mercoledì 19 giugno 2013

l’Unità 19.6.13
Epifani: non ci sono alternative a Letta


il Fatto 19.6.13
M’hai detto un prospero
L’Unità riabilita Togliatti. E Stalin?


L’altro giorno ho avuto l’incauta idea di rispondere a tal Michele Prospero, che sull’Unità mi attribuiva un appoggio alla Lega nel 1994 (falso), un fiancheggiamento ventennale a Berlusconi (le pazze risate) e un appello sedizioso ai grillini perché marcino sull’aula sorda e grigia del Parlamento (balla sesquipedale). Il pover’uomo risponde ieri che sarei “nervoso” (toh, una persona calunniata, anziché ringraziare il calunniatore, risponde). Poi, con agile piroetta, passa alla beatificazione di Palmiro Togliatti, da me imprudentemente descritto come uomo di Stalin e complice dei gulag e dell’eliminazione di anarchici e trotskisti in Spagna. A dire del Prospero, questo sarebbe “cabarettismo da anni 50 che urta contro tutte le acquisizioni storiografiche, unanimi nel valorizzare, anche nell’esperienza spagnola, un Togliatti che opera nella tragedia come elemento di moderazione”. Ecco: il Migliore lasciò ammazzare anarchici e trotskisti, abbandonò nei gulag i compagni deviazionisti, sostenne l’accusa contro l’ex amico Bucharin, consegnò alla polizia politica i comunisti polacchi, accusò quelli tedeschi, partecipò a tutte le purghe staliniane, ma sempre moderatamente. Anzi, “proprio in quei giorni Togliatti mette a punto l’obiettivo di ‘una democrazia di tipo nuovo’ che tanta strada farà al suo rientro in Italia”. Infatti, al rientro in Italia, magnificò le dittature dell’Est (“nei paesi dell’Est, nonostante limiti ed errori, si compie un vero processo di libertà, mentre in Italia esiste una dittatura di classe della grande borghesia monopolistica”) e ancora nei primi anni 60 dichiarò che “nell’Est si realizzano quelle che un tempo furono le virtù evangeliche dell’amore”. Una democrazia di tipo nuovo. Un po’ totalitaria. Ma moderatamente. Qualcuno fermi Prospero, possibilmente prima che riabiliti anche Stalin. Moderatamente. (m.trav.)

Corriere 19.6.13
Fassina e l'asse con Brunetta:
«Sì, sul fronte Iva è nei fatti»
«I giovani turchi? Quella corrente non è mai esistita»
di Fabrizio Roncone

qui

Corriere 19.6.13
I nuovi ricchi, in Italia ci sono 8.000 paperoni in più
di C. D. C.


Sempre più ricchi, nonostante la crisi. La platea dei milionari del mondo si allarga a 12 milioni (+9,2%) di persone, almeno secondo il «World Wealth Report 2013» della società di consulenza Capgemini e della Royal Bank of Canada (Rbc). Dopo il calo dell’1,6% registrato nel 2011, aumentano i super ricchi con patrimoni da investire che superano un milione di dollari e che raggiungono un totale di 46.200 miliardi di dollari. Il Nord America l’area geografica con la più alta concentrazione di paperoni, che recupera il primo posto dopo averlo ceduto, l’anno precedente, al Far East: 3,73 milioni (e una ricchezza di 12.700 miliardi di dollari), contro i 3,68 milioni dell’area Asia Pacifico (ricchezza di 12.000 miliardi). E nella classifica anche l’Italia fa la sua parte. Nonostante i dati sulle dichiarazioni Irpef parlano di appena 28 mila persone che dichiarano più di 300 mila euro di reddito, esistono in Italia, secondo il rapporto Capgemini, ben 176 mila paperoni (in crescita di 7.500 unità, +4,5%) che hanno liquidità da investire per oltre un milione di dollari. Il tutto per un patrimonio stimato in 336 miliardi di dollari. Tanto che l’Italia si piazza al decimo posto per numero di milionari ospitati, di cui circa 2.000 vengono considerati super ricchi (con un patrimonio di oltre 30 milioni di dollari). «Si tratta di soldi pronti ad essere investiti — precisano dalla società di consulenza — quindi escludendo la prima casa, beni di altri tipo come le opere d’arte e tutto ciò che non può essere messo a capitale in tempi rapidi». Ma tant’è.

Corriere 19.6.13
Bersani va all'attacco di Renzi «Segretario scelto dagli iscritti»
L'ex leader: io non sconfitto, dopo il voto cercai Grillo
di Tommaso Labate


ROMA — Ovviamente alleggerisce la frase citando la formula «primarie aperte». Naturalmente precisa che «questo è quello che penso io, se poi non va bene alla maggioranza mi adeguerò». Ma il passaggio dell'intervento di Pier Luigi Bersani a Otto e mezzo dedicato all'elezione del prossimo segretario del Pd è di quelli che potrebbero innescare il timer dell'ennesima guerra contro Matteo Renzi. «Io sono perché si lascino aperti i circoli fino al voto, perché ci sia una campagna straordinaria che consenta a chi vuole di tesserarsi fino all'ultimo», scandisce l'ex leader. Ma «visto che dobbiamo scegliere un segretario di partito e non il candidato premier, allora secondo me devono votare solo gli aderenti al Pd».
Li chiama «aderenti», evitando accuratamente la parola «iscritti». Ma il senso è quello. In un colpo solo, insomma, Bersani non solo si oppone al pressing di chi, come Renzi, vorrebbe un voto aperto a tutti. Ma rifila un siluro implicito al «lodo» con cui D'Alema aveva sminato la discussione sull'automatismo tra leadership del Pd e premiership del centrosinistra. Per l'ex numero uno del Nazareno, insomma, la confusione tra i due ruoli non può esserci. Si elegge un segretario e lo dovranno eleggere gli iscritti. Punto.
Di fronte alla presa di posizione di Bersani sul limitare l'accesso ai gazebo ai soli iscritti può succedere di tutto. Persino che Matteo Renzi, che questa mattina sarà ospite della trasmissione Agorà su RaiTre, si spinga fino a minacciare il suo ritiro da una competizione alla quale — tra l'altro — ancora non si è iscritto. D'altronde, basterebbe ascoltare l'adagio che il sindaco di Firenze ripete a tutti i fedelissimi che gli chiedono di sciogliere immediatamente la riserva. «Se ci sono delle regole accettabili e con primarie davvero aperte, allora mi candido». Altrimenti, è la subordinata, «che si scelgano il segretario da soli. Rimango a Firenze e faccio il battitore libero».
Ancora più facile prevedere il commento alle parole di Bersani che sempre Renzi condividerà con Massimo D'Alema. Quando in diretta tv gli chiedono dei presunti movimenti anti-bersaniani di «rottamatore» e «rottamato», l'ex segretario non solo non smentisce. Ma rifila al dialogo sottotraccia dell'inedito tandem una sonora stroncatura, tra l'altro archiviandolo alla voce «tatticismi». Tatticismi, aggiunge, «che si spera lascino il campo a discussioni più profonde».
A prescindere dal fatto che non si candiderà al congresso, Bersani vuole ancora dare battaglia: «Non mi sento un leader sconfitto». E lo si vede anche dalla rivendicazione di parte del successo alle amministrative, coincise col crollo del Movimento Cinquestelle. «Anche quelli che mi rimproveravano il famoso streaming cominciano a riconoscerlo. Quel passaggio non è stato inutile». Come rivendica tanto la sua fedeltà al governo Letta («Voglio vederlo in faccia uno che pensa che io possa farlo cadere»), quanto l'elezione di Giorgio Napolitano («Non gli ho chiesto l'incarico perché altrimenti, al Senato, ci saremmo presentati sia io che lui, un presidente in scadenza e senza la possibilità di sciogliere le Camere»). E poi lo ripete in continuazione. «No a partiti padronali e personali». Evocando Berlusconi ma pensando al rischio Renzi? Impossibile dirlo. Di certo c'è una rivelazione, che l'ex segretario accenna per la prima volta. Quando confessa di aver cercato, durante le tormentate settimane post-voto, Beppe Grillo. In persona. E di più non dice. Neanche sui cavalli su cui potrebbe puntare al congresso. «Me ne vanno bene quattro o cinque...».

Corriere 19.6.13
Lodi (e sgambetti) Ora il rottamatore teme «fregature» «Epifani è geloso»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Gli ultimi compromessi siglati in casa democratica non devono trarre in inganno. Sono in pochi a voler veramente aprire la porta a Matteo Renzi. E sono ancora di meno quelli che intendono consegnargli le chiavi di Largo del Nazareno.
Il sindaco di Firenze lo sa bene e non si fa troppe illusioni. Come non se ne è fatte sul ruolo di mediatore che dovrebbe giocare Guglielmo Epifani. Renzi sa che il segretario è in pista anche per un prossimo giro. Ne ha avuto la prova provata qualche giorno fa, quando lo hanno chiamato dalla Sicilia per andare a dare una mano al partito impegnato nei ballottaggi delle amministrative. Venerdì sarebbe il giorno ideale, gli spiegano al telefono i big del Pd isolano. Il primo cittadino del capoluogo toscano accetta. Ma ecco che, appena saputa la notizia, con i siciliani si appalesa Epifani. Prima fissa un'iniziativa per domani a Ragusa e Siracusa. Poi organizza una conferenza stampa a Catania (dove il Pd ha preso il sindaco al primo turno) con i candidati sindaci il giorno dopo. Renzi sbalordito, racconta l'episodio ai suoi collaboratori: «Evidentemente, Epifani è geloso e non vuole che io vada giù. E a questo punto io non ci vado perché non voglio farmi coinvolgere in qualche bega». Ufficialmente, comunque, preferisce fare finta di niente e dice al segretario: «Prego, vai tu». I siciliani però non ci stanno, vogliono Renzi, e l'ex sindaco di Messina, ora deputato, Francantonio Genovese dirime la questione: Epifani andrà domani, il primo cittadino di Firenze venerdì. Soluzione salomonica per una vicenda che la dice lunga sullo stato dei rapporti nel Pd e sul fatto che l'ex leader della Cgil non intenda fare solo il reggente. Che non tiri una bella aria per lui, che i dirigenti del Pd facciano fatica a immaginarlo a capo della ditta, Renzi lo ha capito anche l'altro ieri, quando alcuni parlamentari amici gli hanno raccontato l'esito del seminario promosso dalla Fondazione Italianieuropei. Lì hanno parlato molti dei suoi avversari: Tronti, Sposetti, Fassina, Cuperlo e Michele Prospero, il commentatore dell'Unità che diede del «fascistoide» al sindaco. Dario Nardella, ex vicesindaco di Renzi e ora deputato, resta basito di fronte a certi discorsi: «Ma come si fa ad avere certi orientamenti?». Paolo Gentiloni, anche lui presente all'iniziativa, riferisce al sindaco queste sue impressioni: «Guarda Matteo che non mi pare proprio che lì tirasse aria di apertura alla tua leadership del partito». Del resto, lo stesso promotore del seminario, Massimo D'Alema, che pure vedrebbe bene Renzi nei panni del candidato premier del centrosinistra, non vuole dare al sindaco e chiavi di casa: «Il tema del Congresso non può essere la ricerca di un leader futuro, in grado di vincere le elezioni che verranno. Sarebbe oltretutto assurdo e autolesionistico che il partito che esprime il presidente del Consiglio dedicasse l'intero Congresso a come sostituirlo». Dunque anche chi, come D'Alema, è convinto che occorra giocare la carta Renzi per vincere le prossime elezioni, non vorrebbe però che il sindaco si impadronisse dei meccanismi del partito. Insomma, i renziani, o, almeno, alcuni di loro, a ben guardare, al di là delle frasi di rito e degli encomi pubblici, cominciano a sospettare che sia in atto un tentativo di «fregare Matteo», come dice senza peli sulla lingua uno dei sostenitori del sindaco. L'impressione si è rafforzata anche l'altro ieri sera, dopo le parole pronunciate da Guglielmo Epifani a Porta a porta: «Io sarei perché chi vota alle primarie si iscriva prima a un albo». Un'affermazione questa che ha riportato la mente di molti renziani alle polemiche che precedettero la disfida tra il loro leader e Pier Luigi Bersani. Ma il primo cittadino di Firenze è un tipo sveglio e ha capito che c'è chi cerca di sbarrargli il passo in tutti i modi. Non si fa illusioni sui molti complimenti che riceve pubblicamente da tutti, o quasi, i dirigenti del Pd. Come ha avuto modo di dire anche in altre occasioni: «Mi chiamano una risorsa, ma la risorsa è il nome che i vecchi volponi della politica danno a quelli che vanno eliminati, a quelli che vanno fermati, stoppati, calmati». Lo ha scritto anche nel suo ultimo libro (e sapeva bene di che cosa stesse parlando): «Grazie a tutti gli amici che più o meno genuinamente mi considerano tale. Ma anche basta, adesso. Non voglio essere una risorsa, fidatevi: preferisco vivere».

Repubblica 19.6.13
D’Alema: nel Pd ormai c’è solo il caos
Bersani: non farò cadere Letta. Lite sul web tra renziani e fan dell’ex segretario
di Goffredo De Marchis


ROMA — Pier Luigi Bersani non metterà i bastoni fra le ruote al governo e quando spiega che in caso di fallimento il ritorno al voto non è automatico, il suo bersaglio non è Letta ma Berlusconi. «Non c’è nessuna mia iniziativa. Non esiste che io faccia uno scherzo a Enrico, non c’è uno in Italia che possa pensarlo. Siccome vedo però che questo governo è tirato per la giacca un po’ bruscamente, mando un messaggio chiaro. Secondo me l’esecutivo deve durare almeno fino a quando ci sono le riforme istituzionali e anche del sistema politico».
Bersani fa comunque capire di essere tornato in campo. Che nella partita del congresso giocherà un ruolo anche lui. Soprattutto su come va organizzato il Pd, su come deve stare lontano dalle tentazioni leaderistiche. «Vedete quello che è successo a Grillo. Io sono contento che un po’ di voti siano tornati a noi. Ma mi preoccupo che i 5stelle siano l’ennesima meteora a cui gli italiani si sono affidati. Se continua così la gente non sarà più neanche arrabbiata, ma solo rassegnata. O disperata». È in campo, l’ex segretario, perché «non si sente sconfitto, mi sono dimesso per ottimismo non per rabbia. Per dare al Pd la possibilità di misurarsi sulla sua identità». Del resto, la sindrome dello sconfittismo non gli piace. «Ogni tanto vengo avvicinato da un deputato che mi dice: abbiamo perso — racconta aOtto e mezzolanciandouna frecciata —. Gli rispondo: guarda che te sei in Parlamento grazie al premio di maggioranza ».
Bersani dice di non aver un candidato per la segreteria. «Ce ne sono quattro o cinque buoni». Anche Epifani? L’exleader non lo esclude: «Ma deve candidarsi, per il momento ha detto che non lo farà». Comunque il congresso, secondo lui, è chiamato a eleggere un segretario non il candidato premier. «Per questo penso, sì, a delle primarie aperte fino all’ultimo minuto. Ma per votare occorre iscriversi al Pd». È l’unico punto di contatto con Massimo D’Alema, con il quale su tutto il resto è in corso una guerra fredda, anzi gelida. L’ex presidente del Copasir, nel seminario di Italianieuropei tenutosi lunedì, ha esaltato il valore del «tesseramento». Rilanciando anche l’idea dei circoli di settore. «Mi piacerebbe vedere le sezioni degli operai dove si parla degli operai, quella degli artigiani dove si parla degli artigiani». Nemmeno le correnti sono un male, secondo D’Alema: «Magari ci fossero nel Pd. La realtà è che non ci sono. Nel Pd c’è solo il caos».
La sintonia finisce qua. Semmai è facile prevedere uno scontro tra l’area dei bersaniani e quella dalemiana. Lo fa capire una battuta di Bersani quando parla del possibile fuoco amico contro Letta. «Certe cose di D'Alema e Renzi credo siano tatticismi. Io spero lascino il campo a discussioni più profonde». Parole battagliere. E i suoi si preparano a lanciare la sfida. Per ora su Internet.
La miccia l’accende il sito degli “ateniesi”, un gruppo renziano guidato da Francesco Clementi, oggi saggio nelComitato per le riforme istituzionali. Viene presentato un seminario di formazione politica che si tiene sabato a Torino. E si polemizza su altre simili iniziative. Quella torinese sarà autofinanziata con 55 euro a testa dai partecipanti.«Prefiguriamo un modello post abolizione finanziamento pubblico ai partiti. Il Pd organizzava weekend a Napoli con centinaia di giovani pagati per assistere. Noi facciamo il contrario, siamo disposti a metterci i nostri soldi per alimentare il flusso della bella politica». Il direttore diYoudem, la bersaniana Chiara Geloni, posta il link e commenta: «È tempo di sgradevolezze, ma alcune sono più sgradevoli di altre». E il sito “linkiostro” risponde per le rime: «Cosa deve fare un partito se non promuovere i talenti e finanziare le iniziative che li riguardano dando a tutti la possibilità di partecipare».
Questo è il clima. E siamo solo all’inizio. Non ci sono i candidati in campo, la discussionesulle regole è appena cominciata e l’esito non sembra scontato. Ma si attende soprattutto la decisione di Matteo Renzi. Una sua eventuale candidatura scompaginerà le posizioni.

l’Unità 19.6.13
Camusso avverte il governo: no a cambiali in bianco
Da Terni a Fabriano lavoratori in lotta per difendere produzione e lavoro
Il governo «cambi marcia» e «sbatta il pugno sul tavolo con la Ue per difendere le acciaierie»
La città umbra si è fermata 13 giorni dopo le manganellate ad operai e sindaco alla stazione
Ventimila in piazza
di Massimo Franchi


