mercoledì 12 giugno 2013

il Fatto 12.6.13
Guglielmo Epifani. La pensione degli ex sindacalisti
di Salvatore Messina


L’ammontare delle pensioni dei funzionari/dirigenti della Cgil mi lascia sbalordito. Si parla di pensioni Inps che vanno da circa 3.200-3.400 euro netti per Epifani, ai 2.200-2.600 euro per altri dirigenti sindacali. Quello che mi lascia perplesso è che con l’introito dei contribuiti delle nostre tessere sindacali alcuni funzionari/dirigenti riescono ad avere una simile pensione. Mi chiedo se sia giusto che i nostri massimi dirigenti sindacali prendano pensioni di quell’entità. Epifani specifica che sono il frutto di 42 anni di contributi lavorativi. La pensione di un operaio con 40 anni di contributi è all’incirca di 900/1200 euro. Quelli come me che provengono da ambienti ex statali/parastatali, percepiscono all’incirca tra 1400 -2100 euro mensili. Non si può dimenticare che per percepire tale pensione, alcune categorie di lavoratori sono sottomessi a una vita lavorativa con orari a dir poco variegati, con turni e festivi. Questi pseudo ex-sindacalisti, sono parlamentari e incassano quindi, anche un’indennità parlamentare di circa 13 mila euro. Sono in grado queste persone di capire come si sopravvive con pensioni che vanno dai 500 ai 1500 euro?

il Fatto 12.6.13
Il risultato delle amministrative


I Letta hanno tifato fino all’ultimo, per il pareggio. Ma non è stato possibile e nonostante il Pd il centro sinistra vince. Con triplo salto mortale il Letta Presidente, commenta che il voto rafforza la coalizione. Non si è accorto che ha vinto il centro sinistra -nonostante lui e il suo inciuciante Pd - e che la maggioranza del Paese è fatta da centro sinistra più Movimento Cinque Stelle: l’altro governo possibile. Purché anche questi ultimi si rendano conto di aver vinto. Se così fosse, sarebbe questa la novità: la consapevolezza di essere maggioranza e dunque di avere la responsabilità di governare. Forse potrebbe addirittura diminuire la preoccupante maggioranza degli astensionisti che troverebbero nuove motivazioni di esprimersi e contare nelle scelte che il Paese deve affrontare per decidere il nostro futuro e che l’attuale “volemose bene” frustra irrimediabilmente.
Melquiades

l’Unità 12.6.13
Non tornano i conti di Padellaro e Rangeri
di Emanuele Macaluso


SE LEGGETE QUEL CHE SCRIVEVA IL FATTO PRIMA DEI RISULTATI ELETTORALI e l’editoriale di Antonio Padellaro, vergato dopo avere letto l’esito del voto, capirete cos’è questo giornale. Ecco l’incipit dell’articolo di ieri: «Le larghe intese non c’entrano nulla, la catastrofe Pdl è la fotografia di un partito padronale che quando il padrone non scende in campo è costretto a schierare vecchi catorci o giovani nullità e i risultati si vedono». Non c’è dubbio almeno per me che le competizioni nelle elezioni amministrative hanno al centro il candidato sindaco e la vicenda comunale. Questo scenario ora descritto da Padellaro era però visibile anche quando a Roma vinceva Alemanno, e con lui i suoi colleghi di Viterbo, di Treviso, di Catania, di Messina, di Brescia, di Imperia, ecc.
Se in queste elezioni il quadro è rovesciato, è ragionevole pensare che abbia influito anche la vicenda politica che ha fatto nascere il governo Letta con l’apporto del Pd, Pdl e Scelta civica. Infatti, dopo la nascita del governo Letta, («inciucio» per i suoi detrattori) il Fatto, il Manifesto, alcuni editorialisti di Repubblica ecc., avevano previsto un disastro per il Pd abbandonato dai suoi elettori. Un Pd che si sarebbe piegato alla volontà di Berlusconi, descritto come il regista e detentore della golden-share del governo. Ieri il Manifesto ha pubblicato un editoriale della direttora Norma Rangeri con questo titolo: «Larghe intese sconfitte». Sconfitte perché nei Comuni vince il centrosinistra.
Vince il Pd che guida la battaglia del centrosinistra nei Comuni; ma guida anche il governo di emergenza e necessità costituito insieme ai suoi avversari, il Pdl. Si possono fare tante critiche al Pd, ma in questa occasione la sua strategia è stata chiara: governo d’emergenza per evitare il caos istituzionale e un pericoloso vuoto di potere, ma anche per costruire un sistema politico più funzionale alle alternative tra destra e sinistra; alternativa al Pdl in tutte le competizioni. Signori, questo «arcano» gli elettori l’hanno capito bene e non hanno mollato né il Pd né il centrosinistra. Chi non aveva capito, o faceva finta di non capire, era il bollettino anti-Quirinale di Padellaro e Travaglio. I quali, oggi, insieme a Norma Rangeri e altri, si arrampicano sugli specchi.
Il Travaglio, tra le altre amenità, continua a sfornare editoriali (ieri c’era un esemplare) in cui cerca di spiegare ai suoi lettori che Napolitano (sempre lui!) si contraddice continuamente dicendo una volta che quello di Letta è un governo a «termine» e altre volte che non ha scadenze.
La verità è l’abissale ignoranza politica di Travaglio, (il quale specula anche su un errore fatto dall’Ansa poi corretto, ma non dall’editorialista principe de il Fatto), il quale confonde la durata del governo (che non ha limiti) con quella delle convergenze Pd-Pdl che invece ha un limite: le prossime elezioni i due partiti saranno alternativi. Quel che dico è confermato dallo stesso Travaglio, il quale come prova della incoerenza di Napolitano riprende l’intervista del presidente a Scalfari: «Esecutivo nato in situazione eccezionale, l’alleanza è a termine». La distinzione è chiara per chi è in buona fede e sa leggere. Ma vale la pena polemizzare col Travaglio?

il Fatto 12.6.13
Furio Colombo
Trionfo delle larghissime intese?

Caro Furio Colombo, mi sembra che voi abbiate torto, e Macaluso abbia ragione: qui tutti hanno votato a sinistra nonostante il governo con la destra. Dunque?
Anita

BISOGNA AVERE la pazienza di ripercorrere i passaggi che ci hanno portato a questo momento politico in cui, senza dubbio, la realtà oltrepassa di molto l’immaginazione. Prima viene un Parlamento immobilizzato (non si sa perché e non si sa da chi) mentre sta votando per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Nella sequenza che tutti ricordiamo, è andata a vuoto la prima votazione (Franco Marini) e poi si è verificata la grande sorpresa del blocco - deliberato e organizzato - alla elezione di Romano Prodi. É un evento strano e inspiegato. Tuttavia siamo solo al secondo tentativo di elezione. Ma qualcuno corre al Quirinale ad avvertire che la crisi è gravissima, che ogni votazione sarà impossibile (in un Paese dove ci sono state anche venti votazioni per trovare il nome giusto per la presidenza della Repubblica), che il Parlamento è impotente. Di fronte a un simile messaggio il presidente uscente è costretto a ricandidarsi. Meno chiaro è il nesso fra questo evento e la formazione del governo. Infatti il premier designato (sia pure con un mandato molto limitato) era ancora Bersani, il quale credeva di poter ancora giocare le sue carte. Ma evidentemente era male informato. Senza annunci o commiato, gli è stato sovrapposto un altro candidato Premier, Enrico Letta, non solo stesso partito ma anche vice segretario del Pd e dunque vice del Bersani liquidato senza ringraziamenti o saluti. A differenza del suo capo, Letta ha avuto non solo mandato ampio, ma istruzioni precise di stipulare un trattato che ha rovesciato l’esito delle elezioni, ovvero inserire d’autorità nel governo lo schieramento di Berlusconi, contro il quale avevano appena votato due terzi degli italiani. Così interpretato il sentimento popolare, Letta si associa con l’uomo più caro a Berlusconi, Angelino Alfano, tratta sia la politica di ogni giorno che le visioni a lungo termine con il capogruppo Pdl alla Camera Brunetta, (su cui evitiamo commenti per non ingombrare la pagina delle lettere). E con questi amici al fianco proclama la pacificazione. Alcuni di noi, spinti da un immenso mormorio levatosi dal Paese, hanno osservato che eravamo fuori dal seminato e che gli elettori Pd volevano indietro il loro voto. C’è chi sa di sicuro che non lo rivogliono. Tanto è vero - ci dicono - che nelle recenti elezioni comunali i cittadini hanno votato in massa per il Pd. É vero, ma ognuna di quelle votazioni vittoriose era contro Alfano, contro Brunetta, contro Scajola, contro la Lega, contro la banda Berlusconi. Voto per voto, una sorta di pugno sul tavolo della parte antiberlusconiana del Paese contro la coppia felicemente al governo. Si faccia avanti chi dice che queste elezioni, in cui il Pdl è crollato dovunque , sono state un plebiscito per la protezione di Berlusconi, dunque un omaggio al grande progetto di pacificazione, completo di assoluzioni e laticlavio a vita per il padrone.

Corriere 12.6.13
D'Alema: se Renzi cresce, sarà leader
Affondo sulla legge elettorale. Zingaretti pronto a sfidare il sindaco
di Monica Guerzoni


ROMA — «Se a ottobre i saggi non avranno trovato un accordo per cambiare il Porcellum, io sono per fare una legge per tornare al Mattarellum, con chi ci sta». L'avvertimento arriva da Massimo D'Alema, intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo. E quando la conduttrice gli fa notare che una simile mossa del Parlamento tirerebbe giù il governo, l'ex premier conferma il rischio: «Quagliariello ha detto che se fra quattro mesi i saggi non hanno una proposta è tanto meglio andare a casa e io condivido perfettamente...».
A Palazzo Chigi l'intervista non è passata inosservata, anche per i «consigli» che il già presidente del Pd ha offerto a Matteo Renzi, con il quale ha ripreso a parlarsi: «È una personalità fortissima, ha una grande forza di attrazione del consenso, ma se fossi nei suoi panni doserei meglio le mie forze, non starei tutti i giorni sui giornali...». Consiglio numero due: dotarsi di un profilo internazionale. Numero tre: approfondire i grandi temi della vita del Paese. «Ora Renzi è uno straordinario comunicatore, ma se fa crescere la sua statura potrebbe essere la guida del Paese e avremmo risolto il problema della leadership». Parole che, c'è da giurarci, i democratici analizzeranno con la lente d'ingrandimento, per capire se davvero si tratti di un «endorsement» o di un «trappolone». Il cuore del ragionamento dalemiano è che il Pd ha bisogno di un leader forte, ma anche di un gruppo dirigente autorevole e riconoscibile: «Io e Veltroni siamo stati sostanzialmente cacciati, ma non mi pare che la situazione sia migliorata in modo travolgente». Ruggini e vecchi rancori che rischiano di riaffiorare in vista del Congresso.
I bersaniani giurano che «nessuno vuole fregare Renzi». Ma ormai è chiaro che pochi fra i dirigenti siano disposti a consegnare il Pd, chiavi in mano, al sindaco di Firenze. La vittoria di Marino a Roma ha rafforzato Zingaretti e ora il presidente del Lazio medita seriamente di scendere in campo al Congresso, in chiave anti Renzi. «Sarebbe una candidatura di grande autorevolezza e prestigio», lo incoraggia Fioroni.
La battaglia delle regole sarà cruciale. Epifani ha convocato per lunedì la commissione congresso ed è già braccio di ferro su chi dovrà guidarla. Al Nazareno ritengono che il candidato naturale sia Nico Stumpo, l'ex responsabile dell'Organizzazione al quale Renzi non vuole affidare le regole del gioco perché «è un po' come mettere Dracula in un centro Avis». E così i renziani, in asse con i dalemiani, provano a stopparlo proponendo che a presiedere il tavolo sia Roberto Gualtieri, eurodeputato autorevole molto vicino all'ex premier. «Qui non c'è nessuno che vuol fregare nessuno — assicura il bersaniano Davide Zoggia —. Siamo tutti della stessa squadra, regole e tempi del Congresso andranno bene a tutti». Eppure i renziani non sono tranquilli e scaldano i motori. Il 22 e 23 giugno si riuniranno a Torino per un workshop autofinanziato con i parlamentari più vicini al sindaco (Bonafè, Boschi, Giachetti...).
Gli avversari di Renzi, che a Roma ha visto il ministro Delrio, la leggono come una riunione di corrente e si preparano a contrastarlo. Prima mossa: separare da Statuto la figura del segretario da quella del candidato a Palazzo Chigi. Se Renzi è contrario, per Fioroni le due candidature «devono essere distinte». E Bersani è ancora più netto: «Combatterò strenuamente per evitare che il Pd scivoli su un modello personalistico. Non si può scimmiottare chi fa il pifferaio e parla solo in base ai sondaggi».

il Fatto 12.6.13
D’Alema vuole Renzi al governo
“Se mi ascolta sarà premier”
E Bersani fa un documento contro Matteo
di Wanda Marra


Pier Luigi Bersani arriva al Nazareno di buon mattino, chiacchiera nell’atrio con Guglielmo Epifani per venti minuti, poi sale con lui nella sua ex stanza. Dopodiché rilascia dichiarazioni su dichiarazioni contro “il partito padronale”. Cioè contro Renzi. Nella serata dello stesso giorno, Massimo D’Alema va a Otto e mezzo dove dice che “Renzi è un leader straordinario”, al quali lui ultimamente ha dato “molti consigli”: se li ascolta potrà diventare “un uomo di governo” e così “avremmo risolto il problema della leadership”. Li dettaglia anche: dovrebbe stare meno in tv, dosare meglio le sue energie e dotarsi di un profilo internazionale. Non è (ancora) un appoggio formale per il congresso, ma è evidente che l’uomo del Lìder Maximo è il sindaco di Firenze. Quello che l’ha “cacciato” insieme a Veltroni (espressione dello stesso D’Alema, che non si fa scappare l’occasione: “Non mi pare che ora la situazione sia molto migliorata”).
Ieri intanto alla Camera i bersaniani doc facevano circolare un documento “non proprio” contro Renzi, ma “contro il renzismo”, per usare le parole di Alfredo D’Attore, membro della nuova segreteria. Bersani scende in campo con tutto il peso che ha (o che spera d’avere) e oggi convoca una riunione in una delle aulette del gruppo democratico a Montecitorio. Aperta a tutti. Obiettivo: fare asse nel partito, trovando un candidato alla leadership alternativo a Renzi, cercando di agganciare i Giovani Turchi e poi Dario Franceschini e i suoi. Tra i firmatari oltre a Nico Stumpo, Stefano Di Traglia e altri fedelissimi dell’ex segretario dovrebbe esserci persino il vice Ministro all’Economia, Stefano Fassina. Che in questa fase sta cercando di riunire l’area bersaniana con la corrente di Andrea Orlando e Matteo Orfini. I quali però resistono: il loro candidato è Gianni Cuperlo, se l’ex segretario converge su di lui se ne può parlare. Ma per adesso i nomi di Bersani sono altri. Tanto per cominciare quello dello stesso Epifani per arrivare a Fassina. Cuperlo sembra non essere più neanche il candidato di D’Alema. “Ha cambiato posizione venti volte negli ultimi venti giorni, quando ci sarà quella definitiva vedremo”, commenta l’ex pupillo Matteo Orfini.
Nel frattempo, i bersaniani, nella figura del responsabile Organizzazione, Zoggia (e anche Cuperlo, intervistato dall’Huffington Post) si affrettano a dire che loro non sono contro le primarie aperte per il congresso. Come distogliere l’attenzione dalle grandi manovre.

Repubblica 12.6.13
Torna l’asse tra Pierluigi e gli ex Ppi “Abbiamo vinto noi, Matteo non esageri”
Documento dei bersaniani: il segretario va eletto dagli iscritti
di Goffredo De Marchis


ROMA — Frenare Renzi. O meglio, stoppare la sua corsa verso la segreteria del Partito democratico. Dopo le elezioni amministrative, una parte del Pd fa la prima mossa. E per farla deve rompere l’asse Bersani-Letta-Franceschini che oggi regge il Pd. La corrente dell’ex segretario marcia (per il momento) da sola presentando un documento anti-Renzi. Lo firmano solo i fedelissimi di Bersani: Maurizio Martina in rappresentanza del Nord, Stefano Fassina (Centro) e Alfredo D’Attorre (Sud). I lettiani stanno a guardare mantenendo una totale neutralità. Gli ex Ppi, i franceschiniani, non si schierano ma non si sottraggono ad alcune manovre che puntano a rallentare il sindaco. Enrico Letta osserva. Da lontano.
Amico di tutti, schierato con nessuno. E se il congresso del Partito democratico avrà candidature contrapposte, cioè se Renzi avrà uno o più sfidanti, tanto meglio. Non perché il premier voglia parteggiare per qualcuno, ma perché lui avrà così la possibilità di ritagliarsi, da Palazzo Chigi, il ruolo di baricentro del Pd. «Non mi faccio coinvolgere nel congresso», ripete a tutti il Letta.
In nessun modo il presidente del Consiglio ha favorito l’iniziativa del suo amico “Pierluigi”. Ma l’ipotesi di un candidato alternativo a Renzi (oltre a Gianni Cuperlo, già in campo da tempo) gli permette nuovi margini di manovra. L’obiettivo vero resta quello di un patto con il sindaco. Ma anche questo traguardo è più facile di fronte a una sfida interna al Pd combattuta sul serio. Soprattutto dopo le elezioni ammini-strative. Che secondo lui hanno rafforzato l’esecutivo delle larghe intese e il suo presidente del Consiglio. In un modo o nell’altro, il futuro segretario del Pd dovrà fare i conti con Enrico Letta. E viceversa.
Anche i bersaniani sfruttano l’onda del voto per i sindaci. La scelta di tempo per la presentazione del documento (che verrà pubblicato oggi online) non è casuale. «Abbiamo vinto noi la sfida dei sindaci. Adesso Matteo non può esagerare». Non lo è nemmeno il sorriso di Bersani, il suo ritorno alla battaglia politica contro «il personalismo, contro i partiti proprietari ». In parole povere, contro Renzi. E contro il nuovo alleato di Renzi: Massimo D’Alema, nemico giurato dell’ex leader del Pd. I bersaniani non possono rimanere a guardare, non vogliono rimanere stretti nella morsa del dalemiano Cuperlo e dell’avversario delle primarie Renzi. Perciò il documento non basta. Serve un candidato. Che sarebbe stato individuato in Nicola Zingaretti. Corteggiato a lungo in queste settimane, il governatore del Lazio ha detto no. Per ora.
A Zingaretti guardano in molti. Un gruppo di deputati giovani e trasversali, da Massimiliano Manfredi a Dario Ginefra, hanno apprezzato le parole del governatore contro le correnti, per un Pd che si ricostruisce sui parlamentati eletti con le primarie. I Giovani Turchi vogliono giocare fuori dai rigidi schemi delle componenti. «Siamo liberi di pensare con la nostra testa», dice Matteo Orfini. La militarizzazione dei bersaniani apre ai “turchi” nuovi orizzonti. Ma la corsa del presidente del Lazio è una chimera. E allora si ritorna al punto di partenza: c’è Renzi in pista, praticamente senza avversari. Ma i pericoli possono anche non essere in carne e ossa. Possono nascondersi nelle regole del congresso, come ha denunciato il sindaco. Ieri i renziani sembravano impazziti a Montecitorio. Vedono grandi manovre sui meccanismi di elezione del segretario. Sospettano che dietro ci sia Dario Franceschini perché una regola di cui si vocifera è mutuata dalla Margherita: pesare in maniera diversa il voto degli iscritti e il voto dei cittadini e degli amministratori locali. Insomma, non “una testa un voto”, non primarie aperte. La prima riunione della commissione per le regole è lunedì. Con una grana che rischia di spaccarla prima ancora di cominciare. Il vertice ha deciso di chiamare a presiederla Davide Zoggia, ex braccio destro di Bersani. Una soluzione che piace anche ai franceschiniani. Ma si ribellano in molti: renziani e giovani turchi, minacciando clamorose dimissioni. La richiesta è semplice: eleggere il presidente.

