venerdì 14 giugno 2013

l’Unità 14.6.13
Donne e spiritualità
Ritanna Armeni: «Un modo diverso di vivere la fede»
Dirige il settimanale femminile dell’Osservatore romano: «Un’esperienza che mi ha aperto un mondo
Il problema di oggi? Non è più l’aborto, ma come essere madri»
di Tullia Fabiani


«È UN’ESPERIENZA ARRICCHENTE, MI HA APERTO UN MONDO». RITANNA ARMENI, GIORNALISTA, DI SINISTRA, FEMMINISTA, TRASCORSI A IL MANIFESTO E A L’UNITÀ, coordina con Lucetta Scaraffia «Donne Chiesa Mondo» l’inserto femminile de l’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede. Lo fa da un anno e ne è entusiasta. «L’idea era quella di fare un inserto mensile che valorizzasse il ruolo delle donne nella Chiesa. Sono circa 700 mila e hanno ancora un ruolo abbastanza nascosto, benché operino dappertutto: si occupano dei bambini, dei malati, dei preti; gestiscono attività umanitarie e missioni in tutto il mondo, ma il loro lavoro resta nell’ombra. Non è valorizzato da una Chiesa che in sostanza è ancora misogina».
Per la prima volta il giornale della Santa Sede ha un inserto femminile. Le donne cui si riferisce che ne pensano?
«Le donne che operano nella Chiesa e ne fanno parte sono consapevoli della misoginia ancora presente. A loro modo la combattono. Nella storia del cattolicesimo ci sono donne che hanno avuto un ruolo straordinario e che sono riuscite a vincere resistenze ed esclusioni. Ci sono tanti modi per combattere: noi siamo scese nelle piazze, abbiamo manifestato, chiesto leggi, loro agiscono attraverso la fede che hanno in Dio, attraverso il Vangelo, in cui le donne sono protagoniste, e attraverso un impegno, spesso silenzioso, ma determinante».
L’idea come è nata?
«L’idea è nata durante una passeggiata in campagna con Lucetta Scaraffia, una storica che da sempre si occupa di storia religiosa e storia delle donne, e con il direttore de l’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian. All’inizio lui aveva qualche dubbio, poi ci ha pensato e deve dire che in poco tempo ha cambiato idea e ha sostenuto l’iniziativa. Il primo numero è uscito nel 2012, a maggio. Qualche settimana fa abbiamo compiuto un anno».
A distanza di un anno qual è il suo giudizio?
«Per quel che mi riguarda l’ho trovata un’esperienza decisamente arricchente, perché mi ha aperto un mondo. Mi ha fatto conoscere donne di cui ignoravo l’esistenza e scoprire visioni molteplici: religiose e non. Di recente ho intervistato un pastore valdese donna; ecco incontrare le diverse espressioni della fede presenti nell’universo femminile, per me che non ho fede, è un’occasione di grande confronto. E poi colpisce la differenza con l’atteggiamento maschile».
Anche nella fede c’è differenza di genere?
«Ho notato che c’è un modo diverso di vivere la fede; quello femminile è estraneo al potere e molto attento alla cura. La fede viene vissuta in modo molto più disinteressato e altruista dalle donne e questo mi colpisce e mi affascina».
E lei come vive la fede?
«Il mio rapporto con la spiritualità è sempre stato molto intenso. Non sono cattolica, ma ho una mia spiritualità e un profondo interesse per le religioni e per la fede che ho sempre coltivato. Penso che sia anche grazie a questa spiritualità che vivo felicemente questa esperienza editoriale e umana».
E il fatto di essere una donna di sinistra e di aver fatto battaglie per la legge sull’aborto e per il divorzio non è un problema?
«Ho trovato una continuità di ricerca rispetto alla mia esperienza di militanza come donna di sinistra. Certo non c’è dubbio che se dovessimo affrontare alcuni temi penso ad esempio all’aborto, ai matrimoni gay, all’eutanasia ci sarebbero visioni e idee decisamente diverse. È chiaro che per l’Osservatore Romano valgono quelle espresse dalla Santa Sede, ma resta un ampio spazio di riflessione che si è aperto attraverso questa esperienza, in particolare sul ruolo delle donne e sulla necessità di valorizzarlo. Del resto questa è la ragione sociale dell’inserto. E poi devo dire un’altra cosa: se scrivessi oggi di aborto, per quanto convinta che la legge 194 sia una conquista da non mettere assolutamente in discussione, scriverei che adesso non è questo il problema». Vale a dire?
«Credo che oggi la questione non sia così importante per le donne come lo era trenta anni fa. Oggi i figli non si fanno perché non c’è il lavoro e se c’è nella maggior parte dei casi è precario; non c’è una rete sociale di sostegno alla maternità, e quindi penso che il problema non sia tanto l’aborto quanto aiutare le donne, soprattutto le più giovani a essere madri».
Molte femministe e molte sue compagne, potrebbero dissentire. Ha già ricevuto critiche?
«La mia partecipazione alla realizzazione dell’inserto ha suscitato in generale molta curiosità, ma nessuno mi ha mai accusato di aver tradito degli ideali o una visione culturale e politica che ha sempre accompagnato la mia vita».
Progetti per il futuro?
«Non mi dispiacerebbe che diventasse un settimanale e magari uscisse tutti i giovedì».

Coi voti di Pd, Pdl e Scelta civica
il Fatto 14.6.13
Golpetto al Senato: più facile cambiare la Costituzione
Approvata la procedura d’urgenza: 18 mesi per la riforma
di Fabrizio d’Esposito


Applausi fuori dalla norma, tra parentesi. Come in ogni resoconto stenografico dei lavori parlamentari. Palazzo Madama, ieri mattina: (Applausi dai Gruppi Pdl, M5S e Misto-Sel). A parlare è Renato Schifani, capogruppo della falange berlusconiana al Senato. Si vota l’incredibile: cambiare la Costituzione con la procedura d’urgenza prevista dal regolamento. Dice Schifani: “Vedo questa richiesta di procedura d’urgenza come del tutto inopportuna. Il Parlamento desidera rispetto, lo avrà sicuramente da parte del governo, ma cerchiamo di partire con il piede giusto. Dobbiamo lavorare assieme, ma dobbiamo lavorare assieme in quest’aula. E ascoltare, leggere sui quotidiani che persone fuori da quest’aula discutano di quello che sarà il futuro Senato, di quello che sarà il nuovo sistema parlamentare, di quella che sarà la futura forma di governo non ci entusiasma. Se approveremo questo testo con un termine di 18 mesi, creiamo un precedente che sa quasi di commissariamento, di pseudocommissariamento del Parlamento. E questo non mi piace”.
FINO a un certo punto, però, non piace a Schifani. Perché poi il Pdl e gli altri partiti delle larghe intese hanno votato la “richiesta di dichiarazione urgente” per il disegno di legge costituzionale numero 813, che istituisce il comitato parlamentare per le riforme costituzionali. Venti deputati e venti senatori che dovranno cambiare la forma di Stato, quella di governo e il meccanismo del bicameralismo perfetto. Questo con un procedimento legislativo speciale per fare tutto in 18 mesi, grazie alla procedura d’urgenza dell’articolo 77 del regolamento. In pratica, tra una votazione e l’altra l’intervallo si riduce dai tre mesi previsti dall’articolo 138 della Costituzione a uno. Poi, per emendamenti e subemendamenti varranno le restrizioni in vigore per i ddl collegati alle finanziarie.
È il golpetto dell’inciucio del governo Letta-Napolitano. O il commissariamento del Parlamento, per usare le parole di Schifani. E che ha infiammato l’aula del Senato ieri mattina, dopo l’illustrazione fatta dal ministro per le Riforme, Gaetano Quagliariello che ha specificato: “La richiesta d’urgenza dà attuazione agli indirizzi contenuti nelle mozioni approvate il 29 maggio che evidenziavano la necessità di definire una procedura straordinaria e urgente che potesse dare tempi certi e idonei alla riforma della seconda parte della Costituzione”. Dall’intervento di Loredana De Petris di Sel, il partito di Vendola: “L’abbreviazione dei tempi contenuta nel disegno di legge è una violazione dello spirito e della lettera dell’articolo 138 della Costituzione. Tale abbreviazione viene ancor più accelerata con questa richiesta, che stiamo discutendo oggi, ai sensi dell’articolo 77 del regolamento. Trovo un fatto molto grave limitare la libertà dei singoli senatori. Il ministro sa che un punto per noi assolutamente dirimente riguardava il fatto che i singoli senatori o i singoli deputati potessero avere la possibilità di emendare e di intervenire. Nel testo del ddl si limita tale possibilità a un presidente di gruppo o a dieci senatori”. A Vito Crimi, capogruppo uscente dei grillini, è toccato sviscerare altri due “buchi” nella blindatura delle riforme. Il primo: l’attuale Parlamento è eletto con una legge costituzionalmente viziata, il Porcellum.
IL SECONDO: un contrasto sostanziale anche con l’articolo 72 della Costituzione che prevede “sempre” una procedura normale per i ddl costituzionali. Per la cronaca, il golpetto è passato coi voti di Pd, Pdl e Scelta civica.

il Fatto 14.6.13
Lo scoop del Fatto indagine sul sesso nella Santa Sede


LA PROCURA DI SAVONA, come ha rivelato il Fatto Quotidiano di ieri, ha aperto un fascicolo dopo la documentazione presentata da Francesco Zanardi, attivista della rete contro gli abusi e la pedofilia nella Chiesa. Zanardi ha presentato ai magistrati le sue telefonate con un top manager di una multinazionale che racconta dei festini gay avvenuti dentro le mura leonine e del coinvolgimento di un altissimo prelato.
L’attendibilità del manager, che non ha mostrato le prove dei filmati e delle foto che dice siano in circolazione, dovrà essere valutata dai magistrati. I pm devono capire se si tratta di un millantatore o peggio di un ricattatore, oppure di un protagonista importantissimo che potrebbe far venire fuori un mondo di corruzione e sesso (anche con minori) insospettabile perché all’interno del Vaticano.

il Fatto 14.6.13
Orge gay in Vaticano: “Vi racconto tutto”
Attivista anti-abusi Francesco Zanardi
“Vaticano, così il superteste mi raccontò di orge e affari”
di Ferruccio Sansa


Quell'uomo mi parlava di orge, anche con minorenni, all'interno del Vaticano. Del coinvolgimento di altissimi prelati, uno indicato come papabile all'ultimo Conclave. E poi riferiva di casi di corruzione, con denaro pubblico e della Chiesa. Io ho registrato tutto. Ho passato mesi a studiare il caso, ma era troppo delicato, perché c'era di mezzo la vita di ragazzi giovani. Così alla fine ho deciso di non fare denunce pubbliche, di agire con la massima discrezione e di affidare il materiale alla Procura di Savona che ha affrontato con coraggio i casi di molestie ai minori da parte di sacerdoti. Volevo che fossero loro a capire se si trattava di un ricatto o no. Ma la verità andava accertata”.
Francesco Zanardi, lei attraverso la sua rete “L’abuso”, da anni si batte contro le violenze sessuali compiute da sacerdoti, come è cominciata questa storia?
Erano i giorni del ‘corvo’, dei veleni in Vaticano. Sono stato contattato da un uomo che diceva di essere il manager di una multinazionale. Sosteneva di essere stato coinvolto in un giro di festini e di prostituzione, anche minorile, all'interno del Vaticano. Raccontava di esserne disgustato e di volerne uscire. Di voler fare giustizia anche per tornare alla propria vita. Diceva di temere per la propria incolumità.
Periodo di veleni, di ricatti. Potrebbe essere un millantatore, un calunniatore...
Me ne sono reso perfettamente conto. Anche alla nostra causa non avrebbe giovato diffondere una falsità. Allora ho fatto alcune verifiche: l'uomo effettivamente risultava essere un manager, anche da documenti pubblici. E la posizione satellitare del suo telefonino confermava frequenti ingressi in Vaticano.
Tutto qui?
No. L'uomo ha fornito racconti precisi, circostanziati e mai contraddittori. Poi numeri di telefono, per esempio di un noto manager pubblico vicino al Vaticano, che abbiamo riscontrato essere veri. Così abbiamo deciso di approfondire per capire se diceva il vero.
Che cosa vi ha raccontato?
Ha detto di aver avuto accesso per lavoro all'archivio informatico del Vaticano e di alti prelati. Da qui aveva ricavato informazioni e dati. Non solo: aveva conquistato la fiducia di un noto manager che lo aveva introdotto in un ambiente di incontri sessuali gay organizzati anche dentro la Santa Sede a cui partecipavano uomini di spettacolo, ma anche minorenni.
E un altissimo prelato...
Già. L'uomo ci ha raccontato di festini che avevano luogo quando il prelato veniva a Roma. Un giorno preciso della settimana, un appuntamento fisso. Si cenava e poi sei o sette ragazzi si mettevano in cerchio e a turno avevano rapporti sessuali con il porporato. Tutto sarebbe filato liscio, finché un paio di giovani avrebbero filmato gli incontri con il telefonino. E le immagini, sosteneva il nostro contatto, erano diventate oggetto di scambio, forse di ricatto. Ed erano finite anche in suo possesso. Sosteneva di averle consegnate a due notai, uno a Roma, l'altro a Lugano, perché temeva per la propria incolumità. Ci ha promesso più volte di consegnarcele, ma poi è sparito. Per ripresentarsi dopo qualche mese. Questo ci ha fatto pensare anche a un ricatto.
Potevano essere calunnie o folli millanterie. Vi ha dato delle prove?
Mi ha fatto parlare al telefono con uno dei giovani che sarebbero stati coinvolti. Era, come risultava dalla sua bacheca facebook, un ragazzino di strada. Un posteggiatore romano che frequentava i giri della prostituzione omosessuale. Non era una prova, ma un elemento che ci ha spinti ad approfondire. Poi ci ha fornito numeri di telefono di altri presunti partecipanti alle orge. Ma tutti hanno rifiutato di parlarci. Il quadro che ci ha fornito la nostra fonte era sconcertante: festini, incontri in saune gay frequentate da decine di sacerdoti in visita a Roma, reclutamento di ragazzi via internet. Addirittura rincorse notturne da un capo all'altro della città per accontentare i gusti sessuali dell'alto prelato. Un sistema, a suo dire, che era sfuggito di mano ed esponeva figure di alto livello del Vaticano a continui ricatti.
Ma le sembra credibile?
Non lo so. Ripeto, quell'uomo di sicuro aveva contatti con gli ambienti della prostituzione maschile romana. Era effettivamente un manager, per quanto di una società che fatturava poco o niente, il che aggiungeva motivo di cautela. Aveva anche avuto accesso al Vaticano. E alcuni dei contatti che ci aveva fornito abbiamo potuto verificarli. Potrebbe essere un millantatore o un ricattatore. Ma anche un uomo disperato che cercava di cambiare vita. Noi ci abbiamo lavorato per mesi. Poi abbiamo passato tutto alla magistratura che ha aperto un fascicolo perché il materiale era meritevole di approfondimento. Era giusto che se ne occupassero loro. Perché se questa storia fosse vera, le vite di ragazzini indifesi sarebbero a rischio.
Per se stesso non ha paura?
Tre giorni fa mi hanno disegnato un impiccato sulla porta. Mi hanno tagliato le gomme e aperto l’auto. Succede continuamente da quando ho cominciato la mia battaglia. Mi sto abituando, ma è dura.

il Fatto 14.6.13
Festini, archivi e chat: la lobby gay con la tonaca
di Francesca Fagnani


VIAGGIO DI “SERVIZIO PUBBLICO” FRA I SACERDOTI CHE ADESCANO I RAGAZZI. DON ARIEL: “DENUNCIAI IL VIZIO E FUI ALLONTANATO”

Santa Maria degli Angeli e dei Martiri è una delle più belle chiese di Roma. È qui che sfilano politici e volti noti ogni volta che a morire è qualcuno degno di esequie di Stato. A tutto il mondo è nota per essere l'ultimo grandioso progetto architettonico di Michelangelo Buonarroti. Ma per pochi altri è semplicemente una “Chiesa bancomat”. Così la chiamano, infatti, i ragazzi e i ragazzini di vita che girano intorno alla vicinissima Stazione Termini.
A raccontare questo è don Ariel, che lì è stato sacerdote. Si tratterebbe di un giro di prostituti gay che fino a poco tempo fa gravitava intorno e dentro alla Chiesa, che funzionava proprio come un bancomat: prestazioni sessuali al prete in cambio di soldi, o meglio in cambio dei proventi delle elemosine dei fedeli. Una storia, sembra, ben nota alla polizia.
DON ARIEL raccoglie testimonianze, foto, documenti e scrive una relazione dettagliata che invia ai suoi superiori e alla Segreteria di Stato vaticana.
Il primo risultato che ottiene è il silenzio. Il secondo è il suo (non certo volontario) allontanamento. Don Ariel viene punito per la sua delazione, mentre il prete che foraggia i giovani viene lasciato lì tranquillo e indisturbato per un altro anno ancora, prima cioè di essere trasferito in un'altra chiesa di Roma nord, meno prestigiosa ma molto più popolata. “Questa è la triste prassi”, dice don Ariel, “la lobby gay esiste. Eccome. È un dato di fatto”. “La lobby gay esiste” dice oggi Papa Francesco in una conversazione non si sa quanto confidenziale con i suoi amici sudamericani.
NELLE SETTIMANE in cui ho lavorato con Andrea Casadio a questa inchiesta, si è mostrato un mondo che si pensava fosse solo un'esagerazione dell'immaginario o una vulgata anti-clericale. La regola del celibato e dell'astinenza sessuale sembra aver generato il suo contrario: una vera e propria ossessione mostruosa per il sesso. Sacerdoti che finita la messa consumano tonnellate di materiale pornografico su internet. Venerabilis fraternity, ad esempio, è un sito dedicato ai sacerdoti “omosensibili”, si favoriscono gli incontri attraverso chat in tutte le lingue del mondo (ovviamente è obbligatorio usare un nickname) e addirittura ci si dà appuntamento in precisi orari (la mattina per i seminaristi, il pomeriggio per tutti gli altri) nel settore filosofia e religione della Feltrinelli di Largo Argentina a Roma. Saune gay, discoteche, locali per scambisti frequentati da uomini di Chiesa. Tra i luoghi gay preferiti dai preti sembra esserci (ironia della sorte, o forse no), Il Diavolo dentro, una discoteca che si trova nel quartiere Te-staccio.
ll giornalista di Panorama Carmelo Abbate racconta che per scrivere Sex and the Vatican, è riuscito a infiltrarsi per mesi in un giro di festini, a cui partecipavano sacerdoti (alcuni alti prelati di cui non ha rivelato l'identità) e ragazzi escort. Gli incontri avvenivano nei palazzi della Curia romana. Stanze importanti, dove il giorno successivo si sarebbe celebrata messa.
Un'ossessione per il sesso si diceva, un vero e proprio assillo che lega a un vincolo di segretezza assoluta chi lo pratica. Segreti che saldano rapporti e favoriscono carriere. Segreti che generano ricatti e che distruggono carriere.
IN UN BAR subito fuori le mura vaticane, ho incontrato un sacerdote che conserva in casa centinaia di schede, un vero e proprio archivio sui vizi privati dei suoi confratelli. Materiale pronto a essere usato come una micidiale macchina del fango, una clava contro chi si renda necessario punire o intimidire. Così, le persone che ho incontrato in questi mesi, mi hanno spiegato il senso di “lobby gay”.

il Fatto 14.6.13
Messori dixit
“Gesù vestiva Armani”: gli storici litigano
di Car. Tec.


