesione sia la democrazia sia il pluralismo sarebbero stati inferiori. Quando Francesco parla di una «esem- plarità» italiana, forse si riferisce anche a questo.
Nella revisione della Costituzione iniziata ora il cattolicesimo (e non solo lui) è presente con «ingegneri» di diverso orientamento. C'è un'autorità vaticana come il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli, consigliere generale del Governatorato; ci sono vari giuristi cattolici. Ma, a causa delle fasi evocate prima, non c'è un senso corale della urgenza storica. Fare della Carta il sismografo di «quel che la gente ci chiede» fessura la fidelizzazione democratica e pluralista, che per la chiesa di Pio XII era un problema e per quella di Francesco un valore. Su questo i Colli, c'è da scommetterci, saranno attenti. E i rapporti resteranno «buoni».

Il ministro Bonino: nessun rientro anticipato dall’Afghanistan
Dopo l’attacco al convoglio dei nostri militari a Farah, che è costato la vita al capitano La Rosa, il ministro Bonino esclude un rientro anticipato delle truppe italiane dall’Afghanistan
(da La Stampa di oggi)

Corriere 10.6.13
L'Italia resterà in Afghanistan anche dopo il ritiro
Terminato il mandato Isaf entro la fine del 2014 nuova missione per alcune centinaia di uomini
di Maurizio Caprara


ROMA — Le previsioni di medio e lungo periodo rischiano sempre di essere smentite, tuttavia al momento è ragionevole ritenere che anche dopo il ritiro della missione International security assistance force (Isaf) previsto per la fine del 2014 l'Italia manterrà alcune centinaia di militari in Afghanistan. Almeno.
Il nostro dibattito politico spesso ruota su scadenze che permettono frasi a effetto senza approfondire i dettagli, per questo sarebbe bene tener presente in quali modi si delinea la presenza di personale straniero in divisa e in armi nel Paese roccaforte dei talebani contro il quale gli Stati Uniti vollero un'offensiva dopo le stragi dell'11 settembre 2001.
Con la conclusione del 2014 è prevista la fine del mandato dell'Isaf, la forza multinazionale che ha il compito di favorire un consolidamento delle autorità afghane e dunque anche di combattere i talebani se lo impediscono. Dal 2015, secondo quanto stabilito dal vertice della Nato che si tenne a Chicago un anno fa, dovrà entrare in funzione una nuova missione.
«Resolute support», appoggio determinato, è il nome reso noto il 4 marzo scorso dal segretario generale della Nato. La missione sarà chiamata così, ha spiegato a Kabul il danese Anders Fogh Rasmussen al fianco del presidente afghano Hamid Karzai, «perché il nostro sostegno per l'Afghanistan rimane saldo» e consisterà nel fornire «addestramento, consiglio e assistenza dopo il 2014».
È stata la crisi finanziaria a spingere nel 2010 Barack Obama ad annunciare per il 2014 il passaggio della sicurezza sull'intero Paese di Karzai nelle mani delle forze locali. Allora provenivano dagli Usa due terzi dei circa 140 mila militari stranieri schierati in Afghanistan. Adesso tra i 97 mila circa di Isaf quelli statunitensi sono 68 mila. Gli italiani, che nel marzo 2012 erano 4.200, sono poco più di tremila.
«Una riflessione è in corso su come rimodulare la nostra presenza», ha detto ieri il ministro degli Esteri Emma Bonino, intervistata da Lucia Annunziata dopo l'uccisione del capitano Giuseppe La Rosa sabato a Farah. Ed è ancora la crisi finanziaria, sommata alla ritrosia dei governi a chiedere ai rispettivi elettorati sacrifici economici e sangue di soldati, a tenere fitta la nebbia sulle dimensioni dell'impegno di ciascun Paese. Pesano poi le incognite afghane: per l'aprile 2014 sono fissate le elezioni presidenziali, le candidature vanno presentate il prossimo ottobre, Karzai non può essere capo dello Stato la terza volta eppure gli piacerebbe. Per acquisire posizioni di forza, i talebani sparano e mettono bombe.
Anche se a Roma si specifica che la missione Resolute support non sarà più «combat (per sterilizzare l'argomento da noi si evita di usare la parola in italiano anche oggi che combat lo è) la presenza di nostri addestratori indurrà a tenere in Afghanistan più militari rispetto al numero degli istruttori per esercito e polizia afghani. Una copertura difensiva occorre. Ecco perché, salvo sorprese, anche se fossero cento, o duecento, a rigor di logica gli istruttori italiani dopo il 2014 significheranno la permanenza di alcune centinaia di militari italiani.
Benché da noi sia rimasto in ombra, mercoledì il segretario alla Difesa americano Chuck Hagel ha ringraziato l'Italia per la disponibilità ad accettare uno dei cinque coordinamenti che sostituiranno gli attuali sei comandi regionali di Isaf. «Apprezziamo gli impegni che stanno assumendo altre nazioni, inclusi gli annunci di Germania e Italia che agiranno come Paesi-guida per Ovest e Nord», ha detto Hagel su Resolute support. La Germania, destinata all'Afghanistan settentrionale, ha annunciato che manterrà tra i 600 e gli 800 militari. La Francia è in via di rientro. Il Regno Unito punta a risparmiare al massimo. L'Italia, che non ha armi nucleari né seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell'Onu, farebbe fatica a dire di no agli Usa. Certo, la decisione spetta al Parlamento. Ma il 23 aprile Rasmussen ha detto ai Paesi dell'Isaf: «We will not walk away». Non andremo via.

Vendola:
«Scalfari dice che avrebbe votato Sel se non avesse rotto col Pd
Sono molto gratificato dalle parole di stima di un Grande vecchio»
«Matteo fa bene a dirsi di sinistra» (dall’Unità di oggi)

La Stampa 10.6.13
Il malumore degli ex Ds: «Letta e Renzi sono ex Dc che su governo e partito fanno i conti senza l’oste»
«Il partito non è un mezzo su cui si sale per andare altrove»
Il governatore toscano Rossi: «La nostra sfida sarà sulle idee»
Enrico Rossi, ex Ds e da sempre avversario politico «interno» di Renzi, è il presidente della regione Toscana
di Carlo Bertini


«Sento parlare di un “patto della Torre” tra Renzi e il premier Letta. A parte la singolarità della cosa, se così fosse ci piacerebbe conoscerlo anche a noi nei contenuti questo presunto patto. Che vuol dire? Che dai “caminetti”, si passa alle torri? ». Non è solo il rottamatore a nutrire il gusto della battuta, tra toscanacci la gara è sempre aperta, infatti questa del governatore della regione Enrico Rossi, ex Ds e avversario politico tra i più duri di Renzi, la dice lunga su come un certo mondo della sinistra possa vivere queste voci di intese sottobanco. Voci indigeste, soprattutto se hanno a che fare con presunti accordi tra quelli che dai «compagni» vengono considerati, ma non sono parole di Rossi queste, «ex Dc che su governo e partito fanno i conti senza l’oste». Al governatore invece fanno capo una serie di critiche esplicite e puntute, la prima delle quali è che se Renzi non vuole «farsi fregare» e condiziona la sua candidatura alle regole del congresso, ebbene troverà pane per i suoi denti.
Primarie «chiuse» a chi non ha la tessera del Pd?
«Intendiamoci bene: io del discorso di Renzi condivido solo la richiesta di una data precisa del congresso, Epifani ci faccia sapere quando sarà convocato, non si può far slittare ancora. Dalle amministrative arriverà un risultato positivo, che però temo non potrà placare la preoccupazione sul rischio di un’emorragia silenziosa di consensi. Solo in Toscana abbiamo perso decine di migliaia di iscritti e immagino sarà così anche altrove. Ma vedo ora che Renzi si vuole presentare candidato solo a precise condizioni che lui vuol dettare e allo stesso tempo che continua a prendere di mira il governo. Se scenderà in campo, lui avrà le sue idee e noi ci metteremo le nostre».
Suona come una minaccia del tipo, non creda che sarà incoronato, o no?
«Ma lui ha una visione del partito diversa dalla mia, vuole l’election day con primarie aperte a tutti, io invece penso a un partito di militanti e iscritti che possano elaborare una visione della società e che non sentono il bisogno di esser solo chiamati a dire un sì o un no a Tizio o Caio. Ma vogliono poter esprimersi su un profilo programmatico, culturale e anche organizzativo. Perché servono luoghi in grado di poter produrre sintesi e di indicare una linea politica dopo averla discussa. E invece una Direzione di 300 persone come quella che c’è oggi serve solo a ratificare decisioni prese nei soliti “caminetti”. E poi c’è una cosa ancora più importante... ».
Dica, cosa non le piace ancora di Renzi?
«Il fatto che lui parli di un uomo solo al comando, circondato da una squadra, con un’accezione positiva. Questa visione tutta leaderistica del partito a me non piace. Il partito dicevo, ha bisogno di luoghi di confronto, di strutture snelle dove si possano determinare le nostre proposte e in cui sarà più facile l’apporto di culture politiche diverse tra loro. E poi, passando ai contenuti, lui parla di merito, talento e carità, tutti valori condivisibili, ma dal suo orizzonte sfuggono temi come diritti, uguaglianza, cultura».
Quindi se si candidasse, troverà Cuperlo come antagonista sostenuto dagli ex Ds?
«Certo, ci vuole una candidatura con un’altra linea, c’è il problema di rappresentare chi esprime altre impostazioni e culture. Il rischio è che si intenda il partito come un mezzo su cui si sale per andare altrove e invece serve un segretario che si dedichi interamente, senza farsi tentare dalle poltrone, a costruire un partito radicato nei territori. Che non abbia solo un profilo istituzionale e di potere, ma anche un forte profilo ideale che si ricostruisce a prescindere dai posti di governo. E poi non c’è da conquistare i voti dei delusi della destra, ma anche dei tanti delusi della sinistra».

l’Unità 10.6.13
Rete e sicurezza
La nuova guerra fredda e i padroni del web
Durante la rivolta araba i social network sono stati usati anche per reprimere, schedare e alimentare una contro-reazione
di Michele Di Salvo


SI CHIAMA «CYBER-UTOPIA» L’IDEA CHE LA PACE NEL MONDO DIPENDA DA INTERNET
UN’ILLUSIONE CHE FA COMODO ALLE BIG COMPANY
La fine della guerra fredda ha lasciato sul campo molti disoccupati, venendo a mancare non solo un nemico preciso, ma anche la ragione di una forma di comunicazione basata sul nemico da combattere e di muri da abbattere. La disoccupazione non è però durata a lungo e la nuova teoria attorno a cui si sono raccolti lobbisti, analisti politici e consulenti di vario genere del mondo neo-conservatore è nota come «cyber-utopismo». In estrema sintesi l’idea che un internet onnipotente salverà il mondo e, da solo, ci porterà democrazia e libertà.
Il passaggio anche semantico tra il vecchio secolo e il nuovo millennio è avvenuto in maniera quasi assiomatica sostituendo l’immagine dei muri della cortina di ferro con quelli della rete, i cosiddetti «firewall».
L’idea del cyber-utopismo immagina che la rete sia una novella Radio FreeEurope, i post nuovi libretti dissidenti, i twitt volantini d’opposizione; dimenticando che la rivoluzione la fanno le persone e che nessun volantino da solo ha mai fermato un esercito. Soprattutto scordando che una cosa è abbattere un muro di pietra (che ci metti poco a distruggerlo e molto tempo e soldi per rifarlo) ben altra abbattere un firewall (nel qual caso è esattamente il contrario, costa molto e ci vuole tempo per abbatterlo, e molto poco per rifarlo, anche meglio di prima). Ma chi doveva dirlo? Le compagnie del web che traggono profitti proprio dal favorire questa guerra?
Tra i momenti più trionfalistici della teoria neocon sul web c’è certamente la primavera araba, con una rete in delirio di autoesaltazione che ha urlato al trionfo. Anche quando quel trionfo non c’è stato e anche quando i social network hanno contato poco, tacendo invece su come la stessa rete e gli stessi social siano stati usati per reprimere, schedare o alimentare una contro-reazione.
Come spiega molto bene Evgeny Morozov «più i politici occidentali sbandierano la minaccia che i blogger costituiscono per i regimi autoritari, più è probabile che quei regimi limitino lo spazio di manovra in cui i blogger operano», aggiungendo che «rifiutarsi di riconoscere che il web può rafforzare anziché indebolire i governi autoritari è una decisione irresponsabile che può condurre a scelte sbagliate, perché dà ai politici la fiducia illusoria che le azioni in rete siano solo attive, e non reattive».
Il momento culmine della dottrina cyber-utopista è stato raggiunto nel gennaio 2010 sotto l’amministrazione Obama, quando, una settimana dopo l’annuncio di Google di ritirarsi (parzialmente) dalla Cina, il segretario di Stato Hillary Clinton ha tenuto uno storico discorso al «News Museum» sul tema della libertà di internet. In quel momento la rete è entrata ufficialmente nel novero degli strumenti (e delle armi) della diplomazia americana.
Un libero intellettuale può credere ciò che vuole, ma i leader politici non possono permettersi questo lusso, perché dalle loro scelte concrete derivano effetti su tutti i cittadini. Nel caso americano, una legge approvata da quel parlamento ha addirittura effetti sul modo di vivere la rete in tutti i Paesi occidentali, in tema di privacy quanto di policy, di banda e di controllo sui contenuti.
Se parliamo oggi di censura in rete, i neocon propugneranno la guerra a GreenDam, il software cinese che non solo censura la navigazione non consentendo meccanicamente l’accesso ad alcuni siti, ma studia e apprende il comportamento dell’utente, al punto di impedirgli alcune attività semplicemente chiudendo le relative applicazioni fino a trasmettere via rete il report delle attività di quell’utente.
Ci sono però alcune cose che non vengono dette e che invece sarebbe bene sapere. Ad esempio che la tecnologia cognitiva di GreenDam è la stessa usata da Google proprio per apprendere i nostri comportamenti in rete, prevedere tra i risultati di ricerca ciò che, «al di là delle parole», a noi davvero interessa trovare (secondo lui) e preselezionare i risultati. E quello che le grandi company del web non dicono è che la struttura del GreenDam è la stessa su cui stanno lavorando per contrastare in rete fenomeni come la pedopornografia, il narcotraffico e il terrorismo. Peccato che la cosiddetta «censura» di questi contenuti in rete non sia affidata a strutture pubbliche governative, ma delegata alle aziende private: sono Google, Facebook, Twitter e soci ad avere l’input e la delega a cercare e monitorare i contenuti «vietati» o sospetti, a tracciare i dati di navigazione, ed eventualmente segnalare comportamenti illegali alle autorità competenti.
Quello che nessuno dichiara, poi, è quanto gli Stati (siano essi occidentali, orientali, democratici o meno) finanziano le web company per svolgere questa attività. E quello che le company non diranno mai è che attraverso queste risorse (circa un miliardo di dollari l’anno solo negli Stati Uniti) hanno sviluppato la maggior parte di quelle applicazioni che funzionano proprio grazie ai nostri dati personali; applicazioni che non solo acquistiamo, ma che arricchiamo fornendo quotidianamente sempre maggiori notizie e dati, e di cui oggi non possiamo fare a meno.
Alimentare quindi l’idea di una cyber-guerra, di una democrazia esportabile con la rete, di un «supertwitt» che ferma una pallottola, significa per le web company alimentare se stesse e le risorse da investire per crescere e finanziare il proprio business e le proprie applicazioni. Come del resto avveniva quando i virus li inventavano le compagnie che producevano antivirus (sempre parlando di internet). Parlare di lotta alla censura, significa autoarruolarsi dalla parte dei buoni, e farci accettare e giustificare il compromesso di cedere «un po’ della nostra privacy». Una guerra che non può essere combattuta da eserciti nazionali, ma dalle truppe private della Silicon Valley, che chiedono in fondo solo le mani libere attraverso una legislazione a maglie larghe e qualche immunità. Non era in fondo quello che avveniva durante la guerra fredda?

