giovedì 13 giugno 2013

La Stampa 13.6.13
Dopo la pubblicazione del dialogo riservato nessuna smentita
Lobby gay in Vaticano Le parole del Pontefice fanno tremare la Curia
I prelati ammettono: è una questione nota E c’è chi rivela: carriere uccise dal gossip
Sul web è nato anche un sito per mettere in contatto sacerdoti «omosensibili»
di Andrea Tornielli


La reazione, dopo la bomba delle parole sulla «lobby gay del Vaticano» attribuite a Papa Francesco, è quella del silenzio. I vertici della Clar, la Confederazione latinoamericana dei religiosi, che hanno trascritto il loro dialogo con Bergoglio finito sul sito «Reflexion y liberación» deplorano la pubblicazione, senza spiegare come il testo sia arrivato sul web. E anche se in Vaticano ripetono che «non è possibile virgolettare quelle affermazioni attribuendole al Papa», nessuno ha smentito la sostanza di quanto pubblicato.
«In Curia c’è sconcerto per il fatto che Francesco non sia più libero di parlare privatamente senza ritrovarsi pubblicate le sue parole», sussurra sconsolato un monsignore. Che però sullo specifico della lobby gay aggiunge: «Se ne parla da tanto tempo, non è un mistero, la novità è che ora ne ha parlato il Papa, anche se forse non proprio in quei termini».
A vedere ieri il Papa, abbracciato da oltre cinquantamila fedeli all’udienza del mercoledì, non sembrava minimamente preoccupato per quello che si sarebbe potuto trasformare nel primo incidente mediatico del suo pontificato. Del resto, come dimenticare le parole sulla «sporcizia nella Chiesa» dette otto anni fa dall’allora cardinale Ratzinger poche settimane prima di essere eletto Papa? E come non ricordare che proprio le cordate, i gruppi di potere interni alla Curia romana e lo scandalo di Vatileaks hanno tenuto banco nelle discussioni tra i cardinali, soprattutto stranieri, prima dell’ultimo conclave? Per non parlare del caso del porporato scozzese Keith O’Brien, costretto a dimettersi e a non partecipare al conclave dopo aver ammesso molestie a seminaristi (maggiorenni) avvenute trent’anni fa.
Insomma, nonostante qualche reazione indignata e qualche difesa d’ufficio, non è un mistero che il problema esiste. Prima di partire dall’Argentina, il cardinale Bergoglio - secondo quanto si legge nella biografia appena pubblicata da Evangelina Himitian («Francesco. Il Papa della gente», Rizzoli) - ha risposto a una domanda sull’identikit del futuro Papa, citando tra i suoi compiti quello di «ripulire la Curia». Non si aspettava di dover essere lui, già settantaseienne, a doversene fare carico.
È complicato districarsi nei veleni delle accuse incrociate che circolano nei sacri palazzi, dove le lettere anonime sono all’ordine del giorno e dove proprio l’accusa di omosessualità è quella più utilizzata per distruggere gli avversari. Non si deve però dimenticare che qualche anno fa, in seguito a un’inchiesta della trasmissione «Exit» su La7, un monsignore della Congregazione del clero venne segretamente filmato con un giovane adescato sul web. Il prelato perse il posto in Curia pur sostenendo di aver chattato e invitato il giovane omosessuale nel suo ufficio perché stava conducendo uno studio, peraltro sconosciuto ai suoi superiori. Altre volte invece anche l’essere scoperti in flagrante non basta per interrompere una carriera, come nel caso del brillante diplomatico vaticano scoperto a letto con un uomo e mandato via dalla nunziatura, ma diventato comunque vescovo diversi anni dopo. Per alcuni, evidentemente «protetti», la carriera non s’interrompe. Un’accusa di omosessualità mossa da un cardinale nei confronti di un importante vescovo curiale ha comportato il congelamento della nomina di quest’ultimo in un posto importante: l’indagine segretissima affidata a uno 007 in tonaca è servita a scagionare l’accusato, poi finalmente promosso. Per non parlare di alcuni giovani e intraprendenti laici, entrati nelle grazie delle più alte sfere vaticane grazie a inconfessabili giri d’affari e di sesso. Uno squarcio su questo squallido sottobosco è stato offerto dalla vicenda del «gentiluomo di Sua Santità» Angelo Balducci, al quale un corista della Cappella Giulia procurava amanti a pagamento.
L’esistenza di una rete monsignori «omosensibili» è attestata infine anche dal sito web «Venerabilis», promosso da membri della «Homosexual Roman Catholic Priests Fraternity», gruppo virtuale che mette in contatto i preti gay, alcuni dei quali lavorano negli uffici della Curia romana.
I messaggi che lancia su questo tema, come quelli ripetuti sul «carrierismo» ecclesiastico e sulla trasparenza delle finanze vaticane, indicano che il Papa è ben consapevole delle situazioni da affrontare e da cambiare.

il Fatto 13.6.13
La Procura. Inchiesta sul sesso in Vaticano
Racconti di orge gay con minori e di un alto prelato
Verifiche sull’attendibilità
di Marco Lillo e Ferruccio Sansa


La Procura di Savona ha aperto un’indagine per accertare se esista davvero la lobby gay in Vaticano. Nel fascicolo sono confluite registrazioni nelle quali si parla di possibili casi di corruzione, ma soprattutto di orge in appartamenti romani e persino all'interno delle mura vaticane che avrebbero coinvolto ragazzi, alcuni forse minori, e un altissimo prelato.
La riservatezza sulle indagini, seguite personal-mente dal procuratore capo, è massima. Il fascicolo è stato aperto due mesi fa e contiene una dozzina di registrazioni di colloqui telefonici. Le conversazioni sono state raccolte da Francesco Zanardi, blogger e attivista della rete L’abuso, un movimento che si batte con toni molto accesi contro le molestie compiute da sacerdoti. A parlare nelle conversazioni registrate è il manager di una multinazionale che sostiene di aver avuto accesso al sistema informatico vaticano, di avere fatto affari con alcuni personaggi vicini alla Segreteria di Stato e di aver frequentato altissimi prelati e, soprattutto, di aver assistito personalmente o di avere visto video di incontri a luci rosse, alcuni dei quali sarebbero avvenuti all'interno della Santa Sede.
LA STORIA COMINCIA oltre un anno fa quando Zanardi viene contattato dal manager. L’uomo ha lavorato per una società basata a Londra che fattura 600 mila sterline nel Regno Unito e ha aperto una branch in Italia. Si dice stufo di questo giro immorale e fornisce elementi che dovrebbero dimostrare le sue frequentazioni Oltretevere: numeri telefonici di personaggi importanti e indirizzi. Sostiene di poter provare il suo ingresso in Vaticano tramite il localizzatore del cellulare nelle ore serali. Mentre il manager racconta, Zanardi registra scrupolosamente. “In questi anni – racconta l'uomo – per ragioni di lavoro ho avuto occasione di avere accesso ad ambienti vaticani e anche ai personal computer riservati di alti prelati”. Un rapporto di fiducia che, sostiene il manager, sarebbe presto sconfinato nella sfera intima di sacerdoti e consulenti importanti della Curia. L'uomo mostra numeri di telefono che, secondo il racconto, sarebbero stati utilizzati per concordare incontri a sfondo sessuale e per scambiare sms con i ragazzi. Oltre alla verifica dell’attendibilità del manager, è questo il punto più delicato: il manager sostiene che alcuni ragazzi contattati per gli incontri non erano maggiorenni e fornisce anche numeri di telefono di uomini di spettacolo che si sarebbero rivolti a lui per incontri, anche con minori.
I racconti ovviamente devono essere verificati con grande cautela. Riguardano avvenimenti che si sarebbero verificati anche all'interno di uno Stato straniero, la Città del Vaticano. Gli investigatori non escludono il rischio di un mitomane o di un complotto. Questo è il racconto, ripetuto più volte al telefono e di persona: “Visto che avevo dimostrato di essere una persona di fiducia e riservata, e che avevo conosciuto molti esponenti della Curia e loro amici manager, mi fu affidato il compito di reclutare uomini e ragazzi da accompagnare in Vaticano per serate a sfondo sessuale cui doveva partecipare un alto prelato che spesso si reca a Roma per la sua missione. La maggior parte aveva intorno ai vent'anni, ma alcuni almeno all'inizio mi risulta che fossero minorenni”. Zanardi chiede prove. Gli viene concessa l'occasione di parlare telefonicamente con un ragazzo che gli fornisce il proprio nome, nonché riferimenti per consultare la sua bacheca facebook: “Disse – racconta Zanardi – di essere un giovane in difficoltà, che per cercare di sopravvivere svolgeva il lavoro di posteggiatore abusivo nelle strade di Roma. Mi confermò di essere stato reclutato per partecipare agli incontri sessuali. Confermò anche che una sera alla settimana il manager lo passava a prendere per andare in Vaticano agli incontri con prelati”. I racconti del manager e del giovane sono dettagliati ma impossibili da verificare e descrivono vere e proprie orge: “All'inizio della serata si mangiava, si scherzava tutti insieme. Poi si passava in un'altra stanza dove l'alto prelato si spogliava e si faceva circondare da sei o sette ragazzi che avevano rapporti sessuali con lui”. Stando al racconto del manager, la situazione sarebbe sfuggita di mano: “Tra i ragazzi c'era qualcuno che portava con sé il telefonino: scattò fotografie e girò filmati in cui l'alto prelato compariva mentre aveva un rapporto sessuale durante un’orgia”. Il profilo della ricattabilità è un altro dei motivi dell’interesse degli investigatori. Il manager non ha mai mostrato il video a Zanardi né ai giornalisti del Fatto con i quali è entrato in contatto. Sostiene di aver depositato due copie del filmato presso notai, uno a Roma, l'altro in Svizzera: “Temo per la mia vita”, racconta e aggiunge: “Voglio denunciare tutto perché sono disgustato e pentito”.
IL MANAGER ha promesso più volte di fornire una copia del materiale ma non lo ha mai fatto. Di qui il dubbio che possa trattarsi di un ricatto. È un momento di grandissima fibrillazione per la Curia Romana. Anche il Papa, secondo le indiscrezioni di un sito cileno, per la prima volta nella storia, ha parlato di lobby gay e corruzione. Stasera va in onda su La7 lo speciale sul Vaticano di Servizio Pubblico nel quale si parla anche di sesso. La Segreteria di Stato è stata già toccata dallo scandalo Vatileaks nel quale fu pubblicata (in esclusiva sul Fatto) una lettera di monsignor Carlo Maria Viganò nella quale l’ex segretario del Governatorato accennava a comportamenti omosessuali con tono di rimprovero che confinava con la minaccia.
Le notizie riferite dal manager, se vere, potrebbero avere effetti dirompenti sugli equilibri vaticani. Addirittura toccando personaggi che qualcuno indica come possibili papabili. Per ora di certo in questa storia ci sono solo le registrazioni depositate alla Procura di Savona che sta valutando la sua competenza. Non ci sono indagati, ma i magistrati sono intenzionati a verificare se le informazioni contenute nei colloqui sono vere. E non è poco.

La Stampa 13.6.13
“Il problema è la doppia vita. I prelati sono a rischio ricatto”
intervista a Vittorio Messori


«Il problema non è tanto o soltanto quello della “lobby”, ma il fatto che un ecclesiastico con la doppia vita è ricattabile... ». Vittorio Messori, giornalista e scrittore, autore di best-seller e intervistatore di due Papi, commenta così le parole attribuite a Francesco sull’esistenza di una «lobby gay» Oltretevere.
Che cosa pensa della denuncia di Papa Bergoglio?
«È un fatto ben noto anche alla Chiesa che conventi, seminari, esercito e navi hanno sempre attratto un numero di omosessuali molto superiore alla media. C’è chi si spinge a dire che addirittura un terzo dei preti avrebbe questa tendenza, anche se bisogna sempre distinguere la tendenza dalla pratica. D’altro canto entrando nella Chiesa e nel suo clero entri in una società monosessuale».
Dunque secondo lei la lobby gay in Vaticano esiste davvero?
«Che ci siano omosessuali è risaputo, che ci sia una cordata che si muove per favorire carriere e proteggere i suoi membri, non sono in grado di dirlo. Anche perché non sempre tra i gay c’è questa volontà di fare gruppo. Parlando della Curia, a mio avviso il problema è un altro, quello della doppia vita».
Si riferisce ai gay?
«Sì, ma non solo a loro. Il funzionario curiale che abbia una relazione, con una donna o con un uomo, è comunque a rischio di ricatto. E se è sacrosanto quanto ha detto Papa Francesco circa la presenza di tante persone sante in Curia, credo che ce ne siano molte altre che purtroppo conducono una doppia vita. Una doppiezza favorita da un certo anonimato che Roma permette ai preti quando questi rischiano di trasformarsi in burocrati da ufficio, con parecchio tempo libero».
Di quali tipi di ricatto parla?
«Mi hanno raccontato, ad esempio, di un prelato tenuto sotto scacco a motivo delle sue relazioni omosessuali da un gruppo interessato a ottenere l’inserzione di qualche frase in alcuni documenti della Santa Sede».
Eppure molti ecclesiastici, in Vaticano come nella Chiesa, si mostrano intransigenti verso l’omosessualità...
«Rispondo a questa considerazione con una battuta intrisa di saggezza popolare: se vuoi sapere qual è il problema di una persona, vedi che cosa gli dà più fastidio negli altri. Ovviamente non è una regola sempre valida e mi guardo bene dal giudicare in questo modo chi interviene su questi temi. Ma credo che certe reazioni particolarmente accese contro i gay possano talvolta essere segno di un’omosessualità nascosta o repressa».

Qui viene giù tutto
il Fatto 13.6.13
Lo storico Vittorio Messori
Il Papa deve temere i ricatti e non fare demagogia
di Carlo Tecce


La denuncia di Francesco non stupisce: “Era una confidenza a un gruppo di amici, non voleva che lo sapesse il pianeta, però, potremmo dire che poteva osare di più”, scherza con un paradosso Vittorio Messori, scrittore e storico, editorialista del Corriere, frequentatore assiduo di Joseph Ratzinger. Un pontefice che si sconcerta per lobby gay e corruzione non s’era mai sentito: “E c'è un pericolo, ancora più grave”.
Quale, Messori?
Il ricatto.
Va oltre al turbamento di Francesco.
No, non mi permetterei, non darei mai consigli al pontefice, sarei ridicolo, questo lo scriva per favore.
E cosa teme per la Chiesa?
Il rischio non viene soltanto da un'organizzazione di gay, non farei una distinzione di gusti sessuali, il problema è il ricatto a cui si sottopongono i funzionari o i prelati che conducono una doppia vita: che vanno con la donna o col camionista.
Chi può maneggiare le minacce?
Il Vaticano non è un paradiso. Ci sono moltitudine di nemici esterni e soprattutto interni, non è una scoperta affermare che continua la battaglia fra i conservatori e i progressisti.
Nemmeno la corruzione la fa tribolare.
Il Vaticano è uno speciale e piccolo Stato, ma è pur sempre una realtà burocratizzata che distribuisce appalti, commesse, denaro e non può farne a meno.
Francesco ha citato la Curia, in tanti la indicano come un malanno diventato incurabile.
Il Vaticano non può rinunciare a una struttura di governo, comunque funzionale per la diffusione evangelica. Un po' di serietà.
Cosa pensa di Tarcisio Bertone, il segretario di Stato, più volte – soprattutto nei retroscena e per le indiscrezioni – sul punto di essere costretto a lasciare o di essere sostituto?
La questione non comincia e non si esaurisce con Bertone.
Il Papa inneggia al cattolico povero, umile e inveisce contro il carrierismo e il malaffare. La cura funziona?
Io non ho mai accettato di vivere a Roma per non cadere in queste interpretazioni. Non è intenzione di Francesco, però i suoi discorsi vengono dipinti con demagogia e lo stesso pontefice può sembrare demagogo. Non è corretto dire che “San Pietro non aveva una banca” come dichiarato un paio di giorni fa: la Chiesa non ha mai disprezzato il denaro. E poi ha letto le leggende sugli scarponi?
Bergoglio non utilizza i mocassini rossi di Ratzinger.
Nessun dubbio, ma è per un motivo fisico: soffre di sciatica, zoppica un pochino e necessita di un sostegno più saldo. E la Chiesa povera è una cavolata: Gesù non era un morto di fame.
Qui viene giù tutto, Messori.
Non raccontiamo bufale. Gesù aveva una disponibilità economica, persino un tesoriere che poi l'ha tradito, Giuda Iscariota. Quando fu crocifisso, le guardie notarono che aveva un abito cucito con un solo pezzo di stoffa, un lusso raro, e se lo giocarono a dadi perché costava. Era di valore. Gesù vestiva Armani.
Sempre in quel colloquio con i latino-americani, Francesco ha ammesso di non poter promettere le riforme che in tanti invocano e in tanti soffrono.
Ovvio, la Curia è il braccio del pontefice e regge equilibri complicati che non possono essere spazzati o modificati in fretta.
Benedetto XVI non riusciva a rassettare la Curia, a convertire i peccatori, si è dimesso anche per un senso di impotenza?
Lo conosco da anni, ricordo la sua timidezza, ma non è un uomo pauroso. Ha dieci anni più di Bergoglio, è fisicamente debilitato, sapeva di non poter più svolgere i compiti a cui era chiamato: la Curia inquieta, certo e molto di più.

La Stampa 13.6.13
Intervista a Gianni Vattimo
“La Chiesa dovrebbe superare le ipocrisie sulla sessualità”
di Marco Neirotti


Eurodeputato Il filosofo Gianni Vattimo è parlamentare dell’Idv a Strasburgo
Il filosofo Gianni Vattimo, parlamentare europeo eletto con l’Italia dei Valori, guarda con attenzione e su diversi piani la frase di Papa Francesco sulla «lobby gay». Sono in realtà poche parole, dette durante un’udienza privata e appaiono più che altro conferma di una voce diffusa e giunta concretamente fino a lui.
Professor Vattimo, riesce a immaginarla questa struttura di potere?
«Non so se esista realmente, ma se c’è è perché raccoglie qualcosa di segreto e ricattabile. Non si parla di lobby degli eterosessuali, ma non mi vengano a dire che non esistono monsignori che si accompagnano con donne».
In altre parole, una sorta di autodifesa contro una repressione?
«Contro un’ipocrisia. È come il formarsi di una delinquenza intorno alle droghe: se fossero libere non nascerebbe nulla. Così qui si vuole negare, soffocare una realtà e se ne ottiene la riunione delle persone».
In poche parole, essendo un’autodifesa è lecita o quasi?
«Assolutamente no. Dico soltanto come può generarsi, i meccanismi di una possibile nascita. Le lobby di per sé sono comunque negative, pericolose, in quanto centri di potere e vanno combattute indipendentemente dal tipo di soggetti che riuniscono, eterosessuali o omosessuali per esempio. In questo senso Papa Francesco, il cui cammino osservo amichevolmente, con simpatia, può avere ragione».
I gay nella Chiesa passerebbero in questo modo da emarginati a potenti...
«Un potere di questo genere si combatte eliminando il pregiudizio e tutta la gran polvere sulla sessualità. È un problema della Chiesa istituzione: Cristo non ha mai detto nulla contro i gay. Il discorso religioso deve riguardare in generale la sessualità del clero. Lo stesso Papa ha parlato dei concetti di peccato (un problema individuale che il credente deve affrontare prima di tutto con se stesso) e di corruzione, cioè un sistema di potere».
Il passo dall’autodifesa all’organizzazione di potere non è molto lungo.
«Per questo dico che le lobby vanno combattute comunque. Ma i problemi profondi non stanno nell’omosessualità rispetto all’eterosessualità, alla demonizzazione. Magari ci si occupasse, all’interno del Vaticano, un po’ di più dello Ior».

Corriere 13.6.13
Tagle: «La corruzione nella Chiesa esiste da sempre e c'è anche oggi»
Il cardinale filippino: durante il Conclave non si è parlato di lobby gay
intervista di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Il 27 febbraio, per coincidenza, i voli sono arrivati assieme e ci siamo ritrovati al ritiro bagagli di Fiumicino. Quando il mio amico cardinale Bergoglio mi ha visto ha sorriso, "toh, ma che ci fa qui questo ragazzo?", e io di rimando: "Oh guarda questo anziano! E lui che ci fa qui?"». Il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle si fa una risata che è davvero da ragazzo e del resto a 56 anni l'arcivescovo di Manila, filippino di madre cinese, è un enfant prodige del collegio cardinalizio e della Chiesa, considerato «papabile» già all'ultimo conclave. Oggi vedrà Papa Francesco, domani terrà il suo primo incontro pubblico per presentare il libro «Gente di Pasqua» (ed. Emi), sabato prenderà possesso della sua parrocchia romana a Centocelle. Camicia e colletto da semplice prete, affabile e carismatico, è appena arrivato al pontificio Collegio filippino di Roma. Accanto a sé, su un divano, la copia del Corriere con le parole attribuite al Papa su «corruzione» e «lobby gay» in Curia.
Scusi, eminenza, ma di questa cosa della «lobby» e della «corruzione» ne avevate parlato tra cardinali?
«Mah, io non l'ho mai sentito. Però, vede, come istituzione che è anche umana la Chiesa ha tante esperienze di tentazioni e anche di peccati. Nella mente di Papa Francesco c'è anche questo, quando parla di "corruzione". E noi dobbiamo ammetterle, queste cose, ammettere che esistono anche nella Chiesa, e non da oggi! Il Concilio ha parlato della Chiesa sempre purificanda. E la Chiesa è purificata dal Vangelo, dal coraggio, dall'apertura, dallo Spirito del Signore...».
Di certo il tema della «corruzione» è centrale, nel Papa...
«Viviamo in un mondo dove la corruzione è presente nella politica come nella società, e anche nella Chiesa è una tentazione. Il peccato e la corruzione sono nella storia della Chiesa, anche i grandi concili ecumenici erano anzitutto momenti di purificazione e conversione. Ecco: la voce del Signore chiama tutti alla conversione. Ma questa conversione è un atto di coraggio: il coraggio di ammettere la malattia che è nel cuore degli uomini, nella società e purtroppo anche nella Chiesa».
Nel suo libro scrive: «Ascoltate la gente dire "Dio"... Imparate dal popolo, dai dimenticati...». Anche Papa Francesco vuole «una Chiesa povera e per i poveri». In che direzione si sta andando?
«Quella indicata fin da Leone XIII con la dottrina sociale. La povertà evangelica è una grazia ma è anche una scelta, la risposta alla chiamata di Dio. E questa scelta significa che la Chiesa ha fiducia nel Signore e non nel potere o nel denaro. La povertà evangelica è anche una testimonianza contro le varie forme di idolatria del mondo di oggi».
Lei parla di «Chiesa primitiva»...
«Non intendo presentarla come se fosse senza macchia e senza problemi, le lettere di San Paolo sono molto realistiche! Però è una Chiesa vicina alla Risurrezione, alla testimonianza apostolica, ha la freschezza di una chiesa che era aperta perché cercava la via per evangelizzare il mondo. Un modello di apertura e di coraggio».
La Chiesa deve avere coraggio?
«Sì, ma coraggio evangelico, come Papa Francesco. Non il coraggio dell'avventuriero che vuole conquistare per ambizione, ma quello di chi ha fiducia nel Signore che ha già trionfato sul male e sul peccato del mondo. La corruzione è la tentazione che continua a negare il trionfo di Dio».
Tra cardinali avete parlato di riforma della Curia. Quale «malattia» la minaccia? Chiusura, carrierismo?
«Sì, tutte tentazioni che ci sono anche nelle curie diocesane e in tante burocrazie. La missione ha bisogno di strutture per non restare solo un'idea. Ma la tentazione è mantenere solo burocrazia e strutture di potere che soffocano la missione».
Si parla di maggiore «collegialità»...
«Dal centro, da Roma, occorre maggiore apertura alla Chiesa delle periferie, il "piccolo gregge" evangelico. Tanti cardinali hanno anche parlato di "internazionalizzazione" della Curia, ma per me non è importante solo avere gente di tanti Paesi: conta l'apertura mentale. Dall'altra parte noi, ad esempio noi asiatici, non dobbiamo avere paura di esprimerci o avere complessi di inferiorità, perché la Chiesa cattolica non è completa senza la voce dell'Asia, o dell'Africa...».
Francesco avrà resistenze?
«Chi si trova tra potere e benefici, rifiuta il cambiamento. Ma Francesco ha grande coraggio. Quel coraggio che nel Vangelo è dei più umili e più poveri: una visione di speranza non per se stessi, ma per gli altri».