Repubblica 12.6.13
Accelerazione sulla ineleggibilità per Berlusconi un nuovo pericolo
di Liana Milella


ROMA — Brutte coincidenze per il Cavaliere. Nulla di pianificato ovviamente, solo un caso, anche se lui dirà che non è così, che c’è un orchestrato complotto ai suoi danni. Il 19 giugno la Consulta si occupa di lui per Mediaset. Più si avvicina la data, più si rafforza il tam tam dal palazzo, già anticipato da Repubblica, su una débacle per Silvio. Il fondato pronostico è che sarà respinta la tesi del legittimo impedimento violato quel primo marzo del 2010 quando un consiglio dei ministri fissato all’improvviso avrebbe dovuto scalzare l’udienza, ma il presidente del tribunale D’Avossa andò avanti. Va da sé che nulla ne può sapere Napolitano, ma la sua esperienza politica lo porta a tutelare preventivamente una Corte su cui si stanno concentrando inaudite pressioni. Di qui il suo fermo appello («Rispetto per il giudice delle leggi») a garanzia degli alti giudici.
Ma non basta. Nel calendario iellato dell’ex premier, ecco altre due date. È nota quella del 24 giugno, lunedì nero della sentenza Ruby. Gli avvocati danno per scontata la condanna. Ancora sconosciuta invece la notizia che in quella stessa settimana prenderà il via al Senato, nella giunta per le elezioni ed autorizzazioni — il più temuto ormai tra gli organismi di palazzo Madama — il caso dell’anno, quello dell’ineleggibilità di Silvio Berlusconi.
Il Pdl fa muro, cerca appigli per ritardare il cammino della giunta, ma il neo presidente Dario Stefàno sembra proprio intenzionato a non farsi frapporre ostacoli. E il Pd è altrettanto determinato ad arrivare a una parola definitiva. Dice Felice Casson: «Di certo noi chiederemo due cose, che il caso dell’ineleggibilità sia fissato al più presto, che il presidente del comitato che affronterà l’esame tecnico sia la nostra vice presidente Stefania Pezzopane». Scontato che il Pdl abbia a che ridire. Del resto ha già cominciato a fare melina. L’altro vice presidente, l’ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, ha già detto che quella dell’ineleggibilità di Berlusconi non è certo una priorità della giunta.
Ne sa già qualcosa Stefàno. Avrebbe potuto tenere la prima riunione dell’ufficio di presidenza già questa settimana. Ma né il Pdl, né i grillini gli hanno comunicato, come pure lui aveva sollecitato, i nomi dei capigruppo. Il Pd ha dato il suo, Giuseppe Cucca. Immediata contro mossa. Stefàno ha scritto una lettera a Pdl e M5S per sollecitare di nuovo l’indicazione dei capigruppo per poter fare subito il primo ufficio di presidenza. Comunque Stefàno è deciso ad andare avanti ugualmente, i casi di ineleggibilità saranno affrontati per primi, tra questi è prioritario quello di Berlusconi. Le richieste, del resto, sono già in giunta da fine marzo di quest’anno. Concretizzano il famoso appello della rivista Micromega, primo firmatario Vittorio Cimiotta, che conduce questa battaglia dal 1996, sottoscritto da 250mila persone. Nella segreteria della giunta si contano nove ricorsi, tutti provenienti dal Molise, dal collegio alla fine scelto da Berlusconi tra i tanti in cui si era candidato. Lì nove cittadini elettori hanno indirizzato una lettera al presidente del Senato e alla giunta per le autorizzazioni per mettere in evidenza che, sulla base della legge 361 del 1957, il Cavaliere non è eleggibile e deve tornarsene a casa. Iulia ed Elisabetta Iemma, Cristiano Di Pietro, Simona Contucci, Giuseppe Iuliani, Cristiano Marollo, Giuseppe Caterina, Gianni Tenaglia, Antonio D’Aulerio, questi i firmatari. Che adesso attendono una risposta. Come teme Casson «i tempi non saranno brevi» e per certo il Pdl farà di tutto per allungarli.

Repubblica 12.6.13
La messa è finita
di Ilvo Diamanti


VENT’ANNI dopo la Seconda Repubblica è finita. Questo mi sembra il senso “politico” di questa consultazione. Che ha le specificità e i limiti di un voto “locale”, ma assume comunque un significato politico “nazionale”.
Non solo perché ha coinvolto quasi 7 milioni di elettori, in 564 comuni. Tra cui, 16 capoluoghi di provincia e 92 città con oltre 15 mila abitanti. Ma perché, a mio avviso, conferma la svolta dalle elezioni politiche di febbraio. Segna, cioè, la fine della “rivoluzione” partita vent’anni fa, nel 1993, proprio dalle città. Dove, per la prima volta, si era votato “direttamente” per il sindaco. Quando, prima del ballottaggio, Silvio Berlusconi, “sdoganò” i post-fascisti, annunciando che, se, vi avesse risieduto, a Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini. Ma la “rivoluzione” si produsse e riprodusse, soprattutto, nel Nord. In particolare, a Milano. La città di Mani Pulite dove Marco Formentini, candidato della Lega, divenne sindaco. Dove Silvio Berlusconi fondò Forza Italia, il suo “partito personale” e “aziendale”. Che l’anno seguente vinse le elezioni politiche. Aggregando Alleanza Nazionale, nel Centro Sud, e la Lega nel Nord. Così Milano conquistò l’Italia. E la “questione settentrionale” divenne “questione nazionale”. Il capitalismo popolare, della piccola impresa, rappresentato dalla Lega, insieme al capitalismo mediatico, finanziario e immobiliare, interpretato da Berlusconi. Conquistarono l’Italia. Complice l’Alleanza Nazionale del Sud.
Vent’anni dopo, quel percorso sembra finito. Il Forza-leghismo (come l’ha definito Edmondo Berselli) ha perduto la sua Bandiera. Il Nord. Il territorio. Il Centrodestra, in queste elezioni, è stato “s-radicato”, proprio dove era più “radicato”. Nei luoghi della Lega. A Treviso, per prima. La città di Gentilini — e del governatore Zaia. Ma la Lega ha perduto anche nelle città vicine a Verona. Feudo del Nuovo leghismo di Tosi.
Tutto il Centrodestra, però, si è “s-radicato”. Ovunque. I dati, al proposito, sono impietosi. Nei 92 comuni maggiori dove si è votato, prima di queste elezioni, il Centrodestra aveva 49 sindaci (di cui 2 la Lega da sola). Nel Nord “padano”, in particolare, amministrava 16 comuni maggiori (compresi i 2 della Lega), sui 28 al voto. Oggi la Lega è scomparsa. E il Centrodestra, guidato dal Pdl, ha “mantenuto” solo 14 città maggiori, in Italia, cioè meno di un terzo. E 3 nel Nord. In pratica: è quasi sparito. In questi giorni ha perduto le roccheforti residue. Da ultima, Imperia – il feudo di Scajola. Per prima – e soprattutto – Roma. La Capitale. Il Centrodestra è affondato anche nel Centrosud e nel Mezzogiorno. Sconfitto a Viterbo, e nei principali capoluoghi siciliani dove si votava. A Messina, Catania, Ragusa, Siracusa. È questa la principale indicazione “politica” di questo voto “ammi-nistrativo”: la sconfitta del Centrodestra. Insieme al declino – simbolico e politico – del territorio. Eppure non è stato sempre così. Cinque anni fa, appena, il centrodestra governava ancora in alcune importanti capitali. A Milano, Palermo, Cagliari. Roma. Ora le ha perdute. Tutte. Cos’è successo, in questi ultimi anni? Ha pesato, sicuramente, il declino dei riferimenti sociali ed economici: l’impresa e gli imprenditori – ma anche i lavoratori – della piccola impresa. Il capitalismo finanziario e speculativo. La crisi globale li ha stremati. E li ha posti reciprocamente in conflitto. Inoltre, l’invenzione del Pdl non ha “coalizzato” Fi e An. Li ha svuotati entrambi. Ne ha fatto un solo, unico contenitore “personale”. La Lega, invece, si è “normalizzata”. È divenuta “romana”. Così, al Centrodestra è rimasta solo l’immagine – peraltro sbiadita – del Capo. Berlusconi. In ambito politico nazionale. Mentre a livello locale non è rimasto praticamente nulla.
La svolta oltre la Seconda Repubblica è sottolineato dal crescente peso dell’astensione, cresciuta notevolmente, rispetto alle elezioni precedenti. A conferma che la messa è finita. In altri termini: il voto non è più una fede. Così, occorrono buone ragioni per votare un partito o un candidato. E, prima ancora, per andare a votare. Negli ultimi vent’anni, il non-voto è stato, in parte, assorbito dal voto di protesta. Intercettato dalla Lega, ma anche da Berlusconi. Canalizzato, alle recenti elezioni politiche, da Grillo e dal M5S. In questo caso non è avvenuto. Al primo e a maggior ragione al secondo turno. Per ragioni fisiologiche – non ci sono preferenze da dare, i candidati si riducono a due, molte sfide appaiono segnate. Ma anche perché “non votare”, in una certa misura, è un modo per votare. E conta molto, visto lo spazio che gli viene dedicato dagli attori e dai commentatori politici.
Alla fine della Seconda Repubblica, così, riemerge il Centrosinistra. E soprattutto il Pd. Considerato in crisi, dopo il voto di febbraio. Ma soprattutto dopo-il-dopo-voto. Fiaccato “da” Berlusconi – regista delle larghe intese. “Da” Grillo e dal M5S – vincitori delle elezioni politiche. In questa occasione, il Pd, insieme al Centrosinistra, ha vinto ovunque. O quasi. In tutte e 16 le città capoluogo. In 21 comuni maggiori del Nord (su 28), 10 (su 12) nelle regioni rosse e in 22 nel Centro-Sud (su 52). Mentre il Pdl si è sciolto e la Lega è scomparsa. Mentre il M5S ha eletto il sindaco a Pomezia — seconda città del MoVimento, per peso demografico, dopo Parma. E va in ballottaggio a Ragusa. In altri termini, “resiste” ed “esiste”, ma non avanza, come nell’ultimo anno.
Un altro segno del cambio d’epoca. Perché se il territorio declina, come bandiera, torna ad essere importante come risorsa politica e organizzativa. E favorisce i “partiti” che ancora dispongono di una struttura e di persone credibili e conosciute, presso i cittadini. In altri termini, il Pd è un partito personalizzato, a livello locale. Ma è diviso e impersonale, a livello nazionale. Gli altri, il Pdl e lo stesso M5S, sono partiti personali in ambito nazionale. Ma senza basi locali. Così la competizione elettorale diventa instabile e fluida, come quel 50% di elettori senza bussola e senza bandiera. Per questo nessuno può né deve sentirsi al sicuro. Non il Pdl, partito personale e senza territorio, gregario di una Persona alle prese con troppi problemi personali. Ma neppure il Pd. Partito personalizzato, sul territorio, ma im-personale, a livello nazionale. La Seconda Repubblica bipolare fondata “dalla” Lega e “su” Berlusconi: è finita. Ma la Prima Repubblica, fondata “dai” e “sui” partiti, non tornerà. Da oggi in poi, ogni elezione sarà un “salto nel voto”.

Repubblica 12.6.13
La paura del popolo
di Barbara Spinelli


DI TANTO in tanto, quando si temono rivoluzioni, o si fanno guerre, oppure nel mezzo di una crisi economica che trasforma le nostre esistenze, torna l’antica paura del
suffragio universale.
Del popolo che partecipa alla vita politica , che licenzia i governi inadempienti e ne sceglie di nuovi, che fa sentire la propria voce. È la paura che le classi alte, colte, ebbero già nella Grecia classica. Aristotele paventava la degenerazione democratica, se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge. Ancora più perentorio un libello anonimo (La Costituzione degli Ateniesi, attribuito a Senofonte) uscito nel V secolo aC: «In ogni parte del mondo gli elementi migliori sono avversari della democrazia (...). Nel popolo troviamo grandissima ignoranza e smoderatezza e malvagità. È la povertà soprattutto, che lo spinge ad azioni vergognose ». Il dèmos respinge le persone per bene: «vuole essere libero e comandare, e del malgoverno gliene importa ben poco ». Sotto il suo dominio tutte le procedure si rallentano, ed è il caos che oggi chiamiamo
ingovernabilità.
L’orrore del populismo o dei democratici demagoghi ha queste radici, che Marco D’Eramo illustra con maestria in un saggio uscito il 16 maggio su Micromega. Ma è dopo la Rivoluzione francese, e in special modo quando comincia a estendersi gradualmente il diritto di voto, nella seconda parte dell’800, che fa apparizione un’offensiva ampia, e concitata, contro il suffragio universale. Inorridiscono i democratici stessi. Nei primi anni del ’900, il giurista Gaetano Mosca vede già le plebi e le mafie del Sud distruggere istituzioni e buon governo. È diffusa l’idea che i migliori, e le migliori politiche, saranno travolti e annientati dal popolo elettore. Si formano chiuse oligarchie, con la scusa di tutelare il popolo dai suoi demoni.
È una paura che va a ondate, e non sempre l’oggetto che spaventa è esplicitamente indicato. Quella che oggi torna a dilagare pretende addirittura di salvare la democrazia, imbrigliandola e tagliando le ali estremiste (gli «opposti estremismi», spiega d’Eramo, diventano sinonimi di populismo). Ma gli elementi dell’annosa offensiva contro il suffragio universale sono tutti presenti, sotto traccia. Il popolo smoderato e incolto va vigilato, spiato: o perché chiede troppo, o perché rischia di avere troppi grilli per la testa. Sono aggirate anche le Costituzioni, fatte per proteggere i cittadini dai soprusi delle cerchie dominanti. Ovunque le democrazie sono alle prese con i danni collaterali di questa ferrea legge oligarchica.
Accade proprio in questi giorni in America, dove prosegue una guerra antiterrorista sempre più opaca, condotta senza che il popolo (e neppure gli alleati per la verità) possa dire la sua. Il culmine l’ha raggiunto Obama, che pure aveva criticato la torbida sconfinatezza delle guerre di Bush. Il 6 giugno, viene svelata un’immensa operazione di sorveglianza dei cittadini americani da parte dell’Agenzia di sicurezza nazionale: milioni di numeri telefonici e indirizzi mail, raccolti non in zone belliche ma in patria col consenso segreto di vari provider. Indignato, il New York Times commenta: «Il Presidente ha perso ogni credibilità» (poi per prudenza rettifica: «Ha perso ogni credibilità su tale questione»).
Analogo orrore dei popoli è ravvivato dalla crisi economica, governata com’è da trojke e tecnici separati dai cittadini: anch’essa, come la guerra, va affidata a pochi che sanno (poche persone per bene, pochi migliori, direbbe lo Pseudo-Senofonte). Gli ottimati sapienti stanno come su una zattera, e non a caso il loro nome è «traghettatori ». Sotto la scialuppa ribolle il popolo: forza infernale, miasma imprevedibile e contaminante. Infiltrato da meticci, demagoghi, gente colpevole due volte: sia quand’è sprecona, sia quando non consuma abbastanza. Sono invisi anche gli sradicati, o meglio chi pensa all’interesse generale oltre che locale: se vuoi lusingare un partito, oggi, digli che non è un meteco ma «ha un forte radicamento territoriale». Nei cervelli dei traghettatori s’aggira il fantasma, temuto come la peste dagli anni ’70, dell’esplosione sociale e dell’ingovernabilità.
È in questa cornice che le parole si storcono, sino a dire il contrario di quel che professano. La riforma significava miglioramento delle condizioni dei cittadini, del loro potere di influire sulla politica. Furono grandi riforme il suffragio universale, e subito dopo l’introduzione del Welfare: ambedue malandate. Adesso il riformista escogita strategie per tenere al guinzaglio gli eccessi esigenti dei governati. Il proliferare in Italia di comitati di saggi (per cambiare la Costituzione, per il Presidenzialismo) è sintomo di un crescente scollamento di chi comanda dal popolo, e al tempo stesso dai suoi rappresentanti. Ci si adombra, quando il Parlamento è definito una tomba. Per fortuna non lo è. Ma un Parlamento fatto di nominati più che di veri eletti somiglia parecchio a un sepolcro imbiancato: e così resterà, finché non avremo diritto a una legge elettorale decente.
Tale è la paura del popolo-elettore, che per forza quest’ultimo si ritrae e fugge. Si esprime in vari modi (nei referendum, sul web, attraverso la stampa indipendente) ma ogni volta sbatte la testa contro un muro. Lo Stato ne diffida, al punto di spiare milioni di cittadini come in America. E i nemici peggiori diventano i reporter e le loro fonti, che gettano luce sulle malefatte dei governi. Nel 2010 fu il caso di Wikileaks. Oggi è il turno del Guardiane del Washington Post, che hanno scoperchiato il piano di sorveglianzaspionaggio (nome in codice: Prism) del popolo americano. Non restano che loro, fra lo Stato-Panoptikon che ti tiene d’occhio e i cittadini mal informati. In inglese le gole profonde che narrano i misfatti si chiamano whistleblower: soffiano il fischietto, in presenza di violazioni gravi della legalità, e antepongono il dovere civico alla fedeltà aziendale. Ben più spregiativamente, politici e giornali benpensanti li definiscono spie, se non traditori. «Non chiamateli talpe! », chiede molto opportunamente Stefania Maurizi su Repubblica online di lunedì. Il soldato Bradley Manning, che smascherò tramite Wikileaks i crimini Usa nella guerra in Iraq, è da 3 anni in prigione. Ora è processato, rischia l’ergastolo. Il whistleblower che ha rivelato il piano di sorveglianza voluto da Obama è Edward Snowden, 29 anni, ex assistente della Cia e della Nsa: è rifugiato a Hong Kong, e da lì fa sapere: «L’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) ha costruito un’infrastruttura che intercetta praticamente tutto. Con la sua capacità, la vasta maggioranza delle comunicazioni umane è digerita automaticamente, senza definire bersagli chiari. Se volessi vedere le tue email o il telefono di tua moglie, devo solo usare le intercettazioni. Posso ottenere le tue email, password, tabulati telefonici, carte di credito. Non voglio vivere in una società che fa questo genere di cose. Non voglio vivere in un mondo in cui ogni cosa che faccio e dico è registrata. Non è una cosa che intendo appoggiare o tollerare».
Il popolo reagisce ai soprusi e all’indifferenza del potere in vari modi: impegnandosi in associazioni (ricordiamo i referendum italiani sul finanziamento dei partiti e sull’acqua, o il voto contro il Porcellum) ; oppure ritirandosi quando si accorge di non contare nulla. Altre volte smette di credere e diserta le urne, come alle amministrative di questi giorni. Ma sempre potrà sperare di avere, come alleati, i whistleblower che toglieranno il sigillo alle illegalità, alle cose nascoste o sporche della politica. Ecco cosa produce lo sgomento causato dal dèmos. Il popolo stesso s’impaura, entra in secessione. La paura del suffragio universale non è mai finita, sempre ricomincia. Nacque nell’800, ma come nella ballata di Coleridge: «Dopo di allora, ad ora incerta – Quell’agonia ritorna».

questo articolo di Barbara Spinelli fa riferimento all’articolo di Marco d’Eramo “Apologia del populismo”, che appare sul numero in commercio di MicroMega

il Fatto 12.6.13
“Lobby gay in Vaticano”, la denuncia di Francesco
di Carlo Tecce


Il sito cattolico Reflexión y Liberatión rivela: incontrando il 6 giugno la Confederazione religiosa del Sudamerica, papa Bergoglio ha denunciato un “potente” gruppo di pressione di prelati omosessuali e “una corrente di corruzione” che ostacolano la riforma della Curia (“è un’impresa difficile, vedremo cosa si può fare”). Padre Lombardi: “No comment, incontro privato”

C’erano aneddoti e indiscrezioni, ora ci sono le ammissioni di papa Francesco: “La Curia romana ha una corrente di corruzione. Esiste anche una lobby gay. Bisogna vedere cosa possiamo fare a riguardo”. Il detonatore si aziona in Cile, il sito Reflexion y Libéracion riporta la notizia travolgente, estratto di un'udienza privata tenutasi giovedì scorso fra il pontefice e una delegazione religiosa che riuniva latino americani e caraibici, in sigla Clar. Quando il fragoroso rumore colpisce il colonnato di San Pietro, ci si aspetta una smentita o una correzione, e invece il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, non commenta: “Non ho dichiarazioni da fare sui contenuti della conversazione. Si trattava di un incontro privato”. Accanto all’ex cardinale Jorge Bergoglio, come testimoniano le fotografie, Lombardi non c'era: il Papa era solo, assieme ai sei religiosi. In pubblico, mai un'accusa così grave ha colpito il Vaticano. E chi l'aveva evocato per iscritto ne ha pagato le conseguenze. Prima di scomparire a Washington per custodire la nunziatura, l'ex direttore del governatorato – la struttura che gestisce commesse e appalti – monsignor Carlo Maria Viganò aveva più volte avvertito i suoi superiori: “Un mio trasferimento provocherebbe smarrimento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante situazioni di corruzione e prevaricazione”.
IN UNA LETTERA inviata al segretario di Stato, Tarcisio Bertone, Viganò aveva scucito il sistema che, a suo dire, l'aveva destinato all'esilio oltreoceano: “Su mons. Nicolini (responsabile dei Musei Vaticani, ndr) sono emersi comportamenti gravemente riprovevoli per quanto si riferisce alla correttezza della sua amministrazione, a partire dal periodo presso la Pontificia Università Lateranense, dove, a testimonianza di mons. Rino Fisichella furono riscontrate a suo carico: contraffazioni di fatture e un ammanco di almeno settantamila euro”. Il nunzio apostolico vedeva ovunque malaffare e pericoli. Ha denunciato le “volgarità di comportamenti e di linguaggio” sempre di Nicolini; la costante “opera di calunnia”; le preferenze sessuali e il ruolo di “Marco Simeon vicino a sua eminenza” Bertone. E chissà se lo stesso Viganò, interrogato a ottobre in gran segreto dai tre cardinali incaricati da Ratzinger di svelare le trame di Vatileaks, abbia confermato le sue invettive contro il potere vaticano.
C'è un passaggio di consegne, un po' sottovalutato, che ha determinato l'opinione di Francesco e forse provocato lo sfogo con i latino americani: un documento che Benedetto XVI ha lasciato in eredità al successore, pagine dense di riferimenti precisi al funzionamento del governo curiale e pure alle influenze esterne, non esclusivamente di carattere sessuale. La relazione dei porporati di Vatileaks – De Giorgi, Herranz e Tomko – pare contenesse deposizioni di testimoni su derive sessuali (le famose saune) che ufficialmente in Vaticano fanno inorridire soltanto a parlarne. Bergoglio non s'è fatto cogliere di sorpresa, conosce il governo iperterreno che resiste in Curia e così si fa aiutare da un gruppo di otto cardinali: “Non posso essere io a fare la riforma, queste sono questioni di gestione e io sono molto disorganizzato, non sono mai stato bravo per questo”, ha confidato ai suoi interlocutori di Clar. Francesco sarà pure desideroso di snellire la Curia e di ripulire il Vaticano – e lo ripete spesso nei discorsi, ieri ha detto che “San Pietro non aveva un conto in banca” – ma c'è un piccolo e ineludibile dato di fatto: il cardinale Bertone, il primo ministro al centro di innumerevoli polemiche, non è stato sostituito. E pare inamovibile (almeno) per i prossimi 12 mesi.

