domenica 16 giugno 2013

La Stampa 16.6.13
Video - L’ultimo concerto dell’orchestra della tv greca
Musica e lacrime di rabbia
I suonatori della “ERT”, diretti dal maestro Oikonomou, contro
la decisione del governo Samaras di chiudere l’emittente pubblica
di Roberto Giovannini

qui

sulla prima pagina de l'Unità di oggi:
«Il grande problema della diseguaglianza è rimasto in tutta la sua gravità e insopportabilità e nella sua minacciosa pericolosità.
Su questo la distinzione tra destra e sinistra è nettissima».
Norberto Bobbio

il Fatto 16.5.13
Pomigliano, notte di botte La polizia stronca i picchetti
Presidio di Fiom e Cobas contro i “sabati di recupero produttivo”
Le forze dell’ordine entrano duro: un manifestante all’ospedale
di Salvatore Cannavò


Doveva essere una “notte bianca” e si è trasformata in un’alba di tensione. Il presidio davanti allo stabilimento Fiat di Pomigliano, indetto dalla Fiom e dallo Slai Cobas per protestare contro i “sabati di recupero produttivo” ha visto ieri mattina, poco prima delle 6, l’intervento della polizia. Un intervento risolutivo con un manifestante portato via in ambulanza e gli altri dispersi. La manifestazione era proseguita tranquilla per tutta la notte ma all’alba, dopo l’ingresso in fabbrica degli operai, un piccolo gruppo di manifestanti proveniente da Napoli (centri sociali e altre forze) si è diretto verso l’accesso dello stabilimento issando uno striscione. L’intervento della polizia è stato brusco e deciso. E anche eccessivo visto il numero esiguo dei dimostranti. L’ordine di servizio, però, era chiaro: nessun impedimento alla regolare attività dello stabilimento. La Fiat aveva gettato l’allarme alla vigilia dichiarando “illegali” i picchetti e agitando l’ipotesi di “sabotaggio”. Segno che qualsiasi operaio fermato sarebbe stato passibile di licenziamento.
“LA TENSIONE in realtà è cominciata alle tre di notte” spiega al Fatto il responsabile Auto della Fiom, Michele De Palma, costretto a un’identificazione davanti ai cancelli. “Noi non abbiamo mai avuto intenzione di bloccare gli operai che entravano in fabbrica ma solo parlarci, spiegare la nostra posizione. Ma non ho mai visto un dispiegamento così importante di polizia e carabinieri”. A colpire De Palma è la foga con cui gli agenti hanno invitato gli operai “a entrare nello stabilimento”.
La protesta di ieri, che dovrebbe ripetersi il 22 giugno, attira di nuovo l’attenzione sullo stabilimento più controverso della Fiat. Qui si è svolto il referendum nel giugno 2010 che ha dato il via alle nuove regole sindacali propedeutiche alla produzione della Panda fino ad allora fabbricata in Polonia. Ed è proprio sulla Panda e sull’organizzazione della manodopera che le polemiche si fanno più dure. Alla Fiat viene rimproverato di tenere, a tre anni da quegli accordi, circa 1400 operai in cassa integrazione mentre, ieri e sabato 22 giugno, sono stati previsti due sabati di recupero produttivo per fare fronte, come ha spiegato la stessa Fiat, a un “congiunturale aumento degli ordini Panda”, circa 800 vetture in più. Una fase “positiva soltanto transitoria”, assicura il Lingotto, tale da non permettere di richiamare dalla Cig chi guadagna da più di tre anni solo 800 euro al mese. Tra di loro, quasi tutti gli iscritti alla Fiom, che per questo motivo hanno presentato un ricorso (finora vinto) per discriminazione sindacale al Tribunale di Roma. Ma il Lingotto sottolinea che nonostante la tremenda situazione economica “a Pomigliano sono in attività oltre tremila persone e solo poco più di mille rimangono in Cig”.
LA POSIZIONE della Fiom chiama in causa l’intero gruppo Fiat, contro il quale è stato indetto lo sciopero generale il 28 giugno. Il segretario, Maurizio Landini, ha dichiarato di “non aver compreso lo schieramento di polizia” e ha annunciato la richiesta di un incontro con il ministero dell’Interno e con il governo. Il quale è intervenuto con il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, che ha evidenziato come quello di Pomigliano “non è il solo stabilimento che non ha pace”, rilanciando l’idea di un piano per il lavoro. Agli operai ha portato la propria solidarietà il vescovo di Nola, monsignor De-palma, che si è recato allo stabilimento: “Marchionne dia fiducia ai lavoratori – ha detto – perché mettere fuori operai di 40-45 anni significa commettere un delitto umano. Non si badi solo al profitto, ma ci sia più umanità”.

l’Unità 16.5.13
Epifani: se il Cav rompe non si va al voto
Il segretario Pd avverte il Pdl: basta con le minacce a Letta
Bersani è più esplicito: ancora possibile un governo di cambiamento
Ma i renziani sono critici: irreale esecutivo con i grillini dissidenti
di Maria Zegarelli


Epifani avverte Berlusconi: se mette in crisi il governo non è scontato il voto. L’ipotesi di una maggioranza alternativa agita il Pdl. Bersani dice al Corriere: il governo di cambiamento è ancora possibile. I renziani: ipotesi irrealistica. Vertice dei progressisti a Parigi: un patto politico per l’Europa.

Un uno-due di quelli che mandano in fibrillazione in un solo giorno pezzi di Pd e di Pdl e fanno tremare il governo Letta. Se Silvio Berlusconi dovesse staccare la spina all’esecutivo stavolta potrebbe nascere una nuova maggioranza, quella stessa che non nacque dopo il voto, grazie ai sempre più numerosi parlamentari pentastellati orientati verso il gruppo Misto e l’addio a Beppe Grillo. È questo il senso di ciò che sostiene Pier Luigi Bersani in un’intervista al Corsera nel corso della quale dice che no, questo non è il governo del cambiamento, quel governo a cui aveva ostinamente lavorato dopo l’esito sciagurato del voto delle politiche. Che a Bersani non sia affatto andato giù l’esito del lungo periodo post-elettorale non è un mistero, così come non ha mai voluto contrastare Enrico Letta, l’attuale premier che durante le consultazioni fu una delle persone a lui più vicine. Ma per l’ex segretario Pd quello di cui il Paese aveva bisogno, quello che gli italiani avevano chiesto con un voto così controverso era un segnale di forte di cambiamento. Che, secondo Bersani, non può essere rappresentato da una coalizione Pd-Pdl.
«I governi di coalizione puoi doverli fare, ma non sono governi di scossa spiega -. Evitano un rischio, ma non sono motori di cambiamento... Io sostengo Letta, persona intelligente, capace e leale. Ma Berlusconi non pensi di avere in mano le chiavi del futuro. Ci pensi bene. Stavolta staccare la spina al governo non comporta automaticamente andare al voto». Stavolta, dopo il terremoto che ha colpito il Movimento 5S, le cose potrebbero anche andare diversamente dice l’ex segretario Pd che proprio sul tentativo di trovare un accordo con Grillo si è giocato la segreteria. Più tardi, nel pomeriggio, quando dal Pdl sono già partite le repliche, quando i renziani dicono che adesso è chiaro chi spara su Palazzo Chigi, altro che Matteo Renzi, arriva quella dichiarazione di Guglielmo Epifani. Da Parigi, dove prende parte al Forum dei progressisti, il segretario in carica dice: «Non è detto che alla fine di un governo corrisponda la fine della legislatura». Se qualcuno pensa di metterlo in difficoltà, ragiona Epifani pensando alle minacce costanti del Pdl in vista delle decisioni su Imu e Iva, potrebbe anche scoprire che ci sono comunque i voti, altri, per formare una nuova maggioranza. Quella maggioranza a cui Bersani aveva lavorato subito dopo le elezioni, per il governo di cambiamento, stoppata dai niet di Grillo malgrado i dubbi e le tentazioni di quella che allora era una minoranza dei parlamentari pentastellati ma che oggi potrebbe essere più consistente. Non è «una minaccia», puntualizza il segretario Pd, ma «una constatazione rispetto a quello che resta l'obiettivo di continuare a fare le cose bene per il paese». Non è una minaccia ma un avvertimento al Pdl, che deve smetterla «di tirare la corda», sì.
I senatori renziani scrivono all’istante una nota congiunta per dire a Bersani che «balenare nuovamente un governo del cambiamento con i transfughi 5 stelle è una ipotesi dell’irrealtà e comunque una bordata strumentale contro chi a parole si vuole difendere, ovvero Enrico Letta. In più dicono affinché in vista della scrittura delle regole per il congresso non si facciano scherzi il Pd che serve al Paese non cambia le regole per contrastare Matteo Renzi».
Alzano la voce anche dal fronte montiano dove le dichiarazioni di Bersani accoppiate a quelle della prodiana Sandra Zampa che apre ai grillini, fanno scattare l’allarme rosso: «Se il Pd vuol riproporre il cosidetto “Governo del cambiamento” faccia bene i conti di quanto voti di fuoriusciti dal M5s gli occorrono, perché Scelta civica non mescolerà mai i suoi coti con quelli di parlamentari grilli ancorché redenti», avverte l’emiliano Giuliano Cazzola.
I più agguerriti sono i pidiellini, da Sandro Bondi a Deborah Bergamini che parla di «ciniscmo opportunistico coltivato in alcune sacche del Pd», mentre per Osvaldo Napolo è «sorprendente» la sortita dell’ex segretario. Il sospetto, non solo dal fronte del centrodestra, è che Bersani sia tentato di rimettere mano alla tela iniziata a tessere a febbraio anche in virtù di quella di rete di contatti che non si sono mai nterrotti tra alcuni parlamentari del Pd e alcuni grillini sempre dubbiosi sulla linea della intransigenza del loro capo. I renziani colgono anche l’occasione per ribaltare la prospettiva: il pericolo per Letta non arriva da Firenze ma direttamente da Roma, il senso del loro ragionamento di ieri. Così come il tentativo di stringere ancora una volta le maglie della platea di elettori per la leadership Pd porta sempre la stessa matrice: Bersani e i bersaniani.
Ettore D’Attorre controreplica a renziani e pidiellini. Ai primi dice che «non serve proseguire con la caricatura delle posizioni altrui», ai secondi che «le parole di Bersani sono uno stimolo al governo». Di fatto, ancora una volta, le vicende del M5S si riflettono sui democrat. Resta da vedere con quali conseguenze questa volta.

il Fatto 16.6.13
È la scialuppa del Pd (se B. affossa il governo)
Bersani prima, Epifani e Vendola poi, tendono la mano ai possibili transfughi
Obiettivo: limitare le minacce Pdl
di Fabrizio d'Esposito


Più che un paragone, è una battuta spietata: “Bersani che ritira fuori il governo del cambiamento è come Pazzaglia nel film Così parlò Bellavista quando ripete all’infinito la storia del cavalluccio e dello scippo”. Un componente della nuova segreteria del Pd liquida così, a microfoni spenti, l’intervista di Pier Luigi Bersani al Corriere della Sera, con cui l’ex premier preincaricato del centrosinistra dà forma e un po’ di sostanza alle manovre di questi giorni. Obiettivo: un ribaltone di Pd, Sel e grillini dissidenti.
ATTENZIONE PERÒ, Bersani riparla del governo del cambiamento e il segretario-notaio democrat Guglielmo Epifani sembra fare l’ufficiale di supporto: “Chi mette in difficoltà l’esecutivo sappia che la legislatura potrebbe non finire”. Avvertimento che vale doppio, riservato sia a Berlusconi sia a Renzi e ai renziani. Questi ultimi, ieri, sono stati i primi a sparare contro l’uscita bersaniana: “Balenare di nuovo un governo con i transfughi del M5S è un’ipotesi dell’irrealtà ed è una bordata strumentale contro il governo di Enrico Letta”. Ovviamente anche i lettiani non gioiscono. Ecco Francesco Boccia: “Questo governo sta varando riforme fiscali e del lavoro per dare una stabilità economica al Paese. Chi vuole strappare nel Pd deve dire di essere contro tutto questo”.
Per districarsi nel caos di queste ore è utile partire da un episodio di giovedì scorso alla Camera. Un deputato del Pd, oggi vicino a Epifani, va da un emissario di Nichi Vendola e gli chiede: “A che punto è la scissione nel Movimento 5 Stelle? Voi vi fidate? ”. Due interrogativi che fissano la prima condizione del presunto ribaltone: l’effettiva rottura dei grillini al Senato nell’attesa riunione di domani, lunedì 17 giugno. Ma di condizione ce n’è anche una seconda. Solo a quel punto proclami e sogni di questi giorni potranno entrare nel recinto della concretezza: uno strappo del Cavaliere assediato dai guai giudiziari e dalle divisioni del Pdl. Anche qui c’è una scadenza da cerchiare col pennarello rosso: la sentenza della Consulta di mercoledì 19 sul legittimo impedimento per un’udienza del processo Mediaset. Due date ravvicinate, 17 e 19 giugno. Segno che la situazione potrebbe precipitare in un amen. Dall’irrealtà alla realtà nel giro di una settimana. Lo ammette un ministro dell’attuale esecutivo, dietro garanzia dell’anonimato: “Se Berlusconi fa saltare tutto questo scenario è possibile”. Non solo. Nichi Vendola, che ieri ha fatto un tweet contro la manifestazione dei grillini ortodossi (“Roba da regime, lo slogan è: viva la fedeltà, abbasso la libertà”), Vendola, dicevamo, sta facendo circolare una suggestione per rassicurare la gran parte del Pd: “Noi questa operazione possiamo farla con Letta, non contro Letta”. Tradotto vuol dire: l’attuale premier può benissimo essere una delle opzioni in campo per il ribaltone. In pratica, lui rimane a Palazzo Chigi ma la maggioranza cambia.
In campo, quindi, Bersani, Vendola ma anche altre storici pontieri come la Puppato, Ci-vati e l’eurodeputata dell’Idv Sonia Alfano, che tre mesi fa incontrò in gran segreto un ambasciatore bersaniano, Miguel Gotor, per fare il punto su un sostegno di grillini dialoganti al tentativo dell’allora premier preincaricato.
SE LE DUE CONDIZIONI necessarie, nascita di un altro gruppo grillino al Senato e strappo di B., dovessero però rimanere sulla carta, allora la mossa di Bersani sarebbe derubricata a mero posizionamento interno in vista della battaglia congressuale. Non a caso, ieri, l’ex segretario ha anche lanciato il sito del suo documento anti-renziano, www.fareilpd.it , e ha mandato una lettera a tutti i parlamentari democratici, invitandoli ad aderire. In serata, Bersani ha pure precisato: “Noi non staccheremo la spina”. A conferma che il ribaltone sarebbe l’effetto di una crisi provocata da altri, non la causa.

l’Unità 16.5.13
Gli «occupy» tifano Civati «No a un congresso chiuso»
A Bologna il raduno dei dissidenti che contestano il Pd anche dopo il successo alle amministrative
Critiche a Epifani, Bersani e Renzi
di Andrea Bonzi


Il sogno è un tandem tra Pippo Civati e Fabrizio Barca al prossimo congresso nazionale. «Sarebbe una bomba», assicura Lorenzo D’Agostino. Nell’attesa, i ragazzi di OccupyPd, che si sono ritrovati ieri a Bologna poco più di un centinaio i presenti per il secondo incontro nazionale, studiano modi per allargare la partecipazione e coinvolgere, dal basso, più elettori possibili.
PRONTA LA T-SHIRT PER PRODI
Iniziando con il recuperare uno dei padri nobili del Pd, quel Romano Prodi impallinato dai 101 franchi tiratori nella corsa al Quirinale, a cui oggi a meno di problemi tecnici, visto che il Professore è in partenza per l’estero regaleranno una maglietta con lo slogan «Siamo più di 101», firmata dai partecipanti all’assemblea. I ragazzi hanno preso contatto diretto con il figlio Giorgio, che è passato a salutarli in mattinata insieme alla moglie. «Andremo da Prodi a chiedergli di fare la tessera, di credere ancora in questo partito spiega Elly Schlein, anima di OccupyPd sotto le Due Torri -. Gliela regaleremo anche un po’ a titolo risarcitorio», visto il trattamento ricevuto in Parlamento. Un simbolo, Prodi, di quel governo di cambiamento che poteva essere, e non è stato. Un esecutivo diverso dall’attuale governissimo contro cui gli attivisti di OccupyPd si sono battuti da subito, presidiando circoli in tutta Italia.
PROSSIMA TAPPA: IL CONGRESSO
Se un’occasione è stata buttata al vento, non se ne può perdere un’altra. E sul congresso i ragazzi di OccupyPd non intendono fare sconti. Non mancano le critiche alla dirigenza e al segretario Guglielmo Epifani: «Stiamo pensando di presenziare lunedì (domani per chi legge, ndr) al primo incontro della commissione sul congresso fa sapere Schlein -. Non ci va bene che si stia tentando di chiuderlo ai soli iscritti e di cambiare lo statuto in questo momento poco opportuno». A decidere le regole dell’assise Pd, l’ex segretario Cgil ha messo «in commissione un membro per corrente, è una logica che non ci va bene». Ce n’è anche per Pierluigi Bersani: «Con che faccia chiede di chiudere il congresso agli iscritti, dopo che ha fallito e deluso gli elettori. Già abbiamo il 50% dell’elettorato che si è astenuto, un altro 26% che pensa che tutti i partiti siano uguali e sta con Grillo...è adesso il momento di aprire le porte», osserva Schlein. E Renzi? «Dietro di lui si sta riposizionando la vecchia dirigenza». Perché mai con Civati sarebbe diverso? «Non sarebbe il candidato di questa o di quella corrente chiude la democratica -, ma espressione della voglia di queste idee».
POST IT E GRUPPI TEMATICI
Idee racchiuse nei colorati post it attaccati alle bacheche che cercano di definire i temi alla base dell’identità del Pd: si va dal «lavoro», forse la parola più presente, al «merito», all’«accesso alle opportunità», finendo con l’«integrazione». E poi ancora le proposte, come quella di dare più soldi e autonomia ai circoli Pd, avviando «consultazioni di base vincolanti», il «no» ai doppi incarichi, la promozione del ricambio generazionale. Ai gruppi di discussione hanno partecipato alcuni parlamentari: il deputato ed ex vicesindaco di Roma, Walter Tocci, uno dei pochissimi che non ha votato la fiducia al governo Letta, Davide Mattiello, deputato indipendente del Pd, che si è presentanto con l’imprenditore anti-‘Ndrangheta Pino Masciari, il dirigente Andrea Ranieri (che non ha votato Epifani alla segreteria) e la deputata bolognese prodiana Sandra Zampa. Quest’ultima, ha invitato il partito a tenere d’occhio i transfughi del Movimento Cinque Stelle: «Per ora parliamo di niente, ma se continuano a cacciarne uno al giorno» potrebbe essere che presto il Pd si trovi ad avere «al Senato i voti per fare un governo diverso da quello attuale. In quel caso, credo che sia giusto riflettere su questa alternativa». Presenti infine anche l’assessore regionale Teresa Marzocchi e il consigliere regionale Thomas Casadei e i renziani bolognesi Benedetto Zacchiroli e Francesco Errani.

il Fatto 16.6.13
Niente Festa, è sciopero rosso
Stop dai volontari democratici
Raduno flop per gli Occupy Pd
di Emiliano Liuzzi e Giulia Zaccariello


Bologna Incrociare le braccia dopo 12 anni passati in cucina, a sfornare crescentine e tortelli all’ombra dell’immagine di Berlinguer, è l’arma più potente che hanno. E se è vero che non cambia i destini del partito, di sicuro rischia di togliere la terra sotto i piedi di un Pd che sembra reggersi su dei pilastri sempre più fragili. Se poi il primo sciopero i volontari lo fanno partire da una delle zone più rosse di Bologna, quella del Navile, la questione assume un certo peso. È qui, in questo quartiere da sempre granaio di voti per il centrosinistra, che il circolo Berlinguer-Moro ha annunciato che la tradizionale Festa dell’Unità di ferragosto non si farà. Mancano i cuochi, mancano gli organizzatori, mancano tutti. In fuga dopo lo stop alla corsa di Romano Prodi al Colle, ma soprattutto dopo la nascita di un governo con Berlusconi. Impossibile da digerire per chi è cresciuto a pane e Gramsci. “Qualsiasi associazione di persone rischia l’estinzione, nel momento in cui non ci sono più le motivazioni per restare dentro” ammette amaro il segretario del circolo, James Tramonti. Sessantaquattro anni appena compiuti, passati con il cuore a sinistra, ha visto cambiare governi, bandiere e sigle di partito: “Per recuperare la partecipazione dobbiamo restituire alla base le ragioni per restare e lavorare nel Pd. Altrimenti ci dimentichiamo le feste. La nostra esisteva dal 2000, ci lavoravano almeno cento persone. Il calo abbiamo cominciato ad averlo dall'anno scorso”. Fino al crollo. “Qualche settimana fa ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: questa volta non ce la facciamo, non abbiamo abbastanza forze. Del resto non glielo devo ricordare io che nel Pd c’è malcontento”.
E INFATTI NEL PD non c’è solo lui a parlare di delusione e speranze andate in fumo. Ci sono anche i giovani militanti, quelli che, per motivi anagrafici, di feste di partito ne hanno vissute poche. Anche in questo caso il laboratorio del dissenso è Bologna, dove ieri si è dato appuntamento Occupy Pd, il gruppo di protesta nato dopo il tradimento dei 101 franchi tiratori contro Prodi, rimasti nell’ombra. Un’occasione per contarsi ma anche per cercare di pianificare le mosse per il futuro, soprattutto in vista del congresso che deciderà il successore di Epifani. Il rischio è quello che il movimento si trasformi in poco più di uno sfogatoio per iscritti disillusi, senza riuscire a portare a casa niente. “E invece noi vogliamo contare. Per questo chiediamo alla segreteria di ammettere un nostro delegato alla commissione che da lunedì comincerà a elaborare regole e metodi del congresso” spiega Lorenzo D’Agostino, una delle anime di Occupy Pd. Parla a nome del gruppo: “Bisogna evitare che si ceda alle logiche di corrente, con accordi più o meno opachi tra le diverse frange del partito”. All’appuntamento, costato poco più di 400 euro, tutti autofinanziati e recuperati con offerte libere, ha partecipato un centinaio di attivisti arrivati da tutt’Italia al grido di “siamo più di 101”. Un messaggio che cercheranno di far arrivare anche a Prodi, consegnandogli la maglietta simbolo della loro battaglia. Ieri il Professore era invitato, ma di Prodi si è visto solo Giorgio, il figlio, passato per un saluto in compagnia della ex portavoce del fondatore dell’Ulivo, la deputata Sandra Zampa. È lei a far capire che i giochi per il Pd potrebbero cambiare presto: “Se il partito, grazie alla scissione del Movimento 5 stelle, trovasse i numeri per una maggioranza alternativa, di sicuro dovrebbe fermarsi e capire cosa vuole”.

il Fatto 16.6.13
20 deputati e 16 senatori preparano un nuovo gruppo
5Stelle, 36 parlamentari pronti ad andarsene
di Paola Zanca


Domani l’assemblea degli eletti vota sulla richiesta di espellere la Gambaro, critica col leader. Ma rischia anche Paola Pinna, che lamenta scarsa democrazia interna. I fedelissimi di Grillo manifesteranno a Roma.

M5S, IN 36 VANNO ALLA GUERRA UN’ALTRA DEPUTATA A RISCHIO
MENTRE AL SENATO CERCANO DI MEDIARE SUL CASO GAMBARO ALLA CAMERA PREPARANO IL GRUPPO: UNA DI LORO È GIÀ NEL MIRINO

L’ultima scomunica arriva in un post scriptum e la scrive di nuovo lui, Riccardo Nuti, capogruppo Cinque Stelle alla Camera: “P. s. Informo i lettori che il codice di comportamento non è cambiato”. I lettori sarebbero quelli che, su La Stampa, hanno scoperto che Paola Pinna è “pronta a costituire un nuovo gruppo”. Non da sola, certo. Sarebbero in 20, i deputati sulla strada dell’addio. Il minimo indispensabile per fare un gruppo a Montecitorio, quanto basta per immaginare che domani potrebbe essere il giorno più lungo dei grillini in Parlamento.
SI USA ancora il condizionale, perchè mentre alla Camera è stata ufficialmente dichiarata “guerra” (una prima bozza dello Statuto sarebbe già pronta), al Senato i deputati dissidenti sono ancora alla ricerca di una tregua: un ultimo, disperato, tentativo di fermare il voto di lunedì, quello che chiederà alla Rete se vuole che Adele Gambaro, l’accusatrice di Beppe Grillo, resti nel Movimento oppure no. Sanno già la risposta, i senatori. Per questo stanno cercando di convincere lei a fare l'unica cosa che la salverebbe dalla gogna: andarsene da sola, provare a dimettersi e finire al gruppo misto. Ma la senatrice emiliana difficilmente lo farà. Ai senatori non resta che convincere Vito Crimi, Nicola Morra e gli altri “talebani” del gruppo che la faccenda va risolta tra le mura di palazzo Madama, senza darla in pasto ai giovani colleghi deputati. Che sono lì, inferociti. La Gambaro la considerano già sbranata. E già hanno buttato gli occhi sulla Pinna. Scrive Carlo Sibilia, 27enne avellinese: “Tolta la zavorra riprenderemo a volare perchè noi siamo oltre... obiettivo 100%”. Insiste Manlio Di Stefano, 31enne trasferito a Milano: “Se avete pelo sullo stomaco e amate farvi del male seguite queste semplice ricerca su google”. Aggiunge le parole da incrociare: “m5s dissidenti soldi indennità”. Il concetto è noto: lo fanno per la grana. E ieri, con una rapidità sconcertante, la pagina Wikipedia di Paola Pinna era già aggiornata con il timbro di infamia: “Ha tradito la fiducia dei propri elettori nei confronti di Beppe Grillo in nome della diaria” (poi corretto, un'ora più tardi con il link all'intervista incriminata). Ormai succede di tutto. Paola De Pin, senatrice trevigiana, ha denunciato al Secolo XIX “stalking” da un consigliere comunale: dice che ridà indietro troppi pochi euro.
ORMAI I DOSSIER sono al-l’ordine del giorno. E c’è chi sostiene che perfino le voci insistenti sulle uscite dal gruppo siano “profezie che si autoavverano”. “Ci stanno facendo il malocchio”, dice un senatore. Alla Camera invece sono meno superstiziosi: “La loro tecnica è semplice: delegittimare tutti quelli che alzano la testa. Adesso abbiamo capito perché li volevano tutti giovani: i ragazzini si manovrano meglio. Noi ce ne andiamo: prenderanno lo 0,1 per cento. Li voteranno solo i fascisti come loro”. A tutti, quando immaginano l’assemblea di domani, vengono in mente scenari bellicosi: “Stiamo andando alla guerra”, “O si vince o si muore”, “Il problema è che non abbiamo un generale”, “Sarà una battaglia epocale”. Lo staff, come prevedibile, è furibondo: “Non si può più andare avanti così. Ogni giorno uno si sveglia e fa un'intervista”. Per questo stanno pensando di mandare il processo in diretta streaming. Chi sono i traditori, lo devono vedere tutti. Pulizia, mele marce che cadono. Poi, martedì, si va tutti in piazza, a sostegno di Beppe. Ci sarà anche lui? “Magari una sorpresa ce la fa”.