Repubblica 13.6.13
Lobby gay, shock in Curia “I ricatti sono una piaga il Papa se ne è reso conto”
L’accusa di Mogavero. Il cardinale Cottier: “Francesco ora reagirà”
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO — «Ho fiducia nel Papa che senz’altro saprà come agire. Il suo pontificato è tutto incentrato sulla misericordia. A tempo debito prenderà le giuste decisioni, ben sapendo che la Chiesa condanna, anzi direi odia, il peccato, ma non i peccatori. Non so dire però se esiste davvero una lobby gay dentro il Vaticano. Mi fermo anch’io a quanto hanno riferito i religiosi sudamericani in merito». Domenicano, cardinale svizzero e teologo emerito della Casa Pontificia, Georges Cottier ha trascorso una vita oltre il Tevere. Tutt’ora residente entro le mura leonine, fatica a trovare le giuste parole per commentare l’accusa che il Papa ha fatto ricevendo il 6 giugno scorso i vertici della Clar, la Confederazione latinoamericana dei religiosi sudamericani, circa l’esistenza di una lobby gay in Vaticano. Una difficoltà che non è soltanto sua, ma di tutta la curia romana che ieri ha ascoltato senza commentare Francesco che ancora una volta, davanti a 70mila fedeli stipati in piazza San Pietro per l’udienza generale, ha parlato dei «mali interni» della Chiesa, delle «guerre che anche i cristiani fra di loro spesso si fanno ». Perché questo sembrano mostrare le parole del Papa: l’esistenza di una gruppo interno che, con ricatti a sfondo sessuale, tiene in qualche modo in scacco l’intera curia. Un’accusa che resta, anche se i religiosi sudamericani ieri hanno voluto precisare di aver riferito il senso generale del discorso del Papa e non le sue parole testuali.
L’imbarazzo della curia romana esiste per motivi diversi. Da una parte per la distanza che sembra essere sempre più siderale fra un Papa che decide di abitare a Santa Marta e non nel palazzo pontificio per essere più libero di lavorare alla pulizia della stessa curia da coloro che remano contro, e che contro hanno remato durante il pontificato di Benedetto XVI. Dall’altra per lo stupore per la modalità insolita, che sembra quasi essere stata scelta volutamente dal Papa, per far emergere una sua reale preoccupazione. Infatti, il gruppo dei religiosi sudamericani che pure in
passato aveva avuto dissapori con Bergoglio e che non è mai riuscito a farsi ricevere dai suoi predecessori per eccesso di progressismo, sembra aver svolto in questa circostanza una funzione ufficiosa in una partita effettivamente giocata da Francesco.
Fuori le mira leonine, è Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, a parlare: «Le parole del Papa non mi stupiscono» dice. «Purtroppo in diversi settori della Chiesa si annidano gruppi capaci di ricattare e di tenere in pugno chi vuole lavorare per il bene. È una piaga reale, non so in quale altro modo chiamarla». Dice, invece, Michele Pennisi, vescovo di Monreale: «Le parole del Papa dicono che si sta rendendo conto di ciò che gli sta attorno. Sta ascoltando diverse persone. La sua è ancora una fase di discernimento. Poi arriverà l’azione».
Gian Franco Svidercoschi, ex vice direttore dell’Osservatore Romano, sa leggere dietro al non detto del Vaticano. Spiega: «Il silenzio imbarazzato della curia mostra che le parole del Papa sono vere. Questa lobby di cui si parla evidentemente esiste da tempo, seppure credo sia composta da personaggi di livello medio della stessa curia romana. Sappiamo per certo che durante le congregazioni generali che hanno preceduto il Conclave i tre cardinali incaricati di lavorare su Vatileaks hanno relazionato in merito. Se fra le persone coinvolte vi era qualche cardinale, a questi non sarebbe stato permesso di partecipare al Concave come è avvenuto per il cardinale scozzese Keith O’Brien».
In pochi conoscono i peccati e i mali della Chiesa come Gianfranco Girotti, reggente emerito della Penitenzieria apostolica, l’organo vaticano che da secoli assegna grazie, attribuisce dispense, sanzioni e condoni. Dice: «Non so se esiste una vera e propria lobby. Di certo esistono gli omosessuali in Vaticano. Seguo alcuni di questi sacerdoti come padre spirituale. Spesso sono io che sono edificato dalla loro fede,
non il contrario. Per il resto le correnti, le ripicche e in generale quella che anche il Papa chiama la “corruzione” interna esistono da tempo ed estirparle non è facile. Già Ratzinger durante la Via Crucis del 2005 che gli aprì le porte del pontificato parlò della “sporcizia” interna. Il peccato è una realtà che colpisce la Chiesa e che uccide all’origine ogni sua iniziativa. Credo che qui il peccato siano principalmente la corruzione e il carrierismo, non altro».

il Fatto 13.6.13
Non voto
Saramago ci aveva già raccontato tutto
di Sergio Lanzillotta


Cosa succederebbe se un’intera città alle elezioni votasse scheda bianca? Lo spunto provocatorio è di Saramago (“Saggio sulla lucidità”), la situazione, però, ricorda quella delle elezioni amministrative. Più che attuale, premonitore. Nel romanzo, dopo il “non voto” ai partiti, le istituzioni rimangono sgomente. Reagiscono come meglio sanno fare: restando immobili, ferme e disorientate: colpevolizzando i cittadini irresponsabili. Il governo decide allora di abbandonare a se stessi i cittadini (nel romanzo) cercando di mantenere solamente la propria egemonia con tutti i mezzi. Nel far ciò, però, le cose vanno meglio: ci si autogoverna. Governo inutile? Partiti non presentabili? Mistero. A dar man forte al governo, però, ci pensa la stampa. Compiacente. Che subito, schierandosi contro chi ha fatto quella scelta (comunque legittima) parla di un “uso dissoluto del voto” e di una “congiura delle schede bianche”. Niente paura: “Saggio sulla lucidità” è solo un romanzo. La scarsa affluenza alle urne degli elettori alle amministrative, invece, è stato solo un caso. O no?

il Fatto 13.6.13
Scudi umani
E dài, su, Macaluso, non fare così...


Nonostante gli sforzi, noi del Fatto non riusciamo proprio a piacere a Macaluso, aiutante di campo e scudo umano di Re Giorgio. Molti dolori gli abbiamo causato raccontando le piroette del Presidente sul governo a termine ma anche no. Macaluso sostiene che è stato tutto “un errore dell’Ansa poi corretto”, ma non spiega perché l’han riportato tutti i giornali; e soprattutto perché Napolitano, due giorni dopo, ha smentito il Fatto anziché l’Ansa e gli altri giornali. Poi, certo, c’è “l’abissale ignoranza politica di Travaglio, che confonde la durata del governo (che non ha limiti) con quella delle convergenze Pd-Pdl che invece ha un limite: le prossime elezioni”. Ora, a parte il fatto che il governo non può durare più di 5 anni, non si vede a che titolo il capo dello Stato si occupi della durata delle convergenze Pd-Pdl. Macaluso poi è molto arrabbiato perché Padellaro e Norma Rangeri sul manifesto hanno scritto che le larghe intese non c’entrano nulla col successo dei sindaci di centrosinistra. Non s’è nemmeno accorto che Marino è stato l’unico senatore Pd a votare contro il governo Letta e che i candidati vincenti del Pd si presentavano contro quelli del Pdl: lo schema opposto alle larghe intese. Ma diamogli tempo: con la dovuta calma, capirà anche lui. O magari qualcuno più in alto di lui glielo spiegherà.

il Fatto 13.6.13
Qualcuno fermi il soldato Floris
di Andrea Scanzi


Qualcuno lo fermi. Non può continuare a scudisciare i potenti così. C’è un limite anche al giornalismo d’inchiesta. Come lui solo sa, Giovanni Floris ha costantemente incalzato Guglielmo Epifani. È accaduto martedì, a “Ballarò”, con una ferocia persino superiore a quella esibita durante il veementissimo confronto con Pier Luigi Bersani. Più che domande, napalm: “Se l’aspettava una vittoria simile?”, “Qual è il compito di un segretario del Pd in questo momento?”, “Quale crede che sia il contributo che Renzi possa dare?”. E ancora: “Qual è stato l’errore di Berlusconi e quale quello di Grillo?”; “Lei si candiderà a segretario al congresso?”. Peccato solo che siano mancati degli approfondimenti coraggiosi sui facoceri del Corno d’Africa e sulle mezze stagioni che non esistono più (quasi come la sinistra). Di fronte a tale mitraglia, Epifani si agitava sulla sedia come neanche Nixon con Frost. C’è da capirlo: più passa il tempo, più Floris suole crogiolarsi nell’urticanza. Il conduttore di “Ballarò” è però stato sfortunato. Nonostante le nobili intenzioni, la domanda più puntuta non è stata sua ma di Maurizio Crozza. Che, dopo avere esortato Epifani a sfruttare la disaffezione degli elettori - “Da Nord a Sud meno votano gli italiani e più prende voti il Pd. Dovreste lavorare molto sull’astensione: perchè non pensate di far votare di notte?” – ha poi chiesto: “Vi siete ripresi dalla botta di culo, Epifani?”. A quel punto la puntata poteva già finire. Ma non è finita.

La Stampa 13.6.13
Caso Gambaro Grillo all’attacco M5S nel caos
Lui insiste: “Esca”. Ma avanza lo spettro scissione
di A. Mal.


«Questi erano niente senza di me, mi viene voglia di mollare tutto». A Palazzo Madama i senatori più vicini a Beppe Grillo raccontano di non avere mai visto il Capo così di malumore. Dicono che questa storia di Adele Gambaro - la sua ribellione, «la debacle elettorale è tutta colpa di Grillo, dei suoi post violenti» - lo ha spinto a considerare l’idea di prendere le distanze dal Palazzo. Di ritirare persino lo Statuto, il Simbolo, l’Alto Patronato, e di rimettersi a combattere soltanto dalle piazze. «Vediamo dove vanno senza di me». Una specie di «o io o lei», o piuttosto di «o io o loro», anticipato dal minireferendum sul blog. Idee passeggere, momentaneamente archiviate, che però un risultato l’hanno prodotto. Inutile pretendere di evitare lo scontro. Se resa dei conti deve essere, che resa dei conti sia.
I suoi fedelissimi, d’accordo con lui, hanno deciso di accelerare il processo «pulizia interna». Di dividere i buoni dai cattivi. Gli illuminati dalle mele marce. Adesso che il dissenso è esploso in maniera netta, adesso che è diventato inutile nasconderlo dietro questa ingenuità infantile a occhi sgranati «le divisioni? balle dei media» è meglio utilizzare le prossime settimane per mettere i dissidenti con le spalle al muro. Per costringerli a uscire allo scoperto. Subito. Alla Camera e al Senato. A costo di perdere venti parlamentari in un colpo solo. «Meglio un gruppo più magro ma più compatto». Chi sono i reprobi? Deputati e senatori - i fedelissimi hanno individuato una trentina di colleghi sospetti - che stanno provando a ribaltare i rapporti di forza nel gruppo. Di guadagnare tempo in attesa di capire che fine farà il governo. E quale tipo di rapporto reale si possa instaurare con il Pd. Per questo Grillo ha deciso di giocare d’anticipo. «Ci avevano accusato di volere fare campagna acquisti. Qui mi pare che siamo di fronte a una campagna cessioni», ironizza ma non tanto il piddino Pippo Civati nel cortile di Montecitorio. «Se Grillo pensa di restringere in maniera drastica il proprio gruppo ci fa un grosso regalo. Io non sono abituato a lucrare sui problemi altrui. Mi auguro solo che questa situazione non faccia venire l’acquolina in bocca a Berlusconi». Scenari imprevedibili.
La strategia per espellere gli infedeli è chiara. L’idea è quella di partire dal caso Gambaro, per poi allargare il ventaglio. Il processo alla senatrice si trasformerebbe in un test di appartenenza. Gli ultraortodossi si limiteranno a fare domande la cui risposta è implicita, come quelle di un avvocato. O di un pubblico ministero. Volete Gesù-Grillo o Adele-Barabba? Restate o andate? Credete nel Verbo o non ci credete più?
Un gioco di specchi complicato anche dalla necessità di trovare un appiglio formale che consenta di richiedere ufficialmente la votazione per espellere la senatrice emiliana. Quale norma dello statuto ha violato? «Tecnicamente è difficile dirlo, ma è vero che Adele con le sue dichiarazioni in tv ha gettato fango sul Movimento. E questo è distruttivo», chiarisce il deputato siciliano Alessio Villarosa. Da Bologna Giovanni Favia, storico reprobo espulso, gli offre un velenoso involontario suggerimento. «Adele Gambaro ha violato come altri in passato l’articolo zero del “non statuto”: vietato criticare Beppe Grillo o Gianroberto Casaleggio. Il famoso reato di lesa maestà». Schermaglie.
Al Senato Francesco Campanella, equilibrato dialogante, rilancia una tesi opposta. «Con buona pace di coloro che guardano il M5S con timore e antipatia, vorrei segnalare che non sono previsti dimagrimenti nel gruppo parlamentare al Senato», scrive su Facebook. Eppure la tormenta è lì. Grillo è stanco. Innervosito da questa supposta ingratitudine, certo di meritare attenzioni devote e complete da deputati disponibili a stendersi come i tappeti che, con la loro riservata eleganza, reclamano ansiosi i suoi passi.

il Fatto 13.6.13
Ipotesi espulsione
La Gambaro insiste: “Grillo mi chieda scusa”
di Paola Zanca


Il primo segno del divorzio si consumerà proprio lì, dove tutto è cominciato. Sul blog. Presto, una sezione del sito www.beppegrillo.it , finirà in appalto a deputati e senatori. Una vetrina per l'attività parlamentare, un contenitore per proposte di legge, mozioni e resoconti. Un angolo di informazione mentre Beppe a fianco sbraita. L’idea sarebbe venuta a Gianroberto Casaleggio in persona. il guru della comunicazione a Cinque Stelle si sarebbe deciso a cedere agli eletti, che lo chiedono da tempo, un pezzo di sovranità su quella pagina web che ogni giorno conta centinaia di migliaia di visite. Da una parte l’invettiva contro la “tomba maleodorante”, dall’altra l’elenco di interpellanze ed emendamenti. Perché solo così, si possono conciliare le due facce del Movimento: il furore di Grillo incarnato dalle facce rassicuranti degli eletti M5S che gli hanno espressamente chiesto di “modulare” i toni dei suoi interventi.
Pensare che avevano buttato l’occhio anche su di lei, Adele Gambaro. Quella “signora elegante”, riflettevano nei giorni scorsi, potrebbe funzionare in tv. Stavano pensando di introdurla ai corsi di comunicazione televisiva quando lei, autodidatta, si è piazzata davanti alla telecamera di SkyTg24: se il Movimento è in crisi, la colpa è di Grillo e dei suoi post troppo violenti. Grillo le ha detto che “non vale niente”. Lei ieri ha risposto: “Deve stare attento, non può fare così. Non è più un uomo qualunque, rappresenta milioni di italiani. Io non ho offeso nessuno e sono stata offesa, pretenderò da lui pubbliche scuse”. Al posto di quelle arriverà una domanda, di nuovo dal blog: “Perchè la senatrice non rispetta quanto promesso ‘nero su bianco’ agli attivisti che le hanno dato fiducia con il voto delle parlamentarie? ”. Un invito ad andarsene. Lei prima dice che sta pensando di passare al Misto, poi ritratta: se non mi cacciano, resto qui; ma “se Grillo mi minaccia, lo denuncio”.
PER CAPIRE come finirà bisognerà aspettare oggi. Alla Camera c’è una riunione che potrebbe segnare la svolta. La metà dei senatori sembra orientata a lasciar cadere la cosa: non hanno partecipato alle riunione di due sere fa, dicono che Adele ha sbagliato i modi ma sostanzialmente ha ragione, cacciarla non si può: “Qual è il senso politico di questa operazione? - si domandano - Che senso ha chiedere l’espulsione se il gruppo che la conosce e ha lavorato con lei la difende? ”. Sono in tanti, quelli convinti della sua buonafede. Quelli che parlano di “ricatto”: parlare in tv del proprio malessere per costringere l’assemblea ad ascoltare le proprie critiche. Quelli che dicono: non ha violato nessun principio del regolamento. Nessuno, escluso quello – non scritto – che un fedelissimo sintetizza così: “Non nominare il nome di Grillo invano”. Per questo, c’è un’altra metà di senatori che non ha intenzione di lasciar correre. Hanno mandato Vito Crimi e Nicola Morra come ambasciatori, ma pare non abbiano cavato nulla. Anzi, la Gambaro insiste: “Noi siamo sotto assedio - spiegano i senatori favorevoli alla cacciata - e lei continua a dire cose che ci danneggiano”. Per questo è la riunione alla Camera quella che può segnare la svolta. Perché saranno i deputati - ne basta uno - a chiedere ufficialmente di mettere ai voti il giudizio su Adele Gambaro.
Se la maggioranza degli eletti sceglierà di farlo, è ancora da vedere. C’è un precedente - il voto sui senatori che votarono Piero Grasso alla presidenza di palazzo Madama - che finì nel nulla. Di certo c’è che un voto sulle parole della senatrice emiliana rischia di trasformarsi in un referendum pro o contro Grillo. Il leader è atteso a Roma per la sua visita mensile. Qualcuno dice che potrebbe arrivare già oggi. O forse si rimanda tutto al ritorno dall’Australia. Beppe è in partenza, questioni familiari. E poi sta ragionando sul prossimo tour: c’è bisogno di una pausa dalla politica, forse torna a fare spettacoli.

il Fatto 13.6.13
“Operazione piranha” Pd e Pdl a caccia di 5 Stelle
Berlusconi avrebbe pronta una lista di dodici deputati grillini
Il centrosinistra tenta l’approccio: da sel ai moderati di Portas
di Fabrizio d’Esposito


Operazione piranha. Per spolpare il Movimento 5 Stelle. Le profezie di autodistruzione dei grillini nell’arco di una sola legislatura (il senatore Bartolomeo Pepe dixit) hanno di nuovo trasformato in un suk il cortile di Montecitorio e i tristi e sabaudi anfratti di Palazzo Madama. Come ai tempi di Scilipoti e Razzi, i due dipietristi passati armi, bagagli e debiti con Berlusconi. Un esempio, non a caso. Perché, incredibile a dirsi, anche il Cavaliere avrebbe attivato un canale per attirare nella nuova ma ancora presunta Forza Italia 2.0 una dozzina di grillini. La rivelazione arriva da un pidiellino che ha parlato con B. appena lunedì scorso, ad Arcore: “Al presidente è stato riferito che ci sono almeno una ventina di grillini con simpatie per la destra e la sua lista ha già dodici nomi”. La fonte sorride e si concede una battuta: “Quella sporca dozzina”. IL PREZZO da pagare, ovviamente, stando alle indiscrezioni, è sempre lo stesso: la garanzia del seggio alle prossime politiche, anticipate o no. Così di capannello in capannello, alla Camera, circola un nome certo di destra tra i 107 parlamentari pentastellati. Quello di Walter Rizzetto, manager di 37 anni della provincia di Udine. Il suo peccato originale è la provenienza dal Fuan, il movimento universitario dei postmissini. Probabilmente lui nemmeno sa di questo pseudo-corteggiamento. O forse sì, dal momento che spiegano: “Rizzetto è quello che parla sempre con Crosetto”. Ossia il gigante Guido Crosetto, ex deputato berlusconiano oggi leader in condominio con Giorgia Meloni dei Fratelli d’Italia, formazione di destra tirata in ballo per una Cosa nera che dovrebbe fare da pendant alla rinata Forza Italia. Solo veleni? Fatto sta che la strategia dei piranha del Pdl è partita da qualche giorno. Come conferma un frammento di Omnibus notte di martedì scorso, su La7, quando a sorpresa il berlusconiano Antonio Leone, già vicepresidente della Camera, ha difeso il lavoro dei grillini in aula: “Non è vero che non fanno nulla, oggi (martedì, ndr) per esempio hanno votato con la maggioranza tutti i provvedimenti discussi. Non avevo mai vissuto una giornata così unanime nella mia carriera da parlamentare”. Il piranha prima si avvicina, poi ti accarezza, infine ti spolpa. Del resto è il nuovo clima di apertura dei grillini a favorire i contatti, non solo con i giornalisti.
Il grosso delle “bancarelle” del nuovo suk sta soprattutto nel recinto del centrosinistra. Il sogno di un governo diverso non è mai tramontato. Anzi. E a coltivarlo non sono i soliti Ci-vati o Puppato, ambasciatori filogrillini del Pd. Un fronte permanente di attenzione ha le insegne di Sel. Obiettivo: un ribaltone nel nome delle maggioranze variabili (a proposito, la prossima settimana ci sarà la mozione sugli F-35). Dice un vendoliano a microfoni chiusissimi: “Letta potrebbe guidare un governo anche con noi e venti grillini al posto del Pdl al Senato. Se Berlusconi fa il matto, non andiamo a casa”. Le obiezioni del cronista incredulo non fermano il ragionamento. E Napolitano che minaccia le dimissioni qualora dovessero saltare le larghe intese? Risposta: “Si dimettesse pure, faremo un nuovo capo dello Stato e stavolta non commetteremo gli stessi errori dell’altra volta con Prodi”. Non solo. Un governo coi grillini a guida Letta? Seconda e ultima risposta: “I lettiani si stanno già muovendo per mettere in sicurezza il premier. Non è fantapolitica. E per noi di Sel, in questa fase, è più facile dialogare con Letta che con Renzi”. Ecco cosa è Montecitorio. Il regno dell’impossibile. A parole.
DA SEL AL PD, la scena non cambia. Se prima l’obiettivo era di racimolare almeno dieci grillini al Senato, adesso si ragiona già su un nuovo partito a Palazzo Madama. Sulla stessa Gambaro, la senatrice dello “scandalo” di queste ore, girano voci di una presunta e vecchia militanza tra i democratici. Nel partito del fu Bersani si nutrono speranze su una spaccatura a metà del gruppo grillino dei senatori. “I ventidue che hanno votato contro il nuovo capogruppo sono di fatto un altro partito. A questo punto bisogna capire quale può essere il punto di approdo”. La sensazione è che la politica degli incontri segreti, avviata durante il preincarico a Bersani, sia ricominciata. In ogni caso, da destra a sinistra ognuno vuole avere i suoi grillini. Persino Giacomo Portas, eletto nel Pd ma leader dei Moderati di centrosinistra. Portas è un tipo molto sveglio. I suoi estimatori dicono che abbia un naso infallibile. Dice: “Anche io ho i miei contatti con il Movimento 5 Stelle. La mia forza prende il dieci in Piemonte e il cinque in Campania. Leggi qua”. Segue lettura di un foglietto su cui sono appuntati i nomi di alcuni comuni campani, con la percentuale raggiunta dai Moderati”. Continua Portas: “Questo è il momento dei contenitori dove raccogliere i grillini in libera uscita. Io sto qua, sono la sinistra civica del Pd, e qualcuno di loro verrà con me. No, non ho problemi, scrivi pure il mio nome”.

Repubblica 13.6.13
E Grillo disse: mi avete stufato posso anche lasciare tutto
L’ultimatum del leader ai ribelli “Mi sono stufato, posso anche mollare”
Lo sfogo dell’ex comico. Scontro falchi-colombe sulle espulsioni
di Tommaso Ciriaco


SQUILLA il telefono. È la viva voce di Beppe Grillo, il quartier generale dei grillini a Roma ascolta. «Ragazzi, mi sono rotto. Mi viene voglia di mollare. Alcuni erano niente: sono entrati in Parlamento, ora mi attaccano».
È UNO sfogo amaro. Non si aspettava la rivolta interna: «È una cosa incredibile». Vorrebbe un po’ di riconoscenza. Invece il Movimento è diventato una polveriera. È un fiume in piena, ricorda spesso di aver rinunciato a spettacoli e guadagni per gettarsi anima e corpo nell’arena. E di aver ricevuto in cambio solo accuse. Come quelle di Adele Gambaro. «Ha detto che devo chiederle scusa? Ah, vabbè, lasciamo perdere...», ride. Ma è una risata nervosa, perché la battaglia nel movimento rischia di travolgere tutto. Falchi contro colombe. Nell’aria c’è l’odore acre delle espulsioni. Ma la novità è che ormai l’ala dura non è più sicura di essere maggioranza.
Dopo lo sfogo, però, il Fondatore tira un sospiro e inizia a parlare più lentamente. È una questione di coerenza: «Il movimento può anche perdere venti parlamentari, ma io voglio fare chiarezza. Perché non si può stare così, nel M5S». La pattuglia degli ortodossi lo seguirebbe ovunque, figurarsi se non è pronta a buttare fuori la senatrice Gambaro. «Beppe ce l’ha detto, si è scocciato - spiega uno dei big - Il rischio è che lui faccia un passo indietro. Che molli tutto. Che chiuda bottega. Che stracci lo Statuto. A quel punto i gruppi non potrebbero più chiamarsi “cinque stelle”...». Il che equivarrebbe a prendersi il simbolo e il nome del Movimento, non farlo utilizzare a nessuno e salutare tutti. Scenari da incubo misti a propaganda. La strategia è chiara, mettere con le spalle al muro i dissidenti. Prima possibile, perché i falchi temono che i ribelli siano solo in stand by. «E se cade il governo usciranno allo scoperto - quasi urla un “duro” della Camera - faranno l’inciucio con il Pd». La contromossa è una e una soltanto: stanarli.
Fra il dire e il fare, però, c’è in mezzo lo Statuto. Che per i grillini è verbo. Lo ammette anche Alessio Villarosa, un “ortodosso” che da settembre guiderà il gruppo di Montecitorio. Da regolamento Gambaro non sembra a rischio: «E infatti tecnicamente lei non ha fatto una cosa che non è consentita. Nello Statuto non c’è scritto che se parli in televisione prima di parlare in assemblea - come ha fatto lei - puoi essere espulso. Però parlando con i giornalisti prima di farlo con noi ha gettato fango sul movimento. E questo è distruttivo».
Manca la convocazione ufficiale, ma non è escluso che si riuniscano già oggi. Deputati e senatori. Probabilmente senza Grillo, che aveva pianificato la discesa nella Capitale ma poi ha mostrato dubbi: «Se vengo mi accusano di condizionarli, se non vengo mi attaccano uguale...». Per “convocare” la senatrice, comunque, basta la richiesta di un solo parlamentare. E i volontari non mancano. «Di certo ne discuteremo in assemblea - conferma Villarosa - vogliamo sapere cosa ha da dirci».
Il problema è che a Palazzo Madama la spaccatura è evidente, come emerso anche ieri sera nel corso di una nuova riunione a Palazzo Madama. Tanti, la maggioranza, non sono intenzionati a voltare le spalle alla compagna di scranno. Una è Serenella Fucsia: «Espulsioni? Qui da noi mai, anche se non avrei usato i toni di Adele. Non so se alla Camera a volte qualcuno ha queste tentazioni...». Un’altra senatrice si è alzata è ha mostrato le pressioni telematiche degli attivisti: «Noi dobbiamo ascoltare i cittadini, ma io dovrei ascoltare anche chi si comporta così?». Sfogo sentito, condiviso. Accompagnato da altre riflessioni - che preoccupano i falchi - sulla necessità di «dialogare con le persone valide degli altri partiti». Eresia, fino a pochi mesi fa.
Le due anime ormai faticano a confrontarsi. Al Senato l’ala critica è marcata a vista, si parla fra gli altri di Cotti, Bocchino, Pepe, Campanella, Molinari, Bencini, Fucsia, Battista. Alla Camera i nomi sono quelli di sempre. I deputati provano a distrarsi, gettandosi a capo fitto sul lavoro. Come Massimo Artini: «Chiederò una bicamerale sull’uranio impoverito». Ma il “caso Gambaro” assorbe energie e strapazza il movimento. Il “pontiere” democratico Pippo Civati osserva incredulo l’accelerazione in atto: «Continuiamo a parlarci, ma stanno facendo tutto loro. Se Grillo butta fuori la senatrice, se ne vanno in venti...».