ROMA Tredici giorni dopo un’intera città è tornata in piazza. Per ricordare a tutti la ragione di quella manifestazione passata alla storia per il sangue del loro sindaco. Saracinesche abbassate con la scritta «Meglio chiudere oggi per non chiudere per sempre» e ventimila persone in corteo dalla acciaierie a piazza del Popolo per lo sciopero generale di otto ore in tutta la provincia. Il «solito» percorso con il «solito» passaggio alla stazione, teatro 13 giorni fa di un assalto inspiegabile e non ancora spiegato, con i manganelli a picchiare gli operai (e il sindaco Leopoldo Di Girolamo). E a chiudere in piazza il comizio di una Susanna Camusso, come per la giornata dello sciopero europeo dello scorso 12 novembre in cui scelse Terni, già allora epicentro della crisi dell’acciaio. E questa volta il segretario generale Cgil partendo dall’insostenibile situazione di Terni e di tutta la siderurgia ha avvertito il governo. «Uno sciopero come quello di oggi ha detto non avremmo voluto vederlo: è lo sciopero di una città che difende una delle aziende che vanno meglio in questo Paese. Occorre subito cambiare passo: perché così si deindustrializza non solo questa città, ma anche tutta l'Italia». Il governo italiano «non è riuscito a costringere una multinazionale a reindustrializzare il sito», facendo riferimento ai finlandesi di Outokumpu, attuali proprietari, costretti dall’Antitrust europea a vendere la parte inox dell’acciaieria, ma chiedendo ancora tempo per aspettare altre offerte, considerando non adeguate le due sole offerte arrivate. Camusso, che ha parlato dopo i segretari confederali Uil, Guglielmo Loy (che ha chiuso il comizio con un «Forza fere, forza Terni»), e Pietro Cerrito, della Cisl, ha ricordato l'apertura di un tavolo per la siderurgia ma, ha detto chiaramente, «non può essere una tartaruga che si muove lentamente. Se si perde ancora tempo, qualcun altro si prenderà la produzione di Terni». Il riferimento è alla data limite fissata per la vendita, per niente certa. E che lascia nel limbo e nel panico i 2.800 dipendenti diretti e il migliaio dell’indotto.
Il segretario ha lanciato un messaggio proprio al governo: nessuna cambiale in bianco, se non produce subito un cambiamento la protesta continua. Queste le sue parole: «O il governo cambia il passo o dovremmo continuare in una mobilitazione crescente. Non c'è una cambiale in bianco per nessuno, nemmeno per questo governo. Il giudizio dei lavoratori sarà basato solo su cosa: se il lavoro viene rimesso al centro oppure se si continua a parlare d'altro». Su Terni l'esecutivo deve «sbattere il pugno sul tavolo» con la Commissione europea: «Basta diplomazie quando stanno saltando gli assetti industriali del paese». In generale, «serve una scelta di cambiamento: bisogna dare per via fiscale risorse ai lavoratori e pensionati, bisogna essere molto severi su evasione fiscale e corruzione. Tutte quelle risorse vanno tradotte subito in cantieri che creano lavoro». Poi un passaggio molto critico per le imprese. «Squinzi dice che siamo sulla stessa barca, ma è uno strano tipo di barca: solo alcuni sono sul ponte di comando. Allora Confindustria dia un segno di cosa vuole fare: finora non abbiamo visto imprenditori che difendono fabbriche italiane, non abbiamo visto attenzione per Terni, Piombino o Taranto. È vero che siamo sulla stessa barca, ma la rotta deve essere una sola: difendere il lavoro e le industrie che lavorano correttamente».
«INDESIT, NO A DELOCALIZZAZIONI»
Nel pomeriggio Camusso si è poi spostata nella non lontana Fabriano, cuore di un’altra crisi aziendale nazionale. Quella del gruppo Merloni. Con l’annuncio di ben 1.425 esuberi con la chiusura a Teverola (Caserta) e di Melano, proprio nella città-sede di Fabriano. E qui Camusso è tornata ad attaccare «l' assenza di interventi di Confindustria sulle sue imprese, sempre più assordante». Un riferimento diretto a Indesit, «che proprio in questo momento ha deciso di aprire procedure di licenziamento e di chiusura di stabilimenti non avendo nessuna crisi oggettiva, ma anzi per delocalizzare in altri Paesi». Nella manifestazione nella piazza del Comune il segretario della Cgil si è detta «molto colpita dall’idea della famiglia di andare a investire in Turchia». Parlando, senza mai nominare direttamente il nome Merloni, Camusso ha fatto un riferimento alle voci di delocalizzazione in Turchia, «mentre nelle piazze di quel Paese si impediscono ai giovani di conquistarsi diritti e libertà».

l’Unità 19.6.13
Giuseppe Civati
«Doveva partire dopo le dimissioni di Bersani, con le regole che già ci sono. Renzi? Non ho capito che Pd vuole. Grillo paga il prezzo dei suoi errori»
«Sul congresso del Pd si è già perso troppo tempo»
intervista di A. C.


ROMA «Il congresso del Pd doveva partire a fine aprile, subito dopo le dimissioni di Bersani, e con le regole che già ci sono. Stiamo solo perdendo mesi preziosi...». Pippo Civati da tempo ha annunciato la sua candidatura alla guida del partito e ora guarda ai lavori del comitato per le regole appena insediato con un certo distacco: «Vedo che sono arrivati al lodo D’Alema per decidere che segretario e premier non devono necessariamente coincidere. Ci volevano mesi? Io lo dico da tempo che quella è una questione politica che si regola solo col buon senso: nella fase in cui c’è già un premier questa discussione non ha senso. Così come mi pare stucchevole riaprire la discussione su chi può o non può votare. Le regole che ci sono già vanno benissimo e si fanno senza sapere chi sono i candidati».
Insomma, è in dissenso su tutta la linea? «Vedo un tentativo di allungare il brodo. E aggiungo: se fossimo partiti subito probabilmente Renzi non si sarebbe candidato. Ora io spero che Matteo ci sia, vedo invece che altri si preoccupano e tentano di sbarrargli la strada».
In questa fase gli altri stanno studiando le alleanze. Lei come si muove?
«Mi sto muovendo in un modo molto diverso da questi retroscena che non mi appassionano su chi candida chi. Io vorrei che il Pd riscoprisse il senso dell’alternativa a questa destra e della costruzione di un centrosinistra più moderno e capace di rispondere al disagio sociale. Penso per esempio alla riduzione della tasse sul lavoro e al reddito minimo che avevo proposto già un anno fa. Ma che il Pd ha lasciato a Grillo. Un Pd netto e all’attacco, ma mai demagogico. Mi ispiro agli 8 punti di Bersani, che non vorrei consegnare alla storia ma riproporre con i dovuti aggiornamenti. Se li avesse presentati del voto forse...».
Di Renzi, se correrà, sarà fiero avversario?
«Un congresso è l’occasione di discutere di linea politica e di modalità per costruire i gruppi dirigenti, non è una sfida all’ultimo sangue. Un tema da discutere è cosa dire ai ragazzi di 20 e 30 anni che sono decisamente non rappresentati da questa politica».
Ma cosa la differenzia di più dal sindaco di Firenze?
«Vorrei capire che idea di Pd ha in mente, e su cosa si differenzia da Letta e da quelli che voleva rottamare»
Come valuta il rapporto tra Renzi e D’Alema?
«Mi pare che D’Alema abbia già un candidato. Mi chiedo se non ne voglia avere addirittura due...».
Quali sono i suoi rapporti con il mondo a 5 stelle. Ieri Grillo l’ha bastonata dal blog definendola “Lucignolo” e “cane da riporto” che voleva rubargli i parlamentari. «Una premessa. Con moltissimi di quegli elettori dobbiamo parlare, c’è grande delusione per quello che sta succedendo tra i 5 stelle. Grillo sa benissimo che io avevo proposto un passo indietro di Bersani e un governo indipendente e di cambiamento a cui loro avrebbero potuto contribuire. Non mi ha mai risposto. Appoggiando un governo di alto profilo, loro avrebbero potuto chiarire i loro obiettivi, darsi una linea. Invece hanno preferito stare sull’Aventino e tifare per un governo tra noi e Berlusconi. Ne stanno pagando le conseguenze, come si vede anche dalle tristi vicende sulle espulsioni. Se accetta il mio invito a cena ne possiamo discutere».
È possibile un cambio di maggioranza? «Non mi pare un’ipotesi all’ordine del giorno. Se ci saranno fatti nuovi da parte di Berlusconi, un casus belli, si dovrà valutare bene i pro e i contro».
Dopo aver negato la fiducia ha cambiato opinione sul governo Letta?
«Conservo tutti i miei dubbi sul percorso politico, ma non sono uno sfascista. Se farà delle cose buone lo dirò. Ho sospeso il giudizio come tanti italiani che aspettano dei risultati concreti».
Farà del no al governo un elemento di battaglia congressuale?
«Non direi proprio. Ho in testa un percorso molto più lungo, la nostra proposta non si definisce contro qualcuno, ma spiegando come vogliamo rifare il Pd e cambiare l’Italia».
Con Barca ci sarà un’intesa?
«Per me lui è un amico e interlocutore prezioso. Cosi come guardo con interesse a Romano Prodi, Stefano Rodotà, Renato Soru. Vorrei parlare a quella ampia area che ragiona sui diritti e sui beni pubblici, e far rivivere la tradizione dell’Ulivo con parole nuove».

l’Unità 19.6.13
M5S, altra espulsione
Fiasco del Grillo-pride
Sotto tiro è Paola Pinna, deputata «dissidente» che ha votato in difesa della senatrice Gambaro
Contro la «cittadina» commenti pesanti su Facebook e disprezzo dei colleghi alla Camera
Il leader vuole restare con i «talebani»
Grillo attacca il Pd Civati: «Lucignolo, fa scouting di 5 stelle»
di C.Fus.


ROMA Il sit in del grande abbraccio a Beppe si è trasformato in una accaldata riunione tra pochi intimi, ottanta al massimo, spinti verso l’unico angolo d’ombra di piazza Montecitorio senza più parole né idee. Il giorno dell’attesa e invocata scissione, è diventato l’arena di un triste braccio di ferro tra «talebani» e «democratici», con Grillo che tira le fila con i soliti post, i parlamentari che si guardano in cagnesco e se non fossimo in Parlamento potrebbero anche volare schiaffi. Tra delazioni, minacce, sospetti, il piano di Grillo ormai è chiaro: radicalizzare lo scontro, buttare fuori le fastidiose anime critiche, tenere quel pugno di duri e puri che fanno quello che vuole lui. Per ora. E poi si vedrà. Così se lunedì sera, dopo un’assemblea in cui è stato violato ogni minimo principio democratico, la senatrice Adele Gambaro è stata nei fatti espulsa dal Movimento con 79 sì e 42 contrari (9 astenuti), ieri i grillini si sono subito affrettati a chiedere l’espulsione di un’altra deputata, Paola Pinna, eletta in Sardegna. La colpa della nuova traditrice è di avere non solo difeso Adele Gambaro e di aver votato contro la sua espulsione («non sono affatto pentita, difendo chiunque venga messo sotto accusa per aver espresso una propria opinione») ma di avere detto questo e altro «siamo divisi in talebani e dissidenti e io sono una dissidente», roba da rogo in piazza prima a La Stampa e poi ai microfoni di una tv (Piazza Pulita, La7). E di averlo fatto consapevolmente «perché fuori da qui, nei nostri collegi, si sappia cosa accade veramente, altrimenti i nostri elettori non capiscono cosa stia succedendo». Così ieri pomeriggio il cittadino-deputato Andrea Colletti ha scritto una mail al portavoce-deputato Riccardo Nuti chiedendo di avviare «la procedura di espulsione per Paola Pinna per le interviste rilasciate». Sarebbe la terza espulsione (Mastrangeli, Gambaro, Pinna), il quinto pezzo che se ne va (vanno aggiunti Furnari e Labriola che se ne sono andati da soli). Considerando che sono cinque in sei settimane, siamo in una media di uno a settimana. Un piccolo fatto rende bene l’idea della guerra civile tra i grillini. Ieri verso le tre del pomeriggio Paola Pinna era ferma con un gruppetto di giornalisti all’ingresso della buvette. Cercava di sorridere, certo non era serena, certo non le fa piacere leggere certi messaggi sulla sua pagina Fb. Passano tre cittadine-deputate tra cui Dalila Nesci che con aria e tono molto più che sprezzante sussurra: «Guarda questa che si confessa qui con questi qua». E poiché i sussurri non bastano, qualcuno ha aperto una pagina Facebook ufficiale Cinque stelle con il titolo «Paola Pinna chi?». La deputata sarda entra ufficialmente nel mirino del Movimento «colpevole di aver parlato di talebani e di clima di psico-polizia». L’ex portavoce Roberta Lombardi, molto probabilmente ideatrice della pagina, si affretta nel precisare: «Non abbiamo mai visto questa persona alle nostre assemblee, molti di noi non sapevano neppure della sua esistenza». Quindi inutile, traditrice, esibizionista e pure delatrice: con molto meno si distruggono vite e identità.
Un giorno poi qualcuno avrà voglia di analizzare la tipologia delle donne che militano nel Movimento. E la violenza delle parole e delle azioni. Spesso sono già state riscontrate analogie con regimi autoritari.
Che dire, infatti, dell’ennesimo post di Grillo? Invece di parlare ai suoi condannati a una diaspora durissima, per il comico il problema è Pippo Civati, il deputato del Pd sicuramente una testa di ponte con i Cinque Stelle in questi mesi. Lo accusa di «schizofrenia politica visto che vorrebbe essere come noi ma è uno di loro». «In principio fu lo scouting tra i parlamentari a 5 Stelle. Fallì scrive Grillo Poi Gargamella disse a Pippo Civati “Vai e torna con senatori e deputati pentastellati”. Lui andò. Parlò, affabulò, contattò, cenò. Pippo era l’uccello da richiamo perfetto. Al suo verso di pdimenoellino buono si aggiunsero altre voci. I trombati e i civati cantarono insieme».
Dopo giornate sconnesse, senza capo né coda, del tutto prive non solo di strategia politica ma persino di una interlocuzione sensata con un soggetto o una parte politica mentre il Paese combatte tra crisi e disoccupazione, s’intravede quella che potrebbe essere l’evoluzione della crisi Cinque stelle. I dissidenti non vogliono né uscire né lasciare e puntano invece a farsi buttare fuori da Grillo e dai suoi esecutori. Grillo, da parte sua, punta ad avere quella che probabilmente sarebbe sempre stata la situazione ideale: pochi ma fidati parlamentari da usare sempre «contro» senza mai preoccuparsi di dover fare scelte o assumere responsabilità. Grillo vuole essere solo di lotta, più semplice. Non di governo, più difficile.
«Un’altra espulsione? Ma no, altrimenti alla fine ne resterà uno solo» scherzava ieri Lorenzo Battista, un altro deputato dissidente, a Un giorno da pecora. Non sapeva, ancora che da lì a poco sarebbe stata chiesta l’espulsione per Pinna.
Ultima annotazione: nessuno, ma nessuno, dei parlamentari eletti ha ancora versato i soldi promessi nel famoso conto corrente.

il Fatto 19.6.13
Dopo la Gambaro c’è la Pinna
I duri: “Espelliamoli tutti”
di Paola Zanca


Adesso basta. Non possiamo assistere a questo stillicidio senza fare niente. Non possiamo permettere che ogni giorno ci sia una intervista che crea il panico. Dobbiamo fermare questi che fanno solo danni al Movimento. Dobbiamo mandarli via tutti”. Ecco a cosa serviva il dossier. Quel fascicolo confezionato dagli uomini vicini al neo capogruppo alla Camera Riccardo Nuti. Un faldone pieno di ritagli di giornale, di frasi, di episodi messi in fila. Serviva a non dimenticare nulla. E adesso è arrivato il momento di tirarlo fuori.
L’ULTIMA DELLA LISTA, nel libro nero dei Cinque Stelle, è l’intervista di Paola Pinna rilasciata sabato a La Stampa e aggiornata ieri da un video, quello del j’accuse davanti alle telecamere di Piazzapulita. La Pinna, deputata sarda da sempre critica nei confronti della linea dura grillina, da tre giorni sta sulla graticola. Prima l’ha presa di mira lo stesso Nuti con tre righe al fulmicotone su Facebook, lo stesso giorno in cui il nome della Pinna su Wikipedia veniva bollato come “una che ha tradito Grillo per la diaria”. Poi è arrivato il collega di scranni, Andrea Colletti: mail a tutti i deputati per chiedere che anche lei, dopo la Gambaro, venga rimessa alle volontà della Rete. Infine, l’attacco frontale sui social network da parte del gruppo Cinque Stelle di Montecitorio: “Paola Pinna... chi? ”, scrivono. E giù con i ricordi della ex capogruppo, Roberta Lombardi: “Non abbiamo mai visto questa persona alle nostre assemblee. Molti di noi non sapevano neppure della sua esistenza. L’unica volta in cui ci è sembrata coinvolta è stata l’assemblea sulla diaria”.
Ormai, il clima nei confronti della cittadina Pinna è quello che si riserverebbe al peggiore dei nemici. Ieri, alla buvette della Camera, alcune colleghe l’hanno incrociata mentre parlava con i cronisti. Dalila Nesci, eletta M5S calabrese, per inciso fidanzata del capogruppo Riccardo Nuti, la affronta a muso duro: “Guarda questa qui che si confessa con ‘questi qui’ pubblicamente”. (‘Questi qui’, ovviamente, sono i giornalisti: il tono usato dalla Nesci ha creato pure un discreto battibecco con la stampa parlamentare). Lei resiste: “Resto nel Movimento per dare voce ai tanti elettori che mi hanno espresso la loro frustrazione”. Eppure il suo destino sembra segnato. Almeno per quanto riguarda il voto dei colleghi di Montecitorio. Molti senatori (anche non dissidenti) hanno già fatto sapere che si comporteranno come con la Gambaro: voteranno contro l’espulsione. Poi, come sempre, sarà la Rete a decidere. Il referendum sulla deputata emiliana si aprirà a brevissimo. Oggi, qualcuno addirittura dice già nella notte appena trascorsa: non esiste una data ufficiale perché, spiegano, temono non meglio specificati attacchi hacker (il sistema della Casaleggio associati è già crollato una volta, durante le Quirinarie).
RETE O NON RETE, sono in tanti i parlamentari affranti dall’esito della assemblea di lunedì. Anche perché, a voler fare i conti, la richiesta di espulsione della Gambaro è passata con numeri esigui: 79 voti a favore, 42 contrari e 9 astenuti. Ma tra gli assenti (30) ci sono molti che hanno deciso di non partecipare proprio perché contrari alla cacciata: Donatella Agostinelli, ad esempio, ha spiegato di aver voluto evitare “l’effetto boomerang”. Tradotto, evitare che di nuovo le pagine dei giornali si riempissero delle cronache delle epurazioni. Eppure, i suoi compagni di scranno, non sembrano intenzionati a fermarsi. La questione della espulsione collettiva è sul tavolo dei deputati. Non è ancora stata messa in calendario ma, se mai dovesse arrivare al-l’ordine del giorno, ci sarebbero almeno una ventina di parlamentari “inquisiti” per le loro dichiarazioni. Tommaso Currò – primo dissidente per anzianità – è certamente uno di quelli. Anche all’assemblea di lunedì ha litigato con i colleghi. Racconta che non lo hanno lasciato parlare, ricorda di aver provato a fare lo streaming con il suo telefonino e di essere stato “mangiato vivo”. Nicola Morra, capogruppo al Senato, intervistato dalla web-tv del fattoquotidiano.it   ha detto che obiettivo di tutti è quello di calmare le acque, di discutere, di ragionare. Ma Grillo non si tocca. Un referendum su di lui non ci sarà mai perché “vorrebbe dire che è stato incoerente e contraddittorio”. Invece lui non sbaglia mai. Lo dicono anche alcuni dei senatori che più avevano difeso la Gambaro. “Ma l’hai vista che continua a insistere sugli stessi punti? Mi sa che aveva ragione Beppe quando diceva che c’era sotto qualcosa. Lui a volte sembra un po’ eccessivo, ma la verità è che c’arriva sempre prima di noi”.