l’Unità 10.6.13
Guai a cadere nella trappola semi-presidenzialista
di Antonio Lettieri


SEMBRAVA CHE TUTTI FOSSERO D’ACCORDO SUL SUPERAMENTO DELL’INDECENTE MODELLO ELETTORALE, NON A CASO DEFINITO PORCELLUM. Ora, il Pdl pone come condizione e contropartita l’abolizione del regime parlamentare e il passaggio al semipresidenzialismo. L’aspetto ricattatorio è fuori discussione. Ma, al di là delle circostanze, bisogna riconoscere che il presidenzialismo è sempre stato per la destra la madre di tutte le riforme costituzionali, essendo basato sul principio di un potere «forte», concentrato in un leader, più o meno carismatico, direttamente eletto dal popolo.
A maggio di un anno fa Berlusconi e Alfano avevano avanzato la proposta del semipresidenzialismo come «l’atto fondativo della terza Repubblica». E Giovanni Sartori scriveva: «Improvvisamente Berlusconi (che di fiuto ne ha da vendere e che non si rassegna certo a stare in panchina) tira fuori dal cappello il modello francese». L’aspetto più intrigante è che la destra italiana non ha mai guardato al modello presidenzialista per eccellenza, vale a dire, quello americano, vecchio di più di due secoli e punteggiato da una storia di grandi presidenti. Qual è il motivo di questo mancato interesse? Molto semplicemente, la ragione sta nel fatto che negli Stati Uniti è stata adottata una radicale divisione dei poteri, secondo il paradigma del costituzionalismo moderno.
I poteri del presidente sono bilanciati dagli invalicabili poteri del Congresso. Non a caso, il sistema è congegnato in modo tale che raramente la maggioranza popolare che elegge il presidente coincide con la maggioranza dei due rami del Congresso. La ragione è nella de-sincronizzazione delle cadenze elettorali, essendo la Camera dei Rappresentanti rinnovata ogni due anni e, in coincidenza, il Senato per solo un terzo dei suoi membri in carica per sei anni. Non è, pertanto, un caso che i sacerdoti di un potere centrale forte si siano costantemente orientati sul semi-preisenzialismo, che, contrariamente a quanto lascerebbe intendere il prefisso «semi», è tendenzialmente un super-presidenzialismo, nel quale il presidente, secondo il sistema riformato vigente, è eletto contestualmente all’Assemblea nazionale, sia pure con un breve scarto di tempo. Questo consente, in linea generale, al presidente di nominare il capo del governo, automaticamente confermato dalla maggioranza parlamentare, normalmente coincidente con la maggioranza che lo ha portato all’Eliseo. Il suo potere è di vita e di morte nei confronti sia del governo che del Parlamento che può sciogliere «ad libitum».
La Quinta Repubblica è, in effetti, un regime eccezionale nel quadro dei regimi democratici occidentali, non a caso nato da circostanze eccezionali. Alla fine degli anni Cinquanta la IV Repubblica, dopo aver subito una dura sconfitta nella guerra coloniale in Indocina, si trovò minacciata da un colpo di stato dei generali che stavano conducendo, senza successo, la sporca guerra d’Algeria. È in queste condizioni di emergenza storica che fu chiamato alla testa del governo il generale Charles De Gaulle, che si era ritirato in una sperduta residenza lontana dalla capitale, il piccolo villaggio di Colombey-les-Deux-Eglises e.che, godendo, come capo della resistenza antifascista, di un ineguagliabile prestigio nazionale, era l’unico statista in grado di scongiurare la rivolta dei generali, e di aprire la strada all’indipendenza dell’Algeria. Da queste circostanze prese corpo nel 1962 la riforma costituzionale approvata da un referendum popolare conclusosi con una maggioranza straripante a favore della V Repubblica impersonata da Charles De Gaulle.
Quella forma eccezionale di presidenzialismo non ha trovato in Europa nessuna imitazione di rilievo, se si esclude la Russia di Putin. Secondo la costituzione russa, infatti, il capo dello Stato, eletto con voto popolare, nomina il capo del governo, confermato dalla Duma, la cui maggioranza, dopo la travagliata transizione di Eltsin, ha sempre coinciso con quella che ha eletto il presidente (prima Putin, poi Medvedev, poi ancora Putin).
Non è inverosimile che Berlusconi, nel suo costante disprezzo per la repubblica parlamentare disegnata dalla Costituzione italiana, abbia avuto presente, non senza invidia, l’incontrastato potere dell’amico Vladimir. Ma non si vede, con tutta la buona volontà, come possa essere possibile che il più occasionale di tutti i possibili governi sperimentati in Italia un governo fondato su «larghe intese» che ciascuno dei due principali partner considera provvisorie e delle quali liberarsi appena possibile possa avventurarsi su un percorso, non più di nomale riforma elettorale che ci liberi dall’indecenza del porcellum o che, più ambiziosamente poterebbe essere di tipo tedesco ma addirittura verso uno stravolgimento della costituzione e della democrazia parlamentare, che è il regime principe delle democrazie europee.

il Fatto 10.6.13
Emergency al fronte italiano
di Thomas Mackinson


IL DIRITTO ALLA SALUTE NON È PIÙ SCONTATO NEMMENO PER GLI ITALIANI. CHI NON HA SOLDI NON SI CURA. DOPO PALERMO E MARGHERA, LA FAMOSA ONG RADDOPPIA GLI AMBULATORI

Porto Marghera Ciminiere spente, capannoni col cartello “affittasi” e pochi camion su via Fratelli Bandiera, oggi deserta ma un tempo strada maestra della grande chimica nazionale. Sono scomparse quelle figurine di donne e uomini che uscivano a gruppi dai cancelli della zona industriale e dalle fabbrichette del Nord-Est, ridotti a fantasmi quegli operosi lavoratori che hanno trasformato la geografia di un’intera regione nel distretto petrolchimico italiano. Tutto appare più chiaro e fatale se si guarda la crisi da Porto Marghera, dove il fronte di lotta dell’operaio e del pensionato è ormai tra il mangiare e il masticare. La drammaticità di una condizione di sopravvivenza collettiva si tocca direttamente con mano in via Varè, a due passi dal polo industriale in agonia. Al civico sei, in un ex centro di salute mentale dell’Ulss, Emergency ha aperto nel 2010 un poliambulatorio che offre gratuitamente assistenza sanitaria di base e specialistica a chiunque ne abbia bisogno ma non può permettersela. Ci vanno molti immigrati - regolari e non - che non conoscono i propri diritti, stentano a muoversi tra la burocrazia sanitaria o non riescono a farsi capire dai medici per questioni linguistiche. Tanti senegalesi, rumeni, moldavi e cingalesi. Ma non è più “roba de foresti”, come dicono da queste parti. Lo schedario delle accettazioni rivela proprio l’esatto contrario: sono oltre 600 gli italiani che in due anni e mezzo hanno chiesto cure mediche gratuite. Un paziente su cinque è di nazionalità italiana, “ormai la prima per numero di ingressi”, conferma la coordinatrice del centro, Nadia Zanotti. Una realtà impossibile da immaginare solo qualche tempo fa, quando il mito del Nord-Est che si rimbocca le maniche riecheggiava in tv. “Il bacino del bisogno è enorme. Non sono solo indigenti ma tanta gente che apparteneva alle classi medie, pensionati e disoccupati che non riescono più a pagare il ticket, la visita specialistica o anche un analgesico”.
IL REGISTRO degli accessi al poliambulatorio è la controprova contabile alle allarmanti stime del Censis secondo cui un italiano su cinque non accede più a cure mediche per ragioni economiche. Erano 9 milioni un anno fa, oggi sono 12 milioni. E il rischio è che sia soltanto l’inizio, la certezza è che possa accadere ovunque. Per questo nel 2005 la Ong di Gino Strada ha rivolto lo sguardo all’Italia, nella convinzione che anche nel Paese dei “ristoranti pieni”, come qualcuno sosteneva, la povertà stesse apparecchiando uno scenario di guerra, con vittime e feriti da soccorrere. E che il diritto costituzionale alla gratuità delle cure agli indigenti non fosse più scontato per nessuno, italiani compresi. Con la campagna “Programma Italia” Emergency ha messo in campo le contromisure: nel 2006 un poliambulatorio a Palermo, nel 2010 a Porto Marghera, nel 2012 i polibus a Rosarno e nelle zone terremotate e uno sportello di orientamento socio-sanitario a Sassari. Altri due centri apriranno presto a Napoli e Polistena (RC).
PERCHÉ MARGHERA è chiaro, basta guardarsi attorno. Crocevia di forti immigrazioni, è anche un fronte del lavoro perduto senza tracce di redenzione. “Dai quei cancelli - indica Riccardo Colletti della Filctem Cgil - passavano 35mila operai, oggi solo cinquemila. Il tasso di disoccupazione è stabilmente al 20%, il doppio della media della regione. Tanti se sono andati, quelli rimasti chiedono aiuto soltanto dopo aver oltrepassato la linea della disperazione”. Sono i figli della promessa statale degli anni Cinquanta che aveva messo il freno alla grande emigrazione del popolo veneto verso altri continenti. Quel sogno, restare e produrre, è finito da decenni. Il colosso chimico ancora si sgretola e si ritira, scoprendo nuove aree da bonificare. Gli imprenditori delocalizzano le ultime produzioni e affittano le aree alla logistica. È con questa dimensione di necrologia industriale che convivono i 17mila residenti di Marghera, mentre la politica è inerte e afona difronte al vuoto che si spalanca, alza gli occhi al cielo, s'azzuffa sulla Torre Cardin a 250 metri da terra. Non c'è un piano o un ponte per garantire un epilogo diverso a questa storia molto italiana, che tante sorelle ha per lo Stivale, a partire da Taranto .
I SUOI FANTASMI si materializzano al poliambulatorio che dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18, spalanca le porte ai bisognosi di cure con sei dipendenti e 80 tra medici e infermieri volontari. “Oltre agli immigrati vengono qui a cercare aiuto tanti ex operai del chimico, nuovi disoccupati, cassintegrati e pensionati che non ce la fanno”, spiega il direttore sanitario Franco Osti. “Alcuni non hanno soldi per il ticket, per il farmaco o la visita specialistica. Il problema più sentito dagli italiani è senz’altro relativo alle cure odontoiatriche”. I pazienti, anche quelli esentati dal ticket per motivi di reddito, devono infatti pagare un contributo salato per le protesi dentarie. “Circa 250 euro per arcata, fino a 700 euro per l’impianto completo. Disoccupati e pensionati questi soldi non li hanno, perché se hai un’esenzione da reddito sotto gli 8mila euro, vuol dire che ogni mese ricevi uno stipendio o una pensione da 600. Noi forniamo tutto gratuitamente e con cure di qualità. Le richieste sono tantissime, stiamo cercando disperatamente altri dentisti volontari per soddisfarle tutte e coprire l'intera settimana”.
I DENTI e le ultime certezze qualcuno li ha infranti non in fabbrica ma nel paradiso dei souvenir per turisti che sembrava galleggiare sopra la crisi globale. Anche a Murano, invece, son sbarcati i cinesi. Magari non sanno l’arte antica della levata e della strozzatura, ma importano perfette riproduzioni che rivendono a prezzi imbattibili. Paolo R., mastro vetraio di 50 anni, tre anni fa ha chiuso il laboratorio e lasciato l’isola per cercar fortuna sulle prime colline del Veneto. E non l’ha trovata neppure lì. “È arrivato disperato - racconta Marta, mediatrice del centro - non aveva lavoro, casa e neppure la tessera sanitaria. La sua bocca era devastata, parlava a stento e la copriva continuamente con le mani per la vergogna”. Uscirà qualche mese dopo con una protesi ortodontica che non avrebbe mai potuto pagare di tasca sua. Stesso discorso per quelle oculistiche, troppo costose. “Tanti ne fanno a meno fino a che son costretti a chiedere aiuto”. Il centro ha anche ambulatori di medicina generale, ostetricia e ginecologia, pediatria da zero a 14 anni e un servizio di orientamento socio-sanitario. Gli anziani sono l’altra utenza importante. “La pensione che hanno non basta per le cure. Si sentono fragili, soli. C’è una coppietta che viene da Treviso, dolcissimi e di grande dignità. Ora stiamo pensando noi a come spingerci oltre Marghera per capire fino in fondo dove ci sta portando la crisi e come dobbiamo rispondere”.
ALDILÀ della ferrovia di Mestre si spalanca infatti la grande provincia veneta, dove il disagio si diluisce nello spazio e nascondendosi si radica. A giorni dall’ambulatorio partirà una perlustrazione nei distretti di Treviso, Padova e Venezia con studenti della Ca’ Foscari per mappare i bisogni, portare informazioni su esenzioni e servizi essenziali, anche agli italiani che non li possono più dare per scontati.
Non è facile riaffermare il diritto alle cure. Neppure per gli operatori di Emergency. All'apertura del presidio di Porto Marghera non sono mancate resistenze e polemiche. Qualche fervente leghista ha pure tentato di cavalcare l’allarme clandestini, salvo poi scoprire che il primo paziente del centro era stato proprio un cittadino italiano. La stessa Ulss si è mostrata a lungo sospettosa: nonostante un accordo siglato in Regione ha impiegato due anni a fornire alla Ong il ricettario rosso dei farmaci di prima fascia. La situazione si è sbloccata solo a marzo. “Nel frattempo abbiamo provveduto a nostre spese”, precisa il direttore Osti. “C’era il timore che facessimo concorrenza al pubblico, ma noi lavoriamo in modo complementare al Ssn cercando d'intercettare i bisogni prima che esplodano come urgenze nei pronti soccorso. È la salute non gestita ad affossare i bilanci delle aziende sanitarie. Questo aspetto, credo, dovrebbe interessare tutti gli italiani, anche quelli che pensano d’esser lontani dal fronte”. E in un pomeriggio scoprono che, forse, l'hanno superato da un pezzo.