A Vittorio Messori, scrittore e storico, firma del Corriere e soprattutto interlocutore di Joseph Ratzinger cardinale, non appassiona la deriva “demagogica” di Francesco e l’assioma che la Chiesa sia povera.
Il professor Roberto Rusconi, collega di Messori, apprezzato docente all'Università Roma Tre, smonta il teorema: “Credo che non si debba fare dell’antiretorica a fini apologetici, quale mi sembra essere il metodo di Vittorio Messori”.
MA LA CARITÀ è una favola secolare o una condotta non più utilizzata, semplicemente teoria senza pratica? “Da un certo punto di vista - spiega Rusconi - non è mai esistita una Chiesa povera (ma che cosa corrisponde a questa espressione?), mentre la Chiesa ha sempre avuto - come istituzione - il problema di come gestire i beni che possedeva, che generavano ricchezza e soprattutto potere. Tra i seguaci di Francesco d'Assisi, che erano partiti con il rifiuto di ogni forma di proprietà, e quindi di potere (la ricchezza ne è solo manifestazione e strumento), e poi si videro colmare di elemosine e di beni, si aprì la discussione sulla possibilità di un "usus pauper". In altri termini, può essere estremamente antistorico usare la categoria di povertà al di fuori del contesto. Il problema della Chiesa (ma quale? il Vaticano? i vescovi? le parrochie? i fedeli?) è costituito dai beni che generano la ricchezza e non vengono utilizzati per i poveri”.
A Rusconi colpiscono i paradossi e le provocazioni di Messori: “Gesù non era un morto di fame - ha dichiarato al “Fatto” - Vestiva Armani, i suoi abiti era rari e di lusso per l’epoca. Aveva un tesoriere che l'ha tradito e dunque anche un tesoro”. Il professore conferma il censo del predicatore di Nazareth, però precisa il valore di un simbolo universale: “Certamente Gesù non era un pezzente, e magari nemmeno Giuseppe. Il senso del suo messaggio e della sua vita, non a caso raccolti da Francesco d'Assisi, è nel non possedere ciò che dia sicurezza del domani oppure potere
IL PAPA perché insiste su questi temi? “Ha scelto il nome di Francesco, la sua insistenza sulla povertà e sui poveri deve essere ricondotta a questa chiave: chi sono i poveri e che uso si può fare dei beni della chiesa per chi ha bisogno. Se la Chiesa di Roma si deve alleggerire delle ricchezze, non lo si fa in un giorno. Se ci si vuole mettere sul piano delle battute - conclude Rusconi - fin troppo facili, sulla croce Gesù non era vestito da Armani e il sepolcro non era stati progettato da Renzo Piano”.

il Fatto 14.6.13
Il Papa ammette: “Il matrimonio è in crisi, riflettiamo”


TRA I TEMI che papa Francesco discuterà nella riunione di ottobre con il collegio degli otto cardinali suoi consulenti vi sarà quello sull’affidamento di uno studio sulla pastorale familiare, di fronte a un’istituzione come il matrimonio sempre più in crisi. Lo ha annunciato lo stesso Bergoglio conversando oggi con i membri della Segreteria del Sinodo dei Vescovi.
“La famiglia è un problema serio – ha detto il Pontefice –. Nelle riunioni con i vescovi italiani in visita il problema è stato tirato fuori”. “Oggi tanti non si sposano, convivono, anche tanti cattolici - ha sottolineato -. E i matrimoni sono provvisori”.
“Nella riunione che avremo a ottobre - ha quindi spiegato Bergoglio - è prevista la domanda a chi affidare uno studio sulla pastorale famigliare. A un Sinodo? A un Sinodo speciale? Al Sinodo ordinario? Ai presidenti delle conferenze episcopali? Questo il problema che in ottobre noi tratteremo”. Un altro tema in discussione, anche in base ai suggerimenti raccolti dagli otto cardinali-consulenti, è quello dell’ecologia, e in particolare “in rapporto al creato, ma anche all’ecologia umana”. “Questo è un problema se-r i o”, ha osservato papa Francesco.

il Fatto 14.6.13
Tg papi
Il Papa snobbato sui gay è la lobby del silenzio
di Paolo Ojetti


Lunedì scorso, mentre i notiziari televisivi impazzavano attorno ai risultati elettorali, fra percentuali, affluenze e catastrofi del centrodestra e di Grillo, si è intrufolata una notizia che definire esplosiva sarebbe stata poca cosa: parlando con chierici sudamericani, papa Bergoglio ha rivelato che in Vaticano “esiste una lobby gay”. Attenzione, non ha detto che ci sono prelati alti o piccoli dediti ad amori omosessuali, ma ha parlato di “lobby”, ovvero che l’omosessualità in tonaca costituisce un centro di potere, una specie di omomassoneria, una Gay1, se si vuole prendere a prestito la numerazione delle varie P2, tre, quattro e seguenti. Martedì, chi più (Il Fatto Quotidiano, la Repubblica) e chi meno, riportavano la notizia. Mercoledì, erano già tutti sulle analisi, i commenti, le interpretazioni: il Papa ha meditato prima di parlare e ha voluto di proposito suonare il Deguello come il generale Santa Ana all’Alamo? Ha valutato i rischi personali di simili accuse? La dimissioni di Ratzinger – su cui si è mormorato tanto, forse troppo - sono state una fuga o una resa? E se Bergoglio prende una ventina di altissimi porporati e li spedisce chi in Alaska e chi in Antartide o nelle giungle della Malesia, li manda in missione o si toglie dai piedi qualche omolobbista? E i telegiornali, si sono buttati a pesce sull’ evento?
IL TG1 NON HA DETTO una parola fino a mercoledì, quando Aldo Ma-ria Valli, il vaticanista che si alterna con quel sant’uomo di Fabio Zavattaro, ha osato: “Papa Francesco avrebbe detto che ci sarebbe una cordata di corruzione e una lobby gay, ma padre Lombardi non commenta, trattandosi di una conversazione privata”. Con ciò, si capisce che Federico Lombardi è un genio: non smentisce, ma lenisce. Nemmeno due parole sul Tg2. Zero assoluto nel Tg5. Mentana silente, tutto preso dalla Turchia. Catatonico il Tg3. Insomma, quegli stessi telegiornali che dedicano ore alla grandezza del duo Letta-Alfano, alle imbecillezze di Balotelli, alla psicanalisi di Messineo con la sindrome di Stoccolma per il suo carceriere Ingroia, ai fioretti della presidente Boldrini, agli esorcismi di Napolitano per trovare un posto ai giovani, alle meraviglie di Tosi a Verona e a come si sveglia Renzi (se è in buona, si accontenta della segreteria del Pd; se ha dormito male, corre per Palazzo Chigi o la presidenza degli Stati Uniti), hanno lasciato Papa Bergoglio all’oblio e al suo destino. È un’altra lobby: quella del silenzio.

l’Unità 14.6.13
La sinistra al tempo dell’astensione
di Michele Ciliberto


La forte astensione alle elezioni amministrative sta richiamando, comprensibilmente, l’attenzione dei commentatori politici. Il 48.5 per cento di elettori, meno di uno ogni due, è una percentuale che non può essere considerata fisiologica.
Qual è dunque il suo significato, cosa vuol dire una astensione così vasta e ramificata? Esprimo subito la mia tesi: essa non può essere ridotta a semplice disinteresse per la politica, né può essere decifrata soltanto come una generica ed indifferenziata estraneità verso le istituzioni pubbliche. Sicuramente, c’è anche questo, ma è a mio giudizio un elemento minoritario e si spiega con quello che può essere definito un astensionismo di tipo tradizionale. Non è su questo che va concentrata l’attenzione. L’elemento di novità è altrove e lo sintetizzerei in questi termini: come esiste una politica dell’antipolitica, così esiste una politica dell’astensione.
Non è vero che gli italiani, nella loro maggioranza, sono indifferenti alla cosa pubblica e pregiudizialmente ostili ad esercitare i loro diritti elettorali. È vero il contrario: al fondo sono cittadini e tendono ad esercitare i loro diritti, a patto che questo esercizio appaia sensato e fruttuoso. Altrimenti hanno imparato che si può esprimere il proprio voto stando a casa, senza entrare nella cabina elettorale.
Faccio solo due esempi: le primarie e il successo del Movimento Cinque Stelle. Nel primo caso, gli elettori di sinistra hanno fatto la fila per esprimere il loro voto per Prodi, Veltroni, Bersani perché ritenevano che il loro voto potesse contare. Nel secondo caso, gli elettori, secondo dinamiche trasversali, si sono raccolti intorno a Grillo perché ha saputo innalzare la bandiera del cambiamento, contrapponendosi a tutte le altre forze politiche. È stata questa la sua intuizione vincente. E infatti tanto più si è contrapposto, tanto più ha vinto. In certo modo si potrebbe dire che è proprio nella forma della sua nascita che è inscritto il principio della fine di Grillo perché agli italiani la protesta non basta. E questa è un’altra lezione su cui conviene riflettere e che viene sia dall’astensionismo che dalla sconfitta di Grillo: due fenomeni che vanno analizzati insieme perché esprimono la stessa dinamica. In sintesi, quello che voglio dire è questo: oggi l’Italia è tutt’altro che un Paese indifferente, stagnante, inerte. Anzi, è percorso nel profondo da risentimenti, rabbie, frustrazioni e, sopratutto, da una esacerbata voglia di cambiamento, di trasformazione. L’Italia, questo è oggi il dato di fondo che viene confermato anche dall’astensionismo, è un Paese in gravi difficoltà, ma che vuole uscire dalla palude e cambiare, e questo sia a destra che a sinistra dello schieramento politico. Chi sarà capace di interpretare questo bisogno di cambiamento, e di trasformare il risentimento in politica convincerà gli italiani a tornare a votare e a dargli il loro consenso.
Se questo è vero, la domanda diventa questa: che cosa deve fare un partito di sinistra per muoversi in questa direzione estendendo il campo del proprio consenso oltre i confini tradizionali? L’elettorato «storico» quello che anche in queste elezioni ha continuato a votare a sinistra, suscitando sulla stampa reazioni più incredibili e talvolta oscene, infatti, non basta: è un voto di resistenza, difensivo, legato alla storia del movimento socialista e cattolico italiano. Bisogna uscire in campo aperto, dare inizio a una fase espansiva, oltre i vecchi confini: questo è oggi il problema strategicamente centrale.
Che fare, dunque? È necessaria una rinnovata analisi della società italiana, è stato detto, ed è vero. Ma non basta. Mi esprimo in modo ellittico: ci vuole una visione, una prospettiva strategica, un orizzonte intorno al quale si possano riconoscere gli italiani che vogliono il cambiamento. Si è diffusa una idea della politica come pura gestione dell’esistente, grigia adesione a una realtà statica, presentata come necessaria e ineluttabile, impermeabile a cambiamenti profondi, effettivi. E contemporaneamente, in nome del concretismo, si è diffusa indifferenza e perfino fastidio per i valori, le idee ridotti a pura e sorpassata ideologia: roba dell’Ottocento, estranea al mondo attuale. Quale sciocchezza! Non è così, non è stato così nemmeno a destra. Bossi e Berlusconi hanno costruito grandi ideologie, discutibili, certo, ma efficaci. E come si è visto in questi giorni, i loro partiti sono andati in crisi, o finiti, quando queste ideologie sono venute meno. Maroni o Alfano non potranno mai avere il consenso di Bossi o Berlusconi perché sono personaggi strutturalmente ordinari, incapaci di elaborare ideologie, prospettive, una visione.
Intendiamoci: ideologia non vuol dire mito e immaginazione, anche se può prendere questa forma e come è accaduto nel caso di Bossi con la Padania o con le soap opera di Berlusconi. Vuol dire anzitutto valori di emancipazione e di liberazione, storicamente definiti ed elaborati; ed è intorno a questi che deve oggi interrogarsi, e ragionare, un partito di sinistra se vuol rompere il muro di ghiaccio dell’astensione. Lo so: è anzitutto un problema di contenuto, ovviamente. Ma, quando si tratta di valori, la forma è altrettanto importante, anzi decisiva. Oggi, per essere accettati e condivisi, i valori di riferimento di una forza di sinistra devono essere netti, chiari, devono essere alternativi, capaci di indicare una linea, un orizzonte preciso, una visione.
Nel fondo della società italiana c’è una lava che ribolle e che attende di essere riconosciuta nella sua potenza e nella sua radicalità. Ma come dimostra la crisi di Grillo è una forza, una energia che chiede di congiungere radicalità dei valori e concretezza dell’azione politica. Non si accontenta né di profeti né di amministratori dell’esistente. Una forza di sinistra che voglia diventare oggi una funzione dell’Italia deve sapere incrociare, e intrecciare, l’una e l’altra, radicalità e concretezza, trasformando frustrazione e risentimento in azione politica positiva, in una visione condivisa.

l’Unità 14.6.13
Pd, si tratta sulle regole Renzi: serve aria nuova
Primarie e congressi al centro del dibattito in tutte le componenti
Areadem: evitiamo soluzioni che possano apparire ostili al sindaco
Veltroni invita l’ex «rottamatore» a dare più profondità alla sua candidatura
di S. C.


ROMA Il segretario sarà eletto con primarie a cui potranno partecipare gli iscritti al partito ma anche tutti coloro che al momento del voto si registreranno all’albo degli elettori del Pd. Matteo Renzi vuole aspettare di conoscere le regole del congresso prima di sciogliere il nodo della sua candidatura, ma intanto su uno dei nodi principali si inizia a profilare una possibile intesa tra quanti vogliono far eleggere il leader soltanto dai tesserati e i sostenitori delle primarie aperte a tutti: l’iscrizione all’albo dei sostenitori Pd, appunto, che potrà avvenire fino al giorno della chiamata ai gazebo. La decisione dovrà essere presa dalla commissione congressuale, che si riunirà per la prima volta all’inizio della prossima settimana. Ma sul punto su cui maggiormente si è dibattuto negli ultimi giorni la soluzione è stata individuata. Tra l’altro mantenendo le attuali norme, su cui Renzi non ha da obiettare, anche se parlando al Tg2 dice di non aver rottamato «a sufficienza» e di avere la tentazione di far saltare il tavolo: «Quando vedo che chiacchierano di correnti, dico fate voi. Spero che il Pd apra un po’ le finestre, faccia entrare un po’ di aria nuova». E i movimenti dei bersaniani? «Che l’ex segretario convochi gli ex Ds mi lascia abbastanza indifferente, io preferirei parlare di quello che verrà dopo, del next. Il Pd non può dividersi».
Il sindaco di Firenze ancora non abbassa la guardia, sulle regole teme «furbatine» che lo penalizzerebbero nella corsa e conferma che stavolta non lo «fregano». È però possibile che non si debba aspettare un mese (è il tempo dato da Gugliemo Epifani alla commissione congressuale per approvare le regole) per sapere se Renzi parteciperà alla sfida. Ormai la questione è oggetto di discussione in tutte le riunioni di corrente che si stanno svolgendo in questi giorni. I bersaniani si sono incontrati per decidere i prossimi passi, dopo l’uscita del documento “Fare il Pd” in cui si sottolinea il rischio di una deriva «personalistica» del partito (è andato ad ascoltare le loro riflessioni anche Gianni Cuperlo, la cui candidatura è sostenuta da dalemiani e giovani turchi). Gli esponenti di Areadem si vedranno la prossima settimana, ma ieri hanno fatto il punto Dario Franceschini, Piero Fassino, Marina Sereni, Ettore Rosato e Antonello Giacomelli. Secondo il ministro per i Rapporti col Parlamento sono controproducenti iniziative che possono anche soltanto apparire ostili nei confronti di Renzi, col quale invece vanno concordate le regole congressuali. E anche il premier Enrico Letta, spiegano parlamentari vicini al premier, vuole evitare che il confronto d’autunno possa provocare lacerazioni nel Pd, la cui tenuta è fondamentale per la tenuta dello stesso governo.
Non è escluso che tanto i franceschiniani quanto i lettiani decidano di sostenere Renzi, qualora il sindaco alla fine si candidi, però per ora Franceschini vuole mantenere saldo il rapporto con Bersani. Certo, il documento “Fare il Pd” ha suscitato più di una perplessità nell’area che fa riferimento al ministro per i Rapporti col Parlamento. E se l’obiettivo di quel testo era quello di «ricostruire un quadro condiviso dell’area che sosteneva Bersani», come avrebbe spiegato Nico Stumpo aprendo la riunione dei bersaniani, anche i giovani turchi si tirano fuori dalla vecchia maggioranza. Dopo l’uscita di Matteo Orfini contro il «patto di sindacato interno», il segretario dei Giovani democratici Fausto Raciti definisce «molto parziale» l’analisi del voto fatta dall’ex leader del Pd: «Non credo che il segretario del Pd possa esimersi da una responsabilità sulla vicenda del Capo dello Stato, che vedo scaricata sul gruppo parlamentare la colpa può essere di tutti ma la responsabilità è innanzitutto di chi dirige», dice il deputato del Pd. E poi: «Se non siamo riusciti ad essere chiari nei nostri intenti è perché il Pd aveva costruito al proprio interno una pace finta, una pace armata che ha impedito lo svilupparsi di una iniziativa politica chiara, visto che nel nome del compromesso interno si è rinunciato ad una chiarezza di linea politica».
Una pace che non regge a un’eventuale candidatura di Renzi, sollecitata da Walter Veltroni (ieri attaccato insieme a Bersani da Flavio Briatore: «sono quelli che perdono sempre»). «È giusto che si candidi, purché si concentri sulla politica e non entri in circuiti dove rischia di rimanere triturato com’è successo a me», dice l’ex leader del Pd dicendosi contrario all’ipotesi di separare la figura del segretario da quella del candidato premier. «Renzi deve coltivare alcune virtù aggiunge in una videochat con lastampa.it Primo, maggiore profondità e capacità di raccontare agli italiani l'Italia che vuole. Secondo: la nitidezza sul piano delle scelte politiche. Terzo: non avere l’idea che basti qualche battuta per conquistare gli elettori». In attesa che Renzi sciolga la riserva, Pippo Civati lancia invece la sua candidatura: lo farà al Politicamp che verrà organizzato all’inizio di luglio a Reggio Emilia. Al quale parteciperanno, annuncia il deputato Pd, anche Renato Soru e Fabrizio Barca.

il Fatto 14.6.13
Stretta di mano tra Marchionne e il sindaco di Firenze


MARCHIONNE fa pace con Firenze. Le scintille dello scorso ottobre, quando l’ad di Fiat definì il capoluogo toscano “una città piccola e povera” sono lontanissime. L’assemblea di Confindustria di Firenze è l’occasione per la pacificazione con Renzi. Si incontrano al Teatro Comunale, uno arriva in bici (il sindaco), l’altro in auto, si stringono la mano e si siedono accanto. Per mettere una pietra sulla polemica dei mesi scorsi, il manager torna sulla vicenda prendendosela con la cattiva traduzione dall’inglese: “Diciamolo alla fiorentina, una bella bischerata”. Strette di mano con il rottamatore anche se “preferisce guidare una vettura straniera, nemmeno per la sua campagna elettorale ha scelto un camper italiano”, scherza il manager. Prima dell’assemblea un breve incontro privato in cui Marchionne ha ironizzato: “Ho cercato di vendergli una macchina”.

La Stampa 14.6.13
“L’Italia ha bisogno di un Piano Marshall”
Marchionne: per la crescita serve un patto sociale che coinvolga tutti
Il sindaco di Firenze Matteo Renzi si è incontrato con l’ad Fiat Sergio Marchionne ieri a Firenze
L’ad Fiat fa la pace con Renzi e Firenze «Mai parlato male di questa città»
«La Germania ha saputo negli ultimi dieci anni cogliere le opportunità Noi le abbiamo buttate»
di Teodoro Chiarelli


Uno scatto di orgoglio, uno sforzo collettivo, un patto sociale. All’Italia serve un nuovo piano Marshall, un progetto di coesione nazionale per la ripresa economica. E vergogna se fra un paio d’anni saremo ancora qui a lamentarci. Sergio Marchionne arriva a Firenze per sanare definitivamente una ferita, la polemica con la città e il suo sindaco Matteo Renzi dello scorso ottobre. Colpa, spiega, di una frase in inglese («Oggi starò attento a non usare nessuna parola inglese»), pronunciata da altri, «registrata da un cosiddetto giornalista, malamente tradotta e addossata a me: chi mi ha attribuito quei giudizi ha fatto, come si direbbe qui, una bella bischerata». E sottolinea, davanti al compiaciuto Renzi, arrivato in bicicletta all’assemblea della Confindustria Toscana, «l’importanza di una città che per arte, cultura, e scienze, non ha uguali al mondo».
Ma altri, e più impegnativi, sono i messaggi che l’amministratore delegato di Fiat e Chrysler vuole lanciare dalle rive dell’Arno, destinatario il governo. Il Paese, dice, ha bisogno di un grande sforzo collettivo per condividere impegni, responsabilità, sacrifici e dare all’Italia la possibilità di andare avanti. Marchionne chiede «una specie di patto sociale» che cancelli le opposizioni e le distinzioni tra le varie fazioni, invitando tutti a partecipare: politica, sindacati, imprese, università, associazioni di categoria. «Tutti dobbiamo lavorare a un grande progetto di rilancio verso un obiettivo che non sia l’interesse di una o dell’altra parte, ma quello più alto di ridare fiducia e prospettive all’Italia». Allora il primo compito è ridare lavoro alla gente. Marchionne cita il presidente Giorgio Napolitano («Non possiamo nasconderci che stiamo vivendo una fase di emergenza, un periodo di crisi che richiede interventi rapidi e incisivi») e insiste: «Dare lavoro alla gente deve diventare l’unico obiettivo per chiunque abbia a cuore le sorti di questo Paese». Così, il leader del Lingotto incalza il governo: «Scegliete le cinque cose più importanti, quelle che possono veramente influire sulla vita delle persone. Datevi 90 giorni di tempo per realizzarle, poi passate alle cinque successive». Marchionne parla di taglio del carico fiscale («Insopportabile per i normali cittadini») e propone di eliminare i vincoli di una riforma del lavoro «già in parte abortita».
Ed è inutile additare la Germania come la responsabile dei nostri mali. Loro, sostiene il manager italo canadese, hanno adottato le riforme necessarie e sono diventati il Paese più virtuoso d’Europa, dopo essere stati 10 anni fa il grande malato del Vecchio Continente. «Sono opportunità che avevamo anche noi, ma le abbiamo sprecate». E Fiat? «Fiat non è più quella del 2004, ma è considerata ancora un’azienda italiana che si porta dietro tutti i pregiudizi, come quelli sulla qualità dei prodotti e quello di vivere alle spalle dello Stato con aiuti pubblici. Abbiamo creato lavoro e benessere, e continuiamo a investire e credere nell’Italia». Marchionne si ferma un attimo, poi riprende calcando bene le parole. «Dal 2004 a oggi, Fiat ha fatto scelte per diventare più forte, ha superato un isolamento che l’avrebbe danneggiata. Se fosse rimasta la Fiat di una volta, avremmo già portato i libri in tribunale da un pezzo». Poi ripete quanto ha detto negli ultimi mesi. «La scelta più razionale sarebbe quella ci chiudere uno o due stabilimenti in Italia per far fronte alla sovraccapacità produttiva. Abbiamo invece detto, e lo ribadisco, che non chiuderemo nessuno stabilimento in Italia». Un progetto ambizioso, la produzione in Italia di vetture di target medio-alto, che ha come obiettivo il pieno impiego dei lavoratori Fiat entro 3-4 anni.
Non solo moniti, comunque, a Firenze. Marchionne è in vena di battute. Dal palco bacchetta scherzosamente Renzi: «Riceviamo premi e riconoscimenti internazionali per la qualità e lo stile dei nostri prodotti, ma non siamo riusciti a convincere neppure il primo cittadino di Firenze, che preferisce guidare una vettura straniera» (una Nissan, “confessa” il sindaco). Non pago, Marchionne infierisce, per la gioia della platea confindustriale: «Nemmeno per la sua campagna elettorale ha scelto un camper italiano, benché siamo i primi produttori europei in questo segmento di mercato con una quota del 70%. Un camper che poi pur avendo un marchio straniero è costruito da operai della Fiat nello stabilimento Sevel in Val di Sangro».

il Fatto 14.6.13
Flavio Briatore “È uomo del fare, come me”
“Per votare Renzi potrei iscrivermi al Pd”
di Beatrice Borromeo


“Ma Bersani non è rimasto in Africa a smacchiare i giaguari?”. Neanche il tempo di cominciare l’intervista e Flavio Briatore traccia di sua sponte il profilo dell’ex segretario del Pd, che “mi usa come un modello negativo per prendersela con Renzi”: un “vecchio comunista che non ha capito che il mondo è cambiato, che ci sono i tweet e la banda larga. Uno che pensava di aver stravinto, era a 30 metri dal traguardo, con due minuti di anticipo sugli altri, e invece di tirare la volata finale si è fermato, compiaciuto, a farsi fotografare dai paparazzi. Pareggiare era un’impresa, ma lui ce l’ha fatta.
Se l’è presa per quello che ha detto Bersani, Briatore?
Mi dà fastidio. Lui e gli altri politici sono degli sfigati, nel senso letterale del termine. Gente che manteniamo da quando sono nati. Pensano solo a salvaguardare il loro stipendio da 15 mila euro al mese perché sanno bene che sul mercato ne valgono 1500, al massimo.
Bersani ha detto: “Renzi leader del Pd? E che cosa pensa di fare, di iscrivere Briatore e gente così? ”
Renzi è uno normale. E detto di un politico questo è già un super complimento. Ho già detto che lo voterei.
Anche a costo di iscriversi al Pd?
(Ride) Sa che le dico? Sì. Così faccio un favore a Bersani.
Cos ’è che le piace del sindaco fiorentino?
È uno open minded, che ascolta e recepisce. Quando siamo andati a lunch insieme non abbiamo parlato solo di campi da golf, ma anche di come incentivare il turismo, che è l’unica risorsa che ci è rimasta. L’anno scorso ho portato Leonardo DiCaprio a Pompei, volevo fargli fare un giro in elicottero, ma mi hanno detto di no per via delle vibrazioni. Poi siamo andati a piedi e c’erano i cani che facevano la pipì nei siti archeologici. Non ci arrivano.
E Renzi ci arriva?
Lui è l’unica speranza vera.
Renzi delfino di Briatore? In cosa vi assomigliate?
Non facciamo chiacchiere: siamo uomini del fare, tutti e due. Io ho sempre ottenuto risultati, ho vinto 7 mondiali e do lavoro a un sacco di gente. E Renzi lo vedo come il futuro leader del Paese. A patto che si cambi la Costituzione.
Quale parte?
Il premier deve avere molto più potere, altrimenti non concluderà mai niente. E poi bisogna modificare la legge elettorale: ora destra e sinistra sono insieme al governo eppure non fanno niente. Però quando c’è da tagliare le pensioni si mettono d’accordo subito.
Lei rappresenta un mondo lontano dalla sinistra: pensa che Renzi avvicinandosi a Briatore perda voti?
Al contrario: quelli che odiano me e la gente come me non voterebbero comunque per Renzi. Sono le vecchie mummie della sinistra vera. Invece il sindaco può pescare tra l’elettorato sia di Berlusconi sia di Grillo. A patto, però, che la smetta di giocare e si decida: o fa il primo cittadino o guida il Pd.
A proposito, cosa pensa dei Cinque Stelle?
Ormai hanno capito tutti che tipi sono, più interessati ai buoni pasto che alla politica. Grillo poi non si è accorto che la campagna elettorale è finita: parla da solo, nelle piazze che ormai sono vuote. La gente non ne può più.
Anche il suo amico Berlusconi però non è messo troppo bene: alle comunali il Pd ha vinto ovunque.
Silvio lo danno sempre tutti per morto e non è mai vero. In questo periodo è tranquillissimo. E poi contano solo le elezioni nazionali, perché quando la gente vota per il sindaco le dinamiche sono diverse, conta di più il rapporto diretto con i candidati che non il leader di partito. E, ripeto, quello è il metodo vincente: io voglio poter votare chi mi pare anche alle Politiche, e poi, se fa male, mandarlo a casa. Sarebbe gravissimo se non cambiassero la legge elettorale. Avrebbero anche l’appoggio completo del presidente della Repubblica.
Cos’ha pensato quando hanno rieletto Giorgio Napolitano?
Boh. Mi è sembrato tragico che sia dovuto rimanere. Non aver trovato un candidato valido è stata una sconfitta della politica. E del Pd. E soprattutto dell’amico Bersani, quello che se la prende con Briatore.