il Fatto 19.6.13
Le Monde incalza: “Le purghe sono ormai un’abitudine”


“LE PURGHE stanno diventando un’abitudine”. A scriverlo è il quotidiano francese Le Monde che, in un articolo intitolato “Tribunale dei Grillinauti” dedicato all’espulsione della senatrice Adele Gambaro, punta il dito sul Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo e contesta i metodi di decisione ed espulsione dei dissidenti . “Questi ‘Guardiani della Rivoluzione’ in salsa italiana - dice il quotidiano - decideranno probabilmente di cacciarla per punire il crimine di lesa maestà. Un colpo di clic sarà sufficiente”, sostenendo che la decisione dell’esplulsione della dissidente spetterà ai “ grillonauti più intransigenti”. Per Le Monde il Movimento Cinque Stelle ha una spaccatura: è diviso tra “la devozione al capo e la tentazione di allontanarsene per stringere nuove alleanze con i partiti di sinistra”.

il Fatto 19.6.13
E la deputata parlò dei “talebani” M5s

“NEL MOVIMENTO ci dividiamo in due categorie. E tra di noi ci chiamiamo così: talebani e dissidenti”. Lo rivela Paola Pinna, deputata del M5s, al programma di La 7 Piazzapulita. Di fronte alle telecamere, l’onorevole grillina si spiega senza imbarazzo, con assoluta naturalezza: “Perché non lo sapevate già? Credevo fosse noto. I talebani sono i duri e puri, i fedelissimi, gli integralisti. Poi, per fortuna, ci sono anche i dissidenti, come me”. La Pinna, dopo l’intervista, è diventata la maggiore indiziata a seguire Adele Gambaro ed essere allontanata dal gruppo parlamentare grillino. “Adele è stata espulsa per quale motivo - ha detto la Pinna - Per aver contestato il modo di Grillo di usare le parole? E io devo subire una critica solamente per aver sollevato un dibattito? Se venisse richiesta la mia espulsione sarebbe un segnale preoccupante e controproducente per il Movimento. A quel punto chi si fiderebbe più ad entrare?”.

il Fatto 19.6.13
Il blog strapazza il nemico “esterno”
di Fd’E

La linea dura va oltre il “movimento”. Oltre la Gambaro e la Pinna. Dopo i dissidenti, tocca alle sirene del fatidico scouting bersaniano per l’altrettanto fatidico governo del cambiamento. Nell’ordine: il pd Pippo Civati, l’eurodeputata idv Sonia Alfano, l’ex pm Antonio Ingroia, il direttore di Micromega (ed editorialista del Fatto) Paolo Flores d’Arcais. Scrive Beppe Grillo sul suo blog: “In principio fu lo scouting tra i parlamentari a 5 Stelle. Fallì. Poi Gargamella disse a Pippo Civati ‘Vai e torna con senatori e deputati pentastellati’. Lui andò. Parlò, affabulò, contattò, cenò. Pippo era l’uccello da richiamo perfetto. Al suo verso di pdimenoellino buono si aggiunsero altre voci. I trombati e i civati cantarono insieme. La voce squillante della Sonia Alfano in scadenza da europarlamentare, l’Ingroia di ritorno dai monti dopo il trionfo elettorale, filosofi e intellettuali della caratura di Flores d’Arcais, portasfiga d’annata”.
Ma è contro Civati che il leader del M5S usa la frusta del suo sarcasmo: “Pippo era uno di loro, ma anche uno di noi. Un perfetto cane da riporto. Ogni sera Gargamella, sull’uscio della trattoria di Bettola, le maniche arrotolate aspettava Pippo con il parlamentare in bocca. Cene su cene, ammiccamenti, inviti, proposte a lume di candela. La vita extraparlamentare di Pippo era intensa. A capotavola parlava e parlava di vittorie della sinistra unita grazie a senatori del M5S che sposavano la ‘responsabilità’ verso il Paese. Forse qualcuno ci ha creduto a questo novello Lucignolo”.
Civati ha risposto due volte. Dapprima sul suo blog, ciwati, ringrazia Grillo per queste “sciocchezze” che comunque “mi fanno pubblicità”: “Parla ancora di cene a cui sarei stato con i suoi parlamentari, che non ci sono mai state. Per la verità, c’è stato un solo invito, la scorsa settimana, e non da parte di dissidenti del M5S, ma di esponenti del M5S che erano curiosi di conoscermi (adesso potete far partire le spie per capire chi erano), ma a cena non ci sono andato (ero già di ritorno a casa) ”. Poi in un collegamento con la web-tv del Fatto: “Beppe dice scemenze ma io mi sono rivolto a lui per chiedere chi potesse essere il premier del cambiamento. Non sono un pontiere, non ho mai avuto alcun mandato. Incontrai per caso, subito dopo l’assemblea dei grandi elettori del Pd per il Quirinale, Adele Gambaro. Parlammo della figuraccia fatta con Prodi e della candidatura di Rodotà”. Sulla questione del dialogo, sempre alla web-tv del Fatto, il capogruppo grillino al Senato, Nicola Morra, ha lasciato intravedere una nuova e possibile strategia: “Noi siamo pronti ad addossarci le nostre responsabilità, se qualcuno vuole siamo pronti per un percorso di riflessione”. Un modo come un altro per dire: lasciate perdere i dissidenti e parlate direttamente con noi. Solo tattica per superare la fase convulsa di questi giorni?

l’Unità 19.6.13
Le strane armate di Grillo e Cavaliere
Debutta l’improbabile «Esercito di Silvio»
Le convergenze parallele del comico e del Cavaliere
di Sara Ventroni

IL GOVERNO DI LARGHE INTESE È NULLA IN CONFRONTO ALLE CONVERGENZE PARALLELE tra Beppe e Silvio. Che se ne facciano una ragione. Nel mondo delle groupie e dei devoti quel mondo convocato in nome di una rivoluzione aziendale a reti unificate Mediaset o da un blog monologante gli opposti destini si uniscono.
Un tripudio involontario ci mostra il volto più autentico dell’Italia, quando si sporge sull’orlo della crisi politica e finisce sempre per rifugiarsi nel carisma sgangherato.
Siamo davanti a un quadro sinottico. La tempistica illustra una sintonia involontaria. Mentre il popolo Cinque Stelle si convoca via web a piazza Montecitorio (un centinaio di persone in tutto, tra cui settanta addetti stampa) per un sit-in a difesa di Grillo ferito nell’onore dai virgolettati della senatrice Adele Gambaro, all’Hotel Nazionale va in scena la conferenza stampa dell’«Esercito di Silvio», un evento promosso da Simone Furlan e da un gruppetto di fedelissimi, mobilitato sullo sgocciolìo delle sentenze del
Cavaliere: 19, 24 e 27 giugno. Legittimo impedimento; primo grado sul caso Ruby e Lodo Mondadori. Su tutto incombe l’eventualità di un’interdizione dai pubblici uffici.
Dunque: al motto «Io amo Silvio» risponde da Montecitorio un flebile «Io amo Beppe». E tutto si tiene.
Troppo facile infierire sul costato dei cari leader, legati come San Sebastiano alla pancia del popolo. In balia dei traditori, dei giudici, dei giornalisti, ma soprattutto degli ingrati.
La parabola è sempre la stessa. L’avventura comincia con aforismi rivoluzionari pronunciati sul crinale di un disastro, discorsi a braccio contro i partiti; qualcosa di nuovo che non è di destra e non è di sinistra; un sogno armato di piede di porco per scardinare la democrazia dall’interno. Lo stile è guascone e battutaro. Il linguaggio amoreggia con le passioni o gli incubi domenicali: si scende in
campo, oppure ci si fa portavoce del condominio-Italia. Orgogliosamente anti-intellettuali, Silvio e Beppe hanno una missione comune: smentire l’adagio che nessuno è profeta in patria. Allora parlano in modo semplice. Si vestono di anticomunismo e propongono l’insulto come surrogato di una formazione politica: noi siamo noi, e quelli di sinistra sono coglioni, oppure zombie.
Ma solo il leader è davvero aldilà del giudizio. E se qualcuno dissente, tocca radunare la milizia. I cattivi li chiamano talebani. Si tratta, in verità, di italianismi comuni: un popolo brancaleonico dove c’è un po’ di tutto: neofiti, destrorsi, aspiranti rivoluzionari, manettari o ultragarantisti, a seconda dei gusti. Per un Travaglio c’è sempre un Capezzone. È la legge dell’amoroso contrappasso.
I mezzi cambiano l’altroieri la radio a ogni grondaia di piazza, ieri la tv commerciale, oggi il web usato come la Pravda ma il senso dello spettacolo è lo stesso: l’urlo ecumenico contro tutti, in doppiopetto o spruzzando il sudore dal palco, nasconde il sussurro dispotico della voce del padrone. Che ovviamente, poi, passa alla cassa.
E chiede il conto, stilando la lista dei cattivi da mandare al confino dietro la lavagna, o fuori dal Parlamento.
A costo di mettere in ballottaggio la propria faccia.
O con me, o contro di me.
E così arriva immancabile come in un brutto copione il referendum popolare, la marcetta davanti al palazzo di Giustizia o i post di fedeltà alla linea del guru. Chi mi ama mi segua. Con un corollario: chi mi ama mi appartiene, perché tutto questo l’ho fatto io.
E così, il delirio di onnipotenza finisce annacquato nei titoli, come si trattasse davvero di interesse nazionale.
Gli eletti di Berlusconi e di Grillo hanno in comune un senso di infinita gratitudine. La riconoscenza è la prima virtù. Il resto è un’opzione: ai seguaci non è dato ragionare di strategia.
Le somiglianze tra i due B. precedono la loro volontà, ma non gli obiettivi di medio termine. Solo i fiancheggiatori fingono ingenuità: Berlusconi e Grillo si appartengono come due amanti clandestini. Intanto, l’unico partito non personalistico, il Pd, annuncia che il segretario può anche non essere il candidato premier. E tante grazie dell’informazione.

l’Unità 19.6.13
Un plebiscito virtuale travestito da processo
Il solo caso in cui la pubblica accusa è pure “parte lesa”, legislatore e consulente tecnico
di Michele Di Salvo

PRIMA IL POPOLO DELLA RETE ERA CHIAMATO “SOLO” A PARTECIPARE ALLA COMPOSIZIONE DEL POTERE LEGISLATIVO, INDICANDO CANDIDATI (tra quelli che beppe Grillo aveva precedentemente scelto e vagliato e selezionato) che successivamente venivano messi in lista (e quindi eletti) secondo criteri noti solo a Grillo e Casaleggio.
Questo modello è stato definito «potere ai cittadini» in un virtualismo in cui uno vale apparentemente uno, ma non si sa chi siano questi vari uno che compongono il totale, dal momento che tutto si svolge sulla piattaforma di Grillo, predisposta da Casaleggio, e senza alcun controllo (anatema se qualcuno dei votanti osasse chiedere «che mi fate vedere i log?»).
Sarà questa la nuova democrazia del web? Tutti ci auguriamo di no, soprattutto i fondatori di liquid feedback che le definirebbero un mix tra abominio e presa in giro.
Non contenti della delega legislativa, Grillo e Casaleggio improvvisano una delega giudiziaria, a metà tra il processo mediatico, la gogna pubblica, il ludibrio collettivo e il reality show. La rete stavolta è chiamata a “votare” una sentenza di tradimento, con pena di espulsione e pubblico bersagliamento conseguente. Ci sarebbe da essere seri se non fosse una “sentenza già scritta”.
Se fosse una cosa seria, e non strumentale, dovremmo rifletterci e interrogarci sul grado di civiltà di una simile idea di decisione e di processo in finto-streaming in cui la “parte lesa” (parafrasando) è anche quella che scrive la procedura, che detta le regole e le leggi, che commina la sanzione e sceglie la giuria popolare, oltre a essere in sostanza pubblica accusa e consulente tecnico.
In realtà questo è solo un pezzo di un lungo processo di “ridimensionamento” sia della misura che delle pretese del Movimento 5 Stelle, di quello che è rispetto a quello che doveva essere nelle intenzioni del suo padrone/fondatore. Ovvero una sorta di accondiscendente braccio esecutivo, in cui la democrazia è diventata populismo demagogico, la trasparenza ridotta a streaming voyeristico, e la rabbia delle persone strumento e leva per il proprio successo personale.
Più che “una decisione” da prendere sulle sorti di una parlamentare che ha espresso le sue valutazioni sulla campagna elettorale e sui toni dei post di Grillo, questo in realtà è un plebiscito annunciato su Grillo, sulla sua leadership e sulla possibilità o eventualità di dibattito e critica interna: un modo per risolvere la partita in un colpo solo come a dire «adesso basta mi sono rotto» (cit.) e proseguire con un «adesso chiunque non la pensa come me se ne vada direttamente, senza battere ciglio, pena il linciaggio (pre cacciata)».

La Stampa 19.6.13
Il Movimento. le tensioni interne
Currò “Basta, non ne possiamo più di questa logica fascista”
“Io voglio lavorare qui con il Movimento 5 Stelle per il bene di chi ci ha eletto”
di Andrea Malaguti
qui
http://www.lastampa.it/2013/06/19/italia/politica/curr-basta-non-ne-possiamo-pi-di-questa-logica-fascista-LEKPi5xW7d14tb3QWZLcCK/pagina.html

Corriere 19.6.13
Ormai la frattura nei Cinquestelle è ufficiale
La rivolta dei 42:
«A forza di cacciarci ne resterà solo uno»
Ecco chi sono i nuovi oppositori
di  [Esplora il significato del termine: Emanuele Buzzi] Emanuele Buzzi
qui
http://www.corriere.it/politica/13_giugno_19/grillo-rivolta-42-buzzi_136dfa3c-d8ae-11e2-8ffc-5f2d0b7e19c1.shtml

Corriere 19.6.13
Il Verbo del Capo che trasforma il Movimento in una setta
di Aldo Grasso

Lo streaming è la cassetta postale della coscienza dei grillini. Vi depositano volentieri il Verbo del Capo, unico paravento dietro cui ripararsi. Lunedì i parlamentari grillini hanno processato la senatrice Adele Gambaro, rea di aver messo in discussione il Verbo del Capocomico. L'onorevole Enza Blundo dichiara: «Adele deve chiedere perdono a Beppe per aver messo in pericolo il movimento, magari lo deve fare in diretta streaming...». Se Adele G vuole rientrare nei ranghi deve cospargersi il capo di cenere, chiedere perdono, umiliarsi. «Gambaro non ha neanche ammesso l'errore», chiosano i capigruppo Riccardo Nuti e Nicola Morra. E comunque l'assemblea congiunta di senatori e deputati del Movimento 5 Stelle ha deciso di demandare alla Rete il voto sull'espulsione della senatrice Adele G, la parlamentare che ha pubblicamente accusato Grillo del flop alle ultime elezioni amministrative e per la quale è stata proposta l'espulsione. La Rete come ordalia, iudicium Dei. È Grillo a sbugiardare i dissidenti, ma è la folla a calpestarli. Grillo, il Gabibbo 2.0, ha sempre ragione. Con le sue attoriali gagliofaggini, le sue metafore, il suo turpiloquio è diventato un guru e come tale si comporta. È vero che i grillini sono in buona parte dei miracolati (gente senza arte né parte che ora gode del privilegio di parlamentare), e forse, proprio per questo, il Verbo sta trasformando il Movimento 5 Stelle in una setta. In ogni setta chi dirazza paga: ad Adele G, per esempio, è stato chiesto, in una sorta di autoanalisi, l'antico rito dell'abiura. In streaming, in una gogna mediatica, Adele G dovrebbe fare abiura, quasi fosse un'eretica, pena la scomunica: rinunziare all'errore passato e, di fatto, diventare complice per processare altri. Ne sa qualcosa anche l'onorevole Paola Pinna, rea di aver rilasciato un'intervista non autorizzata. «C'è un clima da psicopolizia». Il Grande Guru, con Rasputin Casaleggio, non tollera il dissenso, non è previsto. E poi il linguaggio non perdona: pentimento, dissenso, verdetto, espulsione, fuorusciti, cacciata… Queste parole ricordano certe atmosfere raccontate in libri come «Lo scherzo» di Milan Kundera o «Buio a mezzogiorno» di Arthur Koestler. Non siamo ancora alle purghe, ma qui ogni dissidente viene progressivamente spogliato della propria individualità, con una cerimonia di rapina che ha per scopo quello di unificare tutti al Capo.
Certo che se il nuovo «Malleus Maleficarum», il documento che meglio rappresenta le teorie elaborate a sostegno della persecuzione, è redatto dall'ex gieffino Rocco Casalino, la tragedia fa presto a mutarsi in farsa.