il Fatto 10.6.13Emergency. Per la pace con il bisturi in mano

CHIRURGO DI STRADA Emergency è un'associazione umanitaria fondata a Milano nel 1994 “per portare aiuto alle vittime civili delle guerre e della povertà”. In 19 anni è intervenuta in 16 paesi. Dal 1994 i team di Emergency hanno assistito 5.439.757 persone (dati al 31 marzo 2013, fonte Emergency). Nel 1994 ha intrapreso la campagna che ha portato l'Italia a mettere al bando le mine antiuomo. Nel 2001, poco prima dell'inizio della guerra all'Afghanistan, ha chiesto ai cittadini di esprimere il proprio ripudio della guerra con uno “straccio di pace". Con la campagna "Fermiamo la guerra, firmiamo la pace", ha promosso una raccolta di firme per unaa legge di iniziativa popolare depositata alla Camera nel giugno 2003. Nel 2008 ha elaborato il Manifesto per una medicina basata sui diritti umani. Emergency è stata giuridicamente riconosciuta Onlus nel 1998 e Ong nel 1999. Partecipa ogni anno, con notevole successo, alla sottoscrizione del 5X1000.
FINO A OGGI, Emergency è intervenuta in 16 paesi, costruendo ospedali, centri chirurgici, centri di riabilitazione, centri pediatrici, posti di primo soccorso, centri sanitari, un centro di maternità e un centro cardiochirurgico.
RICOSTRUZIONE Su sollecitazione delle autorità locali e di altre organizzazioni, Emergency ha anche contribuito alla ristrutturazione e all'equipaggiamento di strutture sanitarie già esistenti.
IN ITALIA le visite negli ambulatori nel nostro paese superano le 15mila. Con Emergency, nel 2011, hanno lavoratori 2.126 persone di staff nazionale e 169 volontari internazionale (media mensile)

il Fatto 10.6.13
Disservizio nazionale: il pubblico dimentica 12 milioni di cittadini


La riduzione del finanziamento pubblico ai sistemi regionali, frutto dei tagli lineari del governo Berlusconi prima e del rigore del governo Monti, sta toccando in profondita il Servizio sanitario nazionale. La spesa personale dei cittadini per la salute ha toccato una quota pari all’1,8% del Pil mentre il 12,5% delle famiglie dice di aver dovuto rinunciare “ad almeno una prestazione sanitaria”. Anche dal governo Letta provengono messaggi poco rassicuranti.
La neo-ministra, Beatrice Lorenzin, è stata piuttosto esplicita nella sua audizione alle commissioni Sanità di Camera e Senato. “Siamo passati da un’universalità forte e incondizionata - ha detto la scorsa settimana - a un’universalità mitigata per garantire le prestazioni necessarie e appropriate solo a chi ne abbia effettivamente bisogno”. “Una riforma del sistema è non più procrastina-bile”. Il gioco delle parole è ingegnoso: apparentemente l’universalità del servizio - pagato dalle tasse di tutti (almeno di chi le paga) - non è messo in discussione ma da “forte” diventa “mitigata” finalizzata a garantire prestazioni “solo a chi ne abbia effettivamente bisogno”.
A parole i tagli sono banditi, occorre lavorare sulla “spesa standard” e sulla lotta agli sprechi. Nella sostanza, però, si pensa a “limitare l’accesso alle strutture ospedaliere e ai pronto soccorso”. Quali che siano le scelte che saranno fatte, è il Censis a rilevare che circa 12 milioni di italiani sono sempre più distanti dal servizio sanitario nazionale costretti a mettere mano ai propri risparmi per pagarsi le cure. I motivi di questa fuga sono diversi.
LA RAGIONE PRINCIPALE è la lunghezza delle liste d’attesa (per il 61,6%) e la convinzione che se paghi vieni trattato meglio (per il 18%). Si ricorre al privato soprattutto per l’odontoiatria (90%), le visite ginecologiche (57%) e le prestazioni di riabilitazione (36%). Ma il 69% delle persone che hanno effettuato prestazioni sanitarie private reputa alto il prezzo pagato e il 73% ritiene elevato il costo dell'intramoenia. Al 27% è anche capitato di constatare che il ticket per una prestazione sanitaria fosse superiore al costo nel privato. È vero solo in parte, e solo per accertamenti a basso contenuto tecnologico ma contribuisce ad alimentare una sensazione di insicurezza e scarsa copertura pubblica.
Secondo il Censis, sulla base di queste “percezioni”, il 20% degli italiani sarebbe disposto a spendere circa 600 euro l’anno, 50 al mese, per avere una copertura sanitaria integrativa. Le coperture maggiormente desiderate riguardano le visite specialistiche e la diagnostica ordinaria (52%), le cure dentarie (43%) e i farmaci (23%).
È molto alta, però, la percentuale di italiani che non ha mai sentito parlare o ne ha sentito parlare senza capire bene, di sanità integrativa è il 68%. Sono invece 6 milioni quelli che una formula integrativa già la possiedono. Considerando i familiari il numero sale a 11 milioni.
Infine il ticket. Il 50% degli italiani ritiene che sia una tassa iniqua, il 19,5% pensa che sia inutile e il 30% lo considera invece necessario per limitare l’acquisto di farmaci. Si lamentano di dover pagare ticket elevati soprattutto per le visite ortopediche (53%), l’ecografia dell’addome (52%), le visite ginecologiche (49%) e la colonscopia (45%). Il 41% degli italiani, inoltre, dichiara che la sanità pubblica copre solo le prestazioni essenziali e tutto il resto bisogna pagarselo da soli. Per il 14% la copertura pubblica è insufficiente per sé e la propria famiglia, mentre il 45% ritiene adeguata la copertura per le prestazioni di cui ha bisogno.
IL WELFARE e le risorse. Un’altra voce che aiuta a spiegare i casi come Emergency a Marghera è quella delle politiche sociali. Secondo un’analisi di Quotidiano Sanità sui numeri forniti dalle Regioni vengono ricostruiti i percorsi e gli stanziamenti di tutti i fondi che riguardano le politiche di welfare. Ne emerge che Il Fondo nazionale per le politiche sociali “si è contratto del 77,8% passando da uno stanziamento di 1,884 mld del 2004 ai 344,17 mln del 2013”. Il Fondo nazionale per le politiche giovanili istituito nel 2007 “è stato completamente azzerato nel 2013 così come il Fondo per le Pari opportunità e per il Fondo per le politiche della famiglia”. il Dipartimento della Gioventù e la singola Regione”.
Sa. Can.

il Fatto 10.6.13
Inciucio sanitario
Letta tentato dal privato
di Ivan Cavicchi


Il governo ha intenzione di varare una contro-riforma della sanità pubblica. Lo dimostrano le dichiarazioni della ministra Lorenzin sull’universalità da “mitigare” e sull’impossibilità di “garantire tutto a tutti”. Per questo ha chiesto al Cnel di coprirgli le spalle e il Cnel ha chiesto aiuto al Censis il quale ha realizzato per Previmedical Spa (leader nel campo dei fondi sanitari integrativi) un’inchiesta che sa tanto di invito ad aderire alla sanità integrativa. Nel frattempo al Senato è stata istituita una commissione per studiare il problema della sostenibilità dei conti, le più importanti Regioni di sinistra spingono i cittadini verso la mutualità per mitigare la privatizzazione, il sindacato, che di mutue se ne intende più di tutti, non parla e sembra girato da un’altra parte. In fin dei conti si tratta solo di ammazzare il diritto alla salute. Qual è il problema?
Dal momento che non esiste nessuna forza maggiore che giustifichi il sacrificio dell’art 32 della Costituzione - “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività” - a parte quella della speculazione privata, servirebbero comunque delle “giustificazioni” plausibili. In campagna elettorale il Pd ha detto: “Guai a toccare il diritto alla salute, la sanità non ha problemi di sostenibilità finanziaria ma solo di manutenzione, basta tagli lineari”. Ma ora che il cavallo di battaglia della ministra Lorenzin è diventato “l’universalismo insostenibile” quelle parole si perdono nel vento.
IN REALTÀ LA SANITÀ italiana è la meno costosa d’Europa e tutte le proiezioni dicono che la spesa è sotto controllo. Lo stesso, però, sii vuole definanziare la sanità pubblica per privatizzarla perché i soldi sono pochi e le promesse del governo tante e la pressione speculativa per “papparsi” almeno una parte dei 108 mld di spesa pubblica è titanica.
Il Pd rischia così di assumersi una responsabilità politica devastante. Privo di un pensiero realmente riformatore in Sanità non sa dove sbattere la testa. Ben venga quindi la ricerca commissionata al Censis da “Previmedical Spa” in grado di offrire, generosamente, numeri adatti a giustificare i motivi per cui un “governo responsabile” come quello Letta debba essere pronto a privatizzare la sanità pubblica. Se il 41% degli italiani dichiara di essere coperto solo parzialmente, se 12,2 milioni ricorrono già alla sanità privata, se il 20% si dice disposto a spendere 600 euro all’anno per avere una maggiore copertura, se 11 milioni hanno già aderito ad un fondo integrativo, cosa si aspetta? Avanti con il “secondo pilastro”. Basta con i diritti e mettiamo fine all’universalismo. Eppure proprio il Censis, in varie occasioni, ha spiegato che basterebbe combattere le corruzioni, le anti economicità, le diseconomie dentro il sistema per dare a tutti lo stesso diritto alla salute. Ma lo stesso Censis sa anche che la “leggerezza” della sanità pubblica” sarebbe “insostenibile” per i suoi famelici committenti. Se la politica pensa di servirsi di queste coperture per ammazzare impunemente i diritti delle persone non si lamenti se verrà punita al momento del voto. Stavolta in ballo c’è la pelle di milioni di cittadini.

Corriere 10.6.13
Il «modello francese» funziona ma in Italia sembra già superato
di Paolo Franchi


