martedì 18 giugno 2013

Comunismo e anti-comunismo
Non amiamo certo Travaglio, ma certo Prospero non è meglio
Per lui attaccare Togliatti è male: puro anticomunismo...
l’Unità 18.6.13
In difesa di Beppe, Travaglio torna all’anticomunismo
Per amore dei Cinquestelle il vicedirettore del Fatto rispolvera un repertorio
da guerra fredda pure su Togliatti, che «i dissidenti li lasciava crepare nei gulag»
Chi lo critica è un falsario Il leader del Pci un uomo pronto «a perseguitare e ammazzare in Spagna»
di Michele Prospero


Non è bello vedere Travaglio così nervoso. Sentendosi ferito, nel suo punto più debole, si arrabbia di brutto e quindi per coprirsi spara a raffica. Con il tipico repertorio metaforico e politico di un uomo di destra, si rivolge a chi lo critica con queste formule: attaccando me, Prospero «si guadagna la pagnotta». Che raffinatezza, ragazzi. Travaglio vede solo una contropartita in denaro dietro ogni mossa. Si dà il caso però che la pagnotta uno se la guadagni in altro modo, e quindi stia pure tranquillo Travaglio: se uno lo critica, non lo fa certo per il pane. Se ne faccia una ragione.
Quanto al «volgare falsario», basta, per ripristinare il vero, riprodurre per esteso le frasi che Travaglio ha scritto di suo pugno e ora d’un colpo ritratta: «Chi non vi è portato, come la furbona che ha scoperto improvvisamente che il guaio di 5 Stelle è Grillo, o quell’altro genio che s’è iscritto al M5S per andare dalla D’Urso o i dissidenti sul nobile ideale della diaria, va semplicemente ignorato, o liquidato con una battuta, o affidato a un collegio dei probiviri che faccia rispettare le regole». Dov’è dunque la falsificazione? Irritato Travaglio nega ora anche di aver criticato il Parlamento. Basta però rileggerlo: «I capigruppo convochino iniziative di piazza per spiegare le porcate che scoprono in quell’ente inutile che ormai è il parlamento». Ente inutile, parole vergognose, ma sono le sue.
I giornali che non gli piacciono non meritano alcun rispetto. E quindi l’Unità per lui non è un foglio libero perché è un «giornale di partito». Eccola finalmente pronunciata l’altra parola terribile. La semplice espressione partito per Travaglio equivale infatti a un insulto. E dei peggiori. Cui segue a ruota un secondo affondo: è «un giornaletto». In tutte le cose non andate per il verso giusto, dalla chiusura dell’Unità alla bicamerale, Travaglio vede lo zampino degli «amici di Prospero». Troppa grazia, conduco una vita molto, molto appartata.
Ma il meglio di sé Travaglio lo dà ancora una volta su Togliatti. Mi chiama, con intenzione offensiva, «Palmiro Prospero» che «di recente ha additato al Pd come modello da seguire non Enrico Berlinguer, ma Palmiro Togliatti». E quando avrei contrapposto i due leader del comunismo italiano? Il discorso, si sa, è complesso. Ma Travaglio lo risolve alla sbrigativa e crede lecito separare un Berlinguer buono, letto alla sua maniera però (cioè come una sorta di padre nobile del giustizialismo), da un Togliatti cattivo, molto cattivo. Ma questa sua immagine è un oltraggio alla grande cultura politica di Berlinguer, rimasto sempre fedele non solo a Togliatti ma anche, se è per questo, a Lenin e alla vicenda storica e ideale del comunismo.
Ma mentre su un Berlinguer moralizzatore, l’anticomunista all’antica Travaglio transige, spacciandolo anzi per una sorta di produttore di Servizio Pubblico, su Togliatti va giù feroce. Il leader del Pci è per lui solo uno che «i dissidenti li lasciava crepare nel gulag», pronto a «perseguitare e ad ammazzare in Spagna». Repertorio cabarettistico da anni 50, che urta contro tutte le acquisizioni storiografiche, unanimi nel valorizzare, anche nell’esperienza spagnola, un Togliatti che opera nella tragedia come elemento di moderazione. Proprio in quei giorni mette a punto l’obiettivo di «una democrazia di tipo nuovo» (che dice no alla rivoluzione e alla conquista del potere, no alla collettivizzazione e alla persecuzione della Chiesa, e sì al ripristino immediato della vita religiosa) che tanta strada farà al suo rientro in Italia.
Il bello è che Travaglio scolpisce nel suo editoriale quale sua linea politica ispiratrice una semplice parola: la Costituzione. Che fa Travaglio, adesso, prende a modello proprio un documento che ha avuto per suo padre ispiratore, insieme a pochi altri, proprio il terribile Togliatti? Anche lui adesso è un «Palmiro Travaglio» con gli scarponi chiodati?

L’articolo di Travaglio che Prospero attacca è qui...

il Fatto 17.6.13
Palmiro Prospero, maestro di libertà
di Marco Travaglio


Un volgare articolo di Michele Prospero sulla fu Unità, intitolato “Travaglio, il 'giornalismo servo' contro i ribelli M5S”, ci dà l'occasione per fare il punto sul Fatto Quotidiano e sullo stato dell'informazione e del potere in Italia. Fin da quando siamo nati, a chi ci domandava quale fosse la nostra “linea politica”, abbiamo risposto: la Costituzione. In un sistema informativo disegnato a immagine e somiglianza di quello politico-partitico, fu come bestemmiare in Chiesa. Non avendo altro padrone che i lettori, il Fatto risponde soltanto a loro e alla coscienza dei suoi giornalisti. Per questo non ha mai taciuto una notizia, anzi ne ha date molte che gli altri tacevano. Ha preso e prende posizione, certo, ci mancherebbe: la sua posizione, non quella di altri, che non ha il piacere di conoscere. Abbiamo le nostre idee, ben chiare e radicate, e in base a quelle giudichiamo ciò che accade. Chi fa proprie le nostre posizioni e battaglie ci piace. Chi va in altre direzioni non ci piace. La nostra intransigenza sulla legalità (non solo penale, ma anche costituzionale e contro tutti i conflitti d'interessi) e sul rinnovamento della politica ci ha portati ad apprezzare molte battaglie prima di Di Pietro, poi di Ingroia e del Movimento di Grillo. Ma anche a rimpiangere lo spirito dell'Ulivo modello 1996, poi tradito dai partiti che avrebbero dovuto farsene portavoce. E a sostenere i cani sciolti del Pd e i movimenti di base tipo OccupyPd che contestano l'inciucismo dei vertici. Questo non ci ha impedito di criticare le sciagurate scelte di classe dirigente da parte di Di Pietro, la frettolosa e improvvisata entrata in politica di Ingroia, certe sparate di Grillo con annesso deficit di democrazia interna al M5S.
Anche a destra, quando si muoveva qualcosa di interessante, tipo il coraggioso distacco di Fini e dei suoi dalla Banda B., l'abbiamo guardato con simpatia (Flavia Perina scrive spesso sul Fatto), senza però rinunciare a denunciare il grumo di interessi che, al netto delle calunnie berlusconiane, si celava dietro il “caso Montecarlo”. Siamo fatti così: non più bravi degli altri, solo più fortunati perchè più liberi. Quando sbagliamo, lo facciamo da soli, non per conto terzi. E, quando ci alziamo la mattina, non sappiamo mai a chi daremo ragione o torto: dipende da quel che succede. Purtroppo sono pochi i giornali e le tv che possono dire onestamente altrettanto. Il nostro sistema mediatico ricorda il feudalesimo: il tal giornale fa gli interessi di questo o quel partito perchè gli appartiene o ne riceve fondi pubblici; o fa il gioco della tal banca o azienda o lobby ben accomodata nella stanza dell'editore, ovviamente impuro.
Se qualcuno, restando serio, può
accusarci di essere al soldo di Grillo e Casaleggio è perchè giudichiamo i 5Stelle senza pregiudiziali, apprezzandone le giuste battaglie e criticandone le magagne, mentre tutti gli altri giornali, a parte rarissime eccezioni, li attaccano sempre e comunque nell'interesse dei loro editori, cioè dei padroni dell'economia e della finanza e dunque della politica, e non possono tollerare la presenza in Parlamento di un gruppo (diciamo pure un'Armata Brancaleone) di ragazzi che non rubano e non mafiano (non ancora, perlomeno, non che si sappia) e dunque non sono controllabili perchè non ricattabili. Così in campagna elettorale i 5Stelle erano un branco di eversori. Poi, quando vinsero le elezioni e lorsignori speravano che facessero da stampella al governo Bersani, divennero quasi buoni. Poi, quando si capì che manipolarli era più difficile del previsto, iniziò il giochetto che dura tuttora (con la complicità di alcuni di loro, non si sa se troppo fessi o
troppo furbi): il tentativo di staccarli non tanto da Grillo, ma dai loro elettori e dal loro programma, per convertirne una parte al Sistema. Basta che dicano qualcosa contro Grillo o a favore dei partiti perchè da “signori nessuno” pericolosi per la democrazia diventino i nuovi Sacharov e Solgenitsin. Il fatto che in campagna elettorale si fossero solennemente impegnati a decurtarsi gli emolumenti e soprattutto a non allearsi con alcun partito per ottenere i loro obiettivi (alcuni sacrosanti, altri inattuabili, altri demenziali) e fossero stati votati proprio (e solo) per questo, non conta. Anzi, assistiamo al paradosso che il Pd e il Pdl che hanno tradito gli elettori scilipotizzandosi, cioè governando insieme dopo aver giurato in campagna elettorale di essere irriducibilmente alternativi e incompatibili, danno lezioni di coerenza all'unico movimento (con Sel) fedele agli impegni: chi vuol tradire la parola data agli elettori diventa santo, chi vuole mantenerla è un mascalzone. E se qualcuno ricorda cosa diceva il Pd di Razzi e Scilipoti quando passarono al Pdl, o
il Pdl di Follini quando passò al Pd e di Fini quando sfiduciò B., è un servo di Grillo e Casaleggio. Se in questi vent'anni stampa e tv avessero trattato i partiti che hanno devastato l'Italia con un decimo dell'acrimonia che applicano ai 5Stelle, la Seconda Repubblica sarebbe morta da tempo senza fare i danni che ha fatto. E forse M5S non avrebbe ragione di esistere: Grillo farebbe ancora il comico, guadagnando dai suoi show il triplo di quel che guadagna da quando fa politica.
Ma questi ragionamenti di semplice buonsenso Michele Prospero non se li può permettere: sull’Unità si guadagna la pagnotta falsificando ciò che ho scritto l'altroieri, quando invitavo il “Movimento 5 Polli” (titolo dettato da Casaleggio) a piantarla con le batracomiomachie autoreferenziali sulle espulsioni e a fare “conferenze stampa e iniziative di piazza per denunciare le porcate che scoprono in quell'ente inutile che ormai è il Parlamento”, tipo “l'esproprio delle Camere per blindare la controriforma costituzionale” e “la presa in giro su Imu e Iva”. Il mio invito all'opposizione a op-
porsi diventa, nel taglia-e-cuci di Prospero, “santificazione” di M5S e “ordine di insurrezione” di stampo fascista “contro 'quell'ente inutile che è il Parlamento'” con un “sospetto automatismo” verso “l'aula sorda e non più grigia, ma comunque inutile” di Mussolini. Del resto “Travaglio nel 1994 accarezzò la Lega” e ora “punta sul M5S... garante del buon mondo antico presidiato dal grato Cavaliere”. Ora – a parte il fatto che il garante del grato Cavaliere è il Pd che ci governa insieme e che la Lega rovesciò il primo governo Berlusconi, poi resuscitato dagli amici di Prospero con la Bicamerale – io non so dove fosse questo falsario nel '94. Ma so bene dov'ero io: in un comodissimo posto al Giornale di Montanelli, che lasciai con il direttore e 50 redattori per l'avventura de La Voce, sabotata da tutti e chiusa dopo un anno perchè si opponeva da posizioni liberali al governo B.-Lega. Nel 2001, da vero criptoberlusconiano, fui il primo giornalista a denunciare in Rai (Satyricon di Daniele Luttazzi) i rapporti fra la mafia, Dell’Utri e B. che nel 2001 – molto grato – mi fece
cacciare da tutte le tv con l’editto bulgaro, mentre le spie del Sismi e della Security Telecom accumulavano dossier illeciti sul mio conto e il grato Cavaliere e i suoi sgherri mi denunciavano in tutti i tribunali d'Italia per milioni di danni. E fui accolto all'Unità, quella vera, rifondata come giornale libero e non di partito da Colombo e Padellaro, che infatti combatteva contro B., la Lega e gli inciucisti del centrosinistra che demonizzavano i girotondi e la Cgil di Cofferati. Se il signor Prospero oggi ha un giornaletto su cui scrivere dovrebbe ringraziare chi 12 anni fa lo resuscitò, dopo che i suoi amici l’avevano ammazzato mettendo in fuga i lettori. Naturalmente non lo farà: di recente ha additato al Pd come modello da seguire non Enrico Berlinguer, ma Palmiro Togliatti. Un sincero democratico che i dissidenti non li attaccava sul blog: li lasciava semplicemente crepare nei gulag dell’amico Stalin o, se erano anarchici o trotskisti, perseguitare e ammazzare in Spagna. Ecco, magari le lezioni di libertà e democrazia Prospero ce le dà in un’altra vita.