La Stampa 16.6.13
I quindici senatori del M5S sull’orlo della scissione
Ecco chi sono. Usciranno da epurati con Gambaro o no? Il Pd manda segnali. E Sonia Alfano tesse la tela
di Jacopo Iacoboni

qui

il Fatto 16.6.13
L’europarlamentare Sonia Alfano
“Compravendita? Nuti rettifichi o lo denuncio”
di Paola Zanca


“Io sono serena, così come i parlamentari dei Cinque Stelle che continuo a sentire. Noto invece che qualcuno lo è meno. Ho sentito le cose che ha detto Nuti. Parlare di compravendita è gravissimo”. Sonia Alfano - una delle prime elette nelle liste degli Amici di Beppe Grillo ora europarlamentare eletta da indipendente nelle fila dell’Idv - è tra i “pontieri” accusati della “compravendita” denunciata dal capogruppo M5S alla Camera Riccardo Nuti. All’epoca del mandato esplorativo di Pier Luigi Ber-sani incontrò Miguel Gotor, collaboratore del segretario Pd, per parlargli di 13 senatori grillini disposti al dialogo.
Esiste ancora quel gruppo?
Sì, ed è molto più numeroso. Si stanno confrontando, cercano una soluzione per evitare che reazioni come quelle contro Adele Gambaro diventino ordinarie. Il dissenso fa parte della democrazia e questo caso è un ottimo spunto di discussione.
Il capogruppo Nuti ha parlato di compravendita.
Riccardo è palermitano come me, ha mangiato tante volte a casa mia. Quando ero candidata con gli amici di Beppe Grillo andava in giro ad attaccare i miei manifesti. Poi è arrivato il diktat da Genova: Sonia Alfano non è più una dei nostri. E ha deciso che ero una persona da non frequentare. Ma la politica è fatta anche di correttezza.
Invece lui è stato scorretto?
Ho letto il mio nome sui siti e sulle agenzie: se non ce l’ha con me rettifichi immediatamente. Ma nel campo della legalità, Riccardo da me può solo imparare. Forse non conosce il codice penale ed è grave per un deputato, per di più capogruppo. Credo che le sue accuse meritino un approfondimento. Se non lo farà la magistratura, sarò costretta a chiederlo io.
Visto che li frequenta, cosa c’è che non va nel gruppo?
Si sono incartati da soli. Tutta questa storia degli scontrini, della diaria... io lo trovo veramente di pessimo gusto rispetto ai problemi del Paese.
Hanno fatto anche altro. Dicono che è colpa dei giornali che non ne parlano.
Non mi pare che Beppe abbia fatto un post per dire quali legge hanno presentato, quante interrogazioni, come hanno votato. Se è lui il primo a non mettere la faccia sul lavoro dei suoi parlamentari, vuol dire che c'è un problema.
Cosa vorrebbe dire a Grillo?
Perché non impara a conoscerli questi parlamentari? Perchè non ci parla? Hanno bisogno di conforto invece li sta lasciando soli.
È successo anche a lei?
Io glielo chiedo dal 2009: i nostri rapporti si sono interrotti quando gli ho chiesto di mettere una finestra sul blog per pubblicizzare l'attività da europarlamentare. Lasci stare i video: lui la Rete la conosce, sa che quelli non li guarda nessuno. Un suo post, invece, quello sì che lo leggono in tanti.

il Fatto 16.6.13
Parma
“Bugiardo”, la piazza caccia Pizzarotti
di Silvia Bia


Parma “Buffone, buffone! Vai via, sei come gli altri! ” La piazza che lotta contro l’inceneritore di Parma caccia Federico Pizzarotti, il sindaco Cinque Stelle che aveva promesso di fermarlo in campagna elettorale. Il primo cittadino arrivato in segno di pace con in mano la maglia con la scritta “no inceneritore”, ritorna in Comune tra i fischi della folla e qualche spintone. Telecamere e taccuini sono di nuovo puntati sul primo sindaco del Movimento, che proprio qualche ora dopo sarà ospite di un dibattito sul rapporto tra stampa e Cinque stelle con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio e giornalisti, tra i quali il direttore del Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro. Tutto accade nel giro di pochi minuti nella centralissima piazza Garibaldi, dove 200 manifestanti dell’assemblea “No inceneritori”sono pronti a partire in corteo nei luoghi simbolo dell’accensione del forno: Comune e Provincia.
PIZZAROTTI ESCE dal palazzo comunale per incontrare gli attivisti arrivati da tutta Italia. Cerca il dialogo, come in passato ha già fatto con altri cittadini in protesta. Gli attivisti anti inceneritore, autori di blitz in Provincia e in Consiglio Comunale e di presidi davanti al cantiere di Ugozzolo glielo chiedevano da tempo, ma non l’avevano mai ottenuto. Pochi scambi di opinioni, poi i manifestanti passano all’attacco: “Devi mantenere gli impegni che avevi preso, altrimenti sei come tutti gli altri! ” gli gridano. Pizzarotti ribatte, si smarca dagli annunci di Grillo: “Io non ho mai detto che avrei fermato l’inceneritore, ho detto che avrei tentato di tutto per farlo”. Non è la piazza di Pizzarotti, questa: tra la folla non c’è l’associazione Gestione corretta rifiuti, l’altro fronte no termo che aveva appoggiato la sua candidatura a sindaco. Assente dalla manifestazione, perché troppo “politicizzata”. E il concetto lo ribadisce anche il sindaco quando cominciano le grida: “Voi state facendo politica, ma non avete ancora capito la distinzione tra protesta e proposta – dice - però io sono e sarò sempre contro l’inceneritore e per questo sono qui. Ognuno sceglie il proprio modo di portare avanti le battaglie”. Ma i manifestanti fanno muro, volano gli insulti e alla fine il sindaco è costretto a tornare dentro il palazzo comunale.
IL CORTEO SFILA per le vie della città proprio mentre Pizzarotti parla con il suo braccio destro Marco Bosi del rapporto con la stampa locale e nazionale in un dibattito organizzato dall’associazione culturale Hydra, in cui per la prima volta i Cinque stelle si confrontano su uno dei temi più dibattuti all’interno e all’esterno del Movimento. Dal fuorionda di Favia all’intervista di Giulia Innocenzi, dagli attacchi di Beppe Grillo ai giornali al divieto di andare nei talk show, dal caso Gabanelli fino allo sbarco in tv dei parlamentari, i punti di vista di giornalisti e politici si incrociano e si scontrano, tra botta e risposta e anche attestati di reciproca stima. Antonio Padellaro si rivolge al grillino Di Maio: “Stiamo ancora aspettando che il Movimento apra la scatola del Parlamento, come aveva detto Grillo, per dire ai cittadini come vengono spesi i soldi. Non avete mai fatto una conferenza stampa su questo. L’esponente di M5s replica: “Abbiamo passato troppo tempo a lavorare e lasciato spazio agli altri nei dibattiti. Ora saremo più presenti in tv, ma continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto”. Il direttore del Fatto aggiunge: “Basta con i vittimismi, non ci sono santuari della politica e dell’informazione”. Interviene anche Corra-do Formigli di La7, tra gli ospiti assieme al giornalista del Corriere della Sera Emanuele Buzzi e a Maurizio Chierici del Fatto: “Certe cautele che noi conduttori abbiamo con il M5S non le abbiamo con nessuno”. E infine la posizione dei tre di Cinque stelle: “A volte si dà attenzione solo agli argomenti pruriginosi, ma noi lavoriamo e vogliamo rispondere di quello che facciamo”.

il Fatto 16.6.13
Cari “dipendenti”, finitela di deluderci
di Paolo Flores d’Arcais


Tre mesi fa quasi nove milioni d’italiani hanno investito il M5S con uno tsunami di responsabilità. Hanno affidato ai parlamentari di quel movimento il crogiuolo della loro rabbia e delle loro speranze, di un bisogno ormai disperato di “liberazione” dalla politica come corruzione e come chiacchiera, come menzogna e come trattativa con le mafie, come privilegio e come autoreferenzialità. Vi hanno delegato per amore di “giustizia e libertà”, i valori fondanti della Costituzione repubblicana che il governo Berlusconi-Napolitano (eufemisticamente, per i più piccini, governo Letta-Alfano) vuole ripudiare. Quasi nove milioni di cittadini vi hanno chiesto di inaugurare e realizzare un’Altrapolitica.
Sembra invece che quella straordinaria ricchezza di rabbia e di speranze abbiate deciso di dissiparla, di gettarla al macero. Non ne avete il diritto. Non potete trattare il tesoro di passione civile e di rivolta morale che gli italiani vi hanno consegnato, come fosse un bottino che potete sperperare ad libitum. Voi siete, per usare una definizione di Beppe Grillo, i nostri “dipendenti” (e Grillo, dunque, parafrasando la Chiesa per il Papa, il dipendente dei dipendenti del sovrano elettore). Non dovete rispondere a qualche migliaio di attivisti che votano in rete, ma a nove milioni di cittadini che non potete oltraggiare con l’ennesima delusione. Lo state già facendo, però. Altrimenti a Roma non vi avrebbero abbandonato in tre mesi due elettori su tre, e a Catania nove su dieci. Ne tradirete, e perderete, molti altri, se continuerete a trastullarvi col vostro ombelico nella tristezza delle espulsioni e nell’indecenza degli anatemi.
La senatrice Gambaro dice che i toni di Grillo fanno perdere consensi. Può avere torto marcio, ragione solo in parte, o aver messo il dito nella piaga. Ma è demenziale anche solo pensare di cacciarla, perché la “lesa maestà” è diventata obsoleta con la presa della Bastiglia, e l’obbedienza perinde ac cadaver è la divisa della Compagnia di Gesù, non dell’Altrapolitica.
Sento dire che andrebbe espulsa non per l’attacco a Grillo, ma per averlo pronunciato in tv. Per favore! L’avesse scritto in un blog (ripreso ovviamente da tv e giornali) Grillo avrebbe elegantemente incassato e magari seriamente discusso? Siate perciò responsabili. Finitela con la litania dei “chi dice x è fuori”, “chi non fa y è fuori”, dedicatevi all’azione comune con i cittadini che vi hanno eletto e che si aspettano di avervi al loro fianco nelle lotte e nelle proposte, non che vi auto-umiliate nella miseria delle scomuniche.

l’Unità 16.5.13
Travaglio, il «giornalismo servo» contro i ribelli M5S
di Mchele Prospero


COERENTE, IN FONDO, LO È. MARCO TRAVAGLIO VIENE DA QUELLA DESTRA ITALIANA che ha sempre avuto come sua ossessione la sinistra. La cui storia descrive con le mani insanguinate e con gli scarponi chiodati. Nel 1994, proprio per far deragliare i nipotini di Stalin, Travaglio accarezzò la Lega. Cioè un movimento ribelle dei territori, ma pur sempre agli ordini di Berlusconi. Nel febbraio scorso ha puntato invece sul M5S, ossia su un movimento ribelle della rete, e tuttavia garante del buon mondo antico presidiato dal grato Cavaliere.
Alla forza meno granitica che ha espresso la storia repubblicana, Travaglio intende prestare un disperato soccorso. E perciò strilla contro il «giornalismo servo» che descrive i mitici deputati di Grillo come divisi, poco esperti, attardati sulle questioni degli scontrini. Urge una rapida controstoria delle eroiche gesta per riscattare l’onore perduto. Ed ecco però come il saggio, lui sì non «prostatico», Travaglio tira le fila: occorre un bel «collegio dei probiviri» che liquidi la senatrice «furbona», «l’altro genio» che andava in Tv, i dissidenti feriti solo «sul nobile ideale della diaria».
Ma come? Senza neppure accorgersene, Travaglio descrive l’esperienza del M5S proprio come abitualmente fanno le spregevoli «guardie del corpo dei partiti» che riempiono di insulsaggini i loro giornali. E però «il cameriere del contropotere» aveva l’intenzione di celebrare la missione storico-cosmica del M5S, santificato come «unico», «primo», «storico» in ogni gesto, opposizione, sogno e proposta.
Non meno confuso il corazziere di Grillo (e quindi un po’ carabiniere anche di Berlusconi) appare quando indossa gli abiti del suggeritore strategico. Oltre alle adunate dei probiviri per rimettere disciplina, i grillini «convochino conferenze stampa e iniziative di piazza» contro «quell’ente inutile che è ormai il parlamento». Perfetto. La memoria lo riporta, con un sospetto automatismo, all’aula sorda e non più grigia ma comunque inutile. Contro di essa occorre scaldare la piazza in un moto di ribellione perpetua contro istituzioni nemiche, con la subdola vocazione al «golpetto» e quindi senza alcun valore normativo.
È quello che Grillo sta già facendo, condannando all’irrilevanza un movimento di quasi 9 milioni di elettori, destinato alla frammentazione e alla fronda per l’assoluta mancanza di guida politica. Senza un briciolo di organizzazione, un confronto sui programmi, una strategia politica di breve e medio periodo non c’è nulla che possa trattenere una forza che sbanda e procede alla cieca: né gli anatemi di un comico arrabbiato né le scomuniche di un giornale amico.
Il disegno che Grillo persegue è quello di un movimento certo dimagrito ma non esangue, che si serve delle istituzioni come di un semplice megafono, che ricorre alla piazza per scopi di propaganda ma ha poi nel blog privato del capo il suo centro assoluto di riferimento. Il mondo è però troppo complesso per rinchiuderlo in un blog. E delle forze centrifughe, al cospetto dello scacco continuo che il non-partito incassa nelle sedi della rappresentanza, spingeranno alla deriva una litigiosa formazione flash da mesi chiusa in un vicolo cieco.
Quanto alla forma del non-partito il confronto con il Cavaliere non regge. Quello di Berlusconi non è un effimero partito personale, si avvale di un immenso apparato politico professionale di nuovo conio. Ha la regia organizzativa e propagandistica dei quadri di una grande azienda, la copertura di un esercito agguerrito di media, la vocazione egemonica di schiere di giornalisti militanti, la dedizione alla causa di vasti ceti di amministratori e di intellettuali organici. Anche Grillo dispone di un partito della micro azienda, con alcuni giornali e trasmissioni Tv di supporto. Ma la sua potenza di fuoco, che è stata devastante durante la campagna elettorale, pare spenta dopo l’ingresso trionfale nel Palazzo, occupato per non combinare nulla.
Il mito di un uomo solo al comando anche stavolta non funziona. Senza un’ideologia coerente, una macchina di un qualche spessore, un blocco di interessi sociali di riferimento nessun capo assoluto, seppure coadiuvato da un guru millenarista o da media vicini agli spifferi della polizia giudiziaria, riesce a mantenere il saldo controllo di una schiera di eletti reclutati con provini, autopromozioni, cooptazioni, filmati.
La velleità di raccogliere in ogni piazza un risentimento su una singola istanza e definire così una eterogenea aggregazione di micro-rabbie non porta ad una politica. La fenomenologia della rabbia a febbraio ha gonfiato una metafisica della rivolta. Ma se l’ingresso nel palazzo è sterile, e improduttiva si rivela la partecipazione al gioco politico, difficile pare accendere di nuovo la miccia della ribellione. Neanche se l’ordine di insurrezione lo redige Travaglio, che sogna un vecchio comico al Palazzo e un altro a scaldare la piazza invocando di visitare il suo blog.

Corriere 16.6.13
La sfida di Orlando con «139» «Sì a un partito senza tessere»


MILANO — Il nome si richiama agli articoli della Costituzione — da difendere da attacchi nel nome di «un presidenzialismo da avanspettacolo» —, il movimento non prevede tesseramenti e la sfida è tutta al Pd. Leoluca Orlando, che insieme a circa 150 amministratori locali di varie aree, dagli ex Idv ai vari «delusi» di Pd, Sel e Scelta civica, ha lanciato ieri il suo «Movimento 139», invita il Partito democratico a non tenere il congresso di ottobre che, così come è impostato, servirebbe solo a «perpetuare il sistema delle correnti che ha già affossato Veltroni e Bersani». L'obiettivo — ha spiegato Orlando nella riunione nella sala Capranichetta a pochi passi dal Parlamento — è quello di costruire una alternativa al «governo dell'inciucio Letta-Alfano che sta diventando sempre più un governo-partito». Il logo del movimento, che debutterà alle prossime elezioni regionali in Abruzzo e Basilicata, è ancora allo studio. Insieme a Orlando ci sono i «garanti» Felice Belisario (ex motore organizzativo dell'Idv) e Carlo Costantini, anche lui ex Idv.

Corriere 16.6.13
I democratici e il timore delle urne per quei voti che non tornano a casa
Dietro le vittorie nei Comuni i passi indietro nei posti chiave
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il Pd ha un nuovo incubo. Ha un nome, Renato, e un cognome, Accorinti. È il candidato sindaco di una lista civica che è arrivato al ballottaggio contro Felice Calabrò, esponente del Pd, sostenuto dal ras locale, nonché ex primo cittadino della città siciliana Francantonio Genovese. E il bello è che Accorniti, per riuscire nell'impresa, ha speso solo qualche migliaio di euro e ha strappato a Beppe Grillo una notevole fetta di elettori.
È uno dei dati di queste elezioni amministrative che preoccupa il Partito democratico: l'incapacità di recuperare i voti andati al Movimento 5 stelle. Accorniti, con una lista fai da te, «Cambiamo Messina dal basso», è riuscito a ottenere un risultato che per il Pd resta una meta irraggiungibile, almeno per il momento, in Sicilia come altrove. In quel capoluogo dell'Isola i grillini sono scesi dal 25 per cento al 2,7, e ora, grazie anche al voto degli elettori che li hanno snobbati, un signore che aveva detto di no all'offerta di una candidatura alle politiche fattagli dal comico genovese, potrebbe contendere la poltrona di sindaco al Pd. Il quale Pd, sia detto per inciso, rischia anche a Ragusa, dove è andato al ballottaggio un esponente del «Movimento 5 stelle» che potrebbe vincere la poltrona di primo cittadino.
In Sicilia, lì dove il Pd viene percepito come rappresentante della conservazione e del potere locale, le possibilità di riprendere il voto andato ai grillini sono pari a zero. Del resto, uno studio dell'Istituto Cattaneo dimostra come nei Comuni capoluogo dove si sono svolte le recenti amministrative il Partito democratico ha perso 243 mila voti rispetto alle elezioni politiche del 2008, elezioni che, come si ricorderà, il Pd ha perso. D'altra parte anche lì dove i «Democrat» sono riusciti a vincere con un notevole distacco dagli avversari hanno perso consensi. Il caso più clamoroso da questo punto di vista è quello di Ignazio Marino. Il primo cittadino della Capitale è stato eletto con 250 mila voti in meno di quelli che riuscì a prendere Rutelli quando venne sconfitto da Alemanno. Per questo motivo, al di là dell'apparente riscossa del Pd, la situazione non è affatto rosea e preoccupa molti.
E c'è un altro dato sconfortante. Anche nelle regioni rosse, Toscana ed Emilia Romagna, lì dove il Partito democratico viene visto come al potere da sempre, aumentano le astensioni e diminuiscono a vista d'occhio i consensi. Basti pensare che in una roccaforte rossa come quella di Siena il sindaco del Pd è riuscito a battere lo sfidante del Pdl per soli 930 voti. Tra l'altro l'astensionismo non ha risparmiato la Toscana dove in alcune zone l'affluenza al voto è stata ben più bassa della media nazionale. Un dato per tutti: a Viareggio l'affluenza al secondo turno è stata del 36,7 per cento.
Insomma, altro che quella «vittoria strepitosa» di cui ha parlato Bersani subito dopo i ballottaggi. Il Partito democratico è talmente in difficoltà che in Emilia Romagna molti circoli hanno cominciato lo sciopero del tesseramento. Un segnale che il malessere dilaga dovunque. E questo, com'è ovvio, preoccupa non poco i dirigenti del Pd che temono che il governo in autunno possa saltare. Andare alle elezioni in queste condizioni, con i voti grillini che non tornano indietro, gli elettori che preferiscono stare a casa, i militanti che protestano, sarebbe un terno al lotto. Per questa ragione alcuni nel Pd non escludono di andare a un governo con i grillini e Sel nel caso in cui l'esecutivo Letta entri in crisi.
Ma tornando in Sicilia, quell'Accorniti che non si è fatto sedurre dal leader del Movimento 5 stelle, e che ha provato con una lista fai da te, rappresenta il peggior incubo del Pd. Incarna la paura dei democratici che, nonostante il crollo dei grillini, possano affacciassi altri movimenti, altre esperienze in grado di rappresentare il malcontento.
Il politologo e sondaggista dell'Ipsos, Paolo Natale, ieri, su Europa, ha cercato di fornire qualche suggerimento al Pd che, ha ricordato, «viene percepito come un partito in crisi da oltre metà della popolazione». Un partito che, comunque, non deve farsi illusioni: il Movimento 5 stelle non scomparirà, ma si ridurrà alla sua dimensione fisiologica, che è quella del 10,15 per cento.
Il consiglio fornito da Paolo Natale? Quello di affidarsi a Matteo Renzi e alla «nuova classe dirigente» per riuscire a convincere gli astensionisti e gli elettori che sono fuggiti con Grillo a tornare a frequentare le urne e a votare Partito democratico. «Ma — ammonisce il politologo sondaggista su Europa — questa è davvero l'ultima chance». Il problema è che al Pd non tutti sembrano averlo capito.

Corriere 16.6.15
Boccia: un ribaltone è da escludere Berlusconi e Monti non tradiranno
«Un esecutivo di scossa è possibile quando si vincono le elezioni»
di Andrea Garibaldi


ROMA — «Escludo categoricamente ribaltoni, maggioranze di governo diverse dall'attuale», dice Francesco Boccia, pugliese, consigliere economico di Enrico Letta fin dal 1998, deputato Pd, ora presidente della commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera. Esclude ribaltoni, in risposta all'ex segretario Pierluigi Bersani, che ha ammonito Berlusconi sul Corriere («Staccare la spina al governo non comporta automaticamente andare a votare»).
Quindi, nessuna alternativa al governo Letta?
«Questo governo è nato nella scia di un impegno solenne preso nei due rami del Parlamento dopo la rielezione del presidente Napolitano. Sarebbe comprensibile un discorso sull'alternativa solo se Bersani sapesse che un pezzo di maggioranza sta per fare un passo indietro».
Non crede che possa succedere?
«L'intervista di Bersani sarebbe interessante se Berlusconi o Monti stessero per staccare la spina. Non credo che lo faranno. Si tratterebbe di un tradimento nei confronti del Capo dello Stato e degli italiani».
Nessuna maggioranza Pd-Sel-Grillo all'orizzonte?
«Inviterei tutti a passare le giornate ragionando su come contribuire all'azione di governo sul lavoro, sull'aumento della liquidità alle imprese, sull'abbassamento delle imposte. Se il governo comunica stabilità si possono risparmiare miliardi di euro perché cala il costo del debito pubblico. E invito la maggioranza a occuparsi in Parlamento di come migliorare la spending review».
L'ipotesi di nuove alleanze nasce probabilmente dai tormenti nel Movimento 5 stelle.
«Non auguro scissioni a nessuno. Spero che il Movimento 5 stelle vada verso un'apertura democratica. Vedo come lavorano nelle commissioni, al riparo dei tuoni di Grillo, come hanno votato, assieme alle altre opposizioni — Sel, Lega — a favore del decreto sui debiti della Pubblica amministrazione».
Bersani ha detto che per far ripartire un Paese ci vuole un «governo di scossa», di destra o di sinistra.
«Sono d'accordo con lui, ma questo è possibile quando si vincono le elezioni. Un governo di cambiamento di sinistra ha bisogno di prendere il 51 per cento dei voti. In questo, la penso come Renzi».
Si parla di insofferenza verso le «larghe intese» di molti elettori Pd nei territori.
«Questa insofferenza esiste molto nelle stanze romane. Ho fatto campagna elettorale in giro e dovunque ho sentito apprezzamenti per il governo Letta. Vorrei che il governo sia tenuto lontano dalle dinamiche congressuali del Pd e anche dalle trasformazioni del Pdl e del Movimento 5 stelle. Il governo si occupa del bene del Paese, non del bene del Pd».
Il Pd prepara il congresso.
«Epifani si sta rivelando un eccellente segretario, va nelle sezioni, spiega il progetto. Non vedo l'ora che arrivi il congresso. Sarà bello confrontarsi. Anche se si deve organizzare tutto senza fretta, far entrare in circolazione le idee. Se servono sei mesi, prendiamoci sei mesi. Un Pd autorevole aiuterà il governo».
Cuperlo contro Renzi?
«Non ci sono ancora candidature ufficiali, solo annunci. Importante è che si confrontino mozioni vere. Il mio segretario dovrebbe esaltare il ruolo del Partito socialista europeo, battersi per gli Stati Uniti d'Europa, non aver paura di tassare le transazioni finanziarie per abbassare le tasse sul lavoro, sostenere la nuova famiglia di oggi. E il vero spartiacque sarà il semipresidenzialismo. Io sono a favore, ma se vado in minoranza non prendo il pallone e me ne vado».
Classica affermazione renziana.
«Dissi questa frase nel 2005, quando persi le primarie in Puglia contro Vendola. In ogni caso, penso che Renzi si sia consacrato leader proprio quando ha dimostrato di saper gestire la sconfitta delle primarie con Bersani, al servizio del partito».
Il leader del partito e il candidato premier saranno diversi?
«Possiamo fare come nell'ultima stagione, con il confronto Bersani-Renzi: se emergono nuove leadership il segretario può misurarsi alle primarie con altri».
Cosa deve uscire dal congresso?
«Finalmente in Italia un partito della sinistra riformista europea. Sarà possibile perché è molto cresciuto ormai il numero di coloro che si sono direttamente iscritti al Pd: nativi dell'Ulivo e del Pd».

Corriere 16.6.13
I fioroniani: il congresso sia «aperto»


ROMA — Ci vuole «un congresso aperto». Addirittura le «notti bianche» del Pd, con primarie che portino ai gazebo iscritti e simpatizzanti durante tutto un weekend (comprese le ore piccole tra sabato e domenica). E, per chi voterà, la richiesta di un sostegno economico «adeguato» (si parla di almeno cinque euro), dato che cambia tutto con l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. È ciò che chiedono con una lettera aperta al segretario Guglielmo Epifani ottanta amministratori locali che fanno capo all'area di Giuseppe Fioroni, un documento firmato per il momento da politici under 40, ma che punta a raccogliere un consenso più largo all'interno del partito. Serve un congresso — si legge nella lettera — «nel quale il tema della partecipazione deve costituire l'architrave del nostro essere democratici». Per questo l'appuntamento delle primarie dovrà quindi essere «aperto» e svolgersi in due giorni, «sabato e domenica». Nel documento si chiede inoltre che «la discussione sulle mozioni congressuali, da tenere nei diversi ambiti territoriali, non sia limitata, ma sia la più ampia e partecipata possibile: il congresso non può risolversi in un referendum pro o contro qualcuno, ma deve essere un confronto di proposte che ci faccia sentire tutti democratici, superando i vecchi schemi e le categorie del passato, che ci riportano a contrapposizioni del passato tra ex democristiani ed ex comunisti e che non rappresentano, peraltro, un'intera generazione di democratici. Dobbiamo partire da una Costituente delle idee che faccia emergere, attraverso la partecipazione e il libero confronto, il nostro comune sentire».