La cosa dovrebbe risultare ovvia, ma è bene ugualmente essere chiari. Può darsi che il semipresidenzialismo sia una risposta sbagliata, o addirittura pericolosa, nel contesto italiano. Ma non si può proprio sostenere che il combinato disposto tra elezione diretta del capo dello Stato e sistema elettorale a doppio turno (in una parola: il modello francese) sia sinonimo di reazione o di democrazia autoritaria. Sarà pure una monarchia repubblicana, la Francia. Destra e sinistra, che non hanno mai smesso di contrastarsi aspramente, si sono però alternate alla guida del Paese senza che agli sconfitti, magari di un soffio, passasse per la testa di contestare l'esito del voto. Dal maggio del 2013 all'Eliseo c'è un socialista, il secondo nella storia della Quinta Repubblica, vincitore in elezioni cui ha partecipato, anche al secondo turno, l'80 per cento dei francesi, e sulla scia del suo successo le sinistre hanno ottenuto una maggioranza assoluta all'Assemblea nazionale che altrimenti non avrebbero mai avuto. È vero, adesso sono in gravi difficoltà, il presidente socialista e il suo partito, e anche la destra di matrice gaullista non se la passa bene: tutti i sondaggi danno in forte ascesa, già alle elezioni europee, la destra antisistema di Marine Le Pen. Resta il fatto, però, che in Italia, non è mai capitato niente di simile. Quella di un bipolarismo che non ha saputo, voluto o potuto darsi delle regole e delle istituzioni è stata la storia non di una difficile transizione, ma di una lunga, insanabile malattia, il cui esito infausto era segnato fin dall'inizio.
Eppure di semipresidenzialismo, da noi, ci si occupa da moltissimo tempo. Ma quasi sempre come materia di aspre polemiche politiche e ideologiche (e di improvvisi, drastici rovesciamenti di posizione) piuttosto che di riflessione istituzionale. Correva l'anno 1979 quando Bettino Craxi sollevò per primo, sull'Avanti!, la questione, tirandosi addosso l'accusa di golpismo, più ancora che di gaullismo, in primo luogo da parte dei democristiani e dei comunisti, comprensibilmente convinti che il leader socialista volesse utilizzare questo grimaldello per forzare a suo vantaggio i rapporti di forza. Il confronto si trascinò, tanto aspro quanto improduttivo, lungo tutto il decennio successivo e anche un po' oltre: alla fine, a perdersi per strada, assieme al modello francese, furono le riforme. Se ne tornò a parlare, eccome, e non solo tra politologi e costituzionalisti, dopo il tracollo della Repubblica dei partiti. Alla Bicamerale presieduta da Massimo D'Alema fu un blitz della Lega, nel giugno del 1997 a far pendere d'improvviso la bilancia dalla parte del semipresidenzialismo, archiviando l'accordo faticosamente raggiunto in commissione sul cosiddetto «premierato forte»: se di lì a poco Silvio Berlusconi non avesse proceduto a rovesciare il tavolo delle riforme, l'Italia forse sarebbe diventata una Repubblica semipresidenziale (quasi) per caso. Ma nella Sala della Lupa di Montecitorio la suggestione «francese» non si era certo manifestata d'improvviso. Solo un anno prima, il tentativo di Antonio Maccanico di formare un governo che recepisse nel suo programma l'elezione diretta del capo dello Stato fallì in pochi giorni. A sostenerlo erano stati soprattutto Berlusconi e D'Alema (oggi di opposto avviso), che si vedevano entrambi come candidati naturali dei rispettivi schieramenti al Quirinale. A fargli gettare la spugna furono i veti incrociati di Gianfranco Fini e di Romano Prodi (oggi semipresidenzialista), ben sostenuti da un difensore strenuo, anzi, da un campione del parlamentarismo come Oscar Luigi Scalfaro.
Precedenti di questo tipo (e se ne potrebbero richiamare vari altri analoghi) significano che il semipresidenzialismo, in un Paese dove il tempo sembra non passare mai, ha un grande avvenire, sì, ma ormai tutto o quasi dietro le spalle? E che, se nei prossimi diciotto mesi si vogliono condurre in porto le riforme possibili, sarebbe meglio metterlo da parte già adesso? Non è detto, naturalmente. Ma, se l'esperienza qualcosa insegna, il confronto su un tema incandescente come questo può prendere corpo con qualche costrutto, quale che sia il suo esito finale, solo a condizione che si riesca a mantenerlo istituzionalmente, politicamente e, se è lecito, culturalmente alto, sforzandosi di sottrarlo al berciare della politica quotidiana e, nei limiti dell'umanamente possibile, di de-ideologizzarlo. Nonché cercando di rendere chiaro, anzitutto a se stessi, che è del possibile futuro di questo Paese che si parla, non del futuro di Berlusconi, di Enrico Letta o di Matteo Renzi. Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Sotto ogni cielo, si capisce. Ma soprattutto da noi, dove tutti parlano di riforme, ma con le difficoltà e, se volete, la noia del riformismo nessuno ha troppa voglia di confrontarsi. Meglio, molto meglio (o piuttosto: facile, molto più facile) ergersi a incorruttibili vestali della «Costituzione più bella del mondo» o, all'opposto, invocare l'avvento del «sindaco d'Italia», quasi che un capo dello Stato fosse una specie di super primo cittadino, dalla «rivoluzione dei sindaci» non fossero trascorsi vent'anni, e nelle elezioni comunali ormai non dilagassero disaffezione e astensionismo.

Repubblica 10.6.13
La scuola al centro della politica costituzionale
di Stefano Rodotà


Dal mondo della scuola, da Bologna e da Napoli, arrivano indicazioni significative per stabilire quale debba essere oggi la politica costituzionale, e che mettono in evidenza l’importanza delle iniziative dei cittadini e l’illegittimità di vincoli economici che possono pregiudicare i diritti fondamentali delle persone. Grandi questioni di principio entrano così, con la forza della concretezza, in una discussione costituzionale da troppo tempo confinata in astratte e rischiose operazioni di “ingegneria istituzionale”, con scarsa considerazione dei principi da rispettare e disattenzione crescente per le essenziali questioni dei diritti.
È ormai ben noto che un gruppo di cittadini bolognesi aveva promosso un referendum sul finanziamento pubblico alle scuole materne private, ricordando che l’articolo 33 della Costituzione riconosce il diritto dei privati “di istituire scuole senza oneri per lo Stato”. Veniva così messa in discussione una linea di politica scolastica nazionale e locale costruita negli anni da maggioranze diverse, che aveva aggirato la norma costituzionale riconoscendo ai privati cospicui finanziamenti.
Contro il referendum si era costituito un massiccio schieramento che vedeva insieme il Pd, il Pdl e la Curia. Sembrava così che il risultato fosse scontato. E invece contro il finanziamento si è pronunciato il 58,8% dei votanti, smentendo non solo le previsioni, ma pure l’accusa secondo la quale si trattava di una iniziativa estremista e minoritaria, che metteva in discussione il diritto dei bambini appartenenti alle famiglie più svantaggiate. Se, infatti, si analizzano i risultati del voto quartiere per quartiere, emerge con nettezza il fatto che il sostegno al referendum è venuto proprio dalle zone più popolari dov’è più forte l’elettorato di sinistra che, dunque, non si è allineato alla posizione ufficiale del Pd. Si è cercato di sminuire il significato del referendum insistendo sulla bassa affluenza alle urne (28,7%). Argomento debole, soprattutto in tempi di astensionismo generalizzato.
Ma il risultato bolognese si presta a riflessioni di carattere generale. La prima riguarda la fedeltà alla Costituzione e la voglia delle persone di impegnarsi in iniziative che difendono principi: e questa è una indicazione importante in una fase in cui si vuole avviare una stagione di riforme che rischia di mettere in discussione proprio aspetti fondamentali del testo costituzionale. La seconda si riferisce alla necessità di rispettare il risultato del voto referendario, anche se, come nel caso di Bologna, non ha valore vincolante. E, infatti, personalità eminenti del mondo cattolico, che si erano schierate a favore del mantenimento del finanziamento ai privati, hanno responsabilmente sottolineato la necessità di tenere comunque conto della volontà popolare.
La questione del rispetto dei risultati referendari non è nuova. Da due anni, da quando ventisette milioni di elettori votarono contro la privatizzazione dell’acqua, è in corso una guerriglia che vede istituzioni pubbliche impegnate nell’illegittimo tentativo di vanificare il risultato di quel voto. E negli ultimi tempi si è ripetutamente insistito sul fatto che, nel 1993, il 90% degli elettori votò a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, poi mantenuto in vita con diversi artifizi. Sembra, invece, essersi perduta la memoria di quei sedici milioni di cittadini che nel 2006, votando contro la riforma costituzionale approvata dalla maggioranza berlusconiana l’anno precedente, confermarono l’impianto della Costituzione, opponendosi a forzature che avrebbero accentuato i rischi della concentrazione autoritaria del potere. Vale il richiamo al referendum sul finanziamento ai partiti e non quello sulla fedeltà alla Costituzione? Due pesi e due misure? Certo, i risultati referendari non escludono la possibilità di riprendere in esame i temi affrontati e nella mozione appena approvata dalle Camere sull’iter delle riforme costituzionali si dice esplicitamente che un referendum sarà possibile. Ma, istituzionalmente e politicamente, è preoccupante la disattenzione per una opinione pubblica che ha ripetutamente mostrato un orientamento ostile alle semplificazioni autoritarie del sistema costituzionale e la sua attenzione ai principi che lo fondano.
Principi che non possono rimanere sulla carta e che, quindi, non possono essere messi tra parentesi con l’argomento dei vincoli imposti dalla crisi economica. È questo il grande significato di una decisione della Corte dei conti che ha giudicato legittima una decisione del Comune di Napoli anch’essa legata al funzionamento delle scuole. Che cosa aveva fatto il Comune? Aveva approvato una delibera che consentiva
la nomina degli insegnanti necessari per il funzionamento delle scuole dell’infanzia e degli asili nido, delibera che formalmente si poneva in contrasto con i divieti imposti dal patto di stabilità ai Comuni con pesanti buchi nel bilancio. La questione era finita davanti alla sezione campana della Corte dei conti, che doveva appunto accertare la legittimità dell’iniziativa presa dagli amministratori napoletani. L’argomentazione del Procuratore regionale è molto netta: “I pur fortissimi diritti di contenuto economico e finanziario posti a salvaguardia dell’integrità dei bilanci pubblici non possono incidere sui diritti fondamentali della persona”. E qui le persone sono le bambine e i bambini che sarebbero stati privati proprio della possibilità di accedere ad un servizio essenziale, come quello scolastico, con evidente violazione del diritto all’istruzione, elemento costitutivo del diritto costituzionale al libero sviluppo della personalità. Nella delibera del Comune, peraltro, si affrontava anche il tema della riduzione di altre spese, non altrettanto indispensabili, per sostenere quelle relative all’assunzione degli insegnanti.
Sulla base di una dettagliata analisi delle norme vigenti e degli orientamenti delle corti italiane e europee viene così messa radicalmente in discussione la subordinazione dei diritti fondamentali alla logica economica, che sembra essere divenuta l’unica norma di riferimento del tempo che viviamo. Si blocca così una deriva che ha portato a vere e proprie sospensioni delle garanzie costituzionali. Il caso napoletano dovrebbe allora imporre un riflessione generale ad una politica disattenta e che sembra non più attrezzata per affrontare questioni di tale portata. Che però non possono essere eluse, perché intorno ad esse si costruisce quella politica costituzionale di cui sempre più si avverte il bisogno.
La scuola pubblica, scriveva Piero Calamandrei, è “organo costituzionale”. Quella definizione torna alla mente perché da lì, dal luogo dove principi fondativi e formazione civile s’incontrano, viene oggi una spinta forte per uscire dalla regressione nella quale stiamo sprofondando e per indicare alla politica l’orizzonte largo nel quale deve muoversi per recuperare credito e nobiltà.

Repubblica 10.6.13
Non dimenticate i bimbi con problemi psichiatrici
di Mario Pirani


In un corridoio che porta all’Aula Magna della Sapienza, dove si svolge l’annunciato convegno (vedi l’ultima rubrica) su “La salute mentale in età evolutiva e  la scuola: verso una legge regionale”, leggo su un cartello scritto a mano: “Non dimenticate in cantina i bambini con problemi psichiatrici”. Un sorriso agrodolce per rendere meno amaro l’approccio, ma, comunque, i dati sono drammatici. Nella Regione Lazio ci sono 60.000 bambini e ragazzi con difficoltà neuropsichiatriche. Dalle gravi disabilità intellettive alle dislessie, dagli autismi alle schizofrenie precocissime, dalle epilessie focali ai disturbi del movimento.
Il rapporto fra prime visite e casi seguiti, negli ultimi anni, è sceso da sopra 1 a 5 a sotto 1 a 3. Questo significa che 2 casi su 5 rimangono a lungo aspettando la terapia dopo aver aspettato a lungo la diagnosi.
Perché? Un solo esempio: i neuropsichiatri infantili che operano nei Servizi pubblici e nei Servizi privati accreditati sono meno di 95, mentre dovrebbero essere più di 180. Lo stesso per gli altri ruoli professionali (psicologi clinici, terapisti, educatori, assistenti sociali, etc.).
Abbiamo un altro dato ben noto da circa tre anni. L’Istituto di Via dei Sabelli è seriamente carente di personale; per di più ha visto ridurre nettamente i posti di ospedale diurno, uno strumento di altissima protezione psicologica.
Cosa ci si aspetta dalla Regione Lazio? Tre cose: 1) una legge sulla salute mentale in età evolutiva; 2) subito un progetto speciale di rilancio per Via dei Sabelli; 3) un progetto per potenziare al più presto almeno quattro Servizi di neuropsichiatria infantile (due a Roma e due nelle Province). È un’occasione per avviare davvero una nuova gestione dopo la silenziosa assenza della presidenza Polverini. Speriamo che ora Nicola Zingaretti sappia prendere in pugno la situazione, realizzando in un settore vitale la discontinuità promessa. Non si tratta, però, solo di un problema di politica sanitaria ma anche di fornire un quadro che serva a garantire la correttezza e l’aggiornamento scientifico.
I bambini neuropsichiatrici hanno nel 60% dei casi due o persino tre problemi sia nello stesso momento sia in diversi momenti di vita.
Finché esiste una politica di interventi settoriali, permane un forte rischio di frammentare gli interventi in base a etichette diagnostiche incomplete.
Può capitare, inevitabilmente, anche agli operatori con maggiore esperienza.
Abbiamo già pagato prezzi altissimi per queste scelte o, appunto, per mode professionali.
Dal convegno dovrebbe uscire una linea integrata di intervento sulla salute mentale in età evolutiva che integri riabilitazione e psicoterapia, diagnosi medica e diagnosi psicologica, diagnosi del disturbo e valutazione della persona. Abbiamo chiesto in proposito il parere di uno dei più eminenti studiosi del settore, il professor Pietro Barbieri, presidente della Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish), una organizzazione ombrello cui aderiscono alcune tra le più rappresentative associazioni impegnate, a livello nazionale e locale, in politiche mirate all’inclusione sociale delle persone con differenti disabilità. Alle nostre domande il professor Barbieri risponde: «Partendo dalla nuova visione bio-psico- sociale della disabilità, contrapposta ad un modello medico che per decenni ha reiterato pregiudizi e segregazioni, la Fish interviene per garantire la non discriminazione e le pari opportunità, in ogni ambito della vita. Dobbiamo rimettere al centro il tema dei bambini e adolescenti con disabilità a partire da quelli con disabilità intellettiva e con problemi di salute mentale. Il nostro Paese sembra non dare alcun rilievo a tutto ciò ed anche le esperienze più significative sono messe a rischio dalla riduzione delle risorse per i servizi territoriali sanitari. Serve un intervento ordinamentale che faccia seguito al piano d’azione del governo e che costruisca reti di servizi a partire dalla valorizzazione di quelli attuali».