l’Unità 18.6.13
Tutte le correnti dei Cinquestelle
La dozzina di parlamentari legati a Casaleggio controllano gli altri. Trenta senatori rimpiangono il mancato sostegno a un governo Bersani
Alla Camera il gruppo ambientalista e quello che guarda alla sinistra Pd. In 20 pronti a uscire
di Claudia Fusani


Sembrava già un arcipelago, chiaro, netto, definito nei confini e nei destini, dissidenti, ortodossi e pontieri. Et voilà, perfetto, anzi ottimo per tentare la famosa conta. Immaginare il rivoluzionario ribaltone.
In poche ore è tornato un magma abbastanza frantumato e con una precisa caratteristica: la poca, in ogni caso scarsa, progettualità politica. Di certo, quello che rimane del Movimento Cinque stelle dopo cento giorni esatti di Parlamento (le Camere si sono insediate il 15 marzo) sono «pezzi» sempre più in guerra tra loro, sospettosi fino al dossieraggio reciproco, commissariati fino alla nausea dalla spectre dei responsabili comunicazioni, un piccolo esercito di una dozzina di persone tutte legate a triplo filo con la casamadre Casaleggio e associati, ognuno con più e svariati incarichi che ormai presidia il territorio (Transatlantico di Camera e Senato) e ogni angolo dove un parlamentare Cinque stelle intrattiene una conversazione con un giornalista. Smania di controllo che se può essere sopportata da uno più giovane, diventa insopportabile per i più maturi, soprattutto dalle parti del Senato.
Il caso Gambaro ieri era atteso come il big-bang, il tana-libera-tutti, il momento del non ritorno e di chiarezza del Movimento Cinque stelle. I grillini hanno preferito prendere tempo. Per due motivi: non hanno ben chiaro dove andare e a fare cosa. Restano, al momento nella stessa abitazione. Sempre più un condominio dove «uno vale uno» è stata solo una bella bugia e dove, invece, si organizzano correnti e si studiano i momenti.
Le fratture sono di diversa natura. Al Senato il problema si chiama soprattutto «democrazia interna» e «forte irritazione per certi metodi talebani». Sarà che i 53 senatori sono uomini e donne con alle spalle storie che non sono solo i meet up a Cinque stelle, è qui che si sono intravisti i primi mal di pancia, fin dai tempi del voto a Grasso per la presidenza del Senato. Battista, Buccarella, Fucksia, Campanella, Bencini, Cotti, Gambaro, Bocchino, Santangelo, Bertorotta, Pepe, Montevecchi, Nugnes: se uno scorre le loro dichiarazioni in questi tre mesi, coglie un minimo comun divisore, l’insofferenza per i capi comunicazione, per il tono di certi post, per le riunioni inutili, per il nulla di fatto di questi mesi. Ai problemi di «democrazia interna» si è aggiunto nelle ultime settimane un problema più politico.
«C’è poco da fare, a molti di noi non è mai andato giù il fatto che otto milioni di italiani ci hanno votato per cambiare le cose e noi invece li abbiamo delusi sbarrando le porte all’offerta di Bersani» racconta un senatore che fa un po’ da guida in questa mappa grillina e che con imbarazzo chiede di restare anonimo «per quieto vivere». Più esplicito un ex, uno già espulso perché andava troppo in tv, il senatore Marino Mastrangeli: «Furono fatte due o tre riunioni in quelle lunghe settimane in cui Bersani non riusciva a fare il governo. Su 153 parlamentari, tra i 60 e i 70, nelle varie votazioni, volevano tentare l’accordo con la parte sana del Pd. Avremmo potuto trovare il modo di superare lo scoglio della fiducia. Di questi una ventina erano i senatori».
A questo punto occorre fissare uno spillo con una cifra: quella ventina di senatori che già all’epoca avevano il rimpianto di non aver tentato un governo con Bersani, adesso sono diventati una trentina perché si sono aggiunti quelli che non ne possono più di veti, diktat e ordini dal web. Vale la pena osservare, più per il futuro che per il presente, che 25 sono i voti che servirebbero al Senato a Pd-Sel-Scelta civica per creare una nuova maggioranza qualora Berlusconi decidesse di staccare la spina al tandem Letta-Alfano.
Più frammentata perché più politica la situazione alla Camera dove i grillini sono di più (109 ma due si sono già persi per strada, i tarantini Furnari e Labriola) e più giovani. Certe arroganze delle prime settimane, dove si sentivano il centro del mondo, hanno lasciato spazio, non sempre, a facce spaesate, sguardi preoccupati, solitudini e imbarazzi. Si può riconoscere sperando con questo di non fare né torto né danno ad alcuno un’anima che guarda più alla sinistra del Pd e che ha un capo corrente ideale in Tommaso Currò. Memorabile
uno schetch ieri mattina alla Camera (ore 11) quando il rottweiler Rocco Casalino (dello staff comunicazione) cercava di azzannare Currò il quale si è rivoltato dicendo: «Siete voi che avete cambiato le regole a gioco iniziato, io continuerò a parlare e a dire quello che penso». C’è un’anima più ambientalista che fa capo al giovane Adriano Zaccagnini. Una via di mezzo tra le due è Alessio Tacconi. Più a destra, talvolta anche a colloquio con Guido Crosetto, ci sono i nord-est Rizzetto e Prodani. Dietro di loro, ciascuno di loro, si muove un’area di circa venti persone pronte a lasciare la casa madre, il Movimento, se dovesse radicalizzarsi troppo.
È per evitare questo rischio, che potrebbe per paradosso rafforzare i Cinque stelle, che nulla si è mosso finora. E si è assistito a fughe in avanti e improvvisi ritorni. Ma può essere un attimo passare dal troppo presto al troppo tardi e restare a mani vuote.

l’Unità 18.6.13
I grillini s’insultano Ora gli zombie sono fra di loro
di Toni Jop


CHIEDERANNO ALLA RETE SE PREFERISCE CRISTO O BARABBA.
E ANCHE SE QUALCUNO LO AVEVA MESSO NEL CONTO PREVENTIVAMENTE, ECCOCI ASSISTERE a una impasse del Movimento Cinque Stelle che secondo una intelligenza tattica abbastanza elementare avrebbe garantito al piccolo impero di Grillo di evitare due opzioni negative. I parlamentari hanno deciso, in pratica, di non decidere «cosa fare» della scomoda senatrice Gambaro. Da un lato, si doveva evitare di smentire il gran capo con un voto di assoluzione nei confronti di una osservazione critica con cui la senatrice aveva addebitato proprio al Megafono la responsabilità della sconfitta alle amministrative. Ed era stato Grillo ad avviare la procedura di infrazione consegnando la «cittadina» Gambaro al tribunale interno. Dall’altra, pareva a molti inopportuno che il Movimento ancora una volta marcasse la storia con un giudizio di condanna, a carico di una ragionevole dissidenza, che l’opinione pubblica nazionale non avrebbe compreso e condiviso. In più, pesava su questa opzione la minaccia discretamente palese di un buon numero di parlamentari di gettare la spugna per protesta verso questa durezza, di lasciare il gruppo, i gruppi. Così, passa la cultura di Pilato e anche questa deriva non sembra senza conseguenze e neppure meno loquace delle altre. La terza via adottata in queste ore dal tribunale illumina una serie di notizie a grappolo. La prima è che nel Movimento appare profondamente in crisi il rapporto di potere che ha fin qui appeso ogni dinamica politica o di semplice difesa dai nemici interni alla volontà di un uomo solo al comando, Beppe Grillo. Una crisi che non consente, crediamo, il ritorno ai vecchi schemi binari in base ai quali: lui, Grillo, è l'unico «Uno», gli altri sono «Zero». Da qui in poi, il potere sarà sul tavolo e se lo giocheranno soggetti diversi da quelli che lo hanno amministrato fino ad oggi. Poi, è abbastanza evidente che le tensioni interne al Movimento sono in grado di esplodere con esiti disastrosi per la creatura del padrone. Terzo, lo stallo verificato in Parlamento equivale comunque a un freno a mano che è ora possibile attivare ogni volta che le espulsioni di Grillo non convinceranno. Infine, e coerentemente, Grillo ha perso potere reale, è lui quello che paga la crisi prima e più di ogni altro soggetto sulla scena. Altrettanto, è chiaro e assodato che il «miracolo» confezionato dal Prestigiatore genovese sta ora mostrando tutti i fili e i limiti del trucco: almeno due culture, assemblate con arbitrarietà, stanno venendo alle mani, non riescono più a condividere lo stesso tetto. Dice Crimi: «Rimettiamo il giudizio alla Rete»; il senatore Manlio Di Stefano così parla della collega Paola Pinna, scesa in campo per difendere Gambaro: «Una Cosetta dei Miserabili laureata, disoccupata che viveva con i genitori a Quartuccio Cagliari e con 100 voti 100 è diventata deputata». La storia horror dei cadaveri putrefatti sta entrando in una fase nuova, gli zombies sono adesso anche tra loro. Del resto, è estate, è il tempo dell’horror.

l’Unità 18.6.13
Il M5S spaccato
Gambaro, processo farsa «Basta, non mi dimetto»
Volano stracci nel Movimento, il gruppo di Palazzo Madama contro l’espulsione
Nell’assemblea plenaria il processo alla ribelle, decisivo il voto dei deputati. Dubbi anche tra i falchi
di Andrea Carugati


Un processo farsa, in parte in diretta streaming, spacca il M5S. Sul banco degli imputati la senatrice Gambaro, rea di aver criticato Grillo, che dice: non mi dimetto, basta con questi toni. È resa dei conti nel movimento dopo gli ultimatum del leader. Qualcuno propone di deferire la senatrice al web.
Cinque senatori che scortano Adele Gambaro dal Senato alla Camera, l’abbracciano, si muovono come una falange tra le viuzze intorno al Pantheon circondati da una rissa di telecamere. Francesco Campanella, il No Tav Maurizio Scibona, Andrea Cioffi, i toscani Maurizio Romani e Alessandra Bencini. Una falange del dissenso che, pochi minuti prima, nella riunione in diretta streaming, l’ha difesa a spada tratta, ha lottato per dire che no, «Adele non va espulsa, non ha violato nessun regolamento». E questa vicinanza fisica mentre la reproba passa dal suo Senato alla sala di Montecitorio dove l’attende il processo organizzato da Grillo e Casaleggio e dai loro falchi, la dice lunga su quello che sta succedendo dentro i cinquestelle.
Un miscuglio di legami personali, dissensi politici, di allergia ai toni ultimativi del Caro leader che ha trasformato il caso di una intervista sgradita in un processo d’altri tempi. «Uno vale uno? Ormai da noi qualcuno vale meno di uno e qualcuno molto di più. Come nella fattoria degli animali di Orwell», si sfoga la Bencini.
L’incontro tra i senatori va in onda da una sala al terzo piano di Palazzo Madama ed è una fotografia sociologicamente perfetta e impietosa dello stato dell’arte tra i 5 stelle: due partiti in uno. L’espulsione viene camuffata dall’ex capogruppo Vito Crimi come un necessario pronunciamento della mitica Rete «a cui non possiamo sottrarci». Ma in realtà, regolamento alla mano, è il primo grado di giudizio, quello dei parlamentari, cui seguirà un secondo grado da parte dei 50mila iscritti sul web. Crimi, per il resto, non fa mistero dei capi di imputazione: aver bestemmiato sulla debacle alle elezioni e aver detto che la colpa è dei toni sopra le righe di Grillo. Inammissibile.
E alla fine il verdetto dei senatori è limpido: la maggior parte degli intervenuti dice no, le donne emiliane schierate senza esitazioni per Adele, anche chi la critica, «perché quelle cose le hai dette a Sky?». Lei alla fine quasi si scusa: «Dovevo parlarne con voi in assemblea», ma su un punto non molla: «La campagna elettorale è finita, i toni si devono abbassare, noi ormai siamo dentro le istituzioni». «Non è vero, siamo in guerra, e chi non se la sente di combattere se ne vada a casa», replica a muso duro l’ortodossa Laura Bottici. «Io lavoro in un ospedale, parlare di guerra dentro le istituzioni è un’assurdità, noi siamo non violenti e pacifisti», controreplica la Bencini. Che attacca: «Con questo centralismo democratico sembriamo il vecchio Pci, altro che movimento...». Romani se la prende con il capogruppo alla Camera Nuti, che ha parlato di scissione inevitabile. «È molto più grave questa frase che quella di Adele, mi aspetto delle scuse». Ribatte Maurizio Santangelo: «Il tuo è un fallo da espulsione contro Nuti, gli stai spezzando le gambe». Ancora Romani: «L’entrata a gamba tesa è quella che hanno fatto contro la Gambaro». Scintille, ma la sostanza non cambia. Nicola Morra, il nuovo capogruppo in Senato, prova a convincere la truppa che la Gambaro va comunque deferita al web: «Anch’io mi sottoporrò al giudizio dei militanti in Rete». Ma non sfonda. La maggioranza dei senatori vuole salvarla. «Le critiche vanno gestite, assorbite», ricorda l’emiliana Maria Mussini, «anche Beppe è stato espulso dalla Rai perché aveva parlato male di Craxi, dunque sa cosa significa...». Intanto i falchi della Camera vanno all’attacco dei dissidenti come Paola Pinna: Manlio Di Stefano li chiama «miserabili» e «miracolati da Grillo».
Luis Orellana, il candidato sconfitto da Morra per la guida dei senatori, annuncia il suo no all’espulsione e parla di «parole da censurare». Morra è costretto addirittura a avvertire: «Chiunque si azzardi a fare minacce fisiche in Rete o a fomentarle, tipo “vengo a prenderti sotto casa”, è fuori dal Movimento». Poi confessa: «Sono i giorni peggiori della mia vita». La Gambaro risponde alle accuse: «Io voglio continuare a lavorare con il gruppo, non ho mai criticato il lavoro che facciamo qui». La collega Rosetta Blundo ha la voce flautata: «Devi chiamare Beppe, chiedere scusa e perdono». La replica: «Non mi ha mai risposto».
È solo l’antipasto, perché alle 18 comincia la riunione vera, il processo, con i 107 deputati insieme ai 53 senatori. Niente streaming, stavolta, l’assemblea vota no. I falchi sono sicuri del risultato, il voto dei deputati quasi certamente ribalterà il parere dei senatori e la Gambaro sarà deferita al web. Dice la senatrice bolognese Elisa Bulgarelli: «Da questa vicenda usciremo tutti con dei calci nei denti. Sarà un altro massacro mediatico». Tra i falchi c’è chi vuole un taglio netto: «Adele è solo la punta dell’iceberg di chi ci sta sparando dall’interno», attacca Sara Paglini. «Essere portavoce come siamo noi significa rinunciare ad esprimere le opinioni personali», sbotta Giovanni Endrizzi. E Adele ha fatto di testa sua». Ma anche tra chi è di questa tesi spunta la prudenza: «Se è in malafede non va comunque espulsa. Questa soluzione non le va servita su un piatto d’argento», ragiona la campana Paola Nugnes. Così anche Giuseppe Vacciano: «C’è un gruppo che se ne vuole andare? Sarebbe assurdo fornire loro un assist».
Mentre scriviamo la riunione dei 160 alla Camera è ancora in corso. Con i falchi a insistere che «la Rete è sovrana e nessuno può impedire che si pronunci». Una sorta di replay della discussione in Senato. Gambaro legge un documento in cui ribadisce di voler restare. Poi lascia la riunione. Manca solo il verdetto finale. E il numero dei no, politicamente significativo, visto che Grillo ha trasformato questa corrida in un referendum sulla sua leadership. Un referendum che al Senato, dove i numeri contano di più, l’ha già visto sconfitto.