Repubblica 13.6.13
La carta di riserva del centrosinistra un ribaltone con i dissidenti M5S
Ma Berlusconi: non farò cadere Letta dopo la Consulta
di Francesco Bei


ROMA — «Se anche la Consulta mi desse torto, se anche dovessi essere condannato per Ruby, non farò cadere il governo. Lo so che non aspettano altro». È da qualche giorno che Berlusconi ripete questo dogma. Lo ha detto anche ieri sera alla cena di palazzo Grazioli: mai e poi mai farà cadere il governo Letta. Almeno non in questa fase. Ma c’è un motivo se il Cavaliere è tanto preoccupato. Ed è lo stesso motivo che spinge Renzi da qualche giorno ad essere più sospettoso e guardingo del solito. Perché il tam-tam che corre nel Pdl e rimbalza fino al Pd è quello di un ribaltone in preparazione, un cambio di maggioranza propiziato dallo sfarinamento in corso dei gruppi parlamentari a 5stelle. Un rimescolamento per sostituire il Pdl con quelli che nel Pd vengono già definiti «i grillini riformisti» e decretare così la fine delle larghe intese.
Il presupposto sarebbe ovviamente una crisi di governo con la prospettiva di una Letta-bis. Perché se c’è un punto fermo in questa legislatura, che tutti danno per scontato, è l’assoluta ostilità di Giorgio Napolitano a sciogliere le Camere senza che sia stata (almeno) riformata la legge elettorale. Per questo si dovrebbe varare un nuovo esecutivo e una nuova maggioranza: un «governo del Mattarellum», visto che al primo punto dell’agenda ci sarebbe l’archiviazione del Porcellum e il ritorno al vecchio sistema uninominale maggioritario. Certo, al momento sono solo suggestioni. Ma a palazzo Madama, vero fronte delle operazioni, si fanno e si rifanno i conti di quanti potrebbero lasciare Grillo per sostenere un altro governo e mettersi al petto la medaglia di aver archiviato l’era Berlusconi. Si parla al momento di 12-15 pentastellati, su un gruppo che ne conta 53, pronti a mollare al momento opportuno.
Troppo pochi, ancora, anche se nel Pd si sta lavorando ai fianchi il MoVimento con l’obiettivo di allargare la faglia. Per arrivare alla maggioranza di 156 senatori servirebbero almeno 20 transfughi, dando per scontato il sostegno dei 21 di Scelta Civica e dei 7 di Sel. Ma negli ultimi giorni, dopo la batosta delle amministrative e i progetti di spacchettamento del Pdl e ritorno a Forza Italia, nel centrosinistra si guarda anche da quella parte. Un numero consistente di senatori governativi del Pdl potrebbe infatti staccarsi dal Cavaliere e lavorare a un centro moderato di ispirazione Ppe insieme a Scelta Civica. In questo modo i numeri ci sarebbero per arrivare a fine legislatura. «Berlusconi ha perso il suo tocco magico — ragiona un senatore del Pdl che non vede l’ora di disfarsi del vecchio leader — e lo dimostrano proprio le ultime elezioni. Non è vero che se non c’è lui perdiamo, basta guardare a Roma: Berlusconi è andato 2 punti sotto Storace e ben 7 punti sotto Alemanno». Ed è proprio questo il timore di Renzi, che il governo Letta-bis vada avanti, anche se con una maggioranza diversa, e lo confini a palazzo Vecchio per anni.
Benché il Cavaliere abbia tutto l’interesse, tanto più con le sentenze in arrivo, a restare aggrappato al governo, ci sono due strettoie che potrebbero facilitare l’operazione e portare a un incidente parlamentare. Il primo collo di bottiglia sono proprio le riforme. C’è un diffuso scetticismo sul lavoro del comitato dei saggi governativi e sulla capacità della bicamerale di trasformarlo in un disegno di legge costituzionale. Lo stesso ministro delle riforme, Gaetano Quagliariello ha posto una timeline invalicabile: «I lavori dovranno essere completati al massimo entro il 15 ottobre». Altrimenti, ha detto al
Foglio, «ne trarrò le conseguenze». Quattro mesi e si arriva a ottobre. Dove un altro collo di bottiglia, ancora più insidioso, minaccia la coesione della maggioranza di grande coalizione: la legge di stabilità. Sarà quello l’ultimo treno per approvare le riforme — dall’Imu a Equitalia, dal lavoro alla restituzione dei 90 miliardi di debiti alle imprese — che giustificano l’esistenza del governo di larghe intese. «Questo governo — osserva Daniele Capezzone — funziona solo se c’è una situazione “win-win” in cui il Pdl e il Pd ottengono cose concrete, soprattutto sul rilancio dell’economia e sull’occupazione. Altrimenti se il governo galleggia...». I puntini di sospensione li ha colmati ieri il
Financial Times, accusando il governo di «letargia». Linda Lanzillotta, vicepresidente montiana del Senato, prevede che una svolta potrebbe arrivare a settembre: «Lo spartiacque vero saranno le elezioni tedesche. Fino ad allora ci sarà da soffrire, poi ci potrebbero essere dei margini per la crescita». Sempre che nel frattempo ci sia ancora il governo.

l’Unità 13.6.13
Pd, Bersani rilancia E i renziani attaccano
La presentazione del documento di alcuni esponenti «bersaniani» apre il confronto congressuale
Un testo presentato anche dai «non allineati»
Zingaretti:«Non sono candidato»
di Simone Collini


ROMA La prima mossa in vista del congresso la fa Pier Luigi Bersani, con un duplice affondo contro il rischio che il Pd viva uno scivolamento verso il modello di partito «personale e padronale». Una serie di dichiarazioni contro il «leaderismo spinto», un documento firmato da persone vicine all’ex segretario in cui si sottolinea la necessità di fare del Pd un partito «alternativo» a quelli strutturati attorno all’«uomo solo al comando», e la discussione si infiamma. Se Matteo Renzi si tiene alla larga dalla questione, rimanendo chiuso con la giunta fino a tarda sera e poi uscendo per fare un sopralluogo in diversi cantieri notturni della città, i suoi sostenitori criticano l’operazione bersaniana, giudicandola una mossa per stoppare la candidatura del sindaco di Firenze.
«Renzi è sicuramente una risorsa importante per il futuro del centrosinistra e per il Paese», dice Alfredo D’Attorre, uno dei firmatari del documento «Fare il Pd». Non vuol dire essere contro Renzi, spiega il responsabile del partito per le Riforme istituzionali, mettere in guardia rispetto al rischio di un «possibile snaturamento» del Pd, «unico partito non personale» e anche per questo uscito rafforzato dalle elezioni amministrative: «Problemi ne abbiamo, ma non si superano omologando il Pd alle altre forze con una torsione personalistica e plebiscitaria».
Un discorso che vale per il generale, ma che per i renziani ha un obiettivo ben preciso. Non a caso Paolo Gentiloni, ironizzando sui passaggi del documento in cui si sottolinea la necessità di «contrastare la china evolutiva del correntismo», dice che «nel Pd quando nasce una corrente fa subito un documento contro il correntismo». E non a caso Walter Veltroni, insistendo in un’intervista a Globalist.it sul fatto che la crisi della destra e il crollo del M5S consentono ai democratici di «costituire per la prima volta una maggioranza riformista», dice: «Vorrei che il Pd discutesse di questo con un nuovo spirito unitario ed evitasse di lacerarsi nella consueta dialettica tra documenti e nomi».
Ma a far scattare l’allarme nel fronte renziano è soprattutto la proposta dei bersaniani di far eleggere dagli iscritti i gruppi dirigenti territoriali: un po’ perché temono che la mossa sia finalizzata a impedire la vittoria nei congressi locali a esponenti che nella partita nazionale sostengono il sindaco di Firenze, un po’ perché pensano sia un primo passo verso la decisione di far eleggere il leader del Pd non con primarie aperte. «Se vogliono limitare la partecipazione lo spiegheranno loro», dice polemicamente Lorenzo Guerini, esponente renziano della commissione congressuale che si riunirà la prossima settimana per aprire la pratica delle regole.
La discussione in quella sede sarà breve (Guglielmo Epifani ha detto che bisognerà chiudere entro un mese) ma in attesa di avere la conferma che al termine del percorso congressuale ci saranno primarie aperte (si sono detti a favore di questo modello sia Renzi che Gianni Cuperlo) la discussione rimarrà accesa. Anche perché Bersani, spiegando il senso della sua proposta di un «partito non padronale», ha spiegato di non volere «primarie chiuse», ma ha aggiunto, con un riferimento apparentemente tutt’altro che casuale: «Penso che un conto è se si discute di premier. E quello ce l’abbiamo. Se invece si discute di segretario, non credo che Briatore, per dire, sia interessato a votare il segetario del partito. Ma se fosse, sono per lasciare aperte le iscrizioni fino alla fase finale del congresso. Tutti possono votare il segretario, ma ci si deve iscrivere. Anche Briatore».
Il documento dei bersaniani (che ieri si sono riuniti per decidere i prossimi passi) non è però l’unico. Una quarantina di parlamentari eletti per la prima volta hanno scritto una lettera aperta a Epifani e a Roberto Speranza per criticare il correntismo e per chiedere «coraggio e innovazione» (tra le firme c’è anche quella della portavoce di Bersani alle primarie per la leadership Alessandra Moretti). E mentre Pippo Civati conferma che si candiderà per la segreteria («lo faccio per un progetto diverso, Epifani e Bersani sono la stessa persona»), Nicola Zingaretti smentisce i boatos degli ultimi giorni che lo hanno dato come possibile candidato del fronte bersaniano (che, se deciderà di schierare una persona, lo farà con Speranza): «Sono presidente del Lazio da tre mesi dice per me è un onore servire questa istituzione e voglio farlo con tutto il mio impegno».
La discussione sarà accesa ancora nei prossimi giorni, su più fronti. Anche perché se il documento bersaniano doveva servire a ricucire con l’ala dalemiana e con quella dei giovani turchi, Matteo Orfini ha chiuso a un possibile accordo con parole critiche: «Il Pd scrive su Leftwing.it è rimasto ostaggio della propria piccola oligarchia, del proprio “patto di sindacato” interno, incapace di scegliere dove collocare se stesso, in che direzione tentare di ricomporre le nuove fratture che la crisi apriva nella società».

l’Unità 13.6.13
«Fare il Pd»: no al partito dell’uomo solo al comando
Il testo preparato da D’Attorre, Fassina, Martina, Campana, Casellato: riconnettere partecipazione e decisione
di Giuseppe Vittori


Il titolo è «Fare il Pd» e in una decina di pagine analizza «il voto italiano nel contesto europeo», sottolinea la necessità di «ricongiungere moneta e sovranità democratica», affronta «l’’impotenza della democrazia e la sfida del populismo» suggerendo di «riconnettere partecipazione e decisione», indica come temi per una «nuova creazione di valore oltre la crisi» l’uguaglianza, il lavoro, i diritti, l’impresa, e in un capitolo titola «controcorrente» si spiega perché il Pd deve diventare «un soggetto politico collettivo». Il documento messo a punto da un gruppo di bersaniani in vista del congresso dice anche che sulle primarie serve una «riflessione critica» perché il Pd non può seguire il modello «plebiscitario». A sottoscriverlo sono Alfredo D’Attorre, Stefano Fassina, Maurizio Martina, Micaela Campana e Floriana Casellato.
Nel testo (consultabile in versione integrale sul nostro sito web unita.it) si legge che «la riflessione sul partito deve essere condotta senza ipocrisie e toccare i punti di fondo, se vogliamo capire cosa non ha funzionato fin qui e soprattutto quale idea di partecipazione democratica abbiamo in testa». Viene anche sottolineato che le diverse aree del partito devono assumere «non una configurazione correntizia verticale (che rende subalterna la vita politica dei territori alle dinamiche interne del centro del par tito), ma una fisionomia politico-culturale». I firmatari dicono anche che in questi anni c’è stata una spinta verso la «semplificazione del linguaggio e dei tempi della politica»: «Questa spinta, non trovando alcuno sbocco in una riforma delle istituzioni e dei partiti, si è tradotta in un ulteriore scivolamento verso il modello dell’uomo solo al comando, il primato della comunicazione e la riduzione della partecipazione a delega plebiscitaria al leader. Noi siamo convinti che fare davvero il Pd significhi essere alternativi e non arrendersi a questo tipo di logica».
Per i bersaniani «si deve evitare il rischio di ripetere l’errore di dividersi inutilmente e strumentalmente sul tema “primarie sì”-“primarie no”». Spiegano: «Non si tratta di negare il valore positivo e inclusivo dello strumento delle primarie, ma proprio per valorizzarlo ulteriormente è necessario avviare una riflessione critica, alla luce dell' esperienza (con luci e inevitabili ombre) vissuta in questi anni».
In particolare, nel documento si suggerisce di affidare agli «iscritti» l’elezione dei segretari provinciali e regionali e di usare l’albo degli iscritti delle primarie per coinvolgere i cittadini che sono andati a votare per il candidato premier. Concludono i bersaniani: «I rischi di trasformazione del partito in una giungla di comitati elettorali, perfettamente oliati e funzionanti in occasioni di congressi e primarie e praticamente assenti nella vita quotidiana di circoli e organi territoriali di direzione politica, sono sotto gli occhi di tutti. Far finta di non vedere la realtà in nome di un’acritica difesa del feticcio delle primarie non contribuisce certo a trovare soluzioni capaci di combattere gli effetti disgregativi del correntismo e delle affiliazioni puramente personali».
Ma non è solo dedicato al tema delle regole e delle modalità di selezione dei vertici, il documento dei bersaniani, che anzi sottolinea come «il prossimo congresso dovrà anzitutto rispondere alla domanda se e in che modo il progetto del Pd possa ancora essere utile all’Italia»: «Noi siamo convinti che dalla scelta di fare il Pd non si possa tornare indietro e che anzi il compito di fare davvero il Pd e di esprimerne tutte le potenzialità sia ancora davanti a noi».
Nel testo si parla della necessità di rilanciare il Pd come partito «di ispirazione popolare e riformista, che investa con ancora maggiore decisione e spirito innovativo sulla sintesi delle sue culture politiche fondative, orgoglioso della sua originalità ma saldamente ancorato alla famiglia dei progressisti europei». Netta la critica al modello personale, dove si dice che il Pd deve essere «un partito che alle sempre più forti spinte di cambiamento, semplificazione e di partecipazione diretta dei cittadini sappia offrire una risposta alternativa al populismo qualunquista e alla personalizzazione esasperata».
Il documento viene presentato come «un primo contributo» sulla base della convinzione che «il confronto sui contenuti politici debba essere prioritario rispetto a quello sulle candidature».

per i 40 il candidato alla fine potrebbe essere Civati.
il Fatto 13.6.13
Pd, la guerra dei documenti
Gabbia anti renzi dai bersaniani
Lettera a Epifani di 40 parlamentari
di Wanda Marra


Il documento dei bersaniani è psicanaliticamente ossessionato da Renzi”. La sintesi in Transatlantico è del deputato Francesco La Forgia, a sua volta firmatario, insieme ad altri 39 di una lettera a Guglielmo Epifani e Roberto Speranza contro “il correntismo che rischia di soffocare il Pd”. Ieri per i Democratici è il giorno di lettere, documenti, editoriali. Gruppi, gruppetti, correntine, l’un contro l’altro schierati. “Sono due mesi che non mi parlano, credo di andare alla riunione dei bersaniani”, dice Alessandra Moretti (che alla fine rinuncerà in favore di Sky). Dall’altra parte del corridoio sono schierati i fedelissimi dell’ex segretario che promuovono un documento (firmatari Fassina, D’Attorre e Martina), “Fare il Pd” in cui provano a gettare le premesse di un asse anti - Renzi. I “bersaniani di serie B” (definizione tra l’ironico e il polemico di Alessandra Moretti), ovvero una serie di giovani arrivati in Parlamento con le primarie, molti bersaniani, ma di fede non ortodossa, si mettono insieme. E su un divanetto esattamente di fronte dicono la loro. Matteo Orfini scrive un editoriale sul suo web magazine, Left Wing, che sancisce la sua distanza da Bersani e soprattutto il divorzio dal compagno di corrente Stefano Fassina: “Anche il Pd è rimasto ostaggio della propria piccola oligarchia, del proprio “patto di sindacato” interno, incapace di scegliere dove collocare se stesso”. La “faticosa ricerca di una sempre precaria unità interna ha reso impossibile la costruzione di un partito degno di questo nome”. Tre posizioni diverse, tre blocchi che si organizzano. Con l’impressione che in realtà il futuro dei Democratici (ammesso che ce ne sia uno) stia da un’altra parte. Renzi, per una volta, sta a guardare. I bersaniani cominciano a lavorare alla gabbia delle regole per bloccarlo: “C'è da interrogarsi non tanto sulla giustezza di usare le primarie per il segretario nazionale quand’anche si modificasse la norma statutaria che unifica leadership di partito e candidatura alla premiership, ma se non sia stata una forzatura usare questo strumento per l’elezione dei segretari regionali e non sia meglio, invece, affidare agli iscritti la selezione degli organismi territoriali di partito”.
INSOMMA, l’idea è quella di presentare a Renzi un partito fatto su misura contro di lui, facendo votare solo gli iscritti. E poi, c’è la questione della separazione tra segretario e candidato premier: con Renzi in campo Bersani è pronto a combattere per farla. Si sfoga il renziano Guerini, nella Commissione che - appunto - le regole deve stabilirle: “Lo vengano a spiegare a noi, agli iscritti, ai militanti, a quelli che hanno votato alle primarie. Perchè dovremmo restringere la partecipazione? ”. Bersani contro Renzi, atto secondo. Con la differenza è che i bersaniani un candidato non ce l’hanno. Ieri sera alla riunione c’erano un centinaio di deputati, ma nomi certi non ne sono usciti. Anche perché mica è facile trovarne uno che possa competere con l’ex Rottamatore: “Non mi fa certo paura stare in minoranza”, ammette D’Attorre. Tra i tanti nomi possibili, in pole position per ora c’è Fassina. Il quale a questo punto non avrebbe dalla sua gli ex colleghi dei Giovani Turchi. Ancora su Cuperlo. Scrive Orfini: “Le strade sono due: o rassegnarsi a trasformare i leader politici in icone pop, o riportare il popolo nei partiti”. Anche qui l’analisi è impietosa. I 40 neo aggregatasi (tra gli altri Alessia Morani, Paolo Beni, Mi-chela Marzano, Simona Malpezzi, Massimiliano Manfredi, Luca Pastorin) provano a parlare di politica, come Eleonora Cimbro, eletta con le primarie a Milano: “Per esempio, sarebbe importante discutere su perché nel gruppo si è cambiata posizione sulla mozione di Sel sulla 194, che dovevamo appoggiare”. Il riferimento è alla melina parlamentare dell’altroieri. Sel aveva presentato una mozione che metteva l’accento sulle difficoltà di applicare la 194 a causa di troppi obiettori di coscienza. Il Pd aveva detto che l’avrebbe appoggiata, poi ne ha fatta un’altra educolcorata e ha chiesto di votare contro quella di Sel. Molti si sono astenuti. Anche qui alla fine è questione di nomi: per i 40 il candidato alla fine potrebbe essere Civati.

Corriere 13.6.13
«Matteo leader? Così si iscrive Briatore» Bersani attacca
Il sindaco: hanno paura
di Maria Teresa Meli


ROMA — Non va per il sottile, Pier Luigi Bersani. In piedi, nel Transatlantico di Montecitorio, l'ex leader del Pd non usa accorgimenti diplomatici: «Che cosa vuole fare Renzi? Il premier? Quello lo abbiamo già ed è Enrico Letta. Allora vuole fare il segretario? E che cosa pensa di fare: di iscrivere Briatore e gente così?».
Bersani ha il dente avvelenato contro Renzi. Lui non ne fa una questione personale, almeno così dice, però è fermamente determinato a contrastare i piani del sindaco. È per questo che ha riunito tutti gli ex Ds (ma le defezioni sono state molte): «Io sono contrario al partito del leader e a chi vuole fare un partito personale. Le forze di questo tipo stanno declinando, basti pensare al Pdl di Berlusconi o al Movimento 5 Stelle di Grillo, e dovremmo essere noi del Pd a fare un partito del genere?». Che cosa vuole, quindi, l'ex segretario? Intende ancora giocare un ruolo di primo piano nel Partito democratico? «Io non voglio niente per me, io voglio essere solo il federatore di quelli che sono contro il progetto di un partito personalistico. Io sono un emiliano: per me il partito è una cooperativa, non una spa».
Dunque, Bersani punta a sbarrare il passo al sindaco rottamatore. Il suo piano è questo ed è scritto nero su bianco sul documento stilato dai suoi sostenitori: i segretari locali del Pd verranno scelti prima del leader nazionale e solo dagli iscritti, non più dagli elettori, mentre il partito si trasformerà in un partito federato. Tradotto dal politichese all'italiano: Renzi si troverebbe ingabbiato, con un apparato già preconfezionato dalla precedente gestione e quindi fedele alla vecchia maggioranza interna e un gruppo parlamentare che ricalca equilibri interni del passato. Un modo per dissuadere il sindaco dall'idea di scendere in campo. «Hanno paura e vogliono fregarmi», ha spiegato Renzi ai suoi.
Però sulla strada imboccata, il Bersani federatore «anti-renziano» sta trovando più di un ostacolo e il suo schieramento rischia di sfaldarsi. Tanto per cominciare, il documento non è firmato perché quelli che lo avrebbero sottoscritto non erano tantissimi e mediaticamente sarebbe stato un boomerang. E poi nella vecchia maggioranza si stanno aprendo nuove crepe. Dario Franceschini, per esempio, sta cominciando a prendere le distanze. Il ministro per i rapporti con il Parlamento, che ieri ha riunito i suoi, è stato chiaro: «Ci vuole un leader nuovo e ci vuole una politica nuova». Insomma, ha aperto a Renzi.
I franceschiniani non hanno partecipato alla riunione di Bersani. Il perché lo ha spiegato in modo più che tagliente Gianclaudio Bressa: «Quella è un'assemblea di comunisti». E in effetti erano invitati solo gli ex Ds. Però nemmeno tra di loro l'iniziativa è andata alla grande. Quaranta parlamentari bersaniani hanno sottoscritto una lettera per criticare le pratiche correntizie del loro ex leader e per prendere le distanze da lui. Alcuni di loro sperano in Nicola Zingaretti, altri, come Alessandra Moretti, stanno veleggiando verso i lidi renziani. Dalemiani e «giovani turchi» hanno mandato una mini-delegazione alla riunione, giusto per non rompere i rapporti con l'ex segretario. Ma ciò che pensa di Bersani, Massimo D'Alema non è un mistero per nessuno. E anche Matteo Orfini (che non è andato alla riunione) non ha troppi peli sulla lingua quando parla dell'iniziativa dell'ex leader e dei suoi sostenitori: «Mi sembrano come quelli che stavano sul Titanic, ma non prima dello scontro con l'iceberg, dopo...».
Bersani però non demorde. Tanto che c'è chi pensa che l'ultima mossa potrebbe essere quella di rinviare il congresso. Del resto Guglielmo Epifani una data ancora non l'ha detta. Nemmeno nell'ultima segreteria, quando c'era chi gliela sollecitava...