Repubblica 10.6.13
L’ultimo argine contro la povertà
di Chiara Saraceno


Come è successo anche in altri periodi di gravi e prolungate crisi economiche, molte donne si ritrovano nella posizione di procacciatrici principali, o anche uniche, di reddito in famiglia. Non perché sono avvantaggiate nel mercato del lavoro, ma perché si trovano ad essere vuoi l’unica persona adulta in famiglia, vuoi perché l’altro adulto ha perso il lavoro. Certo, ci sono anche coppie in cui la donna ha fatto più carriera dell’uomo e guadagna di più.
Una possibilità che dovrebbe apparire normale in una società in cui da tempo le donne studiano e sono preparate tanto quanto, e spesso più, degli uomini. Ma che costituisce invece ancora una eccezione stante le mille difficoltà e i pregiudizi che le donne incontrano nel mercato del lavoro e nel vedersi riconosciute competenze ed esperienza. Qui si parla tuttavia di un rovesciamento delle posizioni tra uomini e donne, per così dire, al ribasso, in una situazione di debolezza degli uomini, di lavori tradizionalmente maschili che spariscono.
D’altra parte, le molte donne con redditi modesti che mantengono da sole la propria famiglia testimoniano come l’occupazione femminile sia ciò che molte volte fa la differenza tra la povertà e il farcela, sia pure con fatica. Quando non solo i matrimoni, ma anche le occupazioni sono insicure e reversibili, se la donna è occupata può uscire da un matrimonio con minor timore di esporre sé e i figli alla povertà; o la famiglia può considerare con meno angoscia la perdita del lavoro o la cassa integrazione di colui che fino a quel momento era il principale percettore di reddito.
È più duro, più difficile, quando la fine di un matrimonio, o la perdita del lavoro del marito, significano anche la perdita dell’unico reddito fino ad allora esistente. Del resto, i dati sulla povertà minorile da tempo segnalano che avere non solo il papà, ma anche la mamma occupata fa diminuire di due terzi circa il rischio di povertà.
Anche solo per questo effetto di protezione economica delle donne, ma anche delle loro famiglie, l’occupazione femminile andrebbe sostenuta in ogni modo, sia nelle politiche del lavoro sia in quelle sociali che favoriscono la conciliazione tra occupazione e responsabilità di cura, sia infine nel modo in cui si educano i più giovani e li si aiuta a progettare il futuro. Deve preoccupare, da questo punto di vista, che tra i giovani che né studiano né lavorano la maggioranza sono donne. Occorre dare loro gli strumenti per capire che non possono affidarsi solo a un matrimonio, che non possono vincolare così il proprio destino e la propria libertà.
Lo sanno bene le molte donne che, per scelta o necessità, si erano dedicate solo alla famiglia e, per la fine di un matrimonio o la perdita del lavoro del marito, si trovano costrette a entrare nel mercato del lavoro dovendo spesso accettare lavori qualsiasi, talvolta anche sottopagati e in nero, in un mercato del lavoro difficile anche per chi è più giovane, o qualificato, o con meno carico di lavoro famigliare.
Resta da vedere se all’assunzione della responsabilità di principale procacciatrice di reddito della donna dentro una coppia corrisponda una analoga assunzione di responsabilità per il lavoro domestico da parte del suo compagno. Temo di no. Molte ricerche segnalano che quando un uomo si sente umiliato nel suo ruolo tradizionale di chi porta a casa i soldi, è meno, non più, disponibile a fare di più in casa, quasi che si trattasse di una umiliazione aggiuntiva.
Ma, chissà, forse anche questo può cambiare, soprattutto se le donne non pensano di doversi fare perdonare per il fatto di essere loro a mantenere la famiglia.

il Fatto 10.6.13
Le radici della rabbia
Simboli e scintille così nascono le rivolte
di Martina Castigliani e Emiliano Liuzzi


Chiedono la realtà, perché i sogni non ci sono mai stati. I manifestanti di Gezi Park, in Turchia, in piazza ci sono andati perché non volevano un centro commerciale a distruggere alberi e occupare ancora una volta la loro città. Poi viene la democrazia, la libertà di espressione e gli ideali, ma prima ancora c’è la concretezza di un mondo quotidiano che esiste e che non ha tempo per il contorno. Una scintilla (prima ancora degli ideali). Covata in un sottobosco altamente infiammabile, quello della Turchia che cresce, produce, guarda all'Europa, si occidentalizza, ma senza sapere quale sarà il domani.
Piazza Taksim a Istanbul è un centro di negozi e insegne al neon luminoso. É la collina da cui parte la via grande, quella delle manifestazioni. A poche spanne di orizzonte il ponte lungo un chilometro e mezzo che attraversa il Bosforo e unisce la Turchia all’Europa, l’oriente all’occidente. Ed è lassù, al centro del mare aperto che la rivolta dei giovani turchi ha trovato il suo senso. Europei di testa, di mani, di braccia, di speranze, vivono in uno stato islamico non accettato dall’occidente. I turisti arrivano con una semplice carta d’identità, gli studenti turchi devono fare permessi e arrancare. É sul ponte del Bosforo la rivolta, tra moschee e minigonne, tra volti truccati e veli.
L’ambulante di Tunisi
Ma quante scintille hanno creato incendi? Molte. E chissà quante ce ne saranno ancora. La storia di Gezi Park sembra uguale a quella di Mohamed Bouazizi, il venditore di frutta che ha dato il via alla protesta in Tunisia. Quella che è la primavera araba e che molti leggono come l’inizio di rivoluzioni, parte da un carretto di frutta al centro della capitale, Tunisi, e da un ragazzo che cerca di arrivare alla fine del mese. La polizia lo caccia, non ha il permesso, forse qualcuno lo schiaffeggia. Mohamed si dà fuoco. Perché non c’è più alternativa, perché nel suo arrancare ha perso ogni appiglio. Poi arriva la democrazia, la speranza, la richiesta di un mondo migliore. Piazza Tahrir è il seguito della storia che tutti conosciamo. Quello che accadrà dopo cambierà definitivamente il corso della storia. Per dirla con parole scontate: niente sarà come prima. A pochi passi dalla Turchia c’è un Iran disperso nei suoi errori, con la più grave delle colpe: aver perso e fatto svanire una rivoluzione. Era il 1979 e i padri portarono al potere un dittatore. Non lo sapevano che avrebbero cacciato lo Shah per portare altra repressione, ma il risultato ora lo pagano milioni di persone. Nel 2009 i giovani sono scesi nelle piazze e chiedevano: “Dov’è il mio voto? ”. La richiesta era quella di rispettare il risultato delle elezioni e denunciare i brogli. Non c’erano ideologia, sogni o speranze. Hanno perso famiglie, genitori, idee per le rivoluzioni. I giovani di oggi hanno i piedi immersi nel sangue di chi un cambiamento ha provato a chiederlo. Sono figli di battaglie che hanno portato eredità pesanti con cui combattere e odiano quelle pagine scritte con il rosso da padri e madri che la via se la sono sudata ma che di fallimenti hanno piene le pagine dei ricordi. Abhollassan Banisadr, il primo presidente della Repubblica islamica iraniana e primo tra i rivoluzionari, ora in esilio, ripete sempre una frase: “Giovani di oggi, abbiate più coraggio”. Ai ribelli scorrono brividi come di ghiaccio lungo la schiena. “Scegliamo la responsabilità”.
Iran, la rivoluzione perduta
Il Medio Oriente è stato vittima di una fatica sociale, di due processi, rivoluzione e riforma, che parallelamente ne hanno caratterizzato la storia. Prima il nazionalismo arabo tra gli anni Venti e Quaranta, poi la sinistra della fine degli anni Sessanta, fino ad arrivare alle mobilitazioni islamiche. Ora il lento riprendersi di una storia e di una strada che non avrebbero mai voluto abbandonare. Fanno a pugni con una struttura fortemente radicata e istituzioni potenti. L’esercito, la classe media, i cartelli economici. I veri ostacoli del cambiamento arrivano quando la piazza si svuota. I segni di una rivoluzione poi ti restano sul volto. Che è scuro, del colore oliva di chi sembra soltanto nato al sud e invece un giorno ha deciso di sacrificare la vita per una scelta.
A scorrere indietro le immagini c'è un'altra fotografia che spiega bene come nasca un incendio. Siamo Negli Stati Uniti, anno 1965. Un gruppo di attivisti omosessuali manifesta davanti alla Casa Bianca. Il maggio francese, e la sua Marianna che sventola una bandiera, sono solo il culmine di una rivoluzione iniziata prima, e molto lontano. Berkeley, l'Urlo di Allen Ginsberg, The Times they're a Changin di Bob Dylan, la strada di Jack Kerouac. Queste sono le scintille che travolgeranno il mondo. E se in Francia il '68 durerà un anno, in Italia la prima manifestazione (24 febbraio a Roma) impiegherà a spegnere un incendio che culmina con il sequestro di Aldo Moro.
Qualcosa di molto simile aveva fatto Rosa Parks. Anche quella è una scintilla. Una scintilla o solo un simbolo, in un mondo che di simboli ha sempre avuto bisogno. Lei, nera, si rifiuta di cedere il posto in bus a un bianco e verrà segnato come l'inizio di un'altra epoca. Ma tutto era già pronto, preparato.
“L'atto è l'oblio dell'azione nello smemoramento di sé”, diceva Carmelo Bene nel Lorenzaccio, dove aveva calcato tutto il Nietsche giovane. L'atto deve dimenticare l'azione. Come il fuoco che deve dimenticare la scintilla. E spesso accade. Una scintilla sono i ragazzi che scavalcano il Muro di Berlino, prima ancora di iniziare ad abbatterlo.
La Resistenza è donna
La storia ha relegato in un angolo la prima vera rivolta contro il regime fascista in Italia. Spesso neanche viene ricordata. Ma fu a Monteleone di Puglia, in provincia dei Foggia, 847 metri sopra al livello del mare: qui il 23 agosto 1942 ci fu la prima rivolta popolare contro il regime fascista. La rivolta delle donne di Monteleone è stato senza dubbio il primo segnale di malcontento in Italia delle masse. La causa fu la decisione del comandante della stazione dei carabinieri di sequestrare alcune pignatte di granoturco a delle donne che erano in fila davanti ad un forno del paese. Ebbe inizio della Resistenza.

il Fatto 10.6.13
Il docente universitario
Turchia, le ragioni verdi e quel no alla repressione
di Hamit Bozarslan
*

Le contestazioni che scuotono Istanbul e molte altre città della Turchia sono il sintomo della rabbia di tre attori profondamente diversi. Il primo, in assoluto il più importante, raggruppa gli intellettuali e una gioventù di sensibilità di sinistra o ecologista che respinge la volontà de l’Akp, il partito al potere, d’imporre la sua dominazione sui corpi, il tempo e lo spazio. Forte del sostegno della maggior parte della borghesia provinciale da quando c’è stata la sua conversione ad un neoliberismo a oltranza, come di quello delle parti più sfavorite della società, clientelizzate dalle sue politiche di carità, il governo di Erdogan ha trasformato la società, con nuovi dispositivi giuridici e un controllo sociale accresciuto.
IL SUO PROGETTO di costruire un’antica caserma ottomana, un centro commerciale e una moschea sulla piazza Taksim, la dice lunga sulla proiezione che fa della Turchia per il centesimo anniversario della Repubblica nel 2023. Questa piazza, che non è per niente conosciuta per la sua bellezza architettonica, è il cuore dell’unica “zona liberata” di Istanbul, dove la dissidenza contro la pratica ortodossa può ancora esprimersi in libertà.
La sinistra radicale rappresenta il secondo attore della scena. Insignificante sul piano elettorale, non dispone di un’eredità storica significativa, segnato da decenni di lotte e repressioni. Sul piano sociologico, si nutre allo stesso tempo della marginalizzazione della comunità degli aleviti, vittima di numerosi pogrom in un passato non così lontano. (…) L’attaccamento del potere a un sunnismo militante ha preso una tonalità oltraggiosa agli occhi dei membri di questa confessione.
Infine bisogna menzionare una corrente nazional-socialista in cui alcune figure vengono da un’antica sinistra radicale. In seguito ad un passaggio di concetti dal socialismo all’ultranazionalismo, quest’ultimo considera i Turchi come un’etnia e una classe oppressa da altre classi etniche (Armeni, Greci, ebrei o ancora curdi, minacciati nella loro esistenza dagli imperialismi euro americani. Gli idoli sono Mustafa Kemal (1881-1938) e Talaat Pacha (1874-1921), architetto del genocidio degli Armeni. Davanti all’ampiezza delle manifestazioni, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan sembra trovarsi senza altra risposta che la provocazione o la minaccia di mobilitare le sue truppe. In realtà, nella prima metà degli anni 2000, il suo partito aveva suscitato molte speranze anche nella sinistra liberale che vedeva in lui l’uomo che avrebbe rotto i tabù secolari del paese, diminuito il peso dei militare e realizzato l’avvicinamento con l’Europa. Dal 2008 al 2009 però, dal momento che ha saputo effettivamente marginalizzare l’esercito e assicurarsi un’egemonia nelle urne, il suo partito ha smesso di essere una forza fuori sistema per diventare il portavoce di un progetto statale che vuole rifondare la società su una base ultra conservatrice.
LA SVOLTA AUTORITARIA, si è tradotta con l’arresto di numerosi intellettuali di sinistra e si nutre di un culto della potenza che identifica Erdogan con la “Nazione turca e musulmana”, che deve essere “fiera del suo passato” e “assumersi le sue responsabilità nello spazio imperale”.
Ma il principio della maggioranza elettorale, che Erdogan accetta come solo sinonimo della democrazia, si scontra con le realtà di una società che non riesce più a capire. Il suo governo ci ricorda che i poteri pagano sempre la volontà di regnare con l’egemonia al costo di vere e proprie crisi epistemologiche. Finiscono così disarmati davanti a contestazioni che loro stessi hanno contribuito a creare. “La piazza della Divisione”, è la traduzione letterale di piazza Taksim, che prende la sua origine dalla distribuzione dell’acqua in città, prima di rappresentare la politica di divisione che Ankara voleva mettere in pratica a Cipro. Taksim è così diventata il teatro dove si manifestano con violenza le divisioni di una società che si vuole tentare di omogeneizzare da decenni.
*Hamit Bozarslan, directeur d’études dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e autore de l’Histoire de la Turquie de l’Empire à nos jours”. L’articolo concesso dall’ autore è stato pubblicato anche su Lemonde.fr