il Fatto 18.6.13
Nel libro di Ilvo Diamanti
La “frattura” era già scritta nel voto


La base perduta da una delle due coalizioni principali della Seconda Repubblica (...) non si è rivolta all’altra. Gli operai – e i disoccupati – non si sono spostati a sinistra. Tanto meno – figurarsi – gli imprenditori e i lavoratori autonomi. I professionisti, gli impiegati e i tecnici, a loro volta, non si sono orientati a destra. I lavoratori “in fuga” (...) hanno scelto il M5s. Per insoddisfazione – spesso: rabbia – verso le “alternative” tradizionali. Hanno votato per il soggetto politico guidato da Grillo. (...). Il M5s ha assunto una struttura sociale interclassista. (...) Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi (44%), fra gli operai (38%), ma anche fra i disoccupati (40%). Fra i “liberi professionisti” (32%) e fra gli studenti (28%) – dunque fra i giovani. Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio. Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nel-l’area di governo gli “ultimi arrivati”. Non è così. Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato.

(dalla prefazione di Ilvo Diamanti)

Alla prova del 24-25 febbraio il MoVimento ha ottenuto un successo inatteso. Non solo per gli osservatori, ma anche per il più ottimista dei suoi candidati e (al di là dei proclami pre-elettorali) per il suo stesso leader. (...) Il partito di Grillo non fa registrare una concentrazione del voto in specifiche aree: è dappertutto. Il suo peso cresce, leggermente, via via che dal Nord si passa al Sud. (...) L’impianto territoriale del MoVimento presenta pochi buchi. Essi riguardano: nel Sud alcune province della Campania meridionale e Vibo Valentia; nel Nord, buona parte della Lombardia. (...) Alcune categorie sono maggiormente rappresentate in questa base elettorale. Sono gli operai, i lavoratori in proprio e i disoccupati. (...) Emerge l’idea di un partito, in un certo senso, trasversale: pigliatutti. (...)
GLI ELETTORI GRILLINI, rispetto al continuum sinistra-destra si (auto)collocano in modo indefinito. Non mostrano cioè uno sbilanciamento verso una parte specifica dell’asse ideologico. Il dato complessivo è infatti la risultante di tre posizioni diverse e complementari. Una componente significativa – la più alta tra le principali forze politiche – “non si colloca”. Chi lo fa si riconosce in orientamenti contrapposti: in parte di destra e in parte di sinistra. L’elettorato a 5 stelle si presenta, dunque, “terzista” ma non “centrista”, diviso in tre anime di dimensioni grossomodo equivalenti: elettori di sinistra, di destra ed “esterni”. (...) Il M5s si presenta, in sintesi, come un (non)partito: né di destra, né di sinistra, ma con una base elettorale di destra e di sinistra, al tempo stesso. Peraltro con un’ampia componente di quanti non si riconoscono in queste categorie ideologiche. (...) Questa natura composita si riflette sull’orizzonte futuro: sulle scelte e sulle strategie politiche, sia in campagna elettorale sia nell’esercizio delle funzioni di rappresentanza democratica (...). La linea di frattura riproduce, in larga misura, gli orientamenti di centro-destra e di centro-sinistra della base. Tali spaccature spiegano, meglio di ogni altra considerazione strategica, la scelta del leader di tenere la “linea dura” con i propri eletti: invocando le dimissioni dei dissidenti; minacciando nuove espulsioni e il proprio eventuale abbandono (e quello di Gianroberto Casaleggio), in caso di rottura dell’unità del fronte interno(...). Le difficoltà nel tenere assieme un soggetto politico così composito sono (...) emerse in tutta la loro evidenza. La principale sfida, oggi, per Grillo, è quella di evitare squarci nel cielo a 5 stelle; per continuare a capitalizzare, sul piano elettorale, la doppia opposizione rispetto ai due “poli” della Seconda Repubblica (...).
(tratto dal capitolo 5 “Tsunami” a 5 Stelle di Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini)

il Fatto 18.6.13
L’ultima vittoria dei falchi, la strada è già segnata
La battaglia sull’espulsione è il punto di non ritorno della conta interna
di Enrico Fierro


Adele lascia. Quando sono passati venti minuti dalle otto di sera la senatrice Gambaro non ce la fa a reggere il confronto con i suoi colleghi senatori e i deputati col distintivo dei cinque-stelle e molla tutto. “Me ne vado ma non intendo dimettermi. Spero che il mio gesto possa portare più democrazia nel movimento”, dice ai giornalisti che la aspettano. Dopo ore di una discussione lacerante, l’ultima parola passa alla rete. Il luogo ideale della democrazia grillina, in questi giorni trasformatosi in inesorabile tribunale del popolo. La rete deciderà la sorte politica della senatrice Gambaro.
NELL’ASSEMBLEA il clima è pesantissimo, pochi quelli che all’interno dei gruppi parlamentari vogliono capire le ragioni del dissenso, tanti quelli che stanno processando la senatrice, troppi quelli che vogliono chiudere rapidamente la questione buttandola fuori. È lo psicodramma dei cinque-stelle che cancella l’euforia della vittoria di quattro mesi fa e fa scempio delle parole d’ordine che hanno fatto la fortuna del movimento. Uno vale uno, democrazia partecipata, tutto alla luce del sole. Si stringono le fila e allora vadano a farsi benedire anche la trasparenza e le dirette streaming. E così succede che alle sette di sera la tanto sbandierata trasmissione in diretta della riunione congiunta dei parlamentari viene cancellata. Di colpo. Senza nessuna spiegazione. Troppe tensioni tra deputati e senatori. Questi ultimi sono più morbidi verso la Gambaro, come si capisce seguendo, questa volta in diretta streaming, la riunione del gruppo di Palazzo Madama, mentre gli onorevoli-cittadini sono schierati sulla linea dura. Espulsione e giuramento di fedeltà a Beppe.
La questione Gambaro è vissuta come uno spartiacque al-l’interno della galassia grillina, una sorta di ultima frontiera prima dello scontro finale. O si sta da una parte o dall’altra. Anche chi tenta di non dispiacere Grillo, cerca di usare toni pacati, ma poi sbaglia le parole e si aggrappa ad esempi sbagliati.
È da poco finita la preriunione dei senatori quando Nicola Morra, il professore di filosofia capogruppo al Senato, ha un rapido scambio di battute con i giornalisti. “La Gambaro ha reiterato errori che non posso perdonare”. Il perdono entra così nelle categorie del confronto politico. Morra si compiace della sua uscita e ci mette anche un carico da novanta. “Sono sulla stessa linea di Maria Fida Moro, per il perdono ci vuole tempo”, ma forse la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni nella prigione del popolo aveva qualche ragione in più per diluire nel tempo un sentimento così nobile. Segnano un punto a loro favore i falchi alla Crimi, il primo a chiedere l’espulsione della Gambaro nella riunione di deputati e senatori. Lo seguono in tanti. “Chi non è d’accordo con la linea del movimento lo dica subito e faccia il suo percorso lontano da noi”, dice il deputato Manlio Di Stefano. La senatrice Rosetta Blundo, va oltre. “Adele faccia una telefonata a Beppe, adesso, in diretta. Chieda perdono”. “Se vogliamo farci ridere addosso per i prossimi cinque anni questa è la frase giusta”, commenta un attivista su facebook.
CHI HA VINTO, CHI HA PERSO? I falchi che vogliono un movimento di fedelissimi, i pontieri interessati a seguire l’evoluzione del quadro politico soprattutto a sinistra, o i dissidenti che aspettano solo l’occasione giusta per uscire? Troppo presto per dirlo. Beppe Grillo ha ottenuto quello che voleva, ma sa che la partita non è chiusa. Si rende conto che qualcosa va rivisto e aggiustato dentro il suo Movimento. Le elezioni amministrative hanno fotografato la crisi, la caduta della roccaforte siciliana ne ha accentuato i toni scuri. La strada è stretta e porta ad un movimento più piccolo ma governabile, oppure alla continuazione del grande sogno, quello di una realtà nuova che può incidere nella politica fino a cambiare istituzioni e modello di Stato. La prima è più semplice da percorrere, la seconda è zeppa di ostacoli, tranelli, rischi, e richiede tanta fatica. Soprattutto quando sei a capo di un movimento di cittadini e devi argomentare, convincere anche chi non la pensa come te. Espellere è certamente facile, soprattutto se lo fai con un clic.

Repubblica 18.6.13
Telecamere accese per l’assemblea dei senatori, spente per quella con i deputati
Inquisizione in tv, poi lo streaming salta
“Adele, devi chiedere perdono in diretta”
di Alessandra Longo


LA «strega» è lì, con la gonna bianca in seconda fila. Gli altri tutti intorno. Fa caldo, gli uomini sono senza giacca, le signore senza maniche. Il clima è a metà tra una seduta di autocoscienza degli Anni Settanta e un processo della prima metà del Seicento.
CHE la senatrice Adele Gambaro, colpevole di aver attaccato Beppe Grillo, abbia un gatto nero in casa? E sull’iride del suo occhio destro c’è per caso quel neo, il famoso «segno del diavolo»? Ore 15.30, Inquisizione in streaming, seduta preliminare dei senatori prima dell’assemblea congiunta dei gruppi. L’imputata è presente e persino «troppo fredda», come le rimprovera un collega. Gioca con un pezzo di carta mentre i Cinquestelle di palazzo Madama pesano la sua colpevolezza. Espulsione, ergastolo, frustate? Enza Blundo ha un’idea: «Adele deve chiedere perdono a Beppe per aver messo in pericolo il movimento, magari lo deve fare in diretta streaming... ». In ginocchio, a capo chino. La vorrebbero più contrita, lei tiene il punto: «Non mi sono mai sognata di mettermi a livello di Grillo, lo stimo, e non mi devo giustificare. Confermo che i toni devono cambiare, siamo dentro le istituzioni». Coraggiosa, sfrontata. «Scusa Adele perché hai espresso il tuo dissenso davanti ad una telecamera? ». Semplice: «A Beppe ho mandato un sms ma lui non mi ha mai risposto».
Sono nervosi. Andrea Cioffi: «Siamo finiti in uno stresstest per colpa dei giornalisti. Dobbiamo dimostrare di essere forti e coesi». Un collega lancia l’allarme: «Ci sono 300 giornalisti qui fuori. Siamo pesciolini rossi in un mare di pescecani. Questi qua non vedono l’ora di farci saltare i nervi...». Maledetta stampa: «Adele, dicci, l’hai chiamato tu il giornalista di Sky per fare l’intervista?». Lei fa cenno di no con la testa. Interviene Rocco Casalini, già Grande Fratello Uno, responsabile delle terremotate relazioni con i media. Signori della corte, «noi della comunicazione non abbiamo autorizzato nessuna intervista ». Brusio in sala. Vito Crimi, ex presidente dei senatori, un po’ di fretta per via di un trasloco, si rimette agli attivisti: «Noi non voteremo nessuna espulsione, le decisioni le prenderà la Rete».
La «strega» non ha nessuna intenzione di salire sul rogo e fissa Crimi negli occhi: «Il rapporto di fiducia non c’è più. Tu hai messo sul blog un mio sms... Si parla tanto delle critiche che ho rivolto a Grillo e nessuno parla delle reazioni violente nei miei confronti apparse in Rete ». Non si dimette, non molla il punto: «Con voi sto bene. Nessun problema...».
E allora? E allora lo streaming diventa una tortura. Sanno che anche Grillo guarda e giudica. Aveva chiesto la testa di Adele, loro vacillano. Lei è cattiva, ha alzato la testa, ma cacciarla «è strategicamente sbagliato». Se fosse un telefilm poliziesco,
Laura Bottici avrebbe il ruolo della dura: «Siamo in guerra con il sistema politico. C’è da tirar fuori le unghie, chi non se la sente vada a casa». Un dubbio serpeggia: «Se siamo diventati 53 meno 16 (il numero che sarebbe pronto a fare un nuovo gruppo,ndr ) allora siamo una schifezza».
Alessandra Bencini, occhiali in testa, parlata toscana, non regge la lettura epico-bellica: «Ma quale guerra! Noi siamo qui per cambiare il Paese nella maniera più soft possibile. Adele deve rimanere nel gruppo. Dare un’opinione personale è forse illegale? Quante persone servono per un’eventuale gogna mediatica?». Sì, butta male. Maurizio Romani apre un altro fronte: «Non voglio le scuse di Adele ma quelle del capogruppo dei deputati Riccardo Nuti. L’avete letta la sua intervista a Repubblica? Dice che chi vota contro l’espulsione della Gambaro è fuori e che la scissione è inevitabile. Chieda scusa lui!».
Niente diretta streaming dei gruppi congiunti, meglio le porte chiuse. Nicola Morra, neocapogruppo al Senato, è pallido come un cencio: «Sono i giorni più brutti della mia vita ». La «strega» esce dal processo, la gonna bianca senza una piega.