Corriere 13.6.13
Pd, nasce il «correntone» anti-Renzi
Documento dei bersaniani: no a personalismi, primarie da ripensare
di Monica Guerzoni


ROMA — Un «correntone» antirenziano, guidato da Bersani. Il documento promosso dai fedelissimi dell'ex segretario e l'incontro alla Camera tra i parlamentari di origine diessina hanno messo in agitazione il sindaco di Firenze. I «vincenti alle amministrative», ironizza su Twitter il renziano David Ermini, «vogliono portare il Pd in zona di protezione e ripopolamento». E Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi, stoppa il tentativo di far scegliere il segretario ai soli iscritti: «Perché dovremmo respingere la partecipazione? Dico, ma vogliamo davvero passare dai tre milioni delle ultime primarie a 150 mila persone?».
La tregua imposta dalla vittoria dei sindaci è già finita, il congresso si avvicina e le correnti si organizzano a colpi di documenti contrapposti, dividendosi sostanzialmente in due grandi fazioni: chi sta con Renzi e chi sta contro. Per preparare il congresso gli uomini di Bersani hanno scritto un testo dal titolo «Fare il Pd», che i renziani leggono come un tentativo «grossolano» di sbarrare la strada al sindaco. Ricostruzione subito smentita dai bersaniani. «Il documento non è contro qualcuno — assicura il sottosegretario Maurizio Martina, che lo ha promosso con Stefano Fassina e Alfredo D'Attorre —. Serve a rilanciare la funzione del Pd come collettivo, squadra, non comitato ad personam». Però il documento gira attorno al rifiuto dell'«uomo solo al comando», modello berlusconiano (e poi renziano) al quale Bersani e i suoi dicono di non volersi arrendere. Un principio che porta a ripensare le primarie chiedendosi, tanto per cominciare, «se non sia stata una forzatura usare questo strumento per l'elezione dei segretari regionali». I nemici di Renzi temono che il sindaco, candidandosi alla segreteria, possa essere incoronato con un plebiscito e provano a frenarne la corsa. «Guidare il Pd è un lavoro faticoso, non può essere solo un trampolino di lancio o un autobus per Palazzo Chigi — avverte Davide Zoggia, che coordinerà la Commissione congresso —. Il premier ce lo abbiamo e chi si candida a leader sappia che potrebbe doverlo fare anche per tre o quattro anni». Sulle regole è già scontro. Guglielmo Epifani aveva convocato per oggi una conferenza stampa per presentare le nuove modalità di iscrizione al partito, via web. Ma i renziani, che non ne sapevano nulla, hanno protestato e il Nazareno l'ha sconvocata adducendo «sopraggiunti impegni» del leader.
Anche Dario Franceschini vede i suoi parlamentari e studia le mosse congressuali. Il ministro, che ritiene Renzi «la principale risorsa per vincere le elezioni», è favorevole a scindere la figura del segretario da quella del premier e pensa a una possibile mediazione: leader eletto dagli iscritti e primarie aperte per Palazzo Chigi. Una soluzione che taglierebbe Renzi fuori dalla gara per il Nazareno, consentendogli però di vincere la consultazione per la premiership.
Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, si tira fuori dal compito «nobile e appassionante» di guidare il Pd: «Ribadisco che non è nei miei progetti candidarmi per un ruolo di segretario». C'è fermento e tensione, quaranta deputati scrivono una lettera aperta al segretario e al capogruppo Roberto Speranza chiedendo di uscire dallo schema correntizio per aprire un dibattito sui contenuti. Tra i firmatari la ex bersaniana Alessandra Moretti, che ha promosso il contro-documento. Contro i bersaniani si schierano Gianni Cuperlo e Matteo Orfini, che lo dice con un editoriale su Left Wing: «Anche il Pd è rimasto ostaggio della propria piccola oligarchia, del proprio patto di sindacato interno, incapace di scegliere dove collocare se stesso...».

Repubblica 13.6.13
“Le larghe intese non funzionano tra un anno il governo può cadere così l’Italia stenterà a ripartire”
Bersani: niente veti su Renzi ma non voglio padroni
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA — Una nuova metafora ha accompagnato Pier Luigi Bersani nei mesi drammatici in cui ha perso tutto: elezioni, Palazzo Chigi, segreteria del Pd. «Sa come crescono gli asparagi? Si prepara con cura un’asparagiaia. È un terreno che deve durare 50 anni, non un giorno. E il contadino sa bene che può crescere un asparago bello lungo un anno e un asparago più corto un altro anno». Il terreno è il partito, gli asparagi di diverse dimensioni sono i leader che si alternano alla sua guida. Se lui fosse lungo o corto, non vuole dirlo perché quello che gli interessa è il terreno. «L’Italia è il Paese dei personalismi e dei populismi. Berlusconi, Monti, Grillo. Con quali risultati è sotto gli occhi di tutti. Dietro Berlusconi c’è il nulla, la lista di Monti non esiste e Grillo... beh Grillo è nella situazione che conosciamo. Ma dei destini personali mi importa poco. Mi importa invece osservare gli effetti di questo meccanismo. Ogni tre anni nella nostra politica c’è uno spaventoso vuoto d’aria. E se non fossimo agganciati all’Europa, in Italia ci sarebbero già i colonnelli».
Bersani non è smagrito come nei mesi del suo personale declino. Ha recuperato qualche chilo e un’aria serena. Fuma il sigaro nel cortile di Montecitorio. «Qualcuno pensava che andassi al mare? No, non vado al mare. Mi batterò perché l’Italia diventi un Paese come gli altri. Non soffocato dal leaderismo e dal populismo». Tradotto: Renzi? «Sarei anche pronto a sostenerlo. Una cosa però dev’essere chiara: oggi si discute della segreteria del Pd, non della sfida per il governo. Il premier c’è già ed è un dirigente del Pd. Per questo penso a primarie aperte ma aperte agli iscritti. Tutti possono andare in un circolo ed iscriversi. Può votare anche Briatore, per carità. Passa prima da un circolo e vota».
Quella nata ieri con la presentazione di un documento, dice Bersani, non è una corrente. «Vorrebbe essere un gruppo di federatori. Intorno all’idea di un partito aperto, plurale ma non padronale.
Perché con le forze politiche padronali si è visto come finisce. Finisce che il partito diventa la bad company di un uomo solo al comando, una salmeria. In quale altra nazione del mondo succede lo stesso? Sarebbe questa la modernità di cui tanti si riempiono la bocca? ». Ma i leader esistono dappertutto, prendiamo Blair. «Certo, Blair, Roosevelt. Leader grandissimi. Ma gli stessi partiti che li hanno espressi, hanno conosciuto anche capi più sbiaditi, asparagi corti. Come Kinnock. Eppure il Labour è sempre lì. E quando Blair era tramontato è stato capace di sostituirlo con Gordon Brown».
Il ritorno di Bersani non può non passare per l’analisi degli errori compiuti. «Il più grande è stato non rompere con Monti quando si è sfilato Berlusconi. Dovevamo dire: si è sciolto un patto, liberi tutti. Eppoi, sì, non sono riuscito a fare di più sui costi della politica. Abbiamo perso 5 punti nelle ultime due settimane. Tre punti per il nostro sostegno a Monti, due perché gli elettori hanno pensato: andate a quel paese anche voi». Poi è arrivato il colpo di grazia delle elezioni presidenziali. «Il Pd è un partito nato all’opposizione dopo la brutta sconfitta del 2008. Dopo il voto di febbraio doveva dare la sua prima prova di maturità, diventare forza di governo. Avevamo vinto alla Camera ed eravamo la forza di maggioranza relativa al Senato. Invece è cominciata la litania della mezza sconfitta, un’autocommiserazione interessata e indecente. Con il risultato che molti hanno rinunciato al salto di qualità, si sono sentiti disimpegnati ». Come nel voto per il Quirinale. «Lì hanno giocato due fattori. Il primo, più superficiale, è la logica dei feudatari: vendette e ripicche. Il secondo, più profondo, riguarda la natura del Pd. Non voglio la riedizione del centralismo democratico, però bastano due righe in un patto tra di noi: si discute e poi si seguono le indicazioni della maggioranza». Contro Marini il dissenso è stato palese, contro Prodi ha lavorato nel segreto dell’urna. «Non è vero che Marini sarebbe stato il presidente delle larghe intese. Avrebbe dato l’incarico a me o un altro dirigente del Partito democratico. Con la pistola carica dello scioglimento anticipato, Berlusconi non avrebbe fatto tante storie. Per certi versi, Marini sarebbe stato meglio di Prodi. Perché lo so anch’io che con Romano poteva scoppiare una guerra civile».
Bersani è rimasto legato alla formula del governo di cambiamento. «Starò con Enrico Letta fino all’ultimo secondo. Ma la Grande coalizione non funziona. Ha senso solo in due casi: quando c’è la minaccia del terrorismo e quando gli spread impazziscono. Per far ripartire un Paese invece ci vuole un governo, di destra o di sinistra, che dia una scossa. Io penso di non aver sbagliato tante previsioni nella mia vita e temo che tra un anno tutto questo sarà più chiaro». È un punto che lo avvicina a Renzi. «Il braccio di ferro su Iva e Imu lo dimostra. Per me non ci sono dubbi: meglio una minipatrimoniale che far pagare a tutti un costo sui consumi». Sulle riforme istituzionali però la distinzione dal sindaco di Firenze e da una larga fetta del Pd è netta. «Il presidenzialismo è un disastro. Figuriamoci, in un Paese attraversato da mille populismi ... Ma tutti i modelli sono a rischio populismo, persino quello tedesco. Aspetto di vedere la discussione e di misurare i contrappesi».

Corriere 13.6.13
«Europa» contro l'ex segretario: è il solo che perde


ROMA — Europa, quotidiano del Pd, ieri ha pubblicato un duro attacco al segretario del partito Pier Luigi Bersani. Un editoriale in appoggio dello sfidante Matteo Renzi e firmato dal direttore del giornale, Stefano Menichini, per sostenere che «nell'anno solare 2013, in sei-sette tornate elettorali tra politiche, regionali, primi e secondi turni comunali, tutti i candidati del Partito democratico hanno vinto, tranne lui», il segretario, appunto.
Aggiunge Menichini che già il 25 febbraio scorso Zingaretti «prese negli stessi giorni e negli stessi seggi di Roma città un quarto di voti in più di Bersani». Perciò «la piattaforma congressuale bersaniana, che torna a colpire contro i "partiti personali", andrà valutata anche alla luce di questi precedenti», perché ora serve «un leader vincente».
Ma non è stato anche Renzi un «perdente» (con circa il 38%) alle primarie per scegliere il candidato a Palazzo Chigi? «Ha perso le primarie, ma ha gestito bene quella sconfitta, conquistandosi da subito la simpatia degli elettori e smentendo così le accuse di essere un "infiltrato" o un "alieno" — dice Menichini — Quello della leadership è uno dei temi del prossimo congresso e non si può attaccare strumentalmente la "personalizzazione della politica" per colpire proprio chi è in grado di parlare anche al di fuori del bacino di appartenenza. Bisogna superare la paura di avere un leader forte».
A parte gli «apprezzamenti da fonti prevedibili», Menichini non ha avuto reazioni da parte dei vertici del Pd. Dai lettori online sono arrivati sostegni ma anche commenti critici, c'è chi lo ha accusato di attacchi «beceri» e «volgari» e minacciato di non leggere più Europa (anche se un altro lettore dice «poco male si accontenterà della sempre allineata Unità»). Menichini ovviamente sa delle critiche: «Tanti sono ancora convinti che Bersani sia stato tradito; forse è vero, però lui e i dirigenti sono comunque per definizione i responsabili delle scelte sbagliate che sono state compiute».

Corriere 13.6.13
Vendola: «Il rottamatore valore aggiunto»


«Renzi ha la forza di incarnare la rottura generazionale, lo devo dire nonostante i miei dissensi». È un Vendola insolitamente morbido con il sindaco di Firenze quello intervenuto ieri a Otto e Mezzo su La7: «Io ho sfidato Renzi nelle primarie, ma se avesse vinto sarebbe stato il mio candidato premier. Non ho mai detto che bisogna estrometterlo perché penso sia un valore aggiunto del centrosinistra». Sul governo il presidente della Regione Puglia resta scettico: «Se Letta raggiungesse gli obiettivi che dichiara io ne sarei contento ma dubito che possa riuscirci».

il Fatto 13.6.13
Chi l’ha visto?
Renzi assenteista e Firenze perde 36 milioni di fondi
Il sindaco è il meno presente tra i colleghi delle grandi città, non rispetta i tempi Ue e “butta” i soldi per la tramvia
di Giampiero Calapà e Sara Frangini


RENZI VA SEMPRE IN TV MA NON IN CONSIGLIO E PERDE 36 MILIONI UE
GUIDA LA CLASSIFICA DEI SINDACI ASSENTEISTI D’ITALIA, NON RISPETTA I TEMPI DI BRUXELLES PER I FINANZIAMENTI
MA CHIEDE AI FIORENTINI: “DOVE VOLETE I FONTANELLI?”

Un comportamento indecoroso”. Tommaso Grassi, consigliere dell’opposizione di sinistra alla giunta Renzi, bolla così un dato statistico che inchioda il sindaco di Firenze: è il meno presente in Consiglio comunale tra i sindaci delle grandi città italiane. Soprattutto se, accanto a questo dato, si leggono anche fallimenti importanti, come i 36,6 milioni di euro di fondi europei persi, a causa di ritardi nei lavori, per il completamento della tramvia. Il sindaco Matteo Renzi, proiettato a giorni alterni alla guida del Partito democratico e a Palazzo Chigi, nel 2012 ha partecipato a 8 sedute su 45 del Consiglio comunale. Dall’inizio del 2013 a oggi è comparso nello scranno del primo cittadino nel Salone de’ Dugento sette volte su 17.
PER CAPIRE se sono medie normali per un sindaco, sufficienti al rispetto dovuto alle istituzioni democratiche, basta fare un giro nelle altre grandi città italiane. Nel 2013 solo Gianni Alemanno, appena bocciato dai romani, aveva fatto peggio: 7 su 30. Marco Doria a Genova ha preso parte a 25 Consigli su 27 nel 2012 e quest’anno non ha mai mancato l’appuntamento: già 18 all’attivo. Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia viaggia a quote altissime: 66 su 86 nel 2012 e 17 su 22 in questo primo semestre 2013. Anche Piero Fassino a Torino non fa mancare quasi mai la sua presenza: 47 su 56 nel 2012 e 18 su 20 nel 2013. Luigi De Magistris a Napoli si è assentato dai lavori consiliari soltanto due volte dal gennaio 2012 a oggi, toccando quota 49 su 51.
Tra un’ospitata televisiva e l’altra è molto difficile riuscire a fare il sindaco di Firenze, “il mestiere più bello del mondo”, come amava definire lo stesso Renzi il suo incarico. E quante volte durante le primarie di novembre lo stesso Renzi ha incalzato: “Bisogna usare meglio i fondi europei”. Peccato che è di questi giorni la notizia che proprio Firenze rinuncerà a 36,6 milioni. “Il sindaco fallisce – afferma la consigliera comunale, Ornella De Zordo – in una delle sue promesse più vendute”. Cioè la costruzione delle linee 2 e 3 della tramvia, la metro di superficie che oggi con una sola linea collega la città a Scandicci. Bruxelles aveva fissato delle scadenze precise: tutto pronto entro il 2015 o niente soldi. Palazzo Vecchio dà la colpa alla crisi che fa fallire le imprese. Il governatore della Toscana, Enrico Rossi, va su tutte le furie e tenta di metterci una pezza con una nota ufficiale: “Proveremo a convincere l’Unione europea a considerare una rimodulazione di quei fondi”, in vista della riunione del prossimo 20 giugno a Bruxelles, perché “continuiamo a pensare che quell’opera sia strategica per il capoluogo di questa regione, non realizzarla rappresenterebbe un fallimento di tutti i nostri piani sulla mobilità”. E tra Rossi e Renzi i rapporti, tramvia a parte, sono ai minimi termini rispetto alle scelte amministrative e ai partner per realizzarle. Infatti, Rossi ha appena risposto con un secco “no” alle tentazioni toscane di Flavio Briatore: l’idea era quella di costruire un super mega ultra campo da golf a Bibbona. “Briatore propone campi da golf da tutte le parti, ma l’ultima struttura discussa in Toscana era da 77 ettari, non si può fare così”: bocciato da Enrico Rossi, il berlusconiano Briatore potrebbe tornare comodo proprio al boy scout di Rignano sull’Arno, di cui è da sempre grande fan: “Se si candidasse premier lo voterei al 100 per cento”. Infatti lo stesso Renzi, che soltanto pochi giorni fa ha pranzato a Firenze con Briatore, ha inserito nel suo piano di rilancio del Parco delle Cascine, il cuore verde al centro della città, proprio un campo da golf. Il progetto è inserito in un masterplan che dovrebbe essere concretizzato entro il 2015.
INTANTO, il sindaco annuncia su Facebook: “Messaggio per i fiorentini. Domani faremo l’ultima giunta programmatica della legislatura: metteremo giù l’elenco delle priorità per chiudere cinque anni di lavoro bello e intenso. In nottata faremo un giro anche a controllare i tanti cantieri stradali su cui lavoriamo di notte per non intralciare il traffico come da impegno pre-elettorale. Segnalatemi, se vi va, le vostre priorità e le vostre proposte sull’ultimo anno di azione amministrativa. E già che ci siete dateci un consiglio su dove mettere gli ultimi cinque fontanelli dell’acqua naturale e gassata di Publiacqua”.

il Fatto 13.6.13
Dentro e fuori
Tarzan è ineleggibile, il Caimano invece va bene
di Giampiero Calapà


Tarzan no e il Caimano sì. Neppure con le pinze si riesce a strappare ai senatori del Partito democratico una indicazione precisa su come si comporteranno quando dovranno affrontare, nella giunta delle elezioni e immunità parlamentari, la questione dell’ineleggibilità di Silvio Berlusconi. Già la prossima settimana, eppure, se ne potrebbe discutere in giunta. Si tratterebbe di rispettare la legge 361 del 1957 che dichiara ineleggibile chiunque goda di una concessione statale sia in proprio (proprietà effettiva) che come amministratore o manager.
Intanto a Roma succede, però, che Andrea Alzetta – detto Tarzan perché è solito arrampicarsi durante le occupazioni del movimento di lotta per la casa – eletto in Consiglio comunale con 1728 preferenze in lista con Sel, venga cacciato fuori dall’aula Giulio Cesare, o meglio dichiarato “non proclamabile” per l’articolo 10, lettera E, del decreto legislativo 235/2012: “Sono sospesi di diritto dalle cariche coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva ad una pena inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo”. Tarzan fu condannato a due anni nel 1996, per disordini di piazza risalenti al 1987, ad una manifestazione pro Palestina della Pantera durante la prima intifada. “È un paradosso – si sfoga Alzetta – Usano una virgola del decreto anti-corruzione per tenere me fuori dal Campidoglio e Berlusconi è eleggibile invece. È un Paese strano questo, poi si stupiscono se la gente non va più a votare. Quella pena fu sospesa e non ho mai avuto l’interdizione dai pubblici uffici”. Campidoglio inaccessibile per Tarzan quindi. Che diranno, invece, i senatori del Pd sulla questione del Caimano a Palazzo Madama? Balbettii e incertezza: “Il presidente Dario Stefano mi ha detto che la prossima settimana potremo riunirci – dice Giuseppe Cucca –, il caso Berlusconi non è diverso dagli altri; va trattata con la stessa cautela e stabiliremo il da farsi dopo un confronto. Dire che ho già preso una posizione mi parrebbe proprio poco serio. Comunque ora vedremo il calendario dei lavori”. Neppure Doris Lo Moro ha certezze: “Mi sembra prematuro un discorso del genere, perché come Pd abbiamo un’istruttoria in corso. L’idea che qualcuno di noi vada lì con un pregiudizio è profondamente sbagliata. Poi alla fine quel che conta è come voteremo quel giorno, non le fughe in avanti precedenti. Guardo a voi con simpatia, ma l’agenda me la detto da sola”. Consegna del silenzio anche per Giorgio Pagliari: “È una questione di diritto, ma anche politica. Non anticipo le mie valutazioni, che faccio in aula e solo in aula, come si deve fare nelle istituzioni”. Solo Felice Casson si sbilancia appena: “Ho una posizione, un minimo di riservatezza va tenuto, certo i precedenti non sono vincolanti”.

Repubblica 13.6.13
Il Cavaliere gela i vertici Pdl “L’anti-Renzi può essere Marchini”
Partito in fiamme. L’ex premier: potrei fare io il segretario
di Carmelo Lopapa


ROMA — Sogna di fare di lui l’anti- Renzi. Da settimane Silvio Berlusconi studia le
performance televisive che hanno portato tre settimane fa Alfio Marchini a stappare quasi il 10 per cento a Roma, raccogliere 110 mila preferenze quasi dal nulla, ma soprattutto a «bucare il video».
Il Cavaliere si è convinto che potrebbe essere il volto giusto, quello sul quale investire: ramificate le sue entrature negli ambienti curiali Oltretevere, vicino agli ambienti dell’Opus dei ma abile frequentatore dei salotti dell’alta borghesia capitolina e non solo. Buone conoscenze, sportivo, sciolto. Se davvero l’ex premier dovesse essere costretto a farsi da parte — complice magari l’interdizione dai pubblici uffici — ma anche se Matteo Renzi dovesse prendere le redini del Pd e candidarsi lui alla premiership, ecco la soluzione possibile. Quarant’anni di scarto per Berlusconi sarebbero davvero troppi rispetto all’avversario democratico. Raccontano che due giorni fa il leader Pdl si sia fatto contattare personalmente l’outsider della competizione romana, per complimentarsi per il risultato, sondarne gli umori, soprattutto per complimentarsi per la neutralità tra il primo e il secondo turno, quando di fatto Marchini si è eclissato. Adesso da neofita della politica quello non vuol farsi da parte e un Berlusconi messo alle strette dall’anagrafe e dalle sentenze non vuole lasciarsi soffiare l’occasione. Convinto com’è che nessuno dei dirigenti del Pdl, nemmeno i rampanti quarantenni, abbia le chance mediatiche di quel volto nuovo e piuttosto telegenico.
Berlusconi rientra a Roma e invita a cena venti tra deputati, senatori, dirigenti di partito, rimasti a Palazzo Grazioli fino a tardi. Stasera toccherà ai ministri Pdl del governo Letta. Con tutti loro si è guardato bene, tra una portata e l’altra, di accennare al piano top secret che porterebbe al coinvolgimento di Marchini. Ancora tutto da sperimentare, del resto. Ieri sera, al tavolo del capo, Alfano a Verdini, la Santanché e la Carfagna, passando per Cicchitto, Gasparri. Invitato pure Raffaele Fitto, sempre più scettico sulla gestione del partito, sebbene intenzionato per ora a restare fuori da coordinamenti e ruoli direttivi. E poi Bernini, Gelmini e i capigruppo Brunetta e Schifani, il portavoce Bonaiuti. Da vertice ristretto a plenum, per ascoltare, tranquillare, rassicurare i tanti allarmati dalle voci su un nuovo “predellino” in arrivo.
Il leader ha indossato i panni del pompiere. «Sarà più movimento che partito, più nazionale che locale, molto proiettato sull’appuntamento elettorale, dovrà essere aperto a imprenditori, professionisti, commercianti» è il profilo tracciato da Berlusconi. Sul ritorno al nome di Forza Italia avrebbe glissato. Comunque non è imminente, le elezioni non sono alle porte dunque sulla sigla ci sarà tempo. Il Cavaliere si è dato sei mesi di tempo — giusto quelli che intercorrono da qui alla sentenza di Cassazione su Mediaset — per decidere che fare.
Per il momento, ha ripetuto anche ieri sera, «il governo dovrà andare avanti». Anche se le sentenze, gli imminenti pronunciamenti della Consulta sul legittimo impedimento e del Tribunale di Milano su Ruby restano in cima alle sue preoccupazioni.
Attenderà fine mese, infatti. Poi deciderà anche se cedere al pressing dei falchi che gli chiedono con sempre maggiore insistenza di assumere lui il ruolo di presidente e segretario: insomma, leader unico del partito snello e all’americana che sta per decollare. «Potrei farlo per proteggere Angelino dai veleni interni, per consentirgli di lavorare con serenità al governo» è la motivazione confidata in privato a pochi interlocutori. Per il momento, Alfano resta al suo duplice posto di segretario e vicepremier, il Cavaliere lo difende in pubblico a spada tratta.
Il progetto messo nero su bianco dai “falchi” Verdini-Santanché- Capezzone è un volume con tanto di studio comparato sulle ultime tre campagna elettorali Usa e su quelle britanniche, centrato sull’organizzazione dei comitati elettorali e sulla raccolta fondi privati con fund raising capillare, anche con microdonazioni via web. Nell’immediato, parte l'azzeramento dei coordinatori regionali destinati a essere sostituiti da “procacciatori” di fondi. Il piano, messo a punto stavolta dal tesoriere Rocco Crimi e Sandro Bondi, prevede la nuova figura di coordinatori a budget, ognuno di loro sarà confermato se avrà raccolto un tot di euro. Ma in tempo di tagli ai finanziamenti pubblici, come è stato spiegato ieri sera, anche i semplici parlamentare, se vorranno riottenere la candidatura, dovranno portare il loro contributo in termini assai concreti e monetari. Berlusconi, lo ha spiegato ancora una volta, non intende più mettere mani al portafogli.