il Fatto 12.6.13
L’operazione pulizia contro i nemici interni
Quel muro che ostacola il cambiamento in Curia
di Marco Politi


Tra i requisiti del pontefice da eleggere – disse il cardinale Bergoglio pochi giorni prima di lasciare Buenos Aires in partenza per il conclave del marzo scorso – c’è anche quello che “il nuovo Papa deve essere in grado di ripulire la Curia romana”.
BASTA QUESTA frase lapidaria, riportata dalla giornalista argentina Evangelina Himitian, unitamente ai gesti fortemente innovatori compiuti da Francesco nei primi tre mesi di governo, per dare un’idea delle fortissime resistenze con cui il pontefice argentino deve misurarsi per riportare trasparenza nella Curia e – compito ancora più gravoso – per riformare la Chiesa, il suo personale, il suo stile di agire allo scopo di darle credibilità nel XXI secolo.
Le sue parole, rimbalzate da un sito cileno a Roma, dove aveva incontrato una delegazione di ordini religiosi latino-americani, sono veramente una “voce dal sen fuggita…”. Si capisce che il pontefice ha risposto con l’abituale sincerità a domande rivoltegli dai partecipanti all’udienza, dando sfogo alle preoccupazioni nascoste che lo tormentano in questa fase di ricognizione dei problemi vaticani. “Sì, esiste un problema di corruzione” nella Santa Sede: quella corruzione che mons. Viganò aveva invano cercato di denunciare allo stesso Benedetto XVI prima di essere mandato in esilio a Washington. E sì, esistono cordate composte di persone dalla doppia vita, che agiscono a fini di potere.
Il silenzio di padre Lombardi, che insiste sul carattere “privato” dell’incontro, esprime l’imbarazzo di quanti non sanno come gestire questa bomba. Papa Francesco ha letto il rapporto di trecento pagine, che i cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi hanno redatto per Benedetto XVI indagando sullo scandalo Vatileaks. E sa che in quelle pagine scottanti sono indicati tre vizi capitali, che minano l’immagine della Curia romana: carrierismo, sesso e soldi. Ma è anche consapevole che sradicare tanti microtessuti di interessi e di potere, ben sedimentati, richiede uno sforzo gigantesco. Remando contro forze conservatrici, che hanno già cominciato a seminare mugugni contro il papa argentino, accusandolo di parlare troppo imprudentemente.
Il problema non è la mera sostituzione del Segretario di Stato Bertone, che entro l’anno lascerà necessariamente il suo posto. Il problema è il coagulo di personalità dentro la Curia e nella Chiesa universale, che vuole mantenere un papato autoritario, conservatore e garante di quella omertà che in passato ha sempre “condonato” ogni tipo di storture se non veri e propri crimini come la pedofilia.
NON C’È DUBBIO che le ammissioni di Bergoglio sulla corruzione in Vaticano e sulla cosiddetta “lobby gay” (che poi in quanto tale non opera, ma si esprime piuttosto con l’aggregarsi di singoli personaggi a varie cordate di potere dove si annidano monsignori dalla doppia vita etero ed omosessuale) saranno sfruttate dai suoi nemici per rimproverargli di gettare fango sul governo centrale della Chiesa e saranno usate per frapporre macigni dietro le quinte alla sua volontà innovatrice.
Per molto meno, una sua battuta su “San Pietro (che) non aveva un conto in banca”, lo scrittore Messori – dando voce a malumori conservatori – ha messo ieri in guardia Francesco dal “rischio di demagogia”, invitandolo alla prudenza e a fermarsi in tempo. Un segnale inquietante.
La verità è che in Vaticano è iniziata una rivoluzione. Che non sarà affatto indolore. E sarebbe ingenuo pensare che non vi sia chi spera di stoppare il papa venuto dalla fine del mondo.

Corriere 12.6.13
M5S, 30-40 parlamentari contro Grillo
Sul gruppo l'ombra della scissione
L'iter per l'espulsione rischia di far esplodere il dissenso.
Il leader programma un nuovo blitz a Roma per riunire i suoi
di Emanuele Buzzi

qui

Corriere 12.6.13
I proclami, le espulsioni. Così finisce un incantesimo
di Marco Imarisio


Contro tutti, adesso anche contro se stesso. Beppe Grillo è ormai un incendiario in servizio permanente effettivo. Ogni giorno una invettiva senza soluzione di continuità e di logica apparente.

Ogni giorno un editto sempre più gonfio di risentimento, senza escludere neppure trucchi da quattro soldi. Il referendum indetto su di sé non è altro che un invito mascherato al linciaggio verbale della senatrice ribelle, puntualmente raccolto. È come se avesse capito che le acque si sono richiuse, e non da ieri. L'incantesimo aveva una data di scadenza molto ravvicinata, a causa della miscela di sentimenti volubili, destinati a evaporare presto. Lo Tsunami di febbraio, ovvero la voglia di ribaltare il sistema, ha lasciato posto a una frustrazione evidente. Guardando le piazze di quest'ultimo giro elettorale, mai davvero piene, forse Grillo si è accorto di avere compiuto un capolavoro alla rovescia. Nel giro di pochi mesi è riuscito a cristallizzare l'immagine dei Cinque Stelle nella protesta fine a se stessa, scordando che il mandato ricevuto dai tanti elettori provenienti dal bacino del voto di opinione, di destra o sinistra che fossero, era di cambiare le cose, almeno provarci. La reazione a questo gol sbagliato a porta vuota è stata la costruzione di una bella torre d'avorio, virtuale s'intende, dove c'è spazio per lui, ben lontano da Roma, l'unico luogo che conta se hai intenzione di esercitare un minimo di controllo sui 163 tuoi cittadini, e per i fedeli alla linea, per quelli cresciuti a pane e meet up, che non esercitano il dubbio, mai. Per loro c'è posto. Gli altri, i molti parlamentari M5S stanchi di fare le belle statuine e ancora desiderosi di esercitare quel mandato elettorale ricevuto a febbraio che oggi sembra in contrasto con le grida del Capo, si accomodino all'uscita. O così, o niente. Anche l'onorevole Adele Gambaro è niente. Non vale proprio niente, ha scritto Grillo, perché uno vale uno «quando è consapevole che l'opportunità unica che gli è stata offerta non è per i suoi meriti ma per servire un Paese alla canna del gas e i suoi disperati cittadini». La povera senatrice stellata non vorrebbe altro che questo. Dare una mano, rendersi utile. Al limite, persistendo l'isolamento imposto da Grillo, mostrare i frutti del proprio lavoro, senza che essi vengano quotidianamente ricoperti dai cimiteriali editti del padre sempre più padrone. L'arrivo a Roma era stato caotico ed esaltante. Poi era subentrato il travaglio istituzionale. Adesso l'avamposto parlamentare del M5S attraversa la fase più delicata, quella del definitivo assestamento. Tutte queste cose, Grillo le sa. Ma per lui è più importante continuare a scrollare l'albero, con i suoi proclami, con le scomuniche un giorno sì e l'altro pure, per vedere quali mele resteranno sui rami di M5S. Non è scritto da nessuna parte che i frutti caduti a terra, come la senatrice Gambaro, siano quelli marci. A un Grillo sempre più stanco neppure questo interessa. Lui finge di credere che l'Aventino sia sufficiente a ripagare la fiducia ricevuta dagli italiani, perché è consapevole di non avere al momento null'altro da offrire. E non capisce che le sue intemerate contribuiscono ad accelerare il processo di sfaldamento del M5S. Forse non gli dispiace neppure, la scissione. Andare alla conta. Pochi ma buoni. Fino a scomparire, o quasi.

Repubblica 12.6.13
La felicità del naufrago
Lo spreco dell’ex comico una strepitosa guerra-lampo e in tre mesi ha perso tutto
di Francesco Merlo


HA PERSO e dice che le elezioni sono inutili, ma festeggia la vittoria a Assimisi e a Pomezia. È l’unico leader che non usa la dialettica ma la “trialettica” lo strambo Grillo, protagonista dello scialo, il più grande e rapido spreco della storia.
OVVIAMENTE non è il primo che, stremato e dissanguato, si dispera e dà la colpa al sistema: «Le elezioni sono oscene e non servono a niente». E non è neppure il primo che nega l’evidenza della sconfitta e festeggia perché, pur essendo il Movimento quasi cancellato, «Mario Puddu è il nuovo sindaco di Assemini, provincia di Cagliari, e Fabio Fucci è il nuovo sindaco di Pomezia, provincia di Roma». E però Grillo è il primo che fa tutte e due le cose insieme, il primo che al tempo stesso si dispera e festeggia, il primo che mentre proclama «che le elezioni in Italia non cambiano mai nulla» annunzia che «il cammino del Movimento 5 Stelle all’interno delle istituzioni è lento, ma inesorabile».
Insomma, se gli altri si accontentano di due minuti di faccia tosta, lui se ne prende quattro, perché di facce toste ne ha appunto due. La prima faccia tosta è antisistema: «La vittoria (degli altri ndr) è di Pirro», «questo o quello pari sono», «il tempo delle elezioni è come il tempo dei Pavesini» , «sale il disgusto» … La seconda faccia tosta è invece celebrativa e trucca i risultati.
A Catania, a Messina, a Siracusa,… dove era addirittura il primo partito, ora il movimento non ha guadagnato neppure un rappresentante nei consigli comunali, e però «Mario e Fabio ad Assimisi e a Pomezia… ». Sembra la gioia del naufrago che dopo aver distrutto la sua preziosissima barca si sente all’asciutto perché, in mezzo al mare in tempesta, ha messo i piedi su una tavoletta.
«È la gioia dello scialo come vita marcita, gesto inconsulto, malessere cieco» disse Vasco Pratolini per spiegare appunto il suo “Scialo”, che fu il romanzo (romanzo?) del grande spreco di una generazione, quella che si regalò al fascismo. E Pratolini forse prefigurava Grillo nel dilapidatore italiano «senza l’intimo coraggio necessario per guardarsi fino in fondo come realmente è». Infatti Grillo, cieco e sordo a stesso, non si vede e non si sente e sinceramente si stupisce quando viene contestato da qualche parlamentare che in via ordinaria controllava perché l’eletto dal popolo «era consapevole — ha scritto ieri — che l’opportunità unica che gli è stata offerta non è per i suoi meriti».
Dunque ieri, in preda al suo sincero stupore da scialo, Grillo ne ha cacciato un altro, Adele Gambaro, uno di quei parlamentari che «invece crede di essere diventato onorevole per chissà quali divine investiture, e usa il progetto di milioni di italiani per promuovere se stesso e assicurarsi un posto al sole». Insomma «non vale proprio niente». Per favore «si accomodi fuori».
La Gambaro lo aveva messo a nudo nel tg di Sky ma aveva messo a nudo anche se stessa: «Stiamo pagando i toni e la comunicazione di Grillo, i suoi post minacciosi. Mi chiedo come possa parlare male del Parlamento se qui non lo abbiamo mai visto. Noi facciamo il lavoro e lui ci mette in cattiva luce. Il problema del Movimento è Grillo…. Credo che altri abbiano le mie stesse idee…». Sono banalità sacrosante. Ma non è la Gambaro che raccontandole ha fatto saltare le regole. Non è il suo coraggio che ha liberato la verità del movimento nel movimento È stato “lo scialo”.
Neppure Pratolini era arrivato a immaginare uno scialatore così rapido e radicale nello sfinirsi, nel dissanguarsi, nel passare dal 30 per cento al tre per cento. Davvero uno scialo così enorme e così rapido non si era mai visto. Grillo ha esibito la forza e l’ha subito distrutta. La sua non è una sconfitta ma una dissipazione senza uguali nella storia d’Italia che pure è ricca di ardenti fuochi fatui, come l’uomo qualunque di Giannini e la Lega di Bossi, e di grandi dilapidazioni di consenso, come Mario Segni e Achille Occhetto, pur sempre piene di dignità benché veloci. Ma solo Grillo in appena tre mesi è stato quasi cancellato in quella Sicilia che aveva conquistato con una strepitosa guerra-lampo. Anche a Ragusa, unica città dove il grillino andrà al ballottaggio, il consenso è passato dal 40 al 15 per cento. E si sa che la Sicilia anticipa, amplifica ed è la Cassazione delle sorprese elettorali.
Lo scialo, dunque. Sino a ieri davvero Grillo li controllava tutti con il pugno di ferro, anche la Gambaro. Ma dopo lo scialo non potrà più tenere in riga i suoi soldatini perché, per dirla con i paradossi del linguaggio grillesco, per dirla cioè come la direbbe Grillo, ormai il movimento ha più parlamentari che voti.
Perciò, mentre butta fuori la Gambaro, Beppe Grillo comincia a buttare fuori anche se stesso. Sfidandoli tutti, si sfida: «Vorrei sapere cosa pensa il Movimento 5 Stelle, vorrei sapere se sono io il problema».
Certo, il gran finale dello scialo vorrebbe che anche Grillo come la Gabanelli e Rodotà venisse via via maltrattato e infine tradito come un amante indegno. La sceneggiatura vorrebbe che il gran fustigatore del web scomparisse fustigato nel web. E vedere tutti quei parlamentari vagare in cerca d’autore sarebbe ancora scialo: crudeltà di scialo.
Beppe Grillo che dissipa se stesso fino a rendersi inutile, fino a rendersi vano? In fondo è Montale che ispirò Pratolini: «La vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele».

l’Unità 12.6.13
Dall’exploit alla disfatta: la parabola a Cinque Stelle
La parabola dei duri e puri
di Pietro Spataro


LA VELOCITÀ CON LA QUALE BEPPE GRILLO È RIUSCITO A BRUCIARE IL SUO ENORME CONSENSO dovrebbe finire nei libri di storia: c’era una volta in Italia un movimento che in tre mesi passò dal venticinque al sei-sette per cento e, dopo una serie di feroci regolamenti di conti interni e di espulsioni, si ridusse a una piccola forza estremista e protestataria... Dall’exploit elettorale di febbraio a oggi sembra trascorso un tempo lunghissimo.
Sono passati invece solo cento giorni durante i quali, quotidianamente, il comico genovese ha demolito ogni aspirazione al cambiamento di chi si era fidato di lui. I risultati dei ballottaggi danno l’esatta dimensione di una disfatta. Solo un paio di mesi fa c’era chi scommetteva su un sindaco grillino a Roma e chi pensava con timore che i Cinque Stelle avrebbero dato filo da torcere nei duelli finali in molti dei Comuni al voto. La scena di oggi è completamente diversa. Persino la Sicilia, dove con la traversata a nuoto dello Stretto iniziò l’ascesa di Grillo, punisce senza pietà il movimento che in alcune città (come Messina, Catania, Siracusa) sfiorava il 30% e ora è ridotto tra il tre e il sei. Quella che il leader definisce una «lenta e inesorabile avanzata» non è
altro che una veloce e inarrestabile ritirata che si ferma negli avamposti di Pomezia e Assemini dove ci saranno gli unici due sindaci grillini. Si tratta di una parabola lampo che nessuno avrebbe immaginato. E se qualcuno dentro il movimento osa chiedere il perché di questa catastrofe politica viene subito dato in pasto alla rete che, come si sa, non ci va tanto per il sottile e spara insulti e offese contro i «venduti traditori». È accaduto ieri alla senatrice Adele Gambaro che verrà espulsa, era già successo ad altri deputati. Ma succederà ancora, perché la resa dei conti è appena cominciata e sicuramente sarà spietata come si conviene a un partito personale e autoritario. Ma quella domanda resta, nonostante le scomuniche del grande capo: perché il M5S ha dissipato in cento giorni la fiducia dei suoi elettori? Una prima spiegazione l’ha data, a sua insaputa, lo stesso Grillo sul suo blog qualche giorno fa, quando ha spiegato che chi ha votato Cinque Stelle l’ha fatto perché «voleva un cambiamento». Ecco, appunto: voleva un cambiamento e non l’ha avuto perchè il leader ha preferito cullarsi nella facile invettiva del Vaffa-day e parlare di «morti che camminano» e di «merde» piuttosto che assumersi l’onere della prova. Sappiamo che i passaggi nodali sono stati due: quel no, pronunciato in una patetica diretta streaming, al governo di cambiamento proposto da Bersani e, durante la partita del Quirinale, l’insistenza furbetta e strumentale su Ro-do-tà, liquidato qualche giorno dopo come un ottuagenario miracolato dalla rete. Due occasioni mancate che hanno dimostrato l’inutilità del voto grillino e sono state l’innesco di una deflagrazione interna che si è trascinata fino a oggi. Lì si è capito meglio quel che già si sospettava: che il M5S, e soprattutto il suo leader, non avevano nè l’intenzione, né la cultura, né la solidità politica di una vera forza di cambiamento. Questa lenta e inesorabile involuzione, però, non è solo il frutto di un errore. Se si ripercorrono questi cento giorni che sconvolsero i grillini si ha la sensazione che ci sia, in questa ostinazione minoritaria, una volontà precisa. È come se Grillo abbia avuto paura della responsabilità enorme che il voto di febbraio gli caricava sulle spalle.
Con il 25%, infatti, non si può giocare a soldatini, non si può fare il pirata in Parlamento, non si può solo mandare a quel paese e insultare con le battute più cattive. Non esiste al mondo una forza politica con quei livelli di consenso che possa resistere a lungo senza un progetto di governo e un’identità politica definita. E il M5S non ha né l’uno né l’altra. Ha invece una micidiale capacità di contestazione, di contrasto, di demolizione. Grillo lo sa e quindi sta cercando in tutti i modi tra diktat, insulti, espulsioni di ridimensionare la sua creatura, di riportarla alle misure adeguate che gli consentano agili e feroci incursioni contro l’«oscena politica» che domina in Italia. Se tutti gli altri sono nemici è più facile essere contro e difendere la purezza di se stessi. È il nemico, in fondo, il collante che deve tenere insieme il movimento e che può evitare un’implosione finale. Se si perdono pezzi non è un male: meglio pochi ma combattenti.
Questo declino, voluto, del M5S pone alla sinistra un problema nuovo: in che modo una potente richiesta di cambiamento (e di rinnovamento) può trovare un’altra sponda su cui fermarsi invece di ritornare nel mare morto dell’astensionismo. Questo, insieme all’altra disfatta che ha segnato queste elezioni con il crollo del Pdl di Berlusconi e della Lega di Maroni, rimette il Pd, vincente ovunque, al centro della scena. È un’occasione irripetibile. Per non perderla, però, occorre avere il coraggio e l’umiltà di mettersi dalla parte del Paese e non perdersi nel gioco incrociato dei leader che pensano, da soli, di salvare il mondo.

l’Unità 12.6.13
In pochi mesi i grillini quasi scompaiono dall’Isola
A Catania, Siracusa e Messina non entrano nemmeno nei consigli comunali
Anche dove il Capo si è speso di più i numeri sono stati negativi
di S. F.