Repubblica 14.6.13
Pd, sfida tra correnti sulle primarie Veltroni lancia Renzi segretario “E il leader sia candidato premier”
Bersaniani in trincea. Il sindaco: tentato di far saltare tutto
di Giovanna Casadio


ROMA — Saranno le scelte di Matteo Renzi a spostare gli equilibri del Pd. Il corpaccione del partito è in movimento. Lunedì si riunisce la commissione per il congresso, formalmente inizia il percorso per eleggere il nuovo segretario e lo scontro sulle regole (primarie aperte a tutti o solo per gli iscritti; leadership debole e premiership forte) è la cartina di tornasole della sfida politica.
Un movimento scomposto, che vede l’offensiva di Bersani, l’ex leader; documenti e lettere inviati al segretario Epifani per denunciare (il correntismo) o per marcare le differenze: la riunione di Areadem, corrente di Dario Franceschini. Correnti e spifferi: le chiama Renzi. E verrebbe voglia di rovesciare il tavolo? «La tentazione a volte c’è perché non si sa chi fa scacco matto... «. Comunque, «indifferente» — così si dichiara il “rottamatore” — a tutte queste riunioni di ex («ex segretario, ex ds»), perché lui è per «next», il futuro prossimo. Il sindaco fiorentino per ora si limita a dire che il Pd dovrebbe aprire le finestre, fare entrare «aria nuova e gente nuova», restituendo un po’ di speranza, invece di inutili discorsi che poi portano alla sconfitta. Non scioglie la riserva sulla sua candidatura come successore di Epifani. A tirare la volata a Renzi è Walter Veltroni. Dopo il gelo in fase rottamazione, tra Veltroni e il sindaco è ripreso il feeling. «Renzi si candidi — esorta il fondatore del Pd — e il segretario democratico resti anche il candidato premier, è bene non cambiare lo Statuto». Aggiunge, poi: «Le primarie siano aperte e Matteo sia più profondo, non bastano le battute». In questo mosaico di posizionamenti, Franceschini a sua volta apre al sindaco fiorentino: «Le regole vanno concordate con Renzi», osserva. Nel vertice mattutino con Piero Fassino, Antonello Giacomelli, Marina Sereni e Ettore Rosato, il ministro per i Rapporti con il Parlamento non rompe con Bersani però non condivide l’impostazione che i bersaniani voglio dare al congresso. La prima faglia si aprirà lunedì con l’elezione del presidente della commissione per il congresso: Bersani e Epifani punterebbero su Zoggia, che è a capo dell’organizzazione del partito. Ipotesi che scatena la protesta dei “giovani turchi”, la sinistra del partito. «Zoggia non è neppure pensabile, proprio perché ha già un altro ruolo», attacca Francesco Verducci. «Almeno sul percorso troviamo equilibrio — invita Giacomelli, vice presidente dei deputati del Pd — . I documenti di queste ore? Poco convincenti, sinceramente. Siamo preparatissimi sull’organizzazione di competizioni interne ma l’attitudine al confronto di idee è un po’ arrugginita».
Pentito sulla rottamazione, Renzi? «No, casomai pentito di avere fatto troppo poco, perché oltre ai politici bisogna rottamare le politiche, nel senso delle scelte politiche... «. Invece di ascoltare i consigli di D’Alema di non esporsi troppo mediaticamente, ieri sera il sindaco è in tv, al Tg2, e detta due o tre cose che contribuiscano a fare uscire il Pd dall’afasia sull’agenda del governo. Anche Epifani bacchetta sulle cose da fare. Il segretario su Facebook chiede al governo Letta di trovare soluzioni su «lavoro per i giovani, l’Imu e no all’aumento dell’Iva». E si prepara sabato all’incontro con i socialisti europei a Parigi e con Hollande. Tutta la sinistra riprende respiro e iniziative. Oggi si riunisce “Rinnovamento della sinistra” con Nichi Vendola e Maurizio Landini. Domani mattina al Capranichetta il nuovo “Movimento 139” del sindaco di Palermo Leoluca Orlando e di Felice Belisario.

Repubblica 14.6.13
Escort negli uffici del Comune, è scandalo a Firenze


FIRENZE — Una inchiesta della procura fiorentina e della polizia postale su un vasto giro di escort di alto bordo lambisce i palazzi del potere locale. Una prostituta straniera, la più richiesta da imprenditori, commercianti e professionisti, è stata intercettata mentre raccontava quel che le era accaduto in un ufficio del Comune di Firenze, dove aveva avuto un rapporto “ad alta intensità” con un funzionario dell’ufficio mobilità, già collaboratore dell’assessore Massimo Mattei (Pd). «Tutto che tremava, mi ha strappato le calze, siamo andati lì nella stanza delle conferenze». Ma sul più bello è entrata la donna delle pulizie. «A questa qua è caduta tutta l’acqua per terra... Lui era tutto partito, lì. Dico: “Guarda se sta arrivando l’ascensore”. Ma lui: “Non c’è nessuno a quest’ora”. E questo scemo ha lasciato la porta lì aperta, capito? E’ entrata la donna delle pulizie».
Nell’inchiesta sulle escort ci sono quattordici indagati per favoreggiamento della prostituzione: albergatori, orefici, avvocati, commercialisti, carrozzieri, imprenditori edili, il direttore di una nota palestra. Vasta la platea dei clienti, infuriate molte mogli. E’ stata una di loro a far partire le indagini.
Nelle stesse ore in cui si diffondeva la notizia della escort in Comune, l’assessore alla mobilità Massimo Mattei è stato ricoverato d’urgenza in ospedale per una malattia infiammatoria che richiede una serie di esami clinici e forse anche un intervento chirurgico. Per tale ragione ha scritto al sindaco Matteo Renzi annunciando le proprie dimissioni per motivi di salute e chiedendogli di essere sollevato dall’incarico. Occuparsi di traffico a Firenze equivale a stress permanente. E in questi mesi incombono, oltretutto, i lavori in vista dei mondiali di ciclismo. I problemi di salute e le conseguenti dimissioni tolgono forse l’assessore anche dall’imbarazzo per la vicenda che coinvolge il suo ex collaboratore, lambito dallo scandalo escort. Palazzo Vecchio

il Fatto 14.6.13
Marchini: Io alla guida del Pdl? Mai


“UNA FESSERIA”. Alfio Marchini smentisce l’indiscrezione secondo cui Berlusconi gli avrebbe proposto di candidarsi alla guida del Pdl come leader “anti - Renzi”. Secondo il retroscena di alcuni giornali, l’ex candidato a sindaco della Capitale e il Cavaliere avrebbero avuto colloqui telefonici. “Non lo vedo e non lo sento da almeno dieci anni”, taglia corto Marchini dai microfoni di “Un giorno da Pecora” su Radio2. E, nel caso arrivasse effettivamente la proposta da Berlusconi, “gli risponderei comunque di no. In Italia - spiega - c’è bisogno di una cosa completamente nuova, l’offerta politica non è adeguata alle esigenze del paese”. Marchini suggerisce anche all’ex premier di cercare la novità. “Con la sconfitta di Alemanno si è chiusa la fase avviata nel 1994. Per rilanciare il partito Berlusconi deve inventarsi qualcosa di diverso, dare un coplo d’ala”.

il Fatto 14.6.13
Falsa propaganda
Quando D’Alema diceva: “B. è ineleggibile”
di Giuseppe Selvaggiulo


Massimo D’Alema ha più volte dichiarato in pubblico che Berlusconi era ineleggibile. Ma il suo partito - i Ds - in Giunta nel 1994 votarono per l’eleggibilità. Ecco il racconto contenuto nel “Peggiore”, biografia del Lìder Maximo
Violante diventa capogruppo e alla fine del febbraio 2002, nel corso della discussione sull’acquitrinosa legge Frattini sul conflitto di interessi, si lascia scappare una frase che illumina retroattivamente gli eventi del 1994: “Io sono d’accordo con Massimo D’Alema: non c’è un regime sulla base dei nostri criteri. Però, cari amici e colleghi, se io dovessi applicare i vostri criteri, quelli che avete applicato voi nella scorsa legislatura contro di noi, che non avevamo fatto una legge sul conflitto di interessi, non avevamo tolto le televisioni all’onorevole Berlusconi... Onorevole Anedda, la invito a consultare l’onorevole Berlusconi perché lui sa per certo che gli e stata data la garanzia piena – non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di governo [da Berlusconi a Dini, ndr] – che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta. [... ] A parte questo, la questione e un’altra. Voi ci avete accusato di regime nonostante – ripeto – non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... [... ] Durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset e aumentato di 25 volte”. Mentre pronuncia queste parole, accanto a lui Piero Fassino, segretario del partito, affonda il volto dietro le dita sinuose e diafane e chiude gli occhi (...)
UNA LEGGE del 1957 stabilisce l’ineleggibilita in Parlamento dei titolari di “concessioni pubbliche di rilevante interesse economico”. Nel 1994 la norma, scrive Sylos Labini, viene “aggirata con un miserabile cavillo”: considerare titolare della concessione non il proprietario (Berlusconi), ma il presidente (Confalonieri) della Fininvest. “Una beffa manifestamente cavillosa”, concorda il politologo Giovanni Sartori. “I leader dei Ds accettarono per buona questa finzione”, critica Sylos La-bini, commettendo “un grave errore di strategia” e reclutando Berlusconi “come socio di un’impresa tanto ambiziosa quanto assurda: riformare la Costituzione”. Lo stesso D’Alema, alla Festa dell’Unità di Bologna nel 2000, confermerà che “Berlusconi era ed è ineleggibile” e accettarlo in Parlamento e stato frutto di una “finzione giuridica”. Nel febbraio 2001, intervistato su Radio Radicale, spiegherà che il conflitto di interessi “è già regolato dalla legge: il codice prevede l’ineleggibilita. Nel 1994 ha ottenuto che la giunta delle elezioni, a maggioranza di centrodestra, stabilisse che il titolare della concessione pubblica fosse Fedele Confalonieri. Una cosa che fa sorridere”.. Stesso concetto ribadito in settembre, chiudendo la Festa dell’Unità a Gallipoli. Due mesi dopo, sentitosi chiamato in causa da Sylos Labini sul giornale del suo partito, “sperando di sgomberare il campo – chissà – una volta per tutte dall’accusa di essere stato l’artefice di uno scambio inconfessabile e immorale in materia di Costituzione e di conflitto di interessi con l’onorevole Berlusconi”, D’Alema risponde piccato: “Ciò che lei scrive e falso, caro professore”. Cita uno degli illuminanti aforismi di Stanislaw Lec – un pettegolezzo, invecchiando, diventa un mito - e spiega che la decisione sull’ineleggibilità di Berlusconi fu presa dalla giunta della Camera “a maggioranza: i deputati del mio partito, del quale ero segretario da pochi giorni, ovviamente votarono contro, come gli altri parlamentari progressisti. Con la maggioranza si schierarono due deputati del Ppi”. Sylos Labini verifica e, sempre su “l’Unità”, lo smentisce documenti alla mano: “Sono costretto a ribattere: no, caro presidente, quello che scrivo non e falso e il suo ricordo non e esatto. Negli atti della giunta per le elezioni della Camera di mercoledì 20 luglio 1994 a pagina 3 risulta che l’unico oppositore fu il deputato Ds Luigi Saraceni, che, come mi ha confermato oggi per telefono, prese la decisione autonomamente: i suoi colleghi Ds votarono a favore. Tutto questo avveniva nel 1994, quando la maggioranza era del cosiddetto centrodestra. Anche più grave è ciò che accadde dopo le elezioni del 1996: allora la maggioranza era del centrosinistra ma non ci fu nessuna opposizione: anche in questo caso ho gli atti della Giunta”.

l’Unità 14.6.13
Alfredo D’Attorre. L’esponente bersaniano: «Il Pd è un partito culturalmente plurale
e non padronale, un unicum nel panorama politico italiano»
«Non siamo contro Matteo ma il Pd non va snaturato»
di Simone Collini


«Il documento non è contro qualcuno, non è una pregiudiziale nei confronti di una persona», dice Alfredo D’Attorre, uno degli estensori del testo titolato “Fare il Pd”, che ha fatto scattare l’allarme nel fronte renziano. «Lo abbiamo anzi scritto proprio per provare a riportare il dibattito precongressuale sui nodi politici anziché sulle persone e sulle geometrie interne», spiega il responsabile del Pd per le Riforme istituzionali. «Non a caso parte da una valutazione del voto italiano in rapporto a quanto avviene nell’Eurozona». Parlare dell’Europa per spiegare un risultato elettorale diverso da quello immaginato può apparire autoassolutorio, non crede onorevole D’Attorre?
«Nessuna autoassoluzione, si tratta soltanto di riconnettere la discussione politica a un dato di realtà, allo svuotamento di sovranità democratica presente nell’attuale architettura costituzionale dell’Euro. Se non partiamo da qui, non solo non capiamo il risultato elettorale, su cui certamente hanno anche pesato nostri limiti ed errori, ma non capiamo neanche la fase aperta dopo e qual è la missione del governo Letta, che è proprio quella di incidere su questa situazione a livello europeo».
Il testo parla anche del Pd e del rischio di una deriva personalistica del partito: non è un riferimento a Renzi questo? «Il nostro testo non è contro qualcuno. Affronta però quello che è un punto di fondo, e cioè che va evitato il rischio di un doppio snaturamento del Pd, uno in direzione personalistica plebiscitaria e uno legato alla tentazione di un ritorno alle case madri. Il Pd è un partito culturalmente plurale e non padronale, un unicum nel panorama politico italiano. Con il documento, che è la traccia di una discussione aperta e non di una corrente chiusa, diciamo che questa specificità va preservata e che i problemi del partito, che sono seri, non si superano omologando il Pd ai partiti personali». Anche quello che dice sa tanto di riferimento diretto a Renzi, non pensa? «Quello che io penso è che Renzi sia una risorsa importante per il futuro, potrebbe anche essere la figura che ci guida in una competizione elettorale col
centrodestra. Ciò che non condivido è l’idea, che Renzi vuole portare nel nostro partito, di semplificazione leaderistica, l’ipotesi di procedere non verso un rafforzamento dei canali di partecipazione ma verso una destrutturazione in senso verticale. L’idea cioè di un partito che funziona semplicemente con la delega dell’uomo solo al comando, che riduce le sedi di elaborazione collettiva, smantella ogni struttura, si identifica con la capacità di comunicazione del singolo leader».
I leader servono, non crede?
«Certamente, e un grande partito ha bisogno di una leadership autorevole. Ma altra cosa è la leadership plebiscitaria. Con Renzi ci potremo forse incontrare in futuro quando si tratterà di discutere chi dovrà guidarci nella competizione contro la destra, ma sull’idea di partito non siamo d’accordo e ci dovrà essere un confronto chiaro».
Difficile ci sia confronto, dicono i sostenitori di Renzi, se si approvano regole che lo penalizzano, a partire dall’eliminazione delle primarie per la scelta del leader. «Non si pone il problema di abbandonare le primarie per il leader. È giusto
che il segretario abbia una legittimazione ampia attraverso primarie aperte. Ed è puramente strumentale il tentativo di attribuirci delle posizioni diverse da quelle che abbiamo espresso».
È strumentale anche dire che volete imbrigliare Renzi, proponendo di far eleggere prima del leader nazionale, e col voto degli iscritti, i segretari locali? «Guardi, vogliamo semplicemente far ripartire la discussione politica dal basso, dai territori. E faccio notare che questa idea è contenuta nella relazione di Epifani approvata in Direzione con il voto di tutti, renziani compresi». Diceva che il segretario sarà eletto con le primarie, eppure Bersani ha detto che per votare ci si deve iscrivere: non hanno ragione i renziani a lanciare l’allarme? «Bersani ha posto un tema, e cioè che chi partecipa all’elezione del segretario deve dichiararsi, essere riconoscibile come elettore Pd, e quindi per partecipare alle primarie ci si registra come tale. Ma ciò sta nello Statuto, è una regola rispettata già con l’elezione di Veltroni nel 2007 e di Bersani nel 2009. Le rappresentazioni di comodo delle posizioni altrui di certo non aiutano».

La Stampa 14.6.13
Pd, crolla il tesseramento Voto solo agli iscritti? I bersaniani restano soli
Popolari e lettiani non si schierano contro Renzi
di Carlo Bertini


«A quelli che vogliono far eleggere il segretario solo dagli iscritti, farei notare che in giro c’è un’aria pesante sul tesseramento, anche da noi in Lombardia». Non è una voce isolata quella di Vinicio Puluffo, capogruppo in Commissione di vigilanza Rai, che magari per la sua fede veltroniana potrebbe essere sospettato di tirare acqua al mulino di chi è contrario a stravolgere le regole del Pd delle origini.
A lanciare per primo l’allarme su «un’emorragia di iscritti», è stato da sponde opposte anche il governatore toscano e bersaniano di ferro Enrico Rossi in un’intervista a La Stampa giorni fa, spiegando che se nelle regioni rosse va così, chissà altrove: circostanza che avvalora la tesi che il «cappotto» delle amministrative è «una vittoria dei sindaci e non dei partiti centrali», per usare una battuta di Renzi. Il quale continua a dire in giro che la condizione per candidarsi è che il segretario lo votino tutti e «se loro non vogliono che io corra, me ne sto fuori a fare il battitore libero». Ma proprio la paura di ingaggiare una rissa congressuale con il rottamatore, tentato appunto di mollare («mi vien voglia di rovesciare il tavolo», dice) sta facendo franare l’asse della «vecchia maggioranza»: Bersani ha provato a coinvolgere Franceschini e Letta nell’iniziativa di dar vita a un documento contro i «partiti personali», incassando però silenzi e uno stop dell’area fassinian-franceschiniana: che dopo essersi riunita ha deciso di non schierarsi nella disputa anti-Renzi. «Dai documenti di questi giorni si vede che siamo più allenati ad organizzare competizioni interne che confronti di idee», è la frecciata di Antonello Giacomelli. Dunque se l’intento di Bersani e dei suoi era quello di fare pace con i dalemiani e rinsaldare un asse congressuale, a restare isolato sembra essere l’ex leader.
Il summit alla Camera degli ex Ds di mercoledì sera si è chiuso con la frenata del dalemiano Danilo Leva, segretario del Molise e membro della commissione congresso: se gli intenti comuni potranno riunirsi, ciò andrà fatto con un documento di segno ben diverso che andrà riscritto daccapo, è il senso del suo discorso. Riunione sciolta anzitempo per la fretta di molti di correre da Pommidoro a San Lorenzo: dove Ugo Sposetti ha fatto cucinare un cinghiale delle sue terre viterbesi offrendolo ai «compagni» giovani e meno giovani, che pare abbiano apprezzato ben di più il menù del sanguigno tesoriere degli ex Ds piuttosto che i corteggiamenti degli «emiliani». Riunione a cui inoltre il convitato di pietra, cioé Renzi, reagisce con scherno al Tg2, «l’ex segretario convoca gli ex ds? Preferisco parlare non di ex ma del next, del futuro... »
E anche se Franceschini e i suoi sono favorevoli a far votare alle primarie tutti quelli che si iscrivano al Pd, ma non solo 15 giorni prima nei circoli, bensì anche nei gazebo la domenica stessa, non sarà facile trovare tra un mese una maggioranza in assemblea disposta a modificare le regole attuali. Perché «si rischia di passare da tre milioni di votanti a un segretario eletto da 100 mila persone», avverte Peluffo. Ad ammettere la fatica di riportare le pecorelle all’ovile è pure una figura che per il suo ruolo di coordinatore dei segretari regionali, Enzo Amendola, dalemiano doc, ha voce in capitolo. Certo smorza molto i toni, ricorda che «fino a marzo nessuno si è mosso per via delle elezioni», ma ammette che «una flessione in giro c’è, anche se io la ritengo fisiologica dopo tutto quello che è successo». E oggi Amendola riunirà la segreteria della Campania per correre ai ripari e dire che bisogna fare qualcosa. La realtà è che anche molti militanti, «quelli che cucinano i tortellini, quelli dei circoli che organizzano le feste del Pd, ci dicono di voler aspettare prima di rifare la tessera, figuriamoci se ne arriveranno di nuovi», ragiona in camera caritatis un dirigente del nord. Si capisce meglio dunque la voglia di usare le primarie per fare nuove tessere. Ed è chiaro che separare i ruoli di candidato premier e segretario sarebbe funzionale a far votare solo gli iscritti. E va da sè che Renzi sia contrario a far passare queste modifiche allo statuto. «Al Pd serve aria nuova, basta con correnti e spifferi, c’è bisogno di entusiasmo, altrimenti le elezioni noi non le vinciamo.. ».