Corriere 19.6.13
Una deriva rissosa figlia di un leader senza più strategia
di Massimo Franco


Beppe Grillo è annunciato venerdì a Ragusa per sostenere il candidato sindaco del Movimento 5 Stelle. Ma, si fa sapere, non farà comizi: «Starà fra la gente». È un cambio di strategia comunicativa figlio probabilmente dei magri risultati elettorali di dieci giorni fa; e soprattutto dell'esigenza di attenuare l'eco negativa di quanto sta succedendo fra i parlamentari grillini a Roma. L'espulsione di Adele Gambaro per le critiche a Grillo dopo la sconfitta alle comunali, e l'altra in incubazione di Paola Pinna, però, non sono figlie dello scontro fra «puri e duri» e «dialoganti». La tensione e il nervosismo interno lasciano trapelare lo sbandamento di una forza senza politica.
Per paradosso, il problema è proprio il suo leader, non abituato a governare le difficoltà; e incline a reagire a qualunque critica esterna ma soprattutto interna, anche la più innocua, come se si trattasse di lesa maestà. Grillo ha vinto troppo presto, e troppo. E l'impressione è che sia rimasto sorpreso e spaventato dal successo ottenuto alle politiche di fine febbraio: un trionfo eccessivo rispetto alle sue capacità politiche. Il fatto che ieri il capogruppo al Senato, Nicola Morra, abbia escluso un referendum su di lui perché altrimenti «vorrebbe dire che è stato incoerente e contraddittorio», fotografa impietosamente la parabola in atto: un'involuzione litigiosa.
Può darsi che il referendum dei seguaci su Grillo non avvenga mai. Eppure si moltiplicano gli indizi di una deriva in fieri. L'autoreferenzialità, il rifiuto di essere altro da «comuni cittadini», la purezza antisistema, e un'inesperienza ostentata, all'inizio apparivano una corazza. Tuttora, fra «dirette» in streaming e accuse violente contro i dissidenti, si cerca di riportare la discussione sul finanziamento dei partiti e su altri temi «popolari». Chiunque obietta o dubita viene accusato di farlo «per la diaria». Viene disconosciuto e ostracizzato.
Pochi hanno il coraggio o la lucidità di ammettere che la magia di Grillo si è interrotta. E uno scontro selvaggio, da forza in disfacimento, sta diventando la vera cifra di un movimento che rischia di somigliare a una setta dominata da esecutori spietati della volontà del guru. Il leader appare incombente eppure sempre più distaccato da una realtà parlamentare che finisce per plasmare i comportamenti e non facilita il controllo a distanza. L'ipotesi di una scissione è possibile, non probabile. E comunque, con queste dinamiche, diminuirà presto l'interesse a provocarla: significherebbe solo saldare le fila di un Movimento 5 Stelle declinante.
Il sospetto è che Grillo non possa nè sappia passare dal ruolo di eversore provvidenziale, a quello di interlocutore. L'aspetto più significativo, e per lui preoccupante, è che non intercetta se non in misura residuale l'astensionismo; e che dunque fatica più di tre mesi fa a candidarsi come alternativa. Più che offrire la soluzione alla crisi di credibilità della politica, il suo movimento si accredita come un sintomo esasperato del malessere. Per questo bisogna aspettarsi un livello di aggressività crescente dentro il M5S verso chiunque inviti a guardare in faccia questa realtà scomoda; e all'esterno contro il governo: tanto più se Enrico Letta ottiene risultati.

Repubblica 19.6.13
L’intervista
Civati: quante falsità, parlano solo di loro stessi
“Scouting? Io li volevo al governo ma ormai sono il partito degli epurati”
intervista di T. Ci.


ROMA — Beppe Grillo gli ha dedicato una filastrocca, sulle note della celebre canzone “Pippo non lo sa...”. L’ha accusato di essere pontiere democratico verso il dissenso grillino. Pippo Civati sorride. Poi ribatte: «Ormai parlano solo di loro stessi. Il loro dibattito è ombelicale».
Onorevole Civati, le è piaciuta la cantilena che il leader ha scritto per lei?
«Me la facevano alle elementari. Poi però hanno smesso. Speriamo la smetta anche lui. Comunque sì, fa sorridere. Ma il problema è un altro: è la linea isolazionista di Grillo».
Ma lei davvero cerca di fare scouting con i dissidenti? In effetti parla spesso con i grillini...
«Ma non è vero... Io sono uno dei pochi che ha provato a fare con loro un governo. Seriamente. Li ho visti in quella fase. Parlavo con molti di loro, mica solo con i dissidenti. E mi confrontavo qui, nel Palazzo. Nessuna cena. E mai fuori dagli ambienti istituzionali ».
Come giudica la dinamica in atto nel M5S?
«Grillo lavorava per costruire il partito degli espulsi: quelli dal lavoro, dalla politica, dal sociale. È diventato il partito degli espulsi, ma in un altro senso...».
Un’anomalia, secondo lei?
«Sono il partito più critico d’Occidente, che però è diventato un partito blindato. E Grillo dice cose false».
Cose false perché l’attacca?
«Guardi, io il tema della democrazia lo segnalavo già la scorsa estate. Sostenevano che Grillo era solo il loro megafono, ma poi è diventato il loro leader assoluto. E lo dico senza acrimonia. Anzi, è una cosa che mi dispiace davvero».

Repubblica 19.6.13
Il Big Bang dei Cinque stelle
di Piero Ignazi


I PARLAMENTARI 5 Stelle si stanno avvitando in una spirale autodistruttiva. Potevano rappresentare un nuovo modo di fare politica.
Fuori da rigidità burocratiche, correnti e portaborse. Tentativi di questo genere, a volte ingenui, a volte furfanteschi, sono stati fatti nel passato, ma in Italia hanno attecchito solo in piccoli gruppi. Con il travolgente successo del Movimento 5 Stelle nelle elezioni di febbraio sembrava che la “politica dei cittadini” entrasse nel Palazzo. Un’occasione irripetibile per imporre un nuovo modo di fare politica e di stare nelle istituzioni: come sbandieravano i grillini, i nuovi eletti si ponevano al servizio dei cittadini, della collettività e, addirittura, della nazione. Questa illusione è durata poco. Ed adesso siamo alla vigilia del Big Bang.
Come si sia arrivati a questo, non dipende certo dal desiderio di arricchimento dei vari parlamentari, versione contemporanea del tradimento di classe lanciato contro chiunque, in tempi lontani, abbandonava i partiti storici della sinistra, a incominciare da quelli comunisti. In effetti, è sorprendente come, anche nell’era postmoderna, e in movimenti che si voleva esprimessero lo spirito di questi tempi, risuonino accuse così antiche, e tutto sommato risibili.
Alla radice dello scontento dei grillini c’è invece un problema antico come la politica: la pulsione al comando senza limiti da un lato, e il desiderio vitale di esprimere le proprie opinioni, dall’altro. Il delirio di onnipotenza che ha travolto Beppe Grillo lo ha portato ad una logica saturnina di divorazione continua e insaziabile dei propri figli. Tutto ciò non è nuovo, anzi. Ci rimanda ai momenti di grande trasformazione, alle rivoluzioni in cui il leader “deve” eliminare i dissidenti e purificare il corpo sano del partito per lasciar spazio ai veri credenti. In questo il M5S assume veramente il connotato di un movimento rivoluzionario. Solo che la sua energia trasformativa l’ha rivolta verso se stesso, dimenticando tuttoquello che esiste al di fuori. Le aspettative di cambiamento, sia sul piano programmatico, con proposte precise e concrete, sia nell’adozione di uno stile politico aperto, dialogico e franco, ripulito dalle incrostazioni di questo ventennio, sono andate deluse.
Si possono trovare le cause di tutto questo nell’egocentrismo di Grillo, nel successo troppo violento e ingestibile, nell’improvvisazione della struttura organizzativa, nella pochezza e inesperienza degli eletti. Ma se il M5S è arrivato a questo dipende anche dal fatto che non ci sono linee guida a cui un partito deve attenersi. In Italia ogni proposta di legge sui partiti fa gridare allo scandalo come se si volessero limitare le libertà politiche fondamentali. È ora di superare questo atteggiamento, comprensibile nel primo dopoguerra, del tutto fuori posto ora. In tutti i paesi democratici, e soprattutto in quelli di recente democratizzazione dell’Europa centroorientale, sono state adottate norme sul ruolo e sul funzionamento dei partiti. La ragione è semplice. Si vuole garantire una effettiva democrazia interna ai partiti per mettere al riparo i partiti stessi, e come side-effectanche il sistema politico, da tentazioni autoritarie o cesariste. In Germania, paese che per primo ha introdotto una legge sui partiti, chi non si adegua ai principi democratici non solo viene penalizzato finanziariamente con il blocco dei fondi pubblici (che sono previsti, e in abbondanza) ma, in caso di gravi violazioni, viene poi sottoposto alle restrizioni previste dall’ufficio per la Protezione della Costituzione del ministero dell’Interno. L’autonomia organizzativa dei partiti non ècerto limitata da norme generali concepite al solo scopo di garantire diritti di espressione e procedure democratiche interne. Quello che viene tenuto sotto controllo è la pulsione autoritaria della leadership. Una pulsione che è quasi naturale e che può quindi avere bisogno di essere imbrigliata dall’esterno. Fin qui i partiti italiani non ci sono riusciti ed anzi sono scivolati verso forme organizzative che oscillano dal cesarismo (Gianfranco Fini ai tempi d’oro di Alleanza nazionale) al plebiscitarismo carismatico (Umberto Bossi e Silvio Berlusconi), fino al personalismo in sedicesimo di Antonio di Pietro. E adesso tocca al M5S.
La sua deriva autoritaria dimostra che il virus del comando senza freni alligna ancora. A questo punto servono norme che impediscano l’ulteriore discredito della politica. Se anche chi si poneva come l’antidoto alla vecchia politica crolla così, la disaffezione salirà alle stelle. Intervenire con la forza della legge per ripristinare regole di “agibilità” democratica nei partiti è una necessità vitale per un migliore funzionamento del nostro sistema.

Repubblica 19.6.13
L’amaca
di Michele Serra


Il “processo” alla traditrice Gambaro è stato, per il Movimento Cinquestelle, una tale catastrofe mediatica, politica, culturale e (non da ultimo) umana, che si stenta a credere sia davvero avvenuto: in quella forma e con quelle parole. Rispetto alla “vecchia politica” è mancata l’ipocrisia, ma perfino questo apparente pregio diventa un difetto se si considera che, levato quel velo pietoso, rimangono soprattutto rudezza e animosità.
Non bastasse questo desolante bilancio è arrivato poi il suggello, oramai conclamatamente ridicolo, dell’affidamento “alla Rete” del giudizio finale. Credo che anche la casalinga di Voghera (e il cittadino di Rieti, e la cittadina di Enna) abbia da tempo capito che non è “la Rete” a decidere alcunché (e come potrebbe? si tratta di un paio di miliardi di anime digitanti...); è una ristretta tribù, ben selezionata e ben difesa, che si muove attorno a Grillo e Casaleggio e si è autonominata “Rete” per antonomasia, come se io decidessi di essere il Gran Visir di Bangalore. È un gran peccato, tutto questo. Dà voce ai cinici e ai conservatori, convinti che in politica il “nuovo” possa essere addirittura peggiore del vecchio.

Repubblica 19.6.13
La crisi che (per ora) non sfocia in rivolta
di Guido Carandini


Il 31 maggio il governatore della Banca d’Italia dichiara nella sua Relazione che il nostro paese decade perché da 25 anni non riesce più a rispondere «agli straordinari cambiamenti geopo-litici, tecnologici e demografici» del mondo ». Il 7 giugno sul New York Times un commentatore si domanda: come mai in Europa la drammatica disoccupazione di massa, che per i giovani ha raggiunto il 40% in Italia, il 50% in Spagna e oltre il 60% in Grecia, per di più aggravata dalla pesante crisi finanziaria, non ha prodotto fin qui una rivolta sociale guidata dalle estreme di destra o di sinistra? E come mai i regimi politici di centro sembrano riuscire a contenere lo scontento popolare malgrado che dalla integrazione europea e dal sistema dell’euro sotto la dominazione tedesca, nessuno ha tratto vantaggi?
I due pareri sono in qualche modo complementari perché il primo è un po’ la spiegazione del secondo. Vediamo perché. Prima di tutto non è detto che quello che finora non è successo non possa ancora accadere. Dopo tutto il fascismo e il nazismo sono sorti soprattutto a causa di una Grande depressione, quella del 1929, quasi uguale a quella attuale, di disoccupazioni di massa come le attuali, di fallimenti della politica molto simili a quelli attuali. Forse è il caso di ricordarlo e di non confidare troppo nel miracolo della integrazione europea che avrebbe dovuto, con la moneta unica, garantire la pace fra popoli che per secoli erano stati in guerra fra loro. E, inoltre generare, secondo i progetti della élite formata da De Gasperi, Adenauer, Monnet e Delors, un grande progresso e benessere ridando all’Europa unita un ruolo egemone. Purtroppo è accaduto tutto il contrario e l’Europa è diventata, per la povertà dilagante e per l’immobilismo delle classi dirigenti di centro (si fa per dire, dimenticando Berlusconi), una nuova possibile sede di minacce alla democrazia. Ma allora per quale motivo in Europa la rivolta sociale ancora non succede?
Provo a suggerirne uno che mi è stato ispirato ritrovando queste rime satiriche di Matteo Boiardo, scritte nel 1453: «Così colui, del colpo non accorto, andava combattendo ed era morto». Mi è sembrata una perfetta metafora di quel che accade alle classi dirigenti dell’Unione europea, le quali si credono ancora vive perché combattono nei vari paesi membri la depressione economica, la crisi della politica e l’esilio della democrazia, senza però essersi accorte di un cambiamento per colpa del quale, invece, sono (metaforicamente) morte. Si chiama “globalizzazione” e non investe solo l’Europa, perché “globali” sono diventate ovunque la politica, la società e l’economia, mentre le nazioni occidentali, da quelle piccole della Ue ai grandi Stati Uniti, tutte fingono di possedere ancora le rispettive sovranità e democrazia, che invece sono ormai in gran parte in esilio nelle gigantesche banche di affari di Wall Street che con i loro “rating” possono preoccupare Barack Obama più della Cina. E quindi lo “straordinario cambiamento geopolitico, tecnologico e demografico del mondo” di cui parla il Governatore Visco, è proprio la globalizzazione, alla quale non riesce a rispondere non solo l’Italia, ma l’Europa intera. Ed è a causa sua che sono, sempre metaforicamente, “morti” sia gli apparati politici “nazionali”, sia le ricette di stabilità monetaria “nazionali” e sia la lotta per le democrazie “nazionali”. Perché non ci si era accorti che nel frattempo il potere globale stava inghiottendo le Nazioni appropriandosi dei loro passati poteri.
Ecco forse perché non scoppia la rivolta. Perché invece potrebbero essersene accorti i popoli, la gente, i giovani che non hanno futuro, avendo capito che contro il potere globale le rivolte sociali sono ormai impotenti, a meno che anch’esse non diventino almeno sovranazionali. I primissimi tentativi di “occupazione” ci sono stati, ma le nostre “morte” classi dirigenti se ne sono disinteressate, perché certonon se n’erano accorte.

il Fatto 19.6.13
Rotelli si ritira, il Corsera passa di mano. Ma a chi?
Il re dellecliniche (primo azionista) ha detto no all’aumento del capitale
Mistero su chi comprerà le quote
di Gaia Scacciavillani


Milano Giuseppe Rotelli molla il colpo sul Corriere della Sera e così quella che al momento è la seconda quota azionaria di Rcs, il 12,5%, sta passando di mano senza che si sappia chi sarà il compratore. Quel che al momento è certo, infatti, è soltanto il fatto che la famiglia del ras della sanità lombarda non ha nessuna intenzione di proseguire l'avventura nel quotidiano, di cui Rotelli era diventato il primo azionista il 6 aprile 2012 dopo un rastrellamento durato quasi sei anni pagato a caro prezzo. E, quindi, ieri ha ufficializzato l'intenzione di non partecipare alla ricapitalizzazione da 400 milioni di euro che Rcs ha varato lunedì e che sarebbe costata a Rotelli circa 64 milioni. Di contro la mossa costerà al proprietario del San Raffaele una diluizione della partecipazione dall'attuale 16,6 al 4,15% circa. Una scelta che, oltre a stuzzicare gli appetiti di chi ancora ha interesse ad avere voce in capitolo in quel che resta del salotto buono, ha sollevato più di un interrogativo a Milano.
COMPLESSIVAMENTE, infatti, l'investimento di Rotelli nel Corriere, iniziato nel 2006 a valle dell'estate dei furbetti del quartierino, sfiora i 350 milioni. E non è ancora finito: a febbraio 2014 è in calendario il pagamento da 108,38 milioni al Banco Popolare per il restante 3,522% dell'eredità di Stefano Ricucci che l'imprenditore non ha ancora saldato, ma sul quale già esercita il diritto di voto. Evidentemente la famiglia del proprietario del primo gruppo sanitario privato della Lombardia non ritiene, come del resto l'amministratore delegato delle Generali, Mario Greco, che il gioco valga la candela. O forse teme, come paventato più volte da Diego Della Valle, che se il gruppo editoriale proseguirà per la strada tracciata, le risorse raccolte con l'attuale ricapitalizzazione serviranno a ben poco, con il rischio di dover rimettere presto mano al portafoglio. O di portare i libri in Tribunale. Della Valle però, nonostante le durissime critiche al piano di salvataggio dell'ad Pietro Scott Jovane sostenuto da Mediobanca e Fiat, sembra intenzionato a rimanere in sella e a versare i suoi 35 milioni. Anzi, il primo candidato a fare sua la parte di Rotelli è proprio lui. Così facendo si avvicinerebbe al 22% di Rcs. Primo socio in assoluto e lontano mille miglia dai vituperati Agnelli (13,4% l'ipotesi post aumento) e Mediobanca (14,2%). Ma sempre secondo al patto di sindacato che, oltre a Fiat e Piazzetta Cuccia, riunisce tra gli altri Intesa e Pirelli. E che, nonostante le defezioni, dopo la ricapitalizzazione sarà sempre l'azionista di riferimento con oltre il 50%, in linea con gli accordi con le banche creditrici - tra cui le stesse Intesa e Medio-banca - sul rifinanziamento del debito monstre di Rcs che verrebbero invece a decadere in caso di rilevanti cambiamenti sul controllo del gruppo. Bisognerà quindi vedere se per lui il gioco vale la candela. E, soprattutto, se qualcun altro non si farà avanti per sbarragli la strada. Sul mercato e sulla stampa le ipotesi danno ampio spazio alla fantasia. Si va dall'ingresso di Rupert Murdoch spalleggiato da John Elkann che vorrebbe il suo Calabresi alla direzione del Corriere (contro Della Valle che vorrebbe Anselmi), all'arrivo di investitori industriali come i tedeschi di Axel Springer, sicuramente cari al creditore Unicredit il cui presidente, Giuseppe Vita, è anche alla guida del comitato di sorveglianza del gruppo tedesco. Senza dimenticare l'ipotesi che vedrebbe un ruolo anche per il presidente della Bpm, Andrea Bonomi che, oltre ad essere gradito a Mediobanca, è vicino anche a Rotelli visto che circa un anno fa è riuscito a coinvolgerlo nella Global Financial and Commercial Holdings, la società veicolo in cui il nipote di Lady Finanza ha racchiuso la sua quota nella Banca Popolare di Milano. Altro creditore di Rcs, nonché membro del consorzio di garanzia che si è complessivamente impegnato a sottoscrivere oltre 184 milioni della ricapitalizzazione a tutela di parte delle defezioni.