Dal trionfo alla sconfitta, con ritmi da record. I grillini si erano lanciati con forza a livello nazionale vincendo in Sicilia e in terra sicula son crollati, con una caduta di quelle che fanno storia. La Sicilia ancora una volta si conferma laboratorio nazionale, specchio dell’Italia, incubatore di novità e di crollo delle novità. Perché si potranno legittimamente avanzare tutte le giustificazioni del mondo, ma passare a Catania da oltre il 30 per cento delle nazionali ad appena il tre e qualcosa della candidata a sindaco del M5S Livia Adorno, qualcosa di politicamente importante lo vorrà pure dire.
Ma non è solo a Catania (nella sfida più importante dell’isola e dell’intero Sud di queste amministrative) che il M5S ha fatto flop, è ovunque che ha perduto. Eccezion fatta per il Comune di Ragusa, dove il candidato grillino ha conquistato il ballottaggio con il 15,64%, praticamente doppiato dal candidato del centrosinistra che ha sfiorato il 30%. Rimanendo nei capoluoghi di Provincia è di dimensioni enormi la sconfitta dei 5 Stelle a Messina, la città dalla quale Grillo aveva iniziato il suo tour politico-mediatico trionfale nell’isola, dove la candidata dei 5 Stelle è sotto il 3%.
A Siracusa, nella città di Archimede, non serve il genio del grande matematico per cogliere il senso della sconfitta colossale del movimento grillino, i numeri parlano chiaro: dal 35% dei consensi alle nazionali a un 4%. Raramente nella storia delle competizioni elettorali vi sono state ascese così veloci e discese così precipitose. Altro elemento eclatante è che il M5S che secondo Grillo avrebbe dovuto conquistare il 100% al Parlamento nazionale, non entra nemmeno nei consigli comunali di Catania, Messina e Siracusa.
Nel catanese, una delle roccaforti per eccellenza del movimento (neopartito lo definisce l’autorevole storico Salvatore Lupo), non entra nei consigli comunali di realtà che avevano espresso parlamentari. Il crollo grillino è diffuso su tutte le province sicule, tranne quella ragusana, e riguarda anche i piccoli e medi centri. Grillo non è andato in molti centri importanti a fare campagna elettorale, ma dove è andato i risultati non sono stati migliori. Si pensi a Mascalucia (nel catanese), a Leonforte (nell’ennese). È curioso il fatto che qui Grillo aveva decretato con parole poco eufemistiche la fine di alcuni politici locali. Ebbene, qui i due candidati del Megafono e Pd sono primo e secondo; il candidato sindaco del M5S è quinto, difficile fare peggio perché i candidati nel piccolo centro erano solo 5. Va riconosciuto al leader all’Ars dei 5 Stelle, Cancelleri, l’equilibrio delle sue dichiarazioni a caldo, ragionate e prive di insulti. Non ha accusato gli elettori come ha fatto Grillo a livello nazionale.
Ma anche fra chi non accusa gli elettori, vi sono comunque atteggiamenti che lasciano perplessi. Ad esempio seppure con onestà intellettuale di Giulia Grillo, parlamentare catanese, parla di sconfitta dai numeri inequivocabili alle amministrative in Sicilia, fra le cause della sconfitta indica «la stanchezza». In buona sostanza venivano da due tornate elettorale impegnative e vittoriose. E poi ovviamente è colpa della stampa, dei media. Certo, la colpa dei media è quella di non suonare la grancassa al grillismo che avrebbe dovuto aprire il Parlamento come una scatola di tonno. Ha spiegato lo storico Lupo che il loro atteggiamento non è antipolitico, poiché loro fanno politica, ma antipartitico. Ma anche i movimenti personalistici e leaderistici sono neopartiti.
Il punto vero è che una buona parte di quanti hanno votato Cinque Stelle, lo ha fatto per dare un’indicazione di cambiamento e si è sentita tradita.
Con sincerità e genuinità, la candidata grillina a sindaco di Catania, Livia Adorno, ancor prima di entrare nel vivo della campagna elettorale spiegava alla stampa locale che quando andavano in piazza e nei mercati venivano contestati. Il clima era cambiato dopo l’atteggiamento assunto dai 5 Stelle in Parlamento. La cosa curiosa è che le medesime contestazioni avvenivano anche in altre piazze sicule al grido che sintetizziamo eufemisticamente in un «avete fallito, potevate cambiare l’Italia». Invece, hanno preferito attaccare il Pd. Ma il Pd è ancora in piedi, anzi è paradossalmente più forte, Berlusconi e Grillo barcollano.

il Fatto 12.6.13
Sicilia: era uno Tsunami ora è un venticello
di Giuseppe Pipitone


Palermo Doveva essere uno tsunami, ma alla fine è arrivato soltanto un modesto venticello di risacca. La love story tra il Movimento 5 Stelle e gli elettori siciliani sembra essere finita, di botto. Esattamente com'era cominciata. Dopo il successo alle regionali di ottobre e alle politiche di febbraio, il movimento di Grillo registra un clamoroso flop alle amministrative siciliane: a Messina Ma-ria Cristina Saja si ferma sotto il 3 per cento, mentre a Catania Lidia Adorno non arriva al 3,3. “La nostra città si vende facilmente” commentano delusi i grillini catanesi, che appena 8 mesi fa avevano eletto ben 3 deputati regionali nel collegio et-neo. Giancarlo Cancelleri cerca di guardare il bicchiere mezzo pieno. “Poteva andare meglio – commenta il capogruppo dei 5 Stelle all'Ars – ma l'unico dato inoppugnabile è che fino ieri in Sicilia non avevamo neppure un consigliere comunale".
L'UNICA eccezione nel flop siculo dei 5 Stelle è Ragusa, dove Federico Piccitto ha raccolto il 15 per cento dei voti e sfiderà al ballottaggio Giovanni Cosentini, candidato del centro sinistra sostenuto dalle stesse forze che appoggiano il governo regionale di Rosario Crocetta. L'ex sindaco di Gela è l'unico che esce rafforzato da questo turno elettorale: l'asse Pd – Udc, che lo ha spinto sulla poltrona più alta di Palazzo d'Orleans, ha vinto quasi ovunque, mentre il suo movimento, il Megafono, è risultato essenziale per l'affermazione del centro sinistra. Come a Catania, dove Enzo Bianco è tornato sindaco al primo turno. Ma anche a Messina, nonostante alla fine il democratico Felice Calabrò si sia fermato al 49,94 per cento: tra 15 giorni dovrà affrontare Renato Accorinti, attivista No Ponte che ha incassato il 24 per cento. Centro sinistra avanti anche a Siracusa con Gianfranco Garrozzo che vola sopra il 30 per cento: al ballottaggio troverà Ezechia Reale, candidato vicino a Vincenzo Vinciullo, deputato regionale dissidente recentemente sospeso del Pdl. Il candidato ufficiale del partito del predellino era Edy Bandiera, benedetto da Stefania Prestigiacomo, che però è rimasto fuori dal ballottaggio. La situazione aretusea è un po' il paradigma del disastro pidiellino sull'isola, un tempo granaio inesauribile di voti azzurri. Archiviato il 61 e 0 targato Miccichè, oggi Alfano non riesce più ad intercettare i voti dei siciliani. Che stamattina si sono inaspettatamente risvegliati un po’ più a sinistra. Non sarà una regione rossa, ma il modello Udc – Pd, arricchito dall'arrivo di parecchi fuggiaschi provenienti dal centro destra, ai siciliani sembra piacere. O meglio piace a quelli che continuano ad andare a votare. E in un'isola come la Sicilia, da sempre caratterizzata da alambicchi e laboratori politici su scala nazionale, è un fenomeno da tenere d'occhio.

il Fatto 12.6.13
Scarica Grillo in tv, lui la caccia
La senatrice Gambaro: “Il problema del Movimento è  Beppe”. La replica con un post: “vada via”
di Emiliano Liuzzi


“Carissimo Beppe, il problema sei tu”. “Io? Perfetto, tu intanto vattene”. Il siluro gli arriva dall'Emilia Romagna, terra di grandi soddisfazioni (a Bologna Grillo s'inventò quello che sarebbe stato il Movimento e riempì piazza Maggiore) e disfatte: è qui che ha raccolto le prime vere opposizioni interne che portano i nomi di Valentino Tavolazzi, Giovanni Favia e Federica Salsi. Questa volta non ci sono artifizi né smentite: una senatrice bolognese, Adele Gambaro, va a Sky Tg24, ci mette la faccia e schiaffeggia il suo presunto leader in diretta tv: “Il nostro problema sono i post di Beppe Grillo, parla di Parlamento, ma noi qui non l'abbiamo mai visto. Lo invito a scrivere meno e osservare di più. Il problema del Movimento è lui”.
La risposta, quasi in diretta, arriva dal blog di Grillo: “Giudichino gli attivisti, se sono io il problema”. Ancora pochi minuti e Grillo rincara la dose in un post dal titolo che suona come una ghigliottina, Quando uno non vale niente: “La senatrice Adele Gambaro (non la definisce cittadina, ndr) ha rilasciato dichiarazioni false e lesive nei miei confronti, in particolare sulla mia valutazione del Parlamento, danneggiando oltre alla mia immagine, lo stesso Movimento 5 Stelle. Per questo motivo la invito per coerenza a uscire al più presto dal M5S”. In poche parole è espulsa, anche se spetterà agli altri parlamentari ratificare – se lo considereranno opportuno – il suo allontanamento. E sul blog Grillo questa volta non ha un plebiscito: in tanti, tantissimi, criticano il comportamento della senatrice, altri parlano di purghe. Niente altro che purghe.
POTREBBE ESSERE liquidata anche questa come una voce fuori dal coro, una delle tante forme naturali di dissenso, potrebbe venir minimizzata. Ma ieri sera i senatori del Movimento si sono riuniti con urgenza: “Non decidiamo niente”, ha detto Vito Crimi, “ma non potevamo continuare a parlare via sms. Così abbiamo deciso di vederci”. Ordine del giorno le espulsioni, ovvio. E il caso Gambaro, anche se tutti faticano ad ammetterlo. Ma se una decisione verrà presa, e appare inevitabile, se ne parlerà tra qualche giorno.
A metà mattina il Movimento 5 stelle, proprio al Senato, si era spaccato sulla scelta del nuovo capogruppo, in quel ballottaggio dove erano impegnate anime simili, ma nomi diversi: quello di Luis Alberto Orellana e quello di Nicola Morra. Alla fine ha vinto Morra, ma con soli 2 voti di vantaggio: 24 contro 22. È vero che il Movimento 5 stelle non ha niente di simile ai partiti tradizionali dove il capogruppo si decide in stanze più o meno segrete con un'apparente unanimità, ma l'esperienza riporta a qualche mese fa, quando venne eletta alla Camera Roberta Lombardi. Anche la Lombardi non poté trionfare, alla fine, nelle elezioni di capogruppo e il bilancio della sua guida è stato disastroso. Colpa sua, non c'è dubbio, ma colpa anche della mancata unanimità del gruppo. In molti non la volevano prima e non l'hanno digerita nel corso dell'intero mandato.
Questo non vuol dire che si ripeta con Morra, ma due voti sono pochi per guidare un gruppo che, evidentemente, presenta sul tavolo problemi quotidiani: la diaria, soprattutto, ma anche le strategie di comunicazione, i malumori nei confronti di Grillo che c'è e non c'è. “La mia porta sarà sempre aperta”, ha detto Morra, “perché insieme si vince. Bene il confronto, anche aspro, ma l’asprezza non si deve tramutare in altro. Non voglio essere un leader con 52 gregari, ma vorrei avere un gruppo di 53 fratelli. Ricordiamo che siamo tutti uniti nella stessa barca. Adesso andiamo perché bisogna continuare a lavorare”.
IL PROBLEMA, casomai, non sono i gregari, ma 22 oppositori, quelli che hanno votato e avrebbero voluto al suo posto Orellana. Se una grana non bussa alla porta, c'è sempre comunque qualcuno che la va a cercare, apre e aspetta che il problema entri da solo. Eppure Grillo, ieri, un passo in avanti lo aveva fatto: quello di ammettere la sconfitta elettorale. Chi l'ha visto dice che non sia per niente scoraggiato, è convinto di uscire dalla palude in cui si sono ficcati i suoi parlamentari “senza grandi traumi”. Non cambia, invece, la linea rispetto al commento politico: “Vince sempre la solita gente”. Insomma: non è colpa degli italiani, ma poco ci manca.
“In Italia è sempre tempo di elezioni, è sempre il tempo dei Pavesini, che siano sindaci, presidenti di provincia, presidenti di Regione, deputati, senatori, eurodeputati. Il vincitore dell’elezione di circostanza sale sempre su un palco e a braccia tese saluta la folla. Non cambia nulla, ma la gente è contenta che abbia vinto il suo candidato e non il loro, quando in realtà sono la stessa persona, la stessa politica”.
Una cosa è certa: la data dell'11 giugno rimarrà uno spartiacque fondamentale per il Movimento. Il dissenso della senatrice, la spaccatura sul capogruppo, la reazione di Grillo alle elezioni, segnano una giornata infausta. Seguiranno altre dimissioni, nei prossimi giorni, ancora polemiche, ancora titoli sui giornali e post.
PERCHÉ QUALCOSA nel Movimento accade e, probabilmente, è molto più grave di quello che appaia all'esterno. Sui loro tavoli sono rimaste troppe questioni irrisolte. Grillo è a Genova, Casaleggio a Milano. La coesione dei primi giorni non esiste più. E soprattutto i numeri la dicono male: 163 parlamentari eletti a febbraio e due sindaci, uno a Pomezia, l'altro in Sardegna, ad Assemini, la dicono lunga.

il Fatto 12.6.13
È la veterana del gruppo emiliano
di E. Liu.


Quarantotto anni, consulente per enti pubblici, è la più anziana delle senatrici emiliane elette a febbraio con il Movimento 5 stelle. Adele Gambaro, la parlamentare sul punto di essere espulsa per avere definito Beppe Grillo il problema del Movimento 5 stelle, con una laurea e un master in relazioni internazionali in tasca, negli anni Novanta si trasferisce dalla sua Genova a Bologna, dove comincia a collaborare con la Regione per la promozione di progetti dell'Unione europea per le piccole e medie imprese.
AL MOVIMENTO di Grillo aderisce fin dalla nascita, facendosi le ossa in quello che per i 5 stelle è stato il più importante laboratorio politico: Bologna. Si iscrive al meet up nel 2009, il Movimento è ancora agli esordi e i militanti attivi, quelli che non si perdono nemmeno un'assemblea, si possono contare sulle dita di una mano: “Per me il Movimento è una comunità di persone che hanno a cuore il benessere di tutti, che ambisce a migliorare la società, a renderla più equa e sostenibile” dice. Toni pacati e mai sopra le righe, è l'esempio di come spesso i candidati a 5 stelle siano distanti anni luce dai modi di comunicare di Grillo. Questo lo abbiamo sempre detto e ripetuto, fin dai primi passi nel mare magnum della politica: guai confondere Grillo col Movimento, almeno fino a oggi le personalità e le competenze erano separate. E lo era anche il modo di fare politica. Con i risultati di febbraio, questi equilibri, sono decisamente scomparsi.
La storia di Gambaro, nella scalata alle istituzioni, inizia nel 2009 quando si candida alle elezioni comunali di Bologna. Va male però: con il 3,2 % la lista civica a 5 stelle piazza a Palazzo d'Accursio solo un consigliere, Giovanni Favia.
L'anno dopo ci riprova, sempre in lista con Favia, per un posto nell'assemblea regionale. Anche lì non ce la fa. La sua strada verso le istituzioni si apre solo due anni dopo, con le parlamentarie, le primarie online usate dal Movimento per scegliere i candidati per il Parlamento: con 148 voti si piazza al secondo posto della lista per il Senato, assicurandosi un posto certo a Palazzo Madama.
POCHI GIORNI si dice “consapevole di avere una enorme responsabilità nei confronti di chi mi voterà, degli iscritti al movimento, di tutti i cittadini italiani e, infine, della mia famiglia”. Quando indosserà i panni della senatrice a 5 stelle, assicura, si muoverà come “un amministratore della cosa pubblica, esecutore delle istanze della cittadinanza, renderà sempre conto del suo operato a tutti i cittadini, anche attraverso alla rete”, e sarà pronta dopo 5 anni a lasciare il posto al suo successore. Ma soprattutto lavorerà sodo, “studiando e informandosi, così da non arrivare alle sedute impreparata”.
In Senato è componente della commissione permanente Affari esteri ed emigrazione.
Ieri, sulla sua pagina Facebook, la senatrice è stata riempita di insulti. Qualcuno che le chiede quanto sia stata pagata per questa uscita. Invece, sul blog di Grillo, la situazione è diversa: non c’è un plebiscito. Assolutamente. Molti sono dalla parte del leader, altri invece chiedono a Grillo di abbassare i toni dello scontro e lo accusano di aver fatto ricorso “alle purghe” contro chi all’interno del Movimento manifesta dissenso. “Ma non è che la risposta sia sempre buttiamoli fuori dal movimento, Scilipoti, epurazione ecc. ecc – fa notare Giacomo – si può parlare e condividere un pensiero oppure ogni volta che si dice una cosa bisogna aver paura che si venga mandati via dal movimento? ”. “Cosa ci chiedi poi a fare se sei tu il problema? Vuoi sentire l’eco delle pecore? – chiede ‘Z x Zolfo’ – Queste sono purghe! Né più né meno. Epurazione del dissenso”.

Repubblica 12.6.13
Gambaro: “I suoi post violenti ci fanno male. Débâcle elettorale”
La ribelle: “L’ho cercato non mi ha mai risposto”


ROMA — «Mi sono scocciata di questi post violenti di Grillo». Non è ancora arrivata la scomunica ufficiale di Beppe Grillo, ma la senatrice Adele Gambaro ha già sfidato il Capo in diretta televisiva. Cammina nervosamente verso l’Aula del Senato. Lì, seduta tra colleghi che per un po’ fanno finta di nulla, leggerà il post con il quale il leader la invita a togliere il disturbo. Non distoglie mai lo sguardo, che resta immobile a fissare i banchi della Presidenza. Tormenta un foglio di carta, sussurra di tanto in tanto qualcosa alla vicina di banco. Da come risponde prima di varcare la soglia dell’emiciclo, però, sembra avere già chiaro come finirà. Di certo, non arretra di un millimetro e rivendica quanto consegnato alle telecamere di Sky.
Senatrice, sta pensando di rettificare?
«Cosa devo rettificare? Ho detto quello che penso. E non rettifico cose che penso ».
Ha detto cose pesanti contro il leader unico del movimento. L’ha sfidato. E per di più dal piccolo schermo.
«Io mi sono scocciata di questi post violenti di Grillo che ci fanno solo del male».
In che senso? Dov’è che sbaglia?
«Ci ha lasciato qui, in Parlamento, da soli. Lui deve capire che noi siamo qui da soli a rispondere di tutto».
Scusi ma non ha provato a sentirlo? Una chiamata, magari.
«Mi sono fatta dare il numero di Grillo. Ho cercato di chiamarlo. Ho tentato più volte. Niente, non mi ha mai risposto».
C’è chi obietterà: poteva lamentarsi in assemblea.
«Le cose che avevo da dire le ho dette. Ho parlato in assemblea e nel forum. Tutti sapevano».
E il risultato elettorale delle Comunali?
«Due comuni al M5s non sono un successo, ma una débâcle elettorale. Inoltre ci sono percentuali molto basse».
State pagando colpe del leader?
«Stiamo pagando i toni e la comunicazione di Beppe Grillo, i suoi post minacciosi, soprattutto quelli contro il Parlamento. Mi chiedo come possa parlare male del Parlamento se qui non lo abbiamo mai visto. Lo invito a scrivere meno e osservare di più. Il problema del Movimento è Beppe Grillo ».
(t. ci)

l’Unità 12.6.13
Ma, se le cose vanno male, il comico ha un piano B
di Michele Di Salvo