il Fatto 13.6.13
Parola di professore
Salvatore Settis: “Norme-inciucio. Sono contro la Costituzione”
di Sandra Amurri


Se il Ddl semplificazione, ancora in bozza, non verrà cambiato il paesaggio subirà un altro schiaffo. Iniziamo dalla riduzione dei tempi da 90 a 45 giorni per l'autorizzazione paesaggistica. Ecco cosa ne pensa Salvatore Settis, docente alla Normale di Pisa, uno dei più autorevoli e appassionati difensori della tutela del paesaggio e dell'ambiente, e vincitore del prestigioso premio letterario Gambrinus "Giuseppe Mazzotti": “È completamento sbagliato. Già i tempi sono stretti e le sovraintendenze non sono in condizione di lavorare visto il massiccio ridimensionamento del personale dovuto a pensionamenti che non vengono sostituiti”.
In cantiere c'è una procedura semplificata per ottenere l'autorizzazione edilizia e anche un decreto del Presidente della Repubblica sulle autorizzazioni paesaggistiche.
Come si può “semplificare” d'ufficio anche nelle aeree soggette a vincolo individuale? Le cosiddette semplificazioni non debbono mai essere fatte a discapito della tutela del paesaggio, proprio come recita il principio sancito dall'art. 9 della Costituzione. Sarebbe un altro modo per mortificare il compito della sovraintendenza che negli ultimi anni ha subito tagli. Prima dal governo Berlusconi, poi da quello Monti. Semplificare non equivale ad andare contro la Costituzione.
Lei ha criticato duramente la proposta di legge di Realacci su “Contenimento dell'uso di suolo e rigenerazione urbana” e lui le ha risposto. Soddisfatto?
No. Realacci può rispondere ciò che vuole: è una legge sbagliata che non è contro il consumo di suolo ma lo incrementa. Ripeto: è un bel titolo, peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Alcuni firmatari della proposta Realacci mi hanno confessato di aver firmato sulla fiducia, senza capirne il senso. Mi chiedo: per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, come possono passare inosservate queste norme-inciucio? sono attentati al paesaggio e all’ambiente nonostante il ministro dell'Ambiente Orlando abbia definito prioritario il rischio idrogeologico, la tutela degli ecosistemi, la riduzione del consumo di territorio, la panificazione delle risorse idriche. La domanda è: nel buio delle “larghe intese”, come lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum? Come può essere legittimato non dico a varare, ma anche solo sognare una qualsiasi riforma della Costituzione? ”.

il Fatto 13.6.13
Una buona idea Imperiale
Marino vuole pedonalizzare i Fori romani
Una scelta opportuna, da maneggiare con cura
di Tomaso Montanari


Sembra di essersi svegliati in un altro mondo: da Gianni Alemanno che, in barba a ogni legge, tiene il comizio di chiusura della campagna elettorale al Colosseo (complice la Direzione generale dei Beni culturali del Lazio, che pur di genuflettersi al potere politico ha scavalcato la Soprintendenza Archeologica di Roma), a Ignazio Marino che subito dopo l’elezione, annuncia alla Città e al mondo di voler chiudere al traffico i Fori imperiali.
SI TRATTA di una vecchia, ottima idea. Di più: si tratta di una necessità. Già nel 1979 il sindaco, comunista, e storico dell’arte Giulio Carlo Argan diceva: “O le automobili, o i monumenti”, e il grande Antonio Cederna rilanciava, scrivendo sul Corriere della Sera, che era ormai tempo di rimediare allo scempio di via dei Fori Imperiali, realizzata dal Fascismo per “far vedere il Colosseo da piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo”.
Come Italia Nostra, Legambiente e molte altre associazioni ricordano, oggi quelle ragioni si sono moltiplicate: anche solo i lavori della Metro C, per esempio, impongono di diminuire lo stress subìto dai monumenti, e di ridare visibilità a questi ultimi, allentando la morsa del traffico e aumentando lo spazio per i visitatori. Tutto bene, dunque? Sì, purché l’annuncio clamoroso di Marino sia la parte emersa e mediatica di un progetto di città, e non un gesto fine a se stesso e isolato.
INDUCE a qualche timore l’entusiastica citazione del modello Firenze da parte del neosindaco di Roma. Se chiedete a un fiorentino cosa ha fatto, di concreto, l'amministrazione di Matteo Renzi, questi risponderà – ormai con più di un filo di ironia – che ha pedonalizzato piazza del Duomo: che è in effetti l’unico vero cambiamento che si può accreditare all’ex rottamatore. Ma a guardar bene non è per nulla un successo: si tratta dell’ennesimo passo verso la musealizzazione e la turisticizzazione di Firenze. Un altro passo verso il disastro di Venezia, insomma. La pedonalizzazione, infatti, è stata fatta dall’oggi al domani, ed è stata concepita non come una misura urbanistica, ma solo come un provvedimento stradale. E il risultato è che la piazza appartiene ancor meno ai cittadini (che non riescono a raggiungerla con mezzi pubblici), e che le attività commerciali sono sempre più da luna park.
COSÌ, OGGI piazza del Duomo non è più una piazza, se per piazza si intende uno spazio pubblico animato dalla vita civile. Ecco, la speranza è che Marino non segua il modello Renzi, ma ne costruisca uno suo: all’altezza del suo ambizioso programma di governo. Cominciando dalla squadra di governo: laddove Renzi si è circondato di mezze figure che non rischiassero di fargli ombra, si spera che Marino scelga invece delle vere competenze. Potrebbe, per esempio, avere un ruolo importante l’archeologa Rita Paris, appena eletta con Marino in consiglio comunale, che ha combattuto con efficacia l’abusivismo sull’Appia, e dirige il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. È molto significativo che la Paris abbia sposato con entusiasmo l’idea di prolungare fino almeno al Colosseo la linea 8 del tram: solo con un servizio pubblico (possibilmente ecocompatibile come il tram) i Fori potranno tornare a essere parte della città.
Perché è questo il punto vero. Occorre un progetto didattico che restituisca una leggibilità archeologica e storica ai Fori per chi li vede per la prima (e magari unica) volta nella vita, e occorre certo ripulirli dalla umiliante presenza terzomondista dei camion-bar e dei penosi personaggi in costume da gladiatore o centurione. Ma occorre soprattutto reintegrare i Fori nella città, rigettando radicalmente la visione fascista o cinematografica che ce li ha consegnati come retorico sfondo di parate, eventi o spettacoli vari.
È dunque vitale che chiudere i Fori voglia dire, in realtà, aprirli. Aprirli alle gite domenicali dei romani in bicicletta, alle passeggiate delle famiglie, a un tempo liberato che renda consapevoli i cittadini della storia straordinaria della loro città.
E SOPRATTUTTO che aumenti la qualità della loro vita. L’errore cruciale della cosiddetta “valorizzazione” dei centri storici delle città d'arte italiane è quello che li vuole infiocchettare e trasformare in tante San Gimignano o Alberobello. Il destinatario elettivo di queste operazione di make up è sempre e solo il turista, nuovo signore delle nostre città.
Ai cittadini, invece, tocca vivere in periferie inguardabili a cui nessuno ha il coraggio di por mano. Per non ripetere questo errore, il sindaco Marino deve avere molto coraggio, e deve riprendere in seria considerazione l’idea che l’Italia Nostra di Cederna avanzò negli anni Settanta: quella di realizzare una “spina verde” che trasformi “in vero ‘parco archeologico’ tutta la zona monumentale che va dall’Appia Antica e attraverso la via di San Gregorio (già dei Trionfi), Colosseo, Foro Romano e Fori Imperiali arriva praticamente alle soglie di piazza Venezia”.
È una scommessa, scriveva Cederna, non sulla salvezza dei Fori, ma sul “riscatto del centro storico di Roma”.
Se il chirurgo genovese facesse suo questo progetto, e fosse capace di realizzarlo, lascerebbe davvero il suo nome negli annali della storia romana: altro che Gianni Alemanno, o Matteo Renzi.

Corriere 13.6.13
Politica e società civile
Un divorzio consensuale
di Giuseppe De Rita


Nel momento in cui la politica, puntellata da qualche comitato di saggi, cerca di risistemare i suoi assetti interni (di governo e di funzionamento istituzionale) sembra giunta anche l'ora di ripensare il rapporto fra politica e società civile, un rapporto sempre più stanco e inerte.
Non ho mai molto amato l'enfasi accumulata sul termine «società civile», anche se sono stato fra i primi ad apprezzare la propensione dei partiti ad immettere nelle proprie linee esponenti di rilievo dell'economia e della società. La cosa iniziò con gli «esterni» nella Dc demitiana e gli «indipendenti di sinistra» nel Partito comunista. Erano personaggi davvero notevoli (solo che si pensi ad Andreatta, Lipari, Scoppola, Ruffilli, Ossicini, Napoleoni, ecc.). Ed in brevissimo tempo la loro carica elitaria stabilì una implicita superiorità della società rispetto ad una politica tutto sommato banale, fatta da tanto mestiere e da tanta frequentazione del consenso popolare.
Quella «aura» di superiorità è rimasta impressa per decenni in un'opinione pubblica convinta che nella società civile ci fosse il meglio e nella politica ci fosse il peggio; e i partiti furono quindi spinti ad attrarre e cooptare quanta più società civile possibile, confrontandosi in permanenza con i suoi giudizi e i suoi orientamenti. Oggi le cose sono profondamente mutate: personaggi del livello citato non ce ne sono più; i cooptati dalla politica (anche quando vengono da mondi associativi con alta professionalità e forte senso politico) rischiano di non avere spazi di leadership, nell'immagine come nella funzione; il confronto culturale fra i due mondi è spesso ridotto a ibridi compromessi. Ed avviene, come sta avvenendo, che la politica tenda a prescindere dalla dinamica della società e dei suoi concreti protagonisti; preferisce i «saggi», più professorali e più freddamente funzionali alle proprie strategie.
La trentennale stagione della società civile «inverata» nella politica sembra giunta al termine. E non a caso in essa si affermano tendenze non alla collaborazione, ma alla contestazione della politica, quasi confinanti con l'antipolitica. In nome di una ormai esausta superiorità essa pretende nuovi programmi e nuovi soggetti politici, la cui bassa qualità rischia di assorbire le pulsioni populiste espresse dai vari ceti sociali.
Società civile e politica sono quindi destinati a una decadenza progressiva del loro rapporto, e ad un distacco dei loro rispettivi destini. La politica proceda allora nei suoi faticosi processi di ristrutturazione interna e di sperimentazione di nuove leadership; mentre la società civile faccia lo stesso percorso, in una crescente e necessaria autonomia dalla politica. Il meticciamento fra i due mondi non ha avuto successo, ognuno di essi torni quindi a riprendere la propria orgogliosa via di sviluppo. Sarà più facile per la politica che ha le sue sedi di condensazione del cambiamento; più difficile sarà per i tanti soggetti socioeconomici trovare processi, strade e sedi nuove per esplicitare pubblicamente la loro autonoma crescita. Il cammino sarà necessariamente faticoso, ma vale almeno la pena di avviarlo, fuori della inerte zona d'ombra in cui vivacchia oggi il rapporto fra politica e società civile.

Repubblica 13.6.13
Astensionismo, se la democrazia funziona al 50%
di Filippo Ceccarelli


Quanti allarmi andati a vuoto. Quante vane geremiadi sull’apatia la rabbia e la sfiducia che si intrecciano con l’individualismo
Al risultato hanno certo contribuito le denunce sui costi e sui brogli oltre al caos sui sistemi e le leggi elettorali

Aiuto: sotto il 50 per cento degli elettori la democrazia, o quel che ne resta, smobilita. Meglio accorgersene tardi che mai.
Però quanti allarmi del lunedì riecheggiati a vuoto; quante vane geremiadi sull’apatia, la rabbia e la sfiducia che andavano intrecciandosi con l’eterno individualismo italiano, con quell’istinto di furba noncuranza e anarcoide “particulare” che già spinsero Guicciardini a scrivere: «E spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso...».
Spesso, si badi, non sempre. E non solo perché l’esercizio del voto è stato a lungo, per legge, «un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese». Una norma prevedeva addirittura per gli astenuti l’esposizione in una specie di gogna, l’albo comunale, così come la menzione “Non ha votato” era da registrarsi nel certificato di buona condotta.
Nel 1993 la nascente Seconda Repubblica cancellò quella legge e quelle sanzioni, peraltro mai applicate, delegando la questione al dettato costituzionale che all’articolo 48 definisce il voto un “dovere civico”. Per la verità, i Padri costituenti discussero se considerarlo un dovere anche “morale”. Chissà cosa penserebbero oggi nell’apprendere che tra le ragioni della scarsa affluenza al primo turno per il Campidoglio c’è chi ha segnalato il derby Roma- Lazio.
Era quell’Italia un paese appassionato di elezioni, oltre che di partite. Il record della partecipazione, 93,8 per cento, fu toccato nel 1953; e neanche a farlo apposta, proprio al termine di quella campagna elettorale Nicola Adelfi scrisse sull’Europeo che oltre al simultaneo svolgersi del Mese mariano, dell’incoronazione di Elisabetta II d’Inghilterra e all’uscita del Millecento Fiat, anche – e proprio! – la sconfitta calcistica dell’Italia da parte della selezione ungherese (3 a 0) aveva contribuito ad affollare le urne, galvanizzando gli elettori comunisti e suscitando in quelli di destra il desiderio di una rivincita per l’orgoglio nazionale ferito.
Tutto insomma incoraggiava il voto, dopo vent’anni di dittatura. I partiti, è vero, ci mettevano del loro, le foto d’epoca illustrano uno sforzo organizzativo commovente e capillare, camion, pullman, istituti religiosi, accompagnamento ai seggi di
ammalati e di anziani. Le passioni e le tensioni ideologiche, l’esistenza di “nemici per la pelle” facevano il resto.
Così fino agli albori del “riflusso”, che corrisponde alle politiche del 1979, l’astensione non andò oltre il 7-8 per cento. Ma adesso che quella modesta quota si è moltiplicata per sei e che l’assenteismo sta per sfondare il 50 per cento, diventa un’impresa anche solo chiedersi cosa diavolo ha gonfiato a dismisura il partito invisibile della fuga e cosa c’è dietro l’attrazione del vuoto, l’energia dell’assenza, il potere della collera che si fa estraneità, disgusto, rifiuto. Altro che “disaffezione”, come pure per anni si è cercato di edulcorare il fenomeno.
E certo colpisce la povertà di analisi, di coraggio e fantasia al riguardo. Per cui le spiegazioni sono tante, o meglio sono troppe, che poi sarebbe un modo per dire che la faccenda è scivolosa, e quando le cause si confondono con le conseguenze vuol dire trovarsi nel cuore della crisi democratica.
Certo, anche al netto della fine del partito di massa, non ha giovato l’inflazione di referendum falliti, né la periodica tiritera «Andate al mare» (Craxi) o «Restate a casa» (Berlusconi) e neppure l’imprevidente scorciatoia «non partecipo quindi vinco»
con cui un po’ tutti, compresi i vescovi, hanno finito per demoralizzare le scelte dei cittadini.
Allo stesso esito devono poi aver contribuito le ricorrenti recriminazioni sui costi delle elezioni e sui presunti brogli, oltre al caos dei sistemi di voto, che in Italia sono sette, record europeo di complicazione. Senza contare la pigrizia e la voglia di non sporcarsi le mani, il ribellismo e l’ignoranza, la stanchezza, il menefreghismo e la passività.
Ma è anche possibile che su un altro piano c’entri una politica ridotta ad annunci, consacrazioni e risse da talk-show, certe asprezze maggioritarie, una legge elettorale definita una “porcata” dal suo stesso autore, donde le bellone beneficate dal sovrano, i ladri nominati in Parlamento per non finire in galera e quanto porta il “dovere civico” a essere percepito come un inutile rito, un goffo alibi, comunque un’espressione ormai lontana dalla vita e dal cuore. E neanche più Grillo riesce a scaldare le urne.
E tuttavia nella diserzione di massa può esserci qualcosa di ancora più inconfessabile, tipo il calcolo che nel tempo della casta e dell’antipolitica, gli opposti estremismi della Terza Repubblica, le elezioni si vincono al ribasso: quanta meno gente vota, tanto più alta la probabilità di acchiappare il successo. Inutile dire che sopra, sotto e dietro tutte queste patologie s’indovina l’ombra del più inesorabile istinto di morte. E se la democrazia ha qualche opportunità di rinascere, ma in forme davvero nuove, è esattamente con esso che toccherà fare i conti.

Repubblica 13.6.13
Intervista a Roberto D’Alimonte
“Urne vuote? Non è un male”
di Concetto Vecchio


“Un sindaco eletto con il 45% dei votanti è legittimato pienamente. A Londra Boris Johnson è stato scelto da una platea del 38%. E a New York Bloomberg per tre volte con una percentuale sotto il 40”

Professor D’Alimonte, lei sostiene che il calo dei votanti non è per forza un male.
«Un alto livello di partecipazione non è necessariamente sinonimo di buona democrazia. Prenda il sindaco di Londra, Johnson: è stato eletto con un’affluenza del 38 per cento, quello di New York, Bloomberg, per tre volte con una percentuale di votanti al di sotto del 40 per cento. Da noi alle ultime politiche ha votato il 75 per cento, 15 punti in meno rispetto al 1979, quando è iniziata la parabola discendente della partecipazione al voto, ma ancora 5 punti in più rispetto alle ultime politiche in Germania, dieci in più rispetto all’elezione di Cameron in Inghilterra e sedici in più rispetto alle politiche del 2012 in Giappone».
Ma da noi l’astensione è sempre stata vista come un fenomeno negativo.
«Il voto era obbligatorio. C’è questo imprinting che risale al ’48, quando la Dc, preoccupata della possibile affermazione dei comunisti, enfatizzò il dovere delle urne, specie tra i ceti popolari e i contadini, con la minaccia che il mancato voto sarebbe stato registrato sul certificato di buona condotta. Nei piccoli paesi meridionali i nomi dei non votanti finivano addirittura esposti negli albi comunali».
Quali sono gli altri motivi del calo della partecipazione?
«La fine delle ideologie, con la scomparsa dei partiti di massa; l’invecchiamento della popolazione, i vecchi non vanno a votare; la crisi economica, che ha alimentato rabbia e protesta, ma allo stesso tempo ha privato la classe politica delle risorse per alimentare il voto di scambio. Le chiedo: la partecipazione frutto del voto di scambio era buona o cattiva? Alle ultime regionali solo il 13% dei lombardi ha espresso una preferenza, contro l’84% dei calabresi. Ora non mi pare che la qualità della democrazia in Lombardia sia minore che in Calabria».
Quindi oggi va a votare chi è davvero motivato?
«È motivato diversamente. Ad esempio a livello locale conta molto la spinta di votare i candidati che si conoscono, che danno affidamento. Il che spiega perché Grillo non sfondi nelle amministrative. Siamo diventati più laici, il che comporta che il voto è diventato più fluido, più volatile, e questo non riguarda solo gli spostamenti tra i partiti, ma anche l’astensionismo, che è determinato dal ciclo economico e politico, ma anche dalle persone in campo. La personalizzazione è un dato di fatto con cui bisogna fare i conti. Ci dobbiamo abituare ad un astensionismo che salirà e scenderà a seconda delle circostanze».
Quindi quel 45 per cento di votanti a Roma sta indicare che Alemanno e Marino siano stati percepiti come candidati deboli?
«La mia sensazione è che né Alemanno né Marino erano sufficientemente appealing.
Del resto su Alemanno c’erano sondaggi che testimoniavano uno scarso gradimento per il suo operato».
Ma c’è una soglia sotto la quale l’astensionismo diventa allarmante?
«Beh, se andasse a votare solo il 10% bisognerebbe porsi delle domande, ma un sindaco eletto con il 45% dei voti da un punto di vista funzionale è pienamente legittimato, e lo dimostrano gli esempi stranieri che le ho fatto».
Grillo ha ballato una sola stagione?
«È presto per dirlo. Dopo le politiche, in cui ha toccato l’apice, grazie agli errori fatti dagli altri partiti, in particolare dal Pd, a cui ha sottratto tanti voti insieme alla Lega, è cominciata la discesa, ma non sappiamo ancora dove si fermerà».

Repubblica 13.6.13
Intervista a Elisabetta Gualmini
“Da marginali a protagonisti”
di Michele Smargiassi


“Sono loro ormai che contano, più degli altri Spaventano i partiti, li minacciano. Dettano l’agenda, decidono chi vince e chi perde Sono i nuovi primi attori sulla scena elettorale”

Non sono rinunciatari, votano non votando. Non sono muti spettatori, ma attori politici decisivi. Gli astenuti sono diventati astensionisti, figure inedite ma determinanti dello scenario politico italiano. Per Elisabetta Gualmini, presidente dell’Istituto Cattaneo di Bologna, quando un italiano su due non va alle urne non è più il caso di parlare di “non scelta”.
Come è cambiato il non votante, professoressa?
«L’astenuto tradizionale, l’elettore stanco, malato, pigro o indifferente, esiste ancora. Ma accanto a lui è cresciuto l’astensionista razionale, analitico, sofisticato: il cittadino critico che considera il non voto come una opzione politica».
Da dove viene l’“astensionismo attivo”?
«Il votante tradizionale tendeva a scegliere, nel menù elettorale, il partito più vicino ai propri ideali e interessi, salvo delusione. Ma la velocità e l’abbondanza dei canali di informazione, oggi, stringe i tempi e approfondisce il “pentimento” post-elettorale. La domanda politica si fa sempre meno elastica, più esigente. Se sul menù della scheda l’elettore non trova il “suo” candidato congruo, decisivo, ficcante, tende a prefigurarsi la delusione, e a scegliere l’astensione».
L’astensionista può tornare a votare in qualsiasi momento?
«In molte democrazie è così: c’è rimescolamento costante fra elettori attivi e astenuti. Da noi c’è più inerzia: l’astensionismo tende a diventare cronico, chi non vota una volta tende a non votare più. Paradossalmente, è l’elettorato più fedele... I dati storici lo dimostrano. Il picco della partecipazione furono le politiche del ’76, quando la paura del “sorpasso” del Pci sulla Dc riempì i seggi. Dal ’79 in poi, però è calata costantemente, senza altalene. Ma è possibile che un populismo più aggressivo di quelli che conosciamo possa riuscire a invertire la tendenza».
Chi è l’astensionista medio?
«L’astenuto era tradizionalmente anziano, donna e giovane. A partire dagli anni Novanta, la quota dei giovani è cresciuta più delle altre componenti. Il movimento Cinquestelle è riuscito solo a rallentare la tendenza fra i giovani, ma in modo non permanente, tant’è che alle amministrative, che sono elezioni meno “potenti” delle politiche, lo scivolamento nel non voto è ripartito».
Tuttavia, secondo lei, anche questo non-voto sta diventando politicamente consapevole di se stesso.
«Gli astensionisti, a differenza degli astenuti, vogliono “dire” la loro scelta. Lanciano messaggi e si attendono di leggere risposte, se non altro per confermare di avere avuto ragione. Sono cittadini sempre meno marginali e socialmente deboli, il baricentro geografico dell’astensione emigra al centronord, quello anagrafico verso i giovani, quello sociale verso le classi colte e benestanti. L’astensione è uno degli elementi della fluidità politica, accanto a un elettorato attivo che alle ultime politiche ha cambiato scelta in quattro casi su dieci».
Proporrebbe allora di sostituire, nei risultati elettorali, le percentuali sui votanti con quelle sugli elettori?
«Le percentuali descrivono solo i rapporti di forza. Dovremmo cominciare a parlare di cifre assolute, è questa la misura del consenso reale dei partiti».
Non è più vero che “chi non vota non conta”?
«L’astensionismo conta eccome. Dal suo apparente silenzio minaccia i partiti, li spaventa, li domina. Sono gli astensionisti, ormai, che decidono chi vince e chi perde. Sono loro che dettano l’agenda, sono i nuovi protagonisti della scena politica».