Corriere 14.6.13
Una corrente del «Cinghiale» per fermare il rottamatore
di Maria Teresa Meli


ROMA — Dovrebbe essere, anzi è, il diretto interessato, ma in questi giorni Matteo Renzi sembra voler fare finta di niente di fronte ai movimenti dei bersaniani contro di lui. «Non mi posso occupare di archeologia e di ex comunisti — ha detto il sindaco di Firenze a qualcuno dei suoi — ora sto lavorando come un matto sulla città. Stanotte ho fatto le tre a controllare i cantieri con il mio giubbetto da Fonzie. Del resto mi occuperò da lunedì...».
Vero e falso. Vero, perché effettivamente il primo cittadino di Firenze non era fortemente motivato a scendere in campo per la segreteria: sono i suoi che lo hanno spinto. Fosse stato per lui non si sarebbe mai fatto coinvolgere in questa vicenda. Poi l'ha vista come una scelta obbligata e necessitata. Quindi da qualche giorno in qua le perplessità e le resistenze sono tornate ad affiorare. Fino all'altro ieri. Ossia fino a quando Renzi ha capito che questa volta non sarebbe stato «solo contro tutti, come le altre volte».
Per questo si può anche sostenere che il palesato disinteresse di Renzi per i movimenti dell'ex segretario sia reale. Però, nel contempo, è falso perché poi ieri il sindaco ha rilasciato un'intervista al direttore del Tg2 tutta incentrata su questi temi e ha già caricato a molla i suoi. Ieri Luca Lotti ha incontrato Guglielmo Epifani per chiarire una volta per tutte la posizione dei renziani sulle regole congressuali. Su questo tema i sostenitori del primo cittadino di Firenze sono determinati: niente scherzi e giochi di palazzo e di apparato.
D'altra parte è proprio su questo fronte che il sindaco non è più «solo contro tutti». Dalemiani, veltroniani, franceschiniani, «giovani turchi» sono tutti d'accordo con lui: non si inventino nuove regole per l'elezione del segretario. Lo diceva giusto l'altro giorno Matteo Orfini, con l'abituale franchezza: «Non è detto che io voti Renzi segretario, ma una cosa è sicura: sono contrario al mutamento delle regole in corso e trovo penoso l'affaticarsi che fa qualcuno solo per sbarrare il passo a Renzi». Anche Dario Franceschini ha cercato di fugare le perplessità dei suoi, di quelli che gli dicevano: «Guarda che Matteo non è un vero democristiano: se vince non fa prigionieri». «Lui è più che una risorsa e noi dobbiamo sostenerlo, soprattutto se è Renzi la carta con cui il centrosinistra può sperare di vincere», è stato il ragionamento che ha fatto ai fedelissimi.
Insomma, per farla breve, Renzi adesso fa il distante e il distaccato. Ma in realtà sta studiando tutte le possibili mosse del prossimo futuro. «Se non vogliono che corra me ne resto fuori a fare il battitore libero...», continua a ripetere il sindaco rottamatore. Le sue parole, però, assomigliano più a una minaccia che a una rinuncia. Renzi lunedì prossimo, sistemati i cantieri fiorentini, tornerà all'assalto del palazzo del Nazareno. Lui e i suo condurranno una battaglia durissima sulle regole per l'elezione del segretario insieme ad altre componenti con l'obiettivo di costringere i bersaniani con le spalle al muro. Del resto, sarebbe clamoroso se per la seconda volta, solo perché c'è Renzi in campo, il Partito democratico decidesse di cambiare le regole.
Le resistenze antirenziane però sono forti e non riguardano solo gli ambienti più vicini al segretario. C'è tutto un mondo che fa riferimento agli ex Ds che fatica a mettersi in sintonia con il primo cittadino di Firenze e con le sue innovazioni. E infatti si torna a parlare di possibile scissione. Il tam tam è ripreso l'altro ieri, dopo che al termine della riunione dei bersaniani l'ex tesoriere Ds Ugo Sposetti ha portato poco meno di una trentina di parlamentari a cena da «Pommidoro», ristorante romano assai in voga nella sinistra di qualche decennio fa. Cinghiale (offerto da uno dei commensali) per tutti, condito con lamentele e rivendicazioni. La corrente del Cinghiale l'hanno ribattezzata al Pd. È un altro segnale del fatto che l'agitarsi di Bersani rischia di spaccare il partito in ex Ds ed ex margheritini. Non è un caso, a questo proposito, che il 22 e il 23 giugno a Todi si incontrino i cattolici del Pd e del centrosinistra in genere (ci saranno anche Graziano Del Rio e altri renziani) o che oggi Fassina, Cuperlo, Tronti e il segretario della Fiom Landini terranno un'iniziativa insieme sotto le insegne di «Rinnovamento della sinistra».

Corriere 14.6.13
I democristiani e la sindrome del Pd
di Paolo Franchi


Sono passati vent'anni da quando l'Italia ha vissuto l'espianto dei suoi partiti storici. Ma i partiti nuovi che hanno preso il loro posto «non hanno avvertito e non sentono la necessità di stabilire la loro genealogia». Forse è anche per questo che Silvio Berlusconi ha potuto annunciare, come se niente fosse, la fondazione del Pdl dal predellino di un'automobile, e che Ds e Margherita, quando hanno deciso di fondersi nel Pd, si sono ben guardati dal definirne prima, insieme, i caratteri. Di sicuro è anche per questo che i partiti attuali risultano, più che leggeri, volatili. La qual cosa non è forse particolarmente grave per il Pdl. Ma è certamente drammatica per il Pd.
Proprio sulla ricerca di una (possibile) genealogia di un (chissà quanto possibile) Partito democratico si appunta la riflessione di Giuseppe Vacca, in una raccolta di scritti sulla storia politica italiana tra la Prima e la Seconda Repubblica che esce in questi giorni per i tipi della Salerno Editrice. All'interrogativo volutamente provocatorio formulato nel titolo (Moriremo democristiani?), Vacca risponde sin dalle prime righe dell'introduzione con un «no», subito mitigato, però, da un sibillino «o non ancora». Ma di sicuro è alla questione cattolica nella nostra storia, e al suo indissolubile intreccio con la questione comunista, che il libro è interamente dedicato. Per indicare che il Pd potrà avere un futuro solo se e in quanto riuscirà a ritrovare il filo di una storia che inizia ben prima del compromesso storico berlingueriano e della Terza Fase vaticinata da Aldo Moro. Di una storia, è appena il caso di aggiungere, in cui ad altre tradizioni, a cominciare da quella socialista, Vacca lascia ben poco (ma sarebbe meglio dire: nessuno) spazio.
In principio, naturalmente, fu Antonio Gramsci, il Gramsci che, nel dicembre del 1918, salutava sull'«Avanti!» la nascita del Partito popolare come «il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento». Ma fu anche Luigi Sturzo. Poi fu, evidentemente, Palmiro Togliatti, il comunista che per primo, dal voto sull'articolo 7 della Costituzione al discorso di Bergamo del 1963 sui «destini dell'uomo», si interrogò e cercò risposte nuove al rapporto non solo tra Pci e Dc, ma tra politica e fede. Fu però anche, eccome, Alcide De Gasperi, che pure Togliatti maltrattò ingiustamente all'indomani della morte (a dispetto del titolo del suo saggio su «Rinascita», in cui si prometteva «un giudizio equanime»), ma, a giudizio di Vacca, anche per aprire un dialogo con le sinistre democristiane. Infine, naturalmente fu Enrico Berlinguer, che con il compromesso storico archiviò l'obiettivo, fin lì centrale nella strategia comunista, della rottura dell'unità della Dc, e si propose anzi di contribuire a presidiarla purché vi prevalessero le posizioni delle sinistre interne. Ma fu anche, e secondo Vacca in pienissima sintonia con lui, Aldo Moro, che con il segretario comunista condivideva pienamente la convinzione che i mutamenti degli scenari internazionali e l'elevatissima conflittualità sociale e politica interna mettessero a rischio, e in modo assai pesante, la coesione nazionale, la tenuta del sistema politico, in una parola la democrazia.
Da qui dunque, da questa storia in cui, nei momenti più alti e più difficili, le convergenze di fondo hanno fatto premio sul persistere di contrapposizioni politiche e ideologiche ereditate dal passato, dovrebbe prendere le mosse un Pd finalmente intenzionato — o magari costretto — a darsi un profilo e una cultura politica condivisa. Chi scrive ha qualcosa più di un dubbio su una ricostruzione della nostra storia in cui la nozione di «sinistra» (qualcosa, anzi, molto di più del Pci) non fa nemmeno capolino. Teme, più in generale, che i nostri tempi siano i meno indicati per la trasmissione critica della memoria storica. Ma pensa che a Vacca, tra i tanti meriti che ha, vada riconosciuto primo tra tutti quello di essersi infischiato dello spirito del tempo, per addentrarsi con intelligenza e conoscenza tra le fronde di un albero genealogico ormai ignoto e indifferente ai più. Con i risultati non propriamente esaltanti che sono sotto gli occhi di tutti.

l’Unità 14.6.13
Gambaro a processo. Così ha deciso Grillo
I 5 Stelle implodono
Crimi e Morra comunicano sul blog: a giudizio
I fedelissimi vogliono l’uscita di tutti i ribelli
Al Senato si parla già di un nuovo gruppo
Assemblea infuocata. Lunedì rischio scissione
di Andrea Carugati


ROMA «Gambaro a giudizio», tuona il blog di Beppe Grillo. La senatrice dissidente lunedì sarà processata dai parlamentari, proprio come ha preteso il Capo.
Le voci di chiedeva di soprassedere, di ricucire, di derubricare lo scontro tra la “ribelle” e il leader sono state silenziate. Del resto Grillo non poteva accettare che la sua condanna via blog, arrivata martedì, potesse passare senza conseguenze. «O lei o me», ha intimato via telefono a chi lo ha sentito in questi giorni. «Ditemi se sono io il problema», aveva chiesto a botta calda al popolo della Rete, dopo che la ribelle aveva addebitato ai sui post sempre più violenti il rovescio nelle urne delle comunali.
Ora saranno i 161 parlamentari rimasti (dopo l’uscita di due deputati) a doversi cimentare lunedì col referendum imposto dal Capo e dai suoi fedelissimi. Con l’obiettivo, ormai dichiarato, di fare pulizia. Chi voterà per salvare Gambaro sarà con un piede fuori dal gruppo, o forse tutti e due. E se non ci saranno altre espulsioni immediate, l’invito sarà pressante: «Andatevene».
Sono ore in cui i numeri ballano: 16 senatori vengono dati sicuri per il no alla cacciata, almeno una quindicina di deputati. Embrioni dei due nuovi gruppi parlamentari. Ma la campagna acquisti è in corso, soprattutto verso quella zona grigia di parlamentari che non si sono ancora schierati. E che però fanno molta fatica a cacciare una di loro come Adele Gambaro, una che in questi mesi aveva sempre lavorato in squadra, pur esprimendo ogni tanto qualche dubbio sulla linea oltranzista del duo Grillo-Casaleggio.
L’antipasto di quello che succederà lunedì si è avuto ieri. Vito Crimi e il suo successore Nicola Morra hanno annunciato sul blog il processo alla Gambaro, senza avvertire molti senatori. È seguita una assemblea infuocata, si sono sentite urla nei corridoi di palazzo madama, «Ora basta». Alcuni senatori come il friulano Lorenzo battista si sono alza-
ti e se ne sono andati. Con lui anche Paola De Pin, la genovese Cristina De Pietro, Ivana Simeoni ed Enza Blundo. «Ho saputo del processo solo a mezzo stampa», protesta Battista. Sotto accusa Crimi e Morra per aver deciso senza il voto dell’assemblea di indire il processo. Nella riunione della serata di mercoledì, infatti, nessuna decisione in tal senso era stata presa. I vertici del gruppo continuavano a sperare che le pressioni sulla Gambaro per una uscita “spontanea” potessero dare frutti. Se non subito nel giro di qualche giorno. E invece Grillo e il suo socio hanno preteso l’accelerazione. Impossibile gestire altri giorni di stillicidio e massacro mediatico. «Meglio un taglio netto e subito», è stato il ragionamento. Nelle sue telefonate di mercoledì e anche di ieri “Beppe” è stato chiarissimo: o si fa come dico io o mollo tutto. Ha ventilato persino l’ipotesi di stracciare lo statuto, di lasciare 160 parlamentari senza più una sigla, in balia di loro stessi. È furioso per l’ingratitudine. «Senza di me questi non erano niente».
Fonti ortodosse raccontano una storia diversa. E cioè che ieri la Gambaro si fosse detta disponibile a incontrare “Beppe”, con tanto di foto da dare ai giornali. Senza pubblica abiura, ma ritrattando almeno l’accusa al Capo di essere «il problema». Poi avrebbe fatto marcia indietro, sobillata da un gruppetto di senatori desiderosi di formare un nuovo gruppo. Perchè tutti sanno che, ormai, dal voto di lunedì non si tornerà indietro. Sarà uno spartiacque.
Ieri Grillo si è appellato ai suoi 9 milioni di elettori: «Fate sentire la vostra voce! Non perdete la capacità di incazzarvi, non dovete, o l’Italia sarà perduta. Da solo non ce la faccio».
Un appello che i fedelissimi hanno subito raccolto. E infatti da ieri pomeriggio sono cominciate a salire le voci sulla necessità dell’espulsione della Gambaro, a partire dal capogruppo alla Camera Riccardo Nuti («Si è perso fin troppo tempo») e da Roberto Fico. Crimi e Morra hanno affidato la loro requisitoria al blog, con un comunicato dalla prosa questurina: «La cittadina-senatrice, con le sue ripetute dichiarazioni ai media, ha messo in atto un’azione lesiva dell’immagine e dell’attività del Movimento 5 Stelle».
Il comunicato prosegue spiegando che «i sottoscritti hanno invitato la stessa a trarne le dovute conseguenze e dare quindi seguito alle sue dimissioni da parlamentare». Ma «la stessa» si è rifiutata. Anzi, «ha posto in essere un problema squisitamente ”italico”: evitare il rispetto di regole che, ancorché non scritte, sono prima di tutto logiche e morali, tanto che la stessa aveva promesso che nel caso di disaccordo con la linea del M5S si sarebbe dimessa». In- somma, «la stessa», come hanno spie- gato molti dissidenti nei giorni scorsi, non ha violato alcun comma del rigido regolamento dei cittadini-onorevoli. Ma ha violato una regola «morale». Co- me spiega Giovanni Favia, uno dei pri- mi espulsi a Bologna, «ha commesso il reato di lesa maestà». Gambaro è bolo- gnese. E per questo ancora più sospet- ta agli occhi dei vertici. È in Emilia che si anniderebbe il maggior numero di traditori. Una “spectre” che lavore- rebbe da dentro per sfasciare il M5S e poi passare armi e bagagli con una
nuova forza politica lanciata dal sinda- co di Napoli De Magistris, Sonia Alfa- no e forse anche Ingroia (con un ruolo anche per gli espulsi Favia e Salsi). Questa, almeno, è la tesi dei falchi gril- lini. Convinti che la «zavorra» vada eli- minata subito. «Meglio restare in ot- tanta ma compatti», spiega il deputato Andrea Cecconi. «Adele Gambaro ha esercitato un suo legittimo diritto, quello di esprimere un dissenso. Posso avere qualche dubbio sui toni, ma sui contenuti condivido», risponde il dissi- dente Tommaso Currò. Ormai sono due partiti in uno.

il Fatto 14.6.13
“Adele Gambaro a giudizio” La rivolta dei colleghi
di Paola Zanca


“ADELE GAMBARO A GIUDIZIO” LITE TRA M5S SULL’ESPULSIONE
LA CONTESTATRICE DI GRILLO CAMBIA IDEA SULLE DIMISSIONI IL CAPOGRUPPO PROPONE LA CACCIATA, LA RIVOLTA DEI COLLEGHI

L’ho abbracciata. Sembrava tutto risolto, poi non so cosa sia successo”. Manca poco all’ora di pranzo quando Adele Gambaro – senatrice emiliana convinta che “la debacle” dei Cinque Stelle sia tutta colpa di Grillo e “dei suoi post minacciosi” - esce dalla stanza del secondo piano del Senato. Ha parlato a lungo con Vito Crimi e Nicola Morra, capogruppo e successore: insieme hanno deciso qual è la strada migliore per uscire a testa alta da questa storia, per “salvarle la faccia”: dimissioni da palazzo Madama. Nessun passaggio al misto stile Scilipoti, nessuna cacciata dal gruppo dei grillini. Un gesto “logico”, “etico”. E indolore. Già, perché l'Aula certamente respingerà il suo addio alla casta, presto arriverà il generale Agosto e alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva chissà quante cose saranno cambiate, chissà chi se la ricorda, Adele Gambaro. Un piano perfetto, già ampiamente sperimentato con Giovanna Mangili, dimissionaria il giorno dopo le elezioni, tuttora seduta nei banchi dei Cinque Stelle. D'altronde, non si poteva lasciar correre la faccenda: “Dopo tre post di Grillo – sottolineano – come si fa a non risolvere la questione? ”. Perfino la Gambaro conviene che sì, è la soluzione migliore. Crimi e Morra chiamano lo staff, sul computer dell'ufficio stampa è salvata la bozza del comunicato che avrebbe dovuto annunciare le dimissioni. Invece nulla. Dopo un paio d'ore, la senatrice telefona al secondo piano e dice che ha cambiato idea: non se ne va. Crimi e Morra si infuriano. “Allora è in malafede”. La conclusione è immediata: “Sono i dissidenti che l'hanno convinta. Così, avranno un motivo nobile per andarsene, in solidarietà con lei. La verità è che lo fanno tutti per i soldi”. Partono le telefonate verso Genova e Milano. Morra annuncia ai cronisti che a breve ci saranno notizie. Arrivano dal blog. Titolo: “Gambaro a giudizio”. La sentenza è già scritta e porta la firma di Crimi e Morra: Adele Gambaro “ha messo in atto un'azione lesiva dell'immagine e dell'attività del MoVimento 5 Stelle”. Non è un reato per il codice di comportamento. Ma “esistono delle regole non scritte – chiarisce Morra – che valgono come le altre”.
NON LE CONOSCEVANO nemmeno quelli che sono giù, lontani dal secondo piano. E quando vengono a sapere che lunedì, in un'assemblea congiunta con i deputati, dovranno decidere se consegnare la loro compagna di banco alle volontà della Rete, restano di sasso. Bartolomeo Pepe si mette le mani nei capelli: “Ma che sta succedendo? Io non ne so niente”. Sfilano Maurizio Romani, Serenella Fucksia, Marco Scibona. Tutti dicono “no”, voteranno contro l'espulsione di Adele. Salgono su, in quarta commissione, dove da programma avrebbero dovuto discutere di vivisezione e di fondi per la ricostruzione dell'Aquila. Invece le macerie sono altre, la cavia pure. Tempo un quarto d'ora e le urla arrivano fino al corridoio. “Me ne vado. Sono due giorni che parliamo di questa storia – è la voce del friulano Lorenzo Battista – Tu Nicola avevi detto che saresti stato il capogruppo di tutti, invece io questa storia l'ho saputa dalla stampa. Quale sarebbe il reato? Parlar male di Grillo? Siamo oltre la Costituzione, abbiamo fatto la Carta a Cinque Stelle. Io non voglio più perdere tempo”. Sbatte la porta, se ne va davvero. Lo segue la collega Paola De Pin. Dentro Pepe sta ribadendo il concetto: “A me lo ha detto una del Fatto! Avete preso una decisione senza di noi! È gravissimo”. Aprono la porta Ivana Simeoni e Cristina De Pietro: urlano “Adesso basta” e si avviano all'ascensore. Dentro c'è chi prova a difendere Morra: “Fatelo parlare! L'ha firmato lui, fatelo parlare.. ”. Troppo tardi. È il caos completo. Si vota lunedì. Dalla Camera i “big” Riccardo Nuti e Roberto Fico hanno già messo la croce: la Gambaro, è fuori.