Repubblica 18.6.13
La rassegnazione della senatrice “Mi cacciano, ma non mi pento”
“Processata per due minuti di intervista”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Alle nove e mezza di sera Adele Gambaro ha finito le parole. Stremata dal doppio processo che ha dovuto subire «per due minuti di intervista», prima a Palazzo Madama poi davanti all’assemblea congiunta di deputati e senatori, dice solo di aver apprezzato la solidarietà ricevuta da alcuni colleghi, come Simona Bencini e Maurizio Romani: «I rapporti col gruppo sono buoni, quello non è il problema. Non lo è mai stato». E sul possibile esito, confessa: «Temo che mi espellano, ho paura che andrà così». Non vuole commentare oltre. Non vuole parlare mentre nell’auletta dei gruppi a Montecitorio si sta dibattendo, e decidendo, sulla sua sorte. Diffonde quel che ha scritto, però. Le parole che ha affidato all’assemblea prima di uscire: «Il mio gesto era volto principalmente a esprimere una riflessione critica nei confronti della linea che il Movimento sta prendendo, rischiando di assumere una forma a mio parere controproducente e dannosa per l’immagine del nostro operato in Parlamento». E ancora: «Attenderò il giudizio dell’assemblea e lo accetterò rimanendo nelle mie opinioni, con la speranza che il mio gesto possa essere servito a far smuovere il cambiamento verso una linea più democratica».
L’“imputata” Gambaro - che è arrivata alla Camera letteralmente scortata da alcuni senatori che la circondavano perché nessuno la avvicinasse - ha letto il suo foglietto visibilmente emozionata. La voce incrinata, le mani tremanti. Poi è uscita, tra gli applausi di chi l’ha sostenuta fino alla fine e i mugugni degli “ortodossi”. L’atmosfera è tesa. Gli animi si scaldano subito. Già al momento di decidere se fare la diretta streaming (il no passa per soli 12 voti) i sostenitori della senatrice si fanno sentire: chiedono che vada tutto in Rete, che tutto sia trasparente fino in fondo. Poi, al momento di decidere se accettare il voto per delega di chi non ha potuto esserci. Si vota che non si può, anche lì volano proteste. Vito Crimi - che con il nuovo capogruppo Nicola Morra ha deciso la regia dell’intera operazione - chiede che alla fine si scelga una cosa sola: «Dobbiamo decidere se demandare la decisione alla Rete. Nient’altro». Vuole frenare i difensori della Gambaro. Nessuno può mettere in discussione la “sovranità della Rete”, è questo il ragionamento, e per questo si vorrebbe saltare il “primo grado di giudizio”. In molti non ci stanno. «Il regolamento è chiaro ed è on line», diceva già nel pomeriggio la senatrice Maria Mussini. «La regola è sempre stata che vota l’assemblea e che, nel caso di espulsione, ci sia la ratifica della Rete. La nuova proposta mi sembra un bel salto, una forzatura», dice l’ex sfidante di Morra Luis Orellana. Tancredi Turco si infervora: «Io sono contrario all’espulsione e voglio dirlo chiaro, è su questo che dobbiamo decidere». Parla anche Walter Rizzetto. Alessio Tacconi legge un documento del suo meet up contrario alla cacciata. Fanno lo stesso Francesca Businarolo e Ivana Simeoni, «scandalizzata all’idea di aver appreso della proposta di espulsione dal blog». Gli ortodossi non sono meno agguerriti: Vega Colonnese, Laura Castelli, Alessandro Di Battista, Patrizia Terzoni, sottolineano quanto sia grave aver messo in dubbio l’operato di Beppe Grillo. E Manlio Di Stefano taglia corto: «Invece di parlare di dissidenti ogni giorno, se c'è qualcuno che dissente, si alzi ora e lo dica. Faccia il suo percorso lontano da noi». C’è anche chi chiede conto dell’ultima intervista di Paola Pinna, di cui Andrea Colletti si è già premurato di chiedere l’espulsione.
«Il movimento deve includere, non escludere», ripeteva senza sosta prima della riunione la senatrice Simona Bencini. E prevedeva: «Se mandano via Adele i prossimi siamo noi, io e Romani che l’abbiamo difesa. A questo voto non si doveva proprio arrivare, è un’assurdità ». Ci si arriva però, e la scelta di rimandare la decisione alla Rete è la garanzia - per i falchi - che tutto andrà come deve. Hanno votato come chiesto da Crimi in 79. 42 erano contro, 9 si sono astenuti e alla fine - tra chi non è mai arrivato e chi è uscito prima - in 30 hanno deciso di non votare. Adele Gambaro sarà cacciata dal Movimento. Il desiderio di Beppe Grillo sarà esaudito. Come sempre.

Corriere 18.6.13
Mutazione genetica d un movimento
di Marco Imarisio


La metamorfosi del Movimento e la «maledizione» della diretta

Come farsi male da soli, e neppure in diretta. Verso la fine dell'assemblea c'è stato un momento in cui nella confusione di tanti linguaggi diversi un senatore si è avvicinato al nocciolo della questione mediante un legittimo slancio d'orgoglio. «Dite quel che volete, chiamateci come volete, ma siamo l'unico gruppo di potere, siamo l'unica lobby che accetta lo streaming delle sue riunioni quando deve regolare le proprie vicende interne».
In quelle parole c'era anche molta frustrazione. Forse c'era anche la consapevolezza del fatto che tutto questo strazio sulla sorte di Adele Gambaro rappresenta al meglio la recente capacità di autolesionismo del Movimento 5 Stelle, che sembra entrato, almeno mediaticamente, in quella spirale dove come ti muovi, sbagli. La vicenda della senatrice ribelle che ha osato criticare le esternazioni del Portavoce supremo — nel dibattito c'è stato anche un accenno di idolatria — non è di grande interesse, per nessuno. Non lo è per i tanti italiani che appena lo scorso febbraio hanno votato M5S chiedendo a gran voce un cambiamento del modo di fare politica, non lo è neppure per i fedelissimi di Beppe Grillo, che vorrebbero cacciare la dissidente solo per non assistere al crollo di un dogma tutto loro, quando invece dovrebbero essere ben altre le preoccupazioni.
Nonostante la conclamata irrilevanza della faccenda, ieri pomeriggio era difficile staccare occhi e orecchie dalla riunione dei senatori M5S. C'era qualcosa di ipnotico, in una riunione che per gli astanti metteva in palio la conquista dell'inutile, perché si sapeva bene che a decidere tutto sarebbe stata l'assemblea congiunta con il plotone dei parlamentari, muniti di equilibri interni ben diversi da quelli senatoriali, e numeri preponderanti a favore dei fedelissimi alla linea. Eppure era giusto rivendicare con orgoglio lo streaming, perché in quella scelta risiedeva quel che resta della diversità percepita di M5S. Un esercizio di crescita in pubblico, come mai si è visto alle latitudini della nostra politica, da sempre abituato al sipario chiuso, al retroscena.
Il problema con gli esercizi, pubblici o meno, è che non sempre riescono. A ogni diretta in streaming dei parlamentari Cinque Stelle, un esercito di elettori di M5S fuoriusciti da altri partiti rientra mestamente nei ranghi, e quella di ieri non ha fatto eccezione. M5S sta cambiando pelle. Il contatto con la politica nazionale sta producendo una mutazione genetica. I Cinque Stelle avevano una identità ben definita prima dello sbarco a Roma, e com'erano differenti i toni cupi di ieri da quelli gioiosi, da gita scolastica, della prima diretta nella hall dell'albergo che all'inizio di marzo aveva ospitato la prima riunione dei neo parlamentari. Adesso non si capisce bene cosa sono diventati.
La diretta di ieri è il referto sullo spaesamento in atto. L'uscita tartufesca di Vito Crimi, che ha proposto di far giudicare la Gambaro alla Rete, ben sapendo che la Rete a Cinque Stelle ha già emesso il verdetto esibendosi nel linciaggio preventivo della senatrice, ha reso evidente la fine definitiva dello spirito idealista dei meet up. Quando i gruppi erano pronti anche a scannarsi per questioni ideali, ma alla fine si tenevano insieme, senza tentare di mettere fuori con qualche trucco i dissidenti. Al netto di alcune uscite piuttosto strambe, le posizioni dei senatori erano piuttosto eterogenee su tutto, non solo sul destino della collega. «È fuori». «Deve restare». «Sì, ma prima chieda pubblicamente scusa a Grillo». «No, meglio che gli telefoni».
Neppure sull'uso della metafora sportiva si è trovato il giusto mezzo. Maurizio Romani ha usato il rugby per dire che nei pacchetti di mischia non si abbandona mai il compagno di squadra che sbaglia. Ha aggiunto anche una considerazione interessante che in bocca a un militante di M5S può sembrare eresia: «Non ci possiamo fidare della rete perché lì ho visto molto risentimento e rancore». Invece di cogliere il senso, l'arbitro siciliano Vincenzo Santangelo lo ha colto in fallo sull'autoconfessione di una intervista non autorizzata a Ballarò, per altro mai andata in onda. «Questo è un tackle da spezzare le gambe». Con sguardo severo: «Il cartellino rosso è per te». Ha anche mimato il gesto, e sembrava Flavio Briatore quando dice «sei fuori» agli aspiranti carrieristi del suo show.
Alla fine i senatori sembravano propensi all'assoluzione, nonostante le urla e i tentativi di uno zoccolo durissimo capitanato da Crimi e altre Erinni. Ma ciò che contava davvero, per chi assisteva da un computer, era lo stato di salute del Movimento. Forse è per questo che dopo averlo autorizzato per i senatori, l'assemblea congiunta ha bocciato quella diretta che prima rivendicava con fierezza. Certi spettacoli possono turbare gli spettatori sensibili. E senza streaming si può ancora fingere di essere sani.

Corriere 18.6.13
Comunicazione e parlamentarie. I nodi irrisolti del Movimento
di Emanuele Buzzi


MILANO — Oltre i teoremi del complotto, al di là della forza dello scontro, i Cinquestelle ieri si sono soprattutto drammaticamente guardati allo specchio. L'assemblea e la preriunione al Senato sono state un'occasione per far emergere non solo le tensioni, ma anche elementi di autocritica che serpeggiavano già nelle ultime settimane. I nervi scoperti hanno messo in luce alcuni aspetti della strategia «da rivedere», come commentano alcuni. Non solo i dissidenti hanno avanzato dubbi e criticità, ma la discussione — interna via web e tramite i media — ha focalizzato l'attenzione su dei talloni d'Achille. Anzitutto sul banco dell'accusa finisce la comunicazione. Stavolta c'è anche chi la nomina in assemblea in diretta streaming, come un fantasma da esorcizzare.
«È come se stessimo facendo tra chi sta con Beppe Grillo e chi con la nostra collega — dice il senatore Enrico Cappelletti —. È una cosa assurda, inaccettabile, che non ci fa uscire vittoriosi dal punto di vista della comunicazione». Croce, per il momento, più che delizia del Movimento. Un nodo che ora viaggia su due binari diversi. Da un lato, i rapporti con i media, la presenza in televisione su cui hanno fatto autocritica anche Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, organizzando dei corsi a Milano (che proseguiranno anche nei prossimi mesi). Dall'altro, la comunicazione «diretta» con il leader. Grillo, tra blitz in Parlamento e ritiri nella campagna romana, è riuscito a mantenere per ora un filo diretto, un meeting con cadenza mensile. Forse, come lamentano fonti vicine al Movimento, «la sua presenza è troppo importante per essere sporadica». Insomma, a briglie sciolte i parlamentari sono incappati in qualche scivolone di troppo. Una maggiore presenza del capo politico dei Pentastellati servirebbe, di fatto — secondo alcuni parlamentari — per chiarire i contrasti e ricompattare il gruppo su malintesi e incomprensioni che spesso si trascinano in riunioni fiume. Altro punto di riflessione (anche se non toccato direttamente dalle discussioni di questi giorni) la Rete. I parlamentari avranno presto un portale per le loro proposte, uno spazio «parallelo» al blog, con cui però ci sarà sempre bisogno di un coordinamento su temi, iniziative, proposte. Forse anche su toni e messaggi da veicolare. Un modo, questo, per riportare i parlamentari al centro del dialogo con gli attivisti, in attesa che parta la piattaforma (alternativa, parallela al sito) per discutere con la base i progetti di legge.
A far discutere, dopo frizioni e abbandoni, è anche il sistema delle Parlamentarie, tirato in causa — indirettamente — anche ieri da Manlio Di Stefano che ha bollato la collega Paola Pinna — citando Diego Cugia — come una «Cosetta dei Miserabili laureata, disoccupata che viveva con i genitori a Quartuccio Cagliari e con 100 voti 100 è diventata deputata al Parlamento». La selezione via web è stata oggetto di critiche. «Il sistema delle parlamentarie va rivisto, per evitare di far candidare persone meno capaci a scapito delle tante nostre eccellenze. Serve una selezione dal basso, dai gruppi locali», ha detto Andrea Cecconi. «C'è stato un problema con il metodo delle parlamentarie — ha commentato Giuseppe D'Ambrosio —: bellissimo come sistema per aggirare il Porcellum, ma perfettibile». Insomma, i criteri del triplice voto, della presentazione via video e curriculum sono nell'occhio del ciclone. La prossima partita, in vista delle Europee, sarà forse su un tavolo (di selezione) tutto virtuale.