il Fatto 19.6.13
Il ministro Idem si fa una palestra al posto della casa
Ici non pagata per tre anni, irregolarità edilizie per una palestra per il fitness censita come abitazione e ristrutturazioni senza autorizzazione
Dovrà fornire qualche spiegazione
di Martina Castigliani


Per il Movimento 5 Stelle, che oggi presenterà un'interrogazione parlamentare, ci sono pochi dubbi. Se i fatti sono veri, visto che Josefa Idem è tedesca, dovrebbe seguire l'esempio dei ministri suoi connazionali che per una semplice tesi di laurea copiata lasciano la poltrona e si dimettono. Anche perchè qui in ballo non c'è una storia di gioventù. C'è un’Ici non pagata per tre anni e ci sono irregolarità edilizie: una palestra per il fitness censita come abitazione e ristrutturazioni senza autorizzazione.
Il caso scoppia a Ravenna, città di residenza dell'ex campionessa di canoa, dove fino al 4 febbraio 2013 la neoresponsabile del dicastero delle Pari opportunità dichiara di abitare in via Carraia Bezzi n. 104, nella frazione di Santerno, anche se il marito e la sua famiglia sono residenti a pochi metri di distanza, in via Argine Destro Lamone n. 23. Una doppia residenza che, secondo i documenti del Comune che IlFat  toQuotidiano.it   ha potuto consultare, ha un risultato importante: “i coniugi non hanno corrisposto l'Ici per gli anni 2008 al 2011 fruendo dell'esenzione prevista per legge”. Un bel problema per chi aspira a fare politica. Così il 4 febbraio, pochi giorni dopo l'annunicio della sua candidatura nelle file del Pd, Josefa Idem sposta la residenza nella casa del marito. E solo il 5 giugno 2013, si mette in regola con l'Imu, grazie a “un versamento a titolo di ravvedimento operoso” per l’edificio di via Bezzi, fino al febbraio precedente considerato la prima casa e all'improvviso diventato “altra abitazione”. In via Bezzi i coniugi vivevano in un piccolo appartamento fino al 2008, poi il trasferimento, ma a cambiare residenza era stato solo il marito. “Una dimenticanza”, ha ammesso Guerrini parlando con la stampa locale. Ma la storia non si chiude qui. Ed è ancora più scivolosa, assai poco tedesca e molto italiana. Di mezzo infatti c'è anche la palestra denominata “Jajo gym”, che ha come sede proprio quella che secondo la burocrazia doveva invece essere la prima casa per la Idem.
UNA STANZA con qualche attrezzo personale? No, la palestra di via Bezzi è un'attività commerciale a tutti gli effetti, con macchinari e corsi “per combattere lo stress, scacciare l'ansia e le preoccupazioni”, come si legge sulla pagina Facebook promozionale. E secondo gli accertamenti disposti dal Comune di Ravenna, presenta alcune irregolarità. Il problema sono i locali indicati come “sala attrezzi, taverna soggiorno, studio e servizi igienici con spogliatoio” tutti al serivizio di Jajo gym, società sportiva dilettantistica. Secondo i documenti ufficiali, l'unità immobiliare è unica e ed è censita, anche catastalmente, come abitazione. Problematiche, si legge in un “accertamento di illecito” dell’ 11 giugno, sono pure “alcune macchine di condizionamento e canalette vicino alla tettoia” che non sono segnalate. I geometri del Comune dopo un sopralluogo dicono che “non risulta la conformità edilizia e l'agibilità della struttura”. C'è stato un restauro in assenza di Segnalazione certificata di inizio attività (Scia). Fatti imbarazzanti che, come riportano i documenti del Comune, hanno spinto “la proprietà a mettersi in contatto con gli uffici per dichiararsi disponibili a presentare apposita istanza in sanatoria”.
I primi a sollevare il caso erano stati i giornali locali, con la Voce di Romagna che aveva rivelato la storia delle due case della campionessa partendo dagli elenchi elettorali del territorio. Poi erano arrivate le interrogazioni del Pdl e del M5S al sindaco Pd Fabrizio Matteucci. E i controlli anagrafici, rimasti per giorni segreti. “Gli accertamenti”, aveva dichiarato ai giornalisti un imbarazzato Matteucci, “erano già stati autonomamento avviati dagli uffici competenti”. E per il momento, “non vengono divulgati perchè, come in tutti i casi simili, l'azione dell'Amministrazione e degli uffici competenti è ispirata ai principi dell'imparzialità e dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”. Il consigliere Pietro Vandini, capogruppo dei 5 Stelle in Consiglio a Ravenna, ha però scritto pubblicamente alla sua concittadina: “Visto l'importante ruolo che ricopre, non ritiene necessario fare luce circa le notizie emerse? Se non fosse così, mi autorizza a divulgare gli atti? Se risultassero irregolarità sarebbe pronta a dare le dimissioni? ”. Questa mattina in Senato sarà la volta del capogruppo Nicola Morra, che depositerà un'interrogazione sulla questione. Il parlamentare chiede spiegazioni, sul piano etico e si augura che tutto “sia uno spiacevole equivoco”. Ora tocca alla ministra chiarire.

l’Unità 19.6.13
Sbarchi, naufragi, tragedie: ritornano i barconi del dolore
di Flore Murard-Yovanovitch


UNO STRANO SILENZIO MEDIATICO AVVOLGE LA RIPRESA DELLA STAGIONE DELLE MIGRAZIONI AL SUD DEL PAESE. IN MENO DI QUATTRO GIORNI, SONO APPRODATI circa trecento migranti in Calabria e circa cinquecento in Sicilia (stima approssimativa dai lanci Ansa e cronache locali) ma potrebbero essere molti di più. Inoltre, chi scrive lo fa mentre altre due imbarcazioni sono state avvistate a sud di Lampedusa. La Guardia costiera è impegnata senza sosta, con le sue motovedette, nel Canale di Sicilia, e varie sono state le operazioni di soccorso.
Afghani, curdi, siriani, egiziani, di cui bambini e donne incinte, pronte a rischiare tutto e che ci dovrebbero fare riflettere sulle ragioni di queste migrazioni solo bombe fame o persecuzioni possono spingere donne ad imbarcarsi di notte al buio con i loro pancioni –. Ieri è pure nata una bimba siriana durante il lungo viaggio verso le cose Calabrese. Una speranza che offusca a malapena il cadavere di un immigrato subsahariano, avvistato a largo del Siracusano dove l’altra notte è approdato un barcone. Non è stato degno nemmeno di una notizia. Quando il silenzio viene squarciato dalle cineprese, si focalizzano sul momento drammatico dello sbarco, e poco o nulla si sa del probabile percorso una volta arrivati in Italia. I subsahariani vengono posteggiati in centri di accoglienza. I siriani, e soggetti vulnerabili nei Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara). Egiziani e tunisini, per via degli accordi bilaterali di riammissione dei migranti irregolari con Tunisia ed Egitto sono in generale subito rimpatriati a bordo di voli charter, nel giro di poche ore. Il rimpatrio forzato, dopo il trattenimento in centri ad hoc di identificazione rapida – specie di centri di detenzione temporanei in palestre, stadi requisiti dalle prefetture, dove i migranti vengono isolati e interrogati dai soli ufficiali di Frontex (l’ente europeo per il controllo delle frontiere), rappresentanti dei loro consolati, (vietate le visite di organizzazioni come Unhcr e Save the Children) sono stati di recente condannati dal relatore speciale dell’Onu sui diritti umani dei migranti, François Crépeau.
Cioè, casi di respingimento collettivo da parte delle polizie di frontiera di Siracusa, Trapani e Agrigento, e altre regioni, come Calabria e Puglia, come se il decreto legislativo n.25 del 2008 non avesse espressamente abrogato quelle residue disposizioni della legge Martelli (39/90) che consentivano alle autorità di polizia in frontiera di valutare come manifestamente infondata una richiesta di asilo e di procedere immediatamente all’accompagnamento forzato. Siamo in realtà da mesi, in continuità con il governo precedente, di fronte ad una serie di prassi illegittime dalla polizia di frontiera che ignora le prescrizioni vincolanti in materia di respingimento e trattenimento amministrativo, dettate dal Regolamento Frontiere Schengen, n.562 del 2006, che impone formalità e garanzie precise per tutti i casi di respingimento, dalla Direttiva sui rimpatri 2008/115/Ce (secondo cui il trattenimento amministrativo si può verificare solo all’interno dei Cie con precise garanzie procedurali), e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che all’art. 19 vieta espressamente le espulsioni ed i respingimenti collettivi. Per non parlare della Costituzione italiana che, negli articoli 13 e 24 stabilisce l’obbligo della convalida giurisdizionale del trattenimento amministrativo ed il diritto ad un ricorso effettivo per tutti, dunque anche per gli immigrati irregolari, come ribadito dall’art. 13 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
Un copione già noto, dalle altre stagioni, che si ripete ma in condizioni più drammatiche ancora perché il sistema di accoglienza è oggi destrutturato e senza i soldi della protezione civile, con fondi ridotti al minimo. Resistono solo gli Sprar finanziati dai comuni, ma dalle ultime notizie giunte, il centro di accoglienza di Mineo sta ormai esplodendo. Sono circa tremila gli «ospiti», di cui centinaia di richiedenti asilo dal Mali, cui per la grave crisi umanitaria nel Paese da una circolare del Ministero dell’Interno (n. 4369 del 15 giugno 2012), si sarebbe dovuto riconoscere la protezione sussidiaria; per tutti gli altri richiedenti asilo, lungaggini burocratiche per il rilascio del permesso di soggiorno tali da fare durare la loro detenzione fino a 18 mesi. Gli effetti? Trattamento degradante della persona umana, frustrazione e disperazione. Recentemente c’è stata una rivolta massiccia, e non per causa della fila per il cibo... Interrogarsi invece sulle reazioni all’uguaglianza negata? Ancora là silenzio, assordante.

Corriere 19.6.13
Il rapporto dell'alto commissariato delle nazioni unite
Quei 45 mln di persone che hanno perso tutto
Il 2012, anno-record di rifugiati e sfollati
Senza casa per via di guerre, persecuzioni e carestie. Cifre drammaticamente in crescita. Aiuti solo dai paesi poveri

qui

Repubblica 19.6.13
Unhcr, il rapporto 2013 sui rifugiati: nessuna invasione dell'Italia
Nel 2012 le richieste di asilo nel nostro Paese sono state 17.352, la metà rispetto al 2011. Per numero di profughi ospitati siamo al sesto posto in Europa, ben lontani da Germania e Francia. In tutto il mondo l'anno scorso oltre 45 milioni di persone costrette a migrare
di Giampaolo Cadalanu
qui


l’Unità 19.6.13
Firenze trema, lo scandalo escort si allarga
di Maria Vittoria Giannotti


FIRENZE Tutto è cominciato da una moglie tradita e decisa a vendicarsi. Dalla denuncia della furibonda signora, presa in carico dagli investigatori della polizia postale, è nata l’inchiesta che in questi giorni sta facendo tremare Firenze. Perché quello che gli inquirenti hanno scoperto, in due anni di intercettazioni e appostamenti, è un colossale giro di escort. Tra le protagoniste di questa storia ci sono bellissime ragazze straniere, pronte a concedere i loro favori in cambio di «regalini», ma figurano anche insospettabili e avvenenti fiorentine, altrettanto disponibili a partecipare a incontri a luci rosse e altrettanto desiderose di arrotondare. Quelli che ancora mancano all’appello, però, sono i nomi dei clienti. Di certo si sa solo che nelle camere dei due alberghi in riva all’Arno finiti nel mirino della Procura e nelle piscine di ville di campagna, teatro di festini a base di sesso, sfilavano professionisti noti e meno noti, ma anche giornalisti e imprenditori, avvocati e politici locali. Le pagine degli atti di polizia giudiziaria dell’inchiesta, che conta 14 indagati per favoreggiamento della prostituzione, brulicano di omissis. E sono proprio quegli spazi bianchi a scatenare la fantasia cittadina, dando vita a un quotidiano aggiornamento di telefonate e pettegolezzi. C’è chi giura che tra i frequentatori più assidui delle alcove ci fossero soprattutto esponenti del centrodestra. C’è chi invece è convinto che, presto, spunterà anche il nome di qualcuno del centrosinistra. Ma per il momento sono solo chiacchiere da bar. Per ora, l’unico politico sfiorato, anche se indirettamente, dalle indagini è Massimo Mattei, l’assessore comunale Pd della giunta Renzi, costretto qualche giorno fa a ritirarsi dalla scena politica cittadina per un problema di salute.
La 42enne Adriana, ex modella, una delle escort al centro dell’inchiesta, la più gettonata per inciso per circa un anno ha vissuto gratis ed esercitato la «professione» nella casa di un consorzio di cooperative sociali che si occupa di assistenza agli anziani: dal 2007 al 2012 il consorzio (Borro) era stato presieduto dall’ex assessore. La donna aveva lavorato negli anni precedenti per il consorzio
prima di rientrare in patria. Quando poi è tornata a Firenze, in un periodo di difficoltà economica, ha chiesto aiuto agli ex datori di lavoro ottenendo l'assegnazione di un alloggio gratuito. «Non sapevamo che lavoro facesse» spiegano dal Borro. «Nessuno di noi poteva neppur sospettare che lei potesse fare un altro tipo di lavoro; diversamente, pur senza dare alcun giudizio morale, l'uso dell'appartamento le sarebbe stato negato» scrive in una lettera, l'ex assessore del Comune di Firenze, Massimo Mattei, che aggiunge: «La ragazza la conoscevo bene. Era mia amica da circa dieci anni. Di detta amicizia erano a conoscenza tutti, collaboratori, amici e familiari cui, in varie occasioni, era stata presentata». Nelle carte c'è anche un’intercettazione, in cui Adriana racconta a un amico di aver «consumato il rapporto sessuale in una stanza conferenze (probabilmente del Comune)» dove sono «stati sorpresi da una donna delle pulizie». Insieme a lei, un funzionario comunale dell’ufficio mobilità.
Ma quello sessuale non è l’unico filone dell’inchiesta. Gli investigatori stanno lavorando anche su un giro di evasione fiscale ai danni del Comune di Firenze, realizzato da hotel che non versavano la tassa di soggiorno. Nelle intercettazioni, alcuni albergatori indagati, spiegano il sistema escogitato: registrare bambini al posto di ospiti adulti.

il Fatto 19.6.13
“Politici, giornalisti, funzionari, tutti in fila da noi escort”
Parlano le ragazze del 2giro” di Firenze
di Davide Vecchi


Doveva andà via alle nove e mezza, ha un impegno in Comune, perché lui sta in politica no, in consiglio comunale e allora abbiamo rimandato a lunedi”. Palazzo Vecchio affiora più volte nelle carte dell’inchiesta sulle escort fiorentine. Non c’è solo il funzionario V. R., sorpreso con la “regina” Adriana dalla donne delle pulizie in un ufficio del Comune. Le stesse prostitute confermano che il giro di “donnine” secondo gli inquirenti messo in piedi da Franco Bellini, l’orologiaio detto Franchino, il “capo puttaniere” assieme ai fratelli Taddei, non si limitava a pochi amici. “Giornalisti, politici, procuratori di calcio”, confida O. B., giovane avviata alla prostituzione dal fidanzato, L. M., e amica del solito Franchino. Lei spiega che il giro si allargava da solo, liberamente: “Anche io ho portato due mie amiche ma sono cose innocenti, limitate alle conoscenze personali”. Eppure ha coinvolto oltre duecento ragazze e soddisfatto decine di clienti, non solo a Firenze ma anche a Roma, Catania, Cortina. “Vanno a giro queste qui”. Per il pm di Firenze titolare delle indagini, Giuseppe Bianco, si tratta di associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione. In un caso anche minorile: una delle ragazze aveva 17 anni.
“Io non ne so nulla, davvero”. Nadia, raggiunta telefonicamente, si lascia andare. E racconta di come ha conosciuto Franco e che “tutto avveniva in modo molto naturale: nessuna di quelle che conosco e ho conosciuto erano prostitute per professione, lui chiamava, chiedeva di presentare alcune amiche e poi il resto lo faceva lui”.
NELLA SCUDERIA del Franchino, di fatto, entrano anche due infermiere dell’ospedale di Ca-reggi. C. M. viene ingaggiata direttamente da Franco. “Guadagna più col business della prostituzione che a vendere orologi, dai retta a me”, parlano di lui suoi amici-clienti intercettati. L’infermiera C. conosce Franchino per caso. Il primo incontro che le organizza è con un noto ristoratore fiorentino. In seguito lei introduce l’amica e seleziona chi portare anche ad alcune feste. All’uscita di una di queste la Polizia la ferma in auto e a verbale la scheda come “escort”. Anche C. parla liberamente delle serate, definendole, anche lei, “nulla di strano, tutto normale”. E le stanze in hotel riservate per ospitare le ragazze? “Di questo io non so nulla, ma da qualche parte devono pur andare”. Ride, scherza. Anche la giovane dipendente di un albergo in pieno centro finita nelle carte perché non controllava i documenti all’ingresso alle sue amiche, sdrammatizza: “E che dovevo fare, schedarle tutte? Io i registri li ho tutti in ordine”.
Solidarietà tra amiche. Ma per qualcuna aver scoperto che la “regina” Adriana aveva in uso gratuito anche un appartamento della cooperativa sociale che si occupa di assistenza agli anziani, Il Borro, ha scatenato qualche gelosia. “Gliel’ha trovato l’amico politico al Comune vero? ”, chiede C., 24enne ucraina. “Dicono fosse richiestissima in Comune, sai che l’hanno trovata mentre faceva tutto con la porta aperta in ufficio lì, no? Ecco. Ma è brava, si faceva pagare molto bene sai? Una volta franchino mi disse che aveva alzato cinque mila euro in pochi giorni”. Chiara spiega che le tariffe in realtà le decidevano sempre loro, “gli amici quando telefonavano ci spiegavano come fare e cosa chiedere, ok? ”. Tra le oltre 4 mila pagine di intercettazioni si capisce facilmente che il conto dipendeva dal cliente e dai servizi che questo richiedeva. “Io sempre tutti rapporti protetti eh, capito? E poche volte, perché basta qualche mese e poi meglio venir fuori altrimenti finisci come quelle sue siti e a me non piace”.
DICHIARAZIONI di ragazze per lo più straniere, arrivate in Italia non si sa bene come e finite nei facili giri della prostituzione. Gli inquirenti hanno impiegato quattro anni per ricostruire l’inchiesta “Bella vita” solo con riscontri telefonici e ambientali, senza mai sentire nessuna delle persone coinvolte. Perché ci sono storie di gelosie, bassa umanità, ricatti e vitelloni di provincia. Ma anche persone nate nella politica. Uno dei clienti, per dire, ha avuto come padrino al battesimo Bettino Craxi.