Repubblica 16.6.13
Fedelissimi, ribelli e pontieri così il movimento si spacca in tre
Da Emilia e Sicilia le scosse più forti. Il nodo del dialogo col Pd
di Matteo Pucciarelli


MILANO — «A quelli che fanno troppe storie vorrei chiedere: “Ma te, qui, cosa ci sei venuto a fare? L’accordo con il Pd?”», dice il fiorentino Massimo Artini. «Quando se ne andranno riprenderemo a volare perché noi siamo oltre», è sicuro il deputato campano Carlo Sibilia. Entrambi si riferiscono al gruppo dei dissidenti, di quei colleghi-cittadini- portavoce pronti a mollare gli ormeggi, a lasciare il M5S se la senatrice Adele Gambaro alla fine verrà espulsa. «È grazie anche a voi giornalisti se si è scoperta questa fronda », aggiunge Sibilia. Un’altra ortodossa, la siciliana Giulia Di Vita, si sfoga su Twitter: «Finalmente uno a uno escono allo scoperto, nemmeno il coraggio di dirlo prima al resto del gruppo. Ed eravamo noi esagerati... ridicoli!». Il movimento è ormai spaccato in tre tronconi. Ci sono gli oltranzisti del verbo di Beppe, li chiamano i “talebani”. Sono quelli (ma non solo) che pochi giorni fa vennero convocati a Milano, alla Casaleggio Associati, per discutere della comunicazione esterna. Sono anche i più in vista: Vito Crimi e Roberta Lombardi, il presidente della Commissione Vigilanza Rai Roberto Fico, il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, i capogruppo Riccardo Nuti e Nicola Morra, Alessandro Di Battista, Laura Bottici, Paola Carinelli. In tv per ora ci vanno loro, a tutti gli altri restano i social network e le interviste strappate qua e là dai cronisti, lette con sempre maggiore fastidio dallo staff.
La frattura con i possibili trasfughi era chiara da tempo, anzi sin dall’inizio, da quando il M5S si trovò davanti al primo bivio: decidere se accettare o meno la proposta del Pd di dar vita al “governo di cambiamento”. Quelli che allora interpretarono gli 8 milioni di voti al M5S come un invito — appunto — a cambiare “qui ed ora”, condizionando un esecutivo di centrosinistra, sono praticamente gli stessi che oggi pensano che la misura sia colma. Troppe le prepotenze dei “talebani” nella gestione del gruppo, troppa la durezza di Grillo nell’affrontare i dissensi. Convinzione rafforzata dall’esito disastroso per i Cinque Stelle delle amministrative. I ribelli sono trenta, forse quaranta, equamente distribuiti tra Camera e Senato, nord e sud. Potrebbero diventare anche di più il progetto diventasse qualcosa di ampio, che coinvolgesse — ad esempio — Stefano Rodotà, Sonia Alfano, magari anche Sel. «I dissensi potrebbero concretizzarsi
nell’organizzazione di un nuovo gruppo», ammette Tommaso Currò a Radio Capital.
È lui il sospettato principale, quello che ne starebbe stilando lo statuto, in linea con i valori del movimento ma che garantirebbe agli iscritti la piena libertà di espressione. «La questione non è stare con Grillo oppure no, gli ideali in campo sono molto più grandi», sottolinea. Gli altri nomi sono ormai conosciuti: Adriano Zaccagnini e Aris Prodani i più agguerriti e politicamente strutturati a Montecitorio, Francesco Campanella e Lorenzo Battista a Palazzo Madama. Tutti gli eletti al Senato della Sicilia potrebbero seguirli. Altri ancora si sono visti anche con un altro epurato del passato, il consigliere regionale emiliano Giovanni Favia, guarda caso preso di mira proprio ieri dal blog di Grillo. Vecchio sodale della Gambaro, ma pure delle senatrici Michela Montevecchi ed Elisabetta Bulgarelli. La vera posta in gioco non è solo una eventuale scissione, ma piuttosto il governo: senza Pdl e montiani e con dentro Sel e i grillini fuoriusciti. «Sarebbe una cosa molto bella se un’operazione del genere riuscisse, ma restiamo alla finestra, ci siamo già illusi mesi fa», spiega la pd Laura Puppato.
In campo, terzo troncone, ci sono pure i pontieri. Il loro obiettivo è disinnescare la bomba di domani. Rinviare il voto su Gambaro o, meglio ancora, depennarlo. Perché chiunque dovesse vincere, è il ragionamento, quello sarebbe un punto di non ritorno. «Non diamo questa soddisfazione ai nostri detrattori, discutiamone con calma», spera il senatore Michele Giarrusso. E come si fa a ricomporre la frattura? «Sono un avvocato, mica un ortopedico », ci scherza su. «Ci fanno pressione da fuori, vogliono vederci esplodere ma non dobbiamo cadere nel tranello. I problemi del Paese sono troppi per perderci adesso», aggiunge il collega Andrea Cioffi. Anche l’emiliana Mara Mucci tenta di gettare acqua sul fuoco, mettendo però i puntini sulle i: «Sono contraria alle espulsioni, a livello mediatico non sarebbe un bene se si verificasse un’evenienza del genere. Sarà la Gambaro ad andarsene, se proprio lo vorrà». E ancora: «Il punto è che in qualsiasi gruppo, coi colleghi, in famiglia, non possiamo pretendere di avere tutti le stesse idee. L’importante è parlare, spiegarci, confrontarci. All’interno del gruppo. È questo quello che vorrei ».

Repubblica 16.6.13
Dell’Orco, eletto in Emilia come la senatrice che ha criticato Grillo: chi la conosce la stima
“L’assemblea salverà la Gambaro tanti come me contrari a cacciarla”
di Caterina Giusberti


BOLOGNA — «I senatori non vogliono l’espulsione di Adele, la conoscono, sanno come ha lavorato in questi mesi. Non vorrebbero arrivare a un voto proprio su di lei, e non lo vorrei neanche io. Comunque se si voterà, io voterò contro ». Il deputato modenese Michele Dell’Orco è uno dei “pontieri” del Movimento 5 Stelle, in queste ore sta lavorando per tentare di evitare lo scontro frontale, per ricucire, abbassare i toni. A differenza di tanti altri suoi colleghi però ascolta, argomenta, risponde. Non schiva le domande. E alza la mano per difendere la senatrice ribelle, che domani finirà a processo per aver osato criticare il leader.
Dall’Orco, come pensa andrà a finire il voto di domani?
«È difficile fare previsioni. Io ho parlato anche con gli altri dell’Emilia-Romagna e siamo d’accordo. Anche i senatori non vogliono l’espulsione, hanno
visto com’è Adele, che tipo è. Il problema è che molti deputati invece non la conoscono affatto».
E quindi potrebbero votare a favore?
«Eh, sì. Ma io davvero spero non si arrivi a questo punto. Domani ci sarà assemblea e vedremo come andrà a finire. L’espulsione da regolamento dev’essere proposta da un numero minimo di deputati e senatori. Bisogna vedere se qualcuno alla fine lo farà, se la questione verrà messa sul tavolo formalmente, perché finora non è successo.
Io dubito che Adele verrà espulsa, anche se ha palesemente sbagliato».
Perché dice che la Gambaro ha palesemente sbagliato a dire che “il problema è Grillo”? Qual è la sua colpa?
«Prima di rilasciare un’intervista a Sky avrebbe dovuto confrontarsi con l’assemblea. Ma penso che abbia capito il suo errore».
Però secondo lei questo errore non vale un’espulsione come invece chiede Grillo.
«Io voterò contro. Anche perché ci sono tanti altri parlamentari che da mesi rilasciano dichiarazioni ben più gravi. La Gambaro è solo l’ultimo caso».
A proposito di cose gravi, è vero che è in atto una compravendita di parlamentari, come ha denunciato il suo capogruppo Riccardo Nuti?
«A me direttamente non è successo. Ma possono evitare di perdere tempo ad avvicinarmi, perché rischiano una denuncia».

Repubblica 16.6.13
Il ribaltone con i grillini divide il Pd i renziani bocciano l’ipotesi rilanciata da Epifani e Bersani
Il Pdl avverte: con queste furbate mettete a rischio Letta
di Giovanna Casadio


ROMA — Un ribaltone non è escluso. Il governo delle larghe intese guidato da Enrico Letta, non è l’unico orizzonte di questa legislatura. Guglielmo Epifani, il segretario del Pd, afferma che «la fine del governo, non implica la fine della legislatura». Una minaccia? «Una constatazione». Ma basta a fare salire la tensione nella maggioranza, tanto più che da giorni è tornato in campo l’ex segretario Pierluigi Bersani rivendicando la possibilità di un “governo del cambiamento”, e non escludendo che un’alleanza con i 5Stelle si possa fare.
Il Pdl a questo punto dissotterra l’ascia di guerra. E avverte i Democratici:
non tirate la corda. Da Bondi a Cicchitto è altolà: «Così si vuole fare saltare Letta». Del resto è nello stesso Pd che si apre lo scontro. I parlamentari renziani attaccano Bersani: «Proprio lui che ha detto “dopo di me ci sarà il Pd”, lo dimostri con i fatti. Balenare nuovamente un governo del cambiamento con i transfughi 5Stelle, è un’ipotesi dell’irrealtà e comunque una bordata strumentale contro chi a parole si vuole difendere, cioè Letta». Sullo sfondo c’è la sfida per il congresso democratico, e la battaglia per la leadership del partito, anche se Matteo Renzi non ha ancora deciso se correre. I toni sono talmente alti che in serata Bersani precisa e nega di avere pensato a un ribaltone: «Noi non staccheremo mai la spina a questo governo, lo aiuteremo a portare a casa i risultati. È chiaro. Un ribaltone non è possibile. Lanciamo un segnale di consapevolezza a chi avesse altre idee, si stia attenti a non tirare troppo la giacca. Di Renzi penso tutto il bene possibile». Tuttavia giovedì in un colloquio con Repubblica, e poi ieri in un’intervista al Corriere della sera, l’ex segretario aveva marcato la distanza dalle larghe intese.
E intanto la giornata politica passa criticando il “piano b” bersaniano. Pippo Civati, a Bologna con i ragazzi di OccupyPd, chiede all’ex segretario di ricandidarsi, se a questo mira, comunque esca dall’equivoco. «Parole che rischiano di disorientare ulteriormente, mentre i nostri militanti e elettori si aspettano ora che il governo porti a casa qualche risultato concreto», ricorda Francesco Verducci, portavoce dei “giovani turchi”, la sinistra del partito. «Bersani parla a nuora perché suocera intenda», è l’interpretazione del leader dei Popolari, Beppe Fioroni. La “suocera” è Renzi: non pensi di incalzare per la premiership perché il voto è lontano. Di fatto si intrecciano insofferenza per il governissimo e i posizionamenti in vista del congresso. L’ex segretario ha un’agenda piena di comizi alle feste democratiche.
Si è ripreso appieno il ruolo di leader: «Mi rimetto a scarpinare per il partito...». I bersaniani quindi daranno battaglia anche nel comitato per le regole, che si riunisce domani e dove già si prevede il primo showdown.
«Attenzione, il Pd faccia bene i conti di quanti voti avrebbe con i fuoriusciti dei 5Stelle, perché noi di Scelta civica non mischieremo i voti con i grillini anche se redenti»,
fanno sapere Giuliano Cazzola e Linda Lanzillotta. Solo qualche prodiano (Sandra Zampa) riconosce che non fare cadere la speranza nel governo del cambiamento, è una buona cosa. Le manovre per il congresso moltiplicano i documenti delle correnti (o contro le correnti) indirizzati a Epifani. Ottanta giovani ammini-stratori e dirigenti locali fioroniani scrivono una lettera aperta al segretario, chiedendo un congresso aperto, il più possibile partecipato e propongono perciò che i gazebo per le primarie siano aperti per due giorni, sabato e domenica, e anche con una “notte bianca” dei Democratici. Al Pd e al suo congresso si rivolge il neonato “Movimento 139” (tanti sono gli articoli della Costituzione) di Leoluca Orlando e Felice Belisario, per porre la questione della rifondazione democratica. E Vendola? Per ora bacchetta Grillo: «Chiama i supporter per intimidire chi dissente, il rivoluzionario si è convertito al regime», scrive su twitter.

Repubblica 16.6.13
Il governatore toscano Rossi: il Pd deve sostenere Letta, ma ci sarà un momento in cui la sinistra tornerà con la sinistra
“La loro diaspora ci offre un’alternativa”
intervista di Massimo Vanni


FIRENZE — «Se i dissidenti 5 Stelle costituissero un gruppo al Senato se ne vedrebbero delle belle », dice il governatore toscano Enrico Rossi.
Presidente Rossi, lei è stato uno dei più scettici sul governo di larghe intese, non si è ricreduto?
«Avremmo dovuto staccare la spina del governo Monti quando venne meno la sua funzione di salvezza del Paese. Attenti però a non commettere ora lo stesso errore con il governo Letta».
Il Pd non lo sostiene a sufficienza?
«È il centrodestra che non lo fa. Il Pdl si conferma nemico della solidarietà come dimostra il caso Imu, che è stata messa sulla prima casa di tutti, anche dei ricchi. E ora Brunetta chiede di togliere sia l’Imu che l’Iva».
Vorrebbe una maggioranza con i dissidenti 5 Stelle?
«Il Pd deve sostenere Letta, riforme istituzionali e legge elettorale sono obiettivi fondamentali. Però vedo il travaglio dei 5 Stelle: dissidenti, espulsi, fuoriusciti. E una diaspora può aprire prospettive nuove. Faccio però un’ipotesi accademica».
Solo un’ipotesi accademica?
«Mi sono chiesto cosa accadrebbe se dei dissidenti 5 Stelle costituissero un gruppo al Senato e, con Pd e Sel, potesse contare su una maggioranza diversa. Se ne vedrebbero delle belle».
Nuova maggioranza e nuovo governo?
«Ho fatto un’ipotesi e mi fermo qui. Questo governo è stato definito di necessità. Se però si aprisse la possibilità, verrebbe meno la necessità della strana maggioranza. Per questo dobbiamo seguire cosa accade nel Movimento. Ci sarà un momento in cui la destra tornerà a stare con la destra e la sinistra con la sinistra. E visto che dentro il Movimento ci sono anche posizioni di sinistra dobbiamo essere pronti ad interloquire».
Ma così non c’è il rischio di indebolire il governo Letta?
«Non più degli attacchi che Letta subisce quotidianamente dalla destra. Sono e resto un grande difensore di Letta».
Come vive l’elettorato Pd il “governo di necessità”?
«Il recente risultato elettorale conferma che non lo vive poi così male. Una parte ha capito, un’altra ne avverte la necessità».
Cosa pensa di Renzi candidato segretario del Pd?
«Sono per le primarie regolate ma aperte. Chi vince però deve restare a fare il segretario, non può utilizzare il Pd come un bus per arrivare alla fermata successiva. Renzi si presenta a queste condizioni? Chi si candida deve firmare dal notaio che starà lì».
Se Renzi firmasse lei lo voterebbe?
«Non è l’uomo di cui ha bisogno il Pd adesso».

Repubblica 16.6.13
Il governatore del Friuli Venezia Giulia Serracchiani: il governo di cambiamento è una prospettiva lontana, questa è l’unica maggioranza possibile
“5Stelle non più affidabili, basta Tafazzi” C.
intervista di G.C.


ROMA — «Non è possibile picconare sempre chi ha ruoli di responsabilità, neppure se fossi io stessa a farlo, lo giustificherei...». Debora Serracchiani, “governatrice” del Friuli, invita a tenersi stretto per ora il governo Letta. «Mi sembra che il Pd ogni tanto si cacci in un mondo virtuale, alla Blade Runner».
Serracchiani, meglio le larghe intese di oggi che tornare a puntare su un governo con grillini e Vendola?
«Lo dico dal punto di vista di presidente della Regione, guardiamo al governo. Lo so che è complicato tenerlo in piedi e ancora più difficile è giustificarlo, ma è l’unico governo oggi possibile. Non mi avventuro in voli pindarici. Anche perché dall’altra parte, quella dei grillini, c’è una scomposizione preoccupante. Non so dove finirà il M5S: da forza maggioritaria si è trasformata in un movimento con dinamiche interne di divisione».
Non dà fiducia ai 5Stelle?
«Se siamo dove siamo, la “colpa” è loro. Grillo non ha capito l’occasione del cambiamento. Oggi hanno rinunciato a cose fondamentali, come la trasparenza e la democrazia interna. Sarei cauta con nuove aperture ai grillini».
Secondo lei sono inaffidabili?
«L’inaffidabilità prevede prima l’affidamento. Qui siamo all’assoluta incertezza. Il M5S ha un difetto strutturale: prendere delle persone e tenerle insieme su alcuni punti, anche importanti, non basta. Ci vuole un altro collante che non sia il “capo”, cioè Grillo».
L’avvertimento di Bersani, e dei bersaniani, sulla possibilità di un’altra maggioranza è una bordata al governo?
«Non è tempo di avvertimenti. Ma guardiamo dove siamo... il governo di cambiamento è una prospettiva lontana. A me non sembra il caso che con un colpo di spugna si torni a sei mesi fa, come se niente fosse. Anche io ho un’aspettativa, quella di avere prima o poi un forte governo di centrosinistra. Ma ne passerà di tempo».
Bersani ricostruisce così la sua leadership?
«Legittimo che ci sia l’aspirazione ad avere spazio politico. Ma è finito il tempo...».
Quale tempo è scaduto, quello di Bersani?
«Diciamo che ci sono dinamiche tipiche pre-congressuali. Sono finiti i tempi in cui la linea politica è “essere contro”. Siamo chiamati tutti a comportarci come non ci siamo mai comportati, a evitare continui tafazzismi».
Nel Pd c’è chi vuole tagliare la strada a Renzi cambiando le regole del partito?
«Renzi è la risorsa che il Pd in questo momento ha. Matteo però faccia una scelta, e in fretta, cosicché ci sia chiarezza».

Repubblica 16.6.13
“È la sindrome-congresso a far danni” il premier spera nel rinvio a febbraio
E il sindaco di Firenze gela l’ex segretario: folle il suo ritorno
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Il congresso può diventare una sindrome. Una sindrome pericolosa per il governo ». Per questo motivo Enrico Letta spera ancora in un rinvio, in uno slittamento indolore dei tempi. La battaglia per la segreteria del Pd, con Renzi scalpitante, il ritorno di Bersani, le lame affilate delle correnti, può incidere sulla stabilità dell’esecutivo, al di là delle migliori intenzioni Di alcuni, non di tutti). «Ci vorrebbe un po’ di tempo per lavorare serenamente e portare a casa i primi risultati», ripete il premier. Non nasconde che l’assemblea democratica da tenersi entro l’anno, come recita lo statuto, rischia di intralciare questo progetto. «Sarebbe meglio arrivare a gennaio, a febbraio... », dice da alcuni giorni parlando con i vertici di Largo del Nazareno.
Letta si è dato un orizzonte minimo che guarda alla primavera del 2015. È la “scadenza” del percorso delle riforme istituzionali e del semestre di presidenza italiana della Ue. Se il governo non dovesse avere altro fiato dopo questi due appuntamenti, il voto anticipato diventerebbe assai probabile. Un segretario del Pd eletto esattamente un anno prima, pensando soprattutto a Renzi che parte strafavorito, avrebbe il tempo di ricostruire il partito e la sua leadership. Ma il congresso democratico, o meglio la sua fase precongressuale, sono un incognita. «Anche il posizionamento può diventare un motivo di scontro che si rifletterebbe sull’esecutivo», spiegano a Palazzo Chigi. Le dichiarazioni di Bersani, la nascita della sua corrente sulla base dell’ipotesi del governo di cambiamento (Pd più fuoriusciti del Movimento 5stelle) indicano dove la sua area si vuole schierare nella sfida interna. A sinistra delle larghe intese con una lealtà personale verso il premier. Ma è lo stesso campo che Renzi ha in mente di occupare: contro Berlusconi e contro chi ha incarnato la Grande coalizione nel Pd, ossia Letta e Dario Franceschini. C’è quindi una battaglia per il territorio foriera di guai.
Anche Giorgio Napolitano tiene l’occhio sul dibattito dei democratici. Il presidente della Repubblica conosce bene la vita dei partiti, sa che la fase precongresso è la più dinamica e la più conflittuale. Ma per il momento lo preoccupa l’asse Pd-Pdl dentro al governo rispetto al rigore di Fabrizio Saccomanni. I veri pericoli, dicono al Quirinale, oggi possono venire da lì.
L’ipotesi ribaltone (una nuova maggioranza Pd-grillini dissidenti) viene considerata, concretamente, «fantasmagorica» sia a Palazzo Chigi sia al Colle. Almeno oggi. Il problema però, più di Renzi e Bersani, è il braccio di ferro che si può creare nel partito intorno ai due sfidanti delle vecchie primarie. «Non credo che possa staccare la spina
un esponente del Pd — dice un lettiano di ferro —. Chi lo fa prende la scossa». Resta il fatto che un congresso all’ultimo sangue non farà bene all’esecutivo. Il sindaco di Firenze considera «folle» il ritorno in campo dell’ex segretario. Per gli argomenti, per il non riconoscimento della sconfitta, per l’insistenza sul governo di cambiamento. «Pierluigi torna? Auguri», si limita a rispondere, velenoso, Renzi. Ma i pesi all’interno del Pd sono oggi un mistero e la battaglia si gioca sui numeri delle correnti, oltre che sull’appeal dei potenziali leader: dallo stesso sindaco a Cuperlo a Civati. «Renzi teme che qualcuno possa occupare la sua piattaforma politica. Però ha un vantaggio: lui cambia linea come cambia i calzini», dice Beppe Fioroni.
L’impressione è che alla fine la discussione ricadrà sulle spalle di Guglielmo Epifani. Sui tempi del congresso, sulle regole, sulla difesa del governo, sugli equilibri finali. Una prima prova della qualità e dell’intensità dello scontro si avrà domani quando si riunirà, all’esordio, la commissione del congresso chiamata a indicare la rotta ai militanti e agli elettori. Non c’è accordo su nulla, in quell’organismo. A cominciare da chi dovrebbe presiederlo. Per i bersaniani, la persona adatta è Davide Zoggia, responsabile organizzazione ed ex braccio destro di Bersani. È un nome respinto però da renziani, veltroniani, dalemiani e giovani turchi. Un inizio in salita dunque, un nodo che andrà sciolto al più presto. Perché Epifani ha fissato, stavolta tassativamente, la data di scadenza della commissione. Entro un mese (ovvero il 17 luglio) dovrà terminare i suoi lavori. Allora conosceremo i tempi e le regole del congresso. E sapremo se Renzi lancerà la sua sfida per la segreteria.

l’Unità 16.5.13
Il raduno europeo
Milano, scandalo neonazi. Celebrare Hitler non è più un tabù
Pisapia protesta: un fatto inaccettabile. La Prefettura: era in un luogo privato
di Laura Matteucci


Si sono radunati in un capannone alla periferia sud est di Milano. È scandalo per il raduno neonazi, autorizzato dalla Prefettura, e organizzato dall’associazione Skinhouse. L’ira del sindaco Pisapia: «È inaccettabile». Il precedente del raduno per la nascita di Hitler.

Decine di band neonaziste, internazionali e nostrane, gruppi musicali hardcore arrivati persino dagli Stati Uniti, come i Bully Boys, e dall’Inghilterra, i Brutal Attack, raffinato nome evocativo, e poi skinhead e formazioni di estrema destra di tutta Europa. Un raduno neonazi in piena regola, ieri sera in un capannone alla periferia sud est di Milano, concerto e festa grande organizzata dall’associazione Skinhouse cittadina: sarà anche come dice la Prefettura che l’ha autorizzato che non si sono riscontrati elementi di rischio per l’ordine pubblico, ma è di sicuro un fatto «inaccettabile», come dice il sindaco Giuliano Pisapia. «Milano scrive lui stesso non può accettare che si svolgano né ora né in futuro iniziative che attingano al repertorio dell’intolleranza razziale e politica in qualsiasi forma esse si presentino».
Loro però sono arrivati a centinaia, teste rasate, tatuaggi e svastiche, simbologie razziste e richiami a Hitler, gli afecionados e sette gruppi, nomi noti della scena «White Power» legata al circuito neonazista internazionale «Stormefront» e «Blood & Honour». Parlavano tedesco, inglese, francese, e pure ungherese. Nessuna telecamera ammessa dentro i capannoni di via Toffetti, alle porte della città, ma in rete si trova facilmente una nutrita documentazione di quel che succede in serate come questa.
L’obiettivo dichiarato era quello di raccogliere fondi per pagare le spese processuali a carico di alcuni membri di Azione Skinhead, gruppo nato nel 1990 dalla fusione tra gli skin milanesi e il nucleo più radicale degli ultrà Boys San dell’Inter, per fatti accaduti nel 1993. Ma la sfida muscolare è evidente, in un momento tra l’altro in cui si moltiplicano episodi di chiaro stampo fascista, razzista e xenofobo, di cui gli attacchi al ministro Cécile Kyenge sono solo un esempio. L’happening era atteso da tempo, ma le polemiche sono scoppiate nei giorni scorsi, forse anche perché in molti hanno sperato fino all’ultimo che l’autorizzazione non venisse concessa, che qualcuno intervenisse d’imperio, magari richiamando l’apologia del fascismo come reato, per evitare un raduno di centinaia di persone (erano attese in 2mila) che palesemente inneggiano a Hitler. C’è da chiedersi come mai, invece, non sia accaduto nulla di nulla. Il Comune in questi casi ha le mani legate, e la Prefettura sostiene di non aver potuto fare altrimenti, trattandosi di una manifestazione organizzata in uno spazio privato. Chiamata in causa, è intervenuta anche la Questura: non si parla di un corteo o di una manifestazione in luogo pubblico, dice, dunque non è previsto nessun servizio speciale di ordine pubblico (la serata è stata comunque «monitorata»). Così, la protesta di migliaia di cittadini indignati si è riversata in rete, tra blog e social network. E sono arrivati anche i commenti di politici e figure istituzionali: «Non consentire un’offesa alla città di Milano con il raduno nazista: uno strappo ai principi della legalità democratica», dice Nichi Vendola. E l’assessore milanese alla Sicurezza, Marco Granelli, fa eco al sindaco: «Condanniamo ogni espressione che inneggi all’odio e fomenti la violenza. L’intolleranza razziale e politica non possono in nessun modo essere parte della vita della nostra città», scrive. Anche il consigliere liberale Manfredi Palmieri si dice indignato.
E non è certo il primo raduno di genere degli ultimi tempi. Questo lo ricorda Emanuele Fiano, parlamentare milanese, presidente del forum Sicurezza e Difesa del Pd, che ha chiesto al ministro dell’Interno e al Prefetto di Milano di intervenire per impedire il meeting previsto: «Si stanno moltiplicando gli eventi come questo dice Nell’occasione del raduno, nell’aprile scorso, vicino a Varese, centinaia di attivisti neo nazi festeggiarono il compleanno di Hitler. A Milano hanno partecipato numerosi gruppi musicali i cui testi propagandano il peggior razzismo e odio contro immigrati, gay ed ebrei». Fiano si riferisce a quanto accadde il 20 aprile scorso, giorno dell’anniversario della nascita di Adolf Hitler, quando a Malnate, vicino a Varese, 700 camerati fecero festa in un locale gestito dall’associazione culturale filoleghista «I nostar radis». E domani Fiano depositerà un’interrogazione urgente «per capire come mai vengano concessi i permessi per queste iniziative».