il Fatto 18.6.13
“Grandi intese? Chissene” D’Alema lavora per Renzi
Rompicapo congresso: il nuovo segretario non sia in automatico candidato premier
Epifani:  “Renzi capo partito? Prima vada al governo”
di Wanda Marra


Presidente D’Alema, pensa che ci sia un’alternativa al governo di larghe intese?”. Momento di silenzio. Il Lìder Maximo si liscia i baffi, guarda nella telecamera. “Non mi interessa”. Si gira e se ne va. “Ma come non le interessa?”, viene incalzato. “No veramente, non me ne importa un cazzo”. Stizzito. Ha altro a cui pensare, tipo come fare il regista dell’operazione che porta Matteo Renzi alla guida del Pd. Lunedì mattina, Palazzo Rospigliosi. D’Alema con la sua Fondazione ItalianiEuropei organizza un seminario sulla “forma partito”. Ci sono un po’ tutte le correnti, con buona e sorridente rappresentanza dei renziani: Fabrizio Barca e Stefano Fassina, Gianni Cuperlo e Giuliano Amato, Paolo Gentiloni e Marianna Madia, Ugo Sposetti e Dario Nardella. Guglielmo Epifani fa un rapido passaggio di rappresentanza e se ne va. Pier Luigi Bersani non si presenta. Matteo Orfini, l’ex pupillo, non figura neanche nella lista degli invitati. A D’Alema, davanti alle telecamere, interessa dire che il Congresso del Pd deve eleggere un segretario forte che si occupi “della ricostruzione del partito”, e non “un leader futuro, in grado di vincere le elezioni”. E insomma, “il leader del centrosinistra potrebbe essere il segretario del Pd, ma potrebbe anche non esserlo”. Sulla separazione tra candidato premier e segretario, mantiene una formula aperta. Si tiene le mani libere, alla ricerca della mediazione più vantaggiosa. Magari pure un appoggio di facciata a Cuperlo, per ora, dove però la sua strategia va verso Renzi. Non risparmia le frecciate: “I segretari che ho appoggiato hanno sempre vinto, ma non sempre sono quelli giusti..”. Vedi alla voce Bersani. Intanto prova a dettare la linea al sindaco di Firenze: “Io sono un convinto assertore della personalizzazione della leadership, che non significa affatto partito personale: questo il Pd non potrà mai esserlo”. Sul finanziamento, ai renziani sempre contrari, ricorda che in Europa c’è un po’ ovunque. Il ribaltone è un’opzione reale? Fassina, viceministro dell’Economia, la prende alla larga: “I più negativi rispetto a quest’ipotesi sono i renziani. Perché così gli abbiamo spuntato le armi: non possono pensare che se fanno cadere Letta, automaticamente si va al voto”. Più che un progetto, una minaccia.
Da una parte Renzi-D’Alema, dall’altra Bersani, che potrebbe candidare lo stesso Fassina.
Poco più in là – a Sant’Andrea delle Fratte – il Pd discute in versione ufficiale. Si riunisce per la prima volta la commissione che deve stabilire il regolamento per il congresso: 18 membri, una decina di minuti ciascuno. Durata? Quattro ore. Decisioni? Nessuna. Viene eletto presidente il bersaniano Zoggia o il turco-dalemiano Roberto Gualtieri? Nessuno dei due. “Il presidente sono io”, chiarisce alla fine Epifani. La commissione durerà un mese, si riunirà una o due volte la settimana e alla fine dovrà varare un documento da sottoporre alla direzione o forse addirittura all’Assemblea. I tempi del congresso sono confermati “entro l’anno”. E la divisione tra segretario e aspirante premier? I bersaniani vorrebbero mantenerla, i renziani sono per unificarla in via definitiva. Epifani usa le stesse parole di D’Alema: “Il segretario del Pd può essere il candidato premier, ma può anche non esserlo”. Alla fine, l’unico punto fermo è il diktat, direttamente dall’alto: i componenti della commissione non devono parlare con i giornalisti. Il dibattito sembra solo un tentativo di prendere tempo. Per arginare Renzi, per cooptarlo, per disinnescarlo, per inghiottirlo, per mettergli i bastoni tra le ruote. Per... Epifani a Porta a Porta: “Renzi segretario? Gli serve un po’ d’esperienza. Meglio se fa il premier”.

Repubblica 18.6.13
Bersani in pressing su Guglielmo “Ci ripensi, è perfetto per la segreteria”
Ma l’ex capo della Cgil per ora resiste e comunque non si candiderebbe senza il consenso di Letta
di Goffredo De Marchis


ROMA — È Guglielmo Epifani il candidato su cui puntano i bersaniani per affrontare il congresso del Pd. Il segretario ha detto pubblicamente che non si presenterà al termine del mandato di transizione. Questo gli sta consentendo di svolgere in maniera perfetta il ruolo di garante delle mille anime democratiche, di essere considerato un punto di riferimento anche dai renziani come dimostra la conclusione del confronto sulla commissione del congresso. Ma a settembre le cose possono cambiare. Già prima dell’estate, la probabile candidatura di Matteo Renzi rimescolerà le carte e sarà vissuta come un tana libera tutti autorizzando ripensamenti clamorosi. Il pressing di Pier Luigi Bersani sull’attuale leader di Largo del Nazareno è per il momento discreto e sotto traccia. Però si prepara a diventare più insistente.
La vera incognita per la corsa di Epifani e per le mosse dei bersaniani rimane la posizione di Enrico Letta. L’attuale segretario accetterebbe un cambio di rotta solo in accordo con il premier. Non un sostegno esplicito perché Letta da Palazzo Chigi manterrà la sua neutralità, ma nemmeno un veto o peggio ancora una scelta di campo a favore del sindaco di Firenze. Comunque, il presidente del Consiglio sarà della partita con la sua corrente. Basterà vedere come si schierano i lettiani per capire il pensiero del loro leader. «Cosa fanno Letta e Franceschini? La loro scelta è determinante», ripete Bersani ai suoi interlocutori. Domani la componente dell’ex segretario tornerà a riunirsi a Roma cominciando ad affrontare il problema del nome da presentare al congresso.
Nella squadra di Bersani si pensa alle alternative. Nicola Zingaretti, che però ha detto un no netto. E Roberto Speranza, impegnato in questi giorni a gestire un altro tipo di pressioni. Dalla Basilicata, la sua regione, gli chiedono di correre per la carica di governatore dopo lo scandalo che ha travolto la giunta di centrosinistra. Il capogruppo
sarebbe l’unico in grado di salvare la baracca. Così resta Epifani, certamente non una seconda scelta. Ha il «profilo giusto» per rappresentare il territorio di sinistra disegnato in maniera evidente nel documento programmatico di Bersani. Nessuno del resto crede all’ipotesi del patto di non belligeranza Letta-Renzi. «Se Berlusconi stacca la spina al governo — spiega un deputato bersaniano — come si fa ad escludere Enrico dalla corsa per Palazzo Chigi? È impossibile. No, l’accordo tra Matteo e il premier non reggerebbe un solo minuto. I loro percorsi sono destinati a scontrarsi».
È un argomento forte su cui Letta comincerà a ragionare appena sarà più chiara la cornice del congresso. Anche Gianni Cuperlo aspetta di conoscere la mossa di Renzi. Pippo Civati invece correrà sicuramente «anche se fanno votare soltanto quelli che si chiamano Guglielmo », scherza riferendosi alla polemica sulle primarie aperte. «La spazio politico c’è», dice Civati. Quello a sinistra delle larghe intese, quello su cui lavora Fabrizio Barca che nel suo tour per i circoli non nasconde la simpatia, ricambiata, per il deputato lombardo. L’ex ministro, non a caso, aprirà la convention civatiana a luglio. Civati spera persino nel colpo grosso: il sostegno di Romano Prodi. Lo aiuta la sua battaglia ormai solitaria per far venire allo scoperto i 101 franchi tiratori del voto per il Quirinale.

Corriere 18.6.13
Il vero partito mai nato
di Michele Salvati


Viviamo in un regime non di «partito unico», ma di «unico partito». Con tutti i suoi difetti, la sola organizzazione politica che assomiglia ai grandi partiti di un tempo è il Pd, radicato nella società sia a livello nazionale che a livello locale, con legami articolati nello Stato e nelle pubbliche amministrazioni, con diffuse capacità di reclutamento di quadri tecnici in grado di cooperare a funzioni di governo, con una connotazione ideologica sufficientemente chiara. I difetti (... un grande partito, non un vero partito) li vedremo subito, e sono profondi. Ma assai più grandi sono quelli delle altre organizzazioni politiche. Il fallimento della Seconda Repubblica, al di là delle politiche inadeguate che ha adottato, sta nel non essere riuscita a creare un secondo grande partito, un secondo stabilizzatore politico, dotato delle stesse caratteristiche del primo, così risolvendo un problema di fondo della nostra democrazia: l'assenza di un grande partito di destra democratica.
Berlusconi aveva le risorse di consenso necessarie a creare una grande e stabile destra liberal-conservatrice, che nel tempo si rendesse autonoma dal carisma del suo fondatore. Non ha voluto o potuto guidare il delicato passaggio dal carisma all'istituzione; in ogni caso, non ci è riuscito. Ancor oggi, o scende in campo il suo attempato fondatore, o la destra balbetta e perde, anche se una «domanda di destra» è forte nella società. Delle altre organizzazioni politiche non vale la pena di parlare. O sono il frutto di vecchi radicamenti ideologici e di domande circoscritte localmente e settorialmente, o sono partiti e movimenti ancor più personali e carismatici del Popolo delle libertà, funghi che nascono nel terreno irrigato dall'indignazione diffusa, alternative episodiche all'astensionismo e al rifiuto della politica.
Condivido dunque, nell'analisi e nello spirito, l'editoriale del 16 giugno di Luciano Fontana, ma farei un'eccezione: il Pd è ancora (e chissà per quanto) un grande partito, e di un partito svolge le principali funzioni. Ma questo aggrava, non attenua, le critiche che gli possono essere rivolte. Passare dal carisma all'istituzione, dal potere personale ad una solida struttura ideologica e organizzativa — il compito di Berlusconi — era un'operazione difficilissima, e il nostro «Cavaliere» non è un De Gaulle. Il compito che attendeva la leadership della sinistra di governo, dall'Ulivo al Partito democratico, nei vent'anni che sono passati dalla crisi politica del 1992-93, era invece accessibile a un ceto politico capace ed esperto come quello di origine comunista e democristiana.
Questo ceto — i D'Alema, i Veltroni, i Marini, le Bindi — sapeva benissimo che, creato un amalgama in cui si fossero scolorite le vecchie appartenenze, il problema principale era quello di tenere insieme due tendenze che si sarebbero inevitabilmente contrapposte in una sinistra riformista con «vocazione maggioritaria»: una tendenza con orientamento più liberale e un'altra con orientamento più socialdemocratico. L'accento qui cade sull'espressione «tenere insieme».
Un partito è una comunità d'intenti, e si è partito se si riconosce lo stesso spirito di parte, la stessa comunanza profonda, lo stesso soffio vitale, alle principali tendenze che in esso operano, non se si respinge una di esse al di fuori dei confini del partito, gabellando la tendenza più liberale come «destra».
Se questo è vero, e nonostante le capacità e i meriti che prima ho riconosciuto, il Pd è un grande partito, ma non è ancora un vero partito: nel Labour, nel Ps, nella Spd, nel Psoe si combatte, ma nessuno mette in dubbio l'appartenenza al partito delle diverse tendenze che in essi si confrontano.
Il caso Renzi è esemplare. Difficile negare che Renzi sia il migliore acchiappavoti che il Pd ha oggi a disposizione. Se nel prossimo congresso Renzi corresse per la segreteria e vincesse, quanti, nei circoli, tra i militanti, nei quadri intermedi, riconoscerebbero in lui il «loro» segretario e collaborerebbero con lealtà, se non con entusiasmo? Le bizantine polemiche di cui i giornali ci informano — sulle regole statutarie, sulle primarie... — hanno tutte a che fare con questo problema profondo. E se il Pd non lo risolve, il problema non è solo del Pd, ma della democrazia italiana: un vero partito sul lato della sinistra di governo aiuterebbe la formazione di un vero partito sul lato della destra, perché una tendenza politica così diffusa non può rimanere a lungo senza rappresentanza. Che il Pd risolva il suo problema è una speranza, naturalmente. Ma il realismo mi costringe a far mia la frase finale dell'editoriale di Fontana: «La speranza di una "democrazia normale" con due poli… che competono per conquistare il consenso degli elettori è sempre più lontana».