Repubblica 19.6.13
L’ex assessore sulla escort “Ignoravo il suo lavoro”


FIRENZE — «Io la conoscevo bene, ma ignoravo che potesse fare un altro “tipo di lavoro”». Così l’assessore dimissionario alla mobilità del Comune di Firenze Massimo Mattei (Pd) spiega in una lettera i suoi rapporti con Adriana, la escort più desiderata di Firenze, che fra il 2011 e il 2012 ha abitato e ricevuto clienti in una casa che le era stata messa a disposizione a titolo gratuito dalla cooperativa Il Borro, fondata dallo stesso Mattei e specializzata in assistenza ad anziani e disabili. La ragazza — scrive Mattei — «era una mia amica da circa dieci anni, è stata dipendente della cooperativa e di altre mie aziende... Ha lavorato con profitto e responsabilità. Nessuno di noi sapeva, né poteva neppur sospettare che lei potesse fare un “altro tipo di lavoro”. Diversamente, pur senza dar alcun giudizio morale, l’uso dell’appartamento le sarebbe stato negato».

Corriere 19.6.13
Colpevoli in tribunale ma nessuno li cerca
Quei criminali nazisti finiti nel dimenticatoio
di Virginia Piccolillo


ROMA — Piero avrebbe quasi 69 anni. Se una baionetta delle SS non lo avesse fatto nascere e morire a Sant'Anna di Stazzema con un solo colpo. In fronte. Non ebbe mai quel nome. E neanche giustizia. Come Evelina, sua mamma, e le decine di migliaia delle vittime delle stragi compiute tra il '43 e il '45. Beatamente indisturbati dalle nostre autorità, i loro carnefici restano impuniti. Anche quelli condannati in via definitiva dai nostri tribunali: una quarantina, meno di 20 ancora in vita.
Perché? Lo chiede da anni Franco Giustolisi, giornalista e scrittore, che per primo scoprì quello che lui stesso definì «l'Armadio della vergogna», in cui erano stati occultati i 690 fascicoli relativi a quei crimini: con 415 assassini già identificati. «Su questa che fu la più grande tragedia italiana, con forse 20-30mila vittime, si tace. Si fa il giorno della memoria, si parla di tutto, certamente degli ebrei, e non di questo. Perché? Eppure la Germania ci deve molto: aver chiuso quei fascicoli nell'Armadio le ha consentito di entrare nella Nato e poi nell'Ue».
È tornato a chiedere conto di quel silenzio Felice Casson, vicepresidente dei senatori del Pd, in un'interpellanza al ministro della Giustizia, degli Esteri, e della Difesa, depositata lo scorso 17 maggio. Dopo aver sottolineato le «ripetute sollecitazioni formali» per conoscere la situazione relativa ai responsabili delle stragi e la risposta tedesca «ai provvedimenti cautelari adottati dall'autorità giudiziaria italiana in merito» aveva confidato che «un governo "politico"» potesse fornire «una risposta rispettosa delle tante vittime del nazi-fascismo».
Risposta? Nessuna, ancora. Casson ora si appella al ministro degli Esteri: Emma Bonino». «Il governo — dice — deve alzare la voce perché i responsabili scontino la loro pena. Nessuno chiede le manette. Ma dopo che per decenni la magistratura militare si è comportata in maniera riprovevole, ora, dopo le sentenze, tocca alla politica. Finora forse ha prevalso la realpolitik. Ma dobbiamo chiedere il rispetto delle convenzioni internazionali». Si temono tensioni con Berlino? «Non si vuol dichiarare guerra alla Germania. Lo stesso presidente tedesco Joachim Gauck, nell'incontro a Stazzema con Napolitano conveniva nel deplorare che non si riesca ad avere giustizia. Si passi ai fatti. Le vittime aspettano».
«Nessuno ha ancora chiesto loro perdono per avergli negato giustizia, verità e memoria» incalza Giustolisi. E aggiunge: «Tacciono tutti». E il discorso di Napolitano a Stazzema? «Ha deplorato "che non si riesca ad avere giustizia nei tribunali", senza aggiungere "tedeschi". E ha aggiunto "siamo certi che questo nostro omaggio, questa nostra memoria è un'altra forma di giustizia per quello che voi avete sofferto. Ed è la condanna più pesante di ogni altra per coloro che portano la colpa". Un concetto che mi sembra assai riduttivo. Gli ho chiesto un incontro, non c'è verso. Anche se mi ha fatto inviare un elogio per la mia battaglia». «Tace il Csm. Non ha risposto — prosegue Giustolisi — il presidente Monti: a una mia lettera, ma anche alle interrogazioni di tutti i senatori del Pd. L'Anpi, massima autorità antifascista, ha stracciato un voto plebiscitario e porta avanti una recente mozione condivisibile sottotraccia. Luciano Violante mi fece dire che ormai erano passati 50 anni. Fausto Bertinotti che dell'Armadio della vergogna si è parlato anche troppo. Bersani mi assicurò un intervento ma poi scomparve. Insomma una congiura del silenzio. Ma di che cosa si ha paura? ».

Corriere 19.6.13
Il delitto d'onore diventi aggravante
Trent’anni fa si scarcerava subito un uomo colpevole di uxoricidio
di Gian Antonio Stella


«Ma l'aspetto più sconcertante del verdetto non è rappresentato tanto dalla modestissima pena inflitta al sottufficiale, quanto piuttosto dal fatto che i giudici, accogliendo la richiesta avanzata in questo senso dal legale dell'uxoricida, hanno ordinato la non iscrizione della condanna sul certificato penale dell'imputato».
Lo raccontava esattamente trent'anni fa, nella tarda primavera del 1983, sul Giornale, Guido Paglia. Il quale era scandalizzato dalla sentenza con cui la Corte di appello di Roma, «presidente Carnevale», aveva dimezzato in appello la già sbalorditiva condanna a soli quattro anni di un vice brigadiere di polizia, un certo Alfonso La Gala, che aveva ammazzato la moglie poco prima che fossero abolite le attenuanti previste dal vecchio articolo 587 sul delitto d'onore.
Rileggiamo la cronaca, ricostruita in base, ovviamente, alla versione del marito: «Il delitto avvenne all'alba del 30 agosto 1978 Formia. La Gala sospettava da qualche giorno che la moglie, Anna, lo tradisse. Il tarlo della gelosia aveva cominciato a rodere il suo cervello quando la cognata, durante un litigio, lo aveva apostrofato con l'epiteto di cornuto, aggiungendo subito dopo “e lo sai!”. La sera del 29 agosto, la moglie cercò invano di rabbonirlo, facendogli capire che voleva fare l'amore. La Gala però respinse regolarmente la donna e alle sei del mattino successivo si alzò per uscire di casa. Fu a quel punto che la Mauriello, definita una donna impulsiva, sbottò urlandogli in faccia: “mi fai schifo ed è bene che tu lo sappia che ti metto le corna”».
«Avuta la certezza del tradimento, il vice brigadiere afferrò un tubo di ferro colpì la prima volta la moglie alla testa. Sempre più fuori di sé», continua la cronaca basata sulla versione dell'assassino impossibile da smentire, «la donna cercò di fuggire ma non volle perdere l'occasione di umiliare ancor di più il marito: rincarando la dose con queste parole: “cornuto, cornuto, da dieci anni il mio amante è Biagio Veccia, che è meglio di te. Ti farò uccidere da lui”. Fu a quel punto che Alfonso La Gala perse completamente il controllo dei propri nervi. Raggiunse la moglie e la colpì almeno sette volte alla testa con il tubo di ferro che aveva impugnato pochi attimi prima, uccidendola».
Il processo di primo grado, nel maggio 1980, davanti ai giudici della Corte d'assise di Latina, dove il poliziotto si presentò a piede libero perché già scarcerato per la decorrenza dei termini prevista nei casi di omicidio «a causa d'onore», finì con una condanna a quattro anni, due dei quali condonati. Troppi, secondo il difensore. Che fece appello e in appello trovò, appunto, un giudice che dimezzò la pena e inserì addirittura la non menzione: perché mai sporcare una fedina penale di un uomo solo perché ha ammazzato la moglie?
Ecco, sarebbe bello se nel trentennale di quel verdetto forse «perfetto» sotto il profilo tecnico ma così offensivo da riassumere tutte le sentenze sui «delitti d'onore», fosse finalmente varata una legge che colpisca fatti come questi con una aggravante specifica. Rendendo giustizia, sia pure troppo tardi, a tutte le Anna che sono state umiliate per decenni da sentenze vergognose.

La Grecia tradita
Repubblica 19.6.13
La macchia sull’Europa
di Barbara Spinelli


SE ALMENO avessero le loro divinità antiche: forse i Greci capirebbero meglio quel che vivono, l’ingiustizia che subiscono, l’abulica leggerezza di un’Europa che li aiuta umiliandoli da anni, che dice di non volerli espellere e nell’animo già li ha espulsi. Le divinità d’un tempo, si sapeva bene che erano capricciose, illogiche, si innamoravano e disamoravano presto. Su tutte regnava Ananke: l’inalterabile Necessità, ovvero il fato. A Corinto, Ananke condivideva un tempio con Bia, la Violenza. L’Europa ha per gli Ateniesi i tratti di questa Necessità.
Forse capirebbero, i Greci, come mai a Roma s’è riunito venerdì un vertice di ministri dell’Economia e del Lavoro, tra Italia, Spagna, Francia, Germania, per discutere il lavoro fattosi d’un colpo cruciale, e nessuno di essi ha pensato di convocare la più impoverita delle nazioni: 27 per cento di disoccupazione, più del 62 per cento giovani. Sono i tassi più alti d’Europa. Forse avevano qualcosa da dire, i Greci, sui disastri della guerra che le istituzioni comuni continuano a infliggere con inerte incaponimento, e senza frutti, al paese reo di non fare i compiti a casa, come recita il lessico Ue.
La Grecia è la macchia umana che imbratta l’Europa, da quando è partita la cura d’austerità. Ha pagato per tutti noi, ci è servita al tempo stesso da capro espiatorio e da cavia. In una conferenza stampa del 6 giugno, Simon O'Connor, portavoce del commissario economico Olli Rehn, ha ammesso che per gli Europei è stato un «processo di apprendimento ». In altri paesi magari si farà diversamente, ma non per questo scema la soddisfazione: «Non è stata cosa da poco, tenere Atene nell’euro»; «Dissentiamo vivamente da chi dice che non è stato fatto abbastanza per la crescita». Poi ha aggiunto piccato: «Sono accuse del tutto infondate».
O'Connor e Rehn reagivano così a un rapporto appena pubblicato dal Fondo Monetario: lo stesso Fmi che con la Banca centrale europea e la Commissione è nella famosa troika che ha concepito l’austerità nei paesi deficitari e dall’alto li sorveglia. L’atto di accusa è pesante, contro strategie e comportamenti dell’Unione durante la crisi. La Grecia «poteva uscirne meglio», se fin dall’inizio il debito ellenico fosse stato ristrutturato, alleggerendone l’onere. Se non si fosse proceduto con la micidiale lentezza delle decisioni prese all’unanimità. Se per tempo si fosse concordata una supervisione unica delle banche. Se crescita e consenso sociale non fossero stati quantità trascurabili. Solo contava evitare il contagio, e salvaguardare i soldi dei creditori. Per questo la Grecia andava punita. Oggi è paria dell’Unione, e tutti ne vanno fieri perché tecnicamente rimane nell’euro pur essendo outcast sotto ogni altro profilo.
Addio alla troika dunque? È improbabile, visto che nessun cittadino può censurare i suoi misfatti, e visto il sussiego con cui è stato accolto il rapporto del Fondo. L’ideale sarebbe di licenziarla fin dal Consiglio europeo del 27-28 giugno, dedicato proprio alla disoccupazione che le tre Moire della troika hanno così spensieratamente dilatato. Il Parlamento europeo non oserà parlare, e quanto alla Bce, le parole di Draghi sono state evasive, perfino un po’ compiaciute: «Di buono, nel rapporto FMI, è che la Banca centrale europea non è criticata ». Il Fondo stesso è ambivalente, ogni suo dire è costellato di ossimori (di asserzioni acute-stupide,etimologicamente è questo un ossimoro). Il fallimento c’è, ma è chiamato «necessario». La recessione greca è «più vasta d’ogni previsione », ma è «ineludibile». Il fato illogico regna ancora sovrano, solo che a gestirlo oggi sono gli umani.
In realtà c’è poco da compiacersi. L’Unione non ha compreso la natura politica della crisi – la mancata Europa unita, solidale – e quel che resta è un perverso intreccio di moralismi e profitti calcolati. Resta l’incubo del contagio e dell’azzardo morale. Condonare subito il debito, come chiedevano tanti esperti, significava premiare la colpa. E poi all’Europa stava a cuore proteggere i creditori, dice il rapporto del Fondo, più che scongiurare contagi: dilazionare le decisioni «dava tutto il tempo alle banche di ritirar soldi dalle periferie dell’eurozona ». La Banca dei regolamenti internazionali cita il caso tedesco: 270 miliardi di euro hanno abbandonato nel 2010-11 cinque paesi critici (Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia, Spagna).
Ma la vera macchia umana è più profonda, e se non riconosciuta come tale sarà ferita che non si rimargina. È l’ascia abbattutasi sull’idea stessa dei beni pubblici, guatati con ininterrotto sospetto. È qui soprattutto che salari e lavori sono crollati. E la democrazia ne ha risentito, a cominciare dalla politica dell’informazione. Il colmo è stato raggiunto la notte dell’11 giugno, quando d’un tratto il governo ha chiuso radio e tv pubblica – l’Ert, equivalente della Bbc o della Rai – con la tacita complicità della troika che esigeva licenziamenti massicci di dipendenti pubblici. Non che fosse una Tv specialmente pluralista, ma perfino chi era stato emarginato (come l’economista Yanis Varoufakis) ha accusato i governanti di golpe. Le televisioni private, scrive Varoufakis, sono spazzatura: «un torrente di media commerciali di stampo berlusconiano: templi di inculcata superficialità» da quando inondarono gli schermi negli anni ’90.
Il giorno dopo l’oscuramento di Ert (2700 licenziati) c’è stata una manifestazione di protesta a Salonicco. Tra gli oratori l’economista James Galbraith, figlio di John Kenneth, e il verdetto è spietato: cinque anni di crisi son più della seconda guerra mondiale condotta dall’America in Europa, più della recessione combattuta da Roosevelt. E la via d’uscita ancora non c’è.
Perché non c’è? Galbraith denuncia un nostro male: lamentalità del giocatore d’azzardo. Il giocatore anche se perde s’ostina sullo stesso numero, patologicamente. Continuando a ventilare l’ipotesi dell’uscita greca l’Europa ha spezzato la fiducia fra gli Stati dell’Unione, creando una specie di guerra. Ci sono paesi poco fidati, e poco potenti, che non hanno più spazio: iDisastridi Goya, appunto. Non è stata invitata Atene, alla riunione romana, ma neppure Lisbona: la sua Corte costituzionale ritiene contrari alla Carta due paragrafi del piano della troika, e da allora anche il Portogallo è paria. «Ci felicitiamo che Lisbona prosegua la terapia concordata: è essenziale che le istituzioni chiave siano unite nel sostenerla», ha comunicato la Commissione due giorni dopo la sentenza, rifiutando ogni rinegoziato. Mai direbbe cose analoghe sui verdetti della Corte tedesca, giudicati questi sì inaggirabili.
Macchie simili non si cancellano, a meno di non riscoprire l’Europa degli esordi. Non dimentichiamolo: si volle metter fine alle guerre tra potenze diminuite dopo due conflitti, ma anche alla povertà che aveva spinto i popoli nelle braccia delle dittature. Non a caso fu un europeista, William Beveridge, a concepire ilWelfare in mezzo all’ultima guerra.
Le istituzioni europee non sono all’altezza di quel compito, attualissimo. Tanto più occorre che i cittadini parlino, tramite il Parlamento che sarà votato nel maggio 2014 e una vera Costituzione. È necessario che la Commissione diventi un governo eletto dai popoli, responsabile verso i deputati europei. Una Commissione come quella presente nella troika deve poter esser mandata a casa, avendo generato rovine. Ha perso il denaro, il tempo e l’onore. Ha seminato odio fra nazioni. Ha precipitato un popolo, quello greco, nel deperimento. Si fa criticare da un Fmi malato di doppiezze. È affetta da quello che Einstein considerava (la frase forse non è sua, ma gli somiglia) il sommo difetto del politico e dello scienziato: «L’insania che consiste nel fare la stessa cosa ripetutamente, ma aspettandosi risultati differenti».