Corriere 16.6.13
Svastiche e simbolo del martello: i lombardi cercano contatti all'estero
di Cesare Giuzzi


MILANO — I tempi si evolvono e anche «i duri e puri» non resistono al social network: «Eccolo, facciamo un figurone». Il messaggio è corredato dall'immagine di una svastica tatuata di «fresco» su una gamba. È questo l'omaggio di benvenuto studiato dagli Hammerskins di Monza per i gruppi dell'estrema destra europea arrivati ieri a Milano. Sono duecentocinquanta in tutta la Lombardia le «teste rasate» che si riconoscono sotto il simbolo del martello. Il gruppo in maggiore crescita, anche se si parla sempre di numeri limitati. Ma il concerto-raduno di Rogoredo è stato un misto tra una prova di forza e una passerella, per contarsi e per «mostrarsi». Perché i simboli in questa galassia neonazista milanese contano tanto e quanto i numeri.
Erano annunciati duemila partecipanti al concerto delle sette band di «area» (gli statunitensi Bully boys, gli inglesi Brutal Attack, i tedeschi Wolfsfront e gli italiani Adl 122, Corona ferrea, Linea ostile e Garrota), alla fine i numeri sono stati dimezzati. Ma «gli stranieri» sono arrivati, in macchina, a piccoli gruppi. L'obiettivo degli Hammerskins milanesi era questo: accreditarsi con gli europei, crescere in credibilità, diventare un punto di riferimento della scena neonazi a Milano.
Gli Hammer hanno sedi a Milano (Bollate), Lodi, Magenta e Varese. Proprio vicino a Varese lo scorso 20 aprile in settecento si ritrovarono da tutta Italia per festeggiare «il compleanno di Adolf Hitler». «La crisi della politica e quella economica, specie tra i giovani, stanno lasciando spazi all'avanzata dell'estrema destra — spiega Saverio Ferrari che con Osservatorio democratico da anni studia i movimenti neofascisti —. In Italia siamo lontani dalla situazione di rabbia già vista in altri Paesi europei, ma occorre grande attenzione». Proprio gli Hammerskins sono considerati un gruppo in crescita. La Digos milanese vanta investigatori tra i più esperti nel monitoraggio delle aree «extraparlamentari» a destra e sinistra. Il quadro dei gruppi neofascisti è piuttosto vario. Se è vero che gli Hammer contano 250/300 appartenenti, dall'altro lato un movimento che nel Lazio è molto radicato come Casapound a Milano non supera i 15 membri. Si ritrovano in un bar di Quarto Oggiaro, sono tutti ultrà del Milan. Perché l'estrema destra milanese ha da «il controllo» delle curve di Inter e Milan. Un territorio servito a fare proseliti, oggi passato nelle mani dei clan della malavita milanese e calabrese. Ma lo stadio e la «mentalità ultrà» restano spesso la porta d'ingresso all'estrema destra milanese. I rapporti tra gli skin e i centri sociali sono sempre stati piuttosto tesi.
A partire dall'omicidio (marzo 2003) del militante dell'Orso Davide Cesare, fino agli scontri dell'11 marzo che hanno devastato corso Buenos Aires. La protesta degli autonomi era legata alla presenza a Porta Venezia di una manifestazione neofascista. Pochi mesi fa l'ultimo «contatto» con i centri sociali che hanno assaltato la nuova sede degli Hammerskins in viale Brianza. Gli Hammer, di fatto, non hanno velleità politiche ma utilizzano la sigla «Lealtà azione» per iniziative pubbliche e sit-in. L'associazione si occupa «di iniziative contro l'aborto e la pedofilia». Poi ci sono le sigle che la politica la fanno da tempo come Forza Nuova e La Fiamma tricolore, guidata dall'avvocato Gabriele Leccisi, figlio di Domenico che trafugò la salma di Mussolini. Dalle costole del movimento sono nate la «Gioventù della fiamma» e la «Gioventù di ferro». Quest'ultima ha ripreso il simbolo della «Leibstandarte SS Adolf Hitler», la divisione tedesca delle SS che occupò Milano nel '43.
Un solo appuntamento riunisce ogni anno le destre milanesi: il corteo del 29 aprile in ricordo di Sergio Ramelli, ucciso nel 1975 da militanti legati ad Avanguardia operaia. In piazza, anche quest'anno, tricolori con croci celtiche, ragazzi con anfibi e teste rasate insieme con politici locali. Il servizio d'ordine del corteo, da sempre, è affidato agli Hammerskins.

La Stampa 16.6.13
460 i profughi arrivati in Italia nelle ultime ore tra Sicilia e Calabria
Nojian, venuta al mondo su un barcone della speranza
La madre l’ha partorita durante la traversata con 158 profughi: uno è in fin di vita
di Giulia Veltri


È nata su un barcone in legno di pochi metri, il primo pianto in mezzo al mare, nel pieno di una traversata dalla Turchia, solo un telo nero a nascondere il parto agli occhi degli altri 159 compagni di sventura. Ha solo due giorni ma la piccola Nojian - che significa «nuova vita» - sta bene, pesa più di due chili e ora di lei si occupano i pediatri e le ostetriche dell’ospedale di Locri. Insieme alla sua mamma e ad altre 158 persone di origine siriana, pachistana, curda e afghana è stata soccorsa nella notte fra venerdì e sabato a largo di Roccella Jonica, centro della costa ionica in provincia di Reggio Calabria.
Un viaggio di sette giorni. Poco dopo la mezzanotte di venerdì l’imbarcazione è stata avvistata in mezzo al mare con i motori fusi e pericolosamente in panne. Rischiava di infrangersi contro il porto, imbarcava acqua. La barca, grazie alle ottime condizioni meteo, è stata però immediatamente condotta a riva. Qui la grande sorpresa dei militari della Guardia costiera e dei volontari dei soccorsi: fra decine di visi sofferenti, occhi smunti e mani tese per la disperazione, ecco un fagottino avvolto in una felpa rossa, stretto tra le braccia e il grembo di una donna. Lì, immersa in un sonno beato, c’era la piccola, immediatamente identificata con un braccialetto numero 6. Difficile, per il momento, capire le origini della bimba e della sua famiglia. In un primo momento, la stessa identità della madre è stata messa in discussione. A causa dell’impossibilità delle comunicazioni - sulla barca era presente solo un ragazzo curdo in grado di parlare in inglese - si è anche diffusa la voce che la madre fosse morta durante il parto e il cadavere gettato in acqua. La successiva visita ginecologica sulla donna ha chiarito definitivamente il legame materno. Non si hanno notizie, invece, del padre.
Nojian è nata nel corso della traversata, iniziata una settimana fa dalle coste della Turchia. In 159 costretti anche a viaggiare in piedi, in equilibrio precario e alla deriva. A bordo, oltre alla neonata, altre 14 donne e 7 bambini. Per 4 migranti si è reso necessario il ricorso alle cure ospedaliere a causa della disidratazione. Uno di loro, in particolare, lotta tra la vita e la morte; soccorso dai medici allertati dagli uomini della Capitaneria di Porto, all’uomo è stato riscontrato un blocco cardiaco e successivamente è stato trasportato d’urgenza al reparto di rianimazione dell’Ospedale civile di Locri.
Nojian, nata senza patria e in fuga, è già diventata un simbolo. In un tweet il vice ministro dell’Interno, Filippo Bubbico, ha annunciato che alla piccola sarà dedicata la Giornata del Rifugiato che si celebra il 20 giugno. «La accogliamo come fosse nostra figlia». Queste, invece, le parole del sindaco di Roccella Jonica, Giuseppe Certomá: «Certo - ha detto - ora si pone un problema burocratico perché dovremo vedere se è nata in acque internazionali o italiane. Se è nata in Italia, la iscriveremo nei nostri registri». Il primo cittadino ha messo a disposizione dei migranti la scuola elementare, dove sono ospitate ancora una cinquantina di persone sbarcate dieci giorni fa. E, all’inizio dell’estate, e con più di duecento migranti giunti in Calabria nell’arco di pochi giorni, l’emergenza si chiama sovraffollamento. La scuola è già al completo e tende sono in allestimento in alcuni spazi pubblici.

l’Unità 16.5.13
Josefa Idem

«Presto si farà la legge sulle unioni civili, il clima è positivo Matrimoni gay? Sono pragmatica, l’importante è raggiungere l’obiettivo»
«Diritti uguali per tutti. Stavolta si può fare»
intervista di Natalia Lombardo


Con pragmatismo teutonico e l’abitudine alla conquista del traguardo metro per metro, Josefa Idem, campionessa olimpionica ora al governo, nata a Groch, in Germania e da 23 anni in Italia, non è persona che parla a caso, tantomeno dopo il consiglio dei ministri fiume che si è svolto a Palazzo Chigi.
Lei, ministra delle Pari Opportunità con delega allo sport e alle politiche giovanili, sta mettendo in cantiere temi spinosi e importanti, che vanno dall’elaborare una proposta di legge sulle unioni civili all’avvio, martedì prossimo, della «task force» per affrontare il dramma del femminicidio. Quale sarà la formula per regolamentare le unioni civili, le coppie di fatto?
«Io ho detto che i diritti devono essere uguali per tutti e serve una legge, perché la chiedono tanti cittadini. Però non voglio anticipare formule o modelli..».
Tra l’altro sono tutti falliti, in questi anni, i Dico, i Pacs, non si è mai riusciti a trovare un’intesa. Pensa che sia possibile nel governo di larghe intese?
«Per ora il clima è buono, ma non voglio dire nulla, ripeto. Perché un progetto si deve costruire, studiare, conoscere il quadro nella sua totalità, e poi si procede».
Lei pensa anche ai matrimoni gay, magari in un secondo tempo?
«Io penso che serva una legge sulle unioni civili, senza distinzione di sesso, fra persone che si vogliono bene. Non parliamo di matrimoni come siamo abituati a pensarli, ho sempre detto che sono favorevole alle unioni e quindi cerco di raggiungere l’obiettivo. Sono pragmatica».
E sulle adozioni per coppie gay?
«Un passo alla volta».
Come le è sembrato partecipare al Gay Pride di Palermo nei panni di ministra? «Era bellissimo. Ma quello che mi ha stupita è stato l’uso di mezza frase che ho pronunciato. Appena ho detto “andrò al Gay Pride di Palermo” è sembrato un evento straordinario. Io vorrei che queste cose fossero affrontate con naturalezza, dovrebbe essere normale che non esistano discriminazioni, che siano tutelati i diritti Lgbt e di tutte le persone».
Martedì verrà avviata la task force contro la violenza sulle donne. Come funzionerà?
«Martedì avviamo i lavori. Ci sono tanti ministeri coinvolti: il nostro, Interno, Giustizia, Salute, Istruzione, Welfare e non solo. Prima di tutto dobbiamo studiare la situazione, ogni ministero dovrà illustrare ciò che è di sua competenza per avere un quadro unico».
Ma qualche proposta?
«Eh no quasi si arrabbia, la ministra si chiama “task force” proprio perché è tutto da definire insieme, se sapessi prima come muovermi non avrei proposto un lavoro di squadra. Invece dobbiamo metterci insieme, ogni dicastero deve “snocciolare” la questione e poi si vede come affrontarla».
E come Pari Opportunità?
«Noi abbiamo un Osservatorio, anche se dovrebbe essere ampliato, e dobbiamo capire chi causa la violenza, quali storie, perché, se è un problema culturale soprattutto o no. E da lì si possono vedere quali misure sono efficaci, come intervenire anche nella scuola, ma senza stereotipi. Faremo dei gruppi di studio, anche con specialisti, per com-
prendere questo fenomeno insopportabile. L’anno scorso in Italia sono state uccise 120 donne, è allarmante». Nella scorsa legislatura sono state ridotti parecchio i fondi per i centri anti-violenza. Interverrà per ripristinarli?
«I centri anti-violenza sono importantissimi e per farli funzionare servono risorse. In Italia, tra l’altro, sono attivi grazie al volontariato, mentre in altri Paesi sono in capo alle istituzioni, allo Stato».
Comunque chiederà nuovi fondi? Se spetta a lei?
«Certamente si dovranno cercare soldi, risorse da sottrarre ad altri capitoli di spesa per dirottarli sui centri anti violenza. È uno dei punti sul tavolo. Su tutti questi temi, però, si deve cambiare mentalità».
In che senso?
«Oggi possiamo varare una norma che lì per lì ci fa risparmiare soldi, ma poi si scopre che ha un riflesso negativo sull’occupazione, per dire. Invece si deve studiare una questione a 360 gradi per avere un risultato migliore. Per esempio, come mai da noi i centri anti violenza sono affidati al volontariato? Magari sono più efficaci, non so, bisogna paragonarli, e intanto accogliere i loro suggerimenti. C’è chi si chiede, infatti, se è giusto tenere una donna che ha subito violenza nascosta in un luogo segreto e lasciare il marito a casa, oppure se è meglio mandare fuori lui e non estrapolare la donna dal suo ambiente».
Come ha trovato il clima nel Consiglio dei ministri?
«Buono, un clima di collaborazione per trovare soluzioni che migliorino la qualità della vita delle persone. Sarà un lavoro a breve, medio, lungo termine, si vedrà. Certo, è tempo di vacche magre, magrissime, qui al mio ministero, senza portafogli per tutte e tre le deleghe, cerchiamo di cucinare piatti prelibati con due pomodori e una foglia di basilico... Però io sono motivatissima».
In Italia ci sono tante discriminazioni e tanti razzismi. La feriscono le aggressioni alla sua collega Kyenge?
«Il lavoro di Cécile è molto coraggioso. Ha tutta la mia stima, in lei vedo una persona preziosa, nata altrove e orgogliosa di essere italiana. Questo ci accomuna, anch’io sono nata altrove e sono orgogliosa di essere italiana».

l’Unità 16.5.13
Proposte di legge
Lo Giudice, Pd: un ddl sui matrimoni omosessuali


«Oggi è fondamentale partecipare al Roma Pride per chiedere a questo parlamento di approvare finalmente quelle leggi di giustizia e libertà che questo paese aspetta ormai da troppo tempo». Lo ha dichiarato ieri Sergio Lo Giudice, senatore del Partito democratico ed ex presidente di Arcigay, che annuncia: «Martedì inizierà la discussione in Commissione Giustizia al Senato sui diritti delle coppie di persone dello stesso sesso: per la prima volta il parlamento italiano esaminerà un disegno di legge, Ddl n. 15 di cui sono primo firmatario, che estende il matrimonio civile alle coppie omosessuali». Perché il divieto di accesso al matrimonio -
conclude Lo Giudice rappresenta una discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale: si elimini questo ostacolo anacronistico», per rispondere alla «richiesta della Corte Costituzionale di riconoscimento dei diritti delle coppie dello stesso sesso».
Il Pdl invece ripresenterà al Senato il «patto di convivenza», un disegno di legge per colmare «l'odierno e ingiustificabile vuoto normativo sulle unioni civili», annuncia Elisabetta Alberti Casellati. Un ddl per regolare le forme di convivenza tra due individui, coloro che vogliono «attribuire una rilevanza giuridica alla convivenza e, indipendentemente dalle motivazioni, intendono pattuirla pubblicamente».

il Fatto 16.6.13
Gay Pride, il corteo contesta Marino presente solo in video
di Enrico Fierro


“MA CON IL CUORE E IL PENSIERO SONO CON VOI”, SI SCUSA IL SINDACO. LA PIAZZA: “SIAMO 150 MILA”

“Marino, Marino... Marino nun c’è, c’avemo solo er Frascati”. Ride di gusto, Alberto, mostra ai fotografi un cartello contro il sindaco (“Marino ha l’influenza vaticana”) e cita una bella frase di un vecchio film di Dino Risi: “Straziami ma di baci saziami”. Parte sotto un sole che picchia a 30 gradi il gay pride romano. “Siamo 40 mila, no, siamo 150 mila”, numeri. In piazza, accaldati e coloratissimi, tutto il mondo del variegato arcipelago gay-lgtb, trans, in lotta per i diritti. “Il sindaco Marino non c’è, quello di Vicenza è salito sul palco del Gay Pride”, denuncia un manifestante. Ma la polemica con Ignazio Marino dura poco. C’è l’attore Dario Vergassola a spegnere il fuoco: “Diamogli tempo, è sindaco da poco, e poi questa manifestazione è bellissima, vedete quanti giovani. Ma da Arcore non se ne sono accorti, altrimenti si sarebbero fiondati qui”. Finisce del tutto quando arriva un video messaggio del chirurgo che ha dato il più grande dispiacere a Gianni Alemanno, e una sua lettera.
IN SINTESI: “Con il mio cuore e il mio pensiero sono con voi. I diritti delle persone non possono essere negoziati, non diritti speciali per qualcuno, ma gli stessi diritti per tutti”, dice Marino nel messaggio. Significa che finalmente la Capitale avrà il suo registro delle unioni civili? Risponde il consigliere comunale di maggioranza Luigi Nieri: “La polemica di ieri è appunto di ieri, e come tale è finita. Roma diventarà capitale dei diritti. Il registro delle unioni civili? Faremo tutto”. Rilancia Andrea Maccarone, portavoce del pride: “La manifestazione è riuscita, Roma è davvero città aperta. Ora ci aspettiamo che il registro delle unioni civili sia tra i primi provvedimenti del nuovo sindaco”.
La folla multicolore, dai vestiti sgargianti e dagli slogan allegri e provocatori, aspetta. Nell’attesa si mostra per le strade di Roma. E sono gay giovani e anziani che si tengono per mano e sventolano le bandiere di “Ondagay”. Due, giovanissimi, sono vestiti in abito scuro come se questo fosse il giorno delle loro nozze. Siamo davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore e lì c’è qualcuno, questa volta un uomo e una donna, che si sta sposando. Sul sagrato parenti e ospiti con gli abiti dell’occasione che guardano un po’ sbigottiti e divertiti il corteo. I ragazzi, quelli che aspirano a sposarsi tra di loro, li guardano e applaudono. “In Francia potremmo sposarci, in Italia no”, dice uno di loro.
Il suo compagno mostra a tutti un cartello: “La mia libertà protegge la tua”. “Gli eterosessuali stiano tranquilli”, dice ridendo una ragazza che stringe la mano della sua compagna, “noi non vogliamo sposarci con loro”. Corteo allegro che non dimentica guerre e lotte per la libertà. C’è la bandiera della pace per la Siria, e quella turca. I toni salgono e diventano da Carnevale di Rio quando arrivano i transessuali brasiliani e colombiani. Le drag queen fasciate in costosi abiti da sera e trucco pesantissimo, li guardano con tanta sufficienza. Loro, i sudamericani, se ne fottono e si concedono ad ogni obiettivo possibile.
FELICISSIMI i turisti giapponesi, tantissimi, che porteranno a casa impressa sulle loro digitali questa Roma particolare. Tra i più gettonati un trans-angelo, alto un metro e novanta, in ridottissimo bikini, che apre le sue ali color dell’oro. “Sono l’angelo della trasgressione”, si definisce sorridendo. E vai con gli scatti e con la musica disco sparata a palla da cinque tir, ognuno con le sue bandiere, e tutti con tantissima gente che balla e lancia fiori, profilattici e inviti al “Muccassassina”, lo storico locale gay della Capitale. Allegria, ma anche tristezza e orgoglio. Dario attraversa la folla a passi timidi, è una drag queen elegantissima, il volto nascosto da occhialoni neri. Ci racconta la sua storia: “Passi avanti ne abbiamo fatti, certo, ma dichiararsi, dire al mondo qual è la tua vera natura, quali le tue scelte di vita, è ancora difficile. Lavoro in una banca importante, ho un ruolo di responsabilità, pensa per un attimo a quello che potrebbe succedere se mi vedessero così. L’ipocrisia ci uccide e ci costringe ad una vita amara”. Le “famiglie arcobaleno” hanno deciso di non nascondersi.
Ce ne sono tante, lui e lui, lei e lei, con i figli piccoli per mano o nel passeggino. “Siamo famiglie anche noi, normalissime, con i problemi di tutti, ai nostri figli non manca l’affetto e una educazione aperta al mondo”, ci dice Ugo. “Vogliamo che questo amore venga riconosciuto dallo Stato che anche noi finanziamo con le tasse”, aggiunge Giusi, anche lei con la sua compagna e con figlioletta al seguito.

il Fatto 16.6.13
Tanti auguri al sindaco Marino, ma...
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO non crede che la vittoria di Ignazio Marino sia un buon simbolo, perché ha fatto la sua campagna elettorale su Roma e non sull’organigramma del suo partito?
Nicola

PENSO CHE UN TRIBUTO e un augurio pieno e cordiale siano senza dubbio dovuti a Marino, perché ha trovato la frase giusta per descrivere il dramma della Capitale (“liberare Roma”) e perché l’ha effettivamente liberata. Raramente Roma ha avuto un grumo così forte e così stretto di fascismo, corruzione, familismo e mercato, nel senso della continua e vasta compravendita di tutto, posti di lavoro, tavolini, permessi, licenze e arbitrarie sistemazioni dei propri affari. I casi sono così clamorosi (e facili da elencare, perché avvenuti arbitrariamente e con prepotenza sotto gli occhi di tutti) che la parola “liberazione” ha la sua piena valenza politica, morale e legale. Marino ha avuto coraggio, e i cittadini, persino quelli che avevano votato a destra per ragioni sentimentali ma non si aspettavano una simile cavalcata di profittatori, gli hanno creduto e l’hanno votato. Ora toccherà a questo sindaco, con lo stesso scrupolo con cui ha scoperto gli orrori degli ospedali giudiziari, quando era senatore, scoprire l’orrore della fitta rete di favori scambiati che ha reso vastamente illegale Roma. Però. Se l’intervista rilasciata dal nuovo Sindaco al Corriere della Sera, pagine romane, il 14 giugno può essere una guida, mi permetterò di dire al neoeletto che un buon modello del come fare, con la stessa ostinazione, una politica solitaria (nel senso che non intravedo legioni di partito decise a lavorare subito, mentre dura il rigido legame del governo “di larghe intese”) è quello dei Radicali che restano se stessi proprio mentre si battono per le cause degli altri. Quando sostengono i gay non si preoccupano di aderire o no a uno stile di vita. Si preoccupano dei diritti negati. Non si identificano con i carcerati, ma li difendono tutti, compresi i colpevoli di delitti abbietti, perché tutti sono stati lasciati fuori dalla legalità. Hanno votato contro il Trattato di amicizia con la Libia e contro il rendiconto contabile della Camera dei deputati, non partendo dalla politica estera o dal manuale del buon ragioniere, ma dalla misteriosa oscurità di cause e di effetti di quegli atti politici. Perché lo dico? Perché è chiaro che questo sindaco avrà i suoi ostacoli e i suoi nemici e sarà solo, nel senso degli schieramenti politici. Però chi lo ha votato si aspetta di trovarlo ogni volta dalla parte giusta. Questa volta la parte giusta è il Gay Pride. Avrà dalla sua parte i cittadini che ogni giorno continueranno a votarlo (sostenerlo, seguirlo) se lui continuerà a guidare senza voltarsi indietro. E qualche volta lo perdoneranno persino se arriva su un’auto dei vigili. Perché la bicicletta è un bel simbolo, ma un simbolo piccolo. Quello dei diritti negati – ripeto, lo prenda dai Radicali – è un simbolo molto più grande che segna due parti contrapposte della Storia. Auguri cordiali.

il Fatto 16.5.13
Quando pubblicare gli atti
Intercettazioni, spauracchio di chi ha la coda di paglia
di Bruno Tinti


Nel nostro Paese la classe dirigente è connotata da un alto tasso di malaffare. Per questo le intercettazioni telefoniche sono causa di così tante polemiche: riguardassero comuni delinquenti e non politici delinquenti nessuno se ne preoccuperebbe. Sicché possiamo convenire sul fatto che non ha senso discutere sulla necessità delle intercettazioni come strumento di indagine penale e che tutto si riduce alla pubblicazione di esse sugli organi di informazione. Al momento, essa è consentita quando è caduto il segreto investigativo, quando cioè il contenuto delle intercettazioni è noto a imputati e difensori; il che avviene quando le intercettazioni, trascritte, sono allegate all’ordinanza del giudice che manda in prigione qualcuno oppure quando sono depositate a disposizione degli avvocati perché l’indagine è finita o anche quando sono mandate in Parlamento per l’autorizzazione a utilizzarle nei confronti di qualche politico delinquente.
NATURALMENTE gli intercettati, tanto più quando potenti e con la coda di paglia, non sono contenti; e si lamentano della pubblicazione in sé (l’art. 21 della Costituzione per loro non ha nessuna importanza) e del fatto che sono pubblicate intercettazioni che “non hanno rilevanza penale”. Perché raccontare a tutti che il senatore tale non solo si è fatto corrompere, ma è anche abituale frequentatore di transessuali? Pubblicare questa informazione, se non ha rilevanza penale (potrebbe averla se, ad esempio, è stato il transessuale a corromperlo offrendogli le proprie prestazioni) viola altro principio costituzionale, il diritto alla riservatezza (art. 15). Non è proprio così semplice. Ho scritto altre volte sul diritto dei cittadini di conoscere aspetti rilevanti della vita di chi si assume la responsabilità di governarli e sulla connessa compressione della privacy. Ma questo è un problema diverso dalla necessità di ricorrere alle intercettazioni nelle indagini penali, anche se è da qui che nasce il conflitto tra esigenze di giustizia e lamentazioni politiche.
Un modo per ridurre al minimo la pubblicazione di notizie non aventi rilevanza penale (ammesso e non concesso che sia giusto farlo) c’è. E’ semplice e basta una modesta modifica alle norme vigenti. Che funzionano così.
Il Pm chiede al Gip l’intercettazione. Il Gip la concede e fissa un termine di durata dell’intercettazione. Alla scadenza, il cd contenente le intercettazioni e i brogliacci della polizia in cui sono riassunte deve essere depositato in segreteria e l’avvocato può ascoltare le conversazioni e leggere il brogliaccio. Attenzione: a questo punto le intercettazioni non sono trascritte.
Siccome, quando l’imputato sa di essere intercettato, addio indagini, la legge prevede che il deposito possa essere rinviato; il Pm chiede e il Gip autorizza. Così, quando l’indagine è finita, tutte le intercettazioni e i brogliacci saranno depositati insieme a ogni altro documento (art. 415 bis cpp). Ed è qui che nasce il problema. Perché il Pm è obbligato a depositarle tutte ma non a trascriverle tutte: potrebbe selezionarle e trascrivere solo quelle che servono per il processo. Ma ci va un sacco di tempo per ascoltare i cd e decidere questa sì, questa no; così, trascrizione in massa. Ed è qui che imputati, difensori, giovani di studio, segretari e poliziotti possono leggersi con facilità (e curiosità) la storia della relazione con il transessuale (un esempio per riferirsi alle intercettazioni non aventi rilevanza penale). La stessa cosa succede quando le intercettazioni sono allegate a una richiesta di misura cautelare oppure di autorizzazione richiesta al Parlamento: si trascrive tutto e si manda. E da qui tutto arriva ai giornali.
In verità la legge prevede che gli avvocati si ascoltino i cd contenenti le intercettazioni e che possano chiedere al Gip lo stralcio di quelle non rilevanti (art. 268 comma 6 cpp). Solo che questo è previsto in occasione di quel deposito che dovrebbe essere fatto durante le indagini e che non si fa mai perché nessuno sano di mente comunica all’intercettato che è intercettato. Così, quando si arriva al deposito finale che si fa alla fine delle indagini, il Pm ha già trascritto tutto, rilevante o no che sia. E, anche se gli avvocati chiedono l’eliminazione di qualche intercettazione, tutti hanno già letto tutto.
PERCHÉ NON prevedere semplicemente che, prima del deposito finale, ci sia un’udienza obbligatoria davanti al Gip in cui il Pm e gli avvocati (che a questo punto si debbono sentire con santa pazienza tutte le intercettazioni o quantomeno leggersi con cura i brogliacci) indichino quelle che vogliono trascrivere e quelle che sono irrilevanti? Il Gip deciderà e, quando si procederà al deposito, ci saranno solo le trascrizioni penalmente rilevanti. La stessa cosa potrebbe farsi quando si tratta di catturare qualcuno o di mandare gli atti in Parlamento. In questo caso non ci sarà l’avvocato, naturalmente (mica possiamo dirgli che vogliamo catturare il suo cliente) ; ma il Gip garantirà che le intercettazioni che servono (e solo quelle) siano trascritte tutte.
Certo, giudici, avvocati, personale vario possono sempre raccontare quello che hanno ascoltato. Ma, a questo punto, la pubblicazione di queste notizie potrebbe essere punita da una legge apposita (che sarebbe un bavaglio all’informazione). Io le pubblicherei lo stesso, se fossero politicamente, socialmente, economicamente rilevanti; per dire, le telefonate Mancino-Napolitano. Sta di fatto però che, con questo sistema, sarebbe più difficile conoscerle.

l’Unità 16.5.13
Le scuole mediche di specializzazione
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Vorrei denunciare come i concorsi di accesso nelle specialità mediche siano sovente poco trasparenti quando non totalmente pilotati. Desidero per cui comunicare, con un mese di anticipo, i nomi dei vincitori del prossimo concorso X per l’università Y e i nomi di quelli che rimarranno esclusi a causa di un basso punteggio nella seconda prova e nonostante alti punteggi di curriculum
LETTERA FIRMATA
Le scuole di specializzazione in medicina sono regolate da leggi europee. Vi si accede subito dopo la laurea. Permettono a chi le frequenta di apprendere la loro specialità lavorando. Prevedono, per quattro o cinque anni, uno stipendio corrispondente a quello di base del medico ospedaliero. Permettono, nella gran parte dei casi, un'attività professionale remunerativa. Sono, per tutti questi motivi, ricercatissime all'interno di una situazione in cui il lavoro dei giovani, laureati o non, è così difficile da trovare e ad esse si accede, negli altri paesi europei, attraverso un concorso organizzato su base nazionale: chi lo vince entra e le sedi vengono scelte scorrendo la graduatoria. Troppo semplice e troppo trasparente? In Italia ci si comporta in modo assai diverso. Ogni scuola di specializzazione, da noi, fa il suo "concorsino" cui partecipano, in genere, solo quelli che hanno fatto la tesi con i professori che formano la commissione aggiudicatrice dei posti. Scegliere il cavallo (il barone o il baronetto) giusto è spesso più importante del merito all’interno di questo meccanismo di cooptazione. Di cui nessun ministro della Repubblica ha ritenuto finora di doversi occupare. Lasciando che restino possibile fatti come quelli denunciati dal lettore: che fa nomi e cognomi che noi non pubblicheremo e che lui stesso potrebbe proporre, però, alla magistratura.