La Stampa 18.6.13
Governo diviso, “svuotacarceri” a rischio
Alfano contro la proposta della Guardasigilli Cancellieri di far uscire 4 mila detenuti
di Francesco Grignetti


L’emergenza carceraria morde sempre più, specie ora che è arrivato il caldo dell’estate. Ma del decreto annunciato la settimana scorsa dal ministro Annamaria Cancellieri si sono perse le tracce. Non è stato discusso la settimana scorsa, né sarà esaminato mercoledì dal consiglio dei ministri. Forse, e bisogna sottolineare il forse, se ne parlerà venerdì. C’è la forte possibilità che del decreto originario resti la parte sulla violenza domestica, il furto d’identità e l’assunzione di 1000 nuovi vigili del fuoco, e che venga stralciata la parte dedicata alle carceri.
Il fatto è che dentro il governo si litiga. Tra Interno e Giustizia i punti di vista sono diversi e difficilmente conciliabili: Angelino Alfano non vuole nessun recidivo per furti o rapine in strada prima del tempo; la Cancellieri, all’opposto, vorrebbe qualche migliaio di detenuti al più presto fuori dalle celle.
Il decreto, come detto e ripetuto dal Guardasigilli nei giorni scorsi, dovrebbe servire da valvola di sfogo per un sistema, quello penitenziario, che ha ben 22mila detenuti in più della capienza regolamentare. Secondo gli auspici della Cancellieri, con il decreto 3 o 4mila detenuti avrebbero beneficiato di una liberazione anticipata. Il grimaldello giuridico era una riforma dell’articolo 656 del codice di procedura penale e quindi creare un sistema di sconti per i detenuti giunti quasi alla fine della pena comminata (l’ipotesi è di un massimo di 3 anni) in modo da favorire un certo numero di scarcerazioni anticipate. Ma anche su quest’ipotesi, che al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria consideravano proprio il minimo, si sono scatenati immediatamente gli allarmismi di leghisti, Fratelli d’Italia e grillini. Alfano poi s’è messo di traverso. Ed è iniziata una sfibrante trattativa su reati sì/reati no per stabilire chi potesse beneficiarne.
Un segnale delle tensioni crescenti si coglieva già nelle parole del ministro della Giustizia al Tg1 del 13 giugno, giovedì scorso: «Il decreto è un provvedimento che, salvaguardando la sicurezza dei cittadini perché non toccherà persone che hanno compiuto reati socialmente pericolosi, allenterà la pressione». Per poi ribadire, il giorno seguente: «Sarà individuata una tipologia di persone che hanno compiuto reati non socialmente pericolosi e che sono sotto il controllo del giudice e che hanno una serie di garanzie da non destare l’allarme sociale».
Siccome però s’è destato un forte allarme politico, anche ieri sono proseguite le trattative tra esperti dei due ministeri interessati.
E però la realtà carceraria è sempre lì nella sua drammaticità. Ci sono situazioni estreme, come racconta il sindacato autonomo della polizia penitenziaria Osapp, come Torino «dove i nuovi arrivati dormono, da giorni, per terra senza neanche il materasso» oppure Roma a Rebibbia, dove in cinque giorni ci sono stati cinque decessi. E alla disperata ricerca di spazi utili, si litiga sull’Asinara. Il sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta, prospetta la riapertura del vecchio carcere; il Governatore Cappellacci è contrarissimo.

La Stampa 18.6.13
"Francesco consegni le bobine della trattativa"
Fiaccolata a piazza San Pietro e appello a Papa Bergoglio per la verità su Emanuela Orlandi
di Giacomo Galeazzi

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Corriere 18.6.13
«Cantavamo Pippi, poi lei ha smesso Così ho dimenticato Elena nell'auto»
Lucio Petrizzi: non siamo mostri, può succedere a persone normali e perbene
di Giusi Fasano 


TERAMO — Le note di una canzoncina inchiodate alla memoria: «Ricordo che fino a metà del tragitto Elena cantava Pippi Calzelunghe assieme a me, ricordo il rallentare del canto... Ho pensato che si fosse addormentata e ho continuato a guidare verso l'asilo, a quel punto concentrato sulle incombenze delle giornata. Casistica clinica, lezioni, studenti da seguire, trasferimento nella nuova sede. E poi la ristrutturazione della casa, mia moglie Chiara incinta di otto mesi...».
Quell'asilo è un po' più in là dell'università dove Lucio Petrizzi insegna chirurgia veterinaria. «Per arrivarci io passavo qui, davanti al lavoro — racconta lui indicando un punto indefinito oltre il vetro del suo ufficio —. Quella mattina ho visto da lontano colleghi che stavano nel parcheggio a parlare e in quel momento tutta la mia attenzione è stata catturata da loro».
I colleghi, il lavoro, le troppe cose da fare. Tutto questo assieme ha fatto la differenza fra la vita e la morte di Elena, la sua bambina di 18 mesi. «I colleghi sono diventati in un istante il mio pensiero prevalente e seguendo quel pensiero sono entrato nel cortile dell'università e ho parcheggiato. È un meccanismo neurofisiologico, si sconnette la coscienza, si fanno le cose in automatico. Li ho salutati, siamo saliti assieme in ufficio, avevo in testa quello che dovevamo fare durante la mattina. Elena era scomparsa dalla mia mente, per me era all'asilo, al sicuro».
In macchina, proprio sotto la finestra dell'ufficio di Lucio e sotto il sole spietato di quel 18 maggio 2011, invece Elena ha boccheggiato fino all'una del pomeriggio. «Sono sceso per la pausa pranzo e quando sono salito in macchina ho sentito un rumore, un gemito. Per un istante ho pensato che un cane fosse entrato nell'auto, poi mi si è accesa la lampadina, mi è piombato addosso il terrore, è stato come se il sangue non circolasse più».
Il cuore del professore batteva così forte che quasi potevi sentirlo, dicono tutti. I colleghi, i bidelli, gli studenti a cercare inutilmente di calmarlo: «Vedrai che andrà bene, sta arrivando il 118, il battito c'è, lei respira». Era solo un gioco crudele della sorte. L'agonia della piccolina bionda è durata tre giorni. Tre giorni per tenere accesa la speranza e chiedere prestiti al tempo. «Ma io l'ho capito subito, quando l'ho presa, che non c'era più nulla da fare. Era completamente incosciente, ricordo che ho cominciato a chiamarla, l'ho abbracciata, ho cercato di rianimarla, di raffreddarla, di fare la respirazione bocca a bocca...».
Lucio si concede una pausa per non piangere. Un sospiro, come quando si esce dall'acqua a riprendere fiato prima di immergersi di nuovo in apnea. «Non siamo né mostri né pazzi, mi creda. Lo so che sembra impossibile e assurdo dimenticare un figlio in macchina ma io ci sono passato e lo posso dire: è successo a me, è successo ad altri prima e dopo di me e può succedere a chiunque. A persone normali e perbene, come noi. Negare che possa accadere significa permettere che accada di nuovo. Negli Stati Uniti si parla di più di trenta casi l'anno: possono essere tutti pazzi? Io sono imperdonabile, certo. Ma credo anche che in quello che mi è successo ci sia un difetto del vivere moderno. Questo continuo correre, questo senso del dovere esagerato, questo fare più cose assieme e dover sempre dimostrare di essere all'altezza... centomila obiettivi, risultati da raggiungere, e così ti perdi l'importanza delle cose reali. Finisce che lo spazio per portare tua figlia all'asilo lo ricavi, non è che costruisci il resto su quello spazio. E però se la società ci dice che dobbiamo correre ci deve dare anche la sicurezza per farlo. I sistemi di allarme sulle auto per non dimenticare mai più un bambino sono una possibilità, le scuole e gli asili che chiamano a casa se non vedono arrivare il piccolo sono un'altra possibilità. A questo punto qualcosa deve essere fatto».
Lucio come Andrea, il padre di Luca morto a due anni, due settimane fa. «Quando l'ho sentito sono rimasto senza fiato davanti alla televisione — racconta il professor Petrizzi —. È stato come sprofondare nell'abisso, di nuovo mi è sembrato di tornare nel parcheggio dell'università e avere fra le mie braccia Elena incosciente. Ho in mente ogni passaggio di tutto il calvario che Andrea e sua moglie dovranno sopportare. L'ho chiamato, prima o poi ci incontreremo ma adesso ha bisogno di tutto tranne che della mia invadenza».
La memoria corre ai giorni in cui era lui ad avere «bisogno di tutto». «A differenza di Andrea io non ho mai preso farmaci. Il dolore bisogna percorrerlo fino in fondo, non ci sono scorciatoie». Ed è il dolore che spesso seleziona dettagli fra i mille ricordi di Elena. Coincidenze, per esempio. «Il giorno prima di quella mattina avevo letto che era più sicuro tenere il seggiolino dietro il sedile di guida e così l'ho spostato e l'ho reso meno visibile. Maledettamente, mentre Elena era in macchina al sole, io sono sceso a metà mattina per prendere dal bagagliaio delle cose e non l'ho vista perché c'erano i vetri oscurati... non l'ho vista, capisce?».
Provare a perdonarsi è un esercizio inutile. Non succederà mai. «Quando ci hanno detto che non c'erano più speranze abbiamo deciso di donare gli organi. È importante per noi l'idea che il cuore di Elena stia continuando a battere. Sappiamo come risalire ai bambini che vivono grazie a lei, un giorno se vorranno proveremo a guardarli negli occhi».
Ci vedranno dentro gli occhi della loro piccola e Lucio la ringrazierà, come fa ogni giorno passando davanti alle sue ceneri sepolte nel giardino di casa. «Grazie di avermi reso migliore», le dirà, immaginandola com'era quell'ultima mattina, un po' vezzosa mentre mostrava il vestitino e chiedeva «papà sono bella?».
Dopo un mese e un giorno dalla morte di Elena è nata Sara. Per lei Lucio farebbe qualunque cosa eccetto una: portarla all'asilo. «Non ci riesco, non ce la faccio». Le ferite hanno bisogno di tempo e la strada per quell'asilo adesso è troppo buia. E accidentata.


La Stampa 18.6.13
Incriminato l’ex nazista Laszlo Csatary
È accusato della morte di 15 mila ebrei
Dopo la fuga in Canada è stato ritrovato lo scorso anno in Ungheria. Era uno dei criminali più ricercati

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La Stampa 18.6.13
New York, corsi per diventare streghe
Alla Wiccan Family Temple Academy of Pagan Studies si studia per arrivare al grado di sacerdoti
di Paolo Mastrolilli

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Repubblica 18.6.13
L’Aventino del voto
di Nadia Urbinati