La Stampa 14.6.13
M5S, linea dura con la Gambaro
Lunedì si vota per l’espulsione. Pronto un gruppetto di scissionisti. E Grillo dal blog: serve l’aiuto di tutti
di Andrea Malaguti


Si insultano. Gridano. Piangono. «Basta, vi prego, andiamo a cena, fermiamoci», implora la senatrice Cinque Stelle nella bolgia della commissione Industria a Palazzo Madama. Non l’ascoltano. Ancora strepiti. Nervosismo crescente. «Io me ne vado», grida Lorenzo Battista. Sbatte la porta. E’ pallido, emaciato come se fosse stato ridotto un fantasma da una carestia emotiva. «Ho saputo che un deputato intende proporre l’espulsione della collega Adele Gambaro. Qui al Senato non sarebbe mai successo». Sarebbe successo.
In ogni caso si allontana. Con lui c’è Paola De Pin. Escono anche Cristina De Pietro, Rosetta Blundo e Ivana Simeoni. Si mordono le labbra. Hanno un viso da via Crucis e la Gambaro è la loro martire. Perché proporne la cacciata? E, soprattutto, dove sta precipitando il Movimento? Chi resterà in piedi dopo questa ordalìa insensata? È l’anteprima del Giorno del Giudizio, la velenosa anticipazione di una surreale Autodafé prevista lunedì alla Camera. Sarà quello il momento in cui, nel corso di una riunione plenaria, i 160 parlamentari pentastellati si scanneranno su un ordine del giorno anticipato sul blog di Grillo e firmato dai portavoce di Palazzo Madama (entrante e uscente) Nicola Morra e Vito Crimi. «La cittadina-senatrice Adele Gambaro, con le sue ripetute dichiarazioni ai media nelle quali ha esternato analisi politiche attaccando Beppe Grillo, ha messo in atto un’azione lesiva dell’immagine e dell’attività del Movimento». Non si punta il dito contro la regina di Picche di Alice nel Paese delle Meraviglie. A meno che non si voglia perdere la testa.
Dunque siamo al redde rationem, perché il voto su Adele Gambaro, sulla sua espulsione, è in realtà un voto sulla fedeltà al Capo. È evidente a chiunque. Del resto è proprio questo che si aspettano Grillo e Casaleggio. Il dimagrimento immediato del gruppo. Quanti se ne andranno? E chi? La lista dei fuggitivi è già nelle mani del Caro Leader genovese, al quale è stato raccontato che una parte di senatori ha chiesto informazioni su come formare un gruppo autonomo a Palazzo Madama. «Naturalmente hanno voluto sapere anche a quanti soldi pubblici avranno diritto». Prove tecniche di scissione. Una richiesta analoga - che cosa ci vuole per formare un nuovo gruppo? - è stata fatta anche alla Camera. Quanto è lungo il passo tra una informazione ipotetica e una scelta definitiva? Domanda che si stanno facendo anche numerosi parlamentari del Pd, prontissimi a partecipare a questa fusione a freddo. La risposta arriverà in pochi giorni.
Grillo conosce bene questo scenario e, per quanto stremato e aggressivo («Ovunque voi siate fate sentire la vostra voce.
Ognuno di voi è importante. Io ho una voce sola. (...) Non abbassate mai la testa. Nessuno di questi predatori impuniti e dei loro lacché dei media vi può dare lezioni», ha scritto ieri mattina) in qualche modo lo ha provocato. Non ha cercato subito la spallata. Prima ha provato a ricucire con la Gambaro. Le ha fatto sapere che le sue eventuali dimissioni sarebbero state calendarizzate solo tra un mese. Che nel frattempo Lui in persona sarebbe sceso a Roma, l’avrebbe abbracciata a favore di telecamere e le avrebbe detto: «Tutti sbagliano, ma noi siamo una famiglia». Una meravigliosa carrambata che avrebbe messo un po’ di polvere sotto il tappeto e a cui anche la Gambaro pareva avere aderito. Poi alcuni cittadini-senatori l’hanno fatta riflettere. Lei ha cambiato idea. Così Grillo ha deciso di dissotterrare l’ascia di guerra appoggiato dai suoi talebani. «Meglio pochi ma buoni. Ne perdiamo venti? Nessun problema». Così, mentre al Senato Serenella Fucksia, Roberto Cotti e Maurizio Romani spiegavano con chiarezza che non avrebbero mai votato per l’espulsione, alla Camera il capogruppo Riccardo Nuti rispondeva per niente scosso alla stessa domanda - «la Gambaro va espulsa? » - con un tono neutro e senza amarezza. «Certamente sì». I buoni e i cattivi, quelli che lunedì sera chiederanno, sacrileghi, il voto segreto. I fedeli, trasformati in artisti dell’ascesi affetti da principi talmente elevati e rigidi da negare loro quasi tutto il piacere della vita fisica e pulsionale, e gli infedeli-cittadini-comuni, che credevano, sognando, di entrare in Parlamento per disseminarlo delle proprie opinioni. Non è questa la Gaia terra.

Repubblica 14.6.13
Grillo, tutto pronto per la scissione dei ribelli
Verso un gruppo autonomo al Senato. Espulsione per Gambaro, lunedì il processo.
di Tommaso Ciriaco


ROMA — La prova di forza è compiuta. Da ieri Adele Gambaro è candidata all’espulsione. Il processo, istruito in gran fretta dall’ala dura, è in programma per lunedì pomeriggio, anche se l’ultima parola spetterà al web. A Palazzo Madama, nel corso di una drammatica riunione, urla e porte sbattute fanno da sfondo a una frattura insanabile. La linea dello scontro, fortissimamente voluta da Beppe Grillo, frantuma il Movimento e pone le basi per una scissione. Una piccola pattuglia di senatori, infatti, è in contatto con ambasciatori del Pd. L’obiettivo è raccogliere informazioni per costruire un gruppo autonomo. Come alla Camera, dove i dissidenti si sono dati appuntamento per martedì. È la dead line, poi alcuni di loro potrebbero mollare gli ormeggi e salutare il porto grillino.
Eppure, secondo il quartier generale cinquestelle, non sarebbe dovuta finire così. Gli ambasciatori avevano ideato un piano per siglare un armistizio. Prevedeva un incontro tra Beppe Grillo - in missione romana - e la senatrice Gambaro. L’autocritica della parlamentare avrebbe chiuso il caso, a favore di telecamere e in nome del bene supremo del movimento. «Poche ore fa la senatrice ha incontrato Morra. Eravamo d’accordo - rivela un falco - poi ha subito pressioni e si è sfilata».
La questione è in realtà parecchio più complessa. Perché il leader da giorni cerca il braccio di ferro. Lo desidera. In nome della chiarezza preferisce affrontare una scissione. «Chi non ci merita va stanato», gli sussurrano i duri e puri. Alla fine sono Morra e Crimi a mettere all’ordine del giorno la cacciata. Preannunciata da un secco tweet di Grillo: «Gambaro a giudizio». L’accusa alla senatrice è di aver consegnato ai media «analisi politiche attaccando Grillo» e mettendo così in atto «un'azione lesiva dell'immagine e dell'attività del M5S».
Da ieri, chi vota contro l’epurazione vota contro il Fondatore. Il problema è che la maggioranza dei senatori si batte da giorni contro misure così drastiche e ha assistito incredula all’accelerazione. Quando inizia a circolare voce del processo, quasi tutti cadono dalle nuvole. «Espulsione? Lo può scrivere fin d’ora - non si nasconde Maurizio Romani - io non voto contro di lei». Come lui, tanti altri.
Lo scontro è stato feroce e ha sfibrato l’infinita assemblea di Palazzo Madama. Urla, lacrime, volti stravolti. Sul calar della sera la porta della sala riunioni non riesce a trattenere l’appello di uno dei presenti, quasi disperato: «Ragazzi, vi prego, fermiamoci un attimo. Sospendiamo l’incontro. Così ci facciamo solo del male». Vanno avanti ancora per ore. Senza risultati. E infatti l’incontro proseguirà stamane.
Ma alcuni strappi si sono già consumati e assomigliano a scelte definitive. Perchè a summit in corso sbattono la porta i senatori Lorenzo Battista, Paola De Pin, Rosetta Blundo, Cristina De Pietro e Ivana Simeoni. Si lasciano alle spalle il gruppo. Quello che alcuni cinquestelle intendono abbandonare.
Qualche senatore, riservatamente, ha chiesto consiglio ai più esperti colleghi del Pd. Hanno preso nota delle procedure per dar vita a un nuovo gruppo, informandosi anche delle eventuali risorse che avrebbero a disposizione. Laura Puppato sembra confermare: «Gli addii? Sono diverse le persone a disagio». La senatrice del Pd, d’altra parte, sogna fin dall’avvio della legislatura un governo del cambiamento con i grillini.
Anche alla Camera tira aria di resa dei conti. Il caso Gambaro, in fondo, è il vero spartiacque del movimento. Alcuni deputati sono pronti a lasciare, forse già martedì. E molti altri difenderanno apertamente Adele. Uno è Tommaso Curro: «Ha esercitato un suo legittimo diritto, quello di esprimere un dissenso. Posso avere qualche dubbio sui toni, ma sui contenuti condivido». L’ala dura però tira dritto, come dimostra il capogruppo Roberto Nuti: «Certo che sono per l'espulsione, abbiamo perso già troppo tempo».
Il Capo, intanto, si fa sentire dal blog. Promette di mandare «i politici ad Hammamet», smentendo imminenti tour australiani. Chiede aiuto ai cittadini: «Fate sentire la vostra voce! L'Italia sta crollando. Non potete credere che io, con l'aiuto di una srl e con un pugno di ragazzi in Parlamento, possa combattere da solo» contro «partitocrazia, massoneria, sistema bancario, Bce, criminalità organizzata e tutti i media» in un Paese «tenuto sotto sedazione da giornali e tv che fanno impallidire la censura sotto il fascismo». Poi attacca: «Il finanziamento pubblico ai partiti, più pubblico che non si può» è la Rai. Infine chiama in causa i Fazio, Floris, Berlinguer e Vespa: «Quanto guadagnano?».

Corriere 14.6.13
Civati: «Dialogo, ma non scouting»


MILANO — Una replica e una riflessione. La crisi interna al Movimento spalanca le porte a nuovi possibili scenari futuri, anche in Parlamento. L'ideologo dei Cinque Stelle, Paolo Becchi, aveva denunciato lo scouting di Pippo Civati tra deputati e senatori. Ieri l'esponente pd ha risposto sul suo blog: i parlamentari «non fanno scouting, fanno politica. E mi rendo conto che un parlamentare, per chi propaganda la democrazia diretta, senza filtri, direttamente da Facebook, sia un problema di per sé (ontologicamente, direi), ma i parlamentari quello devono fare. Parlarsi, confrontarsi e cercare di capire se esiste qualcosa di meglio. Esattamente quello che sto facendo e che stanno facendo altri, nelle due Camere». «Io continuo ad auspicare la maturazione del dibattito interno al Movimento — spiega Civati al Corriere —. Non ho mai smesso di dialogare con i parlamentari Cinque Stelle, non lo faccio con malizia, ma perché ci sono energie interessanti nel gruppo». Poi Civati si scaglia contro Beppe Grillo: «Ha creato un clima da tregenda: sembra sia lui a configurare una spaccatura, ad auspicarla. La senatrice Gambaro? Mi pare espressione di un dissenso motivato». Su ipotetici scenari che prevedano un'alleanza con eventuali fuoriusciti dai Cinque Stelle, Civati è chiaro: «Se Berlusconi fa cadere il governo, ogni soluzione va verificata».
E. Bu.

La Stampa 14.6.13
Ora il Cavaliere teme che il Pd si apra ai transfughi M5S
di Marcello Sorgi


Lo scarno intervento parlamentare del ministro dell’Economia Saccomanni ha reso esplicite le difficoltà in cui si dibatte il governo. Taglio dell’Imu e blocco o rinvio dell’aumento Iva previsto dal primo luglio insieme non si possono fare. E non è neppure detto che la rata Imu sospesa a giugno possa essere del tutto cancellata. Occorrerebbero scelte e accordi politici chiari all’interno della larga maggioranza: ma è difficile, se non impossibile, costruirli nel clima attuale, con i due maggiori partiti impegnati ad affrontare le loro questioni interne e intenti a scrutarsi a distanza, per capire se e quanto l’intesa che sorregge il governo possa durare.
Berlusconi ha spiegato ai suoi che il governo deve andare avanti il più possibile e che non saranno le sentenze che lo riguardano, e stanno per essere pronunciate, a convincerlo a rompere per andare a nuove elezioni.
Il Cavaliere è consapevole che il centrodestra non è affatto pronto a un nuovo appuntamento elettorale e una parte degli eletti potrebbe perfino staccarsi, pur di evitare un altro scioglimento delle Camere. Per questo preferisce aspettare, vedere dove andrà a sfociare la lunga campagna precongressuale del Pd, e se Renzi riuscirà o meno ad averla vinta. Ma in un angolo della sua mente si fa più forte il sospetto che una parte del Pd stia lavorando alla costruzione di una maggioranza alternativa con i transfughi del Movimento 5 stelle, che potrebbe essere accelerata dalla crisi del rapporto tra Grillo e i suoi parlamentari.
La festa per la vittoria alle amministrative, nel Pd, è durata poco. Il documento promosso da Bersani costituisce una reazione ai timori, diffusi all’interno del partito, che un accordo tra Letta e Renzi accompagnato dalla formazione di un correntone centrale possa determinare gli equilibri del congresso già prima che la data sia decisa. Di qui la spinta per condizionare l’elezione del segretario con regole strette, sul genere di quelle che bloccarono l’ascesa del sindaco di Firenze nelle ultime primarie.
Insomma ognuno pensa ai propri problemi. E, soprattutto all’interno del centrosinistra, la vigilia congressuale alimenta continue manovre e impedisce decisioni chiare. In questa cornice trovare un compromesso all’interno della maggioranza sulle scelte più urgenti del governo o sull’iter delle riforme istituzionali è diventato davvero arduo. Lo ha capito bene Napolitano, che ieri non a caso è tornato a richiamare i partiti alle loro responsabilità.

il Fatto 14.6.13
Stefano Fassina
5 X MILLE I milioni sottratti alle Onlus


Lo Stato, l’anno scorso, si è fregato quasi cinque milioni di euro di proprietà delle circa 50mila onlus, enti di ricerca, associazioni e fondazioni che ricevono il 5xmille dai contribuenti. Da ieri la cosa è agli atti del Parlamento, anche se in termini meno diretti dei nostri.
Accade questo. Un deputato del Pd, il cattolico Luigi Bobba, aveva chiesto al Tesoro quanti soldi erano stati destinati dai cittadini al 5xmille e quanti effettivamente erano stati consegnati ai destinari. Ieri l’Agenzia delle Entrate ha risposto per bocca del viceministro Stefano Fassina: nel 2011 sommando tutte le scelte espresse dai contribuenti si arrivava a 487 milioni di euro. Problema: il 5xmille – che peraltro non è strutturale, ma viene rifinanziato di volta in volta - ha un tetto massimo a 400 milioni, quindi solo quei soldi sono stati effettivamente distribuiti secondo la percentuale delle scelte espresse. Un po’ spiacevole, ma normale visto che si è scelto di avere un tetto. Quindi onlus e soci hanno avuto 400 milioni? Non proprio: “In data 30 gennaio 2013 – ha spiegato un imbarazzato Fassina - la Ragioneria dello Stato ha comunicato che le risorse disponibili in bilancio sull’apposito capitolo 3094 corrispondevano a 395.012.422 euro”. E gli altri 4,99 milioni? Mistero. Si sa solo che la Ragioneria non li tirerà fuori e quegli altri non li prenderanno.

Corriere 14.6.13
L’imbarazzante prelievo sul 5 per mille che tradisce la fiducia degli italiani
di Giangiacomo Schiavi


È una notizia tenuta sottotraccia quella dei tagli al cinque per mille, una notizia che nessuno fino a ieri voleva dare, perché si può solo arrossire nel comunicare il prelievo forzoso operato dalla Ragioneria dello Stato ai fondi che gli italiani destinano alle attività sociali e della ricerca, a quel volontariato che spesso fa da argine alle fragilità del Paese.
Come si fa a dirottare più di 90 milioni liberamente versati da centinaia di migliaia di italiani per sostenere associazioni e fondazioni che su quei contributi costruiscono un programma di utilità sociale senza sentirsi in imbarazzo per un patto di fiducia tradito? Quando ieri mattina il sottosegretario Fassina ha ammesso che dei circa 490 milioni di euro raccolti attraverso le dichiarazioni dei redditi ne restavano più o meno 392 da indirizzare al no profit, è apparso chiaro che il cinque per mille dell'anno 2011 non si poteva più chiamare così: è diventato un quattro per mille.
Si chiude così maldestramente, dopo silenzi e polemiche, il capitolo dei fondi che 17 milioni di cittadini hanno inteso destinare alle attività socialmente utili che rappresentano un puntello fondamentale del welfare e incrociano il mondo della ricerca, dello sport, della cultura. Fa bene il settimanale Vita, che rappresenta il mondo del volontariato, a indignarsi, proponendo addirittura una class action: perché è legittimo domandarsi se quei milioni di euro sottratti saranno destinati a fin di bene oppure finiranno per tenere in vita qualcuno dei tanti sprechi di Stato.
Anche se siamo in piena spending review è evidente una sorta di accanimento punitivo (come quello dei tagli ai fondi per la disabilità) che penalizza settori importanti per la coesione sociale. Le politiche di austerità stanno mettendo a dura prova l'attività di enti e fondazioni no profit, ma se non ci fosse stata l'interrogazione parlamentare dell'onorevole Luigi Bobba oggi non sapremmo nulla di quei 90 milioni sottratti. Ci fanno capire che l'ammontare delle donazioni è inversamente proporzionale al numero dei donatori: l'importo diminuisce mentre i benefattori aumentano. Non è un paradosso?

il Fatto 14.6.13
Cultura, Letta può anche dimettersi
!Altri tagli e me ne andrò” disse
di Tomaso Montanari


“ALTRI TAGLI E ME NE ANDRÒ”, DISSE. ADESSO IL GOVERNO VUOLE REPLICARE IL SISTEMA BERTOLASO: ESTROMETTERE IL MIBAC DALLE EMERGENZE A FAVORE DELLA PROTEZIONE CIVILE. NON È UNA SFORBICIATA IN SENSO TECNICO. È PEGGIO

“Se ci saranno tagli alla cultura mi dimetterò”. Così parlò Enrico Letta il 5 maggio durante la sua intervista a Che Tempo che Fa. Bene, ora chi glielo dice che rischia di dover mantenere la promessa? Tecnicamente non sarà un taglio in senso stretto, ma quello che il Consiglio dei ministri intende approvare domani è forse peggio. É una sottrazione di competenze, di risorse, forse anche di dignità. Parliamo di direttiva che sarà discussa domani (e che ha già fatto infuriare il ministro Bray) che estrometterebbe radicalmente le competenze dei Beni culturali dalla gestione delle emergenze a favore della Protezione civile. Si tenta così di tradurre in norma la pericolosissima prassi che si è verificata all’indomani del terremoto dell’Emilia, e che ha condotto alla distruzione dei campanili e dei municipi attraverso la “dinamite di Stato”.
L’ABUSO della Protezione civile e della sua possibilità di aggirare o calpestare leggi, competenze e procedure, è stata una leva fondamentale dello scardinamento berlusconiano del governo della Repubblica. Domani capiremo se il governo Letta proseguirà su questa strada, o se invece avrà autonomia per segnare una discontinuità. Il banco di prova non potrebbe essere più delicato, perché riguarda la sorte del patrimonio storico e artistico negli istanti che seguono un terremoto, un’alluvione o un incendio. L’esperienza insegna che quei momenti sono decisivi: è da come si interviene a caldo per mettere in sicurezza una chiesa, un campanile, una pinacoteca o una biblioteca che dipende quasi completamente la loro sorte successiva. E in Italia la tutela capillare delle soprintendenze e la loro tradizionale sintonia con i Vigili del fuoco rappresentano una vera storia di successo: dall’alluvione di Firenze al terremoto de L’Aquila, se c’è qualcosa che ha funzionato è stata la capacità dei funzionari dei Beni culturali di intervenire subito e bene, con competenze che nessun’altro possiede.
Un governo serio dovrebbe aumentare le risorse del Mibac destinate all’“attività finalizzata alla valutazione e alla riduzione del rischio sismico dei beni culturali” (che ammonta a soli 25 milioni euro, in lieve discesa per quest’anno e ancor più erosi per il prossimo). E invece la direzione appare – ancora una volta – opposta. E la cosa è tanto grave da aver indotto l’ufficio del segretario generale del Mibac a indirizzare al ministro Bray una richiesta di intervento, dai toni durissimi e irrituali, che il Fatto Quotidiano può anticipare.
VI SI LEGGE che all’ultima riunione sul tema (tenutasi lunedì scorso presso la Presidenza del Consiglio) “siamo stati convocati all’ultimo momento e solo telefonicamente: peggio della polizia municipale! ”. E soprattutto “Si è richiesto invano riscontro circa l’inserimento dei rappresentanti del Mibac nel Comitato Operativo della Protezione civile”.
La pesante eredità di marginalità lasciata da ministri come Bondi, Galan e Ornaghi fa dunque si che al Mibac nemmeno più si risponda. E non un problema di galateo: “Negli ultimi anni il rapporto tra il nostro ministero e il Dipartimento Protezione civile, che aveva come punto di raccordo molto attivo un Gruppo di lavoro misto denominato GlaBec, è stato progressivamente azzerato sia in relazione alle attività preventive che in quelle operative”.
Ma ora siamo all’apice della crisi: “L’estromissione del Mibac dal processo organizzativo del-l’emergenza è gravissima – continua la nota – le nostre specificità sono evidentissime: nel-l’ultimo terremoto in Emilia se non avessimo attivato la NOSTRA organizzazione (le unità di crisi nazionale e regionale) non ci sarebbe stata alcuna azione immediata sui beni culturali, essendo prevalenti altre emergenze. Molti edifici pericolanti sarebbero stati abbattuti, nessuna cura particolare per le opere mobili ecc. Però poi noi siamo chiamati a rispondere di fronte alla legge e all'opinione pubblica! ”.
La posta in gioco è chiarissima: se prevarrà la Protezione civile, la precedenza andrà ad altre emergenze, lasciando i monumenti senza le prime, decisive cure e lasciando alle soprintendenze solo il triste compito di – è sempre la nota interna del Mibac a parlare – “dare valutazione dei danni e dei costi di recupero”.
PUÒ STUPIRE la determinazione della Protezione civile, ma occorre ricordare che uno dei frutti avvelenati della gestione Bertolaso è stata la massiccia campagna di commissariamenti che hanno affidato a uomini della Protezione civile il governo di pezzi pregiati del patrimonio. A cominciare da Pompei: dove il commissariamento targato Bertolaso ha provocato la cementificazione del Teatro Grande su cui ora indaga la magistratura. Chi ci ha parlato, racconta che il ministro Bray ha fatto proprio il grido d’allarme della sua struttura, e che domani è ben deciso a tener duro in Consiglio dei ministri. Ma la caccia al patrimonio culturale è aperta: il ministero per lo Sviluppo economico vorrebbe dimezzare il tempo entro il quale il silenzio delle sguarnite soprintendenze italiane dovrebbe essere considerato un assenso a ogni intervento sul paesaggio. E lo stesso ministero preme per affidare ai privati con scopo di lucro la gestione dei siti culturali cosiddetti minori, in cambio di restauri fatti con il pericoloso strumento del “project financing” (che in Italia finisce per accollare allo Stato le spese e lasciare ai privati il profitto).

il Fatto 14.6.13
Vita dura di chi dissente
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, noto che l’irritazione contro chi “rivuole indietro il suo vo to”, ovvero non esulta per il governo Letta-Alfano, resta aspra, ripetuta e autorevole. Da lontano non si capisce tanta agitazione. Che cosa mi sfugge?
Alfio