Repubblica 13.6.13
Decreto anti-sovraffollamento
Carceri, ecco il piano per svuotarle escono prima in 4mila
Il governo: liberazione anticipata e lavoro ai detenuti
di Liana Milella


Napolitano e Cancellieri la considerano «una delle più gravi emergenze del Paese», al punto da rendere necessario un decreto legge. Sulle carceri, una manovra urgente come quella che sarà approvata tra venerdì e sabato (la data è ballerina) non si ipotizzava da tempo. Ma stavolta il ministero della Giustizia è deciso a portare a casa un pacchetto che potrebbe ridurre i detenuti, tra vecchi e nuovi ingressi, di circa 3.500-4mila persone. Quattro punti chiave: pene alternative alle patrie galere per delitti puniti fino a 4 anni, mentre oggi il tetto si ferma a 3 anni, e per un parterre di reati più ampio rispetto a quello ristretto di oggi. Margini più ampi per il binomio liberazione anticipata e affidamento in prova (oggi bloccato a 3 anni). Ricorso più massiccio al lavoro esterno per chi, comunque, continua a vivere in carcere. Meno detenzione per il tossicodipendente che delinque.
Il decreto, in queste ore, è una sorta di “cantiere aperto”. Ne circolano più versioni. Fino all’ingresso a palazzo Chigi sono possibili modifiche. Ma un fatto è certo. Tra il Guardasigilli Anna Maria Cancellieri e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano c’è la sintonia necessaria per utilizzare lo strumento del decreto. Del resto, la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sui 3 metri obbligatori per ogni detenuto, con l’obbligo di cambiare lo stato attuale entro maggio 2014, crea le condizioni
per utilizzare uno strumento urgente. Che farà discutere chi ritiene che gli autori di certi reati, come il furto in casa, non debba fruire di ulteriori agevolazioni di pena.
Del resto, anche il Parlamento si muove in questa direzione. La presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, d’accordo con il capogruppo del Pdl Enrico Costa, sta lavorando per ampliare la famosa “messa in prova”, istituto che consente di evitare processo e condanna per chi accetta di scontare la pena con lavori di pubblica utilità. Dal tetto dei 4 anni previsti si passerebbe ad applicarlo anche a furti aggravati e ricettazioni. Non basta. Il giudice dovrà valutare se dare gli arresti domiciliari per pene fino a 6 anni. Erano 4 anni con il ddl Severino. In più un senatore, Luigi Manconi, e un deputato, Sandro Gozi, hanno presentato proposte su indulto e amnistia. Cancellieri risponde che ciò dipende dal Parlamento.
Più pene alternative.
Passa da 3 a 4 anni, per i condannati definitivi, il tetto della pena che consente di chiedere una misura alternativa al carcere. Già oggi, con una condanna fino a 3 anni, non si va in cella, ma si ottiene una sospensione per 30 giorni, nei quali
chiedere una misura alternativa. Con il decreto, si guadagna un anno. Restano esclusi i reati gravi, ma cade l’attuale limitazione per i detenuti pericolosi e per quelli che hanno commesso più volte lo stesso delitto, i cosiddetti recidivi reiterati. Maglie più larghe anche per il tipo di crimini commessi, ad esempio potrà ottenere l’accesso al lavoro alternativo al carcere chi ha fatto un furto in casa o chi ha appiccato un incendio nei boschi, ma soprattutto gli immigrati clandestini che abbiano compiuto un reato.
Liberazione anticipata.
È la misura più soggetta a modifiche prima di licenziare il decreto. Un’ipotesi prevede di aumentare l’attuale abbuono di un mese e mezzo ogni sei per il detenuto modello, portandolo a due mesi. In pratica, un bonus di 2 mesi ogni 4 scontati. Varrebbe per tutti i reati, anche quelli gravi, in caso di condotta meritevole.
Lavoro esterno.
Più ampio l’accesso al lavoro esterno al carcere dopo aver scontato un terzo della pena e 10 anni se la condanna è all’ergastolo.
Droga.
Agevolazioni per il tossicodipendente che commette reati non particolarmente gravi. Non entrerà in carcere, ma potrà fare lavori di pubblica utilità. Cade il limite dei reati di lieve entità e potrà fruirne anche chi ha commesso delitti più gravi.

Repubblica 13.6.13
Pagano, vicedirettore del Dap ed ex direttore di San Vittore: così la mappa degli ampliamenti
“Presto migliaia di nuovi posti ma va cambiata anche la Cirielli”
di Alberto Custodero


ROMA — «Il governo deve intervenire sulla legge ex Cirielli, che impedisce in caso di recidiva il ricorso alle misure alternative». «Questa misura — spiega Luigi Pagano, vicedirettore del Dap e per molti anni direttore del carcere di San Vittore — insieme a buone idee e a un ammodernamento del circuito carcerario, può finalmente offrire una soluzione concreta alla annosa questione del sovraffollamento».
Dottor Pagano, cosa state facendo per rendere meno disumane le condizioni di vita dietro le sbarre?
«Stanno per aprire migliaia di nuovi posti. E nel contempo si ampliano gli spazi nelle prigioni che consentono ai carcerati di vivere in condizioni più umane».
Si parla da anni di nuovi posti, ma non si vedono mai inaugurazioni. Può fare qualche esempio?
«Fra breve apriranno nuove strutture a Sassari e Cagliari. A Oristano e Tempio Pausania
sono già state aperte, poi apriranno a Voghera, Pavia e Cremona per un totale di 700 posti in Lombardia. Sono in corso ristrutturazione due reparti a San Vittore per altri 600 posti. Tra la fine di giugno e i primi di luglio saranno inaugurate nuove strutture a Reggio Calabria per altri 300 posti. Nuove strutture anche a Modena, nel Casertano per 200 posti, e poi a Catanzaro, 200 posti».
A cosa si riferisce quando parla di buone idee?
«Mandare un centinaio di detenuti a lavorare a Pianosa, ad esempio. Attenzione, non si tratta di riaprire il carcere dell’isola toscana, ma di creare là attività lavorative di recupero».
Cosa è previsto per il recupero sociale del carcerato, obiettivo previsto dalla Costituzione?
«L’intervento legislativo del governo deve aumentare il ricorso delle misure alternative. Si tratta sempre di “punizioni”, ma alternative alla cella, che consentono tra l’altro di offrire maggiore sicurezza alla società».
In che senso?
«Le statistiche ci insegnano che tra quelli che escono dalla prigione, la recidiva è ottanta volte inferiore tra chi ha seguito percorsi di messa in prova e di misure alternative. Bisogna armonizzare tutti gli interventi. Interventi legislativi che incidano sugli ingressi in carcere, riducendoli. Nello stesso tempo si aumentano gli spazi nelle prigioni per far sì che i detenuti in cella si rechino solo per dormire. Infine, occorre coinvolgere imprenditori esterni, enti locali e società civile per reinserire i detenuti in un circuito lavorativo. Solo così le misure del governo potranno risolvere il problema del sovraffollamento».

Repubblica 13.6.13
Le porte aperte al Grande Fratello
di Stefano Rodotà


SI PUÒ e si deve essere indignati e scandalizzati dalla notizia di una rete elettronica di sorveglianza con la quale gli Stati Uniti hanno avvolto il mondo. Ma non ci si può dire sorpresi. Da anni, infatti, si assiste ad una convergenza tra sottovalutazione della privacy, crescita degli strumenti elettronici di controllo, enfasi posta sulla lotta al terrorismo ed alla criminalità. E non sono mancate le informazioni che mostravano come soggetti pubblici e privati avessero adottato, con diversi gradi di intensità, la logica secondo la quale la semplice esistenza di tecnologie sempre più penetranti e pervasive legittimava il ricorso ad esse in qualsiasi situazione.
Si stava abbattendo sull'intero pianeta quello che, già nel 2008, un gruppo di ricerca dell'Unione europea definiva un “digital tsunami”, destinato a travolgere gli strumenti giuridici che garantiscono non solo l'identità, ma la stessa libertà delle persone, aprendo la strada a una radicale trasformazione delle nostre organizzazioni sociali, che vuol far diventare la sicurezza l'unico criterio di riferimento. Soggetti pubblici e privati si sono impadroniti di questa nuova opportunità, mentre rimanevano deboli o inesistenti le reazioni politiche.
Evenivano dileggiati o trascurati gli allarmi delle associazioni dei diritti civili e del “popolo della rete”. Sempre nel 2008, il rapporto di una di queste associazioni, Statewatch, criticava duramente l'abbandono del principio secondo il quale le raccolte private di informazioni sulle persone devono essere garantite contro l'accesso generalizzato da parte dello Stato a favore dell'opposto principio, che legittima l'accesso a qualsiasi dato personale con l'argomento, appunto, della sicurezza.
Questo scivolamento verso forme di democrazia “protetta” è ormai davanti ai nostri occhi, ed è stato descritto con i dettagli che ormai conosciamo bene e che mettono in evidenza come i tabulati telefonici, gli accessi a Internet, l'uso delle carte di credito, il passaggio quotidiano davanti a telecamere di sorveglianza, e via elencando, compongano un paesaggio all'interno del quale si muove una persona che lascia continue tracce, implacabilmente seguite, che consentono un ininterrotto “data mining”, una possibilità di sottoporre ogni individuo ad una sorveglianza continua attingendo all'universo sterminato delle banche dati come ad una miniera a cielo aperto. Non più la “folla solitaria” delle metropoli, dove la persona poteva scomparire, ma persone “nude”, spogliate d'intimità e di diritti.
Questo è il mondo nuovo che descrive il “Datagate”. Un mondo pazientemente costruito anche con iniziative costituzionali, che negli Stati Uniti sono state definite con nomi come Patriot Act e, oggi, Prism. Iniziative che hanno una lunga storia e che, in altri momenti, si è cercato di contrastare. Vorrei ricordare che, proprio all'indomani dell'11 settembre, il Gruppo dei garanti europei per la privacy, per iniziativa dell'Italia, sollevò con molta forza il problema e ingaggiò un vero braccio di ferro con l'amministrazione americana che, per la prima volta nella sua storia, si dotava di un ministero dell'Interno, il Department of Homeland Security. I termini del conflitto furono subito chiarissimi. Si partiva dai dati dei passeggeri delle linee aeree, di cui si voleva conoscere ogni minuto dettaglio, dal modo in cui era stato acquistato il biglietto alla eventuale dichiarazione di abitudini alimentari. Non si dava nessuna vera garanzia sul modo in cui quei dati sarebbero stati utilizzati e sulle concrete possibilità di ricorso a un giudice nel caso di violazioni. Compariva con chiarezza la cancellazione tra dati raccolti da soggetti pubblici o da soggetti privati, e si creava un gigantesco conglomerato all'interno del quale le varie agenzie per la sicurezza avrebbero potuto muoversi liberamente. La questione assumeva una rilevantissima importanza politica, perché implicava la capacità dell'Unione europea di difendere efficacemente il diritto d'ogni persona alla protezione dei dati personali, la cui rilevanza e autonomia erano state appena riconosciute dalla Carta dei diritti fondamentali del 2000. Emerse allora una sorta di schizofrenia istituzionale, con un'alleanza tra Parlamento europeo e Gruppo dei garanti, mentre la Commissione finiva troppo spesso per comportarsi più come portavoce che come controparte delle pretese degli Stati Uniti. Ci accorgiamo oggi del fatto che, in quel conflitto, erano presenti tutti gli elementi che oggi ritroviamo nel Prism. Mancanza di tutele effettive (la corte di garanzia agisce in segreto), accesso all'enorme serbatoio offerto da soggetti privati come Google o Facebook, nessun rispetto dei diritti dei cittadini degli altri paesi, ai quali si negano i diritti esercitabili da quelli americani. Allora si riuscì ad ottenere qualche risultato non trascurabile. Ma oggi? Che cosa si intende fare di fronte a una situazione assai più grave di quelle del passato?
La Commissione europea, dopo essere stata reticente di fronte alle interrogazioni dei parlamentari che chiedevano informazioni perché già circolavano notizie sulla rete americana di sorveglianza, non ha reagito con l'immediatezza e la decisione che sarebbero state necessarie, confermando una sorta di subalternità di fronte agli Stati Uniti, evidente in molti casi degli anni passati in cui assai debole è stata la sua difesa della privacy. Dal Parlamento si dovrebbe attendere una reazione non ispirata alle reticenze con le quali, all'inizio del 2000, venne affrontato il caso allarmante della rete di sorveglianza più nota all'epoca, Echelon. E gli Stati europei? Un segnale sembra venire solo dalla Germania. Inquieta la passività degli altri, prigionieri tutti della logica di una sicurezza insofferente d'ogni limite, tanto che più d'un paese europeo si esercita anch'esso in spericolate iniziative di sorveglianza. Il Governo italiano rimarrà parte di questo coro silenzioso?
Bisogna ripetere che, di fronte a vicende come questa, la parola privacy è inadeguata o, meglio, deve essere sempre più intesa come un riferimento che dà fondamento concreto a questioni ineludibili di libertà e democrazia. L'erosione della privacy, la sua negazione come diritto e come regola sociale, non avviene soltanto all'insegna della sicurezza, ma anche di una pressione economica di tutte quelle imprese che vogliono considerare i dati personali come proprietà loro, come una tra le tante risorse liberamente disponibili. Espropriata dei suoi dati, la persona si fa merce tra le altre. Libertà e democrazia, dunque, rischiano d'essere schiacciate nella tenaglia di sicurezza e mercato.
Terra di diritti, regione del mondo dove più alta è la tutela comune della privacy, proprio in questo momento l'Europa deve essere consapevole di avere la responsabilità di poter essere un attore decisivo in questa grande partita politica. Nel momento drammatico del conflitto seguito all'11 settembre, nel febbraio del 2002, la più grande organizzazione americana per la tutela dei diritti civili, l'American Civil Liberties Union, pubblicò un documento con il quale invitava l'amministrazione americana ad abbandonare la pretesa di imporre all'Europa le proprie regole, facendo propri, invece, i principi di libertà che in quel momento gli europei difendevano. Oggi dovremmo avere memoria di quelle parole, creando le condizioni perché possano ancora essere pronunciate.

La Stampa 13.6.13
I mille volti di piazza Taksim la rivoluzione senza leader
Ecologisti, ultrà, studenti e sindacalisti ma nessun partito-guida
Ogni mattina puliscono Geki Parki: «Lo lasceremo meglio di come l’abbiamo trovato»
di Marta Ottaviani


I giovani di Geki Parki hanno improvvisato persino un ospedale da campo con studenti di medicina e medici volontari La protesta per ora non ha ceduto a provocazioni ed è rimasta calma

Sono come uno splendido mosaico. Tessere che vanno a comporre una società civile e un sottobosco politico di una Turchia ritrovata e che molti temevano perduto per sempre. Le anime che hanno cercato di salvare Gezi Parki e di dare una scossa alla coscienza democratica del Paese sono decine.
I sindacati, che negli ultimi anni sono tornati a assumere un ruolo nella vita quotidiana del Paese, dopo essere stati praticamente rasi a zero dopo il colpo di Stato del 1980. Organizzazioni ambientaliste, spesso in rotta di collisione con l’esecutivo come la Dogan Dernegi, che per anni ha lottato contro la costruzione della diga sul Tigri ad Hasankeyif, nell’est del Paese, o le associazioni di omosessuali, che da tempo accusano il premier di stretta conservatrice sulla vita quotidiana.
Ci sono le tifoserie di Besiktas, Galatasaray e Fenerbahçe, che hanno dato vita a una sorta di «Triplice Allenza», con tanto di sciarpa commemorativa che chissà quando si rivedrà mai. Ci sono i collettivi di studenti delle università. C’è, ed è una delle presenze più importanti, quella «terza Turchia» formata da giovani ma anche da gente intorno alla mezza età. Vengono da movimenti socialisti e comunisti, non si identificano in nessun partito e spesso non votano. Per loro la piazza è il mezzo non solo per protestare ma per riproporre sulla scena politica movimenti schiacciati dai militari e dimenticati dalla gente.
Poi ci sono i curdi che non hanno sposato l’atteggiamento neutro tenuto dal Bdp, il Partito curdo per la Pace e la Democrazia, impegnato con il governo e il Pkk in una difficile trattativa per la fine della lotta armata e la soluzione dei problemi della minoranza e che quindi hanno tenuto un profilo basso in tutta questa faccenda.
E c’è il Chp, il Partito di opposizione e di orientamento laico, ma è una presenza minore. È una piazza che non ha riferimento politici in parlamento. Studenti e lavoratori, che hanno occupato facendo i turni, chi poteva veniva di giorno, chi lavorava gli dava il cambio appena uscito dall’ufficio.
Gezi Parki sorprende per la spontaneità con la quale i manifestanti hanno dato vita a un’occupazione che è cresciuta nel tempo, e sorprende per come persone con un background politico, ideologico, a volte anche sociale, così diverso abbiano potuto convivere insieme per due settimane. L’organizzazione è stata impeccabile. Nella notte fra martedì e mercoledì, mentre la polizia sgomberava Taksim e attorno al parco si ripetevano le scene di guerriglia urbana senza precedenti, all’interno del parco ci si preparava al peggio. Sono stati isolati alcuni viali per dare vita a un piccolo ospedale. Studenti della facoltà di medicina, con dottori volontari, facevano giri di ricognizione per vedere che non ci fosse gente coinvolta negli scontri. Tanta preoccupazione tra la gente, soprattutto i più giovani, ma anche la consapevolezza che le due settimane di rivolta segnano un punto di non ritorno nella storia del Paese. «Abbiamo già vinto - dicono i tifosi del Besiktas -. Qui ci sono tante Turchie diverse che dicono no a una Turchia che non ci piace».
Dal palco dove le sere prima venivano trasmessi dibattiti, documentari e musica, arrivavano inviti alla calma e aggiornamenti sulla situazione. Sono stati proprio loro ad annunciare che l’hotel Divan, di fronte alla parte nord del parco, aveva messo a disposizione la sua hall al personale sanitario, distribuendo anche generi di primo conforto. I più coraggiosi a un certo punto si sono persino messi a dormire «tanto se caricano, con i lacrimogeni prima ci svegliano di sicuro».
Ieri all’alba il parco era semideserto, è tornato a riempirsi ieri sera per quella che potrebbe essere la loro ultima notte insieme. Ma nonostante tutto, alle prime luci del giorno i ragazzi di Gezi Parki si sono messi a pulire come tutte le mattine. «Abbiamo iniziato a scendere in piazza per il nostro parco - dice Hakan, che studia cinema, viene da Ankara, ma che considera Gezi Parki a Istanbul il suo parco comunque -. Il premier dice che siamo dei saccheggiatori. Anche se ci mandano via glielo lasceremo meglio di come lo abbiamo trovato».

l’Unità 13.6.13
Yasemin Taskin
Giornalista e scrittrice turca: «L’Europa aiuti il mio Paese a preservare la convivenza tra le sue anime. Anche accelerando i negoziati per l’ingresso nell’Ue»
«La piazza giovane sfida i padri»
di U. D. G.


«A ribellarsi è la generazione degli Anni Novanta, che non accetta la restrizione dei diritti, delle libertà individuali e che si ribella contro chi vorrebbe modificare forzatamente i suoi stili di vita. È una piazza giovane, non organizzata, che si riconosce si ritrova grazie a Twitter, Facebook, i social network». I protagonisti di Piazza Taksim visti da Yasemin Taskin, scrittrice, corrispondente turca in Italia del giornale Sabah.
La Piazza e il Potere. Occupygezi ed Erdogan. Le due Turchie. Cominciamo dalla Piazza.
«È una piazza giovane, tra i 19 e i 30 anni. È la “generazione ‘90”. Sono ragazzi che vengono principalmente da famiglie borghesi, la gran parte di loro sono universitari, ma ci sono anche giovani lavoratori, manager... Sono scesi in piazza perché sentono per la prima volta messi in pericolo i loro stili di vita, le loro libertà individuali. Inoltre, è una generazione che tiene in gran conto l’ecologia, l’ambiente, e anche in questo senso si sentono usurpati dei loro ideali, espropriati di un diritto, quello al verde che ritengono un diritto importante, da difendere. La cosa che li accomuna è l’ecologia, sono i diritti individuali, è una visione delle libertà che fa del privato un fatto pubblico. È una generazione “apolitica”. Nel senso che a Gezi Park non hanno voluto i partiti né i movimenti politici organizzati. Non hanno leader e non si appoggiano a strutture definite. Sono in rete, si organizzano attraverso Twitter, Facebook... Quella in atto è anche la ribellione dei giovani contri i padri. E in questo senso si scontrano con l’autoritarismo del “padre-primo ministro”».
E qui veniamo al potere. E alla sua espressione massima: il primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Il premier sembra aver scelto al linea dura. Perché?
«Erdogan sta governando la Turchia da dieci anni. È stato eletto con elezioni democratiche, ottenendo il 49% dei voti. La genesi del suo potere non ha nulla a che vedere con regimi quali quelli contro cui la piazza si è rivoltata a Tunisi come in Egitto. Da dieci anni, economicamente Erdogan ha portato la Turchia a un livello molto elevato. Il Paese cresce in media del 5-6%. Inoltre, Erdogan è un leader molto apprezzato nell’opinione pubblica mediorientale. Per questo definirlo un dittatore è una forzatura. I risultati ottenuti gli danno la forza di sentirsi forte e adesso vorrebbe andare avanti con altri grandi progetti. Erdogan non cerca il consenso, non perché lo ritenga ininfluente, ma perché pensa che lo abbia già. Da qui le forzature operate».
Quali sono quelle che la «Generazione ‘90» ha ritenuto le più intollerabili?
«L’elenco è lungo. La legge contro l’aborto; il divieto sulla vendita degli alcolici, l’annuncio della chiusura del Teatro statale... Tutti questi divieti hanno allarmato la società civile che ha avuto la netta sensazione di una restrizione dei diritti democratici, Quelli a cui ho fatto riferimento, sono solo gli ultimi divieti. Erdogan ha forzato la mano, convinto di avere il consenso per farlo».
Ha così sottovalutato la piazza?
«Più che la piazza, ha sottovalutato l’incidenza di temi quali l’ecologia, le libertà individuali, hanno nel determinare i comportamenti dei giovani, soprattutto quelli delle fasce più acculturate, delle grandi città. E ha sottovalutato la reazione della Turchia laica, delle donne e degli uomini che, sia nell’ambito pubblico che nella sfera privata, sentono che la loro vita sta cambiando. Che qualcuno intende modificare forzatamente i loro stili di vita, omologandoli ad una visione unilaterale che ritengono inaccettabile».
In questo scenario, come dovrebbe comportarsi, a suo avviso, l’Europa. Cosa dovrebbe fare e cosa, invece, evitare? «L’Europa, a mio avviso, non dovrebbe vestire i panni del “moralizzatore”, piuttosto dovrebbe aiutare la Turchia a conciliare le sue varie “anime”, perché questa convivenza è una peculiarità preziosa del mio Paese, da preservare e rafforzare. La Turchia ha fatto molte riforme per democratizzare il Paese seguendo l’obiettivo dell’adesione alla Ue. E da quando questo obiettivo si è allontanato, si sono rallentate anche le riforme. Riprendere il cammino dell’adesione all’Ue, definendone i tempi, questo sì aiuterebbe la Turchia a sentirsi e ad essere più libera».

l’Unità 13.6.13
«Ci hanno trattato come terroristi»
Il capo del partito socialdemocratico di Istanbul, Satilmis: «Per il premier è campagna elettorale»
di Claudia Bruno


«Alle sette di mattina la polizia ha iniziato un attacco a Taksim. Abbiamo resistito il più a lungo possibile, dopo due ore gli agenti hanno preso il controllo della piazza e hanno assaltato il nostro quartier generale a Istanbul». Batis Satilmis, capo del partito socialdemocratico turco (Sdp) per la provincia di Istanbul, racconta gli eventi degli ultimi giorni, gli scontri tra polizia e manifestanti che hanno segnato una nuova escalation di violenza nel segno della tolleranza zero annunciata da Erdogan. «Quarantacinque nostri membri sono stati arrestati e appariranno in tribunale entro 4 giorni per la legge contro il terrorismo continua Satilmis -. Sono stati arrestati anche 50 avvocati nel palazzo di Giustizia perché protestavano contro l’assalto a Taksim, cosa del tutto illegale perché la polizia non può arrestare un avvocato senza l’autorizzazione di un giudice». I manifestanti hanno accusato polizia e governo di aver organizzato «uno show a favore di telecamere», trasmettendo in diretta sulle tv nazionali gli scontri tra poliziotti e ragazzi che lanciavano pietre e molotov. Alcuni dei manifestanti avevano in mano proprio le insegne dell’Sdp. Ma Satilmis non ci sta, anche se non crede alla montatura: «I membri del nostro partito hanno resistito all’attacco, non abbiamo usato molotov. Il governo e i media ci hanno preso come capri espiatori, come provocatori; ma la resistenza è stata una decisione collettiva. Noi siamo un partito legale e non abbiamo alcun legame con organizzazioni armate. Tutti lo sanno ma cercano di criminalizzarci: se ci trattano come terroristi, allora diventa anche normale arrestare gli avvocati che difendono questi terroristi. Esattamente come hanno fatto con i curdi in passato, e quando dico in passato intendo fino all’anno scorso».
Per cercare di allentare la tensione nel Paese, Erdogan ha incontrato un gruppo di 11 persone tra architetti, artisti e accademici. I rappresentanti dei manifestanti (costituitisi nella Piattaforma di solidarietà a Taksim, di cui fa parte anche l’Sdp) hanno però fatto sapere di non essere stati invitati. Per oggi è previsto un altro incontro tra Erdogan e Hülya Avsar, attrice e cantante turca. Una scelta che Satilmis critica: «Qualcuno alla Cnn ha commentato: “È un po’ come se Obama incontrasse Kim Kardashian per parlare di Occupy Wall Street”. Non hanno mai ascoltato le nostre richieste, né considerato l’idea di negoziare con noi. Erdogan è stato intransigente sin dall’inizio perché ha un atteggiamento da campagna elettorale. Vede tutto questo come una possibilità di consolidare la propria posizione fra i suoi elettori, è arrabbiato o finge di esserlo. Ha usato la retorica del “mio popolo” contro “i vandali”. Ma dopo un po’ tutti hanno capito che è un modo per unire la base dei suoi elettori dicendo “o noi o loro”». Una retorica che non intacca però la forza del movimento: «Queste persone hanno visto il loro reale potere per la prima volta, hanno visto il potere della resistenza. Dopo tre morti, oltre 5mila feriti e tutta questa crudeltà, la scorsa notte centinaia di migliaia di persone sono scese per strada in tutto il Paese. E il 90% di loro è nato negli anni ’90: queste persone porteranno un cambiamento in tutti gli aspetti della Turchia, dall’arena politica alla vita di tutti i giorni. Possiamo anche perdere ma abbiamo già vinto qualcosa che non potrà più essere tolto alla popolazione turca: il potere della resistenza, il potere delle persone che è più forte di ogni terrorismo di Stato. Possiamo cambiare, ci speriamo».