La Stampa 10.6.13
Nella periferia sciita di Istanbul
“Vuole un golpe, lo fermeremo”
di Marta Ottaviani

qui

Repubblica 10.6.13
La scrittrice Elif Batuman: “Sbagliato aggredire brutalmente chi protesta, bisognava seguire l’esempio di Stati Uniti e Spagna con i movimenti”
“È la rivolta della generazione Occupy, laica e anti-liberista”
di Antonello Guerrera


«LE proteste di questi giorni in Turchia sono contro Erdogan e contro l’islamizzazione del Paese. Ma c’è anche una corrente scettica verso l’Occidente. Erdogan deve ascoltare i manifestanti, non evitarli e scappare». Elif Batuman, giornalista americana del
New Yorker di origine turca, vive a Istanbul nel “quartiere libero” di Cihangir. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi I posseduti. Storie di grandi romanzieri russi e dei loro lettori.
Elif Batuman, siamo di fronte a una nuova “primavera”?
«Non credo. La situazione è molto diversa qui. L’economia sinora è andata bene, siamo comunque in una democrazia. Ma c’è uno scollamento tra il governo di Erdogan e buona parte della popolazione, che non sappiamo dove porterà. E il comportamento del premier non aiuta ad avvicinare le parti».
Ma Erdogan vuole davvero islamizzare la Turchia?
«Non credo che possa arrivare al livello dell’Iran. Però vuole far diventare la Turchia una superpotenza capitalista in Medio Oriente, sbarazzandosi intanto di molti precetti del laico fondatore Atatürk. E questo a molti turchi non piace».
Perché questa non è una protesta come le altre?
«Per la brutalità della polizia e del governo, che hanno gestito
pessimamente la vicenda. Attaccare così i manifestanti è stato davvero stupido, oltre che vergognoso. Per gestire meglio l’energia di una simile protesta, bastava seguire
l’esempio di Stati Uniti e Spagna con i movimenti Occupy e indignados».
Chi sono i manifestanti? Hanno un punto di riferimento?
«Inizialmente il punto di riferimento c’era: la manifestazione è stata organizzata da un gruppo ambientalista in difesa del parco. Poi però in piazza è arrivato di tutto: sindacati, gruppi femministi, ultras, vegani. Per ora si tratta di una massa molto orizzontale, stile Occupy».
I gruppi di ultras del calcio sono stati protagonisti della “primavera egiziana”. Lo saranno anche in Turchia?
«Ho parlato con alcuni di loro, con il gruppo di sinistra Çarsi, del Besiktas, che nella protesta si è unito ai tifosi rivali del Galatasaray e Fenerbahçe (tre squadre di Istanbul,
ndr). Sono contro tutto e tutti, tra cui l’imperialismo americano e occidentale. Non aspettavano che un’occasione del genere».
Fra i manifestanti c’è chi rinnega anche il liberismo di Erdogan?
«C’è una corrente scettica verso l’Occidente e il liberismo: alcuni intellettuali, i sindacati di sinistra, gli ambientalisti, una parte degli operai».
Oggi la Turchia è un Paese spaccato?
«Sì, ma non solo in quest’ultima protesta. Si prenda Istanbul: è una città frammentata in quartieri e gruppi che difficilmente interagiscono. Questo, unito alla censura del governo, genera un clima di sospetto generale. Sono pochi quelli apertamente con Erdogan. Ma poi alle urne, almeno sinora, le cose vanno molto diversamente».

Corriere 10.6.13
La «normalità» della giustizia cinese contro le famiglie dei dissidenti
di Guido Santevecchi


Venerdì, mentre il presidente Xi Jinping sbarcava in California per incontrare Barack Obama, alla madre e a un fratello del dissidente Chen Guangcheng veniva concesso il passaporto, dopo mesi in cui erano stati assediati in casa da teppisti autorizzati dalle autorità. Un gesto di buona volontà. Finito il vertice, Pechino è tornata alla normalità: Liu Hui, cognato del premio Nobel per la Pace 2010 Liu Xiaobo imprigionato dal 2009, è stato condannato a 11 anni di carcere. Era un processo per frode commerciale: Liu Hui, agente immobiliare, era accusato di aver fatto perdere a un cliente 3 milioni di yuan (meno di 400 mila euro). Una questione da risolvere normalmente in sede civile, dice l'avvocato. Un caso che era stato conciliato tra le parti, ma che la «giustizia» cinese ha portato fino in fondo. E siccome la magistratura nella Repubblica popolare non è indipendente, non bisogna essere membro di un'organizzazione per la difesa dei diritti umani per trarre le conseguenze sul significato politico.
La Cina non intende concedere il minimo spazio al dissenso ed è pronta a rispondere con sentenze esemplari alle pressioni occidentali sul fronte dei diritti civili e umani.
In aula c'era Liu Xia, la sorella del condannato, moglie del premio Nobel: lei vive da tre anni agli arresti domiciliari. «Si tratta di una persecuzione familiare», ha gridato mentre piangeva per la frustrazione e la disperazione. Liu Xiaobo sta scontando 11 anni per incitamento alla sovversione. La stessa pena inflitta al cognato per una frode (che lui nega) da 400 mila euro. E la somma era stata restituita al cliente che sosteneva di essere stato truffato.
Quella di punire i parenti dei dissidenti è una pratica consolidata nella procedura repressiva. Anche il nipote di Chen Guang- cheng, l'avvocato dissidente rifugiato negli Stati Uniti, è stato condannato a tre anni di carcere con l'accusa di violenza privata: aveva resistito a un'aggressione nella sua casa.
Parlando dopo la fine del vertice Obama-Xi, il consigliere di Stato cinese Yang Jiechi, responsabile della politica estera, ha detto che i risultati di Pechino nel campo dei diritti umani «sono sotto gli occhi di tutti». Come dargli torto?

Repubblica 10.6.13
Gaza
I poliziotti di Hamas nella Striscia vanno a caccia dei giovani “sospetti”, li picchiano e poi li arrestano
Proibita qualsiasi moda “all’occidentale”: dai capelli lunghi alle cuffie per la musica sulle orecchie
di Fabio Scuto


GAZA CITY Ahmed, Hammad e Youssuf, si affacciano all’angolo della stradina sterrata e senza nome nel rione popolare di Rimal, controllano con attenzione che non ci sia nessuna faccia da poliziotto in vista. Poi si sistemano la cresta tirata su col gel, si accendono una sigaretta e si incamminano con quel passo strascicato obbligato dai pantaloni a vita bassa che strusciano sotto le sneacker Made in China, con l’aria di sfida che hanno i teenager di tutto il mondo. Ma la loro è diversa, perché la polizia di Hamas con una “special branch” dà la caccia a questi ragazzi come fossero criminali, nell’ambito della campagna “Tirati su i pantaloni”, destinata a eliminare da Gaza questa “piaga”. Le auto civetta della “polizia delle Virtù” battono le scuole, le università, gli abituali — pochi — luoghi di ritrovo in cerca di giovani con acconciature particolari, giudicate troppo stravaganti secondo il metro islamico, mutande che spuntano dai pantaloni. Modelli comportamentali che però i ragazzi della Striscia vedono ogni giorno dai video sulle tv arabe via satellite che stanno in ogni caffè di Gaza. Il fenomeno è dilagante e coinvolge migliaia di giovani sopra i 15 anni. Il ministro dell’Interno della Striscia Fathi Hammad vede come una missione “raddrizzare” questa gente e ha annunciato che i servizi di sicurezza del suo ministero «terranno d’occhio» chiunque cercherà di «abbassare il livello di mascolinità a Gaza». Capelli lunghi, hipster, cuffie per la musica sulle orecchie, dice Hammad, sono atteggiamenti da «nemici del popolo» e soprattutto comportamenti da dubbia sessualità, «per costoro non c’è posto fra di noi». L’islamico è prima di tutto macho, verrebbe da dire.
Le ronde della polizia islamica si aggirano così per le strade in cerca di giovani “sospetti”. Raccontano Mahmoud e Youssef, due muratori di vent’anni: «Siamo stati fermati sul Lungomare mentre spingevamo la moto rimasta senza benzina, pensavamo che ci potessero aiutare. Ma prima ci hanno insultato e poi ci hanno portato al commissariato e tenuto ammanettati per tredici ore senza bere, né mangiare, né poter avvertire le nostre famiglie. Ci hanno anche pestato. Per essere scarcerati alla fine ci hanno obbligato con il rasoio elettrico a tagliare a zero i capelli l’uno dell’altro. Loro ridevano: è stato davvero umiliante».
Di racconti così nella Striscia ormai se ne sentono a centinaia.
La commissione per i reclami contro il comportamento della Polizia ha già ricevuto 42 “proteste” di altrettante famiglie per le umiliazioni e i pestaggi a cui i figli sono stati sottoposti durante il “fermo” alla stazione di polizia. Dopo aver messo fuorilegge la musica ai matrimoni, l’Hip hop, adesso anche il “look” dei ragazzi diventa un altro tassello dell’islamizzazione forzata di 1,8 milioni palestinesi nella Striscia; che non va avanti a colpi di editti impugnabili, ma di minacce, intimidazioni,
piccole e grandi vendette. Hamas ha già vietato alle donne di fumare nei locali pubblici il narghilè (c’è qualcosa di voluttuoso nel gesto), di andare in moto anche se con il marito (è sconveniente che una donna sieda a cavalcioni), la passeggiata in spiaggia o in strada se non accompagnata da un parente maschio; l’hijab poi è diventato obbligatorio negli uffici pubblici, nelle scuole e nelle università. Nella continua ossessione del controllo della “virtù” della popolazione Hamas esercita anche uno stretto controllo su Internet — bloccati tutti i siti a contenuto hard — con uno speciale dipartimento le email, profili Facebook e social network sono attentamente osservati.
Il colpo definitivo alla trasformazione della Striscia di Gaza in una sorta di emirato islamico è la nuova legge sull’Istruzione che Hamas imporrà dal prossimo ottobre: l’articolo 46 vieta le classi comuni per ragazzini dai nove anni di età, e si applicherà in tutte le scuole pubbliche, private e internazionali. Nella società palestinese conservatrice, l’idea della separazione delle classi dalla comparsa della pubertà è ampiamente accettata — anche in Cisgiordania dove governa l’Anp di Abu Mazen — ma non è obbligatoria per legge: sono le autorità scolastiche locali a scegliere in base alla sensibilità dei residenti. «Si basa tutto sulla discriminazione contro le bambine, che riprende una tradizione di un’epoca in cui non c’era nessun rispetto per i loro diritti ed erano scambiate come una merce», accusano al Center for Women’s Legal Research and Consulting, unica organizzazione di patrocinio per le donne nella Striscia.
A Gaza ci sono 699 scuole frequentate da 466.000 studenti, di queste 397 sono pubbliche e 243 sono gestite dall’Unrwa — l’agenzia Onu per i rifugiati — e 46 sono invece istituti privati. L’Unrwa si è dovuta “adeguare” a questo sistema già da tempo, percorrendo una “zona grigia” nella quale i fondamentali diritti umani — di eguaglianza e parità fra i sessi — certamente si opacizzano. Sono disperati nella piccola comunità cristiana della Striscia, una “Fort Alamo” di 1500 credenti e fra loro 200 cattolici. «Nella Striscia abbiamo tre scuole e non abbiamo risorse per costruirne altre tre: per mettere in una i ragazzi e nell’altra le ragazze », racconta William Shomali, vescovo ausiliare e vicario generale per la Palestina del Patriarcato latino di Gerusalemme. «Abbiamo provato a resistere: abbiamo proposto di mettere, in classe, i maschi seduti davanti e dietro le femmine, ma ad Hamas non basta perché — ci è stato risposto — nel mezzo c’è sempre il demonio». Nari, 9 anni, alunno della scuola cattolica privata “Santa Famiglia” di Gaza City, riassume con innocenza i suoi sentimenti e quelli degli altri scolari: «Ma chi sono questi per venire a dirci come ci dobbiamo comportare con le nostre compagne di scuola?».

il Fatto 10.6.13
“Partigia” e i misteri di Primo Levi
di Furio Colombo


Arriva un libro duro e difficile sulla Resistenza (Partigia, di Sergio Luzzatto, Mondadori) e non appartiene alla serie “adesso ti faccio vedere che anche i partigiani erano canaglie”. “Partigia” è un libro importante, ben documentato che si vale della buona scrittura del suo autore e dell’impianto solido del ricercatore scientifico. Contiene un evento teoricamente noto (nel senso che c’è una lapide in un cimitero) ma mai svelato: esistenza, tormento e morte per suicidio di una anziana signora ebrea di origine asburgica (dice Luzzato) in fuga da Vienna, finita in Val d’Aosta vicino al luogo in cui operava il gruppo partigiano di cui faceva parte Primo Levi. Il suicidio (se è stato un suicidio) avviene poco prima o poco dopo la fucilazione, ordinata ed eseguita da partigiani, di due compagni per ragioni gravi o futili, proprio mentre un rastrellamento fascista nella zona disperde la banda, arresta Primo Levi, e comincia la parte di storia che sappiamo.
PERCHÉ la signora, che si chiama Pokorni, si è uccisa? Che cosa c’entrano i due fucilati la cui esecuzione ha sconvolto Primo Levi e forse lo ha reso preda più facile dei rastrellatori fascisti? Sono eventi legati da cause ed effetti (per esempio i due giovani ribelli tormentavano la donna ebrea credendola danarosa) o sono le vicende maledette del caos feroce che insanguinava le terre sfortunate della repubblica di Salò?
Un altro storico, Alberto Cavaglion pensa di poter dare delle risposte e di ritoccare i materiali di Luzzato sul punto rovente “partigiani che fucilano partigiani, profuga ebrea che si uccide”. Lo fa utilizzando carte nel frattempo ritrovate, memorie non sempre precise di un parroco, ritrovate dal figlio del medico condotto del tempo. Stupisce, anche per il livello della sua reputazione accademica, la risposta violenta (pubblicata da La Stampa il 4 giugno) di Sergio Luzzato, docente di Storia a Torino, contro Caviglion, docente a Firenze. L’accusa è “falso scoop”, “incapacità di distinguere”, “se almeno Caviglion si fosse dato la pena di... ”.
È un peccato, perché una storia così importante si sfalda in una polemica segnata del tipico scontro accademico. Per quanto mi riguarda, però, La Stampa, in quella pagina, è stata sul punto di rivelare un altro scoop, a proposito di Primo Levi. Pubblica infatti le immagini di tre ritratti del grande scrittore italiano ad opera di Larry Rivers, uno dei grandi pittori della Pop Art americana. Al momento i tre grandi quadri sono al Museo Ebraico di Roma, ma appartengono alla collezione Gianni e Marella Agnelli alla Pinacoteca del Lingotto. C’è dunque un rapporto fra Primo Levi, Larry Rivers e Gianni Agnelli (che ha comprato i tre quadri alla Malborough Gallery di New York nel 1987 ). Ma la didascalia de La Stampa non lo spiega.