Le elezioni comunali che si sono da poco concluse passeranno alla storia come le consultazioni che hanno registrato il crollo dei partiti simpatetici a visioni popu-liste e plebiscitarie (il Pdl, la Lega, e il M5S), un fatto molto importante per le implicazioni che può avere nel modo di concepire lo stato e la politica. Le elezioni passeranno anche alla storia come quelle che hanno visto un crollo della partecipazione elettorale, franata sotto il 50 per cento degli aventi diritto. Il Pd e il centrosinistra non hanno di che celebrare, anche se i loro candidati hanno vinto dovunque. Un en plein che lascia un retrogusto amaro. Ci si deve preoccupare di questo Aventino degli elettori? La domanda è retorica. Evidentemente ci si deve preoccupare, e la prima reazione a questa legittima preoccupazione dovrebbe essere una riflessione sul contesto socio- economico all’interno del quale si colloca questo declino della partecipazione elettorale. La crisi economica e la crisi partecipativa sono tra loro correlate, simili nella fenomenologia e negli effetti.
La crisi economica ha alimentato una psicologia della rinuncia. La sua radicalità ha tolto a molti il senso della possibilità effettiva di fare scelte lavorative e di carriera, di impegnarsi con successo per un futuro migliore o semplicemente sapendo che quel che fanno non è futile. L’idea che l’impegno individuale abbia efficacia, che ci sia un senso tangibile nel fare e sacrificarsi: questo sentimento è deperito insieme ai posti di lavoro. Ed è il segno della gravità della crisi. La comparazione tra quel che era e che è ora remunerativo fare; la riflessione al ribasso di quel che si può realizzare oggi rispetto a quel si poteva ieri: queste valutazioni comparative delle circostanze di vita sociale e di scelta portano molti italiani/e a concludere che ci sono pochi margini per rovesciare la loro condizione. In sostanza, il fare ha sempre meno potere. Il senso di futilità si è travasato anche nella sfera politica.
Anche come cittadini, molti sentono che il potere di voce che il diritto di voto dà è poco o per nulla efficace. Le barriere che ostruiscono l’intraprendenza sociale esistono anche nella sfera politica. Dove chi sta “dentro” o è “in politica” è percepito come depositario di un potere che molti, troppi, tra coloro che stanno “fuori”, sentono di non riuscire ad influenzare. Evidentemente i cittadini ordinari avvertono una lontananza tale da chi sta dentro la politica da sapere che la loro voce non arriva e se arriva non ha effetto. Si tratta di una preoccupante erosione del potere della cittadinanza.
Vi era negli anni Cinquanta una scuola americana di pensiero che sosteneva che l’apatia e la non partecipazione fossero un segno di salute della democrazia: come non si va dal medico quando si sta bene, così non si va a votare quanto non si ha nulla di cui lamentarsi. Chi tace (o sta a casa) acconsente. L’espansione sociale e il benessere a portata di mano rendevano forse plausibile questa interpretazione. Applicata all’Italia questa lettura non funziona: né per gli anni Cinquanta, quando il paese, dopo il fascismo, viveva la rinascita economica e quella democratica con comprensibile entusiasmo partecipativo; né per il presente, poiché l’astensionismo avviene in un clima di depressione economica estrema. Nella vita economica come in quella politica, se sempre più persone oggi non fanno o non cercano di fare è perché ritengono che non ne valga la pena. Questo spiega le cifre impressionanti dei giovani che non studiano e non cercano lavoro. E spiega le cifre del crollo della partecipazione elettorale.
Questo Aventino della fiducia nelle proprie possibilità e nel proprio potere è l’aspetto più preoccupante del nostro tempo. Le ultimissime consultazioni elettorali confermano il trend del senso di futilità del suffragio – sforzo partecipativo al quale non corrisponde nulla perché le cose non cambiano, le condizioni sociali restano critiche, e la classe politica resta lontana e quasi non toccata dall’opinione dei cittadini. Non c’è peggior segno di malessere psicologico di quel che viene dal senso di impotenza. Per la democrazia, soprattutto, che riposa sull’impegno volontario e libero dei cittadini di partecipare. La futilità della partecipazione al voto è figlia del senso di sfiducia nell’efficacia del voto – un senso che si è consolidato nel corso delle ultime tornate elettorali, fino a mostrarsi nelle forme radicali che abbiamo visto nel fine settimana dei ballottaggi. La maggioranza che ha vinto è conteggiata su una minoranza di partecipanti. Certo, le regole sono legittime perché è la conta dei voti che vale. Ma è lecito preoccuparsi molto del declino della legittimità morale perché quando il diritto di voto viene giudicato futile è perché gli elettori sentono di non avere potere. Una democrazia che infonde impotenza alla maggioranza dei suoi cittadini è una democrazia davvero anomala.

Repubblica 18.6.13
Le voragini della democrazia italiana
di Andrea Menzella


Circola l’illusione che, cambiando la forma del Parlamento, svuotando il bicameralismo, tagliando il numero dei deputati, si risolva la grande questione democratica che si è aperta nel Paese.
Non è così. Bisogna anzi avvertire i tanti che si industriano su progetti di ingegneria istituzionale che ogni possibile costruzione – pur necessaria – sarà sospesa in aria: fino a che non si riuscirà a connettere le sue fondamenta con quello che si muove nella società che deve rappresentare.
La democrazia italiana sta male non solo perché ci sono due Camere invece di una o perché i parlamentari sono 1000 e non 500. Ma perché le si sono aperte dentro due immense voragini. Una è quella che ormai separa le istituzioni rappresentative dalla cittadinanza concreta, l’altra è quella che si è creata tra il principio di maggioranza politica e il principio di competenza tecnica.
La prima scollatura ha determinato la crisi del rapporto tra i mondi vitali (interessi, speranze, volontà) della gente qualunque e la rappresentanza collettiva che se ne ha nelle istituzioni. L’altro vuoto, quello tra maggioranza elettorale e competenze, ha portato alle varie storture: la necessità di governi tecnici senza vere basi politiche, l’egemonia di una amministrazione pubblica autoreferenziale, la formazione di gruppi parlamentari “per caso”.
Alla radice di questi aspetti di dissesto democratico vi è la fine del partito politico di massa: collettore di bisogni, organizzatore sociale, promotore e animatore delle conoscenze tecniche intorno a progetti di progresso comunitario. È accaduto che, ad un certo punto, l’andamento del mondo è stato più rapido della capacità culturale del partito politico, uscito dalla storia dell’800, di adeguarsi ai mutati orizzonti. Rattrappito su se stesso, non ha più capito niente e si è fatto sommergere dalla società com’era diventata. Il suo posto è stato preso da non-partiti, i partiti “personali”. Oppure da qualcuno che si è appropriato dell’antico marchio come bene pubblicitario utilizzabile nel mercato elettorale. In altri casi sono nati partiti elettorali programmati per “non essere partiti”. In un unico caso – quello del Pd – è sopravvissuta la trama di un insieme a cui con straordinario sforzo di memoria e di fiducia ancora si reggono “militanti” in attesa di parole e tempi nuovi di ritrovamento.
Se così stanno le cose, il problema italiano di più difficile soluzione non è la nuova conformazione della rappresentanza istituzionale ma la ricostruzione della vertebratura della società rappresentata. La validità di progetti istituzionali si deve misurare tutta sul loro grado di compatibilità con nuovi modi di essere e di esprimersi della comunità di riferimento, modi che devono essere “ordinati” per avere efficacia politica.
Come “inventare”, allora, un partito capace di ristrutturare la società? O, il che è lo stesso: come si può ristrutturare la società mediante l’opera di un partito? Come un partito (“dopo” i partiti) può ora raccogliere, coordinare e riordinare le domande di una società complicata e senza idee unificanti? E fare in modo che esse possano rivitalizzare, seguendo una linea di bisogni e di orientamenti reali e attuali, le istituzioni rappresentative?
La Costituzione usa parole forti per definire la funzione dei partiti politici (“concorrere a determinare la politica nazionale”, articolo 49). Ma non indica gli strumenti e le procedure. Il problema è dare sostanza a quella formula, e non basta trincerarsi dietro alternative che non dicono niente: partito “leggero”/partito “pesante”. In un documento che sta suscitando dibattiti, Fabrizio Barca tenta una risposta, convincente. Per dare sostanza alla formula della Costituzione occorre fare del partito politico e dei suoi “quadri” i promotori — territorio per territorio e dal territorio locale al territorio nazionale – di nuovi modi di deliberazione democratica. Che significa? Significa che la cittadinanza del “cittadino” qualunque non può esaurirsi, di tanto in tanto, e sempre più svogliatamente, nel momento elettorale. Essere cittadino ogni giorno vuol dire farsi carico dei problemi concreti che quotidianamente lo coinvolgono e che le istituzioni rappresentative sempre più fanno fatica a risolvere, da sole. Dalle minute questioni di prossimità (la scuola, la strada, il decoro urbano, la sicurezza del quartiere. ..) a quelle grandi della comunità più larga ( l’opera pubblica interregionale, il rapporto tra fabbrica e ambiente, la bioetica, persino: come nella Francia del débat public...).
Per risolvere questioni come queste non bastano neppure i referendum. Lavarsene le mani con un sì o un no, darla vinta, senza motivazioni, sempre e in ogni caso ad una maggioranza, può essere, semplicemente “poco democratico”. Questioni complesse hanno bisogno di una procedura ponderata: in cui le argomentazioni pro e quelle contro si misurino in condizioni di assoluta parità. Il conflitto programmato è sempre meglio del divorzio (dalla politica). Le istituzioni rappresentative, locali e nazionali, tireranno le somme finali del dibattito pubblico.
Ma è importante che questo dibattito, in ogni caso, avvenga secondo procedure “vere”, fissate in leggi e regolamenti (a cui già si dovrebbe cominciare a porre mano): che si avvalgono anche della Rete come strumento virtuale per arrivare a luoghi reali, e non come spugna assorbente e incontrollabile di ogni passaggio. Dando impulso a questo metodo, il partito rientra, attraverso i problemi, nel tessuto sociale.
La scommessa è cercare di avvicinare, di porre su basi di legittimazione più larghe e continue, le istituzioni rappresentative. Di far fruttare il capitale sociale di cui l’Italia è già così ricca (i volontari, le associazioni, i “saperi”) e di collegarlo al rarissimo capitale politico esistente. Di diminuire i forti “costi di intermediazione” e di una burocrazia pubblica che spesso risponde solo a se stessa.
Un partito che si proponesse questa molecolare opera di rianimazione politica e culturale avrebbe già, di per sé, quel che si chiama un “programma”. E anche un modo di essere.

Repubblica 18.6.13
Anna Frank
L’eredità contesa del simbolo dell’Olocausto
di Scott Sayare


Le due associazioni che portano il nome della ragazzina vittima del nazismo si contendono lettere e documenti
Ma il cuore della disputa non sono solo le carte: è quale messaggio sia giusto trasmettere con la sua opera

AMSTERDAM In una lettera indirizzata a sua nonna nel 1940, prima di entrare in clandestinità nel nascondiglio, l’undicenne Annelies Frank, detta Anna, riferì un dettaglio che all’epoca non sembrava poter avere grandi conseguenze. «Papà è molto impegnato con l’ufficio scriveva - sta traslocando a Prinsengracht e io andrò a prenderlo alla fermata del tram quanto più spesso possibile». Fu lì, nel locale segreto sovrastante l’ufficio del padre a Prinsengracht, il Canale del Principe, che la famiglia dal 1942 si sarebbe nascosta per oltre due anni dagli occupanti nazisti. Ed è lì, nel museo che ora occupa quell’edificio, la Casa di Anna Frank, che i visitatori possono vedere quella lettera.
La custodia della missiva — insieme ad altri 10mila documenti e fotografie d’archivio simili — è al centro di un’aspra battaglia legale tra la Casa e l’Anna Frank Fonds, l’altra fondazione che si adopera per diffondere la storia di Anna Frank. L’Anna Frank Fonds, fondata nel 1963 per gestire i diritti d’autore del diario di Anna Frank, prestò la maggior parte degli archivi ora contestati alla Casa di Anna Frank nel 2007: adesso la cita in giudizio per ottenerne la restituzione. Gli amministratori della Casa di Anna Frank reagiscono dicendo di aver sempre creduto che i documenti fossero stati dati loro per sempre. La sentenza è attesa per le prossime settimane.
Le due organizzazioni si sono scontrate per anni su questioni legali in controversie varie: la causa in corso però è particolare, perché evidenzia una spaccatura di principio tra le due associazioni e una precisa divergenza nelle opinioni che hanno di Anna Frank e di quello che dovrebbe essere il suo vero lascito.
Oltre alla causa che ha intentato, l’Anna Frank Fonds ha formalmente accusato la Casa di Anna Frank di voler trasformare la giovane ragazza in un’affascinante icona di speranza, ma la cui identità di ebrea e la cui collocazione tra i milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto sono state evidenziate troppo poco. Gli amministratori della Casa, che dirige una rete di mostre e di centri in tutto il mondo, sottolineano che il loro modo di raffigurare Anna è strettamente legato ai desideri di suo padre, Otto Frank, che sopravvisse ad Auschwitz e dedicò la vita a diffondere il messaggio di tolleranza che credeva che sua figlia incarnasse. «Entrambe le associazioni vogliono essere proprietarie di Anna Frank - dice Melissa Müller, biografa di Anna entrambe vogliono imporre un certo modo di considerare Anna Frank”.
Anna morì di tifo a 15 anni nel campo di concentramento di Bergen-Belsen nel 1945. Ronald Leopold, direttore esecutivo della Casa a lei dedicata, dice che Otto Frank sperava che sua figlia diventasse «un simbolo del futuro» e non del passato. E per questo motivo la Casa, che ogni anno attira oltre un milione di visitatori, cerca di diffondere un “messaggio universale” di tolleranza. Ma quel messaggio è radicato nella storia «molto particolare» di quel piccolo edificio al numero 263 di Prinsengracht.
Alcune pagine del diario sono esibite nelle bacheche e alcuni brani del testo scritto da Anna compaiono in tutto il museo, accanto a fotografie della ragazza. Compaiono però poche immagini dell’Olocausto o dei campi di concentramento nazisti o della propaganda nazista: questa è la scelta che l’Anna Frank Fonds critica maggiormente.
Secondo Yves Kugelmann, membro del consiglio di amministrazione dell’Anna Frank Fonds, il museo «è privo di contesto », il volto sorridente di Anna è «troppo presente» e la Casa è diventata di conseguenza «luogo di pellegrinaggio», dove la ragazzina è usata «per tutto e per niente». Anche se suo padre desiderava diffondere un messaggio di tolleranza, dice Kugelmann, di sicuro non voleva vedere sua figlia commemorata in un museo. La Casa di Anna Frank, prosegue Kugelmann, in un primo tempo era stata concepita per diventare un luogo di incontro per i giovani di tutto il mondo.
Otto Frank fondò l’Anne Frank Fonds per gestire i diritti del diario della figlia e per distribuirne i proventi ad associazioni umanitarie, compresa la Casa. Con la morte della seconda moglie di Otto Frank nel 1998, i Fonds hanno ereditato una gran quantità di materiale d’archivio e in un certo senso sono andati oltre il loro ruolo tradizionale. La Casa e i suoi sostenitori hanno messo in discussione questa evoluzione, affermando che i Fonds avevano esagerato. «Otto Frank non ha mai avuto l’intenzione di far sì che i Fonds avessero una loro mostra. Per quello c’era la Casa» dice Eva Schloss, figliastra di Otto Frank, un tempo in possesso di parte dell’archivio oggetto dell’attuale controversia. Eva Schloss ha anche aggiunto che Otto Frank, ebreo non praticante, non ha mai pensato che la storia di Anna dovesse essere presentata specificatamente come quella di una ragazzina ebraica. «Ciò che Otto voleva» è la preoccupazione fissa e la più importante di entrambe le associazioni. Tuttavia, a decenni di distanza dalla sua morte, avvenuta nel 1980, i suoi desideri diventano sempre meno chiari.
© New York Times La Repubblica Traduzione di Anna Bissanti

lo psicanalista junghiano...
Repubblica 18.6.13
Hillman inedito
Un libro esoterico e un grande viaggio nei colori. Torna la voce dell’eretico studioso dell’anima
Il nero della Nigredo, il bianco dell’Albedo ma anche il mistero del blu nei ricordi di un genio musicale
di Luciana Sica