LA LETTERA trova un punto di appoggio nell’editoriale del Corriere della Sera a firma Antonio Polito del 12 giugno. In esso si legge: “La maggiore fedeltà dell’elettorato democratico anche di fronte a quello che mestatori interni e nemici esterni avevano definito il ‘tradimento’ delle larghe intese, dovrebbe indurre a liberarsi dalla ossessione della base”. Il senso di tutto l’articolo è: un partito fa la politica che crede e poi, come si vede, la “base” (intesa come massa sottomessa e succube) segue. È un’interpretazione, ma non la sola. L’altra, già apparsa in questa pagina, sul Manifesto, su alcuni articoli di Repubblica e su questo giornale, era che gli elettori Pd hanno votato tenacemente, e dovunque fosse possibile, contro i soci di governo, piazza per piazza, nome per nome, escludendoli a uno a uno da ogni possibilità di alleanza. E così, ribellandosi alle “grandi intese”, il Pd ha vinto le elezioni locali. Però l'articolo di Polito, ex senatore Pd, evoca un altro aspetto più interessante: è la definizione sprezzante “alla Berlusconi” che entra alla grande nella cittadella che una volta si sarebbe detta “la sinistra”. Notate, infatti, l’espressione “mestatori” dedicato a chi sostiene che governare insieme, mentre Brunetta schiocca la frusta e Berlusconi “si ritira per deliberare”, è il contrario esatto del voto chiesto e ottenuto da milioni di italiani appena poco prima di questo governo. E quel popolo di elettori, con o senza mestatori, resta perplesso per lo strano percorso (elezione del presidente della Repubblica interrotta alla seconda votazione, per poter governare assieme ad Alfano) mostra una curiosa fretta di correre via, attraverso un’invettiva cupa e misteriosa (mestatori) a cui non segue una spiegazione. Deve avere un interesse, il mestatore, o far parte di un complotto, come gli untori. Può esistere un mestatore disinteressato? D’altra parte l’Unità aveva intitolato l’articolo di Macaluso in dissenso con il mio articolo “Ridatemi il mio voto” con le parole di un “noir” alla Lucarelli: “Il gioco sporco”, creando così, prima di Polito, la categoria del “mestatore” che prende il posto del dissenziente come nella Cina di Xi. Che cosa sarà, per chi, con chi e per che cosa, il gioco sporco di questi mestatori? Affermare che è contro natura governare con la commissione Mitrokhin, con l’assassinio della spia russa Litvinenko che rifiutava di testimoniare che Prodi era una spia sovietica, o con la commissione Telekom Serbia che dichiarava ladro il governo dell’Ulivo? O del-l’editore primo ministro che acquista un’intera registrazione telefonica per screditare Fassino? Soltanto Roberto Benigni riesce a rispondere e a farlo con allegria, nonostante la tristezza del tema: “Il governo delle larghe intese? Ma era il nostro sogno”. (Tg3, 11 giugno). Attenzione, però. Benigni è la base. Rientrerà anche lui nel disprezzo che a essa dedica l’editoriale di Polito?

il Fatto 14.6.13
I “domiciliari” non si negano a nessuno
di Bruno Tinti


BAMBOLE non c’è una lira, si diceva in tv negli anni 70. Che è poi il motivo per cui, da sempre, non si costruiscono carceri. Dal che consegue che i delinquenti devono essere scarcerati; ovvero e meglio, nemmeno ci devono entrare in prigione: non c’è posto dove metterli.
Per conseguire questo risultato è stato fatto molto nel corso degli anni e oggi delinquere è praticamente gratis nel 99% dei casi. Allo stato non si va in carcere se si è condannati fino a 6 mesi di prigione: si pagano 6.840 euro; fino a 1 anno (se non si può avere la sospensione condizionale della pena): libertà controllata, devi abitare nel tuo comune di residenza e farti vedere ogni tanto dalla polizia; fino a 2 anni (se non si può avere la sospensione condizionale della pena): semidetenzione, puoi farti i fatti tuoi di giorno e tornare a dormire di notte in prigione, insomma ti risolvono il problema dell’alloggio; fino a 2 anni: sospensione condizionale della pena: se per 5 anni non commetti un altro delitto la fai franca; fino a 3 anni: affidamento in prova al servizio sociale, ti trovano un lavoro e ti pagano; in cambio non devi commettere reati; che è un bel sistema per risolvere il problema della disoccupazione; fino a 4 anni: detenzione domiciliare, stai a casa tua, magari nella villa di famiglia e la Polizia (che non ha altro da fare) ti controlla ogni tanto; quando hai scontato metà della pena (ti hanno ficcato 15 anni e ne hai fatti 7 e mezzo): semilibertà che è come la semidetenzione, di giorno a spasso e di notte dormi in prigione
A TUTTO CIÒ va aggiunto che, tra permessi vari e legge Gozzini (un anno di prigione sono 9 mesi perché, se non ti comporti male - non se ti comporti bene, se non fai troppo casino - ti abbuonano 3 mesi: per dire, 3 anni sono in realtà 2 anni e 3 mesi), le pene inflitte dai giudici diventano in pratica la metà: 10 anni sono poco più di 6, 20 poco più di 11 e via così. Perciò, quando si arriva (arrivava) a 3 anni, fuori di galera e, mi raccomando, state bravi.
Dovete sapere ancora un’altra cosa: i reati puniti con più di 6 anni di prigione sono pochissimi: droga, rapine, violenze carnali, sequestri di persona e, naturalmente omicidi.
Tutti gli altri, in particolare corruzione, frode fiscale, falso in bilancio, truffe, abuso d’ufficio, inquinamento, frodi comunitarie etc hanno pene massime tra i 3 e i 6 anni e, nella pratica, nessuno si becca più di 3 anni. Sicché delle prigioni conoscerà solo le cancellate esterne.
PERÒ, ogni tanto, qualche persona dotata di spiccata capacità delinquenziale, potrebbe essere punita con pene intorno a 6 anni per questi reati, diciamo così, da classe dirigente, i celebri ricchi che rubano.
Roba da far tremare i polsi, qui si finisce in galera! Che problema c’è? Il nuovo governo di larghe intese ha proposto una legge (di cui, in questo momento di tranquillità economica e sociale, davvero si sentiva il bisogno): la detenzione domiciliare potrà applicarsi anche a pene fino a 6 anni. Parlamentari corrotti e mafiosi, presidenti di tutto un po’ (regioni, provincie, autorità, consigli di amministrazione …) gente che conta, statevene tranquilli: male che vada, se non avete una villa, un palazzo, un buen retiro da un paio di miliardi di euro, vi ospiteranno di sicuro i i vostri colleghi. Solidarietà, che diamine!

Corriere 14.6.13
I re delle perizie psichiatriche duellano sui silenzi di Kabobo
L'assassino del piccone difeso dall'avvocato delle Br
di Andrea Galli e Cesare Giuzzi


MILANO — Il detenuto modello Adam Kabobo si firma con una A e una K molto simili (quasi due ovali, inclinati sulla destra) ma fin qui, un mese dopo la mattanza, ancora poco c'è da mettere a verbale. Bianca la pagina sulla quale le guardie annotano sue lamentele e propri reclami nella cella d'isolamento al primo piano del carcere di San Vittore. Forse inizieranno a riempiersi gli appunti dei due giovani avvocati, la 35enne Francesca Colasuonno e il 33enne Benedetto Ciccarone (già legale al processo contro le nuove Brigate Rosse) avendo loro finalmente trovato, ieri il primo soddisfacente incontro, un interprete esperto del dialetto parlato da Kabobo. Un onere, la ricerca, forse spettante all'Ambasciata del Ghana, invece assente, sempre più lontana dal connazionale pluriomicida.
Era l'11 maggio, sabato mattina, nel quartiere Niguarda, periferia nord di Milano. Alessandro Carolè, Daniele Carella ed Ermanno Masini morivano uccisi a picconate. Se fu più lucida azione assassina oppure follia dovranno stabilirlo le perizie psichiatriche: sull'esito poggia l'esistenza di Kabobo. Fine pena mai oppure libertà per l'incapacità d'intendere e volere? Prima però c'è un'altra domanda, tragica nella sua semplicità, attuale e necessaria ormai a questa distanza di tempo: chi è stato Adam Kabobo? I documenti inediti compreso il permesso di soggiorno riprodotto in questa pagina consentono di tracciare, certo più nel dettaglio, solo gli ultimi spostamenti del ghanese. Lo sbarco a Lampedusa e le scarse dichiarazioni rese dall'immigrato (nome, cognome, nazionalità, presunta data di nascita, il primo gennaio 1982); l'esito negativo della seduta, il 22 agosto 2011, della Commissione territoriale che aveva esaminato la sua richiesta per ottenere lo status di rifugiato; il conseguente ricorso presentato da Kabobo. Ma, appunto, prima? Ha attraversato l'Africa e sostato in Libia. E in Libia potrebbe aver patito gli orrori dei campi di concentramento di Gheddafi, una prigionia magari a spaccar pietre. Nuovamente sollecitati ieri, gli uffici dell'Ambasciata hanno rimpallato ogni aggiunta, né hanno raccontato di contatti con la famiglia d'origine del ragazzo. Nessuna novità nei carteggi tra la polizia che in Puglia si è occupata di Kabobo e i carabinieri che a Milano l'hanno arrestato. Il circuito delle comunità ghanesi, in Lombardia rappresentate e nutrite, non ha fornito, forse non avendo interesse a impegnarsi nella fatica, elementi che svelino Kabobo. Sicché bisogna ancorarsi alla quotidianità d'una detenzione scarna in gesti e parole. Silenzioso e seduto sul letto, vorace nel mangiare e avido nel dissetarsi, chiuso in se stesso perfino nell'ora d'aria, l'italiano ridotto all'essenziale («Non mi serve niente» detto all'attenta guardia di turno che vigila su tentativi di suicidio) e l'inglese, lingua istituzionale del Ghana, assai zoppicante, Kabobo aspetta in cella. I primi responsi cadranno a fine estate. Tre i mesi di tempo per le valutazioni dei periti. Sono quattro. Due nominati dalla Procura, Isabella Merzagora e Ambrogio Pennati, uno (Edoardo Re) scelto dalla difesa e uno chiamato dalla famiglia Carella: è Massimo Picozzi, che si è occupato del delitto di Cogne come della strage di Erba, mentre sia Pennati che Re sono figli della scuola di psichiatria dell'ospedale Niguarda. Tutte figure forti in un confronto-sfida che, a margine dei tragici fatti, attira investigatori e studiosi dei fantasmi della mente e dei precipizi dell'uomo.

Repubblica 14.6.13
Il cortocircuito del razzismo
di Chiara Saraceno


IL CORTOCIRCUITO operato dall’infausto augurio della leghista padovana ai danni di Cécile Kyenge è istruttivo. Impone una riflessione che non si limiti a rilevare, riducendola a fenomeno marginale e individuale, la grossolana maleducazione di una persona.
Una persona che non è in controllo né dei propri umori né delle proprie parole. Con quella frase, la signora (signora?) ha assimilato tutti i maschi neri a stupratori e tutti gli stupratori a neri. Chi chiede rispetto per i neri è quindi automaticamente complice di stupratori, tanto più se è nera essa stessa e rivendica orgogliosamente l’esserlo. Per indurla a ragionare, e per «farle abbassare le arie», l’unica è farle subire la violenza e l’umiliazione di uno stupro.
Questo corto circuito è esemplare, nella sua forma estrema, dell’atteggiamento razzista. Il diverso è sempre pericoloso e peggiore. Non conta che gli stupratori (o i ladri, o i violenti) appartengano a tutte le etnie e i colori della pelle. Non conta neppure che la maggior parte degli stupri, come dei femminicidi, avvengano per mano di un parente o conoscente. Lo straniero, il diverso da sé, tanto più se identificabile anche dal colore della pelle o da altri tratti fisici ben riconoscibili, è l’emblema di ogni pericolo e nequizia. Anche l’ultimo passaggio – l’augurio che anche Kyenge diventi vittima di uno dei “suoi” – fa parte della stessa logica. Donna e nera, e per giunta ministro: il soggetto perfetto per diventare il capro espiatorio di ogni frustrazione, l’incarnazione della vendetta contro le proprie paure.
Il fatto che sia una donna ad augurare a un’altra, sia pure vista come estranea e nemica, di essere stuprata, mostra quanto il razzismo, la costruzione dell’altro come nemico, produca una reificazione dei soggetti, di cui non si coglie né l’individualità né l’umanità e per i quali non si può provare neppure solidarietà. È un’esperienza ben nota nelle guerre, specie etniche, quando la diversità – religiosa, etnica – viene ipostatizzata al punto di cancellare la comune, sottostante umanità.
Dolores Valandro, la leghista padovana, probabilmente non sa che atteggiamenti come il suo non giustificano solo maltrattamenti e discriminazioni contro i neri (o i romeni, o qualche altro gruppo etnico-nazionale visto come pericoloso e nemico). Chi ha questi atteggiamenti spesso ha una visione delle donne (anche delle “proprie”) come esseri umani inferiori, da abusare a piacimento, anche fino al femminicidio. Quindi mettono in pericolo anche lei, sia pur “bianca” e italiana, ad opera non dei temuti “neri”, ma dei suoi simili, soprattutto ideologicamente e politicamente. Le ricerche sul razzismo, infatti, segnalano che c’è un nesso stretto tra razzismo estremo e sessismo altrettanto estremo.
Fanno bene i responsabili della Lega a prendere le distanze dalle affermazioni della propria iscritta, come fecero pochi mesi fa con Borghezio. Ma dovrebbero anche interrogarsi sul tipo di cultura che hanno lasciato crescere ed hanno spesso legittimato in tutti questi anni, con il loro linguaggio scomposto, le invettive contro gli immigrati, condite da compiaciuti vezzi celoduristi. È un lavoro di riflessione critica che peraltro ci riguarda tutti, nella misura in cui abbiamo troppo a lungo sopportato atteggiamenti linguisticamente e concettualmente violenti che, invece di contrastarlo, hanno creato un terreno favorevole a un clima relazionale e culturale pericoloso per tutti, in particolare per le donne, di ogni colore e posizione sociale. I razzisti estremi in Italia sono una minoranza, anche se rumorosa. Ma il razzismo strisciante, selettivo verso questo o quel gruppo, è molto più diffuso e non meno problematico.

Corriere 14.6.13
Intervista al neosindaco
«Sicurezza, lavoro, la Chiesa. La mia idea di comunità con una visione internazionale»
Marino: non frequento poteri forti, vorrei vedere il Papa
Oggi al Quirinale in bicicletta per l'incontro con Napolitano

qui

Corriere 14.6.13
Il termometro di Teheran
di Sergio Romano


Le elezioni iraniane non sono un esercizio formale, una falsa liturgia democratica. Il regime è autoritario e poliziesco, può manipolare il voto come è accaduto nelle elezioni precedenti e il suo leader supremo, l'Ayatollah Ali Khamenei, può servirsi di un «Consiglio dei guardiani» per eliminare i candidati che potrebbero mettere in discussione la sua autorità. Ma nella fase che precede il voto esistono pur sempre comizi, incontri televisivi, candidati che si contrappongono, programmi elettorali che lasciano trasparire diverse linee politiche ed economiche, dichiarazioni di notabili che esprimono pubblicamente le loro preferenze. È interessante, per esempio, che due ex presidenti poco amati dal leader supremo — Mohammed Khatami e Akbar Hashemi Rafsanjani — abbiano chiesto ai riformisti di concentrare i loro voti su Hassan Rohani, un candidato che nei suoi discorsi ha promesso di formare un governo di «speranza e prudenza». Ed è altrettanto interessante che un esponente delle Guardie rivoluzionarie abbia chiesto a tre candidati della destra fondamentalista di accordarsi per lasciare il campo a quello che ha maggiori possibilità di vittoria. In altre parole tutti ragionano e agiscono come se le elezioni fossero libere e il loro risultato potesse avere grande importanza per il modo in cui il Paese sarà governato nei prossimi anni. Nessun candidato mette in discussione la scelta nucleare, su cui il consenso nazionale è pressoché totale, ma su altri temi vi sono differenze. Dopo avere reso un necessario omaggio al nucleare, Rohani, per esempio, ha detto che il suo governo, se verrà eletto, lavorerà per «riconciliare l'Iran con il mondo».
Se i governi occidentali avessero espresso preferenze per un candidato ne avrebbero irrimediabilmente pregiudicato la sorte. Quale che sia il risultato delle elezioni, il nostro interlocutore sarà il presidente uscito dalle urne e avrà comunque sempre, dietro di sé, un'autorità più alta, un potere di ultima istanza: Ali Khamenei, subentrato nel 1989 a Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica. Nessuno dei due sarà un leader democratico. Ma saranno il vertice di un regime che vuole essere legittimato dalle elezioni, permette ad alcuni candidati di andare a caccia di voti e lascia così spazi di libertà che altri sistemi autoritari non permetterebbero. In questi spazi vi sono uomini e donne, studenti, professionisti, mercanti, imprenditori, chierici disponibili al dialogo, una nuova borghesia urbana che condivide la scelta nucleare, ma ha sete di libertà e ne ha dato un prova scendendo in piazza dopo le elezioni presidenziali del 2009. Questo è l'Iran con cui dovremo parlare nei prossimi anni se vogliamo fare una politica medio-orientale che non sia soltanto una litania di auspici retorici e luoghi comuni.
Parlare con l'Iran è necessario per almeno tre ragioni. È una potenza regionale, ha un capitale petrolifero che può giovare all'intera regione ed è la guida autorevole di una minoranza musulmana, gli sciiti, che attraversa il Golfo, è maggioranza in Iraq, si estende sino alla Siria e soprattutto al Libano. Non riusciremo a spegnere i fuochi della Siria senza la collaborazione dell'Iran. E non vi saranno prospettive di pace in Afghanistan se l'Iran non sarà chiamato a fare la sua parte. Qualcuno propone che il presidente degli Stati Uniti ripeta al nuovo arrivato l'offerta fatta ad Ahmadinejad all'inizio del suo primo mandato: una mano aperta. Quell'offerta fu rifiutata da un uomo che aveva l'ambizione di costituire, con Chávez e altri, una sorta di cartello anti americano. E che sulla questione nucleare non fece alcuna apertura. Ma quella mano aperta può essere ancora una buona idea.

l’Unità 14.6.13
Elezioni in Iran
Il distacco dei giovani: «Comandano le barbe lunghe»
di Michele Di Salvo


Tutti i candidati, e in particolare i due favoriti, hanno condotto una campagna di rigorosa unità nazionale, presentandosi come «ottimi amministratori». Chiunque verrà eletto per l’Iran cambierà ben poco in termini di vere e proprie riforme.
Il movimento verde del 2009 non esiste più, non tanto e non solo per le repressioni e le censure, quanto per la disillusione, in un sistema in cui, alla fine, difficilmente qualsiasi riformatore può anche solo candidarsi visto il veto del Consiglio Supremo.
La campagna elettorale è stata quanto mai gestita con toni bassi: a due settimane dal voto circa il 70% degli iraniani era indeciso su chi votare e il 60% anche sull’opportunità di andare alle urne. Ed è probabile che proprio per questi dati scoraggianti dal primo giugno sia calato il silenzio sulle intenzioni di voto sulla stampa ufficiale. Quello che è certo è lo scollamento tra questo sistema politico e la realtà di un Paese che è governato da un Consiglio di ultra-sessantenni, mentre il 50% dell’elettorato è under 35. Una popolazione molto più colta e meno rurale degli anni Ottanta, con uno stile di vita medio decisamente speculare e parallelo rispetto a quanto vorrebbe il clero, e soprattutto rispetto alla nostra percezione. Metà degli uomini under 35 non è sposato, vive da solo, le famiglie mediamente hanno non più di due figli, il 15% delle donne è portatrice del reddito familiare, in case tutte connesse a banda larga.
Uno spaccato che mal si concilia con una stampa ufficiale che condisce ogni notizia, anche di cronaca, con riferimenti religiosi, in cui il modello di servizio pubblico (dalla scuola alla sanità) è ancora incentrato su una rigorosa separazione tra i sessi.
LA STORIA DI HASSAN
Hassan fa il giornalista. «Quando scrivo un pezzo vado direttamente dal mio responsabile e gli dico, tranquillo, ho già cancellato in rosso tutto quello che non va pubblicato, e ci scherziamo su entrambi». Hassan gestiva un blog di filosofia, poi bloccato dall’Arabia Saudita, e segnalato ai «fratelli musulmani iraniani» che tempo fa gli avevano scritto sulla porta che era sacrilego e impuro. «Perché ho pubblicato scritti di Kant, avrei capito Marx!» e poi aggiunge: «L’ultima trovata è vietare gli smartphone (in piena campagna elettorale ndr) perché sono uno strumento di trasmissione di immagini pornografiche... Però i politici e i Guardiani hanno i BlackBerry». Jahlila, sorella di Hassan, mi spiega che «qui si vive in due dimensioni parallele. Dentro casa viviamo una dimensione modernissima, io studio con i miei fratelli e litigo con mio padre, e quando usciamo di casa devo mostrargli deferenza. Lui lo sa e quando succede mi dice “adesso la discussione la continuiamo per strada” e ci scherziamo su».
Per molti iraniani la Rete è un modo di abbattere i confini di un mondo giovane governato da un mondo vecchio che li costringe in una doppia vita, quasi bipolare. Per gente come Hassan e Jahlila chiunque vinca non cambierà nulla. «Con un’inflazione al 50% e un bilancio statale allo sfascio per il dimezzamento delle entrate dal petrolio paradossalmente nemmeno il nucleare civile è più un affare: nel petrolio ci anneghiamo», aggiunge Mohammad (nome di fantasia) che, invece, di smartphone ne ha tre e viaggia per lavoro in tutti i Paesi arabi «e credo che questa sarà la scusa per non perdere la faccia e ripensare la strategia nucleare, ma serve una politica senza galli che stonino nel coro».
Con Mohammed avevo conversato a lungo ai tempi del «movimento verde». «Oggi di quel movimento non è rimasto niente. Le persone sono state usate per una battaglia interna per il potere. Niente di più, e alla fine non è cambiato niente. Da noi avverrà semplicemente un ricambio generazionale. Quando non ci saranno più i Guardiani sarà inevitabile una svolta».
IL BACIO GALEOTTO
Nella blogosfera iraniana o quello che ne rimane ci sono due anime. Quella maggioritaria è più che estremista. Condanna Ahmadinejad per il suo atteggiamento «filoccidentale», anche nell’abbigliamento, per essersi messo in antitesi a Khamanei, e per l’atto sacrilego di aver addirittura «baciato una donna non membro della sua famiglia» (la madre di Chavez ai funerali del figlio, ndr) disonorando così l’Islam.
Poi vi è una parte minoritaria, per lo più «annidata» nei blog che tratta materie universitarie, che considera vecchio e troppo filo-occidentale anche Rafsanjani, e quando commenta la politica lo fa in chiave satirica, proponendo un «Come, non li distingui? Guarda la lunghezza della barba!». Sono i giovani che quasi certamente non andranno a votare come la maggior parte della popolazione giovane del Paese perché nessuno li rappresenta.
La prima sensazione che ti resta è che l’esito del voto riguardi soprattutto l’Occidente che avrà un interlocutore attendibile quanto più sarà capace di esprimersi con una voce sola prospettiva che ha più probabilità di realizzarsi se il nuovo presidente sarà in sintonia e coerente con il Consiglio dei Guardiani della rivoluzione -, sarà cioè un esecutore e un amministratore (della linea politica di Khamenei) e senza alcun antagonismo o velleità di primeggiare. La seconda sensazione è che sia esattamente quello che vuole anche l’Occidente, che mai come questa volta glissa su queste elezioni, e tace in modo assordante anche nei consueti canali della blogosfera iraniana.
Se ne ricorda oggi, quando ad alcuni giornalisti europei non sono state concesse credenziali piene, oppure con un vago comunicato di Google, che senza dettagli parla di «attacco di phishing» proveniente dall’Iran e su caselle mail iraniane per ottenerne le chiavi di accesso. La routine tuttavia non è nuova, e l’interpretazione che ne dà il comunicato di Google è più uno spot per dire di esserci che qualcosa che effettivamente incide o avrebbe inciso in una tornata elettorale in cui trionferà l’appiattimento politico e soprattutto l’astensionismo.