Repubblica 13.6.13
Da piazza Tahrir a piazza Taksim l’Internazionale dei giovani
di Timothy Garton Ash


UN NUOVO anno, un altro paese, una nuova piazza: dopo piazza Venceslao a Praga, piazza Indipendenza a Kiev, piazza Azadi a Teheran, la piazza Rossa a Mosca e piazza Tahrir al Cairo, ora c’è piazza Taksim a Istanbul. Ogni piazza arriva al mondo tramite immagini fotografiche totemiche. Quella della giovane donna in abito rosso, – Ceyda Sungur, docente all’università tecnica di Istanbul – colpita da una nuvola di gas lacrimogeno sparato a distanza ravvicinata da un agente antisommossa. Cambiano i simboli nazionali, le bandiere e i colori – verde in Iran, arancio a Kiev, rosso a Istanbul — ma l’essenza dell’immagine è la stessa. Una giovane donna moderna, urbana, probabilmente laica, affronta l’uomo armato, con il casco, senza volto. Lui rappresenta le forze della reazione, l’autoritarismo e la dominazione, che sia a servizio degli Ayatollah, del presidente Vladimir Putin o di questo aspirante sultano, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Guardando questa iconografia di protesta pacifica sappiamo subito da che parte stiamo. Dalla loro. Sono la nostra gente, noi siamo la loro gente. Influenzati dal suggestivo potere delle immagini scelte dalla tv e dai redattori dei giornali e dalle preferenze spontanee di gruppo sui social media, in qualche modo semi inconsciamente sentiamo che si tratta della solita lunga lotta.
In un certo senso non è una sensazione completamente sbagliata. In tutto il mondo esiste ormai una sorta di Quinta Internazionale di giovani donne e uomini di istruzione superiore, prevalentemente di estrazione urbana che si riconoscono e si relazionano ovunque, da Shanghai a Caracas, a Teheran e a Mosca. Come la generazione del 1968, ma stavolta in tutto il globo, hanno qualcosa in comune. In parte è perché si spostano molto, vivono e studiano in tanti luoghi diversi. Qui a Berlino ho appena visto in tv una studentessa turco-tedesca, o tedesco-turca, di nome Ebru Dursun, che ha preso parte alle proteste, spiegare con calma in un tedesco perfetto quello che sta accadendo e quali sono le aspirazioni dei manifestanti come lei.
Per un altro verso questa sensazione può essere pericolosamente fuorviante. Ciascuna di queste piazze segna un momento diverso in un contesto molto diverso – e anche gli esiti sono stati fortemente contrastanti. A piazza Taksim — finché non è stata brutalmente sgombrata dagli idranti, dai lacrimogeni e dai manganelli della polizia– c’erano anche persone appartenenti alla minoranza Alevi del paese, “musulmani anticapitalisti”, tifosi di tre squadre di calcio rivali, sufi, anarchici e yogi. Tutti uniti da una causa: impedire che Erdogan diventi il nuovo sultano, se dovesse subentrare il prossimo anno come presidente dai poteri estesi e rafforzati.
Rientrato in Turchia da un viaggio all’estero, il premier è salito a bordo del suo bus scoperto e ha arringato i suoi sostenitori: «Da qui saluto le città sorelle di Istanbul, Sarajevo, Baku, Beirut, il Cairo, Skopje, Baghdad, Damasco, Gaza, Ramallah, la Mecca e Medina». Uffa! La maggior parte dei leader politici cede alla vanagloria dopo più di dieci anni al potere. Erdogan, da sempre personaggio autoritario, lo ha fatto a partire dalla sua rielezione nel 2011, dopo la quale ha messo da parte i suoi consiglieri più indipendenti, ma questa è arroganza su vasta scala. Un risultato è già certo: anche se resta al potere non recupererà più la sua reputazione internazionale. Farneticando di “stop alla tolleranza”, di “vandali”, “provocatori” e “terroristi”, è passato da simbolo regionale di speranza a simbolo di paura.
Dobbiamo anche fare chiarezza su ciò che tutto questo non è. Un cartello improvvisato in quella che i dimostranti hanno chiamato “Resistanbul” diceva “Ora Tahrir è Taksim”. Ma Taksim non è mai stata Tahrir, per non dire Tienanmen, perché la Turchia non è una dittatura. È una democrazia elettorale: una democrazia molto imperfetta, certo, in cui lo stato di diritto è eroso, i diritti delle minoranze sono inadeguati, e i mass media oggetto di intimidazione e manipolazione (la Turchia ha messo in carcere più giornalisti della Cina) ma pur sempre una democrazia. E nelle ultime elezioni Erdogan ha conquistato il 50% del voto popolare.
Tutto questo non è neppure ciò che Erdogan lascia minacciosamente intendere che sia: un qualche complotto occidentale. Può darsi che i dimostranti su cui ci piace puntare i nostri teleobiettivi sposino valori che noi consideriamo occidentali ed europei, ma non a seguito di una politica occidentale o europea. Dieci anni fa, quando la gente in Turchia credeva ancora che l’Unione europea davvero facesse sul serio promettendo negoziati mirati all’adesione del paese alla Ue le manifestazioni di questo tipo si potevano considerare tappe di un più ampio cammino nazionale “in direzione dell’Europa”. Ma ora la fede nella seducente promessa di ingresso nell’Ue è in gran parte svanita. Così i turchi abbracciano quei valori semplicemente in se stessi e per se stessi, non come mezzo mirato a qualche fine geopolitico o economico. Indirettamente si può considerare una cosa positiva. Si tratta allora di una battaglia turca per libertà turche, niente di più, niente di meno.
La settimana scorsa ho chiesto a un acuto osservatore politico turco, fresco di Istanbul, cosa dovrebbero dire i leader europei in risposta a “Taksim”. Lasciate la cosa ai turchi, ha detto. Allora ero d’accordo con lui, ma ora non posso esserlo. Di fronte all’arroganza e alla prepotenza di Erdogan nei confronti della sua gente i leader europei devono pronunciarsi anche se l’aspirante sultano turco si toglie le cuffie della traduzione simultanea mentre l’interlocutore sta parlando, come è accaduto con il Commissario Ue all’allargamento, Stefan Füle.
Ma bisogna comunque trovare un compromesso. Dobbiamo mostrare totale solidarietà a chi si batte per i valori che condividiamo, a quelle giovani donne delle foto in cui istintivamente ci identifichiamo. Alcuni dei dimostranti in effetti sono “noi” nel senso più ristretto del trascorrere quanto meno una parte del tempo in Europa ed essere cittadini europei.
Al contempo dobbiamo riconoscere che non hanno vinto le ultime elezioni ed è improbabile che vincano le prossime. Politicamente un esito realistico è che l’attuale presidente Abdullah Gül, e la sua corrente ora più moderata in seno al partito al potere, potrebbe prevalere. Anche in una democrazia più genuinamente liberale il “modello turco” non equivarrebbe ad una repubblica francese nel Mediterraneo orientale. Nel migliore dei casi andrebbe a combinare laicismo e democrazia riconoscendo l’Islam come religione della maggioranza della popolazione. In quanto tale potrebbe ancora essere un polo di attrazione per gran parte del Medio Oriente esteso, nonché un serio candidato all’adesione all’Unione europea. Se la Turchia si muoverà in quella direzione nei prossimi anni, in parte come risultato di questo momento, i dimostranti colpiti dai gas non avranno versato lacrime invano.
Traduzione di Emilia Benghi

Corriere 13.6.13
La storia riscritta da Putin «Stalin meglio degli Usa»
«Lui non avrebbe sganciato l'atomica sui civili»
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Il crollo dell'Unione Sovietica è diventato una trappola per gli Stati Uniti che, rimasti come unica superpotenza, «hanno iniziato a sentirsi come un impero» e a comportarsi di conseguenza. Il giudizio viene da Vladimir Putin che in una conversazione a ruota libera con la tv satellitare in lingua inglese creata dal Cremlino («in parte per rompere il monopolio dei media anglosassoni») ha chiarito le sue opinioni su quello che una volta nel Kgb (e forse ancora oggi nell'Fsb) veniva definito l'avversario principale.
La storia degli Stati Uniti è iniziata «con una pulizia etnica su larga scala che non ha precedenti», ha sostenuto il presidente russo. Per aggiungere subito dopo che nel 1945 perfino Stalin, «un dittatore e un tiranno», non si sarebbe comportato come gli Usa. «Dubito che se nel 1945 avesse avuto la bomba atomica, l'avrebbe usata contro la Germania. Negli anni 1941-1942 quando si trattava di una questione di vita o di morte per lo Stato, avrebbe forse fatto ricorso a una simile arma. Ma nel 1945, quando l'avversario stava in sostanza per arrendersi e non aveva alcuna chance, lo dubito». Invece, ha proseguito il leader russo, «gli americani la usarono contro il Giappone che stava subendo una sconfitta, contro uno Stato non nucleare».
Giudizi che non sono certo nuovi o originali, ma che messi tutti assieme sono serviti al presidente russo per arrivare a definire la posizione americana al giorno d'oggi, davanti alle sfide che provengono da tutto il mondo.
Per Putin, l'attuale dirigenza di Washington ha la volontà di risolvere le questioni internazionali collaborando con gli altri Paesi. Ma per motivi di politica interna non può. «Un impero non può permettersi di manifestare alcuna debolezza... non può fare altro che usare metodi imperiali», perché ogni intesa e ogni cedimento nel corso di una trattativa verrebbero percepiti «come una debolezza».
Il presidente russo si è anche detto convinto che la situazione dovrà cambiare in futuro e che la leadership americana dovrebbe fare di tutto per mutare l'atteggiamento mentale dell'opinione pubblica di quel Paese.
Passando ai problemi più pressanti, come quello della Siria, Putin ha sostenuto che Assad avrebbe dovuto capire da tempo che le cose nel Paese stavano cambiando e avrebbe dovuto varare delle riforme. «Se lo avesse fatto, non avremmo mai assistito a quello che oggi sta accadendo». Ma è comunque un errore interferire negli affari interni della regione e pensare che se si porta la democrazia nell'area tutto si calmerà. «Questo è assolutamente non vero».
Non è mancata la critica al Dipartimento di Stato per quella che Putin ritiene una ingerenza anche negli affari interni russi. «La nostra diplomazia non coopera attivamente con il movimento Occupy Wall Street», mentre i servizi diplomatici americani «interagiscono direttamente e danno supporto» all'opposizione russa.
Accuse giunte alla vigilia della giornata di ieri che ha visto scendere nuovamente in piazza migliaia di manifestanti guidati dai vari leader nel mirino della Procura, come il blogger Aleksej Navalny che rischia dieci anni di carcere in base a un'accusa di furto che si riferisce a questioni vecchie di anni (resuscitate poche settimane fa dopo che erano state chiuse dagli inquirenti).
Quanto alle accuse «storiche» di Putin, alcuni esperti russi mettono in rilievo come la situazione della Germania e quella del Giappone fossero profondamente diverse nel 1945. Per la sorte degli indiani d'America, poi, le cifre sulle vittime della colonizzazione variano enormemente. I morti indiani nelle 40 guerre combattute dalle giubbe blu furono ufficialmente 30 mila. Ma dall'arrivo dell'uomo bianco, le stime sul numero di nativi scomparsi variano tra 800 mila e undici milioni e mezzo.

Corriere 13.6.13
I leader comunisti e l'arma nucleare «Facevano finta di non curarsene»
di Dino Messina


Vladimir Putin questa volta sfida gli Stati Uniti sul terreno più scivoloso, l'interpretazione storica. Il leader russo si lancia in un'esercitazione di ricostruzione controfattuale, la «storia fatta con i se» affermando che mai Stalin avrebbe usato la bomba atomica alla fine della guerra come invece hanno fatto gli Stati Uniti. Un'ipotesi credibile? Secondo Ettore Cinnella, per decenni professore all'Università statale di Pisa e uno dei nostri maggiori sovietologi, autore tra l'altro di 1917. La Russia verso l'abisso (Della Porta Editori), non esistono documenti che ci possano far rispondere in maniera positiva o negativa alla domanda. Forse qualche indizio sicuro si trova «nell'archivio del Presidente», la sezione segreta da cui sono uscite scarsissime informazioni. Allora bisogna affidarsi alla memorialistica, alle testimonianze per esempio di Winston Churchill o del generale Vjaceslav Molotov. Osserva Cinnella che all'incontro di Yalta (4-11 febbraio 1945), ben prima dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto), quando Roosevelt accennò al problema dell'atomica, Stalin si mostrò completamente disinteressato. La superiorità dimostrata sul campo era tale che non c'era bisogno di nessuna atomica. In realtà l'interesse del dittatore sovietico per la bomba atomica era grandissimo, tanto da far continue pressioni sul capo dei servizi segreti Berja per realizzarla. E i sovietici arrivarono faticosamente all'atomica nel dopoguerra quasi esclusivamente grazie alle informazioni ottenute con l'attività di spionaggio.
Anche dalle memorie del generale Molotov si capisce quale fosse la psicologia dei capi sovietici verso l'atomica. Un'arma da non usare, ma nemmeno da temere. Perché da un conflitto nucleare il mondo comunista, che occupava territori vasti e con una grandissima popolazione, sarebbero usciti comunque vincenti. Un atteggiamento simile, ricorda Cinnella, si trova in Mao Zedong, che nel novembre 1957 al congresso mondiale dei partiti comunisti su questo tema ebbe un duro scontro con Palmiro Togliatti. Il comunista israeliano Samuel Mikunis racconta che tra i due si svolse questa conversazione: «Ma che ne sarà dell'Italia con una guerra del genere?», chiese Togliatti. E Mao: «Chi ha mai detto che l'Italia debba necessariamente esistere? Resteranno trecento milioni di cinesi, e ciò sarà pienamente sufficiente per la continuazione del genere umano».
Mao era spregiudicato quanto Stalin, che sul piatto della vittoria nella Seconda guerra mondiale poteva esibire più di venti milioni di morti. In un bilancio del genere quanto avrebbero potuto pesare le migliaia di vittime provocate da una bomba atomica?
Diversa la situazione per Harry Truman, il 33° presidente degli Stati Uniti che ordinò il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. «Lo Stato Maggiore americano aveva stimato che uno sbarco in Giappone sarebbe costato qualche centinaio di migliaia di morti», osserva John Harper, professore alla Johns Hopkins University e autore di The Cold War, la Guerra fredda (Oxford university press), che sarà pubblicato in autunno dal Mulino. «Truman non poteva permettersi i sacrifici di uno sbarco armato in Giappone, soprattutto dopo che gli Stati Uniti avevano investito due miliardi di dollari nella realizzazione dell'atomica. Se avesse rinunciato a usare l'arma nucleare il Congresso ne avrebbe sicuramente chiesto l'impeachment».
La storia controfattuale di Vladimir Putin è dunque bocciata, almeno su un punto, dagli storici di professione. Ma ci sono altre due accuse che egli ha rivolto agli Stati Uniti nell'intervista televisiva. Che la nazione statunitense sia nata con il peccato originale del genocidio (lo sterminio degli indiani nativi) e che sia un Paese dove il germe del razzismo non è stato mai debellato. «Per quanto possa suonare poco piacevole — commenta John Harper — anche alcuni storici statunitensi hanno usato l'espressione "pulizia etnica" per la lotta agli indiani d'America. E alcuni episodi vanno in questa direzione come il grande esodo degli indiani Cherokee costretti a una estenuante marcia dalla costa atlantica all'Oklahoma su ordine del presidente Andrew Jackson. Paragonerei quest'episodio al trattamento riservato da Stalin ai Tatari della Crimea, deportati in massa in Uzbekistan con l'accusa di collaborazione con i nazisti».
Sul razzismo, Ettore Cinnella osserva che è certamente una colpa americana. Un difetto dal quale Stalin era esente: per ordinare la decapitazione dell'intera classe dirigente polacca, il massacro degli ucraini o dei tedeschi del Volga gli bastavano le motivazioni politiche.

Corriere 13.6.13
La Scuola siciliana in Lombardia
I testi dei poeti di Federico II diffusi prima nel Nord Italia e poi in Toscana
di Cesare Segre


Negli ultimi mesi, e persino giorni, sono saltati fuori da biblioteche pubbliche e private testi letterari che offrono notizie imprevedibili ed eclatanti sulla cultura letteraria dell'Italia medievale, e in particolare del Nord. Il primo importante ritrovamento è quello di Luca Cadioli, che ha riconosciuto in un manoscritto mutilo, rinvenuto nella soffitta di una casa signorile, l'unica fedele traduzione dal francese, finora sconosciuta, del Lancelot du Lac, il romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra, di cui ci erano noti solo adattamenti molto liberi.
Quanto all'altra scoperta, il discorso è più complesso. Ci si era fatta l'idea che la Lombardia fosse rimasta sorda a quel fermento straordinario che fu la Scuola poetica siciliana, fiorita nell'isola alla corte di Federico II, e poi risalita lungo lo Stivale sino a trovare un ambiente favorevole nella Toscana predantesca. Si è discusso in altri tempi sui modi in cui questa poesia può essersi diffusa, oltre che attraverso la declamazione di esecutori professionali, o dei poeti stessi, fieri di sfoggiare le loro creazioni. C'è in effetti una diffusione scritta, attraverso le copie tratte da qualche quaderno o libro d'autore: a noi sono rimasti alcuni canzonieri (detti così perché la canzone è la forma metrica prevalente in questi manoscritti), caratterizzati da un tratto specifico: la toscanizzazione di testi in origine scritti in siciliano. È in prevalenza tramite questa toscanizzazione che i versi dei poeti della corte di Federico II sono stati conosciuti, tanto che si rimase, a suo tempo, spiazzati nei minimi casi in cui ci si è trovati davanti a una poesia siciliana in lingua originale. Ora un nuovo ritrovamento pare smentire questo scenario.
Ci si domanda il perché di questo improvviso rivelarsi di testi due e trecenteschi. Molto è dovuto a migliori strumenti di analisi. Ma prevale il cambiamento di prospettiva. Se prima il filologo si soffermava sulle pagine dei codici, ora ha imparato a guardare anche alle legature, in cui spesso si usavano, come riempitivo, fogli di altri manoscritti, spesso destinati a questo tipo di riutilizzo perché parzialmente danneggiati. E si fa più attenzione ai documenti di ambito notarile, ben consapevoli del fatto che i notai erano in buon numero poeti. In effetti c'era già il precedente dei «Memoriali bolognesi», carte notarili dei secoli XIII e XIV in cui gli spazi bianchi, a evitare aggiunte fraudolente, venivano riempiti con poesie contemporanee. E poi, vent'anni fa, Giuseppina Brunetti aveva trovato, in un foglio di guardia di un manoscritto conservato a Zurigo, un frammento di Giacomino Pugliese in una veste linguistica probabilmente veneta.
Ora, Giuseppe Mascherpa, già allievo, come Cadioli, della Scuola di dottorato in Filologia romanza che ha unito le Università di Siena, Milano e Pavia, ha fatto un ritrovamento non meno straordinario dell'altro, nel quadro di una ricerca finanziata dallo Iuss di Pavia e dalla Regione Lombardia: alcune poesie della Scuola siciliana, reperite, in frammenti (le pergamene che le ospitano erano state, al solito, utilizzate per rinforzare la legatura di un codice), presso una biblioteca lombarda. I fogli pergamenacei ospitano delle sentenze che condannano alcuni esponenti di note famiglie, in prevalenza guelfe, per violazioni delle norme sui tornei; ma negli spazi rimasti bianchi, sul verso delle pergamene stesse, trova posto la trascrizione di almeno quattro testi poetici siciliani ascrivibili ad autori come Giacomo da Lentini, Paganino da Sarzana, Percivalle Doria, e addirittura all'imperatore Federico II (la poesia qui trascritta è in realtà di attribuzione non sicura, dato che un altro testimone la dà a tale Ruggerone di Palermo). È probabile dunque che queste trascrizioni derivino da un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana circolante in Lombardia, ma il dato ancora più importante è che questi componimenti non sembrano giunti attraverso la solita trafila toscana: la lingua dei testi presenta qualche lombardismo, eredità dell'ultimo copista, ma lascia intravedere una veste siciliana che sembra quella del modello. E se si considera che l'analisi paleografica e storica pare suggerire che ci troviamo, all'incirca, tra il 1270 e il 1290, dobbiamo dedurre che queste trascrizioni sono anteriori a quelle offerte dai principali canzonieri toscani.
Per farsi un'idea dei materiali appena ritrovati, riporterò i vv. 11-20 della poesia di Giacomo da Lentini, affiancandola all'edizione dell'unico testimone prima noto (l'illustre canzoniere Vaticano) e aggiungendo una parafrasi moderna.
Le prospettive che questa scoperta apre sono di notevole portata. La Lombardia risulterebbe aver avuto un interesse precoce e di prima mano per la poesia siciliana, cosa che non si poteva nemmeno sospettare: in quest'area sarebbero circolati i testi dei poeti della corte di Federico, in anni ancora anteriori a quelli in cui nasce la moda lirica attestata dai grandi canzonieri toscani. Tutto ciò apre un discorso che potrebbe portarci molto lontano.
P.S. Come accennato, gli autori delle due scoperte si sono entrambi formati presso una scuola di dottorato la cui esistenza, quantomeno nella forma originaria, è ora messa in crisi dalle nuove norme che regoleranno i dottorati di ricerca e che, nel nome di principi d'efficienza puramente quantitativi, obbligheranno, di fatto, ad accoppiamenti tra discipline anche lontane, il che andrà a scapito della serietà scientifica dei progetti e della possibilità di offrire ai dottorandi una formazione davvero specifica e approfondita.

Corriere 13.6.13
Il nuovo amore cortese che cantavano i notai


Dopo il secondo decennio del Duecento, per opera di Federico II di Svevia, imperatore e poi re dei Romani, nell'Italia meridionale, tra Messina e Palermo, Capua e Napoli, si sviluppa una scuola poetica che trasforma la Sicilia nel centro letterario più attivo dell'epoca. Tra i protagonisti più influenti Giacomo da Lentini, che già Dante considerava il caposcuola della lirica illustre di provenienza siciliana. Altri nomi di spicco sono Stefano Protonotaro, Pier della Vigna e Guido delle Colonne.
All'origine di queste liriche ci sono i modelli trovadorici, incentrati sull'amore cortese nella concezione provenzale e cortigiana dei rapporti amorosi in senso feudale: ovvero un legame tra una donna superba od orgogliosa, distaccata, e un «servo» d'amore che protesta per la sua condizione e chiede pietà. La Scuola siciliana arricchisce questo schema tradizionale con nuove scelte liriche, linguistiche e metaforiche, grazie al patrimonio di conoscenze scientifiche e retoriche che caratterizzava molti dei poeti che avevano ruoli di spicco nella pubblica amministrazione, in particolare notai.
Le forme sono quelle del sonetto, della canzone, della tenzone.
Finora ci si è concentri sull'influenza che la Scuola siciliana ha avuto in Toscana, ma da recenti ritrovamenti è testimoniata anche la sua diffusione nel Nord Italia, in particolare in Lombardia.