il Fatto 16.5.13
Il prelato scambiava i contanti con assegni
“Monsignor 500 euro” e quella reggia da favola
di Vincenzo Iurillo e Marco Lillo


LA PROCURA DI SALERNO INDAGA: IL PRELATO SCAMBIAVA I CONTANTI CON ASSEGNI CIRCOLARI DA 5/10 MILA EURO. AVEVA UN CONTO ALLO IOR

Salerno Per qualche giorno hanno abitato sotto lo stesso tetto ma non c’è un prelato più lontano dall’ideale di povertà di papa Francesco di monsignore Nunzio Scarano, indagato per riciclaggio dalla Procura di Salerno. Il monsignore è nato nel 1952 a Salerno in una famiglia che occupava una casa dell’Istituto Case Popolari ma ora vive in una magione di lusso piena di mobili e quadri di valore. A Roma è conosciuto nel jet set ed è stimato anche da show girl come Michelle Hunziker.
Da tempo vive a Roma nella Domus Internationalis Paulus VI, nella centralissima via della Scrofa, tra il Tevere e piazza Navona. In quella pensione da 85 euro a notte, a due passi dal Parlamento, ha alloggiato prima di essere nominato dal Conclave anche papa Bergoglio. Chissà se il Papa povero ha mai scambiato due chiacchiere con questo monsignore che anni fa aveva chiesto di cambiare ufficio per avvicinarsi allo Ior, la banca del Vaticano. Scarano, prima di prendere i voti 26 anni fa era un funzionario di banca, ma in Vaticano non lavorava nel mondo della finanza bensì in quello immobiliare. Rivestiva (o meglio riveste) l’importante carica di responsabile del servizio di contabilità analitica dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, l'ente della Santa Sede - meno noto ma non meno potente dello Ior - che possiede migliaia di immobili di grande pregio concentrati a Roma e depositi per centinaia di milioni di euro in contante.
QUESTO monsignore indagato con l'accusa di riciclaggio, era il capo del servizio contabilità dell'Apsa. Non proprio l'uomo giusto al posto giusto nella Chiesa di Francesco. Le accuse che gli sono costate la sospensione dall'incarico in Vaticano. Lo chiamavano 'monsignor 500'. Nunzio Scarano infatti aveva una grande disponibilità di banconote da 500 euro. Il prelato salernitano proponeva agli imprenditori amici, tutti della sua zona, di scambiare blocchi di dieci-venti banconote da 500 con assegni circolari da 5 mila-10mila euro. Nelle carte della Procura di Salerno per ora la contestazione totale del presunto riciclaggio si ferma a 580 mila euro di provenienza poco chiara che avevano seguito questo strano itinerario. Scarano disponeva di un conto allo Ior e al Fatto risulta che gli investigatori si stiano interessando di questo versante della sua attività finanziaria.
Anche perché le somme movimentate dal monsignore sono superiori a quelle finora contestate, si parla di milioni di euro. Per ironia della sorte l'indagine parte da una denuncia del prelato. Scarano subisce un furto nella sua magione salernitana. Spariscono quadri e gioielli, denaro e mobili per alcuni milioni di euro. L'appartamento da fuori non desta sospetti su tanta opulenza. Ma non bisogna farsi ingannare dall’aspetto dimesso e trascurato del portone d’ingresso. Siamo nel centro storico di Salerno. L'appartamento si compone di due unità per complessivi 25 vani catastali e un'estensione che dovrebbe superare i 400 metri quadrati.
In città si dice che Scarano abbia messo in vendita il tutto per quattro milioni di euro. Il complesso ha una storia interessante: apparteneva alle Suore piccole operaie dei Sacri Cuori, un istituto di religiose con sede centrale a Roma che nel 2001 ha venduto al monsignore i suoi appartamenti nel centro di Salerno per poi aprire una nuova sede in zona più periferica, a Pastena il 7 maggio 2011. Quel giorno era presente all'inaugurazione anche il sindaco Vincenzo De Luca, in ottimi rapporti con monsignor Scarano.
Gli appartamenti nel centro con terrazza sul Duomo sono stati riuniti e ristrutturati qualche anno fa e abbelliti con quadri antichi alle pareti in tinte pastello, gessolini, parquet, filodiffusione.
D'altro canto Scarano è un monsignore con il pallino dell'immobiliare. E' intestatario del 90 per cento del capitale della NUEN srl, una società con sede a Salerno che dall'ottobre del 2012 esercita l'attività di costruzione di edifici residenziali. L'altro socio, con il 10 per cento, è l'amministratore Enrico Vallese, un costruttore di Alba Adriatica. Lo abbiamo contattato telefonicamente per chiedergli cosa facesse in società con un monsignore in una immobiliare a Salerno, ma Vallese non ha risposto. La questione si fa ancora più misteriosa se si dà un'occhiata alle vecchie partecipazioni societarie di Scarano. Il monsignore è stato intestatario di quote in altre due immobiliari, la Prima Luce Srl e la Effegi Gnm, create nel 2006-2007 con Giovanni Fiorillo di Baronissi, in provincia di Salerno, nelle quali ora è socio Dome-nico Scarano, 46 anni, probabilmente un parente del monsignore. Gli uomini della Guardia di finanza, guidati dal Comandante del Nucleo Tributario Antonio Mancazzo, stano ricostruiendo gli affari immobiliari di Scarano.
IL PM Elena Guarino, titolare dell'indagine, ha ascoltato nei giorni scorsi gli imprenditori che hanno scambiato assegni con banconote. Il monsignore, difeso dall'avvocato Silverio Sica, ha rivendicato la provenienza lecita di quei soldi. Secondo lui sarebbero serviti per uscire da una società immobiliare estinguendo un'ipoteca. E le finte donazioni che servivano a coprire lo scambio di assegni da 10mila euro subito rimborsati in contanti? Scarano, intervistato dal quotidiano La Città di Salerno, si è difeso così: "Io non ho rubato niente e non ho mai riciclato denaro sporco. La mia ex commercialista mi ha consigliato malissimo. Quel denaro era tutto pulito"

l’Unità 16.5.13
«Un patto politico per l’Europa»
Vertice dei Progressisti a Parigi
Verso le europee 2014: cambiare i rapporti di forza non solo per superare l’austerità ma anche per andare avanti nell’integrazione federale
di Luca Sebastiani


Certo la situazione non è delle migliori. La crisi economica sembra lontana dall’essere risolta, mentre la recessione invece continua a generare disoccupazione, instabilità sociale e insieme a questa una crisi democratica. Basta vedere qui e là in Europa l’estendersi del populismo nazionalista e più in generale di un sentimento pericolosamente antieuropeo. Per questo ieri a Parigi le forze progressiste continentali si sono ritrovate di nuovo per mettere a punto non solo una piattaforma programmatica per le elezioni del prossimo anno, ma anche e soprattutto per riaffermare una volontà europeista attraverso un vero «patto politico comune», come ha detto Massimo D’Alema dalla tribuna, che porti al cuore dell’Europa «il confronto politico».
Che la vittoria alle elezioni europee del 2014 sia un passaggio fondamentale, lo hanno detto un po’ tutti i rappresentati dei partiti intervenutiieri: dal segretario del Ps francese Harlem Desir, al neosegretario del Pd Guglielmo Epifani, da EvangelosVenizelos del Pasok greco al portoghese Antonio José Séguro, dal Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz all’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors. Cambiare i rapporti di forza a Bruxelles a favore delle forze progressiste è necessario non solo per superare le politiche di austerità e affrontare così i problemi della crisi sociale. Ma anche per andare avanti sulla strada dell’integrazione federale e ridare slancio al futuro dell’Unione.
I dati snocciolati all’inizio dei lavori da Gilles Finchelstein, direttore della fondazione Jean Jaures, non fanno propendere al pessimismo. I cittadini europei non sembrano pronti a buttare all’aria il sogno europeo. Il 63% di loro si sente europeo e il 60% ritiene ancora che da questa situazione di crisi si possa uscire ma tutti insieme. Ci sono margini dunque per risollevare la speranza, ma bisogna far presto.
L’urgenza è stato l’altro comun denominatore degli interventi. In particolare tra i rappresentanti dei paesi cosiddetti del Sud Europa. «Noi sappiamo cosa bisogna fare», ha detto Epifani, che ha ricordato tutte le misure e le proposte che i socialisti europei ha messo a punto negli ultimi tempi, dagli eurobond alla lotta dei paradisi fiscali, dall’armonizzazione salariale alla mutualizzazione di una parte del debito. «Ma c’è una differenza tra quello che bisognerebbe fare e la realtà quotidiana dei cittadini». «Non abbiamo tempo», bisogna impegnarsi in una visione generale dell’Europa. Cioè decidere cosa si vuole fare del Vecchio continente, se un’Unione solidale o dell’ognuno per sé. Questo del resto e il nodo politico, la differenza tra le politiche solidali che auspicano i progressisti e quelle neoliberali fin qui praticate dai conservatori.
Le quali, ha notato Venizelos, in Grecia hanno sì riportato il deficit allo 0,2% del Pil, ma hanno lasciato sul campo una disoccupazione al 27%, che arriva fino al 60% tra i giovani. Decisamente «chi ci ha governato non è stato all’altezza», ha detto il decano di un’altra Europa Jacques Delors. Nel suo discorso il padre nobile dell’Unione ha puntato il dito contro le responsabilità dell’egemonia conservatrice, indicando in tre punti per rilanciare il sogno europeo d’antan: primo, rilanciare l’economia con un budget Ue più ambizioso; secondo, una maggiore efficienza delle istituzioni da raggiungere con le riforme; e terzo, una difesa delle potenzialità dei 27, della grande Europa di cui ultimamente ci si dimentica un po’ presi dagli interessi nazionali o dai problemi dell’euro.
L’Europa, dice Schulz, è il continente più ricco del mondo, ma la diseguaglianza produce disoccupazione e ingiustizia. I conservatori non solo hanno generato la situazione economica attuale, hanno creato anche il populismo e ora, mette in guardia il presidente del Parlamento, il rischio è che «gli euroscettici ottengano più seggi».
In linea con le dichiarazioni del presidente Hollande e con le sue politiche, il segretario del Ps Harlem Desir ha ribadito la volontà dei socialisti francesi, nel passato piuttosto scettici, di proseguire sulla strada dell’integrazione economica e politica. In particolare Desir ha fatto della disoccupazione giovanile il centro della campagna del prossimo anno. Che si parta dai giovani per ricostruire il futuro dell’Unione.
Anche D’Alema, in qualità di presidente della Feps (la fondazione che riunisce i think tank progressisti europei) ha insistito sul tema del federalismo all’europea, interpretando la recente apertura di Hollande sulla cessione di sovranità. La sovranità nazionale, ha notato D’Alema, «l’abbiamo già perduta a profitto dei mercati». E per recuperarla c’è solo la strada dell’unione politica del continente. Un’occasione in questo senso è stata persa alla fine degli anni Novanta, quando la sinistra governava un po’ ovunque in Europa, prima di cedere l’egemonia continentale ai conservatori che ci hanno condotto fin qui. Ma i progressisti, ha detto D’Alema, hanno fatto un lungo percorso recuperando la traccia solidale su cui si è costruita la civiltà europea, e ora possono presentarsi come alternativa politica al confronto del prossimo anno.

l’Unità 16.5.13
Il pugno di Erdogan su Gezi Park
Il premier intima lo sgombero, la polizia attacca
Dispersa la folla con idranti e lacrimogeni, ancora feriti
I dimostranti avevano annunciato in mattinata l’occupazione permanente
di Virginia Lori


Dalle minacce ai fatti. Così si è consumata a Istanbul un’altra giornata di tensione e protesta in piazza Taksim e nel piccolo Gezi Park. Il Primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan ha intimato agli ultimi manifestanti di sgomberare entro oggi, minacciando altrimenti un intervento della polizia. Ma non è passato molto tempo prima che le forze dell’ordine facessero irruzione nel parco dove erano accampati. Agenti in assetto antisommossa non hanno aspettato che facesse buio, sparando con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni contro i dimostranti, mentre la folla urlava: «Taksim è dovunque, dovunque è resistenza». Ma l’attacco è arrivato a sorpresa, prima della scadenza dell’ultimatum di Erdogan.
Le forze dell’ordine hanno distrutto tende, striscioni e un punto per la distribuzione del cibo. Hanno continuato a sparare lacrimogeni sulle tende, per far uscire le persone che fossero rimaste al loro interno. I dimostranti hanno portato via alcune persone con le barelle. Secondo quanto riporta l’emittente televisiva Ntv, la polizia durante l’azione urlava: «Questo è un atto illegale, questo è l’ultimo avvertimento: andatevene».
Eppure Erdogan sembrava aver concesso qualche ora in più ai manifestanti:
«Abbiamo una riunione politica a Istanbul. Lo dico chiaramente: se la Piazza Taksim non sarà evacuata, le forze di sicurezza di questo Paese cominceranno a sgomberarla», aveva detto in un discorso pronunciato davanti a decine di migliaia di suoi sostenitori nella lontana periferia di Ankara, scesi in piazza per una dismostrazione di forza del governo.
Gli attivisti di Gezi Park in mattinata avevano annunciato che avrebbero proseguito l’occupazione, nonostante la disponibilità espressa venerdì da Erdogan a sospendere la riqualificazione del sito. «Continueremo la nostra resistenza contro ogni ingiustizia che avviene nel nostro Paese. È solo l’inizio, la nostra lotta continuerà», recitava il comunicato diffuso dal gruppo Taksim Solidarity, il movimento più rappresentativo della protesta di Piazza Taksim, a Istanbul. «Oggi siamo più forti, meglio organizzati e più ottimisti di quanto lo fossimo 18 giorni fa».
«C’È UN COMPLOTTO»
Il Primo ministro nel pomeriggio aveva tenuto un comizio dai toni molto accesi: «Negli ultimi 17 giorni, so che in tutti gli angoli della Turchia, milioni di persone hanno pregato per noi. Sapete il complotto che è stato ordito, la trappola che è stata costruita», ha detto Erdogan sul palco. Ha poi accusato di nuovo gruppi, non meglio specificati, che dall’interno e dall’esterno della Turchia avrebbero cospirato per inscenare le proteste, dicendo di avere le prove per dimostrarlo. Alla sua ipotesi di complotto contro il governo, la folla aveva risposto: «Vai avanti, non piegarti, la gente è con te». Erdogan nel discorso ha fatto riferimento anche ai gruppi antigovernativi che si sono scontrati con la polizia: «Qui non c’è nessuno che spacca o brucia, noi siamo persone d’amore. Se la gente vuol vedere la vera Turchia, dovrebbe venire qui». Il premier si era poi rivolto direttamente a chi era ancora in piazza Taksim: «Restare non ha più alcun senso dato che la questione è ormai all’esame della magistratura: non so quale sarà la decisione della giustizia ma rispetteremo il risultato». «Se vi sono ancora delle persone laggiù, andatevene per favore perché il parco appartiene alla popolazione di Istanbul», aveva concluso.
Il presidente turco Abdullah Gul ha invece usato toni più diplomatici in un messaggio su Twitter per calmare le proteste: «L’apertura di canali di dialogo è il segnale di una maturità della democrazia che produrrà dei buoni risultati. Ora ognuno dovrebbe andare a casa».

il Fatto 16.3.13
Erdogan attacca piazza Taksim: decine di feriti
I sindacati della sinistra turca, Kesk e Disk, hanno proclamato uno sciopero generale
di Roberta Zunini


Istanbul Tardo pomeriggio di ieri. Il presidente Erdogan aveva dato l’ennesimo ultimatum: ancora 24 ore per sgomberare. Ma era una finta. La polizia ha fatto irruzione, sgomberando con idranti e lacrimogeni Gezi park, nel cuore di Istanbul. I principali sindacati della sinistra turca, Kesk e Disk, hanno proclamato uno sciopero generale.
Quando la polizia attacca piazza Taksim in piazza ci sono ancora coppie e mamme sole con i loro bambini nel passeggino. Terrorizzate. Sarebbe ora di portare i bambini a magiare ma la polizia ha attaccato e le ha fermate. Con pallottole di gomma dall’anima di acciaio, con decine di candelotti lacrimogeni, con i cannoni ad acqua. Infine con le ruspe.
ALLE 21 è iniziato l’attacco massiccio ai cittadini democratici di Istanbul, alla generazione di Gezi park, di Twitter e delle piattaforme digitali, come Vice, che stanno trasmettendo dai loro smartphone immagini di feriti, al posto delle tv di regime, cioè tutte tranne Halk tv vicina all’opposizione repubblicana, a quell’ulitimo spicchio di democrazia, eredità ostinata della visione geopolitica di Kemal. Una democrazia che da undici anni l’Akp, il partito islamico di Erdogan ha lentamente corroso, complice un Occidente naif e spesso opportunista, una Nato di cui la Turchia è membro di una discreta importanza, essendo il Paese fire wall del blocco islamico sunnita contro i regimi sciiti iraniani e l’Iraq, attualmente guidato da un premier sciita.
Ma questo muro di protezione contro il gli arabi e i persiani sciiti è basato su un terreno ancora nazionalista e laico. Questo terreno oggi ha sussultato per cercare di scrollarsi da dosso 11 anni di dittatura soft al ritmo del mercato finanziario e quindi dell’economia che tira trainata anche dal potente motore del populismo “timorato di Dio” di Erdogan e del suo affaristico inner circle. Che cresce al ritmo dei grattacieli e del terzo ponte sul Bosforo. I lavori di costruzione e distruzione dell’ultima area di foresta di questa megalopoli abitata da 17 milioni di abitanti desiderosi di soldi e beni di consumo, rispettando però le regole “igieniche” dell’islam: non si beve alcol, non si fuma, non ci si bacia per strada, ci si mette il velo e non si abortisce. E quando scoppia una rivoluzione di cittadini radunati in una piattaforma liquida come Occupygezi non si tratta. Non si dialoga. Ci sono, invece, le ruspe, con i gas e gli arresti dentro l’hotel Divan, dove molti feriti stesi per terra boccheggiano per l’e ffetto del gas lacrimogeno. Mentre il gas oscura Gezi, Istanbul, e la democrazia della repubblica turca c’è ancora chi resiste: “Sono stato in molte guerre e rivoluzioni e non ho mai visto una brutalità così becera”, ha detto ad Halk tv un veterano di guerra, il giornalista Can Dundar. Anche il silenzio notturno delle periferie di questa metropoli esplode in migliaia di clancson che suonano e di gente che canta l’inno nazionale.

l’Unità 16.5.13
George Sabra
Il presidente ad interim del Consiglio nazionale siriano che rappresenta l’opposizione:
«Assad è un dittatore sotto tutela»
«Non solo sarin, in Siria il rischio si chiama Iran»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Il presidente Obama ha preso atto di un salto di qualità sullo scenario siriano. Che non è dato solo dalla conferma di quanto noi sosteniamo da tempo: l’uso di armi chimiche da parte del regime di Bashar al-Assad. E il salto di qualità non sta neanche solo dalla crescita impressionante dei morti, oltre 93mila, degli sfollati, milioni, e dalle atrocità documentate dall’ultimo rapporto della Commissione Onu. Il salto di qualità è nel fatto che nel mio Paese è in atto un’invasione da parte dell’Iran e dei terroristi libanesi di Hezbollah. Bashar al-Assad non è solo un dittatore senza scrupoli, ora è anche un dittatore sotto tutela». A sostenerlo è la figura più rappresentativa dell’opposizione siriana al regime baathista: George Sabra, cristiano, presidente ad interim del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), l’organismo rappresentativo del fronte dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad. La nuova Siria, aggiunge deciso Sabra, «sarà democratica, potenzialmente laica, riconciliata e libera dall’oppressione». Nelle ultime 36 ore, intanto, una settantina di ufficiali dell’esercito siriano, fra i quali sei generali e 22 colonnelli, hanno abbandonato le forze armate del regime per rifugiarsi in Turchia.
Come valuta la nuova posizione assunta dagli Stati Uniti? Il presidente Obama ha ammesso che la «red line» in Siria è stata superata...
«Èd è stata superata dal regime di Bashar al-Assad, un dittatore che da due anni ha dichiarato guerra al popolo siriano. Quello compiuto dal presidente Obama è un passo importante. Speriamo che gli amici della rivoluzione siriana inizino a tendere le loro mani per contribuire a salvare il popolo siriano dal regime sostenuto dall’Iran che compie reati quotidiani contro il suo popolo. Non si tratta di imporre una soluzione militare, si tratta di capire che mentre la comunità internazionale s’interrogava sulle armi ai ribelli, Assad non solo continuava a essere riarmato ma poteva contare sul sostegno massiccio di coloro che stanno portando avanti l’invasione della Siria».
A chi si riferisce?
«All’Iran e a l’Hezbollah libanese. La partecipazione dei miliziani di Nasrallah ai combattimenti su tutto il territorio della Siria, non solo a Qusayr, rappresenta una dichiarazione di guerra contro il popolo siriano. Ricordiamo al presidente e alla popolazione libanese che un partito rappresentato nel loro Parlamento, Hezbollah, è responsabile per crimini di guerra contro siriani innocenti. Diamo atto degli sforzi generosi in cui sono impegnati diversi Paesi, tra cui l’Italia. Ma la coalizione siriana non può partecipare alla conferenza internazionale alla luce dell’invasione di Hezbollah e delle milizie iraniane e del proseguimento delle uccisioni e degli attacchi contro i civili in Siria. Non ci si può chiedere, in questa situazione, di sedere a un tavolo con chi ha invaso la Siria, l’Iran, e mentre continua il massacro del popolo siriano. Diciamo: l’Iran e Hezbollah ritirino i loro uomini dalla Siria, allora sarà possibile affrontare il problema. Il silenzio su questa invasione significherà che ogni conferenza o sforzo politico sarà infruttuoso e verrà considerato dal popolo siriano come un tentativo di perdere tempo. C’è chi sta puntando non solo a una regionalizzazione del conflitto ma anche ad una sua connotazione “religiosa”: sciiti contro sunniti».
Lei parla d’invasione, ma nella comunità internazionale, in Europa, anche tra i critici di Assad sono in diversi a temere che l’opposizione siriana sia etero diretta.
«Al nostro interno sono presenti forze d’ispirazione diversa, musulmani, cristiani, laici... Questo pluralismo è un investimento sul futuro. Quanto al pericolo che le armi finiscano in cattive mani, ripeto quanto ho già avuto modo di dire al segretario di Stato Usa, John Kerry, e ai leader europei: possiamo garantire che ciò non accadrà. E di questo si sono convinti anche a Washington».
«Le Nazioni Unite e io stesso abbiamo più volte detto chiaramente che fornire armi a una qualsiasi delle due parti (in guerra in Siria, ndr) non aiuta a risolvere la situazione». Ad affermarlo è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dopo che gli Stati Uniti hanno aperto alla possibilità di armare i ribelli che combattono contro il regime di Bashar al-Assad.
«È vero, ma allora la comunità internazionale, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, avrebbero dovuto agire a tempo per impedire che la Russia e l’Iran continuassero a fornire armi, e armi di distruzione di massa, al regime. Così non è stato. Agli amici della rivoluzione siriana noi non abbiamo chiesto di combattere al posto nostro, ma solo di permetterci di difenderci. Saranno i siriani a liberare il loro Paese, ciò che abbiamo chiesto è di impedire al regime di ridurre la Siria ad un cumulo di macerie».
In questa chiave il Cononsiglio nazionale siriano pensa anche a una no-fly-zone? «È una delle possibilità sul tavolo».
La diplomazia internazionale è impegnata nella ricerca di una soluzione politica. Il che significa un coinvolgimento della parte al potere. È possibile un percorso di riconciliazione?
«Di certo nessuna riconciliazione è possibile con Assad. Ci si può riconciliare con chi ha distrutto il 20 per cento delle abitazioni private in Siria, creato quattro milioni di sfollati, un milione di rifugiati all'estero, oltre 93mila? Lui deve lasciare il potere. Poi la vera riconciliazione, quella della e nella società, sarà possibile. Per quanto ci riguarda, non intendiamo fare “tabula rasa”: nella “nuova Siria” ci sarà posto e ruolo anche per quei servitori dello Stato che non si sono macchiati dei crimini contro il popolo siriano. Vede, noi siamo contro il regime, ma non contro lo Stato. Vogliamo mantenere quello che c’è di buono: il ministero dell’Interno, il comando dell’Esercito dopo le defezioni di alcuni tra gli alti gradi. Il primo obiettivo da perseguire, oggi e in futuro, è la sicurezza del popolo siriano».

Corriere 16.6.13
Pakistan, strage di studentesse
Bomba sul bus dell'università femminile: 25 vittime
di Cecilia Zecchinelli


Violenza maschilista spinta all'estremo, odio settario per la minoranza sciita, guerre tribali, follia. C'è probabilmente tutto questo alla base della strage di studentesse avvenuta ieri a Quetta, capitale del Baluchistan ovvero della regione più vasta ma spopolata, misera e pericolosa del Pakistan. Una città e una terra dove negli ultimi mesi hanno avuto luogo gli attentati più gravi di un Paese già in perenne emergenza, una regione dove i morti negli attacchi sono stati oltre 200.
Ieri a questa triste contabilità si sono aggiunti almeno 25 nomi. Tra loro quelli di 14 studentesse e professoresse che finite le lezioni nel pomeriggio tornavano a casa su un bus della Sardar Bahadar Khan University, l'unica università solo per donne della regione, che sorge in un quartiere sciita ed è frequentato da molte appartenenti a questo ramo dell'Islam. Nessun kamikaze, ma una bomba che ha incendiato il bus: tra le ragazze rimaste in vita, una ventina sono state ricoverate per ustioni anche gravi nel vicino ospedale Bolan. E qui, dopo circa un'ora, è scoppiato un secondo ordigno, proprio davanti al pronto soccorso dove stavano arrivando le ragazze ferite e i corpi delle vittime, affollato da parenti e amici. Non solo: un commando di uomini armati, cinque o otto secondo le versioni, ha dato l'assalto all'ospedale sparando all'impazzata, uccidendo una decina di persone tra cui un politico e 4 guardie, terrorizzando malati, medici, infermieri tenuti in ostaggio per cinque ore. Dopo una massiccia azione appoggiata da elicotteri e corpi speciali, alla fine le forze dell'ordine hanno liberato l'ospedale, eliminando o arrestando i terroristi: due di loro si sarebbero fatti esplodere vedendosi circondati.
Nessuno ha finora rivendicato la doppia azione anche se i sospetti di tutti vanno agli estremisti sunniti, che con i talebani del vicino Afghanistan e dello stesso Pakistan condividono l'odio per l'emancipazione femminile e quello per gli «eretici sciiti». I casi di violenze estreme sulle donne anche in questa regione sono innumerevoli. La più parte ignorati dal mondo: per una Malala finita sulle prime pagine dei media — scampata a un tentato omicidio e sfigurata, curata in Europa — mille sono scomparse o soffrono ancora in Pakistan, senza un nome.
Sui media locali il doppio attacco di ieri è stato avvicinato a quello di Ziarat, 130 km da Quetta, dove un commando ha distrutto la casa in cui visse Muhammad Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan. Un'azione simbolica, costata la vita a un guardiano, come la bandiera issata sui resti dell'edificio in legno: il vessillo dell'Esercito di liberazione del Baluchistan. Ma un coinvolgimento dei separatisti nell'attacco alle universitarie è escluso. L'accostamento tra le tre azioni pare dovuto solo ai tempi vicini in cui sono avvenute. E al volere ricordare che il Baluchistan è un campo di molte battaglie, tutte mortali e lontane da una conclusione.