l’Unità 10.6.13
La cultura evaporata
I saggi inediti di Hobsbawm: spunti di riflessione sulla crisi globale di valori
Negli scritti tra la fine del 900 e gli inizi del nuovo millennio (e pubblicati ora da Rizzoli) il grande storico si interroga sul ruolo sociale della conoscenza in un’epoca della storia che ha perso l’orientamento, che guarda al futuro «senza una guida e senza una bussola»
di Giulio Ferroni


ALL’EDIZIONE ITALIANA DELL’ULTIMO LIBRO DI ERIC HOBSBAWM È STATO DATO UN TITOLO AD EFFETTO, «LA FINE DELLA CULTURA» (RIZZOLI, PP.314, €.20,00), CHE LO COLLOCA IN UNA PROSPETTIVA «APOCALITTICA» ESTREMA, che non ha invece il titolo originale, Fractured Times, a cui più si avvicina semmai il sottotitolo Saggio su un secolo in crisi di identità. Si tratta di una raccolta di saggi (alcuni dei quali mai prima editi) scritti in gran parte sullo scorcio finale del Novecento, ma anche nella fase iniziale del nuovo millennio: in essi il grande storico interroga diversi aspetti dell’uso sociale della cultura, della sua presenza nel contesto collettivo nell’ultimo secolo, fino ad un presente che appare sempre più incerto e indeterminato. Come suggerisce la prefazione, scritta negli ultimi giorni di Hobsbawm (morto il 1° ottobre 2012), questo vuol essere «un libro su un’epoca della storia che ha perso l’orientamento», che guarda al futuro «senza una guida e senza una bussola», come mai era accaduto precedentemente. La domanda sul ruolo e sugli spazi che oggi toccano a ciò che siamo abituati a chiamare cultura è resa problematica dalla storia stessa che abbiamo alle spalle, dall’orizzonte in cui la nozione moderna di cultura si è sviluppata.
Lo storico risale indietro al sistema di valori «alti», al canone di «classici» e di forme artistiche «elevate» creati dalla società borghese dell’Ottocento: questo sistema, pur essendo espressione della società capitalistica, gestito da élite e minoranze, si attribuiva segni di coscienza e di superiorità, suggeriva modelli universali di valore, verità, bellezza, sensibilità, in uno spazio comunque separato dalla vita quotidiana, con l’ambizione di tendere comunque ad una elevazione «spirituale».
La nozione di cultura, pur tra molteplici contraddizioni, ha continuato ad essere ancorata a questo modello, entrato in crisi già con la prima guerra mondiale e con le avanguardie storiche, anche se poi gran parte dell’arte d’avanguardia è stata riassorbita entro un sistema di valori «superiori»: gli sviluppi del capitalismo e della società dei consumi hanno però completamente svuotato il ruolo privilegiato delle arti, abbattendo il «muro tra cultura e vita». Non si è trattato dell’affermazione di quell’unità integrale dell’esperienza sognata dal marxismo classico, ma invece della sostituzione dell’«accezione borghese criticamente valutativa» di cultura con un suo «significato antropologico puramente descrittivo»: alle risonanze interiori cercate dall’arte tradizionale succede ora l’assoluto dominio dell’esteriorità, prodotto dall’«ondata di parole, suoni, immagini» che percorre il mondo globalizzato; siamo alla «dissoluzione dell’esperienza estetica in una sfera in cui è impossibile distinguere tra i sentimenti che si sono sviluppati dentro di noi e quelli che sono stati introdotti dall’esterno».
In tale orizzonte le ultime avanguardie, specie nel campo delle arti plastiche, appaiono impegnate non più «a rivoluzionare l’arte, ma a dichiararne il fallimento» (e ciò tocca in modo particolare le varie forme dell’arte concettuale e, per il teatro musicale, «le disperate stravaganze di registi e scenografi»); mentre si impone una «nuova era di irrazionalità politica», in cui la maggior parte delle vite umane sembrano in preda alle emozioni e alla più caotica irrazionalità, mentre la cornice dell’esistenza appare sempre più regolata da una astratta e ai più incomprensibile razionalità tecnologica.
Il libro segue diversi momenti e situazioni del processo che ha condotto a questa situazione: Hobsbawm sottolinea come la cultura «alta», pur nella sua origine borghese, sia giunta a costruire un patrimonio essenziale e imprescindibile di esperienza, di coscienza, di memoria, la cui salvaguardia appare comunque in conflitto con l’incontrollabile proliferare della comunicazione e delle occasioni culturali contemporanee (che d’altra parte si inquadra entro quella nuova «simbiosi culturale» data dalle migrazioni di massa, che ha anche effetti fortemente positivi, portando gli individui a non rimanere chiusi in identità precostituite, ma a vivere simultaneamente entro più culture  diverse).
I saggi più recenti del libro (si tratta spesso di interventi a diversi festival) restano sospesi tra attenzione alla vitalità delle nuove forme culturali e pessimismo sull’esito di questi processi, sullo svuotarsi e sul contraddittorio permanere della cultura «alta»: il tempo di composizione dei saggi fa sì, d’altra parte, che, oltre a non misurarsi abbastanza con la radicale novità costituita dal dominio dell’informatica e della rete, non arrivino a valutare l’ulteriore modificazione data dalla crisi economica mondiale, dal nuovo orizzonte che ne è scaturito. Occorre d’altra parte notare, in questo contesto di crisi, che, quando ci si impegna nella difesa della cultura e dei «beni culturali», si debba prestare attenzione in modo particolare a questa evaporazione della cultura tradizionale: tanto più in un Paese come l’Italia, dove quel modello culturale «borghese», pur con tutti i suoi limiti, ha raccolto l’eccezionale eredità di un lungo e glorioso passato, dove all’immenso patrimonio artistico si associa la bellezza del paesaggio naturale (o ciò che ne resta). Ora che sarebbe possibile declinare questo modello al di là dell’orizzonte borghese, in senso democratico, come segno determinante della nostra memoria, della nostra presenza nel mondo, esso rischia di esplodere, di andare in rovina, di essere sottoposto al consumo più esteriore e degradante, sulla spinta del più cieco liberismo.
La mancanza di un’adeguata riflessione sul concetto di cultura, su che cosa sia la cultura che si difende, su ciò che la cultura è stata o è diventata, finisce per impedire adeguati interventi sul conflitto, che ogni volta si ripropone, tra la protezione del patrimonio che si ha alle spalle e l’apertura all’indistinta vitalità dei linguaggi e delle voci, alle molteplici possibilità di una cultura che si dà invece come consumo, evento e presenza (che trova tra i suoi emblemi festival, mostre, spettacoli di massa). Lo sguardo ansioso di Hobsbawm, che peraltro veniva da una formazione culturale «alta», dal più vitale orizzonte di una cultura ebraica mitteleuropea, viene insomma a toccare i nodi centrali delle politiche della cultura, verso cui in genere oggi ci si muove un po’ alla cieca, senza il sostegno di un adeguato orizzonte storico e teorico.

La Stampa 10.6.13
“Fine pena: mai”. Vivere senza speranza nelle carceri italiane
Sono 1500 i detenuti condannati all’ergastolo più duro che non prevede permessi nè sconti. Come resistono?
di Michele Brambilla

qui

Corriere 10.6.13
Detenuti a casa sei mesi prima Piano per 10 mila posti nelle carceri
La strategia di Cancellieri: progetto per Pianosa, raddoppia Gorgona
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Un decreto legge per limitare gli ingressi in carcere e favorire le uscite di chi sta scontando l'ultima parte della pena. Apertura di nuove strutture per poter contare su 4.000 posti entro la fine dell'anno. Il piano carceri messo a punto dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri entra nella fase operativa per fronteggiare una situazione drammatica che con l'arrivo del caldo può soltanto peggiorare. E mira a recuperare in totale almeno 10.000 posti. Sono i dati forniti dalla stessa Guardasigilli durante la sua audizione al Senato e aggiornati al 15 maggio scorso, a dimostrarlo: quasi 65.891 detenuti, vale a dire circa 20 mila in più rispetto alla capienza, anche se l'associazione Antigone ne calcola almeno 30 mila. In particolare 24.697 sono in attesa di giudizio, 40.118 condannati e 1.176 internati. Un buon terzo (circa 23 mila) sono stranieri.
Il provvedimento del governo potrebbe alleggerire i penitenziari, ma non sarà sufficiente. Per questo si sta valutando anche la riapertura di alcune strutture ormai in disuso. E in cima alla lista è stata inserita Pianosa, che può ospitare 500 persone. Già la prossima settimana Cancellieri potrebbe incontrare il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi per sondarne la disponibilità e per discutere il raddoppio della capienza di Gorgona. «Qui non si tratta di migliorare le condizioni — ha ripetuto due giorni fa il ministro durante la festa della polizia penitenziaria — ma di cambiare il sistema, riuscendo a dare piena concretezza al principio secondo cui la pena detentiva deve costituire l'extrema ratio. Il rimedio cui ricorrere quando si rivela impraticabile ogni altra sanzione. La reclusione potrebbe essere limitata ai reati più gravi, mentre per gli altri si dovrebbe fare più ampio ricorso alla detenzione domiciliare e al lavoro di pubblica utilità».
Il nuovo decreto «svuotacarceri»
Sono proprio queste le linee guida del provvedimento che sarà portato in consiglio dei ministri entro la fine del mese. L'obiettivo è evitare il meccanismo delle cosiddette «porte girevoli» con i detenuti che entrano ed escono e, dicono gli esperti, determinano una presenza media in cella di 20 mila persone per soli tre giorni. Il decreto riguarderà i reati minori, cioè quelli che non destano allarme sociale. E si muoverà sul doppio binario.
Per quanto riguarda gli ingressi, si renderà obbligatorio il ricorso alle misure alternative: detenzione domiciliare oppure affidamento in prova, a seconda dei casi. Per chi invece attende di uscire la scelta è portare da 12 a 18 mesi il residuo pena che i condannati in via definitiva potranno scontare a casa. Calcoli esatti non sono stati ancora completati, ma i tecnici di via Arenula stimano che nei primi mesi saranno migliaia i posti che potranno essere resi disponibili grazie a questo meccanismo. Il resto dovrà arrivare con misure specifiche che sono allo studio di due commissioni appena costituite. Una, guidata dal professor Francesco Palazzo, ordinario di diritto penale presso l'Università di Firenze, dovrà mettere a punto le modifiche alla legge in tema di depenalizzazione. L'altra, affidata a Glauco Giostra, componente laico del Csm, si concentrerà invece sulle misure alternative.
Nuove strutture e padiglioni
Tra due settimane sarà inaugurato il nuovo carcere di Reggio Calabria che potrà ospitare fino a 318 detenuti. A metà luglio sarà invece la volta di Sassari con una struttura da 465 posti. Entro la fine dell'anno si interverrà poi in altre città: Biella con 200 posti, Pavia con 300, Ariano Irpino con altri 300 e Piacenza con 200. Nei giorni scorsi era stato il capo dello Stato Giorgio Napolitano a ribadire la necessità di arrivare a un «comune riconoscimento obiettivo della gravità ed estrema urgenza della questione carceraria, che rientra tra le priorità di azione del nuovo governo. Si richiedono ora decisioni non più procrastinabili per il superamento di una realtà degradante per i detenuti e per la stessa Polizia Penitenziaria». Il piano messo a punto dall'Italia nella risposta alle sollecitazioni dell'Europa, prevede che entro il 2015 si trovino almeno 12mila nuovi posti per i reclusi, ma anche questo non può bastare.
Il 24 giugno in Parlamento comincerà la discussione sul provvedimento firmato dall'ex ministro Paola Severino la discussione sulle misure alternative al carcere e la messa alla prova — che sospende il processo per chi rischia condanne inferiori ai quattro anni e opta per un percorso di rieducazione — ma la Lega ha già ufficializzato il suo ostruzionismo di fronte a quello che definisce «un indulto mascherato» e dunque appare difficile che l'approvazione definitiva possa arrivare in tempi brevi.
Pianosa e le colonie sarde
Ecco perché al ministero della Giustizia hanno deciso di intervenire con un decreto che consenta di «regolare» subito entrate e uscite dalle carceri, ma hanno già avviato le istruttoria per rimettere in funzione strutture che finora erano rimaste inutilizzate. Su Pianosa ci sono svariati nodi da sciogliere, tenuto conto che il Sappe, il maggior sindacato di polizia penitenziaria, ha già espresso la propria contrarietà, eppure il progetto appare già in fase avanzata. Del resto la struttura è in buone condizioni, quindi potrebbe essere resa agibile senza spese eccessive. Interventi sono stati programmati anche per Gorgona, che già ospita detenuti-lavoratori.
Quello di incentivare le possibilità di lavoro per chi si trova dietro le sbarre è uno dei punti chiave per Cancellieri che ha chiesto ai suoi uffici di valutare anche la possibilità di utilizzare le colonie che si trovano in Sardegna. Il problema riguarda però gli stanziamenti, visto che già adesso in molti penitenziari sono stati sospesi i programmi di impiego perché non ci sono i fondi sufficienti.