Emoziona riascoltare la voce di James Hillman, l’avventura del suo pensiero imprevedibile, la sua scrittura coltissima ed elegante. È un viaggio nei colori Psicologia alchemica (Adelphi), un libro esoterico e ammantato di mistero, ma laico per non dire pagano, privo di ogni deriva spiritualista. Non molto tempo prima di morire nell’ottobre di due anni fa, lo stesso Hillman ha raccolto gli articoli e gli interventi scritti tra il ’77 e il 2004 sull’alchimia, un tema di decisa derivazione junghiana. Per sua scelta, il libro è uscito nel 2010 da Spring, l’editore americano che sta pubblicando tutta l’opera hillmaniana. Ma da noi era inedito, tranne il capitolo su L’azzurro alchemico e la unio mentalis.
È l’anima che cambia colore, la sofferenza può avere tonalità molto diverse. Come il blu che con il suo presagio d’argento tende a liberarsi dall’oscurità, e somiglia tanto alla tristezza che emerge dalla disperazione. O come la volta del caelum che consente la perdita di sé in un’estasi della mente. Qui sorprende la lunga citazione dall’Autobiografia di Miles Davis, la devozione di Hillman per quel genio musicale e anche la sua competenza in fatto di jazz. Il primo ricordo del grande trombettista - aveva tre anni - è legato a «una fiamma blu che saltava fuori da una stufa», a emozioni fortissime come il calore così vicino alla faccia e la paura più profonda, ma anche un senso d’avventura e una gioia selvaggia: «Ho sempre pensato e creduto fin da allora che i miei movimenti avrebbero dovuto spingersi in avanti, oltre la sommità di quella fiamma».
Incantato dall’esperienza infantile del musicista, Hillman ragiona sull’attrazione di Miles Davis per quella fiamma di un colore imprevisto. La vede come una sfida ad affacciarsi sull’orlo «con il suo uso inventivo della sordina, gli a solo come se “pensasse” la musica, i titoli dei suoi pezzi migliori, Kind of Blue, Blue in Green... ». Ma da Novalis a Goethe, da Proust a Cézanne, tante storie si intrecciano prima di arrivare alla conclusione - con Merleau-Ponty - che la coscienza satura di azzurro illimitato è il cielo stesso. È unus mundus.
Prima di ogni altro colore, c’è comunque l’assolutezza del nero - della Nigredo - che costituisce la base dell’opus alchemico e spesso un passaggio obbligato dell’opus analitico. Quando a prevalere è la voce del corvo, si è impigliati nella rete traumatica del passato e in una dolorosa unilateralità del pensiero, alla base di ogni nevrosi. Lo spirito nero che abita il mondo depressivo della notte va allora “decapitato”, con un gesto netto che libera l’anima dalla sue cupe identificazioni, come del resto indicava già Jung. La decapitazione è la risposta degli alchimisti alla “seduzione del nero”: è una ritrovata capacità di separare, di compiere distinzioni.
È solo allora che la Nigredo potrà cedere il passo all’Albedo, il pallore della Luna nel simbolismo cromatico dell’alchimia, il bianco con la sua luminosità, il colore dell’analisi. Una meta sembra raggiunta, una modalità più impersonale di pensare e di immaginare, senza coincidere con l’esperienza soffocante dell’identità. È uno stato che non desidera altra luce, altro calore: per dirla con Hillman che cita Figulus, l’erede di Paracelso: «La materia, portata a bianchezza, rifiuta di essere corrotta». E invece a imporsi sarà proprio la corruzione, altra parola-chiave dell’alchimia che - in un’accezione nient’affatto negativa - indica la possibilità del cambiamento, anche il pericolo di regredire o invece di affrettare il passo. Il viaggio continua e Hillman - d’accordo con gli alchimisti sconsiglia di precipitarsi nell’irrossimento della Rubedo, termine che allude solo con apparente chiarezza a una più sanguigna colorazione dell’anima.
Qui siamo in piena “opera al giallo”, in un capitolo stupefacente, con un post- scritto dell’autore datato ottobre 2009. Se il giallo ha connotazioni negative come la codardia e la gelosia, ne ha anche di solari come il grano, i fiori primaverili, il miele... In più, da Edgar Allan Poe a Van Gogh, a Kandinskij, nel campo dell’arte la pazzia si colora di giallo. Ma questa doppia polarità non consente di cogliere «l’importanza del giallo per una psicologia che sia alchemica». Il punto è un altro: se il bianco rifiuta di essere corrotto, rischia di rimanere uno stato astratto, “morto”. Sarà l’ingiallimento a infondere vita, a rappresentare simbolicamente una “resurrezione” (citrinatio est resuscitatio).
Alla mente ingiallita non basta più la coscienza imbiancata, la consapevolezza, perché si contamina con lo sporco del mondo, riconosce la complicazione delle emozioni. Quando è il giallo a insinuarsi, «ci sentiamo più acutamente vivi »: usciamo dai recinti della soggettività, più fuori di noi, più dentro l’Anima Mundi. A Hillman non interessa però l’alchimia come un manuale di istruzioni da adattare alla psiche. A catturarlo è il suo linguaggio metaforico - fluido e oscuro - così vicino alla base poetica della mente, così distante dalle «parole prosciugate del loro sangue». Anche con insofferenza per certe concettualizzazioni che vorrebbe “deletteralizzate”, tanto da scrivere con amabile sfrontatezza: «“l’Io” e “l’Inconscio”... Chi li ha mai incontrati, se non nei libri di psicologia?». Una boutade da fuoriclasse che farà tanto arrabbiare alcuni geometri della
psiche.
Ma non Luigi Zoja, grande nome dello junghismo e grande amico del fondatore della psicologia archetipica: «La prima volta l’ho incontrato allo Jung Institut di Zurigo,
era il ’68. L’ultima volta a New York, nel 2009... È un percorso eccentrico il suo, ma rigoroso, comunque segnato dalla scelta a poco più di sessant’anni di non fare più analisi individuali. È Hillman a dirlo con la relazione che tiene al congresso di Parigi dell’89, ora in Psicologia alchemica.
Da allora, l’anno della sua svolta, l’ho sempre visto come un sublime narratore dell’anima, con l’idea che la psicoanalisi debba smetterla di contemplarsi allo specchio e invece guardare alla finestra, affacciarsi sul mondo... Non è però mai stato un saggista pop e lo dimostra questo libro a tratti impossibile, di così evidente impronta junghiana». Il grande eretico, il traditore del maestro, alla fine della sua vita torna alle origini, all’amato-odiato Jung. Non a caso il suo estremo lascito sarà un libro Sulle immagini, scritto con Silvia Ronchey, a partire dalla celebre visione di Jung nel 1913 al mausoleo di Galla Placidia di Ravenna (uscirà da Rizzoli il prossimo anno). Restando nel mood alchemico, le scelte di Hillman fanno venire in mente l’Ouroboros, quel serpente che si morde la coda, un simbolo molto antico per rappresentare l’eterno ritorno, la natura ciclica delle cose, un processo che una volta concluso è destinato a ripetersi.

IL LIBRO Psicologia alchemica
è una raccolta di saggi di James Hillman (Adelphi, traduzione di Adriana Bottini, pagg. 444, euro 35)

Repubblica 18.6.13
Pontormo, diario di un misantropo
“Il libro mio” del pittore, curato da Salvatore S. Nigro
di Paolo Mauri


Jacopo Carucci detto il Pontormo era poco più che un ragazzo quando si ritrovò a dipingere insegne trionfali per l’elezione al soglio pontificio di Leone X, che era Giovanni dei Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Pontormo fu subito molto apprezzato; Giorgio Vasari racconta la sua vita indugiando sulle molte commissioni ricevute, ma l’artista non aveva un carattere facile: qualcosa guastò i suoi rapporti con Andrea del Sarto che gli era stato maestro. Lo sapeva bene il Bronzino suo allievo ed amico, che spesso dovette subire i suoi modi selvatici. A fine carriera e per lungo tempo lo troviamo intento a dipingere un Giudizio Universale in San Lorenzo. Non riuscì a finirlo e l’opera, in sospetto d’eresia per aver posto Pontormo il Cristo sopra il Padre, fu cancellata nel Settecento con una mano di bianco. Negli ultimi due anni di vita (1554-56) tenne una sorta di diario minimo, Il libro mio, ora pubblicato, anche in riproduzione anastatica, da Salvatore Silvano Nigro con un largo e godibilissimo commento che è già libro a sé: L’orologio di Pontormo.
E recita il sottotitolo: Invenzione di un pittore manierista.
La ricezione di un artista è parte integrante della sua figura e Pontormo, che aveva assorbito la lezione di Dürer oltre a quella di Michelangelo, crebbe infatti nel tempo, rivelando tutta la sua originalità.
A metà Ottocento Jacob Burckhardt nel suo Cicerone raccomandava Pontormo (con il suo allievo Bronzino) soprattutto per i ritratti, ma un secolo dopo Cesare Brandi non aveva dubbi: Pontormo era fino alla metà del Cinquecento la figura dominante a Firenze, essendo Michelangelo a Roma. Si adunarono in lui, scrive Brandi, «le qualità più alte della pittura fiorentina, come in un elisir al limite del veleno». E dunque la perdita delle pitture di San Lorenzo appare a Brandi «fra i tanti disastri della storia del-l’arte, uno dei maggiori». Un vuoto di cui restano comunque diverse tracce, almeno per uso degli studiosi e per l’intelligenza del progetto.
Pontormo non era ricco. Già Vasari lo vede intento a «sottilissime spese perché era poverino» e nel Libro mio lo seguiamo passo passo mentre annota in modo molto semplice (come Guicciardini, è stato detto) accadimenti quotidiani con il prevalere dei cibi che aveva preso e talvolta condiviso con qualcuno. «È un assai strano libro, questo del Pontormo», ha scritto Giorgio Manganelli, che gli dedicò un articolo qui usato come prefazione: «un quaderno avaro, acre, esangue; ma, a rileggerlo, dà ogni volta suoni diversi».
Credo sia stata proprio l’apparente inesistenza (un altro vuoto) ad attirare l’attenzione di Nigro. Che racconta: «In casa Pontormo il cibo veniva pesato. Il prezzo ne definiva la squisitezza e la qualità. Si mangiucchiavano e mangiottavano mangiarini economici: “arnioncino d’agnello”, “meza testa di cavretto”, “fegato fritto d’agnello”».
Pontormo mangiava e soffriva. Si preoccupava della salute e dei malanni avendo ormai superato i sessant’anni. Era ipocondriaco? Può darsi. Si è molto strologato sulla sua misantropia divenuta proverbiale: viveva in una stanza alla quale si accedeva con una scala di legno che il maestro tirava su con una corda, isolandosi dal resto del mondo. La “prigione” gli consentiva di dar libero corso alla fantasia, di figurarsi mille mondi e di riflettere sulla pittura. Il diario è anch’esso legato alla pittura del Giudizio che Pontormo si portava nella testa e al quale sempre pensava. Ma era veramente un misantropo? Certo la sua clausura domestica era destinata a diventare leggendaria. Nigro ricostruisce molto bene il riemergere di Pontormo in situazioni da lui ormai lontanissime: per esempio nel romanzo Il contesto di Sciascia, dove, cercando l’ispettore di polizia Rogas un certo Cres e vedendo che non rispondeva, si ricorda di Pontormo: «Il pittore sentiva gli amici bussare e chiamarlo e faceva finta di non essere in casa» e poi ci rimuginava sopra per un paio di giorni.
L’abitazione di Pontormo, una casa pendente, viene in mente a Mario Praz in visita a Bomarzo, il celebre parco nel viterbese abitato da mostri di pietra. Siamo nel 1949 e l’illustre anglista è ansioso di vedere il parco degli Orsini poco lontano da Roma. «L’intenzione di dilettare comune ai giardini cinquecenteschi, è divenuta intenzione di meravigliare e sorprendere», scrive Praz. E anche un pittore manierista come Pontormo sorprende: «Sabato feci quella testa di quel bambino che tiene la corona», annota verso la fine del suo diario. Ed ecco le ultime parole registrate: «Venerdì cominciò a essere fredo, e alla sera cenammo alla taverna Daniello, Giulio, al Piovano: anguilla arosto che tocò soldi 15».
L’orologio di Pontormo è un viaggio tra i fantasmi di un’epoca eccezionale, di cui riassaporiamo capolavori e cadenze di vita quotidiana, scherzi letterari e discussioni inutili. Come quando si cercò di decidere se il primato spettava alla pittura o alla scultura e Michelangelo decretò che si trattava di una perdita di tempo.

IL LIBRO L’orologio di Pontormo di Salvatore Silvano Nigro (Bompiani pagg. 224 euro 12,50)