l’Unità 14.6.13
Sentenza Usa: «No a brevetti del Dna umano»
La decisione della Corte suprema americana
Licenze solo per i geni creati in laboratorio
di Luca Landò


Non si brevettano così i geni umani. Non è il titolo di un film, ma l’ultimo capitolo di una lunga vicenda giudiziaria americana che avrà sicuramente ricadute a livello internazionale.
A scrivere la parola fine è stata ieri la Corte suprema americana che ha deciso, nove voti su nove, che il codice genetico nel nucleo delle nostre cellule può essere studiato ma non brevettato.
La questione era nata da un ricorso di medici e pazienti contro la Myriad Genetics, un’azienda di Salt Lake City che detiene i diritti di proprietà dei test per i geni Brca-1 e Brca-2 che, se presenti nel Dna di una donna, aumentano di molto il rischio di tumori al seno e alle ovaie. È utilizzando quei test che Angelina Jolie ha trovato conferma della propria predisposizione genetica verso quel tumore lo stesso che aveva ucciso la madre e, pochi settimane fa, la zia convincendola a sottoporsi a una doppia mastectomia.
La Corte suprema, per voce del giudice Clarence Thomas, ha stabilito che i geni isolati dalla Myriad Genetics sono un prodotto della natura e per questo impossibili da proteggere con una licenza, come peraltro sostenuto da tempo in Europa dove l’Ufficio brevetti non ha mai rilasciato licenze sui geni.
Tutto nacque nel 1994 quando il fondatore della Myriad Genetics, Mark Skolnick e il suo socio in affari, il premio Nobel Walter Gilbert, bruciarono la concorrenza scientifica mondiale identificando e sequenziando per primi il gene Brca responsabile della predisposizione al tumore al seno (che erano in realtà due). Prima di annunciare al mondo l’importante scoperta, i due corsero però dall’avvocato che immediatamente avviò la procedura per il brevetto. Perché una volta identificato il gene, fu semplice compiere il passo successivo: realizzare e commercializzare il test che consente di individuarlo e che oggi viene venduto alla non modica cifra di 3000 dollari. In un solo trimestre dello scorso anno la Myriad ha fatturato oltre 105 milioni di dollari proprio grazie ai test per i geni Brca.
La sentenza di ieri, per quanto importante, non danneggerà più di tanto l’azienda dello Utah. Prima di tutto perché i brevetti per i test su quei geni sarebbero comunque scaduti nel 2015 e altre aziende erano già pronte a farsi avanti. Secondo, perché dopo aver scolpito nel marmo la frase «non è possibile brevettare i geni umani», i giudici hanno aggiunto che sarà invece possibile farlo con quelli «sintetici», cioé creati in laboratorio anziché estratti tout court dalle nostre cellule. Non è una questione semantica, dato che la biologia sintetica è una delle discipline su cui si stanno concentrando sforzi e investimenti. Il punto è stabilire dove finiscono i geni umani e dove iniziano quelli sintetici: basta un intervento, anche minimo, su un gene prelevato per passare da una categoria all’altra? Wall Street non ha dubbi, tanto che le azioni della Myriad Genetics, nonostante la «bocciatura» della Corte suprema sono aumentate in pochi minuti dell’8%.
C’è un altro aspetto che la sentenza della Corte non tocca e che invece potrebbe rivelarsi importante. Ed è il destino dei dati raccolti su milioni di donne che hanno effettuato in questi anni proprio quei test genetici. La Myriad ha sempre sostenuto che, essendo stati raccolti con un metodo brevettato e sviluppato a suon di milioni di dollari, tutte quelle informazioni sono di sua proprietà e come tali saranno conservate nei computer di Salt Lake City. Medici e ricercatori, non solo americani, sostengono invece che oltre ad appartenere alle dirette interessate, cioè le donne da cui sono stati ottenuti, quei dati rappresentano un patrimonio collettivo per la ricerca scientifica e lo sviluppo di nuove strategie contro il cancro.
Che succederà dopo la sentenza? La Myriad aprirà i propri archivi ai ricercatori di tutto il mondo? La Corte non lo ha precisato ma erano in molti ieri a citare il vangelo secondo Matteo: «È più facile che un cammello...».

Repubblica 14.6.13
È l’eterno duello fra natura e interessi
di Piergiorgio Odifreddi


DALL’ALTRA parte, gli scienziati “duri e impuri”, interessati alla ricerca per scoprire com’è fatta la Natura, per il bene del loro conto in banca.
I vessilliferi di questi due gruppi sono i due biologi più famosi del mondo: rispettivamente, James Watson e Craig Venter. Entrambi sono stati degli enfant prodige, e sono diventati degli enfant terrible.
Ed entrambi hanno legato il loro nome al Progetto Genoma, che nel 2000 ha portato alla sequenziazione del genoma umano.
Watson fu il primo direttore del Consorzio pubblico fondato nel 1988 dall’Istituto Nazionale della Sanità degli Stati Uniti, che coordinò una ricerca internazionale in cui parti diverse del genoma furono sequenziate da nazioni diverse. Venter fu invece il presidente della compagnia privata Celera, che nel 1998 si affiancò al Consorzio pubblico nella corsa al traguardo. La sua entrata in gara accelerò la corsa, che però in parte fu truccata dal fatto che la Celera usò molti dei dati del Consorzio pubblico, che erano essi stessi pubblici.
La corsa si concluse con una dichiarazione di parità il 26 giugno 2000, quando il secondo direttore del Consorzio pubblico, Francis Collins, annunciò insieme a Venter alla Casa Bianca il raggiungimento dell’obiettivo. Il presidente Clinton dichiarò che l’uomo aveva appreso il linguaggio della vita, ma rimaneva da leggerne il libro: cioè, identificare i geni che ne costituiscono i capitoli. E già prima di quel momento era sorta la questione se i geni identificati si potessero “brevettare”: parola che, naturalmente, è solo un sinonimo di “privatizzare”.
Come si può immaginare, Watson era assolutamente contrario. E così era Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina e primo ideatore del Progetto Genoma, che in un’intervista per Repubblica del 2002 mi disse: “Per me un brevetto è un prodotto ottenuto con mezzi non banali, e che abbia dimostrata utilità. Brevettare un gene da cui si è ottenuto un prodotto utile, va bene. Ma non so perché si debba concedere il brevetto a un gene soltanto perché lo si è identificato, senza sapere né dove agisce, né cosa fa”.
Come si può di nuovo immaginare, Venter era al contrario assolutamente favorevole. Il premio Nobel per la medicina Hamilton Smith, che è la mente dei progetti di cui Venter è il braccio, prese una posizione intermedia, così testimoniata in un’altra intervista che gli feci per Repubblica nel 2005: “Non ho problemi coi brevetti provvisori, che congelino ad esempio per un anno i diritti su un gene che è stato appena trovato, nell’attesa che se ne scopra qualche uso immediato”.
In realtà, messi da parte gli interessi, la non brevettazione dei geni era semplicemente una questione di buon senso. Anche perché si può facilmente immaginare cosa succederebbe se si brevettassero geni umani: tutti gli esseri che li hanno potrebbero essere costretti a pagare, per il solo fatto di averli. Si istituirebbe così una tassa sull’esistenza, ancora peggiore di quelle per l’aria che si respira, l’acqua che si beve, o il Sole che ci riscalda. Una vera follia, che solo l’avidità di un Dottor Stranamore poteva immaginare e difendere.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ora ha finalmente dato ragione a Watson e Dulbecco, oltre che agli uomini di buon senso, a proposito dei geni umani. Ma ha lasciato aperta la questione dei geni artificiali, ai quali si stanno dedicando da anni Venter e Smith: la guerra continua.

Corriere 14.6.13
La sfida di Obama sull'immigrazione
di Massimo Gaggi


Spionaggio informatico, lo scandalo delle associazioni della destra radicale discriminate dall'Irs, il Fisco americano, gli Usa che stanno a guardare davanti alla tragedia siriana. Barack Obama è sotto tiro su diversi fronti, ma il vero «momento della verità» sull'esito del suo secondo mandato presidenziale arriverà da un altro campo: quello della riforma dell'immigrazione che ha mosso i primi passi questa settimana nell'aula del Senato.
Argomento poco «sexy» dal punto di vista giornalistico, ma che ha un peso politico straordinario: la legalizzazione di 11 milioni di clandestini, la parallela blindatura delle frontiere e l'impossibilità, per le imprese, di assumere in futuro dipendenti non autorizzati a risiedere negli Stati Uniti, cambieranno la società americana e il mercato del lavoro. Cambieranno anche i risultati elettorali, in un Paese nel quale per la prima volta l'anno scorso i bianchi venuti al mondo sono stati meno di quelli deceduti. Le minoranze — ispanici, neri, asiatici — diventeranno maggioranza solo nel 2050, ma la loro capacità di cambiare l'esito del voto si è già vista: Obama proiettato per la seconda volta alla Casa Bianca proprio dal consenso quasi plebiscitario avuto da questi gruppi etnici.
I repubblicani pragmatici hanno preso atto di tutto questo, hanno capito che osteggiare l'immigrazione e chiudersi nel recinto del «partito dei bianchi» è, in prospettiva, suicida. E hanno deciso di rinunciare alla loro battaglia contro la sanatoria per i clandestini. È per questo che, pur in un clima politico che rimane quello di un «muro contro muro» tra democratici e conservatori, l'immigrazione è l'unico terreno sul quale il Congresso può varare una riforma ambiziosa che, al momento, promette di essere il punto centrale dell'eredità politica che verrà lasciata da Obama.
Il presidente nei scorsi giorni ha fatto un discorso vibrante sulla questione, invitando il Parlamento a cogliere questa occasione storica. Un'eccezione alla sua linea di «basso profilo» in materia di clandestini che gli era stata suggerita dal suo stesso partito, nel timore che l'ostilità dei repubblicani per il presidente finisca per compromettere tutto. Cioè le trattative condotte da destra e attraverso gli «ambasciatori» della cosiddetta «gang degli 8»: 4 repubblicani e 4 democratici che hanno concordato una bozza di riforma approvata in Commissione e giunta proprio questa settimana in aula al Senato. Il voto procedurale col quale è stata accolta (82 sì, 15 no) fa ben sperare, ma ci sono molte insidie nascoste.
Sarà un'estate infuocata: il Senato voterà tra un mese e non è scontato che ci sia la maggioranza qualificata (60 su 100) necessaria per andare avanti. Molti repubblicani, favorevoli in linea di principio, hanno paura di essere «impallinati» dai loro elettori che non vogliono sentir parlare di amnistie: magari si tireranno indietro all'ultimo momento sostenendo che la nuova legge non fa abbastanza per impedire nuovi ingressi illegali. Anche i democratici temono 3-4 defezioni di senatori eletti nelle zone più conservatrici d'America. Poi toccherà alla Camera e lì sarà ancora più dura: un dibattito da non perdere d'occhio, che influenzerà le politiche per l'immigrazione anche in Europa.

La Stampa 14.6.13
Olanda, eutanasia per i bimbi malati
L’associazione dei medici olandesi ha presentato un documento in cui si autorizza i camici banchi a togliere la vita a bimbi nati con gravi e definite malformazioni di apparato. Salvo opposizioni, in vigore dal 2014
di Marco Zatterin

qui

l’Unità 14.6.13
Galimberti, la religione dal cielo vuoto
Nel suo nuovo saggio definisce la sua visione del cristianesimo, che ha desacralizzato il sacro
di Giuseppe Cantarano


DAL CIELO DEL CRISTIANESIMO IL SACRO QUELLA DIMENSIONE DEL DIVINO INACCESSIBILE E INDIFFERENZIATA, TEMIBILE E NELLO STESSO TEMPO ATTRAENTE AVREBBE FATTO ESODO. Emigrando sulla terra. Giacché facendosi uomo, Dio non perde soltanto la sua trascendenza. Con essa perde irrimediabilmente anche la sua sacralità: (p. 29). E poiché il cristianesimo altro non è che l’Occidente, la desacralizzazione del cristianesimo avrebbe comportato inevitabilmente la conseguente desacralizzazione dell’Occidente, sostiene Umberto Galimberti (Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, pp. 436, euro 18,00 ). Noi un po’ forse ingenuamente eravamo abituati a credere che la desacralizzazione del cristianesimo fosse l’esito del processo di secolarizzazione. Che la modernità tende ad imprimere sulle società occidentali. Sempre di più modellate dalla disincantata razionalità tecnico-scientifica. E sempre meno sensibili alla seduzione del sacro. All’incanto del divino.
Sarebbe, invece, il processo nichilistico nel quale sin dalle sue origini è travolto il cristianesimo, ad aver irrimediabilmente contagiato la moderna società occidentale. Che può perfettamente continuare a «funzionare» ci garantisce Galimberti anche facendo a meno della dimensione del sacro. Anche rinunciando a Dio. Mentre non riuscirebbe a funzionare nemmeno per un istante, ad esempio, se da essa venisse meno la scienza. E la tecnica. Diciamolo diversamente: come non sarebbe possibile immaginare l’età medioevale senza la pervasiva fede in Dio, sarebbe così altrettanto impossibile immaginare la nostra epoca senza la razionalità tecnico-scientifica. Insomma, non sarebbe il moderno nichilismo della scienza a prosciugare il mondo da ogni traccia divina. Non sarebbe il moderno nichilismo della tecnica a cancellare dalla nostra società ogni residua sopravvivenza del sacro. È invece lo stesso cristianesimo ad operare questa desacralizzazione. Poiché il nichilismo è conficcato nel cuore della religione cristiana. Una religione il cui Dio non solo si incarna nell’uomo. Ma condivide fino in fondo l’esito dissolutivo dunque nichilistico di tale incarnazione. Di tale umanizzazione. Morendo sulla croce. E un Dio che muore si chiedeva Sergio Quinzio - come potrà salvarci? No, non potrà essere più Dio a salvarci. È ormai questa la diffusa consapevolezza dell’Occidente, ci dice Galimberti. Ecco perché è alla terribile e onnipotente «sacralità» della tecnica e della scienza che riponiamo le nostre ultime speranze di salvezza. Poiché, nonostante la desacralizzazione dell’escatologia cristiana, nonostante la secolarizzazione dell’Occidente, ciò che noi tutti imploriamo è la salvezza. Certo, «nessun Dio ci può salvare», come diceva Heidegger. E non può salvarci poiché il trionfo della tecnica fa da contrappunto al dileguarsi di Dio. E tuttavia: perché, nonostante ciò, non viene meno il bisogno, la speranza, la domanda «religiosa» di salvezza? È forse questa la domanda più sorprendente alla quale il libro di Galimberti avrebbe dovuto fornire una risposta.

La Stampa 14.6.13
Vladimir Putin
“Il welfare europeo crea parassitismo”
“Ma è un errore rinunciare allo Stato Sociale”

La versione integrale dell’intervista su www.lastampa.it

L’intervista a Vladimir Putin è stata fatta dai giornalisti dell’agenzia russa «Ria Novosti»

Presidente Putin, lei partirà per il vertice del G8 non solo in qualità di capo di uno degli Stati membri ma anche come il capo del Paese che presiede il G20 di quest’anno. Secondo lei quanto è ancora vitale il formato del G8? Non avrebbe più senso dividere le competenze?
«Al vertice di Lough Erne la Russia svolgerà un ruolo particolare. È una grande responsabilità. Credo che il G8 abbia una ruolo vitale. La Russia partecipa attivamente e proprio grazie alla nostra presenza è rappresentata non solo la voce degli Stati occidentali sviluppati, ma anche quella dei Paesi in via di sviluppo. In Irlanda del Nord parleremo anche della situazione in Siria, Medio Oriente, Nord Africa, Afghanistan. Poi sulla spartizione delle competenze in campo economico e politico tra il G8 e il G20 credo entrambi questi “format” abbiano il proprio valore aggiunto e sarebbe sbagliato creare divisioni».
Già da alcuni anni si parla della riforma del Fondo Monetario Internazionale, Fmi. Non sarebbe l’ora di fare dei passi più radicali, magari arrivando al suo scioglimento?
«Il Fondo ha bisogno di una seria riforma. Non va di pari passo con il sistema finanziario internazionale che cambia rapidamente e chiede decisioni opportune ed efficaci. Ne è un esempio la crisi finanziaria globale che il Fmi non è stato capace di prevenire e neanche di prevedere. È importante lavorare a un perfezionamento del Fmi utilizzando l’esperienza eccezionale accumulata al suo interno. Ma i cambiamenti nel Fondo monetario internazionale costituiscono solo una parte della riforma dell’architettura finanziaria globale. Le altre priorità restano la politica dei prestiti e della gestione del debito pubblico».
Il Regno Unito ha annunciato come una delle priorità della sua presidenza nel G8 l’aumento della trasparenza dell’economia globale e il rifiuto di utilizzare paradisi fiscali. Quali strumenti proporrà la Russia?
«L’eliminazione delle zone offshore è un’importante condizione per rimuovere gli squilibri strutturali nell’economia globale. È riconosciuto il fatto che nelle aree offshore si accumulano notevoli somme di capitale speculativo e a volte evidentemente criminale. La brusca introduzione e la circolazione non controllata di quel denaro hanno un impatto molto negativo sul sistema finanziario. La fuga dei capitali riduce inoltre la base fiscale, fa calare le entrate e pone il rischio della perdita della sovranità fiscale degli stati. Noi proponiamo di stringere accordi bilaterali con i paradisi fiscali e con le giurisdizioni a bassa tassazione, in modo da contrastare gli schemi “grigi” della minimizzazione della tassazione e prevedere invece scambi d’informazione fiscale».
L’intensificazione del commercio internazionale è un’altra priorità della presidenza britannica. Quanto è scottante il problema delle barriere commerciali?
«Lo sviluppo del commercio internazionale è uno degli elementi chiave per la crescita economica. Perciò ci preoccupa il calo del tasso della crescita del commercio fino al 2% nel 2012. La previsione per l’anno corrente di una crescita del 3,3 per cento non lascia molto spazio all’ottimismo. Ciò significa che perfino nelle condizioni di crisi dobbiamo focalizzare i nostri sforzi comuni sullo sviluppo del commercio e non sull’introduzione di misure protezionistiche».
Una delle questioni del prossimo Forum Economico di San Pietroburgo riguarda la possibilità per uno Stato sociale di essere economicamente competitivo. Crede che ci sia un futuro per il modello europeo ?
«A mio avviso quest’impostazione non è corretta. Com’è possibile legare la questione dell’efficienza economica dello Stato alla rinuncia degli obblighi sociali? La tutela della popolazione è una delle funzioni fondamentali dello Stato. E l’eventuale rinuncia a questo compito mette a repentaglio la stessa esistenza di questa istituzione. Il problema è in realtà diverso. La parola chiave è inefficienza. Non la politica sociale, bensì il vivere spendendo più di quanto si abbia, la perdita di controllo sull’economia, gli squilibri strutturali che hanno portato alle conseguenze che vediamo oggi in Europa. In molti Paesi sta fiorendo il parassitismo: non lavorare è spesso assai più proficuo che lavorare. Questa è una minaccia non solo all’economia, ma alle basi morali della società. Per la Russia questo tipo di approccio è inaccettabile. Lo Stato orientato socialmente non è un capriccio, ma una necessità. Abbiamo fatto la nostra scelta da tempo. Non rifiuteremo i nostri obblighi sociali. Per quello che riguarda l’Europa, i Paesi principali svolgono le riforme strutturali per aumentare la competitività delle proprie economie, lottano contro la disoccupazione. Allo stesso tempo per via del miglioramento del coordinamento delle politiche di bilancio ed economiche l’approccio verso l’austerità finanziaria diventa più flessibile. Ed i loro obblighi sono stati formalizzati nella Strategia dello sviluppo economico-sociale dell’Ue fino al 2020. Quindi non bisogna dare per sconfitto il modello sociale europeo».