Repubblica 16.6.13
La fine del segreto
di Stefano Rodotà


Niente riesce più a rimanere riservato, non solo i dati personali dei cittadini ma nemmeno gli “arcana imperii” degli Stati Ecco perché
I NOSTRI sembrano i tempi della scomparsa degli arcana imperii del sovrano e dei segreti dei privati. È vero, esistono segreti ben custoditi – la formula della Coca Cola, l’algoritmo di Google.

I sorvegliati possono svelare un sistema che viola i diritti Ma non riescono a impedire con le sole loro forze che la violazione avvenga. La tesi della trasparenza totale si dimostra ottimistica e ingenua Cosa accade quando si passa dalla sfera privata a quella pubblica? Quando un potere pretende di innalzare mura altissime attorno a sé in modo da potersi sottrarre ad ogni possibile forma di controllo democratico?

Inostri sembrano i tempi della scomparsa degli arcana imperii del sovrano e dei segreti dei privati. È vero, esistono segreti ben custoditi e considerati inviolabili – la formula della Coca Cola, l’algoritmo di Google. Ma, guardando ad altri casi, dobbiamo invece dire che siamo ormai entrati nell’impero della trasparenza senza confini, di una luce abbagliante che illumina qualsiasi cosa?
Partiamo da tre nomi – Daniel Ellsberg, Bradley Manning, Edward Snowden. Sono i tre giovani americani che hanno consentito al mondo intero di conoscere aspetti essenziali e riservati della politica degli Stati Uniti. Ellsberg rese pubblici nel 1969 i “Pentagon Papers”, i documenti che riguardavano la politica americana negli anni della guerra del Vietnam. Manning, nel 2010, passò a Wikileaks di Julian Assange centinaia di migliaia di comunicazioni riservate relative alla politica estera del suo paese. E le informazioni fornite da Snowden hanno permesso di scoprire la rete di controllo stesa dagli Stati Uniti sull’intero pianeta.
Non siamo di fronte alle classiche e limitate fughe di notizie, ma all’applicazione estrema del detto di un grande giudice della Corte Suprema americana, Louis Brandeis, divenuto quasi un proverbio democratico: «la luce del sole è il miglior disinfettante». Non è certo un caso, allora, che tutte queste vicende abbiano avuto il loro epicentro negli Stati Uniti, dove continua a manifestarsi una robusta tradizione di consapevolezza civile che vede nei cittadini, in ogni cittadino, il depositario e il responsabile di un potere di controllo che deve essere esercitato per garantire gli equilibri democratici, anche a costo d’essere processati (com’è puntualmente accaduto). La trasparenza, dunque, come irrinunciabile risorsa della democrazia.
Guardando più da vicino quelle diverse vicende, che riassumono emblematicamente la condizione che viviamo, si possono subito fare due considerazioni generali. Vi è una tesi, non nuova, che esalta la società della trasparenza totale, sostenendo che in essa può essere eliminata l’asimmetria di potere generata dall’impiego delle tecnologie del controllo, perché queste sono disponibili sia per i sorveglianti che per i sorvegliati. Una tesi ottimistica, o ingenua, visto che i sorvegliati, come dimostra appunto il Datagate, possono svelare le caratteristiche di un sistema che viola su scala planetaria i diritti dei cittadini, ma non riescono con le sole loro forze ad impedire che le violazioni siano eliminate.
Più importante è sottolineare che, cogliendo l’opportunità tecnologica per far crescere quasi senza limiti la raccolta delle informazioni e la loro conservazione in banche dati sempre più gigantesche, gli Stati non si sono resi conto che in questo modo crescevano, insieme, trasparenza e vulnerabilità.
La funzionalità di questi database, infatti, è strettamente legata alla loro connessione, alla condivisione, alla possibilità di ampi e molteplici accessi. Ma soprattutto non si è avvertito che lì si stava depositando un nuovo sapere sociale, della cui importanza e utilizzabilità si rendevano conto più i cittadini che i detentori delle informazioni. Questo solo fatto redistribuiva potere, ed era evidente che una così inedita opportunità prima o poi sarebbe stata colta. È quello che è avvenuto, e continua ad accadere.
Ma può la democrazia essere identificata con l’assoluta trasparenza, con l’obbligo di dire la verità in ogni caso e ad ogni costo? Kant poneva il divieto di mentire dei governanti come un imperativo. Ma anche i regimi democratici conoscono casi in cui il segreto è ammissibile, anzi può essere considerato necessario e doveroso. Qual è, allora, il tasso di segretezza, e di insincerità, che un sistema democratico può sopportare senza mutare la propria natura?
Proprio il caso Wikileaks ci fornisce elementi per cominciare a rispondere a questo interrogativo. Affidato ad alcuni grandi giornali il compito di selezionare il materiale pubblicabile, vennero escluse tutte le informazioni che potevano mettere a rischio la vita e la sicurezza di singole persone o lo svolgimento di operazioni in corso. Qui cogliamo una traccia di quello che, in polemica con Kant, sosteneva Benjamin Constant: «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Ma chi è l’altro che deve essere tutelato, il singolo violato nella sua sfera privata o un potere pubblico che vuole agire al riparo d’ogni controllo?
La distinzione è essenziale.
Si dice che ognuno di noi deve potersi sottrarre ad un continuo e implacabile scrutinio pubblico, deve poter conservare il diritto di “ritirarsi dietro le quinte”. Che cosa accade, però, quando si passa dalla sfera privata a quella pubblica, quando la persona diventa figura pubblica, quando un potere pubblico o privato vuole innalzare altissime mura per sottrarsi, attraverso il segreto, ad ogni forma di controllo? La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo “in pubblico”. Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l’inammissibilità della menzogna in politica, che è cosa diversa dalla necessità di individuare i casi in cui la segretezza non è fondata sulla necessità di
arcana imperii, sull’esistenza di una sfera in cui il potere si trasforma nella pretesa dell’incontrollabilità. Rovesciata la logica che muoveva dal principio di un potere politico sottratto dall’occhio del pubblico, è possibile individuare casi in cui la riservatezza è necessaria per raggiungere un obiettivo democraticamente rilevante, dunque radicalmente all’opposto di quelli legati a ben diverse e opposte finalità. Anche per i primi, tuttavia, non sono ammissibili chiusure più o meno assolute. La riservatezza può essere necessaria nello svolgimento di un negoziato, di cui poi si deve rendere pienamente conto. Il segreto deve cedere di fronte al controllo di commissioni parlamentari o di istituzioni specifiche (in Italia, ad esempio, il Garante per la privacy). In un preciso quadro di garanzie, la trasparenza torna così ad essere condizione per la partecipazione dei cittadini, senza che la democrazia venga ridotta all’uso ossessivo e indiscriminato dello streaming.

Repubblica 16.6.13
Bertrand Russell e il problema dell’aggettivo eterologico
di Piergiorgio Odifreddi


La logica mostra come ridurre i ragionamenti a sequenze elementari del tipo: «Se oggi è il compleanno di mio fratello, allora gli faccio gli auguri. Ma oggi è il compleanno di mio fratello. Dunque, gli faccio gli auguri». Con una tale riduzione diventa impossibile fare le anguille con i ragionamenti, e i problemi prima o poi saltano agli occhi. Uno di questi problemi fu scoperto 111 anni fa esatti, il 16 giugno 1902, da Bertrand Russell. L’argomento partiva dall’ovvia constatazione che alcuni aggettivi si applicano a se stessi, e altri no: ad esempio, “corto” è corto, ma “lungo” non è lungo. Russell propose di chiamare autologici gli aggettivi del primo tipo ed eterologici quelli del secondo, creando così due nuovi aggettivi. Poi si chiese di che tipo sia “eterologico”, e scoprì una contraddizione. Se infatti “eterologico” fosse autologico, dovrebbe applicarsi a se stesso, e dunque essere eterologico. E se fosse eterologico, non si applicherebbe a se stesso, e non potrebbe essere eterologico. Di tutti i problemi che affliggono il mondo, quello dell’aggettivo “eterologico” non è certamente il più preoccupante. Ma può diventarlo se uno ha la passione della razionalità, e vede nelle contraddizioni il sintomo di una malattia del pensiero che va in qualche modo curata. Russell si autoelesse a medico, e nel 1908 scoprì un vaccino che immunizza dalle contraddizioni: la teoria dei tipi logici, che consiste nel tenere distinti gli aggettivi primari, come “corto” e “lungo”, da quelli secondari che si riferiscono ad altri aggettivi, come “autologico” ed “eterologico”. E a forza di aggettivi, oltre che di sostantivi e verbi, nel 1950 Russell vinse il premio Nobel per la letteratura.

l’Unità 16.5.13
Breivik, il killer che voleva uccidere il socialismo
C’è ancora chi scrive al re di Norvegia reclamando per l’assassino lo status di prigioniero politico
Il massacro dei giovani laburisti sull’isola di Utoya non è stato il gesto di un folle ma un atto politico: la carneficina vista da Luca Mariani
di Paolo Baroni


Camusso e Amato parlano della strage di Utoya
Norvegia, 22 luglio 2011, Anders Behring Breivik scatena una sua personale versione dell’inferno. Prima otto morti con un’autobomba nel centro di Oslo, poi 69 ragazzi laburisti uccisi uno a uno nell’isola di Utoya. Un’azione studiata per anni nei minimi dettagli con l’obiettivo di distruggere il Partito Laburista alla radice. Le motivazioni? L’odio contro gli immigrati e contro la politica multi-culturale. I media prima inseguono la pista islamica. Poi, quando emergono i fatti, gradualmente cala il silenzio sui giovani laburisti giustiziati
per le loro idee. Breivik è finora l’unico condannato. Ma quali furono i suoi contatti? C’è in Europa una rete di estrema destra nazionalista, violenta e xenofoba?
Luca Mariani ne parla nel suo libro Il silenzio degli innocenti, Le stragi di Oslo e Utøya. Verità, bugie e omissioni su un massacro di socialisti che verrà presentato domani a Roma, ore 18.00, presso la Feltrinelli di Galleria Colonna. Partecipano Giuliano Amato, Susanna Camusso e Riccardo Nencini, modera Thierry Vissol.
Re Harald di Norvegia ha da poco ricevuto una lettera del Nationalist Party of Canada, che lo esorta a ripensare la posizione di Anders Breivik, il massacratore dei giovani socialisti norvegesi nel campeggio di Utoya nell’estate del 2011. Secondo i nazionalisti nordamericani, infatti, Breivik avrebbe reagito contro «una politica tirannica, per cui lei non ha che da biasimare se stesso per le violente e tragiche conseguenze». È solo una delle molte lettere giunte alle autorità dopo il 22 luglio 2011, e reclama per Breivik lo status di prigioniero politico, cioè il miglioramento immediato delle sue condizioni detentive. Se poi si approfondisce soltanto un poco il materiale ideologico del testo si ottiene una chiara spiegazione di tanta sentita solidarietà. Secondo quel partito canadese «la razza bianca è sotto pressione da ogni lato, ma il peggior nemico sono le quinte colonne che operano dall’interno... Anders Breivik era un uomo bianco che provava profondo disagio per le deliberate decisioni che il suo governo ha preso per imporre l’immigrazione di persone non bianche, e ha deciso di agire per disperata protesta».
I fatti, null’altro che i fatti, ci ricordano quanto condiviso e da più parti alimentato sia il movente politico e ideologico che sta dietro il peggiore massacro avvenuto in Scandinavia (forse, considerata la modalità, in Europa) da molti decenni. E per questo giunge con grande utilità il libro di Luca Mariani, giornalista dell’Agi, a mettere in fila questi fatti. In testa a tutti la tendenza dei media, nei giorni seguenti l’agghiacciante notizia, ad attribuire la strage non all’odio etno-nazionalista verso la «quinta colonna» socialista, ma alla pazzia di un bizzarro personaggio. Una tendenza tradottasi nella cancellazione del credo politico dei ragazzi riuniti ad Utoya, cioè nel trascurare che, nella storia della Scandinavia, chi odia (per ideologia, non per eccentricità) un sistema sociale basato sull’integrazione e la parità degli attori sociali (cioè sulla eguaglianza degli individui che li compongono, a prescindere da religione o razza) inevitabilmente odia i socialisti.
Nelle pagine del libro di Mariani questi occultamenti sono invece ricordati grazie ad un approccio documentale, intessuto di interviste, ricostruzioni, citazioni. Ciò, va specificato, non solo per non dimenticare, ma per ragionare su quanto accade alle società europee, nonché sulla inclinazione, non solo italiana ma certo insistente da noi nell’ultimo sventurato ventennio, a seppellire le culture politiche del ventesimo secolo. E preferibilmente a cancellare il socialismo europeo. Ecco perché, come certifica (denuncia?) Mariani, i ragazzi di Utoya stando ai resoconti dei giornali, pareva fossero senza colore politico, senza un significato storico e valoriale nella storia norvegese. Pareva si trattasse solo di campeggiatori e di uno psicopatico uscito dal nulla. L’autore ricostruisce anche il mostruoso «compendium» ideologico scritto da Breivik, ( 2083, A European declaration of independance ) indicandone le suggestioni originarie e quelle viventi ed operanti.
Il libro di Mariani contiene questo e molto altro (impagabile, per chi si interessa di ideologie comparate, l’intervista a Fiore, condottiero di Forza Nuova) e però si mantiene agilissimo e sintetico. Serve immensamente tornare sulla natura lucidamente politica della strage. La quinta colonna individuata dai nazionalisti canadesi, per chi la pensa come loro e come Breivik, sono sempre, essenzialmente, i socialisti. Infatti, in Europa una società aperta si costruisce solo come la volevano i giovani di Utoya: con la forza associata dei lavoratori in una democrazia fatta non solo di media, non solo di comunicatori nuovisti, ma di dialettica fra capitale e lavoro, di interessi organizzati e negozianti. Questo suscita l’odio di Breivik, perché questa democrazia non è quella delle appartenenze naturali, etniche, definitive. Un odio ossessivo, senza dubbio, ma, come hanno poi appurato le autorità preposte, ossessivo ideologicamente, non psichicamente. Mariani ne intervista tanti, di giovani socialisti norvegesi, oppure ne riporta le parole, che non solo emozionano, ma illuminano. Ebbene, fra mille fortissime suggestioni è molto chiara una cosa: essi erano ad Utoya perché credevano in quel modello sociale europeo che, riformando il capitalismo, può permettersi la tolleranza, cioè l’apertura che tanti figli di immigrati hanno mostrato di volere difendere proprio militando nella gioventù socialista norvegese. E finendo, alcuni di loro, per trovare la morte ad Utoya. La soluzione non è, come crede Breivik, mantenere incontaminata una società nordica già di per sé «omogenea». Anzi: è questo mito della Scandinavia omogenea (evocato anche dai liberali più ideologici, interessati a svuotare il modello nordico di ogni anima politica comune al resto d’Europa) che è alla radice della strage. Insomma l’autore ci ricorda, proprio prendendo sul serio l’odio ideologico di Breivik, quali sono i fondamenti di una società aperta europea. Mariani, dopo essersi immerso nei fatti come nessun altro in Italia, ne è sicuro: il socialismo democratico è fra i più centrali. Per l’oggi e per il domani.

il Fatto 16.6.13
Tempi moderni
Storie di uno. La politica ostaggio dei singoli
di Furio Colombo


Se una pubblicazione straniera ti chiede di scrivere una breve “storia politica dei partiti italiani” negli ultimi tre decenni, ti accorgi di poter scrivere solo di persone, non di masse, aggregazioni, movimenti politici e meno che mai di partiti nel vecchio senso della parola. Qual è il vecchio senso? È il muoversi relativamente compatto e omogeneo di tante persone, cittadini, famiglie, padri e figli, insegnanti e allievi, persone del mondo creativo (le canzoni) e di quello organizzativo (i sindacati) che più o meno hanno un punto in comune al-l’origine, vedono o immaginano un punto comune da raggiungere e si muovono cercando, anche con un po’ di aiuto reciproco, di percorrere la stessa strada.
Non per disciplina (non tanto, non sempre). Ma per adesione e persuasione, reclamata anche in pubblico. Sto parlando, naturalmente, di qualcosa che ha a che fare con la costellazione comunista e la costellazione cattolica. Entrambe hanno salvato il legame con la Resistenza e la Costituzione. Entrambe hanno impedito a questo solo Paese europeo di essere laico e di esplorare senza pregiudizi, né distruttivi né infatuati, i territori del liberalismo. Tutto quello che è accaduto dopo, fino ai giorni che stiamo vivendo e patendo senza sapere e senza capire, è l’avventura individuale di alcuni personaggi. Si può scrivere e illustrare la loro storia, sapendo che è quella storia che conta. Ma non “il partito” o “il movimento” che proclamano di avere creato, che nasce e che scompare (o finisce di contare) con loro.
SI DIRÀ che la politica come “storia di uno” comincia in Italia con Berlinguer, con Andreotti, con Craxi. Parliamo di leader potenti, di manipolatori straordinariamente efficaci dei loro gruppi politici. Ma è sempre il partito che conta, che fa la forza e che si misura, anche sul piano internazionale. Il capitolo della storia politica italiana su cui sto riflettendo oggi comincia con Bossi e – al momento – arriva fino a Grillo. In mezzo dovremo collocare i capitoli che riguardano Berlusconi, Di Pietro, Veltroni, Bersani, Renzi. Non metterei Pannella, perché si potrà anche dire che lui è un leader solitario. Ma è un fatto che la sua ossessione di tenere in vita e in vista il Partito radicale e i suoi esponenti, i suoi parlamentari, il non interrotto percorso di progetti, programmi e referendum, ne fa un leader d’altri tempi, come lo sono stati alcuni celebri segretari Dc e Pci. Diciamo che questa breve storia si apre con Berlusconi che “scende” in un campo che inventa lui, e nella sua saga one man si trascina dietro vari modelli di partito e pattuglie intercambiabili di personale dipendente, attraverso decenni. E arriva a Grillo che si annuncia da solo, arriva da solo, e resta solo dopo la vittoria, pur avendo portato al seguito, dal nulla, nove milioni di elettori.
Di Berlusconi sappiamo tutto, arriva munito di una ricchezza oscura, usa il privilegio, poco capito (o volutamente ignorato) di un immenso conflitto di interessi che ne genera continuamente altri (e potere, e profitto), vive la vita politica come uno sceneggiato che si gira in tempo reale con piena libertà di aggiungere o togliere battute, o di smentirle liberamente.
DI LUI RESTERÀ memorabile non la vastità e il peso del dominio esercitato, ma la straordinaria e inspiegabile sottomissione dell'intera classe politica e di una vasta parte della corporazione giornalistica. Il gioco di Bossi non è stato molto diverso: mettere insieme ed esibire in modo esasperato ed esagerato i peggiori sentimenti di rivalsa e vendetta di un gruppo di persone senza reputazione, e vedere l'effetto che fa. Nel vuoto culturale ha fatto effetto. Ma era troppo grossolano e misero per poter continuare, fino a che ha fatto il patto di Arcore nelle cene del lunedì e ha acquisito una vita in simbiosi, libera da preoccupazioni economiche e in grado di beneficiare dello stesso clima di intimidazione e sottomissione giornalistica imposto e goduto da Berlusconi. Ma Bossi non è un partito, è una vita di espedienti che si è agganciata in tempo a un livello molto più alto e più grande di imbroglio. Anche l’Italia dei Valori, che pure era sembrata un importante nuovo gruppo politico, può essere raccontata solo come storia di Di Pietro, con il malinconico finale che sappiamo.
Veltroni ha fondato il Partito democratico e ha dato davvero per un momento l’impressione dell’ingresso in un’epoca nuova. La “comunità” di cui parla nel suo ultimo libro (E se noi domani, Rizzoli) è sempre stato il suo pensiero fisso. Però la sua rapida estromissione e il fatto che la costruzione è risultata di mattoni senza cemento, l’ha subito esposta alla furia dei venti (di cui resta in balia) come la casa dei tre porcellini. Perciò ci resta la storia di Veltroni, ma non la storia del Partito democratico. Questa storia mancante non si colma né sostando a compiangere i diritti negati di Ber-sani (doveva formare un governo e glielo hanno tolto di mano) né con la molto pubblicizzata cavalcata di Renzi che viene a pretendere un trono che non c’è.
GRILLO È ARRIVATO a mani piene (persone e promesse) ma mai nessuno nonostante i seguaci, ha realizzato programmi o promesse senza dare ruolo e valore e senso al lavoro di chi si è offerto di partecipare ed è stato eletto. Governare attraverso ordini indiscutibili uccide, e si può solo aspettare. E dunque ci resta solo un’interessante “storia di Grillo” ma niente da scrivere, per ora, sul Movimento Cinque stelle. Forse in questo schema (storie di persone, ma non di movimenti e partiti) sta il nocciolo pericoloso della crisi. Molti personaggi si aggirano, con buone e con cattive intenzioni, per le strade deserte di un Paese spaventato che non può più mettere niente in comune, neppure la paura.

l’Unità 16.5.13
Le prove di Keynes e i pentiti dell’austerità
di Massimo Adinolfi


Nel 2010 Robert Skidelsky, il biografo di Keynes, scrisse per il Financial Times un articolo ripreso anche dal Sole 24ore nel quale si prendeva la responsabilità di sottoporre non al vaglio arbitrario dei filosofi, ma alla prova dei fatti, le politiche di austerità adottate con pochissimo distinguo in Europa.
E concludeva il suo articolo con queste fatidiche parole: «Stiamo per imbarcarci in un importantissimo esperimento per scoprire quale delle due storie sia vera. Se il risanamento dei conti pubblici si dimostrerà la via per la ripresa e una crescita rapida, allora potremo seppellire Keynes una volta per tutte. Se al contrario i mercati finanziari e i loro portabandiera politici si riveleranno degli «asini matricolati», come pensava Keynes, bisognerà prendere di petto la sfida che rappresenta, per il buongoverno, il potere finanziario».
Keynes faceva simili, cattivi pensieri di fronte al modo in cui la Gran Bretagna, sotto la pressione dei mercati finanziari, si era infilata in una spirale recessiva, a colpi di tagli alla spesa pubblica e rassicurazioni sulla tenuta della sterlina. E Skidelsky, di fronte alla reazione analoga tenuta dall’Unione Europea dopo il 2008 e la crisi dell’euro, proponeva a titolo di esperimento di mettere il keynesismo su un banco di prova: vedremo fra qualche anno, diceva, se si abbia torto o ragione nel condannare, sull’esempio di Keynes, le misure di austerità e il pensiero economico che le ispira.
Ora non so se gli anni trascorsi siano sufficienti per giudicare concluso l’«importantissimo esperimento», e se siamo pronti o meno per rifilare l’appellativo di «asino matricolato» agli economisti dei nostri giorni, che hanno orientato le condotte politiche europee; però ieri, su Il Sole 24ore, con una excusatio petita e assai gradita, Roberto Perotti ha esordito così: «Gli effetti delle politiche di austerità sulle economie europee sono tornati al centro del dibattito. Oltre quindici anni fa scrissi con Alberto Alesina due lavori nei quali sostenemmo che le riduzioni della spesa pubblica facevano bene all’economia. Oggi credo che la metodologia statistica che usammo allora fosse errata». Il minimo che si possa fare è mandare un telegramma a Robert Skidelsky, di questo tenore: «Dear Sir, experiment has been successfull!». Roberto Perotti sceglie invece di polemizzare con chi dall’esperimento vorrebbe trarre qualche conseguenza. Si lamenta perciò, restando nei confini domestici, di Guido Rossi e del suo inutile sfoggio di umanistica cultura: per prendersela con l’austerity, osserva Perotti, Rossi infarcisce i suoi articoli di citazioni di poeti, antropologi, filosofi della politica e del diritto, ma non adduce prove scientifiche a conforto della sua tesi, che cioè i tagli alla spesa pubblica tutto fanno meno che rilanciare l’economia.
Questa orgogliosa difesa del metodo scientifico merita il massimo rispetto. L’ammissione di aver sbagliato quindici anni orsono anche. Diamogli perciò man forte, e lasciamo perdere lo Zibaldone di Leopardi e l’ermeneutica di Gadamer: in un dibattito su cause ed effetti della crisi con gli economisti seri, scientifici, non possono avere spazio. Guido Rossi se ne faccia una ragione. Ma i dati che possiamo raccogliere negli ultimi tre anni: nemmeno quelli? Ha qualche valore la sfida lanciata da Skidelsky nel 2010, e la sua molto empirica disponibilità ad accettare che le politiche di austerity praticate dai governi europei confutassero le parole di Keynes contro l’efficacia dei tagli nel bel mezzo di una recessione? Quella confutazione, però, non è arrivata ed anzi le parole di John Maynard Keynes ne sono uscite, a quanto pare, corroborate. E adesso che facciamo? Togliamo di mezzo Leopardi e Gadamer: e poi? Ci prendiamo per caso altri quindici anni di sperimentazione sul corpo vivo della società, in attesa che qualcun altro, come il Sigalev dei «Demoni» di Dostoevskij, confessi di essersi imbrogliato con i dati? La domanda è pertinente, credo, anche al netto della citazione letteraria.
E soprattutto sposta l’attenzione sul punto politico. Perotti e Alesina hanno tutto l’agio di cui hanno bisogno gli studiosi per mettere a punto nuove metodologie statistiche, a prova di Guido Rossi o figuriamoci del sottoscritto: alla fine, dei moltiplicatori fiscali verranno a capo. Ma la politica dovrebbe invece portare subito, nel dibattito politico del Paese (e dell’Europa) le parole di Keynes, contro quegli spiriti semplici (o quegli «asini matricolati») che considerano scontati «i vantaggi del non spendere soldi», e perciò vanno giù di forbici. Se lo si fosse fatto nel 2010, se un arco di forze consistenti, in Italia e in Europa, avesse scelto il banco di prova indicato con forza da Skidelsky, non avremmo oggi una chiara indicazione sul futuro politico del continente? Se, invece del combinato disposto di severa austerity economica e sobrie e responsabili dirigenze tecnocratiche, si fosse scelta la strada di un conflitto politico chiaro sulle politiche europee, non ci si sarebbe trovati oggi molto più vicini al cambiamento di rotta tanto auspicato? E non ne avrebbe tratto giovamento anche lo slogan del «più Europa», che rimane invece inutile, oppure vuoto, finché viene declinato diversamente da francesi e spagnoli, tedeschi e italiani, senza trovare un comune terreno sul quale consolidarsi e offrirsi al giudizio dell’opinione pubblica? Si dirà, è il senno di poi. Ma quello di Skidelsky era il senno di prima. E, per la verità, siamo ancora prima delle elezioni europee del 2014, e di un nuovo ciclo politico che, forse, potrebbe ancora aprirsi.

l’Unità 16.5.13
La cultura non è una merce come il gelato
Finanziare il servizio pubblico con aiuti di Stato non è una forma di concorrenza sleale
Il rischio è che l'Italia abbia una posizione debole e sia difesa solo da alcuni ministri
di Enrico Menduni