Repubblica 19.6.13
La protesta dell’Uomo in piedi ecco l’ultima sfida a Erdogan
Per sei ore il coreografo Erdem Gündüz è rimasto a piazza Taksim senza parlare
Lo sguardo rivolto al ritratto di Ataturk
La polizia di Istanbul lo ha portato via ma il suo gesto è diventato un simbolo della rivolta turca
E migliaia lo hanno imitato
di Marco Ansaldo


ISTANBUL Quante immagini plastiche ci ha regalato la rivolta laica della Turchia. La prima è quella della ragazza con la giacca rossa, ferma come il passante impavido di Piazza Tienanmen davanti al carro armato, lei qui immolata agli idranti lanciati dalla polizia. Poi è venuto il pinguino con la maschera antigas, dissacrante presa in giro di un’importante tv locale, che nel momento della repressione a suon di lacrimogeni invece di mostrare Piazza Taksim nel fumo, per autocensura diffondeva documentari sui teneri acquatici. L’ultima foto che ora fa il giro del mondo è quella dell’Uomo in piedi, un giovane coreografo di Istanbul: Erdem Gunduz. L’altra sera si è fermato nel piazzale simbolo della protesta contro il premier islamico Tayyip Erdogan, e trasformandosi in una muta statua umana ha cominciato a fissare l’enorme stendardo rosso con il ritratto del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal, cioè Ataturk, ispiratore dei laici. Lo ha fatto senza muoversi, per 6 lunghe ore.
Una protesta solitaria e geniale nella sua semplicità, perché ha superato di colpo i divieti di assembramento emanati dalle autorità dopo le durissime repressioni di Piazza Taksim e del vicino Gezi Park. La gente ha capito. E ha subito protetto l’artista mettendosi ai lati. Alla fine gli agenti lo hanno comunque portato via, non sapendo nemmeno bene loro sulla base di quale accusa.
E’ stato lì che la contestazione, da solitaria, si è fatta comune. Una, dieci, cento persone hanno imitato Gunduz. Anche loro, come l’Uomo in piedi hanno assunto la posa muta, irrigidendosi, lo sguardo fisso sul Padre della patria. E il tam tam delle reti sociali si è messo in azione.
Un fiume in piena. Perché per tutta la giornata, migliaia di angeli, di statue mute e irate, apparivano come per magia qui e là a Istanbul. Alcune nel quartiere di Sisli, davanti alla redazione del giornale turco-armeno Agos, do-ve nel 2007 era stato ucciso il direttore Hrant Dink, altre davanti al Tribunale. Ad Ankara, la capitale, i curdi si trasformavano in statue di sale davanti al Parlamento. Così anche a Smirne, Antalya, Antiochia, Sivas. Migliaia di persone immobili, silenziose, arrabbiate. Una sfida muta e accusatoria contro Erdogan.«Esprimo un dolore», ha scritto Gunduz, il coreografo provocatore, su Twitter.
Da oggi la protesta ha una formidabilearma in più. Perchél’immagine dell’Uomo in piedi va insieme a quella della nonna che lancia la fionda sui blindati; al pianista tedesco di origine italiana Davide Martello che porta il suo strumento a coda nella piazza della contestazione; all’artista turca Sukran Moral, storica attivista dei diritti umani, arrivata a incidersi la pancia con una lametta facendo scorrere sul suo corpo rivoli di sangue per simboleggiare tutte le vittime.
Chi ha organizzato questa protesta?, chiediamo agli angeli della rivolta. «Nessuno. Tutti», rispondono le statue immobili di Piazza Taksim. A piegare l’impatto di pallottole di gomma e manganelli veri, in Turchia c’è ora una nuova forma di disobbedienza civile. Un atto spontaneo, senza leader, forse travolgente.

Repubblica 19.6.13
Come alberi nella piazza perché il mondo giudichi
di Deniz Ozdogan


Lunedì sera un Uomo si è fermato a guardare. Verso le 18, un Uomo, Erdem Gündüz, si è messo in piedi, immobile, in mezzo a piazza Taksim, con lo sguardo rivolto al Centro Culturale Atatürk, ora chiuso, su cui sono appese le due enormi bandiere turche e il ritratto di Atatürk. È rimasto fermo così quasi per sette ore. La notizia è esplosa nella rete. Sono arrivati altri uomini e altre donne in piazza. Poi la gente in ogni dove, da Smirne a Londra, ha cominciato a “fermarsi”. Nel Palazzo di Giustizia ad Ankara gli avvocati, i deputati nel Parlamento… Perché ieri sera un Uomo si è fermato a guardare.
L’Uomo dopo tutti questi tempi di urla, canti, slogan, spari e morti, dopo tutto quello che in questi giorni è stato detto, ha taciuto. È rimasto fermo e zitto. Fermo e zitto come un albero, dritto e paziente, che cresce, che guarda, che respira e fa respirare. Fermo e zitto come un seme, che dentro di sé ha già tutto, che è figlio di questi giorni ed è speranza per domani. E nel suo silenzio e nella sua immobilità, l’Uomo ha ricordato. L’Uomo si è fatto poesia e ha costretto lo spettatore a giudicare da solo.

Repubblica 19.6.13
Usa e Taliban, prove di dialogo
Come in Vietnam quarant’anni fa una ritirata travestita da vittoria
Dopo 2.400 morti americani, il Nemico diventa interlocutore
di Vittorio Zucconi


QUARANT’ANNI dopo gli accordi di Parigi del 1973 tra gli Usa e il Vietnam, che coprirono la ritirata americana nel Sud Est asiatico, Washington ripercorre la stessa strada con i Taliban inAfghanistan.
AMMETTE che la guerra è perduta e la chiama vittoria. L’annuncio che il governo americano siederà al tavolo del negoziato con la setta dei jihadisti più inflessibili dai quali avrebbe voluto disinfestare l’Afghanistan e il mondo non significa necessariamente che un accordo sia imminente o anche possibile. Ma il valore simbolico di quelle delegazioni che si siederanno l’una di fronte all’altra rappresentando due mondi formalmente inconciliabili è troppo evidente per essere mimetizzabile da formule diplomatiche.
Trattare con coloro che sono costati duemila e quattrocento vite di soldati americani, più altri mille fra le forze alleate italiani compresi, riconoscere dignità di interlocutore a quel famigerato “Mullah Omar”, il leader dei Taliban, che venne deriso e dato per morto dozzine di volte, dice semplicemente che dell’Afghanistan gli Usavogliono lavarsi le mani. Dopo avere capito, come da più di due millenni, da Alessandro il Macedone a George Bush il Texano hanno dovuto ammettere, che nessuna potenza straniera ha mai controllato e può controllare quella terra e quelle genti.
La fiction della «democrazia esportata» con la forza, del governo di un funzionario come Hamid Karzai che non controllava nulla e persino gli americani irridevano come «il sindaco di Kabul», della afganizzazione della guerra, tutto riproduce in maniera abbagliante la ingloriosa fine dell’avventura nel Sud Est asiatico. Anche allora la exit strategy concepita con il suo leggendario cinismo da Henry Kissinger, fu un exit e basta, un’uscita che soltanto il periodo di attesa concesso da Hanoi sembrò rendere meno umiliante. Agli Stati Uniti sarà almeno risparmiata la vergognosa fuga dell’Armata Rossa richiamata da Gorbaciov in rotta attraverso il passo di Kyber.
Se una speranza esiste di salvare l’impresa afgana da un disastro è che il prezzo di vite straniere quanto locali (anche ieri 17 morti per un’esplosione a Kabul) e il costo in tesoro pubblico — miliardi di dollari e di euro bruciati in dodici anni — è che il sacrificio eviti almeno l’effetto domino che espanda il fanatismo e il terrorismo ad altre nazioni e stati mussulmani barcollanti. Ma questo non dipenderà dagli Usa, dalla Nato, dall’Onu che aveva messo il proprio inutile sigillo ufficiale sull’operazione “Enduring Freedom” nella quale la sola cosa duratura sono stati i morti. Dipenderà dal nemico di ieri divenuto l’interlocutore di oggi. Dalla ragionevolezza degli irragionevoli.
E’ stato dimenticato, nel furore e nel terrore del dopo 11 settembre, che tra il governo degli integralisti di Kabul e gli interessi petroliferi e strategici americani era in corso già un flirt semi-segreto, che culminò nella visita di una delegazione afgana negli Usa. La tragedia dell’aggressione di Al Qaeda a New York e a Washington e il rifiuto del governo di consegnare Osama Bin Laden e di espellere i campi di addestramento precipitarono un’invasione che il Pentagono, e la Forze Armate americane, non sostennero mai. La liberazione dell’Afghanistan e il rovesciamento del regime furono affidate alla Cia, alle forze speciali e all’aviazione americana che martellò il cosiddetto esercito afgano permettendo la facile avanzata dei capi clan dai monti sulla capitale. Il pallino è oggi dove in realtàè sempre stato. Nelle mani dei Servizi segreti pakistani, l’Isi, a Est dell’Afghanistan, che è sempre stato il burattinaio dei Taliban e dell’Iran, a ovest, che i Taliban ha sempre detestato,nella loro concorrenza alla purezzaislamista. All’Occidente, che si era illuso di essere portatore di una verità irresistibile, quella dei diritti umani che, come diceva Gandhi, sarebbe bene cominciare a praticare anche a casa nostra, interessa andarsene e proteggere qualche interesse economico attraverso oleodotti, gasdotti e terminali verso l’Oceano Indiano. I morti, come sempre, seppelliranno i morti, l’America sventolerà bandierine e nastrini cercando di non dimenticare i feriti e i mutilati. «Chiamatela vittoria e andatevene» suggeriva Kissinger.

il Fatto 19.6.13
Big Brother Usa
Occhi senza frontiere Obama e le vite degli altri
di Furio Colombo


Questo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha carisma, stile e capacità comunicativa come non era mai capitato dai tempi di Roosevelt. Ora questo solido fondamento di autorità e di prestigio sembra essere incrinato. Vi è una ragione immediata che ha aperto dispute aspre dentro l’America e fra l’America e una vasta area di mondo (alleati e rivali).
La questione sono, ovviamente, “le vite degli altri”, come il commentatore del New York Times Roger Cohen, forse l’osservatore più acuto dei rapporti Usa-mondo, definisce i progetti Prism e Boundless Informant (occhi senza frontiere) messi in atto dalla National Security Agency, rivelati inaspettatamente da un esperto in fughe (sembra rifugiato a Hong Kong, con sospetti di protezione cinese) e diventati il problema dello spionaggio totale e globale.
PARAFRASANDO Roger Cohen, si può dire che d’ora in poi, mentre Obama visita un Paese amico e mentre attraversa l’America, rischia di essere visto come il capo di una immensa centrale d’ascolto e di indagine senza limiti e senza fine, sulla vita degli altri.
Stupisce la meraviglia, che ovviamente è forzata ed esasperata dal feroce antagonismo del Partito repubblicano verso un presidente la cui vera colpa è quella di volere con tenacia e senza segni di resa, la creazione di un servizio sanitario nazionale che non lasci più soli e abbandonati al proprio destino oltre 40 milioni di americani. In questo momento il lato buono della democrazia americana è di non essere incline alla pacificazione, visto che quando avviene (vedi Italia) avviene sempre e solo alle condizioni del più ricco. E questa è la pace che Obama rifiuta di accettare, abbandonare i poveri e meritarsi più riguardo e meno falsità dai rabbiosi repubblicani, la cui semplice e dichiarata missione politica è la protezione di chi possiede (non necessariamente produce) ricchezza.
Ma il lato oscuro è il come e il quando un governo pienamente e orgogliosamente democratico come quello di Obama abbia potuto volere, disegnare e imporre i due sistemi Prism e Boundless Informant. Per rispondere, ripeto ciò che ho appena scritto: stupisce la meraviglia, che ovviamente è manovrata dal-l’ostilità politica, ma sorge anche, con un po’ sorprendente candore, dalle masse dei cittadini della rete. Essi, più di altri, avrebbero dovuto sapere ciò che la bene informata e ben documentata produzione di Hollywood ci sta dicendo da dieci anni, con la nuova produzione di thriller politici nel formato serial da venti-trenta puntate. Per esempio 24 una lunga e complessa serie di episodi tecnicamente perfetti di eventi che ruotano sempre intorno alla Casa Bianca (e intorno a un presidente nero, andato in onda molto prima di Obama), che hanno sempre come luogo del dramma agenzie di governo tipo la National Security Agency e raccontano sempre dell’immenso bene (stroncare il terrorismo atomico) e dell’immenso male (interferire nella vita dei cittadini fino a cambiarla) di cui la nuova tecnologia è capace.
Ma ecco il punto che sembra tranquillamente ignorato: lo stato dell’arte nella tecnologia informatica. Eppure lo aveva già detto Einstein: “Uno scienziato farà sempre ciò che è tecnicamente facile” (intendeva dire: possibile). Con un po’ di realismo e di franchezza a questo punto dovremo essere capaci di ammettere che questo “delitto americano” lo stanno commettendo in questo momento tutti i Paesi che sono tecnologicamente in grado di farlo, così come centri privati di cui un giorno, all’improvviso, mostreremo meraviglia e indignazione.
A UN LIVELLO di tecnologia più modesta, vi siete mai chiesti dove sono finite le 100 mila intercettazioni di Tavaroli mentre lavorava per una ditta che doveva soltanto proteggere la privacy di una signora? Oppure l’accurato lavoro di spionaggio di un certo Pio Pompa, fatto per conto (poi negato) di certi servizi segreti italiani, nel pieno di una situazione senza pericoli nazionali o internazionali di alcun genere?
Barack Obama ha una giustificazione che non lo libera dal problema, ma è molto importante: il pericolo del terrorismo che ha nella rete il suo principale veicolo di circolazione. Ed è a questo punto che va notato un tratto unico della presidenza di Obama (con la sola eccezione di Jimmy Carter): non vuole la guerra. Qui c’è una ragione di alleanza molto forte del presidente con i suoi cittadini, elettori e non elettori, e un punto, grandissimo, di divaricazione dai leader politici repubblicani: non vuole la guerra.
È persuaso che i focolai di pericolo per il suo Paese si affrontano e si sradicano prima e non con le truppe, non sul posto, che è spesso il posto sbagliato. Comprensibile il malumore di tanti che si sentono allo scoperto tutto il tempo. Ma forse avrete notato che già adesso, a pochi giorni dallo “scandalo”, l’accusatore di Hong Kong appare più piccolo e più irrilevante dell’accusato di Washington: se la N. S.A. avrà il buon senso di dargli la caccia solo per finta, nell’America di Obama la crisi finisce qui.

Corriere 19.6.13
Il Brasile in rivolta contro i Mondiali 400 mila in piazza
La scintilla è stata il caro trasporti
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — Sono in tanti, in tutte le grandi città, come il Brasile non ne vedeva da decenni, dal tramonto della dittatura militare e poi impeachment del primo presidente eletto, Fernando Collor (1992). Marciano per ore con calma e allegria, poi le solite frange incappucciate da corteo approfittano di forze dell'ordine poco allenate alla piazza, e passano al vandalismo. Impressionanti le immagini dei Parlamenti statali di Rio de Janeiro e San Paolo invasi, tra molotov, auto bruciate, lacrimogeni e botte di risposta. Suggestivo ma innocuo l'assalto al Congresso nazionale a Brasilia, con centinaia di ragazzi che scalano il tetto, si piazzano tra le cupole disegnate da Oscar Niemeyer per la capitale del futuro, come fossero sul muro di Berlino nel 1989.
È che in Brasile, d'improvviso, un muro sta davvero crollando, ed è quello dell'apatia e della rassegnazione: non è vero che va tutto bene, che il risveglio del gigante addormentato, nuova potenza mondiale, sta facendo bene a tutti. I detonatori della protesta sono relativi: pochi spiccioli di aumento del biglietto dell'autobus; l'aumento dell'inflazione; le spese per i grandi eventi sportivi, la Confederations Cup in corso, poi i Mondiali e le Olimpiadi. Ma c'è molto d'altro. La miccia dei ritocchi a San Paolo è stata paragonata agli alberi di Gezi Park a Istanbul; e simili sono i richiami alle primavere di altre parti del mondo, come la mobilitazione attraverso le reti sociali. Ma i problemi sono molti e seri. Il trasporto pubblico nelle grandi città brasiliane è uno scandalo: caro, inefficiente e addirittura pericoloso. «Prezzi tedeschi e servizi cubani», come era scritto in un cartello. La festa della crescita economica è finita, e i prezzi aumentano a ritmi che gli indici ufficiali ignorano. Tutti hanno davanti agli occhi i faraonici stadi per i Mondiali, quasi pronti, ma non vedono quasi nulla di quanto il Brasile ha giurato di consegnare insieme agli impianti: metrò, corridoi veloci, sicurezza nelle città. E poi le promesse mai mantenute, una scuola migliore, ospedali non da Terzo Mondo, meno corruzione.
In città dove le marce «contro l'impunità» raccoglievano poche centinaia di persone, la stima di 300-400.000 manifestanti nella sola giornata di lunedì è definita «storica». Da cui l'impreparazione delle forze dell'ordine e dei politici. Non ci sono vittime ma la prima reazione della polizia di San Paolo, a colpi di proiettili di gomma sparati da vicino e manganellate a caso è stata considerata maldestra ed eccessiva. Il risultato è che nella marcia successiva, quella di lunedì, i vandali hanno potuto fare quello che han voluto.
Il fatto che la protesta avvenga fuori dai partiti, dalle sigle sindacali e studentesche riconosciute, mette in difficoltà soprattutto il Pt di Lula e Dilma Rousseff, al potere da un decennio, durante il quale i movimenti sociali sono stati cooptati. E così la prima reazione della sinistra brasiliana è stata quella di accusare i manifestanti di essere di destra, classe borghese, di non rappresentare i milioni di cittadini che le politiche sociali hanno tolto dalla fame e dalla povertà. In parte è vero, in piazza non ci sono le facce degli ambulanti e dei favelados; ma le ragioni della protesta raccontano un modello che si sta esaurendo, fatto solo di incentivi ai consumi, e fragile per tutti.