GRILLO È INFASTIDITO PER CIÒ CHE ACCADE NEI SUOI GRUPPI PARLAMENTARI. E non sopporta il dissenso. Tutto è cominciato con le elezioni politiche, con quel risultato che Grillo non si aspettava e nemmeno desiderava. Una vittoria piena del Pd con i Cinque stelle tra il 10 e il 15% sarebbe stato per lui il crogiuolo perfetto in cui gridare per i prossimi anni le solite parole d’ordine sulla casta, gli sprechi, la vecchia politica, e alimentare il malessere popolare che c’è, ed ha solide fondamenta nella vita reale.
L’aver difeso a spada tratta invece, con un partito al 24% e un gruppo parlamentare notevole e parzialmente controllabile, la linea dura del o da soli o niente, fino al consenso universale, gli è costato non pochi mal di pancia. Nel suo blog ha
deciso persino di eliminare la funzione «ordina i commenti per gradimento» perché altrimenti la percezione sarebbe stata addirittura schiacciantemente contro il capo.
La situazione è poi peggiorata con i risultati delle amministrative, dove grazie alle preferenze conta più la persona che la leadership carismatica del capo: consensi dimezzati nei casi migliori e niente ballottaggi, o quasi. Dati allarmanti soprattutto per i giovani neo-parlamentari che con questi numeri non saranno mai riconfermati. Al crescere delle critiche alla linea monolitica del capo, sembra aprirsi un fuggi-fuggi estivo, alla ricerca di ospitalità altrove o in nuovi gruppi che diano qualche chance in più.
Facendo due conti, tutto sommato, un gruppo dimezzato porta comunque in casa Caseleggio circa 6-7milioni netti e puliti all’anno. Certo, si potrebbe discutere sul fatto che mentre l’ad di quell’azienda propugna l’azzeramento dei finanziamenti pubblici, poi chiude il suo bilancio da 6 anni a questa parte con l’80% di incassi da soldi pubblici prima dall’Idv e poi dai 5 Stelle. Ma anche questa è la tipica coerenza italiana. E sempre facendo due conti, anche con qualche accesso in meno, ma con un pubblico certamente più radicale e fedele alla linea, forse anche il blog di Grillo ne guadagnerebbe in termini di rapporto traffico-incassi.
La prossima scadenza elettorale con cui fare i conti però sono le Europee. Un anno di tempo per epurare, snellire, fidelizzare, stringere tutti attorno al capo e ai temi da lui proposti. Chi non è d’accordo vada pure via. Si perché le elezioni europee sono le più complesse da condurre e vincere. Collegi ampi, con grandi differenze nei territori e nello stesso collegio, in cui conta e molto il radicamento. In più le elezioni europee si affrontano con le preferenze e non solo con i voti di lista, e allora è importante lanciare per tempo gli uomini giusti.
Ed ecco pochi selezionati andare a lezioni di tv da Grillo e Casaleggio, e presentarsi a raffica in tutti i talk prima luoghi satanici da scomunica per rilanciare il verbo; la formula la solita: uno-a-uno, intervista frontale, niente dibattito e niente contraddittorio. Uno spot insomma. Da cucire su misura per un rilancio ad hoc su Youtube o sul blog. Grillo punta ancora al 20%. Ma in caso di ridimensionamento ha già pronto il piano B. I pezzi ci sono già tutti. Il parlare solo con la stampa estera ha dato a Grillo una straordinaria visibilità, sempre sul confine tra leader politico, fenomeno mediatico e guru di una nuova società globale. Una terza vita si apre per l’ex-comico genovese, che potrebbe rilanciare il messaggio di un movimento Cinque stelle che «avrebbe potuto» fare la rivoluzione ma i cui eletti «sono stati corrotti dalle stanze del potere» e lui «non ci sta più». Da mesi ormai cresce il consolidamento delle relazioni con i gruppi Occupy e Indignados di tutta Europa, cui Grillo guarda con fervido interesse come macchina di rilancio, di comunicazione e di organizzazione, e che sarebbero il pubblico ideale per una tournée mondiale, cui lui stesso comincia ad accennare.
Qualcosa in più di una semplice ipotesi, con le prime probabili date in Spagna, Grecia, Olanda, Danimarca e con uno sbarco anche in America: il tutto ovviamente accompagnato da contratti di ferro sui diritti televisivi. Forse un nuovo libro accompagnerà e spiegherà questa nuova svolta, magari tradotto in più lingue: di certo, ultimamente anche i testi dei suoi discorsi stanno cambiando, almeno rispetto allo Tsunami Tour. Linfa di nuovi autori? «Che bello quando queste piazze le riempivo sempre a pagamento, che nostalgia...» è frase ricorrente in tutti gli ultimi comizi elettorali a sostegno dei Cinque stelle.

l’Unità 12.6.13
Dopo la festa, Marino rilancia: «Staff ridotto e Fori senza auto»
l 50 per cento di donne nella giunta. Un punto fermo, si parla di Rita Paris come assessore
Oggi o domani proclamazione. Il sindaco rivela: «Ho votato tre volte per Rodotà al Colle, poi Prodi»
di Jolanda Bufalini


Un mal di testa persistente, non si sa se più per colpa delle bollicine, un calice con cui ha brindato alla Casa del jazz, o delle gocce di novalgina, prese per farlo passare. Ignazio Marino, dopo la vittoria, lunedì sera ha raggiunto i collaboratori nella villa del jazz, bene confiscato alla mafia al tempo di Veltroni, e ha brindato con loro. Si è divertito, quando Silvio Di Francia ha tirato fuori la chitarra sfoderando un repertorio pop da Roma capoccia: «Grazie Roma», «Gianna Gianna Gianna», «Casetta di Trastevere» e, ovviamente, «lo vedi ecco Marino».
Anche Daniele Torquati, 28 anni, il giovane neo presidente del XV municipio, che fu roccaforte di Cesare Previti, festeggia e non sa «come contenere la felicità». Al giovane di sinistra sono arrivati persino i voti di Casapound, «nulla in comune sul piano della storia e delle idealità, ma hanno riconosciuto che la nostra campagna era sulle cose concrete, asili nido assistenza agli anziani, servizi per i non autosufficienti».
Per sindaco e presidenti di municipio, il tempo per festeggiare dura poco, Daniele ha già scoperto che, fra giugno e dicembre manca la copertura per servizi sociali essenziali, quindi ha già il problema di trovare di corsa un milione e 300.000 euro entro la fine del mese. «Credo che con la giunta passeremo l’estate a lavorare».
Per Marino, la cui proclamazione potrebbe avvenire oggi o domani, è stata una giornata di interviste televisive che hanno spaziato dalla politica ai primi atti della sua amministrazione. Ha rivelato di avere votato tre volte per Rodotà candidato al Quirinale e, poi, per Prodi. Ha sentito il presidente del Consiglio Letta, «con il quale lavoreremo insieme», mentre non gli hanno telefonato né Totti né Klose, «hanno capito che non ho confidenza con la materia». Ha ragionato sull’astensione record: «Mi sento responsabilizzato a incontrare le persone che sono disgustate dalla classe politica e che non sono andate a votare perché pensano che lapolitica non sia in grado di risolvere i loro problemi», ha sottolineato che i suoi rapporti con il Pd sono ottimi: «All’inizio si era nel momento di massima difficoltà del Pd, dopo l’elezione di Epifani non sono mai stato solo». E ha ringraziato, in particolare, Renzi e Zingaretti. Quanto ai suoi primi passi, c’è l’obiettivo della chiusura al traffico dei Fori: «Sarà considerato il mio primo errore, ma lo farò il 15 agosto, così non se ne accorge nessuno». Fra gli altri suoi propositi c’è l’aumento delle corsie preferenziali e di trascorrere almeno un giorno la settimana nelle periferie. Si impegna a ridurre al minimo le consulenze, anzi lo stesso «staff del sindaco sarà scelto tra i professionisti già dipendenti del Comune».
L’incertezza sui tempi della proclamazione rende difficile la programmazione del lavoro, Marino, ieri, ha incontrato i tecnici del comune, dal segretario generale al cerimoniale, per studiare il passaggio delle consegne.
Sulla formazione della giunta resta il punto fermo del 50 per cento di nomine al femminile ma, nel toto-assessori, l’unico nome femminile che circola è quello di Rita Paris, l’archeologa della soprintendenza statale, diretore del Parco dell’Appia antica, che è stata eletta nella lista civica in consiglio comunale. E la consigliera di Sel, Gemma Azuni: «Le consigliere della scorsa consiliatura hanno fatto una lotta furibonda , con tre ricorsi vinti al Tar, sulla presenza di genere nelle posizioni apicali». I nomi che circolano, dicono al comitato, sono più indicazioni che vengono da alcuni settori del Pd, che non il frutto di ipotesi realistiche. Non molto verosimile l’ipotesi di Giovanni Legnini al bilancio, il rapporto fra il sindaco e Legnini è nato quando erano entrambi al Senato e Legnini alla commissione bilancio, ma ora l’esponente abruzzese del Pd ha un incarico di peso, sottosegretario alla Presidenza del consiglio.
Non è da escludere che, al momento di fare la giunta, peserà, anche il flusso di voti arrivati a Marino dal Moviemnto5 stelle e dal Movimento di Marchini, che Swg quantifica così: circa il 60% di quanti al primo turno avevano votato Marchini, è tornato ai seggi, vale a dire oltre 68mila elettori: di questi, l’82% (57.500) al ballottaggio ha votato Marino, il 18%(10.900) Alemanno. Tra chi il 26 e il 27 maggio aveva scelto De Vito, è ritornato alle urne invece il 40%, circa 60mila votanti: di questi, il 79% (47.400) si è espresso per il candidato del centrosinistra, il 21% (12.600) per il sindaco uscente. Degli oltre 151mila voti in più che il nuovo sindaco ha capitalizzato nel secondo turno, sostiene lo studio di Swg, quasi 105mila sono «migrati» su di lui da Marchini e De Vito.
Fra le città conquistate nel Lazio dal centro sinistra c’è Fiumicino, dove ha vinto l’ez capogruppo Pd alla Regione Esterino Montino: «Il mio primo atto sarà un’ordinanza contro il degrado», ha detto Montino, che ha indicato fra i problemi urgenti quello dei i precari dell’aeroporto Leonardo da Vinci.

La Stampa 12.6.13
Ignazio “l’americano” e la sfida al potere eterno
Chirurgo, pragmatico, pignolo: dovrà gestire la capitale della tradizione
di Fabio Martini

qui

il Fatto 12.6.13
Roma, addio destra amorale
La sconfitta di Alemanno è quella degli ex missini al guinzaglio di Berlusconi
di Flavia Perina


L’onda lunga della questione morale è un argomento-tabù nei tempi delle larghe intese, e infatti nessuno ne ha parlato nei fluviali commenti all’esito delle amministrative. Ma è in quella direzione che va cercata la prima causa del disastro della destra, la destra degli sceriffi che si è confusa coi delinquenti, la destra “legge e ordine” finita a fabbricare regole ad personam, la destra sociale, infine, quella romana, che ha sposato troppe volte la causa dei prepotenti e dei furbi e ha sbriciolato la sua vantata diversità etica tra cubiste assunte senza concorso e Suv comprati coi soldi pubblici (“Mi era indispensabile, nella Smart non c’entravo”, come ebbe a dire Fiorito).
Il giornalismo copia-incolla si è ritrovato d’accordo nel celebrare i funerali del ventennio di potere di questa destra fissandone la data d’inizio nel novembre ’93, con l’endorsement di Berlusconi a favore della candidatura di Fini al Campidoglio. La fine, ovviamente, viene indicata nel voto di domenica scorsa. È una tesi molto amata dal Cavaliere, che adora con-ferirsi il potere di fare e disfare fortune politiche, ma del tutto immemore dei fatti. L’ascesa della destra, l’accensione dei riflettori (e del consenso) sul quel partitino fuori dai giochi che era il Msi, comincia qualche mese prima del pronunciamento di Silvio, con una manifestazione contro la corruzione a Montecitorio, quando i giovani missini scendono in piazza indossando magliette con la scritta “Arrendetevi, siete circondati”. Ci furono una trentina di denunce per quella protesta, e molte perquisizioni a caccia delle t-shirt incriminate. Si accesero i riflettori su una formazione politica mai contaminata dagli scandali. I sondaggi si impennarono, dando inizio a una storica avanzata elettorale. Vent’anni dopo, nel marzo scorso, lo stesso slogan, nello stesso posto, è stato usato dai dimostranti grillini. E i vari Alemanno, La Russa, le Meloni, i Matteoli, si sono trovati dall’altra parte della barricata, come i Craxi e i Forlani di un tempo, a difendere il fortino assediato della cattiva politica. Ecco, se proprio si vuole cercare l’Alfa e l’Omega della destra, meglio fissarla lì, nello scarto fra quelle due manifestazioni e nella mutazione genetica che esse rivelano. Da censori del malaffare a coimputati. Da paladini dei deboli a sodali dei prepotenti. Da interpreti del desiderio di cambiamento a custodi di un tempio in rovina. Una pessima fine, che il voto romano ha soltanto formalizzato.
FA RIDERE, ADESSO, leggere le analisi di Bondi o della Biancofiore, che attribuiscono al basso tasso di berlusconismo di Alemanno e degli altri la sconfitta elettorale, ripetendo la favo-letta del Giornale e di Libero: “Se non c’è in campo lui, si perde”. In realtà è successo il contrario. La destra ha pagato tutto insieme il conto della fedeltà canina al padrone e ai suoi imitatori di minor rango. Una serie di cambiali che si sono accumulate nel tempo, una a una, e sono andate all’incasso tutte insieme. Le sparate sull’“eroe Mangano” di Dell’Utri, la crema “Genescienze” da 200 euro a barattolo di Formigoni, le risate al telefono della cricca del terremoto, i massaggi di Bertolaso al Salaria Village, Micciché che vuole cambiare nome all’aeroporto Falcone e Borsellino perché “deprime i turisti”, i rolex rubati di Papa, i cannoli di Salvatore Cuffaro, le ostriche sbandierate da Er Batman come una conquista politica (“Senza di me in Ciociaria conoscevano solo il tonno in scatola”). L’antropologia arraffona e prepotente dei parvenu del berlusconismo ha demolito pezzo a pezzo la mitologica “diversità della destra” e disgustato chi si riconosceva in altri modelli. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. E siccome sei come gli altri, non ti voterò mai più.
SUI BLOG E NEI COMMENTI sui social network degli ex-elettori alemanniani, ieri, era tutto un rincorrersi di orgogliose rivendicazioni di astensionismo: “Ho il voltastomaco”, “Non posso riconoscermi nella destra del voto ad personam”, “Imparino la lezione e poi ne riparliamo”, fino alla più amara delle citazioni postata da un vecchio militante, una canzone di Francesco De Gregori: “Ciambellano del nulla, avanzo di segreteria, ti ricordi com’eri quando cercavi una sistemazione? ”.
Già, chissà se si ricordano. Di sicuro, se hanno memoria di quel che era la destra “prima”, non possono dirlo. Mai come adesso quel che resta della ex-An è materialmente dipendente dal berlusconismo. A Roma, ma non solo, c’è una generazione intera di ex in cerca di collocazione. La nomina della moglie dell’ex sindaco, Isabella Rauti, a consigliere di Alfano al Viminale è la punta di un iceberg di piccoli e grandi assalti a quel che resta della diligenza del potere. Una destra che fino a un anno fa aveva tre ministeri, dieci sottosegretariati, il governo di Roma e del Lazio, una pletora di assessorati regionali, per non parlare delle città, degli enti, delle authority, delle fondazioni, adesso non ha più nulla. Nella Capitale, Alemanno porta solo se stesso in Consiglio: nessuno dei suoi amici di corrente è stato eletto. Gli ex-An, che vent’anni fa diedero il “bollino di garanzia” al berlusconismo, conferendo al miliardario amico di Craxi la reputazione di una tradizione politica magari criticabile ma sicuramente onesta, sono diventati vuoto a perdere. Da Arcore si annuncia la fine del Pdl e il ritorno al modello Forza Italia. “No Silvio, no party”, titola Il Giornale, e il messaggio è molto chiaro, molto amaro: per voi, ragazzi, la festa finisce qui.

il Fatto 12.6.13
Uno su venti
Vergogna Italia 260 mila minori sfruttati
Il rapporto di Cgil e Save the children:
Pagati 10 euro
di Tommaso Rodano


Prendete un bimbo di 9 anni. Provate a immaginarlo in un cantiere edile, mentre trascina blocchi di cemento grandi e pesanti quanto lui. Pensate al momento della paga, a fine settimana: nelle sue mani finisce una banconota da 10 euro. Non è un incubo: è una storia vera, in Italia, nel 2013. Nel nostro Paese il lavoro minorile non è un fenomeno marginale, ma una piaga. Save the Children e l’Associazione Bruno Trentin hanno realizzato un’indagine che copre un vuoto durato oltre 11 anni (gli ultimi dati erano del 2002). In occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile di oggi, il rapporto è stato presentato alla presenza del ministro del Lavoro Ettore Giovannini, del titolare dell’Istruzione Marco Rossi Doria e del segretario della Cgil, Susanna Camusso. Il quadro descritto dai numeri è un pugno nello stomaco: in Italia i minori sotto i 16 anni sfruttati sul lavoro sono 260 mila; oltre il 5% di tutti i bambini, ragazzini e preadolescenti: più di uno su 20. Un video di Sa-ve the Children mostra le storie degli abusi attraverso le voci dei giovanissimi. “Che c’entra la crisi? I ragazzini sul lavoro io li ho sempre visti. Dovrei studiare per diplomarmi? E poi? ”. Un altro ragazzo: “Ho lasciato la scuola per motivi familiari, non riuscivo nemmeno a comprare i libri”. Un altro ancora: “Molti dicono che hanno scelto da soli di andare a lavorare per aiutare a casa. Quasi sempre gliel’hanno imposto i genitori. Arrivi a diciott’anni con pochi spiccioli in mano e la schiena rotta”.
GLI IMPIEGHI forzati dei minori italiani sono pericolosi per la salute o per la sicurezza; svolti a orario continuato oppure di notte, compromettono il percorso scolastico e prosciugano tempo e energie per gioco e svago. Lo sfruttamento divora senza distinzione di genere (le femmine sono il 48%) e consuma soprattutto i ragazzini tra i 14 e i 15 anni: in questa fascia d’età, che segna il passaggio dalle medie alle superiori, quasi uno su cinque abbandona gli studi (il 18,4%). Il 41% dei minori finisce a lavorare nell’azienda di famiglia. Un abuso ancora più insopportabile perché inflitto su chi non è in grado di riconoscere l’ingiustizia, come spiega Raffaella Milano, direttore dei programmi Italia-Europa di Save The Children: “Nonostante orari pesanti, paghe risibili (60 euro a settimana, ndr) e rischi per la salute la maggioranza dei minori non sa di essere sfruttata. Non sa cos’è un contratto di lavoro”.

Repubblica 12.6.13
“L’aborto va garantito” stop all’obiezione di coscienza selvaggia
Lorenzin: “Le Regioni vigilino”. E sulle mozioni battaglia alla Camera
di Maria Novella De Luca


Ci sono volute nove mozioni presentate da tutti i gruppi parlamentari, la campagna capillare e sottotraccia di “#save194”, le inchieste giornalistiche che negli ultimi mesi hanno raccontato come, di fatto, in Italia l’aborto sia tornato ad essere clandestino, ma finalmente ieri il governo si è mosso. Spezzando un muro di silenzio che durava da anni, mentre decine di reparti di interruzione volontaria di gravidanza venivano chiusi uno dopo l’altro, svuotati da un ricorso in massa di medici, anestesisti e infermieri verso l’obiezione di coscienza. Ieri, seppure con cautela, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, al termine di una lunga giornata di discussione parlamentare, ha accolto e si è impegnata a verificare tutti i temi proposti nelle mozioni dei diversi gruppi politici, da Sel al Pd, dal Pdl al M5S a Scelta Civica, che sull’aborto si è invece spaccata al suo interno. Esattamente come prevede la legge 194 del 1978, il Governo ha annunciato di voler vigilare, attraverso le regioni, «affinché i servizi di interruzione volontaria di gravidanza vengano garantiti», pur nel rispetto del diritto all’obiezione di coscienza. Un diritto che negli ultimi anni però è entrato in pieno conflitto con l’altro diritto, previsto da una legge dello Stato, e cioè la possibilità per le donne di abortire con sicurezza in ospedale.
Soltanto un inizio naturalmente, anche se molti (anzi molte) firmatarie delle mozioni, da Donata Lenzi del Pd, a Marisa Nicchi e Titti Di Salvo di Sel, fino a Irene Tinagli di Scelta Civica, hanno detto che si tratta di un primo passo, per certi versi straordinario, dopo tanto silenzio. «Si conferma che la 194 è un diritto acquisito». Mentre sono state bocciate in aula quelle mozioni, più restrittive della Lega, di Fratelli d’Italia e di quella parte di Scelta Civica, che spezzandosi in due, aveva firmato il testo di Paola Binetti.
In concreto il neo ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha sottolineato che le mozioni presentate «provenivano da culture diverse e mi è sembrato giuste accoglierle tutte, ma il mio compito sarà quello di vigilare affinché ci sia piena applicazione della legge 194 su tutto il territorio nazionale». Il ministro Lorenzin ha quindi specificato che secondo i dati in suo possesso, «non è il numero degli obiettori di coscienza a provocare i disagi sulla 194, visto che le regioni già prevedono la mobilità del personale». Dati in contraddizione con la realtà però, anche se è proprio la legge 194 che prevede questi scambi tra ospedali. Purtroppo la mobilità non viene quasi mai garantita, anzi le Asl, quando non
hanno più personale disponibile si affidano alle strutture convenzionate, come in Puglia, o assumono medici a contratto, facendo lievitare in modo abnorme i costi della sanità. «Aprirò un tavolo con gli assessori regionali per verificare l’efficienza della 194, e affinché non ci siano discriminazioni né per gli obiettori né per i non obiettori, e a fine luglio presenterò la relazione al Parlamento con tutti i dati aggiornati».

l’Unità 12.6.13
Erdogan soffoca la piazza «La tolleranza è finita»
La polizia interviene in forze a Istanbul, centinaia i feriti
Il premier: «Taglieremo gli alberi». I manifestanti tornano a Gezi Park, scontri nella notte
di Umberto De Giovannangeli