L’«eccezione culturale», ormai lo sappiamo bene, è l'impostazione che nega che la libertà di commercio un dogma dei nostri tempi possa estendersi all'infinito, comprendendo anche la cultura.
Gli artefatti culturali (libri, audiovisivi, musica, opere d'arte) non sarebbero dunque da considerarsi una merce, o soltanto una merce, da scambiare e vendere senza frontiere al prezzo più basso per il consumatore, ma un elemento che identifica le culture nazionali ed è protetto dalla totale invasione dei prodotti dei mercati più forti perchè serve alla crescita (qualche volta alla sopravvivenza) di una comunità. Se invece si considerano tali prodotti soltanto generi dell'intrattenimento, come i gelati o le racchette da tennis, allora è applicabile il libero scambio, e presumibilmente le industrie più forti invaderanno i mercati minori, come avviene nel mercato
dei computer o delle automobili. Dal 1995 è stata costituita la Wto, acronimo anglosassone per la Organizzazione mondiale del commercio, che ha lo scopo di aprire grazie a complessi negoziati bilaterali tutti i mercati al libero scambio, abbattendo le barriere doganali, in nome del vantaggio del consumatore che troverebbe così la disponibilità di prodotti al prezzo più basso: anche se per andare al mercato dovrà fiancheggiare tante fabbriche vuote e chiuse perchè messe fuori mercato dai prodotti delle imprese di nazioni più forti. Una ideologia e un negoziato internazionale che si è ampiamente diffuso: l'Europa oggi cerca di resistere ma al suo interno il libero scambio è la regola.
Fin dall'inizio il Paese più acceso sostenitore del libero scambio sono stati gli Usa; i francesi da allora sono sostenitori e l'Italia li ha sostenuti della necessità di fare un'eccezione per la cultura. Grazie a questa eccezione, all'interno dell'Europa, ciascun Paese può finanziare il proprio servizio pubblico televisivo (la Rai, la televisione pubblica tedesca o polacca o, con minore successo, la Tv greca) in deroga alla liberalizzazione dei mercati e alla libera conoscenza. Finanziare il servizio pubblico con aiuti di Stato fa parte dell'eccezione culturale e non è una forma di concorrenza sleale come hanno sempre sostenuto i grandi network privati e i loro rappresentanti a Bruxelles. Ma l'Europa non è tutto il mondo e i mercati culturali più aggressivi sono oggi gli Stati Uniti e domani l'Asia.
Il problema arriva puntualmente adesso nel negoziato a Lussemburgo tra i ministri del Commercio estero dei Paesi europei e gli Stati Uniti, perchè si devono stabilire le aree oggetto dei negoziati di libero scambio. La Francia come sempre si oppone, altri Paesi sono più morbidi, l'Italia è tendenzialmente per l'eccezione culturale con alcune eccezioni: per esempio il ministro Emma Bonino. Gli Stati Uniti mettono sempre sul tavolo la quantità di posti di lavoro (si parla di 400 mila) che l'estensione del libero scambio porterebbe in Europa: argomenti molto concreti che assumono talvolta il tono del ricatto, ma oggi le esportazioni degli Usa per film e altri prodotti culturali verso l'Europa sono quasi 10 volte le esportazioni europee.
Il rischio è che l'Italia abbia una posizione debole, sfumata, dove la difesa dell'eccezione culturale è limitata agli operatori culturali o ad alcuni ministri, come il titolare dei Beni culturali Bray e altri (Antonio Catricalà) con il sostegno del presidente Napolitano. La Francia sarebbe lasciata sola per non pregiudicare le trattative commerciali con gli Usa, smentendo la posizione che fu del Governo Prodi nel 1996. Faremmo una brutta figura ma soprattutto sarebbe compromessa la sopravvivenza di un settore portante della nostra cultura, e della nostra industria, di fronte a quella americana. Un pessimo comportamento che siamo ancora in tempo ad evitare.

l’Unità 16.5.13
La nostra editoria moribonda
Non solo il calo delle vendite anche scelte improbabili o scorrette
Troppi titoli, sostituiti continuamente quando invenduti, con qualche best seller che recupera i conti
E una disparità esasperata nella visibilità tra i grandi gruppi e i piccoli editori
Tagli ingenti al personale, sparite alcune figure come i correttori di bozze... rimasti privilegiati i dirigenti
di Daniele Brolli


DISCLAIMER: NIENTE DI QUANTO LEGGERETE DI QUI ALLA FINE DI QUESTO PEZZO PUÒ SORPRENDERVI, PERCHÉ SIETE ITALIANI, potete però meravigliarvi che anche i libri, che dovrebbero essere portatori di un’etica legata alla cultura, siano strumenti di un complesso raggiro oggi giunto, forse, al capolinea.
Non siamo autorizzati a credere che abbia diritto alla sopravvivenza solo perché il suo ambito di pertinenza è la cultura. Del resto a volte l’estinzione è il metodo migliore per ridare fiato a un ecosistema. L’editoria libraria italiana è moribonda per tanti motivi, tra i quali ce ne sono alcuni oggettivi, altri che appartengono alla tipica furbetteria locale.
Intanto bisogna sgombrare il campo dall’idea che da noi con i libri ci lavori solo gente intelligente, colta e inappuntabile. Di intellettuali fané alla Calasso ne sono rimasti pochi, travasati da un passato che non esiste più. È il segno dei tempi, lo spirito manageriale ha preso il sopravvento, l’idea che con i soldi che circolano in casa editrice ci si possa fare anche altro non è una scoperta per nessuno: scatole cinesi con passaggi di denaro più o meno puliti che vedono nelle acquisizioni il loro cavallo di battaglia. Per fare un esempio non troppo lontano, appena dopo la metà degli anni Novanta esplodeva il bubbone delle perdite generate dal settore libri del gruppo Rcs, circa 800 miliardi di lire, una vicenda figlia di un sistema truffaldino che ci ricorda che politica e oligarchie finanziarie oggi possono tutto, specie trovare metodi «onesti» per rubare. Non è una novità.
Andando con ordine, è possibile elencare i fattori che hanno determinato la crisi dell’editoria libraria italiana oggi? Ecco alcuni punti, che forse non sono tutti ma sicuramente danno un’idea. Primo e di base: un taglio alla radice. Abbiamo una disincentivazione della lettura nella scolarizzazione, cresce l’analfabetismo di ritorno, cioè l’incapacità di comprensione minima di un testo, e, come una malattia endemica che sembrava debellata ma il cui virus covava nell’ombra, è riapparso l’analfabetismo vero. A scuola, fino a tutti gli anni Settanta, si trasmetteva il concetto che la cultura fosse la base di un’emancipazione sociale, dopodiché si è passato a urlare che lo sono i beni di consumo. Il progetto di una popolazione incapace di interpretare la sfera sociale in cui vive è il presupposto dell’affermarsi di ogni dittatura. E quelle dell’Occidente contemporaneo sono più raffinate che nel passato, hanno imparato a essere discrete: si ammantano d’invisibilità.A seguire: sempre meno fondi per le biblioteche e meno acquisizioni. D’altra parte se uno crepa e lascia i suoi volumi a una biblioteca, la metà viene buttata perché sono dei classici (e non c’è spazio per dieci copie de I fratelli Karamazov, per fare un esempio) gli altri creano grande imbarazzo perché vanno catalogati: se sono d’epoca pre-codice a barre il lavoro si allunga e non c’è sufficiente personale per farlo; quindi vengono messi nelle cantine. Ergo, le biblioteche dovrebbero assortire i libri regolarmente, ma il denaro scarseggia, oltre che spesso, per la stessa ragione, la carta igienica nei bagni, il che le accomuna alla scuola dell’obbligo.
La distribuzione in libreria è completamente in tilt: per anni i distributori e i librai sono stati costretti a veicolare per il 90% i libri dei grandi gruppi, con un sistema finanziario più spaventoso di quello dei future. Libri sostituiti continuamente quando invenduti con qualche best-seller che recuperava i conti: in periodo di crisi il meccanismo si è bloccato. E anche le catene librarie, che, a discapito soprattutto dell’editoria indipendente, non hanno mai tenuto nei negozi tutte le uscite ma solo un ristretto numero di titoli dei soliti noti per fare fatturato, oggi si trovano al palo. In epoca di crisi il lettore occasionale è il primo ad aver ceduto, mentre il lettore forte ha bisogno di un libraio esperto che sappia essere interlocutore delle sue passioni di lettura.
Gli strumenti nazionali di promozione del libro premiano chi è più scaltro (eufemismo): è quasi umoristico, oltre che emblematico, il caso del volume Rizzoli Fumetto! finanziato dal comitato dei 150° dell’Unità d’Italia: peccato che il fumetto nasca nel 1896 negli Stati Uniti e se vogliamo essere approssimativi in Italia appaia all’inizio del Novecento (e stendiamo un velo pietoso sul contenuto del volume, a cui incautamente, e pro bono, ha partecipato anche il sottoscritto). Ovvero, i soliti potentati editoriali, legati in linea diretta con quelli politici, si mettono d’accordo per sfruttare l’opportunità di far circolare del denaro pubblico in casse private. Al contrario un romanzo o un graphic novel prodotto qui da un piccolo editore investendo e rimettendoci del suo può essere tradotto da un altrettanto piccolo editore francese con il sostegno dell’Istituto del libro.
Rcs libri è stato fino a poco più di un anno fa, prima di riunirsi per questioni di costi nel palazzo Rizzoli di Crescenzago, in un palazzo sito in via Mecenate a Milano appartenuto nel periodo bello del così detto «collezionabile» (ovvero le enciclopedie a dispense e le grandi opere a rate) alla Fratelli Fabbri Editore. I piani erano grandi open-space in cui le aree erano suddivise soprattutto da grandi armadi/archivi di metallo. Frequentandoli per lavoro nel corso degli ultimi venti anni mi è capitato di vedere apparire sulla moquette progressivamente sempre più aree chiare: intere filiere della produzione sparivano, insieme agli armadi, fino a che gli ultimi sopravvissuti stavano rintanati negli angoli dei piani.
È un po’ la metafora del cambiamento dei processi editoriali: i primi a essersene andati sono stati appunto i fotocompositori, i personal computer li hanno resi obsoleti. Poi tutti i processi esternalizzabili, con i relativi lavoratori, dalla semplice correzione bozze alla redazione sono stati smantellati e affidati a service esterni. Naturalmente la qualità aveva già smesso di essere un problema da tempo, ma va riconosciuto che esistono anche service con competenze molto elevate. Ciò per spendere meno e, non secondario, mantenere i privilegi economici dei vertici aziendali, dirigenti che prendono stipendi paragonabili per esempio a quelli dei loro corrispondenti alla Fiat (perdonate il parallelo infelice e del tutto casuale...). Per quanto ci sia una rincorsa del taglio dei costi del lavoro altrui, il meccanismo si è accelerato così velocemente che tagliare non basta, non basterà mai. È una rincorsa impossibile. Come si fa, per ipotesi, a sostenere un direttore editoriale dei volumi economici che magari prende 150mila euro all’anno (un’iperbole? Anche se fossero la metà i conti non tornerebbero comunque) con volumi che vanno al pubblico a 10 o meno euro l’uno? Non ci vuole un economista per fare il calcolo.
È interessante vedere quante di queste persone hanno amicizie o parentele illustri, per cui occupano posti di rilievo al di là dei loro meriti effettivi e delle competenze maturate e in alcuni casi sorprende l’applicazione del passaggio ereditario degli incarichi da padre in figlio, o a da zio a nipote, e soprattutto la capacità cangiante per cui transitano dai posti di vertice di una casa editrice a quelli di un’altra non grazie a un processo di ricerca di dirigenti che funzionano, ma avendo spesso prodotto disastri e abbandonando la barca prima che la falla la faccia inclinare.
Per anni alcune grandi case editrici sono state finanziate dalle banche. Pagare gli interessi passivi è una voce debitoria che il libro sostiene difficilmente, ma non è mai stato un problema perché se ne occupava il politico di turno. Basta scorrere i cataloghi per capire chi sono o sono stati i politici che si sono adoperati affinché alcune case editrici ricevessero fidi e finanziamenti improbabili. Ho pensato che fare una storia dei volumi inutili scritti dai politici (e dei loro romanzi che sono la punta di diamante del pensiero debole e della scrittura insulsa) sarebbe forse un bel ritratto della degenerazione della coscienza collettiva e dell’utilizzo della lingua italiana, ma questa è un’altra storia. Poi magari è capitato che quel circolo vizioso del denaro: «ti faccio avere un fido, mi fai il libro e poi magari fai rientrare qualche soldo al partito sotto forma di finanziamento, non preoccuparti, non te li chiederanno mai indietro»; si sia spezzato e adesso quei soldi debbano rientrare. Nessun problema, si chiude la casa editrice, si lasciano i debiti a collaboratori, aventi diritto e tipografi e si riapre con un altro nome simile, così il lettore ci riconosce. Tanto una società a responsabilità limitata, ovvero «srl», in Italia permette questo e altro. Mentre il tipografo magari fallisce e il collaboratore oltre ad aver perso lavoro non ha i soldi con cui doveva vivere, l’editore in questione ha salvaguardato il suo patrimonio privato accumulato in anni di soldi facili e si può permettere di ricominciare a suo piacimento.

il Fatto 16.3.13
L’uomo che portò Beethoven a Kinshasa
di Beatrice Borromeo


QUANDO L’AEREO CHE PILOTAVA SI SCHIANTÒ, ARMAND DECISE CHE ERA TEMPO DI REALIZZARE IL SUO SOGNO: SENZA SOLDI NÉ STRUMENTI NÉ MAESTRI CREÒ LA PRIMA ORCHESTRA SINFONICA AFRICANA, L’UNICA AL MONDO FORMATA SOLO DA NERI

Kinshasa Il coraggio di provarci Armand Diangienda l’ha trovato tra i rottami di un aereo precipitato. E così da quello che in Congo succede troppo spesso – un incidente aereo – è nata un’idea. Che è diventata un esperimento. E che oggi raccoglie 200 congolesi nella prima orchestra sinfonica africana: l’unica composta da soli neri in tutto il mondo. Venerdi di due settimane fa Armand, con il frac nero e i pantaloni un po’ troppo lunghi, si è fatto strada tra i suoi musicisti, disposti a semicerchio, ed è stato accolto dal pubblico come una rockstar, coi piedi che battevano per terra e le mani tese in aria ad applaudirlo. Il palco, quello del Théâtre de verdure, è lo stesso dove quarant’anni fa si era esibito James Brown nei giorni dello storico incontro tra Muhammad Ali e George Foreman.
VIOLINI CON I CERCHIONI DELLE RUOTE
Ma a Kinshasa, capitale caotica e violenta della Repubblica democratica del Congo, bellezza e novità vanno cercate negli angoli. Così nella strada Tata Raphaël, la stessa dove Don King e il dittatore Mobutu organizzarono uno dei più memorabili combattimenti nella storia della boxe, oggi a indossare i guantoni è una schiera di donne che sogna le Olimpiadi. E nel teatro a cielo aperto, davanti a 3 mila persone, l’Inno alla gioia di Beethoven ha scalzato i ritmi gospel e blues della star americana.
“Quando abbiamo cominciato eravamo in dodici e avevamo solo sei violini. Suonavamo venti minuti a testa e ci davamo il cambio”, racconta Armand all’indomani del concerto. “Nessuno di noi era mai stato in contatto con la musica classica, ma avevo questo sogno: portare i grandi compositori nel cuore dell’Africa nera”, dice svelando quello spazio tra i denti per cui tutti lo conoscono, mentre, con la bacchetta da direttore d’orchestra ancora in mano, lancia occhiate severe ai ragazzi che solfeggiano.
Le probabilità che riuscisse, però, erano basse: senza soldi, né strumenti, né maestri, l’idea di raggruppare una comunità tramite la musica è rimasta per anni un pensiero accantonato. Dopo un periodo trascorso in Belgio, paese di cui il Congo fu colonia, Armand ha infatti studiato per diventare pilota. E anche per raggiungere quell’obiettivo la strada è stata in salita. Finiti i corsi, nel 1983, non è riuscito a prendere la licenza per volare su aerei di linea: “Non potevo permettermela. Ho fatto lavoretti fino al 1990, mettendo da parte i soldi per comprarla”. La vita da pilota a Kinshasa però non è durata molto. Dopo qualche mese di spola tra l’Angola e la Tanzania il suo aereo, un Fokker 27, si è schiantato: “È stato un puro caso che quel giorno non fossi a bordo. La compagnia aerea è fallita e io mi sono ritrovato ancora una volta senza lavoro. Ho pensato che fosse un segno, che invece di deprimermi dovevo sfruttare l’occasione per tentare quello che avevo sempre voluto: creare la mia orchestra”.
A rendere il sogno possibile è stato un amico d’infanzia, Albert Nlandu Matubanza, oggi manager dell’orchestra. Autodidatta come Armand, sapeva suonare vari strumenti e, soprattutto, aveva imparato a costruirli: “Ho dovuto smontare un violino e una viola per capire come fossero fatti, e non è una cosa che fai a cuor leggero quando ne hai solo un paio a disposizione”. I blocchi di legno da cui trarre le casse armoniche, i piroli per tendere le corde e pure i crini di cavallo per l’archetto li trovano nello sconfinato mercato di Kinshasa, a due passi dalla casa di Armand. E, quando mancano i pezzi, “usiamo la fantasia: anche dai cerchioni delle auto si può ricavare qualcosa di utile”. Altri musicisti, invece, hanno dovuto risparmiare per tre o quattro anni prima di poter comprare il loro strumento: “Alcuni di noi, alla fine, avevano il violino e non le scarpe”, raccontano.
Oggi dell’orchestra fanno parte più di 200 persone fra strumentisti e coristi. “Dovremmo allenarci tre volte a settimana, ma da anni, ormai, i ragazzi vengono tutti i giorni”, dice Armand. E non è così scontato, in un paese dove l’87 per cento della popolazione, nonostante le ricchissime risorse naturali (è il terzo produttore mondiale di diamanti), vive con meno di due dollari al giorno. Josephine Nsimba, col volto crucciato e le dita lunghe come candele che tengono stretto il violoncello, si alza ogni mattina alle 4 e mezza per vendere omelette al mercato. Un mestiere sempre più duro perché dal Brasile e dai Paesi Bassi arrivano uova a basso prezzo, e la competizione si fa sentire. Ancora oggi lavora fino alle 5 del pomeriggio, poi sale su una di quelle camionette gialle e blu che affollano la città, dove ci sono nove posti a sedere e si contano in media venti-venticinque persone, e raggiunge il capannone dove l’orchestra si esercita. Le pareti sono lastre di plastica verdi, sporche di terriccio e polvere. In quella cornice improvvisata, Josephine ha trovato la sua nuova vita, fatta di musica e di amore, quello per il manager Albert, con cui qualche anno fa si è sposata e che ha adottato suo figlio.
BARACCOPOLI E FLAUTI
Dopo Armand, però, il volto dell’orchestra è quello di Natalie Bahati, l’elegantissima flautista con le mani nodose e gli zigomi scavati nel viso magro. Lei che, con tunica e turbante viola, appare nella copertina di Kinshasa Symphony, il documentario dei giornalisti tedeschi Claus Wischmann e Martin Baer che racconta le tante storie di questi musicisti congolesi. Le telecamere seguono Natalie, decoratrice di matrimoni, tra i ghetti della capitale, alla ricerca di una casa dove vivere con il figlio: quella che si può permettere è una stanza lurida circondata d’immondizia, dove si arriva camminando sui rifiuti perché una strada non c’è. Poi mostrano Joseph Masunda Lutete, che alla sua professione di parrucchiere alterna quella di elettricista, fondamentale per l’orchestra, dato che il lampione che illumina gli spartiti si fulmina a giorni alterni (anche le casse, durante i concerti, saltano di continuo). E svelano gli sforzi dei coristi mentre provano ad azzeccare la pronuncia del Va Pensiero e quella, ancor più impossibile, del Freude schöner Götterfunken.
“Beethoven mi porta lontano, in lui ci sono ritmi africani”, dice Mireille con gli occhi chiusi. “La prima volta che ho preso in mano un violino morivo dalla voglia di farci qualcosa, di far uscire un suono. Ma ho rotto le corde”, ricorda Heritier, oggi primo violinista dell’orchestra Kimbanguista: nome, questo, che viene da Simon Kimbangu, nonno di Armand, considerato alla stregua di un profeta. “L’orchestra è nata in suo onore, e a tenerci insieme in tutti questi anni è stata la religione che ci ha insegnato lui”, racconta Armand.
TOURNÉE IN EUROPA
Un paio di settimane fa, Armand è stato nominato membro onorario della Royal Philarmonic Society di Londra. La sua orchestra è già volata in Europa, lo scorso aprile, per suonare nel Principato di Monaco: “Per la maggior parte dei ragazzi, era la prima volta su un aereo”. In autunno toccherà ai coristi, coi costumi colorati che si sono cuciti da soli, partire per una tourneé all’estero, anche se tra i sogni di Armand c’è quello di portare l’orchestra al completo nei grandi teatri europei: “Parigi, Vienna, La Scala di Milano... S’immagina che emozione per noi che abbiamo cominciato suonando nei parcheggi, chiedendo ai bambini che giocavano a pallone di fare silenzio? ”. Però “Bob Marley diceva che, quando hai quello che vuoi, poi vuoi subito di più. E allora il mio grande progetto diventa quello di aprire una scuola per i bambini di strada”, che solo a Kinshasa sono oltre 20 mila. E anche questa idea è già in cantiere: in un angolo del capannone un gruppo di ragazzini suona la danza ungherese n. 5 di Brahms, quella che accompagna Charlie Chaplin ne Il grande dittatore. “Sono i figli dei miei musicisti, non li trova eccezionali? ”. A Kinshasa anche il futuro si nasconde negli angoli.

La Stampa 16.5.13
Alla vigilia di Bloomsday in Irlanda si pubblicano dieci inediti di Joyce


Dieci piccoli racconti di James Joyce (1882-1941), scritti sei mesi dopo aver completato Ulisse, sono stati raccolti da una casa editrice irlandese, Ithys Press, con il titolo Finn’s Hotel e presentati come «l’ultima certa scoperta» dell’autore di Gente di Dublino . Abbozzati dallo scrittore irlandese nel 1923 e descritti dall’autore come «epiclets», ovvero «little epics», i pezzi seriocomici spaziano da fulminanti racconti a favole, precisa una nota di Ithys Press. L’editrice ha pubblicato la collezione inedita alla vigilia di Bloomsday, la festa annuale dedicata al capolavoro di Joyce, Ulisse , che si celebra il 16 giugno a Dublino. Si tratta di un’edizione a tiratura limitata, riservata ai bibliofili, disponibile nella versione lusso (2.500 euro) e numerata (350 euro). Sette racconti su dieci furono scoperti una ventina di anni fa, mentre altri tre sono tornati alla luce solo nel 2004. L’accademico irlandese Denis Rose, grande specialista di inediti di Joyce, aveva manifestato l’intenzione di pubblicare i sette racconti inediti già nel 1992 ma allora la fondazione che gestiva i diritti d’autore dello scrittore irlandese ingaggiò una battaglia legale che ne vietò la stampa.

l’Unità 16.5.13
Roma. Cinema contro l’autismo

Prima edizione dell’As Filmfest che si apre oggi al Maxxi di Roma. Un festival di cinema uguale agli altri, però diverso: ideato e organizzato da ragazzi con Sindrome di Asperger, una particolare forma di autismo. Saranno proiettati cortometraggi italiani, tra cui «Cargo» di Carlo Sironi, «Dreaming Apecar» di Dario Leone, «Il battimanista» di Roberto Cicogna, il pluripremiato «Matilde», di Vito Palmieri, ma anche corti realizzati da ragazzi con autismo, in animazione digitale o con assemblaggio fotografico.
Cagliari. Le foto dei «matti» di Marco Mostallino
«Voglio che tu cammini sulla mia verità"»è la mostra fotografica di Marco Mostallino, a cura di Raffaella Venturi, presso la libreria Miele amaro di Cagliari (via Manno 88, dalle 18,30). Il lavoro è un reportage tra i luoghi, gli oggetti e gli archivi dell'ex manicomio di Sassari. "«l Rizzeddu» l’ospedale psichiatrico di Sassari, è stato chiuso nel 1998. Ventuno scatti realizzato nel 2008, prima che la struttura venisse riconvertita in centro di salute mentale, fissano l’atmosfera di un luogo ultimo, dimenticato. Fino al 13 luglio.

Corriere 16.6.13
Il bene si sceglie a 10 mesi
Studio giapponese sull'empatia
Un bimbo a dieci mesi distingue bene e male (e sceglie il primo)
Riconosce e difende «la vittima»
di  Massimo Piattelli Palmarini

qui

Corriere Salute 16.6.13
Disagio mentale. A Milano l’esperimento di dieci pazienti psichiatrici
che stanno frequentando un corso per diventare facilitatori sociali«Così noi, persone emarginate, aiuteremo altri malati a curarsi»
di Ruggiero Corcella


Nel «giardino segreto» di viale Molise 5, in uno dei palazzoni di edilizia popolare costruiti a fine anni 30 nella periferia Sudest di Milano, due adolescenti parlano fitto fitto. Gli alberi incassati in mezzo al cemento riparano dal sole e ingentiliscono gli androni scuri, i balconi stipati di cianfrusaglie e le inferriate dei cancelli voluti dai condomini per proteggere lo sconfinato cortile, un tempo ambiente comune, da scorribande in moto e parcheggi selvaggi.
Michele l'artista, 40 anni, metà etiope e metà italiano come ama definirsi, passa davanti ai ragazzi, accenna un sorriso e piega leggermente a sinistra fino a una porta marrone. La porta è aperta. Lui spinge ed entra. Dietro, si aprono i locali del centro «Proviamociassieme».
Dal 2000, Casa della carità, Azienda ospedaliera Fatebenefratelli (Dipartimento Salute Mentale, con il Centro Psicosociale di zona) e Comune di Milano hanno messo in piedi questa "isola che non c'è" contro l'emarginazione dei malati mentali in un contesto già di per sè "ai margini". Le statistiche ufficiali parlano di 750 persone con disagio psichico, in carico ai servizi dei quartieri Molise-Calvairate, mentre in realtà sarebbero il doppio. Una concentrazione facilitata dal gran numero di monolocali che, dopo la legge Basaglia del '78 sulla chiusura dei manicomi, diventarono l'approdo quasi automatico per molti malati senza famiglia.
Il biliardino viene incontro a Michele con la consueta familiarità. Subito dopo, il distributore del caffè e i muri riempiti di quadri. I suoi quadri: coloratissimi e inquieti. «Quando dipingo non so esattamente cosa verrà fuori. Ho un'infinità di immagini nella mia testa ma fino a quando non escono da qui, dal cuore, sono carta straccia» spiega ispirato. Ha pure un blog (http://michelemiotto.altervista.org) tutto suo. Attorno al tavolo dove di solito si consumano chiacchiere e caffè tra pazienti e operatori, Michele parla con trasporto del grande salto che si appresta a compiere assieme a Patrizia, Salvatore e altri sette pazienti: diventare "facilitatori sociali" o in gergo tecnico esperti nel supporto tra pari.
«Vuole dire che io che ho problemi di salute mentale, con un bagaglio di esperienze di circa 20 anni, mi metto in gioco per aiutare altre persone che stanno male e non sanno cos'è la loro malattia mentale» spiega Michele. «Il facilitatore è un utente-non utente — aggiunge Patrizia, 52 anni, una vittima del mobbing, solare ed empatica —. È una persona che ne accompagna un'altra, spiegandogli il percorso. E lo può fare solo chi ci è già passato».
I mmaginano già la faccia perplessa e la domanda dei lettori: malati che aiutano altri malati? Sì, proprio così. Perché loro, meglio di chiunque altro possono avvicinare chi soffre e aiutarlo ad aprirsi. «Una persona che soffre di malattia mentale, qualsiasi essa sia, più acquisisce conoscenza e consapevolezza di quello che sta succedendo e più diventa padrone della sua vita. Questo è il modello che proponiamo — dice Maddalena Filippetti, responsabile e supervisore di Proviamociassieme per la Casa della carità — . È elementare, ma per la malattia mentale è difficile, perché la persona tende a rimuovere. Prima di curarsi ha tutto un travaglio: vergogna, paura, il non sapere proprio che cosa sta succedendo».
Ma non si creda che i futuri facilitatori sociali si inventino dal nulla. Stanno seguendo un corso di formazione di 300 ore, con tutoraggio, tirocinio ed esame finale. «Il corso è partito nell'ottobre del 2011 e si organizza su sette moduli — entra nel dettaglio Massimo Soldati, psicologo responsabile del Centro sempre per la Casa della carità —. Attualmente è stato appena concluso il quarto. È un percorso formativo molto intenso, con docenti esterni altamente qualificati che vengono a spiegare quali sono le tematiche della psichiatria, quindi le diagnosi, le questioni farmacologiche, la storia della psichiatria e anche come gestire una relazione di aiuto».
Michele, Patrizia e Salvatore concordano che il corso è servito loro prima di tutto per conoscere meglio la malattia di cui soffrono. E poi li ha trasformati in un gruppo affiatato. «Si è sviluppata tra noi una forma di solidarietà dovuta sia al fatto che frequentiamo il corso — puntualizza Salvatore, 57 anni, soprannominato "il professore" per il suo sapere e il modo forbito di esporre—, sia, per certi versi, che siamo tutte persone che si barcamenano ogni giorno con i propri problemi, cercando con un corso di aiutare gli altri. Avere persone che possano prenderti sotto braccio e magari realmente "capire", non perché hanno studiato ma perché hanno vissuto certe esperienze, può essere positivo». Non si nascondono le difficoltà, i facilitatori. Ma sono pronti a mettersi in gioco. Michele vorrebbe prestare la sua opera nella Casa della carità. Patrizia in un contesto più sanitario, dal momento che ha fatto l'ausiliaria in ospedale dall'età di 16 anni. Salvatore invece si vedrebbe meglio come «astante» in un Centro psicosociale, pronto a interagire con i pazienti. Oppure a sostenere quelli impegnati in progetti di residenzialità leggera, cioè i pazienti clinicamente stabilizzati che vanno a vivere in appartamenti gestiti da un'équipe multidisciplinare. Una sfida personale e anche un'opportunità di riscatto, per Michele e gli altri. Se poi fosse anche riconosciuto come lavoro...