Repubblica 14.6.13
Israele, il sogno della normalità
di Luca Caracciolo


Israele è l’unico Stato al mondo che non vuole fissare i suoi confini. Perché? Perché la sua cifra è l’indeterminazione. Israele si offre come rifugio per tutti gli ebrei, eppure oltre metà di loro resta in diaspora. Vuole vedersi riconosciuto dagli arabi e dal resto del mondo come Stato ebraico, ma non si riconosce ufficialmente per tale. Non riesce a stabilire chi sia e chi non sia ebreo – motivo per cui non si è dotato di una costituzione – mentre considera ogni ebreo un israeliano in potenza. È sionista per definizione, dunque considera Gerusalemme (Sion) la sua capitale una e indivisibile, eppure una quota importante dei suoi cittadini – la cospicua minoranza araba, ma anche l’iperortodossa ebraica refrattaria allo Stato laico — non lo è né intende diventarlo. Aspira a tenere insieme democrazia, Terra d’Israele (Eretz Israel) ed ebraicità, e tuttavia la demografia sembra condannarlo.
Israele deve scegliere. Può essere ebraico e democratico – nei limiti di una peculiare democrazia etnica – rinunciando a installarsi su ogni spicchio dello spazio variamente collocato fra Mediterraneo, Mar Rosso ed Eufrate e abdicando persino alle terre conquistate nella guerra dei Sei giorni. Può invece associare spazio e democrazia annettendo i Territori occupati, con ciò abiurando il sionismo in favore di un caleidoscopio multiculturale a prevalenza numerica arabo-levantina. O può rinunciare alla democrazia, sposando espansione geopolitica ed ebraismo. Un Grande Israele in regime di apartheid, con gli ebrei in veste neo-boera e gli arabi come neri ghettizzati.
Ma Israele può anche scegliere di vivere alla giornata, con il fucile al piede. Per sempre. Pronto a sempre nuove guerre, pur di scongiurare l’incubo del ritorno in diaspora. L’indeterminazione determinerà la fine dello Stato ebraico, che pure esita ad attribuirsi tale marchio? O forse è la condizione stessa della sua esistenza?
La scelta di aprire il nuovo volume di Limes con la biografia geopolitica di Netanyahu intende marcare l’importanza di questa personalità nella configurazione dell’Israele attuale. Studiare Bibi e la sua famiglia aiuta a capire perché lo Stato ebraico sia oggi in mano a un’élite spiritualmente e spesso biograficamente americana, liberista in economia, culturalmente orientalista (nel senso di Edward Said: l’arabo e il musulmano sono incurabilmente arretrati, inaffidabili e fanatici) e geopoliticamente occidentalista.
Tale corrente, inizialmente minoritaria, ma ben radicata nella diaspora americana, assurge a protagonista della scena israeliana sul finire del secolo scorso, subito dopo il disastro dei negoziati di Camp David e di Taba e lo shock della Seconda Intifada. Ma le origini della teoria e della prassi del nuovo Likud e dei suoi alleati affondano assai più indietro, nel revisionismo di Ze’ev Jabotinsky (1880-1940), il teorico del “muro di ferro” come unica strategia atta a domare gli arabi. Tesi cui si ispira il Gush Emunim, il movimento nato negli anni Settanta che offre copertura teologica all’insediamento dei coloni nelle terre conquistate durante la guerra dei Sei giorni. Né mancano i riferimenti al sionismo religioso fondato da rav Avraham Yitzchak Kook (1865-1935), conciliante Legge religiosa e Stato. Ramo teopolitico ben distinto dall’ultraortodossia dei “timorati di Dio”, i charedim in visibile crescita demografica (8-10% degli ebrei israeliani), che irritano la comunità laico-sionista in quanto “parassiti” dediti solo allo studio dei sacri testi.
Il pragmatismo di Netanyahu verte su princìpi indeclinabili, perché georeligiosi. Il suo credo comincia e finisce in questa frase, pronunciata il 27 settembre 2012 davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: «Lo Stato ebraico vivrà per sempre».
Essa riflette la convinzione che Israele sia legittimato non dall’Olocausto, ma da Davide. Come scrive uno degli intellettuali che meglio esprimono la visione nazionalreligiosa di Netanyahu e affini, l’ebreo di origine russa Natan Sharansky: «Non c’è sionismo senza giudaismo, né c’è mai stato. Non c’è mai stato un popolo d’Israele che abbia avuto diritto alla Terra d’Israele. Essa spetta solo al popolo ebraico. (…) La differenza fra l’identità israeliana secondo Yehoshua e l’identità ebraica è esattamente la differenza tra il fatto di esistere e il diritto a esistere. (…) Se, il Cielo non voglia, [...] rinnegassimo il fatto di aver realizzato la speranza coltivata dagli ebrei per duemila anni, allora perderemmo il diritto di esistere. Perdendolo, saremmo perduti».
Se Israele fosse normale, sarebbe turbato dalla frammentazione degli spazi geopolitici d’intorno. Oltretutto, guerre e instabilità alle porte di casa non gli consentono di sfruttare appieno, ramificandolo nella regione, il suo potenziale economico. Tanto più imponente, in prospettiva, dopo la scoperta di enormi giacimenti di gas nel bacino del Levante, che dispute economiche e frontaliere permettendo nel giro di un decennio garantirebbero a Israele l’indipendenza energetica e lo eleverebbero al rango di paese esportatore, quale hub regionale.
Quest’ultimo scenario sconta una rivoluzione culturale, prima che geopolitica. Implica considerare lo stato d’eccezione permanente come problema, non risorsa, coinvolgersi nella gestione della pace e dell’ordine in Medio Oriente, non contribuire a destabilizzarlo. E immaginare possibile integrarsi – non assimilarsi! – nella regione: diverso fra diversi, nemico di nessuno. Herzl ci credeva: “Se vorrete, non è una favola”, scolpiva sulla copertina di Vecchia Terra Nuova. Quando ciò accadrà, Israele sarà a suo modo uno Stato fra gli Stati. Confesseremmo tuttavia la nostra sorpresa se a battezzare l’Israele normale fosse il leader che meglio di ogni altro ne protegge l’eccezionalità.

il Fatto 14.6.13
Cannes a Roma Al cinema con Il Fatto Quotidiano
di Anna M Pasetti


L’America profonda e la Cina contemporanea. Passando per il Belgio degli emarginati. A queste tre geografie umane di reciproca estraneità è affidato l’avvio della 18ma edizione di Cannes a Roma (14-20 giugno), organizzata in maniera autonoma - senza sostegno dalle istituzioni - da quattro cinema (Alcazar, Eden, Greenwich, Quattro Fontane) in partnership con IlFattoQuotidiano e NottolaSera. Si parte oggi con due titoli premiati in concorso - Nebraska e A Touch of Sin - e una della Quinzaine des Realisateurs, Henri. Il primo film, diretto da Alexander Payne, ha raccolto le ovazioni di critica e pubblico sulla Croisette, specie per la premiata interpretazione da attore protagonista del decano Bruce Dern, impeccabile 80enne, candido ma cocciuto erede della Memoria di un’America oggi scomparsa. Il road movie, in elegante b/n, attraversa il Montana e le difficoltà del rapporto padre-figlio. È invece “il peccato originale” il filo rosso del lavoro premiato per la sceneggiatura del cinese Jia Zhang-ke. Già Leone d’oro a Venezia 2006 (Still Life), il cineasta scandaglia le contraddizioni della Cina contemporanea interrogandosi sulla profonda disumanizzazione che la pervade. Quattro personaggi per altrettanti episodi desunti dalla cronaca reale per un’opera che lascia il segno. Di Henri della belga Yolande Moreau – chiusura della Quinzaine – resta soprattutto l’impressionante interpretazione da protagonista di Pippo Delbono. A Touch of Sin (Eden – 20h) Nebraska (Quattro Fontane – 20h30 e 22h30) Henri (Eden – 22h30) Il biglietto costa 8 euro (ridotto 5 euro con il coupon del Fatto Quotidiano).

«Due sono le porte dei sogni fluttuanti, una è fatta di corno, l’altra di avorio. I sogni che attraversano l’avorio tagliato sono ingannevoli, portano vani messaggi; ma quelli che varcano la soglia di lucido corno dicono il vero, quando un mortale li vede»
Repubblica 14.6.13
Le porte dei sogni quando Omero scoprì l’inconscio
Riti esoterici, miti e terapia: così Greci e Romani spiegavano la vita onirica
di Maurizio Bettini


«Due sono le porte dei sogni fluttuanti, una è fatta di corno, l’altra di avorio. I sogni che attraversano l’avorio tagliato sono ingannevoli, portano vani messaggi; ma quelli che varcano la soglia di lucido corno dicono il vero, quando un mortale li vede». Benché enigmatici, o meglio proprio perché tali, questi versi dell’Odissea esprimono già perfettamente l’ambivalenza, se non l’inquietudine, che caratterizza il fenomeno onirico nel mondo antico. Quando ci si sveglia, infatti, come si fa a sapere se ciò che si è “visto” (i Greci i sogni li “vedevano”, non li “facevano”) è uscito dalle porte di avorio o dalle porte di corno? Nessuno può dirlo. Il sogno è ambiguo, lascia intendere, ma non dà certezze. Se premoniva o meno, e se la premonizione era fondata o falsa, solo il tempo potrà confermarlo.
Ed ecco entrare in scena l’Enea di Virgilio. Compiuto il suo viaggio oltremondano — che gli ha fatto incontrare l’ombra muta e sdegnosa di Didone, quella affettuosa del padre, perfino i futuri eroi della città di Roma — Enea si appresta finalmente a rivedere la luce: «Due sono le porte del sogno» spiega il poeta «la prima, si dice, è di corno, da dove le ombre vere hanno facile uscita; splende l’altra di candido avorio, ma da qui i Mani inviano al cielo sogni ingannevoli. Anchise, parlando, accompagna il figlio assieme alla Sibilla, e dalla porta d’avorio li fa uscire».
Omero non ci aveva detto dov’erano le fatidiche porte, Virgilio ci rivela che sono all’Ade. Le immagini che popolano le nostre notti altro non sarebbero, dunque, se non simulacri sfuggiti dal regno dei morti? Non basta. La cosa che più colpisce è un’altra: perché mai Enea, quando abbandona l’Ade, viene fatto uscire dalle porte di avorio, quelle da cui escono i sogni fallaci? Come si può immaginare questa oscura precisazione virgiliana ha suscitato le spiegazioni più disparate. Forse Virgilio aveva semplicemente sbagliato porta? Difficile crederlo. Dato poi che, come sappiamo, le ombre false escono prima della mezzanotte, secondo alcuni Virgilio avrebbe semplicemente inteso dire che Enea era uscito dall’Elisio prima di allora.
Ma possibile che il poeta avesse escogitato un episodio così affascinante, così enigmatico, solo per dire che ore sono? Proviamo piuttosto a chiederci: se Enea esce dalle porte da cui escono i sogni ingannatori, questo mondo dei morti l’ha visitato davvero? E ancora: forse Virgilio intendeva addirittura insinuare il sospetto che non solo il viaggio di Enea, ma lo stesso Ade da lui descritto altro non era se non un sogno fallace? Se così fosse, ci troveremmo di fronte a uno dei numerosi casi in cui la poesia dichiara la propria meravigliosa falsità.
Sia come sia, queste antiche porte danno ora il titolo a uno fra gli studi più completi che il sogno dei Greci e dei Romani abbia mai ricevuto: William V. Harris, Due son le porte dei sogni.
(“L’esperienza onirica nel mondo antico”, Laterza). Harris, professore di Storia antica alla Columbia University, ha esplorato in lungo e in largo l’universo di credenze, teorie, aneddoti ed epifanie in cui Greci e Romani hanno racchiuso la propria esperienza onirica. Il fatto è che nell’antichità il sogno ha interessato tutti. I poeti che ne narrano le meraviglie e i medici che non solo elaborano teorie per spiegarne l’origine, ma li trasformano addirittura in terapia. Elio Aristide, un retore greco del II secolo d. C., ci ha anzi lasciato un minuzioso diario delle sue esperienze terapeutiche presso il santuario/ospedale di Asclepio, dove il mal di pancia si alterna con le visioni del dio, e l’onirica prescrizione dell’assenzio con i bagni, sempre oniricamente imposti, nell’acqua gelata. Ci si stupisce anzi che, a dispetto di ciò, Aristide fosse campato fino a ottant’anni.
Poi naturalmente vi erano i filosofi, come Platone, che attraverso l’impalpabile sostanza dei sogni cercavano di esplorare le profondità dell’“anima”, e con loro gli interpreti come Artemidoro di Daldi che elaboravano arzigogolati prontuari onirici capaci, alla maniera della Smorfia, di fornire risposte alle domande di inquieti sognatori. Che cosa significa sognare una capra? Niente di buono. Questi animali infatti son tutti dannosi, né favoriscono nozze o amicizie. Non è forse vero che le capre pascolano l’una lontano dall’altra e al pastore procurano solo difficoltà, quando si tratta di radunarle?
«Capita spesso» spiegava ancora Artemidoro «che un’intera città o un’intera comunità sogni la stessa cosa». Per quanto ciò possa sembrarci strano, l’esperienza onirica antica non è solo individuale, può essere anche collettiva. Difficile dire se questo misterioso potere del sogno possa dar conto di un’altra singolare coincidenza. Da Cortina è uscito un altro libro dedicato allo stesso tema: Il compagno dell’anima (“I Greci e il sogno”), di Giulio Guidorizzi. Forse i due autori, o i due editori, avevano ricevuto (in sogno) la medesima ispirazione? Fatto sta che questo saggio di Guidorizzi — uno dei migliori conoscitori non solo del sogno antico, ma della cultura greca in generale — non si sovrappone affatto a quello di Harris, piuttosto lo completa. Tanto quanto il primo procede attraverso una messe impressionante di dati, alternandoli con i risultati della ricerca più recente nel campo della cultura antica — non che con brillanti ironie anglosassoni — il secondo predilige invece un discorso fluido, compatto, profondo nella sua apparente semplicità.
L’accurato esame delle testimonianze greche emerge così da un tessuto che serba memoria di Freud, di Jung, di Schnitzler, ovvero del Sogno della camera rossa, il romanzo cinese del XVIII secolo. Quello in cui Pao-Yu sognò di essere se stesso, nel suo stesso giardino, e di incontrare due ancelle perfettamente simili alle sue, che si stupirono di vederlo lì. «Pao-Yu, come hai fatto a venire fin qui? » gli avevano chiesto. Allora Pao-Yu era entrato in una casa, perfettamente simile alla sua, dove aveva visto un giovane addormentato. «Perché sospiri, Pao-Yu, stai forse sognando? » avevano chiesto le ancelle al dormiente. «Sì» aveva risposto il secondo Pao-Yu «stavo facendo un sogno molto strano. Mi pareva di essere nel mio giardino…». E questo infinito gioco di specchi rivela forse la natura più intima e più segreta del sogno.

Michele Desubleo: Il sogno di Giacobbe
Due son le porte dei sogni di W.V. Harris (Laterza trad. di Cristina Spinoglio, pagg. 354, euro 28)
Il compagno dell’anima di Giulio Guidorizzi (Cortina, pagg. 253, euro 21)

Repubblica 14.6.13
Da Proust a Picasso, il tempo dell’arte secondo Bonito Oliva
di Antonio Gnoli


Si ha l’impressione che il tempo — quel concetto che almeno da Agostino in poi ha impegnato molta filosofia — non sia più al servizio delle nostre vite. Se guardiamo a quell’asse su cui si è formato il pensiero occidentale moderno si nota che la tensione tra presente, passato e futuro è andata per lo più in frantumi. Avete una qualche idea di che cosa faremo non dico fra qualche anno ma fra qualche mese? Sappiamo ancora leggere quello che ci accade? Solo occasionalmente si chiariscono le ragioni dei fallimenti che ci hanno portato a eleggere il tempo come il momento più alto della crisi che stiamo vivendo. Ma di quale tempo parliamo? C’è un punto che, soprattutto il pensiero novecentesco, ha ritenuto essere il vero motivo di svolta: ossia la percezione che il tempo non può ridursi alla sua misurabilità esterna. Già Henri Bergson aveva parlato del tempo come durata consegnando un problema affascinante, ma anche irto di complicazioni, alla riflessione dell’arte, della psicologia, della filosofia, della musica e della letteratura. Ma se ci sottraiamo ai meccanismi esterni — diciamo pure a una concezione lineare della temporalità — che cosa resta? Freud mise in piedi spiegazioni attinenti all’inconscio; Husserl nel 1905 si dedicò al tema della coscienza interiore; Proust evocò con la sua Recherche l’idea di un tempo ritrovato; Joyce mise potentemente in campo la sensazione che un flusso di coscienza dilatasse e stravolgesse le nostre tradizionali percezioni; perfino il mondo dell’arte non si sottrasse a questo nuovo imperativo cogliendo nelle proprie scomposizioni (si pensi a Picasso o ai surrealisti) anche una precisa trasformazione della concezione temporale. Il “tempo interiore” è il tema che Achille Bonito Oliva ha scelto come guida al secondo volume dell’Enciclopedia delle arti contemporanee (Electa). Un libro, che segue quello dedicato al “tempo comico” e che si avvale di un denso saggio introduttivo di Franco Rella e di interessanti contributi alle singole discipline: musica, architettura, arti visive, cinema, new media, teatro, fotografia, letteratura. Chiude il libro un intervento di Bonito Oliva sulle forme temporali nell’arte. Il ricorso che egli fa al tema del labirinto, della ripetizione e perfino della morte rinvia a un confronto con l’elaborazione iniziale svolta da Rella. Il richiamo a un’idea del tempo come esperienza estranea alla misura degli orologi, e sempre più lontana da quello che sembra essere l’inesorabile ritmo del prima e del dopo, è la cornice ideologica per un approfondimento dell’operato dell’artista nelle attuali condizioni.
Giusto un secolo fa — lo ricorda Rella — De Chirico dipinse Viaggio sconvolgente, un quadro che appartiene alla serie dedicata alla figura mitica di Arianna, eletta per la circostanza a signora del labirinto. Probabilmente influenzato dalla lettura di Ecce Homo di Nietzsche l’Arianna di De Chirico è la dimostrazione visiva che non esiste più linearità (come salvezza o realizzazione) e dunque che nessuna via di uscita è possibile dal labirinto, o meglio ancora dalla città. Improvvisamente lo spazio del moderno — in particolare la metropoli con le sue variegate e funzionali esigenze, interpretate al proprio meglio nel XIX secolo — conflagra, perde i suoi tratti razionali e ordinati per dilatare in modo imprevedibile sui bordi (per dirla con Eliot) di una città irriconoscibile. Quell’avversario temibile del tempo lineare che è stato Walter Benjamin comprese che la metropoli andava in qualche modo ripensata a partire da un’idea di tempo che tenesse conto di questo mutamento radicale. Il fordismo, con la sua ferrea disciplina del tempo di lavoro, misurabile nell’automaticità e ripetizione dei gesti, — così ben rappresentato da Chaplin in Tempi moderni — non fu solo il ripensamento dei criteri razionali della fabbrica, ma anche e soprattutto dello spazio metropolitano. Di un luogo che aveva perso centralità. Fu a questa “catastrofe” che Benjamin, con le sue enigmatiche categorie teologiche, ricorse per spiegare il più generale disastro della storia, le cui macerie sarebbero sotto i nostri occhi.
Le rovine, cui egli alluse, non sono tuttavia solo quelle prodotte dal moderno capitalismo, al cui tempo oggettivo contrappose il tempo improduttivo del flâneur, ma anche quelle prodotte da un passato che avendo perso la fluida capacità di donare senso al mondo, si riversò sul presente con la forza di un terremoto. Niente sarebbe stato più come prima. È su questo paesaggio che l’arte, come ci dice Bonito Oliva, ha disegnato le sue strategie a volte contraddittorie, altre ancora paradossali. Con questa precisazione: se prima l’artista era nel labirinto, ora è il labirinto. Nessuna strategia dell’esitazione, alla quale sembra richiamarsi il critico, è più praticabile. Nessun ricorso all’incertezza, e all’errare è possibile. Più che nel postmoderno siamo di nuovo rituffati nel post-antico.

IL VOLUME Enciclopedia delle arti contemporanee. Il tempo interiore (Electa, pagg. 432, euro 75)

Repubblica 14.6.13
Antigone e i cittadini che “temono e tacciono”
Intervista a Gustavo Zagrebelsky: domani la sua lectio magistralis a Siracusa
di Claudia Morgoglione


«Paladina e martire della libertà, in contrasto con la tirannia del sovrano». «Simbolo della lotta della tradizione contro l’innovazione». «Portatrice di una concezione degli affetti familiari al fondo fanatica, e dunque destinata a non dialogare mai con l’istanza opposta — e altrettanto intransigente — della ragion di Stato». I tre volti di Antigone, i tre grandi filoni interpretativi dell’eroina dell’omonima tragedia di Sofocle, sono riassunti da Gustavo Zagrebelsky con il consueto rigore intellettuale. Dietro cui, però, si cela un’autentica e antica passione per questo capolavoro, che continua a parlarci, a interrogare il nostro presente. Mostrandoci ad esempio che l’antica Tebe in cui, come si legge nel testo, i cittadini «temono e tacciono», non è tanto diversa dall’Italia attuale, dominata dal «conformismo della paura: una sorta di diffuso congelamento delle idee, pericoloso per la nostra democrazia».
Ed è proprio sul suo amore e i suoi studi sull’opera che Zagrebelsky ha costruito la lectio magistralis in programma domani mattina a Siracusa, nell’ambito della Giornata di studi dal titolo “Antigone — La grazia e l’audacia”. Un’occasione per rileggere, tra pas- sato e presente, la storia della giovane donna che pur di seppellire nella città suo fratello scomparso, e traditore, sfida l’esplicito divieto del re Creonte. Professore, da cosa nasce la sua passione per questa tragedia? «In primo luogo per l’aspetto letterario: come diceva Hegel, è “una delle opere d’arte più eccelse e a ogni riguardo più perfette di tutti i tempi”. Poi per una sorta di deformazione professionale: l’Antigone pone in termini particolarmente efficaci il conflitto tra ius e lex, tra norme profonde, ancestrali, e leggi artificiali create dal potere».
Un conflitto che può essere letto in modi differenti?
«Sono tre le interpretazioni possibili. La prima è quella classica, da liceo, che potremmo definire della dicotomia radicale, ripresa in quasi tutte le riletture teatrali: Creonte è un tiranno, Antigone un’eroina che lotta per la libertà. Una tesi non giustificata storicamente, visto che nella Atene del V secolo avanti Cristo la coscienza individuale non era stata ancora scoperta, come accadrà con Socrate. E anche in base alla lettera del testo, Creonte va rivalutato: il suo tragico destino è trascurare gli affetti per il bene della città. Non un tiranno: un uomo di governo».
La seconda lettura è meno manichea?
«È quella della divisione, enunciata da Hegel: entrambi i protagonisti perseguono la loro legittima e irrinunciabile ragion d’essere. Lei, la donna, rappresenta la tradizione; lui, l’uomo, l’innovazione. Un’interpretazione ripresa da Heidegger, che però collega Creonte allo sviluppo della tecnica fine a se stessa: a suo giudizio la tragedia contiene in sé i germi del tramonto della civiltà occidentale».
Terza possibilità?
«È quella del confronto negato. La sostiene ad esempio la filosofa Martha Nussbaum: sia Antigone che Creonte hanno torto, perché nessuno dei due intreccia un dialogo con l’altro. Sono entrambi fanatici. In questo senso, andrebbe rivalutata un’altra figura della tragedia: quella di Ismene, la sorella della protagonista, descritta spesso come pavida e sottomessa. E invece è l’unica a cercare una soluzione di compromesso».
L’approccio di Ismene — morbido, pratico, votato alla mediazione — è simbolo del valore del femminile in politica?
«Sicuramente sì: è uno degli aspetti dell’opera che parla al nostro presente».
Un altro versante attualissimo emerge da un passo in cui Antigone spiega a Creonte che gli altri cittadini la pensano come lei: «Vedono anch’essi, ma è per te che temono e tacciono…».
«Ancora adesso siamo circondati dal conformismo della paura. Mentre Antigone rappresenta il parlar chiaro e l’agire in conformità del proprio parlare. Oggi in tanti mi dicono: ho le mie idee, ma le tengo per me. E invece le idee sono un bene pubblico. Senza idee nuove la politica è pura gestione e tecnica del potere».
Dunque la congiuntura politica attuale non aiuta la circolazione delle idee?
«Anche se affrontiamo temi specifici, come gli esodati o l’emergenza lavoro, dobbiamo capire che dobbiamo pensare a nuovi modi di vivere, nuove relazioni sociali. Purtroppo le larghe intese sono un congelamento: e la politica, congelata, muore».