Taglierà gli alberi. Sradicherà la rivolta. Praticherà «Tolleranza zero». Erdogan non si ferma. «Toglieremo gli alberi da Gezi Park, saranno ripiantati in un altro posto» ha detto il premier turco davanti al gruppo parlamentare del suo partito, l’Akp. «Questo episodio è finito, non mostreremo più tolleranza», avverte Erdogan. «Se questa la chiamate durezza mi dispiace, ma Tayyp Erdogan non cambierà». E a conferma di questo annuncio, le forze dell’ordine hanno intensificato le operazioni. Decine di poliziotti in tenuta antisommossa sono entrati ieri nel Gezi Park di Istanbul, cuore della rivolta contro il premier Erdogan. La polizia aveva già occupato piazza Taksim, rimuovendo le barricate. Decine di poliziotti con l’appoggio di blindati con cannoni ad acqua, avevano attaccato la piazza di prima mattina, facendo un uso massiccio di lacrimogeni per disperdere i pochi manifestanti sul posto. Ma gli attivisti sono tornati in piazza.
Il direttore di Human Right Watch, Carroll Bogert, dal suo account Twitter spiega che «dalla tenda del primo soccorso dicono che c’è un morto, colpito alla testa dai lacrimogeni». I dati ufficiali parlano di un centinaio di feriti, cinque dei quali in gravi condizioni, solo nella giornata di martedì. Dall’inizio della protesta in tutta la Turchia sono stati uccisi tre manifestanti, cinquemila i feriti. Dura presa di posizione da parte della sezione turca di Amnesty International. «Condanniamo la vergognosa e brutale violenza commessa dalla polizia», in piazza Taksim, scrive l’ong, ribadendo «la richiesta di giustizia in un incontro con il governatore di Istanbul». «Invece di continuare a reprimere attivisti pacifici, le autorità turche dovrebbero iniziare a guardare alle azioni della loro polizia e portare davanti alla giustizia i responsabili degli scioccanti abusi che abbiamo visto nelle ultime due settimane», afferma Andrew Gardner, ricercatore sulla Turchia di Amnesty International, attualmente a Istanbul.
PROVA DI FORZA
Per tutta la mattinata la tensione è stata altissima. Gli agenti hanno lanciato centinaia di lacrimogeni, usato gli idranti e cannoni ad acqua. I manifestanti hanno risposto con pietre e bottiglie molotov. Rimosse le barricate erette con pezzi di alluminio tutto intorno a piazza Taksim. La polizia non ha avuto difficoltà a farsi largo, anche se gli scontri sono stati violenti. In piazza sono decine le persone ferite ma le ambulanze, sostengono i manifestanti, non riescono ad arrivare. Dopo l’ingresso della polizia in piazza Taksim, il governatore di Istanbul, Huseyin Avni Mutlu, assicura che l’obiettivo delle forze dell’ordine non è lo sgombero di Gezi Park, il vero cuore della protesta contro il governo di Erdogan. «Da stamani (ieri, ndr) siete affidati ai fratelli poliziotti ha detto il governatore, rivolgendo il discorso ai manifestanti -. La nostra intenzione è di rimuovere i cartelli e le immagini dalla piazza. Non abbiamo altri obiettivi. Non toccheremo assolutamente nessuno a Gezi Park e a Taksim». Poi ha rivolto un invito a «guardarsi da possibili azioni di provocatori».
Parole che, dopo l’intervento di Erdogan e della polizia suonano come una grande bugia. A cui la piazza non ha creduto fin da subito. Alcuni manifestanti hanno accusato la polizia di aver infiltrato persone apposta per lanciare molotov e creare tensione. Il prefetto dal canto suo, se l’è presa con i social media, dove «ci sono alcune persone interessate ad alzare il livello dello scontro». Secondo l’Associazione dei medici turchi, i feriti durante lo sgombero di piazza Taksim sono almeno un centinaio, di cui cinque gravi. Il presidente dell’associazione, Ahmet Ozdemir Akta, ha spiegato al quotidiano Hurryiet che molti hanno riportato traumi al cranio perché colpiti dal lancio di lacrimogeni della polizia da distanza brevissima. La polizia ha arrestato anche settanta avvocati schieratisi a sostegno dei manifestanti.
Gli argomenti di Erdogan non convincono le opposizioni che ormai lo accusano apertamente di essere «un dittatore», come ha fatto il leader del partito Chp, Kemal Kilicdaroglu. In serata in migliaia sono tornati ancora in piazza Taksim, sfidando i divieti e la polizia schierata in assetto anti-sommossa. Altri scontri nella notte. Altri feriti. A decine. Il premier Erdogan schiera i blindati. La battaglia di Gezi Park continua.

l’Unità 12.6.13
Franco Rizzi, fondatore di Unimed: «La protesta rivela l’incapacità di risolvere, per ora, il problema del rapporto tra Islam e democrazia»
«Negli scontri si consuma la crisi del modello turco»
di U.D.G.


Quello adottato da Erdogan è l’atteggiamento di un politico che ha una concezione autoritaria della democrazia. In questi anni, in molti hanno propagandato il “modello turco”, ma questo modello sta mostrando l’incapacità, per ora, di risolvere il problema del rapporto tra Islam e democrazia». A sostenerlo è il professor Franco Rizzi, direttore di MedArabNews e fondatore dell’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo), autore di Dove va il Mediterraneo? (Ed.Castelvecchi), in questi giorni nelle librerie.
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha praticato «tolleranza zero» contro i manifestanti di piazza Taksim. Cosa c’è dietro questa prova di forza?
«C’è un leader che ha una concezione autoritaria della democrazia. Il comportamento di Erdogan non nasce dal nulla, ma deriva anche dal confronto che la Turchia ha avuto con l’esperienza delle “Primavere arabe”».
E cosa ha determinato questo confronto in rapporto agli eventi di questi giorni?
«Nel primissimo momento, di fronte alle manifestazioni di piazza Taksim a Istanbul, Erdogan ha puntato decisamente sull’uso della forza, come avvenne in Tunisia e in Egitto. In un secondo momento, visto che la repressione non pagava, Erdogan ha cercato di demonizzare i manifestanti, sostenendo che erano dei terroristi, violenti, sovversivi... Ma visto che neanche la demonizzazione pagava poi ha cercato il compromesso del dialogo. Almeno a parole. Ma non credo che questo “dialogo” porterà dei risultati soddisfacenti, soprattutto se lo scontro nella piazza, come è già avvenuto, vedrà scendere in campo i sostenitori di Erdogan».
Il che ci porta a guardare più da vicino la rivolta di Piazza Taksim, di Ankara, di Smirne... Quali sono, a suo avviso, i tratti più significativi di questa rivolta?
«Non c’è solo un filo conduttore. Va detto, innanzi tutto, che la difesa dell’unico polmone verde di Istanbul non era affatto strumentale, ma rispondeva ad un bisogno e una sensibilità ecologica reale, diffusa, soprattutto tra i giovani. Su questa sensibilità si sono innestati malesseri che derivano dal modo autoritario con cui Erdogan pensa di governare il Paese. Il tutto avviene su una narrazione della Turchia in cui era praticata la divisione tra religione e Stato e una realtà in cui l’obiettivo principale era l’islamizzazione della società».
In cosa si è inverato questo tentativo, messo in atto dall’Akp, il partito di Erdogan, di islamizzare la società turca?
«Penso, per fare alcuni esempi emblematici, al dibattito sul velo, alla legge che proibisce di bere alcolici dalle 22 alle 6 e mai entro una certa distanza dalle moschee. Penso al fatto che i ragazzi non devono avere atteggiamenti amorosi in pubblico. Questa rivolta è anche contro l’arroganza del potere e della sua determinazione a invadere anche la sfera della vita di tutti i giorni».
C’è chi legge questa rivolta come la protesta della Turchia laica. È una lettura corretta?
«Sicuramente una componente di questo genere esiste, ma non credo che sia poi gestita direttamente dal partito “kemalista”. I caratteri di questa protesta sono molto più spontanei e, a mio avviso, si innestano su un malessere che riguarda ancora il Sud del Mediterraneo e che mette alla prova quel “modello turco” molto propagandato e che deve fare i conti con una realtà multiforme e che sta dimostrando l’incapacità, per ora, di risolvere il problema del rapporto tra Islam e democrazia».
In questo scenario, quale ruolo ha l’Europa?
«Dopo aver tentennato sull’entrata o meno della Turchia nell’Unione europea, il governo Erdogan ha messo in atto una politica all’insegna di un protagonismo nel Mediterraneo. Di fronte agli avvenimenti a cui stiamo assistendo, il ruolo dell’Europa non può che essere marginale. L’Europa non può che fare da spettatrice e invocare, così come hanno fatto gli stati Uniti, un atteggiamento da parte del governo Erdogan meno violento e più rispettoso della dialettica democratica».
Un ruolo da spettatrice. Ma questo non è per l’Europa una ammissione di sconfitta? «Una cosa sono le motivazioni che hanno portato alle manifestazioni di piazza Taksim, altra cosa sono gli equilibri geopolitici. Rimane la considerazione che l’Europa non esprime nessuna politica estera, e non solo sulla vicenda turca».

il Fatto 12.6.13
Icona estetica
La signora in rosso bandiera della protesta di Taksim
di Ruth Sherlock


Con il vestito di cotone rosso, la borsa a tracolla e i capelli neri al vento, è diventata il simbolo della protesta turca. Ceyda Sungur, colta dall’obiettivo mentre viene investita da una nuvola di gas lacrimogeno, è anche la prova della brutalità della polizia anti-sommossa. La foto ha fatto immediatamente il giro del mondo. Su Internet ci si domandava perché una signora che sembrava vestita per andare a un pic-nic era stata trattata come un black bloc.
La signora Sungur avrebbe preferito evitare questo genere di popolarità: “i gas lacrimogeni non sono stati usati solo contro di me”, dice. “Sono scesa in strada per difendere la libertà di parola. Per la prima volta la gente si batte per i propri diritti e per cambiare le cose”.
Finora ci sono state diverse vittime e circa mille feriti ricoverati in ospedale. La foto di Ceyda Sungur, oltre a fare il giro dei giornali e del web, è finita sui poster e sugli striscioni inalberati dai dimostranti. Ma Ceyda continua a rifiutare le luci della ribalta e lavora come volontaria in un improvvisato ospedale da campo a piazza Taksim, epicentro della sommossa.
“A piazza Taksim abbiamo creato dei punti di pronto soccorso dove medichiamo i feriti”, spiega rifiutandosi di fornire ulteriori particolari per paura che i medici possano essere arrestati. Sungur è docente presso il Dipartimento di Urbanistica del Politecnico di Istanbul, una facoltà che in genere non è considerata terreno di coltura di radicali e sovversivi. Assieme ad altri colleghi architetti è scesa in piazza per impedire ai bulldozer di abbattere gli alberi di piazza Taksim. “Ceyda mi ha mandato un sms dicendomi di raggiungere il parco”, spiega Meric Demir, 28 anni, collega di Ceyda. “Siamo arrivati in molti nel giro di dieci minuti e l’abbiamo trovata sconvolta e in lacrime per effetto dei gas”.
Tutto è nato da una polemica apparentemente di poco conto, tra un gruppo di ambientalisti e le autorità incaricate dal governo di abbattere gli alberi per fare spazio a un ambizioso piano urbanistico fortemente voluto dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Gli ambientalisti sostengono che non si tratta solo della demolizione del parco Gezi, uno dei pochi polmoni verdi del centro urbano, ma di un piano di “islamizzazione” del centro di Istanbul. “Il progetto del governo spacciato per una occasione di sviluppo prevede non solo la costruzione di una nuova moschea, ma anche il restauro di una caserma dell’epoca ottomana che nel 1909 fu teatro di un fallito colpo di stato militare islamista”, spiega Ceyda Sungur. Inoltre i dimostranti sostengono che la decisione è stata presa senza consultare l’opinione pubblica. “Non si può disporre in questo modo della vita della gente”, dice Ceyda. “Le politiche di Erdogan non tengono conto dei desideri della gente. Qui non si tratta dell’alcol, ma del rispetto delle persone”.
Va inoltre considerato che piazza Taksim è il tradizionale punto d’incontro dei giovani turchi laici il cui leader carismatico, Mustafa Kemal Atatürk, fece della Turchia un paese laico quasi un secolo fa convinto che un governo di tipo islamista avrebbe ostacolato lo sviluppo economico e culturale della Turchia. “Piazza Taksim è il simbolo della rivoluzione turca di Atatürk”, dice la professoressa Handan Turkoglu, 57 anni, capo del dipartimento nel quale lavora Ceyda Sungur, prima firmataria di una petizione contro il progetto di Erdogan. Per i firmatari della petizione, la lotta contro il piano di ristrutturazione urbanistica è diventata la metafora di una lotta di più ampia portata. “Ci battiamo per impedire al governo di stravolgere la Turchia laica trasformandola inesorabilmente in un paese nel quale il confine tra Stato e religione sarebbe destinato a diventare sempre più sfumato”, spiega Ceyda Sungur.
L’Occidente ha accolto con favore le riforme liberali di Erdogan – volute dal Fondo Monetario Internazionale – ma gli imprenditori vicini a Erdogan sono socialmente conservatori e spingono affinché Erdogan dia una sterzata in senso islamista alla società turca. In Turchia molti hanno anche criticato il coinvolgimento di Erdogan nella crisi siriana e il suo sostegno ai ribelli per lo più sunniti. “Abbiamo tutti paura che Erdogan trascini la Turchia in una guerra che nessuno vuole”, dice Ceyda Sungur.
Resta il fatto che Erdogan ha vinto le ultime tre elezioni ed è proprio questo suo atteggiamento di invincibilità a stimolare il risentimento e la rabbia dei dimostranti laici e progressisti di piazza Taksim che lo accusano di imporre una sorta di “tirannia della maggioranza” nel disprezzo del “49% che in occasione delle ultime elezioni non ha votato per il suo partito”, precisa Ceyda Sungur.
“È vero, lo sappiamo benissimo che il primo ministro è stato eletto con poco più del 50% dei voti, ma c‘è sostanzialmente un’altra metà del paese che pretende di essere ascoltata”, aggiunge Ceyda. “Noi laici non vorremmo fare la fine dei curdi o dei musulmani al tempo di Atatürk”.
© Daily Telegraph Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 12.6.13
L’editorialista Cengiz Candar: “È da troppo tempo al potere”
“Il premier è isolato e vuole l’escalation si gioca la sopravvivenza”
di M. Ans.


ISTANBUL — «Tayyip Erdogan vuole un’escalation, perché pensa che la forza possa infine dare beneficio al suo governo. In Turchia stiamo vivendo ore drammatiche, e non è possibile dire dove volterà la situazione. Viviamo appesi alle notizie». Cengiz Candar è uno dei volti più noti del Paese. Grande inviato di politica internazionale, commentatore in tv, tifoso vip del Fenerbahce e in passato anche consigliere del Presidente Turgut Ozal, è un uomo di grandissima esperienza in politica.
Erdogan sta accusando della rivolta interna circoli finanziari stranieri. Ha ragione?
«Macché. Quelle affermazioni sono spazzatura. O ci crede oppure fa finta di crederci. Il risultato per lui comunque non cambia, perché si trova di fronte a una battaglia decisiva. E per questo ha gettato sulla bilancia tutta la sua forza. Anche perché la protesta da Istanbul si sta allargando ovunque, ad Ankara, Smirne e in una settantina almeno di altri centri».
Ma la brutalità della polizia non rischia di essere un pessimo ritorno di immagine per la Turchia?
«Sì, gli interventi così violenti stanno causando molte divisioni nel Paese».
Ma perché la gente è scesa in piazza?
«Questa è davvero una rivolta contro di lui. Nella gente c’è un cumulo di rabbia nei confronti del primo ministro. A causa del suo stile, di come parla, come si atteggia, come si rapporta».
Però Erdogan ha vinto le elezioni con nettezza ed è stato scelto democraticamente.
«È vero. Se domenica andassimo a votare, lui vincerebbe ancora. Però la gente è arrabbiata perché ha compiuto un sacco di errori».
E allora perché non reagisce in modo consono a quello che si addice a una personalità istituzionale?
«Intanto lui è stato colto di sorpresa dalla rivolta, perché non se l’aspettava. Erdogan per sua natura è molto cocciuto. Poi, se sei al potere da 10 anni, c’è anche una fatica di gestire quel potere, diventi arrogante, sei isolato dalla gente, stai sulle nuvole, si fuori dalla realtà, e pensi che tutto quello che stai facendo è corretto. E quindi ritiene che contro di lui sia in atto un complotto».
Perché parla di battaglia decisiva per Erdogan?
«Perché tutto quello che sta accadendo può finire per scombinare i suoi piani per il 2014. Punta infatti a essere eletto Presidente della Repubblica ».
La piazza non sembra essere d’accordo.
«Non questa piazza, anche se lui sta convocando grandi manifestazioni per domenica con la sua gente. Ma il centro di Istanbul non lo ama. Né la sinistra politica che si è assiepata a Piazza Taksim, né i giovani che fanno arte, musica, ecologia che stanno invece al Gezi Park».

Repubblica 12.6.13
Il destino dell’islamismo
di Bernard Guetta


RECEP Erdogan ha fatto la sua scelta contro la Turchia. Facendo evacuare, ieri, piazza Taksim, e rispondendo con la forza alla rivolta pacifica delle giovani generazioni che respingono in massa il suo autoritarismo e puritanesimo.

Il primo ministro turco ha preferito il rischio di aggravare la divisione del suo Paese a quello di deludere i duri dell’Akp, il partito islamo-conservatore da lui portato al potere tredici anni fa.
In tal modo ha demolito una volta per tutte il relativo consenso di cui godeva grazie ai suoi successi economici. Si apre così in Turchia una nuova pagina politica; ma al di là dei suoi confini, in questa crisi è in gioco la sorte dell’islamismo.
All’inizio della sua lunga storia, nell’Egitto degli Anni 20, l’islamismo era un movimento non violento fondato da un religiosissimo insegnante, con l’obiettivo di combattere la laicità europea e l’imitazione dell’Occidente. Era convinto che nessuna delle ideologie europee, di destra o di sinistra, avrebbe consentito all’Islam di ritrovare la perduta grandezza; e che il rinascimento del mondo arabo dovesse passare per un ritorno alla sua identità religiosa. In sintesi, si trattava di contrapporre all’Occidente la riaffermazione di una religione capace di cementare l’unità dei credenti, in un panarabismo senza altri confini che quelli della vera fede.
Quest’ambizione ebbe un tale successo che partendo da zero, alla fine della guerra i Fratelli musulmani egiziani contavano più di 200.000 militanti. La loro influenza si era estesa a tutto il Medio Oriente.
Tra le forze politiche panarabe, erano i più coerenti; ma il loro programma, a fronte di un così rapido progresso e delle grandi attese suscitate, non era più all’altezza della potenza internazionale che ormai rappresentavano.
Come orientarsi? Allearsi con gli Stati Uniti contro il comunismo? Perseverare nel rifiuto della violenza contro gli Stati laici nati dalla decolonizzazione, che li combattevano dopo il fallito tentativo di integrarli? Brandire rivendicazioni democratiche contro quelle dittature, o arroccarsi nel rifiuto della democrazia, convinti come sono che il potere da instaurare sia quello di Dio, e non del popolo?
I Fratelli non hanno risposte chiare a queste domande. Sono esitanti, e al tempo stesso rafforzati dalla repressione nei loro confronti, quando quattro eventi di vasta portata mutano radicalmente le prospettive dell’islamismo.
In primo luogo, il clero iraniano confisca la Rivoluzione democratica che aveva rovesciato lo scià. È lo sciismo, l’altra grande religione dell’islam, a realizzare il programma dei sunniti – cioè dei Fratelli musulmani – creando una teocrazia che seduce anche nel mondo arabo, esporta la sua rivoluzione a colpi di attentati e lancia una sfida strategica, oltre che agli Stati sunniti, agli stessi Fratelli, inventori dell’islamismo.
In secondo luogo, Al Qaida, «la rete» nata nei ranghi delle brigate internazionali dell’islam organizzate a suo tempo
dagli Stati Uniti, dal Pakistan e dall’Arabia Saudita per contrastare l’Urss in Afganistan, dichiara guerra all’Occidente e ai suoi alleati arabi. Il sangue scorre a fiumi, innanzitutto nelle terre dell’Islam. Trasformato in jihadismo assassino da Osama Bin Laden, l’islamismo suscita repulsione. E i Fratelli, benché non implicati, subiscono una repressione crescente, soprattutto dopo l’11 settembre.
Terzo: alla fine degli Anni 90 gli islamisti turchi rompono con la violenza e aderiscono alla democrazia, grazie alla quale accedono al potere nel 2002; da allora sono costantemente rieletti e presiedono, in alleanza col padronato, alla spettacolare crescita economica della Turchia. È il «modello turco », che affascina i Fratelli per il suo successo, ma al tempo stesso li divide perché ha accettato la laicità.
Infine, le primavere arabe, frutto delle tensioni sociali e della rivolta di una gioventù urbana che aspira alla libertà: un movimento che non deve nulla ai Fratelli, i quali però se ne avvantaggiano, vincendo le prime elezioni libere celebrate da allora – dato che oggi le società arabe sono in maggioranza tradizionaliste e religiose.
Eppure, benché i Fratelli siano al governo in Egitto e in Tunisia, l’islamismo è sempre più in affanno, in tutte le sue versioni.
Quasi ovunque sconfitto, il jihadismo è in declino. La teocrazia iraniana sopravvive solo
usando la forza, contro una popolazione con un alto livello di istruzione, che la respinge massicciamente. Al Cairo come a Tunisi, l’esercizio del potere logora i Fratelli, sempre più divisi tra chi ha optato convintamente per il modello turco, e chi lo considerava solo come una via traversa. Nulla più regge in questa crisi, che ha raggiunto ormai anche la Turchia.
Divenuti «islamo-conservatori », gli islamisti dell’Akp sono oggi divisi in due correnti la cui convivenza appare sempre più difficile. Gli uni si propongono di ricentrare questo partito liberale e puritano per farne una formazione di lungo corso, sull’esempio delle democrazie cristiane europee. Gli altri, Recep Erdogan in testa, vorrebbero invece riaffermare la loro identità religiosa re-islamizzando la società, e instaurando un ordine morale che almeno metà dei cittadini turchi rifiuta assolutamente.
Credendosi immune dalle contestazioni in ragione del notevole miglioramento del livello di vita dal 2002 ad oggi, Recep Erdogan si era lanciato troppo avanti, e con troppa fretta, in questa direzione. E ha suscitato così le spettacolari manifestazioni contro una destra dai sentori ottocenteschi. Quali che siano gli sbocchi di questa prova di forza, il modello turco, speranza degli islamisti, si sta incrinando.
Traduzione di Elisabetta Horvat

l’Unità 12.6.13
La bioetica calpestata
Anticipiamo l’intervento di Englaro ospite della Milanesiana
Il tema di quest’anno del festival diretto da Elisabetta Sgarbi è «il segreto»
Il padre di Eluana lo racconta in base a un’esperienza dolorosa che da privata è diventata pubblica ed ha aperto un dibattito serratissimo
di Beppino Englaro