La Stampa 10.6.13
Festival di Modena
Quando filosofia fa rima con la voglia di spettacolo
L’intuizione vincente dell’evento di Modena, arrivato alla 13ª edizione: affiancare ai temi “metafisici” anche teatro, musica e arti visive
di Francesco Rigatelli


Tra i relatori delle scorse edizioni Marc Augé e Emanuele Severino (foto in alto)
L’ideatrice Michelina Borsari è direttore scientifico del Consorzio per il Festival Filosofia che guida dalla prima edizione

Nel 2001, fra la via Emilia e il West, si aprì in Italia il secondo grande festival dopo quello di Mantova che partì nel 1997. Anche se Modena un primato lo può vantare lo stesso. Il Festival Filosofia diede infatti il via alla serie dei festival disciplinari. Perché se a Mantova importarono dall’Inghilterra l’idea di una manifestazione letteraria, sotto la Ghirlandina, da cui si buttò l’ebreo perseguitato Angelo Fortunato Formiggini facendo il gesto dell’ombrello al Duce, hanno inventato un nuovo formato poi esportato in Europa.
Non era scontato allora che la Filosofia ce la facesse da sola. Per questo la fondatrice Michelina Borsari pensò a una parola chiave ogni anno diversa. E a due parti del programma. Una strettamente filosofica, con una cinquantina di relatori sparsi tra i centri storici di Modena, Carpi e Sassuolo, di cui una decina esteri, tradotti scientificamente sulla base dei loro testi scritti inviati prima. «Se no simultaneamente li traducono come per le ceramiche», rivelò una volta l’organizzatrice. E un’altra parte di arti visive, performative, musicali. Senza dimenticare i comici: da Bergonzoni a Villaggio a Paolo Rossi e, l’anno scorso, fonte di discussioni, I soliti idioti e Fabio Volo.
Dal primo anno, parola chiave felicità, sono stati tanti i temi su cui i filosofi Remo Bodei, Massimo Cacciari, Umberto Curi, Maurizio Ferraris, Tullio Gregory, Emanuele Severino, Carlo Sini oltre a Marc Augé, Zygmunt Bauman, Serge Latouche, Bruno Latour, John Searle si sono confrontati: bellezza, vita, mondo, sensi, umanità, sapere, fantasia, comunità, fortuna, natura, fino alle cose dell’anno scorso. Sì, le cose: tornate d’attualità nella precarietà del dopo terremoto. D’altra parte a Modena, terra rossa di politica, di ragù, di motori (è anche il colore del Festival, che progetta pure dei menù filosofici per i ristoranti poiché come si ragiona a tavola…), si sta sempre con i piedi piantati a terra. Anzi, non c’è luogo più azzeccato per avverare la massima senecana secondo cui «Facere docet philosofia, non dicere». A ben ricordare la felicità fu davvero una scelta d’avanguardia in un decennio che l’ha messa in concorrenza con il pil.
E a proposito di economia, il Festival Filosofia, che ha registrato l’anno scorso 180 mila presenze, «trend in grande crescita» ha sottolineato il sindaco e presidente del Consorzio organizzativo Giorgio Pighi, è una di quelle storie di successo che si studiano nelle università, un caso d’investier il tredicesimo anno consecutivo il Festival Filosofia, che si tiene a Mo- Pdena, Carpi e Sassuolo il 13, 14 e 15 settembre, ha appena ottenuto l’Alto patronato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E se l’anno scorso il primo grande evento della ricostruzione dopo il terremoto venne dedicato alle «cose», la prossima edizione propone «un tema esplosivo, dimenticato e critico dell’esperienza contemporanea», come lo ha definito l’organizzatrice Michelina Borsari sul finire della precedente. È infatti «amare» la nuova parola chiave. All’infinito. Che significa unioni tra etero e omosessuali, ma anche rispetto, carità, amicizia, benessere, nonché affetto per la cultura. L’immagine ufficiale del Festival è la scultura «Amore e psiche» di Antonio Canova e da poco è online la piazza virtuale della manifestazione, il nuovo sito, con i contenuti degli anni precedenti e alcune interviste inedite ai filosofi. mento proficuo nei beni culturali. Archetipo di questo genere di manifestazione, infatti, è come un fiammifero che accende la città attorno a sé, favorendo una riconversione creativa del contesto e l’aggregazione collaborativa delle persone del territorio e non solo. Perché, oltre ai benefici sul tessuto urbano, il Festival richiama famiglie e gruppi, di cui non tutti i componenti sono interessati alla Filosofia ma albergano e spendono. La creatività ha contagiato oltre ai ristoratori anche gli albergatori che propongono di pagare tre notti per restarne 4 e godere così tutto il programma.
Non si capirebbe però il successo di una manifestazione popolata ormai da affezionati, e non solo professoresse democratiche, come direbbe Edmondo Berselli ma pure un 40% di giovani, se non si andasse a ripescarne la causa. All’inizio degli anni 2000 c’era bisogno di sopperire al vuoto della tv. E le risorse civiche modenesi hanno deciso di riportare negli spazi aperti e di transito la parola argomentata. La risposta senza precedenti è tuttora il segnale del bisogno di nuovi momenti di socialità e di politica che questo formato di festival temporaneo ancora non soddisfa. Tanto che quando i modenesi vogliono fare una critica alla città dicono proprio: «A Modena c’è solo il Festival Filosofia».
Anche se c’è stato un momento in cui s’è rischiato di bruciare pure quello. E dopo un gran polverone è finita come ora. Con un consorzio per salvare la situazione presieduto dal sindaco di Modena dentro cui ci sono i comuni delle tre città coinvolte, la provincia e due fondazioni locali. Una delle quali è all’origine della manifestazione ma un bel giorno lasciò scadere il contratto all’organizzatrice, provocando la dimissione in massa del comitato scientifico. Insomma, se per organigramma sono gli enti locali, a governare la struttura in realtà il vero potere a Modena è dei filosofi: se se ne vanno loro, niente più festival. "50 relatori Nomi prestigiosi che si alternano tra i centri storici di Modena, Carpi e Sassuolo, di cui una decina stranieri 40 per cento È la quota di giovani che ogni anno frequentano il Festival, la prima rassegna disciplinare che si sia tenuta nel nostro Paese L’anno scorso la rassegna ha avuto 180 mila presenze: per il sindaco Giorgio Pighi è «un trend in costante crescita» Quando gli abitanti vogliono fare una critica alla propria città dicono: «Qui c’è soltanto il Festival Filosofia»

Repubblica 10.6.13
Tornano i saggi dello scrittore francese sulle opere del grande autore russo
Il mio Dostoevskij
di André Gide


Dostoevskij, «il solo che mi abbia insegnato qualcosa di psicologia », diceva Nietzsche. La sua fortuna tra noi è pur stata singolare. De Vogüé che presentava la letteratura russa alla Francia, circa vent’anni fa, sembrava terrificato dall’enormità di questo mostro. Egli si scusava, prevenendo garbatamente l’incomprensione del primo pubblico; graziea lui, si guardava con affetto a Turgenev: si ammirava con fiducia Puškin e Gogol: si apriva un largo credito per Tolstoj: maDostoevskij... decisamente, era troppo russo: de Vogüé gridava al pericolo. Tutt’al più acconsentiva a dirigere le curiosità dei primi lettori sui due o tre volumi dell’opera che egli reputava più accessibili e dove lo spirito si poteva con maggiore indolenza ritrovare; ma con questo stesso gesto egli scartava, ahimè, i più significativi, i più ardui, senza dubbio, ma, possiamo pure osar dirlo, oggi, i più belli. Questa prudenza era, certi penseranno, necessaria, come forse era stato necessario abituare il pubblico alla Sinfonia Pastorale, acclimatarlo lentamente, prima di servirgli la Sinfonia corale. Se fu cosa buona ritardare e limitare le prime curiosità a Povera gente, a La casa dei morti, a Delitto e castigo, è ora tempo che il lettore affronti le grandi opere: l’Idiota, i Demoni, e, sopra tutto, I fratelli Karamazov.
Questo romanzo è l’ultima opera di Dostoevskij. Doveva essere il primo di una serie. Dostoevskij aveva allora cinquantanove anni; egli scriveva: «Constato spesso con dolore che non ho espresso, letteralmente, la ventesima parte di quello che avrei voluto, e, forse anche, potuto esprimere. Quello che mi salva è la speranza abituale che un giorno Dio mi manderà tanta forza e ispirazione, che mi esprimerò più completamente: in breve, che potrò esporre tutto quello che racchiudo nel mio cuore e nella mia fantasia ».
Era uno di quei rari geni che avanzano, d’opera in opera, per una sorta di progressione continua, fino a che la morte non li venga bruscamente a interrompere. Nessun ripiegamento in quella sua focosa vecchiaia, non più che in quella di Rembrandt o di Beethoven, al quale mi piace paragonarlo: un sicuro e violento approfondirsi delsuo pensiero.
Senza alcuna compiacenza verso di sé, continuamente insoddisfatto, esigente fino all’impossibile, — e tuttavia pienamente cosciente del suo valore, — prima di abbordare i Karamazov un segreto trasalimento di gioia l’avverte: tiene, finalmente, un soggetto della sua statura, della statura del suo genio. «Mi è raramente capitato», scrive, «di aver da dire qualcosa di più nuovo, di più completo e originale». E questo libro fu quello che accompagnò Tolstoj sul suo letto di morte.
Spaventati dalla sua lunghezza, i primi traduttori non ci diedero, di questo incomparabile libro, che una versione mutilata: col pretesto di un’unità esteriore, capitoli interi, qua e là, furono amputati — e bastarono a formare un volume supplementare apparso sotto il titolo: I precoci.
Per precauzione, il nome di Karamazov vi fu mutato in quello di Chestomazov, in modo di metter fuori strada del tutto illettore. Questa traduzione era d’altronde assai buona in tutto quello che acconsentiva a tradurre, e io continuo a preferirla a quella che ci fu in seguito data. Forse certuni, rifacendosi all’epoca in cui essa apparve, crederanno che il pubblico non fosse ancor maturo per sopportare una traduzione integrale di un capolavoro tanto rigoglioso: non le rimprovererò dunque che di non confessarsi incompleta.
Quattro anni fa apparve la nuova traduzione di Bienstock e Nau. Offriva il grande vantaggio di presentare, in un volume più serrato, l’economia generale del libro: voglio dire che rimetteva al loro posto le parti che i primi traduttori avevano prima eliminato; ma, per una sistematica condensazione, e stavo per dire congelazione di ognicapitolo, essi spogliavano i dialoghi del loro balbettio e del loro patetico fremito; saltavano un terzo delle frasi, spesso interi paragrafi, e tra i più significativi. Il risultato è netto, crudo, senz’ombra, come sarebbe un’incisione su zinco, o, meglio, un disegno a tratteggio ricavato da un profondo ritratto di Rembrandt. Quale non è dunque la virtù di questolibro per restare, nonostante tante degradazioni, ammirevole! Libro che poté aspettare pazientemente la sua ora, come pazientemente hanno atteso la loro quelli di Stendhal: libro del quale finalmente l’ora sembra giunta.
In Germania, le traduzioni di Dostoevskij si succedono, e ognuna di esse si avvantaggia sulla precedente per scrupolosa esattezza e per vigore. L’Inghilterra, più restia e lenta a smuoversi, prende cura di non restare indietro. Nel New Age del 23 marzo scorso, Arnold Bennett, annunciando la traduzione di Mrs Constance-Garnett, si augura che tutti i romanzieri e novellisti inglesi possano mettersi alla scuola «delle più possenti opere di immaginazione che mai siano state scritte»; e riferendosi in particolare dei Fratelli Karamazov dice: «Lì, la passione raggiunge la sua più elevata potenza. Questo libro ci presenta una dozzina di figure assolutamente colossali».
Chi potrà dire se queste “colossali figure” si siano mai rivolte, nella stessa Russia, a nessuno tanto quanto a noi, direttamente, e se, prima d’oggi, la loro voce è potuta sembrare più urgente? Ivan, Dmitrij, Alioscia, i tre fratelli, così differenti e pure consanguinei, che perseguita e inquieta ovunque la miserevole ombra di Smerdjakov, loro servitore e fratellastro. L’intellettuale Ivan, l’appassionato Dmitrij, Alioscia il mistico, sembrano da soli dividersi il mondo morale che vergognosamente diserta il loro vecchio padre: e io so che essi esercitano già su varie persone unindiscreto fascino: la loro voce non ci sembra già più straniera; che dico? Noi li sentiamo dialogare dentro di noi.
E tuttavia nessun intempestivo simbolismo, nella costruzione di quest’opera: si sa che un volgare fatto di cronaca, una “causa” tenebrosa, che ebbe la funzione di rischiarare la sottile sagacità dello psicologo, servì comeprimo pretesto per questo libro. Nulla è più costantemente vivo di queste significative figure: mai un solo istante esse sfuggono alla loro pressante realtà. Si tratta di sapere, oggi che vengono portate sul teatro (e di tutte le creazioni dell’immaginazione o di tutti gli eroi della storia, non ce ne sono che meritino di più di salirvi), si tratta di sapere se noi riconosceremo le loro sconcertanti voci attraverso le intonazioni concertate degli attori. Si tratta di sapere se l’autore dell’adattamento saprà presentarci, senza troppo snaturarli, gli avvenimenti necessari all’intreccio in cui si mettono a fronte questi personaggi. Ritengo che egli sia molto intelligente e abile: ha capito, ne sono certo, che per rispondere alle esigenze della scena non basta ritagliare, secondo il metodo ordinario, e servire, così come sono, gli episodi più notevoli del romanzo; bisogna ricollegare il libro alle sue origini, ricomporlo e ridurlo, disporre i suoi elementi in vista di una diversa prospettiva.
Si tratta infine di sapere se acconsentiranno a guardarli con sufficiente attenzione quelli tra gli spettatori che non siano già penetrati nell’intimità di questa opera. Senza dubbio non avranno quella «straordinaria presunzione, quella fenomenale ignoranza», che Dostoevskij deplorava d’incontrare tra gli intellettuali russi. Si augurava, allora, di «arrestarli sulla via della negazione, oppure, almeno, di farli riflettere, farli dubitare». E quanto io scrivo qui non ha altro scopo.

Dostoevskij di André Gide (Medusa, pagg. 160, euro 18 Prefazione di Colasanti)