La Stampa TuttoScienze 12.6.13
Diamond: “Tutti a lezione dai parenti ancestrali”
“Provate la paranoia costruttiva e la vita sarà meno pericolosa”
Dai “primitivi” una logica di comportamento che funziona anche nel XXI secolo
di Gabriele Beccaria


Divisi eppure simili Da Papua alle metropoli di oggi: tanti fili legano l’anima ancestrale e la psiche della modernità
Jared Diamond Antropologo RUOLO : È PROFESSORE DI GEOGRAFIA ALLA UNIVERSITY OF CALIFORNIA ­ LOS ANGELES (USA) IL LIBRO :«IL MONDO FINO A IERI» EINAUDI

Togli le metropoli e le macchine, cancella i governi e le leggi e, al di là di una patina a volte brillante e a volte spaventosa, c’è quasi tutta la nostra storia, priva di scrittura ma ricca di memoria, organizzata in tribù, piccole eppure incredibilmente sofisticate. Millenni e millenni da scoprire e riscoprire, se vogliamo capire il nostro io.
Con «Armi, acciaio e malattie» aveva sbriciolato lo stereotipo della superiorità occidentale, rivelando il peso dell’ambiente rispetto alla fragilità dei neuroni, mentre con «Collasso» aveva portato alla luce le capacità autodistruttive delle civiltà. Adesso con «Il mondo fino a ieri», pubblicato da Einaudi, Jared Diamond intreccia antropologia, biologia evoluzionistica e autobiografia per raccontarci che cosa siamo stati prima di trasformarci in ambiziosi «weird», acronimo anglosassone che sta per «occidentali, educati, industrializzati, ricchi e democratici»: portando alla luce le innumerevoli invenzioni del passato ancestrale e le tante sopravvivenze del presente globalizzato, il celebre antropologo-geografo della University of California spiega che cosa significa l’avventura della vita per «tipi strani», come i cacciatori della Guinea, gli inuit del Polo, gli indios dell’Amazzonia, i san del Kalahari e tanti altri popoli che frettolosamente (e con senso di colpa) bolliamo con l’etichetta di «primitivi».
Se un baratro ci divide da quegli uomini e quelle donne, c’è ancora una ragnatela di esili fili che ci collega a loro e Diamond ha deciso di provocarci un’altra volta, spiegando cosa abbiamo perso, cosa sopravvive e cosa potremmo recuperare. Professore, lei è appena tornato dalla Papua Nuova Guinea, un luo­go simbolo che lei studia da decen­ni e dove, appena un’ottantina di anni fa, è avvenuto il primo e scon­ volgente contatto tra un gruppo di australiani e i nativi, un popolo fer­mo all’età della pietra: che ricordo ha portato con sé stavolta? «E’ difficile dire quale sia il ricordo più vivido, perché ogni ora di ogni giorno in Papuasia è vivido. Ma, se dovessi sceglierne uno, è questo: un pomeriggio, sul limitare della foresta dove avevamo installato un accampamento, mettersi a osservare un acquitrino di 500 metri di diametro, circondato da colline di calcare, in un terreno così difficile che in otto giorni non siamo mai riusciti a scalarle, guardando il sole e le nuvole, ascoltando il canto degli uccelli, fissando le oche e i tuffetti, respirando l’aria cristallina, non sentendo un solo suono prodotto dagli umani. E sperimentando un’intensa bellezza». Gli ultimi scampoli di società tradi­zionali che lei descrive nel saggio stanno svanendo: pensa che ci sia qualche possibilità che sopravvivano nel XXI secolo? «Non c’è alcuna possibilità che sopravvivano immutate al XXI secolo. Molte società tradizionali, però, sopravviveranno con una serie di cambiamenti. Non c’è dubbio che quei popoli vogliano ombrelli, fiammiferi, strumenti d’acciaio, vestiti, farmaci e anche telefonini. Ma molti conserveranno la loro lingua e tanti aspetti della loro cultura. Penso a un esempio: sono trascorsi 159 anni da quando le flotte occidentali “spalancarono” il Giappone e tuttavia lì si continua a parlare giapponese, a scrivere in Kanji e c’è la cultura più specifica del Primo Mondo». Lei sostiene che le culture tradizionali sono più ricche ­ in termini di «esperi­ menti sociali» ­ rispetto alla società globalizzata, dal modo di concepire l’amicizia all’amore: se stiamo per­dendo la creatività più profonda di specie, qual è la sua ricetta per tenta­ re di rallentare il processo? «Quando scrivo che le culture tradizionali sono più ricche “socialmente”, voglio dire che i rapporti di amicizia sono più importanti, intimi e duraturi e che gli individui trascorrono più tempo a comunicare, parlandosi direttamente e fissandosi negli occhi».
Esattamente il con­trario di quanto sia­mo abituati a fare noi, vittime del­ l’iper­tecnologia. «Nella società globalizzata le nostre comunicazioni sono indirette, via e-mail e con i messaggini. Se dovessi pensare come invertire il processo - in quanto americano - risponderei così: “Trasferitevi in Italia!”. Ho sempre la sensazione che i miei amici italiani trascorrano molto tempo a parlarsi, specialmente durante i vostri lunghi pranzi che durano anche due o tre ore, mentre noi americani inghiottiamo tutto in 15 minuti, tenendoci stretti i nostri cellulari». C’è, però, anche un lato oscuro di violenza e intolleranza nell’universo dei co­siddetti «primitivi» e lei lo racconta: perché, allora, è tanto diffuso e persistente il mito del «buon selvaggio»? «Ci sono molte ragioni per cui si tende a ignorare il tasso di violenza nelle società tradizionali. Una è legata alla difficoltà, oggi, di assistere a una guerra tribale: i governi le hanno pressoché soppresse. Perfino nelle aree della Nuova Guinea e dell’Amazzonia dove ancora scoppiano dei conflitti si può verificare un unico “raid” nel corso di diversi mesi e una battaglia ogni anno o due e, così, è difficile che un antropologo impegnato in una missione-tipo possa assistere a uno di questi eventi. E d’altra parte quelle popolazioni sanno bene che gli occidentali disapprovano la guerra ed è quindi difficile che invitino uno studioso a seguirli, mentre vanno a uccidere un vicino. Una seconda ragione è la forza della tradizione, iniziata 250 anni fa con il filosofo francese Jean Jacques Rousseau: fu lui a dare origine al mito del buon selvaggio, basato però su un totale vuoto di informazioni, Eppure molti preferiscono continuare a credere a quella leggenda piuttosto che alla cruda realtà. Una terza ragione è che molti antropologi “liberal” tendono a negare la stessa violenza: temono che trasformarla in un tema di discussione possa servire ai governi da pretesto per perseguitare ed espropriare le popolazioni tribali, sebbene proclamare l’idea della pace ancestrale sia un terribile errore: la verità emerge comunque». Lei analizza la «paranoia co­struttiva» dei primitivi: sono attenti a segnali per noi insi­gnificanti e stanno sempre sul chi vive, ben sapendo che la vita è un bene fragile. Dob­biamo riscoprire quell’antico atteggiamento se vogliamo tentare di risolvere i problemi di un pianeta iper­sfruttato e sempre più inquinato? «Sì. Dovremmo avere un atteggiamento simile in modo da affrontare meglio i pericoli delle società contemporanee, a cominciare da quelli della guida, dello scivolare nella doccia e sulle scale o dell’ubriacarci. Trascorriamo troppo tempo a preoccuparci del terrorismo e degli incidenti aerei, che in realtà uccidono molti meno italiani e americani dei piccoli incidenti quotidiani. Quando spiego i rischi della doccia, mi sento rispondere: “Ma Jared, le chances sono appena una su mille!”. Ma, visto che ho 75 anni e possono aspettarmi di vivere fino a 90, ciò significa che, se faccio una doccia al giorno, ne devo prevedere altre 5475: quindi, nonostante le mie attenzioni, ma dando retta alla statistica, rischio di uccidermi cinque volte prima di raggiungere i 90 anni. Basta leggere le necrologie di qualunque giornale per rendersene conto». Religione e guerra, amore ed economia: i nostri antenati hanno affrontato ogni aspet­ to della vita con intelligenza e fantasia e a volte anche con una brutalità che ci fa orrore. Quali sono le lezioni che dob­biamo recuperare dalle neb­bie di una storia durata 100 mila anni? «La lezione principale che dovremmo ricavare dal passato ancestrale è che non c’è una singola lezione, ma decine e decine! Le società tradizionali rappresentano, infatti, decine di migliaia di esperimenti su come risolvere problemi umani universali, come allevare i bambini, affrontare la vecchiaia, mantenersi in salute, seguire la religione, costruire linguaggi e amministrare la giustizia. Molte società hanno affrontato queste realtà meglio di noi e noi non siamo affatto costretti a continuare con tante delle nostre peggiori abitudini: possiamo imparare nuovi comportamenti a partire da ciò che è già stato fatto».

La Stampa TuttoScienze 12.6.13
L’abbuffata di baby farmaci
Non basta un po’ d’ansia per imporre una pillola
Bambini e adolescenti sempre più «rimpinzati» di farmaci antidepressivi
di Francesco Rigatelli


Venerdì 14 e sabato 15 in Vaticano si tiene un grande convegno internazionale sul disagio dei bambini. Il Pontificio consiglio per gli operatori sanitari, come spesso accade in questi casi, ha chiamato all’appello alcuni dei più grandi studiosi in materia, indipendentemente dalla loro fede. Un po’ come succede a Robert Langdon in «Angeli e demoni».
Tra gli interventi più attesi c’è quello sugli effetti a lungo termine degli antidepressivi. Lo tiene, fresco di uno studio innovativo in materia, Giovanni Fava, 60 anni, padovano, professore di Psicologia clinica a Bologna e di Psichiatria a Buffalo nello Stato di New York.
«A un convegno - ci anticipa - ho sentito discutere del fatto che i bambini nell’età evolutiva possono essere esposti a problemi a lungo termine legati al rapporto con i dolcificanti: parliamo, com’è evidente, di obesità infantile. Allora mi sono posto la domanda se anche l’esposizione ai farmaci antidepressivi, usati negli Usa in modo sempre più diffuso durante l’infanzia e l’adolescenza, possa causare problemi a lungo termine. Perché il cervello nella fase evolutiva è più sensibile agli effetti collaterali».
Da questa curiosità, con l’apporto fondamentale della ricercatrice Emanuela Offidani, che ha analizzato gli studi sulla cura della depressione e dell’ansia nell’infanzia per cercare indicazioni sugli effetti collaterali (lasciati sempre un po’ nascosti nei testi), è partita la ricerca pubblicata sulla rivista «Psychotherapy and psychosomatics» e firmata anche da Ross Baldessarini, uno dei maggiori farmacologi di Harvard. La sua consulenza di esperto nell’ambito del disturbo bipolare (gli sbalzi d’umore) è stata richiesta da un’altra studiosa, Elena Tomba, coautrice con Fava del saggio «Il panico» (edito da Il Mulino), in cui si spiega a chi ne soffre e agli altri cos’è e ciò che si può fare per uscirne.
Ma quali sono gli effetti collaterali che Offidani ha cercato in letteratura? «Ce ne possono essere tanti: insonnia, nausea e mal di stomaco - elenca Fava - ma ci siamo soffermati su uno stato eccessivo di attivazione comportamentale che potesse sfociare in una condizione di iperattività, tecnicamente definita “ipomaniacale”. E’ emerso che ne soffre un adolescente fino a 16 anni su 10, trattato con antidepressivi e dunque si tratta di un numero elevato, anche senza famigliarità con il disturbo bipolare. L’iperattività, inoltre, non recede con l’interruzione del farmaco. Ci sono, poi, effetti collaterali potenzialmente reversibili e altri che danno un’impronta allo sviluppo successivo». Queste scoperte, secondo Fava, devono spingere, soprattutto negli Stati Uniti, a nuovi at­teggiamenti e nuovi modelli: «Se un adolescente depresso rischia il suicidio, allora ha senso trat­ tarlo con i farmaci, altrimenti nei disturbi ansiosi in cui non ci sono pericoli di vita immediati i rischi non sono più giustificabili. Recentemente anche James Leckman, psichiatra infantile di Yale, ci ha dato ragione sulla gravità di questi dati e sulle cautele che bisogna usare».
Anche per questo Fava e il suo gruppo continuano a occuparsi della strada alternativa alla farmaco­ logica per le terapie, lavorando per inquadrare meglio quella che viene definita come «sintoma­tologia diagnostica», vale a dire il giudizio clinico in seguito al quale si determina se si ha bisogno di una terapia specifica oppure no. Inevitabile, dun­ que, confrontarsi sul «Dsm 5», il nuovo manuale che definisce le malattie psichiatriche. «Viene già criticato perché allarga i confini diagnostici. Ma se i farmaci vanno usati con cautela ­ aggiunge ­ a maggior ragione le indicazioni diagnostiche non devono essere vaghe, ma sempre più precise».
Gli antidepressivi ­ conclude Fava ­ vengono usati sempre di più: un abuso che si estende «a disturbi per i quali non sono necessari, dai momenti di sco­raggiamento alle delusioni sentimentali, fino al­ l’insoddisfazione, tutti aspetti della vita che non hanno certo una configurazione patologica. Oggi si tende a medicalizzare perfino le reazioni al lut­ to». E, invece, si dovrebbe assumere l’approccio contrario: «I farmaci sono salvavita solo in condi­zioni specifiche».
I motivi? «Come accade in altri fenomeni l’impo­stazione scientifico­culturale si intreccia al busi­ ness dell’industria. Gli esperti che fanno parte del­ le commissioni del “Dsm 5” possono avere gravi conflitti di interesse e tra coloro che scrivono le li­ nee guida dell’American psychiatric association molti li hanno: traggono, cioè, vantaggi concreti per le loro attività da aziende farmaceutiche di cui poi parlano».

Corriere 13.6.13
Ancora sulle radici ristiane, l’inutilità di un preambolo
Sergio Romano risponde a Sossio Giametta


Dal punto di vista giuridico, la cosa migliore, quando si fa una costituzione, è di farla senza preamboli. Uno degli errori della costituzione europea, che non ha incontrato il favore dei popoli al cui vaglio è stata sottoposta, è di aver voluto, per fanatismo laico e vanagloria francese, avere un preambolo. L'illuminismo è soprattutto una gloria della Francia, pur essendo nato e anche proseguito in Inghilterra, e per i francesi diventa il contributo più importante alla formazione dell'Europa. Ora esso ha certamente contribuito all'avanzamento dei popoli europei, sia con lo sviluppo della teoria politica e del diritto sia con la lotta allo strapotere, alle superstizioni e alle escrescenze del cristianesimo, che era ormai lontanissimo da quello originario e aveva imboccato la strada fatale della crisi. Tuttavia, nella prospettiva della civiltà bimillenaria sorta per contrasto dialettico sulle macerie della civiltà classica greco-romana e finita con la seconda guerra mondiale, cioè con la fine del primato mondiale dell'Europa, l'illuminismo rimane un affluente di quello che in tale civiltà è il fiume principale, il cristianesimo stesso. Il cristianesimo è sorto, inalberando la bandiera della fede e della carità, come una religione, ma è stato insieme una rivoluzione sociale e politica, come lo è l'Islam ancora adesso. Insieme a Cristo c'è stato San Paolo. Ed è stata una via lunga e gloriosa, ma anche accidentata. Esso però non è solo un contributo alla civiltà europea, ma si identifica con essa, in quanto ne è stato, oltre che lo spirito, il motore politico. Ciò fu rilevato, già ai primi dell' Ottocento, da Novalis nel suo saggio La cristianità o l'Europa. La Chiesa ha governato i popoli insieme con l'autorità imperiale per secoli e secoli, come vera e legittima erede dell'impero romano, e di questo le va dato un merito così alto, che esso è solo scalfito dai misfatti di cui si è macchiata, e di cui si macchiano fatalmente tutte le vere potenze, specie quando sono in pericolo: esse sono una parte ineliminabile della logica della potenza, cioè della politica. Ma nessuna potenza e nessuna civiltà è eterna; dopo la parabola ascendente viene quella discendente, senza che di questa siano responsabili gli uomini, che in genere si limitano, lo sappiano o no, a interpretarla e rappresentarla.
Sossio Giametta
Bruxelles

Caro Giametta,
Il cristianesimo si servì dell'Impero romano per diffondere la propria fede e finì per diventarne l'erede. Ma la sua identificazione con una struttura politico-territoriale ebbe anche l'effetto di creare, durante il declino del potere imperiale, tanti cristianesimi quante furono le nazioni a cui i missionari, con la loro opera spirituale e pedagogica, dettero una identità collettiva. Europa e cristianesimo, quindi, sono due termini indissociabili di una lunga storia comune, ed è impossibile scrivere la storia dell'uno senza scrivere la storia dell'altro. Ma un testo costituzionale non è un trattato storico-filosofico, e uno Stato non è meglio governato se la sua Carta è preceduta da un breve manifesto ricco di buoni propositi e ampollosi luoghi comuni. Sono d'accordo con lei, quindi, sull'inutilità del preambolo. Ma quando i membri della Convenzione presieduta da Valéry Giscard d'Estaing si accordarono sulla necessità di compiacere coloro a cui premeva di inserire nella Costituzione un po' di spiritualità, occorreva evitare di prendere impegni e sottoscrivere cambiali che qualcuno, prima o dopo, avrebbe portato all'incasso.

Repubblica 13.6.13
L’anarchico
Quando Bakunin sognò la rivoluzione in Italia
Raccolti gli appunti di viaggio dell’agitatore russo
Fino alla rivolta in Romagna raccontata da Bacchelli
di Michele Smargiassi


Il 14 agosto 1874 il Diavolo passava lo Spluga vestito da prete. Un pretone imponente, alto due metri, corpulento ma curvo, appoggiato a un bastone, aggrappato a una innocente cesta di uova, il volto svisato da grossi occhiali verdi. Per camuffarsi meglio, Michail Bakunin aveva sacrificato perfino la sua iconica barbabandiera, resa celebre nelle cantine ribelli di tutta Europa, ma anche nei commissariati di polizia, da una celebre fotografia di Nadar.
Con lui fuggiva dall’Italia anche la breve estate dell’anarchia, che avrebbe vissuto solo due ritorni di fiamma, il regicidio di Gaetano Bresci del 1900 e la “settimana rossa” del 1914. Riparando in Svizzera dopo il desolante fallimento dell’insurrezione di Bologna, il Marx dei libertari lasciava dietro di sé decine di compagni nelle regie galere e un sogno che qualcuno si incaricò di riscrivere in farsa. Fu Riccardo Bacchelli a calare sul volto dell’aristocratico russo ribelle la maschera tragicomica dell’idealista ma grottesco e inconcludente colosso, «lo sguardo azzurro come l’illusione e trasparente come la logica assurda ». Lo fece nel suo Il diavolo al Pontelungo, che uscì in anni imbarazzanti (era il 1927, Mussolini era già saldo al potere), che irritò Gramsci per il suo «gesuitismo» e scatenò la reazione indignata degli ultimi adepti del gran ribelle, compreso il nipote Luigi Bakunin, fino a costringere lo scrittore bolognese a replicare (ma sul Times, perché il romanzo era piaciuto al Duce, ma non era il caso di dibattere di anarchia sui giornali dell’Italia fascista) che lui, al suo personaggio, non aveva aggiunto nulla, che lo aveva «trovato bell’e fatto», leggendo «fino alla noia» i suoi testi. Chi vuole, può rifare l’esperienza. Eleuthera, casa editrice libertaria, raccoglie tutti gli scritti “italiani” di Bakunin, in un volumetto (Viaggio in Italia, a cura di Lorenzo Pezzica, pagg. 143, euro 12), impreziosito dai graziosi disegni coevi della cognata Natalya che, francamente, sembrano portare un po’ d’acqua al mulino del suo anti-biografo bolognese: il rivoluzionario passeggia con il bastone e un bizzarro ombrellino parasole, poco spaventoso e molto borghese. Ma quella era la maschera che il nostro voleva darsi quando, fuggito rocambolescamente dalla prigionia siberiana, nel 1864 iniziò da una Torino «fredda come la Siberia» il suo primo soggiorno di tre anni nella Penisola, per raggiungere poi Firenze, dove chiese agli espatriati russi di sistemarlo «a pensione presso qualche buona famiglia borghese», e infine Napoli dove trovò, a Mergellina, una camera con vista su golfo e Vesuvio, gioia della giovanissima e amatissima moglie Antonia, «una sciocchina che non condivide minimamente le mie idee» ma che forse, sospetta il Carr, già condivideva calorosamente quelle dell’anarchico Gambuzzi che diventò poi il suo secondo marito.
Disinteressato alla veduta da cartolina, chiuso nel tinello, unica indulgenza l’adorato caffè, il già mitizzato “Bakunìn”, terrore dei re e dei tiranni, scriveva, furibondamente, lettere e pamphlet su questa Italia di cui si era «innamorato », di cui balbettava qualche parola significativa, pazienza, fiasco, a poco a poco, questa Italia così promettente per la rivoluzione, con la sua plebe contadina, quel proletariato cencioso di cui Marx diffidava, massa analfabeta cafona e oppressa ma «dotata di un’intelligenza straordinaria», eppure cocciutamente immobile e indifferente: «Il colera a Napoli si espande più della democrazia».
Scriveva, il temibile ateo venuto dal Nord, cose in fondo meno incendiarie di quel che ci si aspetterebbe, analisi forse fondate sul poco, ma che a leggerle oggi suonano singolarmente familiari e quasi attuali: si parla di caste, di burocrazia, si denuncia «il peso delle imposte» che «serve per foraggiare la consorteria», cioè una classe trasversale parassita e camaleontica di preti, banchieri, industriali unita da interessi più che da ideologie.
Un’Italia «in condizione triste e pericolosa», paese di 25 milioni di abitanti appena unificato da un Risorgimento che rimpiazzò una rivoluzione, dove lo scontento sociale già sfociava nel proletar- reazionario brigantaggio filoborbonico, dove gli ardori sovversivi di Mazzini e Garibaldi erano riusciti soltanto a «dare un regno ai Savoia».
A dir la verità, era proprio grazie alla rete mazziniana che Bakunin poteva muoversi e far proseliti in Italia. E non aveva mancato neppure di far devoto pellegrinaggio a Caprera per abbracciare lo stanco Garibaldi, di cui anche tra i ghiacci della prigionia aveva seguito con ardore l’impresa dei Mille. Ma i due eroi italiani non erano al corrente che Bakunin, a Londra, aveva concordato con Marx, ancora suo alleato internazionalista, di venire in Italia proprio per trascinare sul terreno rivoluzionario i repubblicani considerati ormai compromessi con la monarchia. Che fosse riuscito, nei tre anni di frenetica attività confabulatoria e di fondazioni di «fratellanze», a strappare adepti al Mazzini «cuore generoso, ma animo da cristiano, apostolo pontefice, non vero rivoluzionario», e a Garibaldi «esempio di coraggio» ma «complice di un’incestuosa alleanza» con la monarchia, è cosa che convinse più lui che gli storici.
Fatto sta che dieci anni dopo un Bakunin ancora più stanco e sconfitto pensa di nuovo all’Italia come terra della riscossa: forse la sua ultima, o l’unica. Lasciati gli ozi di Lugano, dove ha dilapidato nel falansterio hippy della villa Baronata il patrimonio del ricco anarchico Carlo Cafiero, l’eroe della rivoluzione sociale fa rotta su Bologna. Segue un carico di dinamite nascosto sotto le gonne di Olimpia Cafiero. Tutto gli dice che questa è la volta buona. La Romagna, terra garibaldina e repubblicana, di gente dalla testa calda come l’Errico Malatesta, nomen omen, è per lui l’unica patria della redenzione in un’Europa che, sconfitta la Comune di Parigi, si ostina a restare sciaguratamente tranquilla. Gli giungono dai compagni Abdon Negri e Andrea Costa detto «il biondino» notizie incoraggianti di schiere pronte all’insurrezione. Esita. Parte. Sotto le mentite spoglie del ricco rentier Tamburini ecco, il diavolo è al Pontelungo, al seguito della bomba proletaria, in mano la fiaccola dell’anarchia, determinato a issare la bandiera rossa e nera su San Petronio. Canterebbe Francesco Guccini, bardo bolognese: «La storia ci racconta come finì la corsa». Due o trecento, male armati e litigiosi, subito arrestati e trascinati in gattabuia tra gli sberleffi della plebe irredenta che li apostrofa «esercito della fame». Il solito Bacchelli infierirà: «Credevano essi che la tempesta stesse per riprendere, era invece la fine, e il fortunale gettava a spiaggia i rottami».
Davvero, solo rottami? La sapiente riscrittura bacchelliana del «pallone di carta» anarchico ha forse condizionato l’opinione comune, se non quella degli storici, sul valore di quella fiammata libertaria di fine secolo. Andrea Costa, uscito di galera, con la dolorosa «lettera agli amici di Romagna» scelse la via legalitaria e indicò la strada per il Parlamento. Il socialismo italiano, passando per la febbre anarchica, si emancipava dal mazzinianesimo. Il Diavolo, per l’eterogenesi dei fini, aveva fabbricato almeno un po’ del ponte (lungo?) tra il Risorgimento e il movimento operaio organizzato. Ma lui, il «solidarista assoluto », l’incendiario che non lanciò mai una bomba, vestito da prete, a pochi mesi dalla morte, amareggiato e deluso, non lo sapeva, e sicuramente non lo voleva.

IL LIBRO Viaggio in Italia di Michail Bakunin a cura di Lorenzo Pezzica (Elètheura, pagg. 144 euro 12)

Corriere 13.6.13
Addio a Robert Gallimard nipote del fondatore amico di Sartre e Camus


È morto sabato a Parigi, all’età di 87 anni, Robert Gallimard, nipote del fondatore Gaston. Il ruolo di Robert è stato fondamentale nel secondo dopoguerra, quando la casa editrice di rue Sébastien-Bottin si è consolidata come una delle più importanti del mondo, quella con il catalogo più prestigioso: da Yourcenar a Joyce, da Camus a Duras a Kundera a Roth. Nato il 12 novembre 1925, figlio di Jacques (il fratello più piccolo di Gaston Gallimard), Robert Gallimard fece il suo ingresso nella casa editrice a 23 anni, entrando presto a far parte del comitato di lettura. Era lui l’interlocutore di Jean-Paul Sartre, di Romain Gary e di Albert Camus.
A Robert Gallimard fu affidata la responsabilità della «Bibliothèque de la Pléiade» nel 1960, quando suo cugino Michel Gallimard morì nell’incidente d’auto che costò la vita anche ad Albert Camus. «Robert Gallimard era un uomo di grande cortesia, pieno di humour, molto aperto, che incoraggiava gli autori più sovversivi mentre Claude (il figlio di Gaston) si occupava di quelli più accademici», è il ricordo di Philippe Sollers. Dal 1988 la casa editrice è guidata da Antoine Gallimard, figlio di Claude. S. Mon.