IL SEGRETO DELLA FAMIGLIA ENGLARO, VISTA LA FIGLIA CHE LA SORTE CON TANTA GENEROSITÀ CI AVEVA RISERVATO, era ed è sempre stato insito in noi tre: vivere nella semplicità, nella naturalezza e in armonia tanto dentro la famiglia, quanto dentro la società.
Eluana era solo e semplicemente un autentico purosangue della libertà. La sua straordinarietà era nell’essere una splendida creatura che irradiava con la massima naturalezza gioia di vivere da tutti i pori e che per questo ha consentito ai suoi genitori di trattarla da persona libera e responsabile sin dalla più tenera età. Aveva un innato rispetto verso tutti e un sorriso radioso e aperto verso le persone che incontrava. Allo stesso tempo c’era dentro di lei una velata tristezza che riusciva a mascherare molto bene ma che ai genitori non era mai sfuggito. Era una tenerezza e una apprensione verso chi non aveva avuto una sorte benigna.
Nella tragica vicenda di Eluana credo sia opportuno ricordare la lettera che aveva scritto a noi genitori proprio un mese prima del suo incidente il 18 gennaio del ’92. Doveva essere un regalo di Natale, mai spedito, e trovato per caso dentro un libro nel gennaio 2007, a ben 15 anni di distanza. Nella lettera Eluana scrive dei nostri grandi valori come il rispetto verso se stessi e gli altri e sottolinea che la nostra famiglia formava un nucleo molto forte basato sul rispetto e l’aiuto reciproco. Chiaramente i genitori non avevano bisogno di questa lettera per sapere quello che Eluana avrebbe voluto e si aspettava da loro anche quando, dopo l’incidente, è precipitata nella condizione di stato vegetativo.
Il suo sogno segreto e la sua aspirazione profonda era quella di vivere solo e sempre in piena libertà e mai di essere condannata a vivere da qualcuno o da qualcosa. “Se non posso essere me stessa – aveva detto in più di un’occasione anche alle sue amiche lasciate che la morte accada, lasciatemi semplicemente morire e basta”
Ora, dopo tutta questa premessa, arriviamo anche alla cultura, anima della Milanesiana, nello specifico per quanto riguarda bioetica, biodiritto e biopolitica.
Partiamo dalla bioetica:
Nel primo incontro con il responsabile della rianimazione dell’Ospedale di Lecco prof. Riccardo Massei, il 4° giorno dopo l’incidente, venni informato sulle procedure relative alla rianimazione che – mi fu spiegato – non avevano bisogno di alcun consenso nemmeno da parte dei genitori. Si andava avanti secondo “scienza, coscienza, codice deontologico e giuramento di Ippocrate dei medici”. Tentammo di far presente quali fossero i valori e i convincimenti di Eluana, il suo modo di stare al mondo ma il prof. Massei fu netto e non ci furono spazi di dialogo. «La rianimazione doveva procedere a oltranza», in ossequio a quella «cultura della vita» che non ci apparteneva e che, dunque, finiva per trasformarsi in arroganza se non barbarie. La famiglia Englaro doveva prendere atto che la medicina era al servizio della «non morte» a qualsiasi condizione e non al servizio delle persone nella loro complessità e interezza. Così come ha scritto Ceronetti nella ballata dedicata a nostra figlia, Eluana diventava «priva di morte e orfana di vita». Quando, invece, i riferimenti di Eluana erano ben altri: David – Cruzan – Alessandro.
Arriviamo ora al biodiritto.
Eluana, ancor prima del suo incidente, si era dunque interrogata sulla vita e sulla morte e aveva ben chiaro che all’offerta terapeutica si può rispondere con un semplice no, e con un «lasciate che la morte accada» Conosceva, perché le aveva viste su alcuni amici che avevano subito la stessa sorte tragica che poi toccò a lei, le incognite drammatiche e gli esiti peggiori della rianimazione forzata. Nel nostro ordinamento la persona capace di intendere e volere può dire un no alle terapie e può dunque autodeterminarsi anche se da quel no ne consegue la morte.
I cittadini sanno la nostra Costituzione non lascia discriminare le persone per la loro condizione (art. 3), e come conseguenza dovrebbe essere evidente che le persone che improvvisamente diventano incapaci di intendere e volere, non perdono questo diritto e i loro convincimenti etici, culturali e filosofici. Noi cercammo, come genitori, di dare voce a nostra figlia rivolgendoci prima al giudice tutelare del tribunale di Lecco dott. Francesco Nese. L’istanza fu respinta senza alcuna possibilità di dialogo e da quel momento iniziò un iter giudiziario che lasciò noi genitori esterrefatti. Le sentenze negative nel corso degli anni successivi furono di una devastazione umana senza pari. Ricordo sempre che nonostante tutto ciò, era mia ferma convinzione che la nostra Corte Suprema di Cassazione non potesse non riconoscere a Eluana libertà e diritti fondamentali di tale livello. Solo grazie alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 16 ottobre 2007 e al decreto della Corte d’Appello di Milano del 9 luglio 2008, Eluana è arrivata alla risposta che Le era dovuta da una Magistratura non serva di alcun potere. Il dopo Eluana, ancora agli albori, si dovrà affrontare dentro la società. Solo dentro la società potrà esistere la vera libertà del cittadino di assumersi la responsabilità di quel bene personalissimo che è la sua vita.
Concludiamo con la biopolitica.
Un appello significativo alla politica di affrontare il problema delle migliaia di persone che come sbocco alla rianimazione sono arrivati allo Stato vegetativo permanente è stato fatto durante un convegno all’Università Statale di Milano il 14.06.2000.Un successivo appello è stato fatto attraverso un lettera aperta alle massime cariche istituzionali nello specifico di Eluana il 4 marzo 2004. L’unica risposta concreta è rimasta solo quella dell’allora Ministro della Salute Umberto Veronesi che ha prodotto un importante documento pubblicato nel maggio 2001 (Gruppo di studio Oleari).A partire dal decreto della Corte d’Appello di Milano del 9 luglio 2008, che dava la possibilità al tutore e al curatore speciale di Eluana di farle sospendere i trattamenti sanitari e riprendere così il processo del morire che era stato interrotto dalla rianimazione nel gennaio ’92, la reazione politica ha raggiunto gli apici che seguono. Accuse gratuite alla Magistratura di sentenze creative riguardanti temi eticamente sensibili non di Sua competenza. Camera e Senato che sollevano il relativo conflitto di attribuzione che la Corte Costituzionale boccerà ritenendolo inammissibile.Un «celeste» Roberto Formigoni presidente della Regione Lombardia che blocca le strutture sanitarie lombarde per l’attuazione del decreto (bocciato poi dal Tar nel gennaio 2009) Il Ministro della Salute Maurizio Sacconi che minaccia la «Casa di Cura Città di Udine» di conseguenze inimmaginabili vista la disponibilità della struttura a dare attuazione al decreto. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che con un Decreto Legge si prefigge di bloccare l’attuazione di un decreto già in corso (decreto bloccato dal presidente Napolitano). Il linguaggio di Gaetano Quagliariello in Senato (peste del linguaggio).
Questa è stata la biopolitica istituzionale italiana contro un cittadino che per ben 17 anni si era mosso solo nella legalità e trasparenza.
Copyright: © Beppino Englaro, 2013

il Fatto 12.6.13
Ascolta e non guardarmi. La Classica va in bellezza
Scomparsi i soprano “oversize”, virtuose e affascinanti soliste avanzano non senza fatiche nel mondo maschilista della sinfonica e della lirica
di Hannah Furness


Le donne hanno sempre dovuto lottare per farsi strada nel mondo “maschile e maschilista” della musica classica, a meno di accettare l’antico dogma secondo cui “il sesso vende”.
Alcuni critici musicali ritengono che il successo di avvenenti musiciste quali la violinista Nicola Benedetti e la trombettista Alison Balsom vada attribuito proprio al fatto che hanno permesso di “commercializzare la loro immagine in un certo modo”. Altre si sono rifiutate di piegarsi alle leggi del mercato e sono tuttora alle prese con il sessismo imperante nelle orchestre di musica classica, nei teatri, tra i grandi direttori d’orchestra e tra i critici (per lo più di sesso maschile).
La giornalista Jenni Murray sostiene che tutte le donne che hanno sfondato nella musica classica e in campo operistico “hanno dovuto vedere i sorci verdi”. “Vengono accolte più volentieri quelle disposte ad accettare il vecchio principio che il ‘sesso vende’”, ha detto Jenni in una recente intervista radiofonica. “Guardate in che modo vengono commercializzate la violinista Nicola Benedetti e la trombettista Alison Balsom”, ha aggiunto.
L’anno scorso, un giornalista intervistando Nicola Benedetti per un quotidiano, le ha chiesto se avrebbe accettato di “posare nuda per una rivista per soli uomini” e solo alla fine della conversazione si è ricordato che la signora Benedetti, che è davvero seducente, suona il violino e lo suona molto bene.
Alison Balsom, soprannomi-nata con scarsissima eleganza “la supergnocca della tromba”, ha ammesso che “spesso i colleghi sono molto maschilisti e hanno nei confronti delle donne un atteggiamento quasi intimidatorio”. Ma poi ha aggiunto che, grazie alla sua esperienza musicale, non se ne fa più un problema. Di recente, intervistata dalla Bbc, ha detto: “Non chiamatemi ‘supergnocca’. Sono solo una musicista e quando suono non ho alcuna voglia di mostrare le gambe”.
Nicola Benedetti, scozzese di chiara origine italiana, si dice infastidita dall’attenzione del pubblico per il suo aspetto fisico, ma si esibisce quasi sempre sfoggiando generose scollature che sicuramente distraggono gli spettatori e irritano le spettatrici.
Jenni Murray, che in passato ha tentato di diventare direttrice d’orchestra, ha dichiarato che “il mondo delle orchestre continua a essere un mondo maschile e sostanzialmente chiuso alle donne nei confronti delle quali il pregiudizio è la regola e non l’eccezione”. Ancora oggi ci si aspetta che le donne suonino il violino o l’arpa piuttosto che strumenti considerati “più adatti agli uomini”.
Una clarinettista una volta si è sentita dire dai colleghi maschi che “con tutte quelle ore passate ad avvolgere le labbra intorno al bocchino del clarinetto sarai diventata una campionessa. Quello del clarinetto non è il solo bocchino che padroneggi con maestria”. A un’altra musicista i colleghi hanno detto con malagrazia che “stava rubando il lavoro agli uomini e che avrebbe fatto meglio a starsene a casa a occuparsi dei figli”.
“Anche quelle che ce l’hanno fatta hanno dovuto sopportare angherie di ogni genere”, ha ricordato Jenni Murray. “Una volta Sir Thomas Beecham disse a una violoncellista ‘hai tra le gambe lo strumento più sensibile che l’uomo conosca e non sai far altro che startene seduta a strofinarlo’”.
Sul finire degli anni Cinquanta la percussionista Maggie Cotton entrò a far parte della Filarmonica della città di Birmingham. I colleghi maschi non la accolsero affatto bene. In genere la apostrofavano con frasette del tipo: “Ecco il sesso sbagliato che suona lo strumento sbagliato”.
Per fortuna si registra anche qualche sviluppo positivo. Quest’anno, per la prima volta, il “Last Night of the Proms”, tradizionale appuntamento del calendario della musica classica, vedrà sul podio con la bacchetta in mano Marin Alsop, la geniale direttrice americana. “Ci sono voluti appena 119 anni”, ha commentato acida Jenni Murray.
Il mondo del melodramma è sempre stato più “femminile” e molte opere sono costruite intorno a grandi personaggi femminili, ma anche nei teatri dell’Opera si sono fatte strada le leggi del mercato e dello sfruttamento commerciale della bellezza delle donne. Che fine hanno fatto le soprano che pesavano un quintale e più? Oggi i palcoscenici sono dominati da bellezze hollywoodiane quali Anna Netrebko e Angela Gheorghiu il cui aspetto conta almeno quanto le capacità vocali.
La grande soprano neozelandese Kiri Te Kanawa, 69 anni, deplora questo stato di cose: “Le cantanti d’opera debbono essere robuste e corpulente per toccare certe note. Purtroppo sono anni che le giovanissime si comportano come le top model sottoponendosi a diete assurde per rimanere magrissime”.
A volte per fare carriera è più importante il look del talento. “Ci sono donne che a 28 anni decidono di fare le cantanti d’opera. È pazzesco”, commenta Kiri Te Kanawa. “Forse sono abbastanza brave per cantare sotto la doccia e abbastanza carine per far voltare gli uomini per la strada. Ma per cantare ci vuole ben altro”.
© Daily Telegraph Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere 12.6.13
Un ventenne e il nazismo, travagli del giovane Kennedy
risponde Sergio Romano


È prossimo all'uscita in Germania il libro di Oliver Lubrich: «John Kennedy. Fra i tedeschi. Diari e lettere 1937-1945». Kennedy aveva vent'anni nel 1937, quando fece un lungo viaggio in Europa. Rimase talmente colpito da Hitler, che arrivò a definirlo nel suo diario: uno che ha la stoffa della leggenda. Non solo, ma successivamente, nel 1945, si spinse ancora più in là: Hitler, dall'odio che adesso lo circonda, fra alcuni anni emergerà come una delle personalità più importanti che siano mai vissute. Dopo una affermazione del genere, come poté J. F. Kennedy diventare un mito dell'America liberal?
Attilio Lucchini

Caro Lucchini,
Non so se esistano altri documenti da cui risultino le idee politiche del giovane Kennedy prima del suo debutto nelle file del partito democratico. Ma le sue riflessioni sul regime nazista (peraltro molto ambigue) non mi sorprendono. Per comprendere che cosa passasse allora per la testa di un ventenne nato alla fine della Grande guerra, occorre ricordare quali esperienze, dirette e indirette, avessero segnato il periodo dell'adolescenza e della prima gioventù. Nella famiglia e nella scuola aveva sentito parlare della Grande guerra, aveva ascoltato i racconti di coloro che ne erano tornati, aveva appreso che la Russia era stata teatro di due rivoluzioni nel 1917 e che moti comunisti, un anno dopo, erano esplosi in Germania, Austria, Ungheria, persino in Italia. Verso i dieci anni, da un'occhiata ai giornali, aveva appreso che la Borsa di New York era crollata, che le banche stavano chiudendo i battenti, che le strade e le piazze erano sempre più spesso piene di operai in sciopero, disoccupati in cerca di lavoro e lunghe file di fronte alle mense popolari.
Verso i quindici anni aveva assistito ad animate discussioni sul modo in cui il nuovo presidente americano, Franklin D. Roosevelt, si proponeva di risollevare il Paese dalla lunga recessione in cui stava precipitando. Era un cripto-socialista? Era l'uomo che avrebbe salvato il capitalismo modificandone le regole? All'università il giovane diciottenne si sarebbe lasciato coinvolgere in appassionate discussioni politiche sulla forma ideale dello Stato moderno. La democrazia liberale era ancora adatta a una società che sarebbe stata dominata dalle masse? Era possibile trarre qualche insegnamento dall'esperienza sovietica in Russia, da quella fascista in Italia e da quella nazista in Germania?
Negli anni Trenta, caro Lucchini, non vi è giovane intelligente che non sia alla ricerca di una strada da percorrere, di una «verità» in cui credere. Vi furono quelli che andarono a Norimberga per assistere ai fasti del nazismo e altri che andarono in Spagna per combattere contro Franco nelle file delle Brigate internazionali. Vi furono i giovani universitari di Cambridge che si lasciarono sedurre dalla Russia di Stalin e quelli del Guf che partirono volontari per la conquista dell'Etiopia. Mai come negli anni Trenta i giovani furono bombardati da messaggi tanto diversi e chiamati a fare scelte tanto difficili. Fu la guerra, in molti casi, che scelse la loro vita. Kennedy combatté nel Pacifico, comandò una piccola nave che venne speronata dai giapponesi, portò in salvo quelli fra i suoi compagni che erano sopravvissuti, meritò una medaglia al valore.

Repubblica 12.6.13
Elogio della follia
Nella schizofrenia il segreto della letteratura
Perché racconto i segreti della follia
Lo scrittore racconta come è nata la vocazione a mettere il disagio mentale al centro della sua opera
di Patrick McGrath