Corriere Salute 16.6.13
«Proviamociassieme», fiore all'occhiello a rischio di chiusura per la spending review


In tredici anni, il progetto a sostegno dei pazienti pschiatrici di Milano è rinato dalle sue ceneri almeno tre volte. «Agli albori, nel 2000, c'è stato il progetto Molise-Calvairate per la salute mentale — ricorda lo psicologo Massimo Soldati —. Nel 2003 è ripartito come progetto "Proviamociancora" proprio per dire che c'erano state difficoltà ma volevamo riprovarci. Dal 2010 il progetto è diventato "Proviamociassieme" a testimonianza dell'evoluzione della filosofia del nostro intervento: abbiamo costruito delle relazioni e con queste anche noi operatori ci siamo messi a nostra volta in gioco, abbiamo avviato un percorso per cui gli utenti sono diventati assieme i gestori di questo luogo». La forza del progetto, nel quale lavorano quattro psicologi e un assistente sociale, è stata di partire dalle esigenze concrete dei pazienti. «Assieme alla Cooperativa sociale "Detto Fatto" siamo andati a casa delle persone: — dice Maddalena Filippetti, supervisore per la Casa della carità — vedere il degrado ambientale molto forte e proporre una soluzione è stata una formula vincente». Da lì, i pazienti hanno poi cominciato ad avvicinarsi anche al Centro e dai 10 dell'inizio oggi sono 90. In questi anni, «Proviamociassieme» è diventato un punto di riferimento nella zona e di incrocio di esperienze diverse. Nel 2010 è partito il progetto «Aquilone» di residenzialità leggera (vedi sopra, ndr) con cinque monolocali nella zona Molise-Calvairate e un appartamento in via Palestrina, gestito dalla Fondazione Aiutiamoli onlus. «Il Centro ha aiutato questi pazienti ad impadronirsi del territorio — aggiunge —. Alcuni partecipano al corso per facilitatori sociali. Sono nati il blog e la rivista "Avventura sociourbana", curati da loro e dagli operatori». C'è il rischio però che l'ottusa legge del risparmio provochi una nuova chiusura del Centro. Il progetto è finanziato dal Comune di Milano con 80 mila euro l'anno, attraverso una convenzione con il Fatebenefratelli che a sua volta si convenziona con Casa della carità e Cooperativa «Detto Fatto» per la gestione. Per la prima volta, la convenzione comunale è stata rinnovata solo fino al 30 giugno prossimo. Un segnale che rende inquieti gli operatori. «E c'è anche — dice Filippetti — l'intenzione dell'ospedale di procedere a gare di appalto, con il rischio di interrompere la continuità terapeutica, perché si stanno presentando cooperative del Sud a costi ridotti».

Corriere Salute 16.6.13
Ruolo che merita il riconoscimento professionale


«Avevo conosciuto il modello di Trento, quello del progetto Fareassieme e degli Utenti familiari esperti, e poi avevo seguito il progetto Facilitatori sociali di Saronno, in provincia di Varese, nel 2008. All'estero, in Inghilterra soprattutto, lo utilizzano molto nelle comunità», racconta Maddalena Filippetti della Casa della carità di Milano. Esperienze significative sul tema sono però state avviate fin dal 2000, a Massa Carrara in Toscana, e poi in Emilia Romagna, Piemonte e Liguria. In generale quella del facilitatore sociale è una figura professionale ancora in via di definizione in Italia, anche se in alcune regioni ha già ottenuto il riconoscimento formale con l'approvazione della relativa qualifica e l'attivazione di specifici corsi di formazione professionale. Del progetto «Proviamociassieme» e del corso per facilitatori sociali si parlerà a Milano il 19 giugno prossimo, dalle 9.30 alle 13, nell'incontro pubblico dal titolo «Una storia partecipata», organizzato alla Fondazione Casa della Carità (via Francesco Brambilla 10). Verrà inoltre proiettato il video «Progetto Proviamociassieme» realizzato dagli operatori e dagli utenti del progetto stesso. Si terrà poi una tavola rotonda con interventi di rappresentanti del Dipartimento di salute mentale dell'Azienda ospedaliera Fatebenefratelli e del Comune di Milano.

Corriere La Lettura 16.6.13
Il negazionismo di Stato
Ecco perché è sbagliato fare una legge sui genocidi
di Marcello Flores


Siena: specialisti a congresso
Dal 19 al 22 giugno si tiene all'Università di Siena
il 10° congresso della International association of genocide scholars (Iags). Il tema è «The Aftermath of Genocide: Victims and Perpetrators, Representations and Interpretations» (Le conseguenze dei genocidi: vittime e carnefici, rappresentazioni e interpretazioni), con oltre 200 studiosi da tutto il mondo. Interverrà Adama Dieng, special advisor per le Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio. Le lezioni magistrali verranno tenute dallo storico Jay Winter e da Nur Kholis, commissario per i diritti umani in Indonesia. Il presidente della Iags è Alexander Hinton, antropologo, direttore del Center for the study of genocide and human rights (Cghr) presso la Rutgers University (New Jersey). Il sito della Iags è: http://www.genocidescholars.org/
In Cambogia Youk Chhang, qui interpellato sul genocidio perpetrato dai Khmer rossi, è direttore del Dc-Cam, il Centro di documentazione fondato in Cambogia nel 1995. Il sito web è: http://www.dccam.org/

Nel 2007 circa duecento storici italiani si mobilitarono contro il disegno di legge Mastella che intendeva punire la negazione della Shoah, seguendo una decisione quadro del Consiglio dell'Unione Europea che si muoveva nella stessa direzione. La legge venne riformulata evitando ogni riferimento al negazionismo e inasprendo le pene per chi diffonde idee razziste.
Nel 2012 era stato presentato un ddl che riproponeva la questione della negazione della Shoah e dei genocidi e che adesso, nella nuova legislatura, è stato ripresentato come primi firmatari da Silvana Amati del Pd e da Lucio Malan del Pdl, e firmato da cento deputati di ogni gruppo, compreso il M5S, con l'esclusione della Lega. L'agenzia di stampa «Asca», nel dare la notizia, sostiene che il ddl si prefigge «di punire le nuove forme di negazionismo dell'Olocausto e dei crimini contro l'umanità, perpetrate anche attraverso i nuovi media» e così ha ribadito in più occasioni la senatrice Amati.
Prima di riprendere il tema assai serio e complesso delle leggi antinegazioniste — su cui in Francia vi è da anni una battaglia della maggior parte degli storici e che anche in Italia ha visto questa categoria esprimersi in modo nettamente contrario — bisognerebbe leggere per esteso cosa propone il ddl di Modifica all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, ora riproposto. Si tratta, infatti, di un nuovo comma che punisce «con la reclusione fino a tre anni chiunque, con comportamenti idonei a turbare l'ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232, e dei crimini definiti dall'articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945, ovvero nega la realtà, la dimensione o il carattere genocida degli stessi».
Si tratta di un testo — diversamente dalle leggi antinegazioniste di Germania, Francia e altri Paesi — che è ambiguo come la maggior parte delle nostre leggi, soggette sempre a una battaglia di interpretazioni che permette sovente disparità anche grande di giudizi e comportamenti dentro la stessa magistratura. A parte il rapporto (necessario?) tra il turbamento dell'ordine pubblico o l'offesa con l'apologia di reati (tra cui, l'articolo 7 dello statuto della Corte che prevede anche la tortura, reato ancora non presente nel nostro ordinamento) che già rientrano in quelli esistenti e relativi al razzismo, la «negazione» riguarderebbe la realtà, la dimensione o il carattere genocida.
Quali sono i genocidi riconosciuti come tali? Esiste un dibattito che dura da decenni e che vede divisi giuristi e storici: come bisognerà comportarsi? Per Srebrenica una Corte internazionale ha stabilito trattarsi di genocidio (con contraddizioni palesi riguardo alla responsabilità dei serbi) ma molti giuristi ritengono fosse solo un crimine contro l'umanità. In Cambogia lo è stato o no? Il genocidio degli armeni (al di là della definizione) ha riguardato un milione o un milione e mezzo di persone? E i crimini di guerra e contro l'umanità che nessun tribunale ha stabilito tali o sanzionato (i crimini del Gulag; i crimini del Regio esercito italiano prima dell'8 settembre 1943 in Africa, nei Balcani, in Russia; i crimini che hanno costellato il XX secolo quasi in ogni luogo e sotto ogni ideologia) saranno presi in considerazione? E verso chi scatterà la denuncia? Verso tifosi razzisti? Verso ignoranti che ripetono stereotipi menzogneri e fasulli? Verso docenti che fanno studiare Mein Kampf? Verso i siti neonazisti e razzisti di cui è pieno il web?
Il ddl prevedrebbe anche, secondo l'agenzia «Asca», la pena non solo per l'apologia o la negazione, ma anche per la «minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra». Anche in questo caso fanno testo soltanto le decisioni dei tribunali? Cosa facciamo dei libri non solo che negano i genocidi (non solo la Shoah, ma anche gli scritti negazionisti sulla Cambogia o sul Ruanda, ad esempio, che hanno visto in prima fila personalità come Noam Chomsky e altri «democratici») ma che li ignorano (e quindi minimizzano) come una gran parte dei libri di storia contemporanea?
Nel congresso degli studiosi di genocidio che si tenne a Buenos Aires nel 2011 questo tema fu affrontato a lungo e con posizioni diverse e contraddittorie; e anche nel congresso successivo, che si aprirà il 19 giugno a Siena vi saranno almeno due panel destinati a discutere, con punti di vista divergenti, queste «leggi della memoria» e l'atteggiamento degli Stati nei loro confronti.
La questione, a mio avviso, si pone molto semplicemente: una legge simile favorisce la diminuzione degli atteggiamenti razzisti che sono spesso presenti nei discorsi negazionisti e minimizzanti? Assolutamente no, perché sarà usata — forse — in pochi casi esemplari che daranno risonanza e rischieranno di far passare per vittime o eroi della libertà di espressione coloro che li avranno pronunciati. Ma nello stesso tempo segneranno un pericoloso passo verso l'idea di verità storiche di Stato, stabilite per legge e garantite dalla magistratura, invece che dal dibattito aperto, dalla formazione di una coscienza collettiva civile e storica e dall'educazione permanente.
Se il Parlamento si impegnasse davvero a compiere alcuni passi per rendere più facile raggiungere gli obiettivi che si prefigge con questo ddl (l'introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento e la creazione, come richiestoci da tempo dalle istituzioni internazionali, di un'agenzia indipendente sui diritti umani, affondata in extremis da forze trasversali nell'ultima legislatura; programmi educativi e formativi efficaci; produzione di film, spettacoli e programmi tv in cui la storia sia degnamente rappresentata, mentre si chiude ad esempio La Storia siamo noi) questo vorrebbe dire chiamare a raccolta la società civile in una battaglia che solo essa può riuscire a vincere in nome di tutti. Non è la minaccia di una repressione che difficilmente ci sarà (e che rischia di essere pericolosa per la libertà d'espressione e di ricerca) a risolvere un problema di cultura, di educazione, di coscienza. I deputati e senatori, forse, invece di tacitare le proprie coscienze in un'unanimistica approvazione di un testo ambiguo, poco applicabile e pericoloso, dovrebbero chiedersi come mai le leggi esistenti contro la propagazione e l'apologia di odio razziale siano da noi così platealmente ignorate e perché molto spesso la magistratura ne ignori l'applicazione o trovi difficile eseguirla.
Il razzismo si sconfigge con l'educazione e la cultura; e con le leggi che già esistono e sono purtroppo raramente utilizzate.

Corriere La Lettura 16.6.13
Orgoglio Joyce, sì Ma non è soltanto una pinta di birra
di John McCourt

La festa carnevalesca e laica, nota oggi come Bloomsday, nacque, quasi clandestinamente, a Dublino il 16 giugno 1954 in occasione del cinquantesimo anniversario dall'ambientazione dell'Ulisse, che si svolge appunto in un'unica giornata, in un'Irlanda ancora incerta se abbracciare o rinunciare a uno scrittore così controverso. Un certo Flann O'Brien, allora negletto romanziere (oggi considerato parte della triade dei grandi modernisti irlandesi con Joyce e Beckett e per questo al centro del convegno internazionale che si terrà all'Università Roma Tre dal 19 al 21 giugno) fu uno degli ideatori delle prime celebrazioni dublinesi. Grande ammiratore di Joyce, O'Brien, come molti altri, soffriva nell'ombra, preoccupato che Joyce avesse già detto tutto. Si inquietava per il culto di cui Joyce era già oggetto e allo stesso tempo lo turbava il fatto che erano stati in pochi a leggere i suoi romanzi. Più che con Joyce, O'Brien ce l'aveva con il crescente gruppo di studiosi americani che, dal suo punto di vista, avevano invaso Dublino. Questa invasione globale dell'Hibernian Metropolis continua ancora oggi e Joyce è diventato anche un prodotto da esportazione. È divertente pensare che questo scrittore solitario e difficile oggi attragga folle di persone ansiose di celebrare il suo Ulisse bevendo fiumi di Guinness (che egli, come il protagonista del romanzo, Leopold Bloom, non consumò mai), convinte di rendergli omaggio. Cosa penserebbe O'Brien delle odierne celebrazioni joyciane che si svolgono in moltissime città del mondo? E cosa ne dovremmo pensare noi? Un rischio c'è, ed è grosso: che il personaggio Joyce venga sfruttato per ragioni commerciali che nulla hanno a che fare con la letteratura, e che Joyce diventi un vacuo simbolo del contemporaneo, in sostituzione dell'ormai defunto Lucky Leprechaun, che per anni ha rappresentato l'Irlanda nel mondo. Ancora più c'è da chiedersi se questo Joyce pride porti davvero i lettori a confrontarsi con i difficili e scomodi testi joyciani. Non c'è forse il pericolo che, festeggiando Joyce in modo divertente e popolare, si possano svuotare le sue opere del loro potenziale rivoluzionario? Perché l'Ulisse, fra le altre cose, è anche una grande opera comica che demolisce in un solo colpo il romanzo tradizionale, restituisce vitalità alla lingua inglese, offre spunti e spazi di meditazione e incita il lettore a riflettere su se stesso e sul mondo, su quel che vi è in esso di privato e di pubblico e sull'intreccio che li collega. I diciotto episodi dell'Ulisse, anche con l'aiuto di una critica sveglia e non robotizzata, ci aiutano a porre delle domande rilevanti, come per esempio: cos'è una nazione? Cos'è l'Europa? Cosa significa la religione nel mondo moderno? Come capire la sessualità umana? Come sopravvivere dopo la morte delle grandi ideologie, e con cosa sostituire le loro narrazioni ormai vuote? Divertiamoci pure con questo Global Joyce, ma non esauriamo il nostro contatto con un eccezionale scrittore nello spazio/tempo di una pinta di Guinness e tentiamo di non negargli, voltando subito lo sguardo altrove, la capacità di offrire, attraverso le sue opere, uno specchio impietoso della società.

John McCourt insegna all'Università Roma Tre. È presidente del Comitato scientifico della Trieste Joyce School, dell'Università degli Studi di Trieste, che ha luogo dal 30 giugno al 6 luglio: http://www2.units.it/triestejoyce/

Corriere La Lettura 16.6.13
Marxisti? No, giacobini creativi
di Marilisa Palumbo


Sul suo profilo Twitter — «non il miglior barometro del mio pensiero», dice con un sorriso insieme timido e ironico — si definisce il «Don King del marxismo occidentale». Non male il paragone col leggendario manager di pugilato per Bhaskar Sunkara, 23enne figlio di immigrati indiani che con la sua rivista politica ultra-radical, «Jacobin», ha attirato l'attenzione del «New York Times» e superato per diffusione testate storiche della sinistra a sinistra del Partito democratico come «Dissent».
Lo incontriamo a New York, giacca e t-shirt nere, al Black Swan, un pub all'incrocio tra Bedford Avenue e Lafayette, dove Brooklyn non è ancora il regno degli hipster («ma ci stiamo arrivando, tempo 4 o 5 anni»). Più che del milieu culturale del quartiere-rifugio dei giovani creativi in cui sono nate riviste come «The New Inquiry», «Triple Canopy» e il loro fratello maggiore «N+1», Sunkara si sente figlio, dice, dell'«età di Internet». È in Rete, nei lunghi mesi del 2009 in cui una malattia lo costringe a sospendere gli studi alla George Washington University, che incontra un gruppo di persone come lui insofferenti nei confronti della sinistra tradizionale. «In quel periodo — racconta — leggevo moltissimo, cosa che non avevo mai potuto fare prima: ho sempre lavorato per pagarmi gli studi».
Da quelle letture e da quegli scambi nasce, nel 2010, l'idea di un magazine online: «Facevo tutto io, dall'editing al web design». Non un grande successo, all'inizio. Ma Bhaskar insiste, investe i suoi risparmi, stampa un trimestrale («una scelta tattica, quella della carta: ci ha fatto guadagnare visibilità e prestigio») e alla fine, complice il dibattito culturale accesosi attorno a Occupy Wall Street, che «Jacobin» cavalca, il vento cambia. Gli abbonamenti crescono (sono oltre tremila oggi) e il sito arriva a 250 mila visitatori unici al mese. Un successo decretato dai millennials.
Ma che cosa spinge la generazione post-ideologica a sfogliare una rivista marxista? «Siamo cresciuti dopo la caduta del Muro, non associamo il socialismo al totalitarismo. E il capitalismo non ci offre più una visione del futuro». La sinistra, secondo Bhaskar, con la sua tendenza alla frammentazione e all'auto-emarginazione, non riesce a costruire un cambiamento politico su quello culturale che attraversa la società: «Anche Occupy, che pure ha avuto il merito di politicizzare parte di una generazione, è un movimento relativamente piccolo e auto-compiaciuto». Radicale ma pragmatico, Sunkara vuole invece parlare a un pubblico più ampio. «Guarda questa doppia pagina — dice aprendo l'ultimo numero, il decimo, di "Jacobin" — sembra "Businessweek"».
La grafica, opera di Remeike Forbes, ventiduenne di origini giamaicane, un diploma alla Rhode Island School of Design, è semplice ed elegante. «Voglio che "Jacobin" sia una rivista mainstream — spiega il suo inventore — non nel contenuto, certo, ma nella confezione. Voglio essere professionale». Sunkara non percepisce uno stipendio, ma paga i suoi autori. «Anche gli stagisti, 15 dollari l'ora», precisa orgoglioso. I progetti in cantiere sono tanti, compresa una serie di libri per la casa editrice Verso. E da pochi giorni addio alle riunioni nei bar: «Jacobin» ha una vera redazione, a pochi passi da qui.

Corriere La Lettura 16.6.13
Così Giotto «copiò» gli egizi
I restauratori dei Musei Vaticani hanno studiato i sarcofagi
La tecnica della pittura su tavola non è mai cambiata in duemila anni
di Lauretta Colonnelli


Giotto «copiava» i pittori vissuti al tempo dei faraoni. La tecnica dei suoi dipinti su tavola è identica a quella usata dagli artisti che nel primo millennio avanti Cristo decoravano i sarcofagi in legno realizzati sulle rive del Nilo per accompagnare nell'aldilà i corpi dei sacerdoti di Amon. Come è possibile? Si sapeva che le conoscenze degli egizi erano passate ai greci e poi ai romani. Ma non c'erano prove che quelle conoscenze fossero arrivate praticamente intatte fino alle botteghe del Medioevo. Eppure il procedimento era lo stesso: si stendeva con le mani sul supporto ligneo un fondo composto da argilla e gomma arabica, si passava con il pennello una mano di colore a base di orpimento (giallo d'arsenico) per garantire l'effetto della doratura, si tracciava il disegno preparatorio con la sanguigna, si eseguivano le campiture di colore con pigmenti minerali e leganti vegetali, infine si copriva tutto con una vernice trasparente per proteggere il dipinto.
Perfino il significato simbolico dei fondi in oro era stato tramandato lungo i secoli: aveva la funzione, sia nell'antico Egitto sia nell'Europa del Medioevo, di divinizzare le immagini. Se i pittori cristiani raffiguravano con i volti circonfusi d'oro la divinità e i santi della Chiesa, quelli egizi avvolgevano in un alone dorato il corpo del defunto ritratto sul coperchio del sarcofago e ne illuminavano di giallo le mani e il volto per trasformarlo in un dio e avviarne il processo di rigenerazione.
La prova del legame tra Giotto e gli artisti di tremila anni fa arriva adesso dal laboratorio di diagnostica dei Musei Vaticani, dove la pittura dei sarcofagi è stata analizzata e ha rivelato una stratigrafia identica a quella della pittura su una tavola del Trecento. «Le immagini di queste stratigrafie, messe a confronto, sembrano due copie della stessa fotografia», conferma Ulderico Santamaria, direttore del laboratorio. Del modo di dipingere su tavola al tempo di Giotto è rimasta la testimonianza di Cennino Cennini, che a cavallo fra Trecento e Quattrocento scrisse Il libro dell'arte, ancora oggi il più famoso trattato sulle tecniche artistiche che ci sia stato tramandato. Cennini, che celebra Giotto come il maestro che «rimutò l'arte del dipingere dal grecho in latino e ridusse al moderno», descrive per la prima volta le tecniche di esecuzione fino allora probabilmente tramandate di bottega in bottega: dalla tavola preparata con uno strato di gesso alla finitura con la vernice trasparente. «Ora — ribadisce Santamaria — abbiamo trovato nella pittura dei sarcofagi il riscontro di queste tecniche teorizzate all'interno delle corporazioni medievali».
Le recenti scoperte sulla tecnica pittorica dei sarcofagi verranno presentate alla First Vatican Coffin Conference, ai Musei Vaticani dal 19 al 22 giugno, davanti a centocinquanta egittologi provenienti da tutto il mondo. La conferenza segna la prima tappa del Vatican Coffin Project, avviato nel 2008 e diretto da Alessia Amenta, che cura il Reparto antichità egizie dei musei del Papa. Scopo del progetto a cui hanno aderito anche il Louvre di Parigi e il Rijksmuseum van Oudheden di Leida: studiare i sarcofagi lignei policromi del cosiddetto terzo periodo intermedio (1070-712 a.C.). «Fino a oggi non si conosceva in maniera approfondita la tecnica della pittura egizia su legno», racconta Amenta. «L'idea della ricerca è nata quasi per caso, mentre ci apprestavamo ad affrontare una campagna di restauro dei ventitré sarcofagi custoditi in Vaticano. Si tratta di veri e propri capolavori di pittura su tavola: raffinati nel dettaglio, eleganti nella composizione e nella scelta cromatica, complessi nella scelta iconografica». Il lavoro è iniziato sui sarcofagi di cui si avevano maggiori notizie: i cinque provenienti dal nascondiglio di Bab el-Gasus (la porta dei sacerdoti) a Luxor. Il 5 febbraio 1891, il francese Eugène Grébaut e il suo assistente Georges Daressy trovarono l'ingresso di una tomba ancora sigillata, dove erano stati nascosti, perché si salvassero dai saccheggi, 153 sarcofagi lignei, appartenenti ai sacerdoti di Amon vissuti durante la XXI dinastia (primo millennio a.C.). In soli nove giorni la tomba fu svuotata, i sarcofagi caricati su imbarcazioni e spediti sul Nilo verso il Cairo. Ma il museo della città non era in grado di ospitare una così grande quantità di reperti, arrivati tutti insieme. Il governo egiziano decise perciò di donare ai diciassette Paesi che avevano partecipato alla festa per l'incoronazione del nuovo Khedivè altrettanti lotti di sarcofagi. Il Vaticano ricevette il lotto numero 17. Un'altra parte dei ritrovamenti fu destinata al mercato antiquario. Oggi queste opere sono disperse in almeno trenta musei del mondo.
Ricorda Amenta che i sarcofagi di Bab el-Gasus appaiono particolarmente ricchi di decorazioni perché appartengono al momento storico che segue il cosiddetto Nuovo Regno (1550-1070 a.C.), quello in cui il faraone Ramesse II aveva trasformato il Paese nella superpotenza del Vicino Oriente. Al tempo di Ramesse II anche le tombe erano dipinte magnificamente. La gravissima crisi economica che incombeva sull'Egitto all'inizio del primo millennio a.C. non permetteva più simili lussi. Le tombe diventarono di tipo familiare, l'apparato decorativo fu ridotto e trasferito dalle pareti della sepoltura alle superfici sia esterne che interne dei sarcofagi in legno, che oggi rappresentano «un dizionario enciclopedico della religione egizia», secondo la definizione dell'archeologo Gaston Maspero. Ma chi realizzava questi oggetti? Come era organizzato il lavoro degli artigiani coinvolti? C'era un maestro pittore? C'erano delle botteghe? E dove? Chi sceglieva l'apparato testuale e quello iconografico? Dove si acquistavano i pigmenti? Come ci si procurava il legno in una regione dove gli alberi hanno sempre scarseggiato? I ricercatori del Progetto Vaticano stanno inseguendo le risposte. Sono convinti che i sarcofagi racchiudano una miniera enorme di informazioni.
Alcune sono già venute alla luce. Il legno usato era di fico sicomoro, acacia nilotica, tamerice: piante locali che fornivano assi lunghe e molto leggere. I falegnami cercavano di non sprecarle, recuperando anche i frammenti, utilizzati spesso per realizzare gli ushabti, le statuine dei servitori rinvenute nei corredi funebri. Santamaria, con l'aiuto di Fabio Morresi, ha scoperto che l'effetto dorato dei sarcofagi dei sacerdoti era talvolta ulteriormente accentuato dalla presenza di pigmento giallo nella vernice. Si tratta di polveri minerali come l'orpimento (tra l'altro usato in abbondanza anche da Giotto) e impiegato dai pittori egizi per le mani e il volto dei sarcofagi a imitazione della pelle dorata degli dei. Lo studioso ha infine riprodotto nei laboratori dell'Università della Tuscia, a Viterbo, un campione del leggendario blu egizio, profondo e luminoso come nessun altro. Anche la ricetta di questo pigmento, prodotto artificialmente dagli artisti dei faraoni, era stata tramandata attraverso greci, etruschi e romani fino a Giotto. Il blu egizio scomparve a partire da Masolino e Masaccio, sostituito dai più banali blu smalto e azzurrite e dal prezioso blu lapislazzuli. Nei secoli successivi si cercò invano di ricrearne la formula esatta.