Uno psichiatra mi ha iniziato alle riflessioni sulla follia quando avevo otto anni. Era mio padre. Per venticinque anni è stato direttore del Broadmoor, un ospedale psichiatrico di massima sicurezza vicino a Londra. Non ho mai sofferto di schizofrenia, ma da ragazzino ho imparato da lui molte cose su questa malattia. Dico “malattia”. Oggi si pensa che la schizofrenia sia un insieme di sintomi collegati fra loro, più che una singola patologia: una sindrome, non una malattia. Un tempo si credeva che comportasse una personalità divisa, ma mio padre mi spiegò che più esattamente lo schizofrenico era caratterizzato da una personalità frantumata. Potrebbe essere stata quella conversazione, o una simile, a mettermi sulla strada per scrivere la follia.
Ricordo che una volta, da giovane, ero con lui al crepuscolo, attraversavamo un cortile all’interno delle mura di Broadmoor. Un grido giunse dalle finestre in alto del Blocco Sei. Lì andavano i nuovi arrivati, uomini che per la maggior parte, in preda alla psicosi, avevano commesso atti di grande violenza, spesso omicidi. Ma non era un grido di demenza furiosa quello che sentii quella sera; era un grido che esprimeva la più profonda infelicità.
«Povero John», disse mio padre, e io capii che lui capiva la sofferenza del suo paziente, e il fatto che capisse privava il grido del suo carattere spaventoso. Per poter scrivere la follia bisogna prima riconoscere l’umanità di chi soffre, e poi stabilire perché soffre.
Le mie prime letture sono state in gran parte racconti horror. Divoravo i libri di Algernon Blackwood, M. R. James e Sheridan Le Fanu, e più tardi quelli di Ambrose Bierce e Edgar Allan Poe, che svilupparono in me un gusto duraturo per la letteratura gotica. In seguito giunsi alla conclusione che con Poe si ebbe nella storia del gotico un momento di svolta, quando il genere largamente identificato con i fenomeni soprannaturali si rivolse alle disfunzioni psicologiche e scoprì nella mente che si disintegra un filone d’oro nero. Con Poe, infatti, la dote e la funzione particolare della narrativa gotica divenne l’esposizione dei meccanismi inconsci. Un mondo di incubi e fantasmi, di sublimazione, regressione e spaesamento, di Doppelgänger e altri mostri dell’Id fu abbondantemente esplorato più di un secolo prima che Freud organizzasse il materiale in base a una teoria e scrivesse la follia dall’interno di un paradigma scientifico. La teoria psicoanalitica e i case studies che la puntellano sono la continuazione del romanzo gotico con altri mezzi.
Nei suoi racconti horror Poe offrì al mondo una bella collezione di nevrotici, paranoici e psicopatici. Penso in particolare ai narratori dementi del Cuore rivelatore e del Gatto nero, e anche a Roderick Usher e a William Wilson. Ma non credo che nessuno dei personaggi di Poe sia spaventosamente pazzo quanto Montresor, colui che narra La botte di Amontillado.
Il resoconto, da parte di Montresor, della sua esacerbata amicizia con un uomo di nome Fortunato incomincia, nella prima frase del testo, con una minaccia. «Le mille offese di Fortunato le avevo sopportate come meglio potevo, ma quando arrivò all’insulto giurai di vendicarmi». Che ricchezza patologica rivelano queste parole! – giacché ben presto appare chiaramente che le “mille offese” di cui parla Montresor sono per lui meno gravi dell’“insulto” che dichiara di aver subito.
Che cosa sono dunque queste mille offese? Sono gesti di disprezzo? Allusioni, magari, accenni e sussurri? Man mano che il racconto si dipana, con crescente disagio incominciamo a capire che è a causa di questo disprezzo, e dell’insulto che ne consegue, che Montresor ha murato l’amico nelle cantine di un palazzo veneziano in rovina e l’ha lasciato lì a morire. Questo è uno scrivere la follia di altissimo livello.
È anche uno dei primi buoni esempi di narratore inattendibile. Dopo averci introdotto nella paranoia di Montresor con quella prima frase, Poe non ci lascia più scampo. Come il povero Fortunato, anche noi siamo rinchiusi in una struttura soffocante da cui solo la morte – o la fine del racconto – può liberarci. Fino a quel momento, siamo prigionieri di una logica perfetta, se non fosse che è costruita su una premessa falsa, folle.
I miei esperimenti, nell’arte oscura di scrivere la follia, incominciarono con un romanzo che riecheggiava alla lontana Poe. Voleva essere il semplice racconto di un idraulico londinese che uccide la moglie per potersi portare in casa l’amante, una prostituta. Ebbi l’idea di far raccontare la storia al figlio bambino dell’idraulico. Poi decisi che il bambino doveva ricordare questi fatti da adulto, ma che la sua rievocazione non corrispondeva a ciò che era accaduto. Poi mi venne in mente che il mio narratore non fosse semplicemente inaffidabile, ma psicotico. Soffriva di schizofrenia.
Qui il problema di scrivere la follia mi si presentò per la prima volta forte e chiaro.
La narrativa d’invenzione e la psicosi sono entità che si escludono a vicenda. Il figlio del mio idraulico non possedeva l’agghiacciante rigore intellettuale del Montresor di Poe, ma era nondimeno malato, una creatura disorganizzata i cui pensieri saltavano di palo in frasca a seconda di ciò che gli era intorno e delle associazioni apparentemente casuali che scattavano nella sua mente confusa. Soprannominato “Spider” dalla madre – prima della morte prematura di costei – il suo cervello non curato era un insieme incoerente di irrazionalità, allucinazioni e illusioni sensoriali.
Immaginai che il mio personaggio, Spider, sprofondasse nella follia per tappe, e in conseguenza di un’ipotesi sbagliata. Immaginai che tornasse nel quartiere orientale di Londra in cui era cresciuto, un uomo sparuto, che parla da solo e che nel suo vagabondare solitario si accorge che il suo sguardo è attratto in maniera irresistibile dall’incombente struttura circolare di un gasometro, una vista non insolita in quella parte della città. E che lo riempie di orrore. Immaginai anche che, anni prima, sua madre fosse tornata a casa dal pub una sera tardi, si fosse addormentata in cucina e fosse morta per le esalazioni del gas. Il lettore però lo scopre solo dopo un po’.
Una notte, mentre Spider è seduto nella sua squallida stanza in un centro di accoglienza della zona, percepisce un odore sgradevole. Si accorge che proviene da lui stesso e che è odore di gas. Si strappa di dosso i vestiti e sì, non c’è dubbio: è gas!
Il lettore capisce che per quest’uomo fragile e disturbato il gas ha un significato terribile. Ma perché? Quella notte Spider prende i fogli di giornale ingiallito che rivestono i cassetti della sua stanza e se li attacca sul torace con della plastilina e dello spago. Quando è avvolto nei giornali dal collo all’inguine si rimette i vestiti, tutti i vestiti, per sopprimere meglio che può quell’odore raccapricciante.
In seguito giungerà a convincersi che puzza di gas perché sta andando a male dentro. I suoi organi stanno atrofizzandosi e marcendo, incominciano a scomparire – e così via. A questo punto spero che il mio lettore veda Spider non come un mostro di irrazionalità, e neanche come un triste caso di comune follia. No, io vorrei che il lettore interpretasse il tormento di Spider, comprendesse come la convinzione di puzzare di gas sia connessa alla certezza della propria cattiveria, della propria colpa. Sembra roba da matti, e lo è. Ma nessuno psichiatra che abbia curato la schizofrenia resterà sorpreso da questa fioritura di illusioni sensoriali.
Mentre facevo ricerche sulla schizofrenia mi sono imbattuto in una frase de L’Io diviso di R. D. Laing, forse il miglior testo sulla schizofrenia mai scritto. Lo schizofrenico, diceva Laing, «muore di sete in un mondo d’acqua». Io vedevo un uomo che viveva in un quartiere di Londra, ma così isolato, così profondamente separato, da non riuscire a stabilire contatti umani e a conoscere l’amore, o anche l’amicizia, o anche il semplice calore che si ricava dalla normale interazione quotidiana con gli altri. Spider muore di sete in un mondo d’acqua e per uno scrittore della follia questa era un’intuizione senza prezzo.
(Traduzione Alberto Cristofori)

Repubblica 12.6.13
Le conseguenze dell’amore
Da Bovary a Bridget Jones, così il cuore fa soffrire
Esce un saggio della sociologa Eva Illouz su come cambiano le delusioni sentimentali e su quanto incide la liberazione sessuale
di Valeria Parrella


Si può immaginare Catherine di Cime tempestose lamentarsi via social network della scomparsa di Heathcliff, scatenando la solidarietà di centinaia di blogger? Oppure Emma Bovary in seduta face to facedallo psicologo? Sono più o meno questi gli scenari che la sociologa israeliana Eva Illouz lascia intravedere in un impegnativo volume sull’amore (Perché l’amore fa soffrire, il Mulino, pagg. 307, euro 22). Il libro è in tutto e per tutto un saggio, con piglio e apparato accademico, che, pubblicato negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia è diventato un caso editoriale, conferendo all’autrice lo status di una teorica rivoluzionaria (sarà tra i relatori del Festival Filosofia di Modena, in settembre). Si vede che Warum Liebe weh tut. Eine soziologische Erklärung (nell’edizione originale tedesca il titolo proseguiva con: «una spiegazione sociologica»), perché l’amore faccia soffrire è argomento che ancora tocca nervi sensibili, anche se da quell’amore romantico celebrato dalla letteratura di fine Ottocento e dalla Hollywood del secolo scorso sembravamo esserci smarcati.Il problema nuovo, pare sostenere il testo, è proprio in quell’enorme e malinteso uso della libertà emotivo-sessuale-sentimentale, che allorquando pareva salvarci da struggimenti per relazioni incontrollabili (soprattutto da parte delle donne) quali matrimoni non desiderati e non più negoziabili, amanti che non potevano essere dichiarati, solitudini protratte nell’attesa di una lettera che non giungeva, proprio in quel momento lì, la conquistata libertà si rivelava come ingestibile
e quindi generatrice di nuove afflizioni. Le donne moderne non potevano scegliere.
Le donne post-moderne non sanno cosa scegliere, data l’enormità dell’offerta, e se scelgono qualcosa che finisce (qualcuno che le lascia) si sentono inadeguate. Come se fosse tutta e solo colpa loro (o del partner), mentre nella prospettiva sociologica dell’autrice la sofferenza emotiva è in relazione, seppur in modo complesso, con l’organizzazione del potere politico ed economico.
Dichiarato e insistito è il tentativo di applicare all’amore romantico ciò che Marx ha applicato ai beni: mostrare che le pene d’amore sono determinate dai rapporti sociali, che non circolano liberamente e senza restrizioni, e che concentrano in sé le istituzioni della modernità. E se la libertà in economia non dà sempre risultati sostenibili,
perché non dovrebbe essere vero anche per l’amore? Questo non certo per raffreddare l’argomento, bensì per proteggere le persone coinvolte nelle pene del cuore da un esagerato senso di colpa, per comprendere che non si tratta di fallimenti individuali, con conseguente drammatica demonizzazione del sé, bensì di variabili e costanti che possono essere discusse in un insieme più ampio.
Il malinteso, suggerisce ancora il testo, quello che oggi precipiterebbe Anna Karenina in una semplice Bridget Jones (evitandole quindi, però, l’impatto con il treno…), è stato veicolato proprio dall’avvento delle teorie freudiane: la cultura del nostro tempo insiste nell’affermare che il mal d’amore è solo conseguenza di maturazioni psichiche insufficienti o lacunose. Ovvero: le sofferenze sentimentali sono inevitabili e auto inflitte, ci scegliamo per analogie o contrappassi con noi e i nostri genitori... Inoltre vi è tutta una terminologia fuorviante che accompagna il malinteso, come la teoria che le donne vengano da Venere e gli uomini da Marte, cioè che siano insiemi irriducibili
per natura, e non per dettami sociali, l’uno all’altro. La psicologia ha assunto un ruolo cruciale nel delegare tutto ciò che riguarda l’esperienza sentimentale ed erotica unicamente alla responsabilità dell’individuo, forse perché d’altro canto offriva la speranza di poterle risolvere.
Ma a starci troppo, sul lettino dello psicologo, si assiste a un processo di “distacco” non meno doloroso di quello del Dottor Zivago quando guarda scomparire la slitta di Lara dietro dune di neve: emergono autonomia, edonismo, cinismo e ironia. A questo punto, attenzione: se al lettore (come a chi scrive) queste ultime dovessero sembrare categorie salvifiche ancorché ego-centrate, e talvolta persino divertenti, l’autrice mette in guardia dal goderne: è qui infatti che l’amore romantico diviene il luogo di un processo paradossale. Perché se l’amante moderno è infinitamente meglio equipaggiato per gestire esperienze reiterate di abbandono, proprio per questo, poiché si pensa di essere più attrezzati, meno si tollerano i dubbi e le incertezze implicati nell’amare. Insomma è vero che i femminili sono pieni di posta del cuore, e i talk show aiutano a sentirsi meno soli, ma non si soffre per questo di meno: si soffre comunque molto, anzi quanto e come Lucia ne La Boheme.
L’unica differenza tra il suo dolore e quello di Carrie in Sex and the City risiede nella coloritura e nella consistenza dello stesso.
Ed ecco che dunque l’infelicità sentimentale dell’uomo e della donna contengono, rappresentano e mettono in atto gli enigmi della modernità. Ma allora se la libertà non è un valore astratto bensì una pratica culturale istituzionalizzata e condiziona la scelta; se la scelta genera fobia da impegno; e l’impegno mancato genera perdita di valore; e la perdita di valore rigenera una nuova categorizzazione costellata di sprezzante ironia: una speranza la Illouz ce la dà? Nelle conclusioni (ma non come conclusione) arriva, più che una speranza, una formula: «Quando l’uomo o la donna, siano essi impegnati in una relazione omosessuale o eterosessuale che sia, onorano gli impegni di parità, libertà, ricerca di soddisfazione sessuale, dimostrazione di attenzioni e di autonomia al di là del genere, allora la loro relazione è felice”. Chi? Come? Quando?

Perché l’amore fa soffrire di Eva Illouz sociologa della Hebrew University di Gerusalemme (il Mulino pagg. 307 euro 22)

Repubblica 12.6.13
Giochi e paradossi per spiegare l’etica
“Calcoli morali”, un libro del matematico e psicologo László Méro
intervista di Federico Capitoni


L’etica sperimentale è una disciplina alla quale si divertono a giocare più spesso i matematici che i filosofi. Perché proprio di giochi, enigmi, paradossi, si tratta. Dilemmi per loro natura insolubili, pensati con lo scopo di provare a spiegare quali sono i criteri che ci fanno protendere per una soluzione anziché per un’altra. L’impossibilità di dare la risposta “giusta” porta quasi sempre a una morale “sfondata”, privata cioè di regole, massime o formule.
In questo ambiente si muove Calcoli morali, un libro scritto anni fa da László Méro, matematico e psicologo ungherese che applica ai problemi morali la teoria dei giochi. Il testo è di estrema attualità e continua a vendere, tanto che Dedalo torna a ristamparlo oggi per la terza volta.
Professor Méro, i filosofi sanno che tra l’imperativo categorico kantiano (agisci secondo una massima che valga universalmente) e la regola d’oro (fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te) c’è una differenza, seppur sottile. Per molti psicologi e matematici però questa differenza è solo formale, eppure le due leggi funzionano diversamente in alcuni casi pratici come quello della “battaglia dei sessi”…
«Per me è una questione di interpretazione. Il gioco detto “la battaglia dei sessi” è il seguente. Una coppia sta facendo progetti per la serata: l’uomo vuole andare a vedere la partita, la donna vuole recarsi al concerto. Il problema nasce poiché entrambi vogliono passare la serata insieme ma non hanno tempo di accordarsi, quindi devono decidere separatamente. Se applicano la regola d’oro, l’esito finale è che la donna si reca alla partita e l’uomo al concerto: massima insoddisfazione, dunque. L’imperativo categorico kantiano procura meno svantaggi ma sembra fondarsi sull’egoismo: faccio ciò che è meglio per me perché vorrei che questa fosse la massima che segue anche l’altro. Se entrambi ragionano così, la donna va al concerto e l’uomo alla partita, avendo una soddisfazione solo parziale. In realtà, per quanto mi riguarda, questa dovrebbe essere la conclusione a cui porta una corretta interpretazione anche della regola d’oro: “mi piacerebbe essere trattato in modo tale che il mio partner vada dove io desidero andare, quindi andrò lì”».
E in questo caso, come si comporta la teoria dei giochi?
«Come in ogni situazione di contesa in cui ognuno vuole massimizzare la propria vincita, ogni parte in causa è un giocatore che può applicare una certa strategia. Talvolta è migliore la competizione, talvolta la cooperazione. Nel caso della coppia abbiamo visto che è una strategia mista a funzionare: la cooperazione (andare dove spero il partner mi porti) conduce a un risultato, non ottimale ma neanche disastroso, che coincide con quello della competizione (scegliere per sé)».
E in politica? Durante la Guerra Fredda c’è stata un’applicazione della teoria dei giochi, in particolare della strategia chiamata “tit for tat”…
«Questa strategia serve per contenziosi ripetuti ed è una sorta di “occhio per occhio”. Parte dalla cooperazione, ma dice anche che se l’altra parte non coopera, puoi attuare il suo stesso atteggiamento… Nella Guerra Fredda russi e americani promettevano di non utilizzare l’atomica se l’altro non l’avesse fatto per primo. Nella fattispecie, per esempio, la crisi dei missili di Cuba è considerabile un caso particolare di “chicken-game” (per intenderci il gioco del film Gioventù bruciata in cui vinceva chi in auto rischiava lo schianto pur di non girare il volante per primo): la fermezza di Kennedy nel non attaccare è paragonabile a quella del guidatore che non gira il volante fino all’ultimo».
La razionalità non sempre aiuta. C’è il classico enigma dell’auto dai freni rotti che trova sulla sua strada cinque operai. Per non investirli devia in una strada laterale dove ce n’è uno soltanto che morirà. Molti pensano che sia il male minore. Ma se si parla di un dottore che per salvare cinque persone malate ne uccide una sana così da trapiantare gli organi, si pensa a un orrendo omicidio. Perché?
«Sono ragioni non del tutto razionali. Probabilmente si pensa che un medico non debba uccidere nessuno, semmai tentare di salvare chi può come può. Ma in entrambi i casi si uccide un innocente. Come spiego nel mio ultimo libro (ancora inedito in Italia, ndr) il pensiero logico usa esattamente gli stessi canali neurali delle emozioni. Non possiamo separarli. Nelle nostre scelte c’è una componente emotiva contestuale al ragionamento puramente logico che può essere una trappola senza via di scampo.

Calcoli morali di László Méro (Dedalo pagg. 352 euro16)

Repubblica 12.6.13
John Berger si arma di poesia contro i tiranni
di Franco Marcoaldi


L’antologia di John Berger Contro i nuovi tiranni (Neri Pozza), che Maria Nadotti ha approntato con amorevole cura scegliendo il meglio della sua produzione lungo un arco di quasi sessant’anni (dal 1958 al 2012), è tanto interessante quanto problematica. Per svariate ragioni. Innanzitutto, perché un’opera così vasta e variegata ci costringe a fare i conti con quell’automatica e smaniosa necessità di noi lettori nel voler etichettare a tutti i costi l’autore che stiamo leggendo: davvero un irresolubile rebus, in questo frangente. Chi è John Berger? Uno scrittore, uno storico dell’arte, un giornalista d’inchiesta, uno sceneggiatore, un drammaturgo? Come costringerlo in un recinto predefinito, visto che queste pagine spaziano dalla fotografia all’economia, dalla storia alla filosofia, dall’arte alla poesia? Nell’età degli specialismi sempre più asfittici o per converso della fatua chiacchiera di un opinionismo ubiquo e ininterrotto, si fa fatica a risalire all’antica e nobile figura dell’umanista; di chi segue con perseveranza e metodo la strada indicata a suo tempo da Forster: «connect, only connect».
Tanto peggio poi se tutti i fili della tela finiscono per convergere in ultima istanza sulla politica, una gran brutta bestia, sempre meno amata dagli intellettuali di oggi. Berger però non ha mai rinnegato la sua originaria matrice marxista e continua a ritenere che la politica rappresenti comunque il punto di ricaduta di ogni pensiero. Da qui certe sue riflessioni fulminanti, come quelle contenute nelle due stringate paginette che danno titolo al volume. Berger, che ha cominciato facendo il pittore e allo sguardo ha sempre attribuito una funzione essenziale nella lettura del mondo, si chiede: quale sarà il volto di questi profittatori, il loro portamento? «L’abbigliamento è rassicurante, come la sagoma dei furgoni portavalori (…) Mani gesticolanti, che dimostrano formule e non toccano l’esperienza (…) L’assoluta fiducia in se stessi che traspare dai loro volti è pari alla loro ignoranza, che è anch’essa evidente». Ciascun lettore avrà modo di applicare con profitto questa silhouette ideale al primo uomo potente che gli venga alla mente. Uomo potente che, come i suoi pari, concluderà ogni suo discorso con l’immancabile formula di rito: «così stanno le cose, non c’è alternativa. Ogni altro scenario rientra nel mondo dei sogni». Da qui la gabbia, anzi, secondo Berger il carcere planetario in cui siamo finiti: sottomessi come siamo a un neoliberismo finanziario ed extraterritoriale che il Nostro, più sbrigativamente, chiama «fascismo economico». Saltata qualunque idea di sovranità nazionale e dunque qualunque possibile fondamento democratico, «il profitto liquido », che opera nel cyber-spazio, riduce i governanti, di destra o sinistra, a semplici “mandriani” che ammassano nei recinti i propri branchi. Ma la forza straordinaria dei nuovi tiranni, offerta per l’appunto dall’extraterritorialità, può trasformarsi anche in debolezza. Perché quei profittatori «non possono prestare ascolto alla terra. Sul terreno sono ciechi. Nello spazio fisico e locale sono persi». Ecco perché Berger va perennemente in caccia di tutte quelle sacche di resistenza che agendo nel “locale”, possono collegare il vicino e il lontano. Le cerca e le trova nei luoghi più disparati (la Palestina come il Messico, le Alpi francesi come l’India), e lo fa utilizzando le più diverse discipline, a cominciare dall’arte, leggendo ad esempio il Trittico del millennio di Bosch come profetica anticipazione dell’inferno contemporaneo: «l’orizzonte è del tutto assente. Non c’è continuità tra le azioni, non ci sono pause né percorsi, non c’è un disegno, un passato, un futuro».
Parrebbe una resa definitiva. Ma ogni volta che Berger delinea uno scenario apocalittico e sconfortato, subito si leva in lui un’altra voce che reclama comunque la disobbedienza e la lotta. Se è in atto un vero e proprio «sequestro del linguaggio», un racconto mediatico fittizio e manipolato della realtà, che spinge tutti verso un avvilito silenzio, c’è pur sempre la poesia da cui poter ripartire. Perché la sua parola è originaria, in un duplice senso. Rimanda all’inizio, dunque a tutto ciò che è stato generato in seguito. E assieme a quanto non ha ancora avuto luogo, non è ancora accaduto. È così che il passato e il futuro, il reale e il possibile, si tengono insieme. Come si devono tenere insieme i morti e i vivi. Maria Nadotti, nella sua appassionata introduzione, sottolinea giustamente questo punto, facendo riferimento a un racconto del 2005 che narra l’onirico incontro tra l’autore e la madre, scomparsa una decina di anni prima. La donna è più prudente del figlio e gli rimprovera un eccessivo entusiasmo verso attese palingenetiche e rivoluzionarie. «Accontentiamoci di riparare poche cose», gli dice. «Poche cose, è già molto. Una sola cosa riparata ne cambia altre mille…».
Già: riparare, che meravigliosa parola. Dai mille significati: proteggere, aggiustare, difendere, rimediare, risarcire, correggere, sanare. Se la politica ripartisse da qui:
questa sì che sarebbe una rivoluzione.

Contro i nuovi tiranni di John Berger (Neri Pozza cura e traduzione di Maria Nadotti pagg. 250 euro 14,90)

MicroMega 11.6.13
Caro Eco, grazie a Nietzsche ho scoperto il principio della modernità
di Sossio Giametta

qui