Corriere 19.6.13
La croce sull'euro slovacco bocciata dalla Commissione
No a simboli religiosi sulla moneta europea
di Maria Serena Natale


Al calare del primo millennio si ritrovarono al centro del confronto tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente, oggi sono protagonisti di un nuovo scontro sulla stessa linea Est-Ovest. Come Cirillo e Metodio, santi di frontiera portatori di fede e pensiero da Bisanzio alle terre slave, finirono su una monetina che spaccò l'Europa unita.
Per i 1.150 anni dall'evangelizzazione della Grande Moravia, il cuore del continente attraversato dal fiume Morava, la Banca nazionale di Bratislava ha coniato una moneta celebrativa decorata da un artista slovacco che ritrae i santi fratelli con croce, aureola e le 12 stelle della Ue. Troppo religiosa. La Commissione ha imposto alla Slovacchia di cambiare testimonial e rientrare nell'ortodossia che tutela lo spirito laico dell'Unione, spesso motivo di contrapposizione tra l'Ovest più secolarizzato e i Paesi dell'Est ex sovietico che negli ultimi vent'anni hanno riaffermato la loro identità anche attraverso la riscoperta della sfera religiosa repressa dal comunismo. Quel credo laico che ha fatto litigare sulle «radici cristiane» escluse dai trattati e che in tempo di meticciato culturale è visto come un argine all'invasività pubblica dei culti, dal cristianesimo all'Islam. Non a caso i primi a insorgere contro la moneta slovacca da un euro sono stati i francesi, tenaci sostenitori della laïcité repubblicana e della separazione Stato-Chiesa. Seguiti dai greci che considerano glorie nazionali i compatroni d'Europa, inventori dell'alfabeto slavo ma nati nell'antica Tessalonica e attuale Salonicco. Sul fronte opposto i difensori dei simboli cristiani accusano la Ue di fondamentalismo laico e vedono nella religione una delle poche forze capaci di unire un continente ancora «senz'anima», nelle parole di Jacques Delors. Alla ricerca di un «ponte spirituale», come Papa Wojtyla definì i monaci viaggiatori che Bruxelles non ha fermato: a luglio Bratislava metterà in circolazione la sua moneta, Cirillo e Metodio forever.

l’Unità 19.6.13
L’Italia in bianco e nero. La storia in un click
Un seminario sull’uso delle immagini nel giornalismo: l’archivio de «l’Unità»
A Sesto San Giovanni un convegno che parte dalla gigantesca raccolta di immagini di questo giornale
Una parte di quel tesoro è conservata dall’Isec che ha messo in rete già 12mila contributi
Tra i nostri fotografi Dondero, Lucas, Carruba, Pais
di Paolo Calcagno


MILANO UN TEMPO, SPECIE NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI SESSANTA, LA FOTOGRAFIA NON ERA LIMITATA ALLA FUNZIONE DI CORREDO DEI TITOLI E DEGLI ARTICOLI, COME ACCADE SOLITAMENTE OGGI. Un tempo, la fotografia qualificava la notizia e, spesso, era la notizia. Magistralmente valorizzata dai rotocalchi (da Oggi all’Espresso, da Vie Nuove a Epoca), la fotografia era il pezzo forte anche nell’impaginazione dei quotidiani. Era il tempo che portava giovani, audaci e talentuosi fotografi free-lance in giro per il mondo a fissare sulla pellicola momenti straordinari della rivoluzione in Venezuela, piuttosto che della lotta di Al-Fatah, eventi destinati alla storia e che occupavano le cronache dei principali quotidiani italiani, al pari delle grandi «testate» di Francia e Gran Bretagna.
E, fra i quotidiani italiani, una posizione di vertice nell’uso innovativo della comunicazione visiva veniva riconosciuta all’Unità, che in quegli anni stava provvedendo a reinventare il giornale fondato da Gramsci. In quel tempo gli archivi delle redazioni di Roma, Napoli, Milano, Bologna, Firenze, Torino, accumulavano a migliaia le fotografie che documentavano grandi e piccoli eventi, nazionali e internazionali, e che oggi rappresentano parte rilevante del nostro patrimonio della memoria. Una parte di quel «tesoro» storico è conservata dall’Isec (Istituto per la storia dell’età contemporanea) che ha catalogato, digitalizzato e messo in rete oltre 12mila fotografie. E proprio nella Fondazione di Sesto San Giovanni si è svolto, ieri, il seminario dedicato all’archivio fotografico dell’Unità.
«Abbiamo pensato di dare vita a un dibattito animato da autorevoli contributi, fra i quali i rappresentanti delle varie redazioni dell’Unità, per raccogliere una serie di riflessioni finalizzate all’ unificazione completa e all’eventuale digitalizzazione dei materiali utilizzati dalle varie redazioni del giornale», ha spiegato Giorgio Bigatti, direttore della Fondazione Isec. «L’idea è mettere in comunicazione i vari archivi per ricostruire il patrimonio della fotografia ed evitare che l’immagine sia appannaggio della Storia dell’Arte che tende a premiare solamente la bella foto», ha sottolineato Adolfo Mignemi, storico della fotografia e autore dei volumi fotografici sulla Resistenza, La Repubblica Sociale Italiana e Gli internamenti dei militari italiani in Germania, tutti pubblicati da Bollati e Boringhieri.
«Invece, sono tante le foto cosiddette “brutte” che nei giornali documentano eccellentemente eventi e personaggi in determinati contesti – ha aggiunto Mignemi, autore anche del bel volume Lo sguardo e l’immagine, anch’esso targato Bollati e Boringhieri -. Penso alle magnifiche “Raccoglitrici di olive” di Carruba, ai “Diffusori domenicali dell’Unità” di Dondero , alle “Mondine e al lavoro di campagna” di Pasquali, che si distingue dai tentativi stereotipati delle tante redazioni di rappresentarle alla Silvana Mangano in Riso amaro. Stupenda anche la ricerca di Antonio Sansone sugli “Ospedali a Roma”, negli anni ’60. Invece, altre importanti inchieste su committenza governativa, come quelle sulla “Miseria” e sulla “Disoccupazione”, negli anni ’50, mancano di apparato visivo, o sono corredate da immagini formali, antropologiche». «Una volta, l’uso della foto aveva un ruolo decisivo nei quotidiani – ha incalzato Rinaldo Gianola, vicedirettore dell’Unità -. Oggi, invece, non ci resta che la speranza di un ritorno dei quotidiani alla ricerca fotografica: siamo diventati tutti dei costi da abbattere e possiamo solo resistere».
Uliano Lucas che con le foto conservate dall’Isec ha realizzato lo storico libro Immigrazione a Milano, ha ricordato che «fu la direzione milanese di Giancarlo Bosetti ad aprire il giornale alla fotografia: affidò a Oreste Pivetta la realizzazione di inserti di 8 pagine ciascuno con mie foto sulla Milano degli anni ’80». Lucas, tuttavia, ha tenuto a separare i periodi. «In verità, le acquisizioni delle foto erano piuttosto casuali – ha raccontato Lucas -. Al ritorno dai miei viaggi, erano le responsabili dell’archivio romano dell’Unità a comprarmi le foto. I giornalisti non avevano deleghe in questo senso. Mancava una politica visiva della messa in pagina: la foto doveva essere funzionale all’articolo. Più tardi, Paolo Bracaglia, direttore di Vie Nuove si accorse dell’errore e recuperò lo stile di comunicazione visiva che si andava affermando su rotocalchi con le foto di Carruba, Dondero, Mulas, Rea e del sottoscritto. Ogni settimana, c’era un foto-documento straordinario, come quello del viaggio di Carruba sulle orme di Stevenson. I politici, poi, erano sempre rappresentati secondo il concetto della “navicella” e anche i sindacalisti non sfuggivano alle immagini pedagogiche, coordinate dal partito. La prima a cambiare tutto fu Maria Antonietta Macciocchi che pubblicò Togliatti mentre portava al guinzaglio i suoi cani».

l’Unità 19.6.13
L’arte tedesca fa discutere
Le accuse: la mostra riconduce tutto al passato nazista
La stampa segnala la mancanza di riferimenti a movimenti artistici come il Bauhaus e il Der Blaue Reiter
L’iniziativa è stata organizzata per celebrare i 50 anni del Trattato dell’Eliseo sull’amicizia franco-tedesca
di Anna Tito


FA DISCUTERE NON POCO FIN DALL’INAUGURAZIONE L’ESPOSIZIONE IN CORSO A PARIGI, NELLA HALL NAPOLÉON DEL LOUVRE FINO AL 24 GIUGNO DE L’ALLEMAGNE. De Friedrich à Beckmann. 1800 – 1939 (www.louvre.fr) L’iniziativa, organizzata per celebrare il cinquantesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo sull’amicizia franco–tedesca, patto con il quale nel 1963 Charles de Gaulle e Konrad Adenauer suggellarono pace e collaborazione a vent’anni dagli eventi bellici e dopo due secoli di discordie più o meno armate corredate da ben tre guerre, è stata oggetto di non poche critiche da parte dei tedeschi, convinti che si sia inteso presentare una visione distorta della storia della nazione e della sua arte, che la fa ricondurre tutta al suo passato nazista. Il Centro tedesco per la storia dell’arte (Caha) di Parigi ha lamentato che «l’esposizione, nella sua forma attuale, non contribuisce né all’amicizia, né alla riconciliazione, né tantomeno alla comprensione».
«Ancora adesso l’arte tedesca viene presentata come annuncio di catastrofe e di guerra?» si il chiede il settimanale di sinistra d’Oltrereno Die Zeit; rincara la dose il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, secondo il quale il Louvre «ha mostrato la propria versione della storia della Germania “confermando tutti i clichés dei ‘vicini oscuri, romantici e pericolosi’». Entrambi i periodici sottolineano inoltre la mancanza di riferimenti a movimenti artistici quali il Bauhaus e il Der Blaue Reiter, nucleo dell’espressionismo. «Cupo e aggressivo» appare il taglio dato alla rassegna, in quanto l’immagine complessiva del Paese, a partire dal lugubre romanticismo di Caspar David Friedrich fino agli esponenti di quella che i nazisti definirono «arte degenerata», tanto che ne confiscarono centinaia di dipinti, indurrebbe a un «parallelo ardito fra un passato reazionario, imperialista e hitleriano e l’attuale Germania ‘merckelliana’».
In duecento e più opere d’arte provenienti anche da prestiti eccezionali da parte dei musei americani e russi, ci viene proposta una riflessione intorno ai grandi temi che hanno strutturato il pensiero tedesco dal 1800 al 1939, e che mai avremmo creduto che potesse venire pianificata su iniziativa francese. Il Louvre, secondo i detrattori dell’esposizione, avrebbe inoltre scelto di ricostruire la storia della Germania secondo un modello «nietzchiano», ovvero classificando le opere in due categorie: dionisiache e apollinee, e ne risulterebbe un’arte affascinata dalla malinconia, dalla guerra, dai miti, insomma quella di un Paese «tormentato e tetro» e pertanto da temere. Wolfgang Goethe, la cui teoria del colore ha non poco influenzato Paul Klee e il movimento del Bauhaus, avrebbe dovuto costituire il filo conduttore dell’esposizione, ma così non è stato. E mancano anche – si rileva i riferimenti alla cosmopolita, libera ed evoluta Berlino degli anni ’20, Contestatissima è anche la scelta di chiudere la mostra con la proiezione del film Olympia (1938), di Leni Liefensthal, regista e fotografa apertamente vicina a Hitler e al nazismo, che con il pretesto di riprendere le Olimpiadi – le prime a venire presentate sul grande schermo avrebbe non poco contribuito alla propaganda del regime. Dal canto loro dal Louvre replicano che «la nostra intenzione non è quella di presentare una Germania ‘sinistra’, ma al contrario di permettere al pubblico francese di scoprire la ricchezza, l’inventiva e la diversità dei tedeschi nel periodo preso in esame». Nonostante la prospettiva storica scelta e la tesi diffusa ma fortemente discutibile secondo la quale il movimento del Romanticismo avrebbe condotto inesorabilmente all’ascesa del nazionalismo, l’esposizione De l’Allemagne – sostengono – non intende niente affatto dimostrare che l’ascesa del nazismo sia la conseguenza storica della ricerca di unità del XIX secolo. Obiettivo della retrospettiva sarebbe invece quello di illustrare la maniera in cui, dopo l’arte romantica di Friedrich, si sono sviluppate le correnti artistiche «validate» dal regime e ispirate a uno slancio patriottico ed «eroico», e dall’altro un’arte della Resistenza, volta a valorizzare la specificità e la soggettività. Il dibattito rimane aperto.

La Stampa 19.6.13
Con i soldi non si può comprare tutto
La tesi controcorrente di un filosofo-economista di Harvard: l’economia non può essere la chiave per risolvere ogni situazione
di Tonia Mastrobuoni


Michael J. Sandel, filosofo e economista, autore di Quello che i soldi non possono comprare (Feltrinelli)
Bill Clinton parlò di incentivi solo una volta; Obama invece lo ha fatto 29 volte nei primi tre anni del suo mandato
Bruce Springsteen ha rinunciato a 4 milioni in più di guadagno pur di tenere bassi i prezzi di un concerto

L’ economia può essere la chiave per capire e risolvere ogni cosa? All’inizio degli Anni Novanta, la Svizzera era alla ricerca di un sito di stoccaggio per le scorie nucleari prodotte dalle sue centrali elettriche. In un piccolo villaggio di duemila anime che era sulla lista, alcuni economisti fecero un esperimento che ebbe esiti clamorosi. Prima chiesero agli abitanti di Wolfenschiessen se avrebbero votato a favore o contro. Il 51% votò sì: il senso civico ebbe la meglio sulle preoccupazioni per gli eventuali rischi. Quando gli economisti aggiunsero un incentivo, uno «zuccherino», promettendo anche un risarcimento monetario, i voti a favore crollarono al 25%. L’offerta di denaro fece diminuire la disponibilità degli svizzeri ad accogliere il sito di rifiuti nucleari. Cos’era successo?
La maggior parte degli abitanti di Wolfenschiessen che avevano risposto di no spiegarono che non erano disponibili a farsi corrompere. Gli economisti che avevano condotto l’esperimento, Bruno S. Frey e Felix Oberholzer-Gee, arrivarono ovviamente alla conclusione che l’incentivo monetario avesse danneggiato l’obiettivo da raggiungere. Non solo: «gli incentivi», conclusero, «tendono ad allontanare il dovere civico». Frey lo chiamò «effetto di allontanamento» e ormai la letteratura abbonda di questi risultati. Non si può comprare tutto.
Invece, uno dei padri della scuola di pensiero opposta e di gran lunga dominante, il Nobel Gary Becker, sostiene che siccome le persone si comportano sempre per massimizzare il proprio benessere, l’approccio economico «è onnicomprensivo» e «applicabile a tutti i comportamenti umani», dalla scelta della marca del caffè alla scelta di chi sposare. Tutto si spiega con i numeri, tutto si può comprare o vendere. E quando il mercato non funziona da solo, la bacchetta magica degli economisti si chiama incentivo. Quando il mercato si inceppa, è sufficiente introdurre un premio o una sanzione e, voilà, tutto si sblocca. Una convinzione che negli ultimi anni ha assunto i contorni della mania: negli otto anni della sua presidenza, Bill Clinton usò il termine «incentivo» soltanto una volta; nei primi tre anni del suo mandato, Obama lo ha citato 29 volte. Ma che succede se gli incentivi non funzionano? In altre parole, che succede se si scopre che non tutto si può comprare?
Il filosofo ed economista di Harvard Michael J. Sandel ha tentato di raccogliere in un libro interessante, Quello che i soldi non possono comprare (Feltrinelli), numerosi esempi che indicherebbero «i limiti morali del mercato», cioè le soglie oltre le quali gli economisti fanno i conti con forze, le pulsioni, i desideri e le convinzioni che non si possono spiegare con le teorie economiche classiche e che non si possono raddrizzare con incentivi monetari. Sandel cita un esempio sorprendente, un caso simile a quello del sito di stoccaggio svizzero, dove un incentivo si è trasformato nel suo opposto.
In un esperimento condotto in un asilo, la multa per i genitori che arrivavano in ritardo a prendere i figli ha fatto aumentare, invece che diminuire i ritardi. È evidente che le mamme e i papà hanno percepito quella sanzione come una sorta di tariffa che poteva essere pagata per il ritardo, non certo come uno stigma. Un altro esempio simile è l’esperimento fatto in alcune scuole israeliane, dove hanno suddiviso gli studenti a caccia di donazioni in due gruppi, quelli pagati e quelli che lo fanno gratis. La scoperta è che questi ultimi, quelli che non ricevevano un compenso, si impegnavano molto di più. Ancora: quando l’Associazione dei pensionati americani chiese a un gruppo di avvocati di assistere alcuni anziani gratis, dissero di sì. Quando chiesero allo stesso gruppo di offrire gli stessi servigi a una tariffa scontata, gli avvocati risposero di no.
Sandel è convinto che sia arrivato il momento di recuperare il pensiero di un economista inglese scomparso alla fine degli Anni 70 e inghiottito dall’oblio: Fred Hirsch. Lo studioso parlò in un saggio dell’«effetto di commercializzazione», cioè «l’effetto che si esercita sulle caratteristiche di un’attività o di un prodotto se questi vengono offerti esclusivamente o prevalentemente in termini commerciali anziché su qualche altra base: scambio informale, obbligazione reciproca, altruismo o amore, o perché sentiti come servizio o obbligazione». Alcuni economisti hanno calcolato ad esempio che se Bruce Springsteen avesse fatto pagare i biglietti di un suo concerto a prezzi da mercato, avrebbe guadagnato 4 milioni in più in una sola notte. Eppure, non lo ha fatto. Perché? Un grande studioso americano, Alan Krueger, ha spiegato l’arcano così: «Danneggerebbe la relazione di dono che esiste con i suoi fan». Deluderebbe il suo pubblico, in altre parole. Un rischio che non ha prezzo, per la rockstar americana.
Il senso del libro è segnalare il fatto che «siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato», dove il negozio penetra ogni ambito della società umana. Dove si scommette persino sulla vita, come dimostrano le famose scommesse «Viatical» che si facevano sui malati di Aids. Un business che consisteva nel dare loro in anticipo la gran parte della somma dovuta alla morte, in cambio della polizza (loro incassavano il resto). Chi faceva soldi in maniera così tetra si lavava la coscienza sostenendo di aver regalato, grazie all’anticipo sull’assicurazione, ultimi mesi più sereni al malato. Un giro d’affari enorme, negli Anni 90, che continua tuttora con i malati terminali di cancro o di altri mali incurabili. Tuttavia, lo stesso Sandel ammette che la speculazione sulla vita è un’antica prassi, che risale addirittura al XVIII secolo, alle origini delle assicurazioni. E in quest’ultima parte del libro, in cui il filosofo condanna numerosi esempi di commercializzazione di aspetti della vita umana, la sua forza argomentativa, francamente, si indebolisce. Il nucleo più convincente resta la prima parte del libro, l’idea che l’incentivo economico non sia così infallibile come gli economisti vogliono farci credere. E che non tutto sia in vendita.

Corriere 19.6.13
Radici cristiane dell’Europa. Erasmo e la Chiesa romana
risponde Sergio Romano


Non sono d'accordo sulla sua risposta, il 9 giugno, a proposito dell'esclusione nella costituzione europea di un richiamo alle radici cristiane. Tutto dipende, io credo, da una dimenticanza e da un equivoco. Si dimentica che la matrice dei principii che improntano le nostre libere istituzioni (ben altra cosa la presenza in Europa di una assai più dilatata eredità storica) è l'affermazione della eguale dignità di ogni persona umana. Questa affermazione, ieri come oggi, non si ritrova affatto in ogni tipo di cultura, ma è il frutto dell'umanesimo cristiano, come si può facilmente documentare sulla base dei testi. L'equivoco nasce dal fatto che nello stesso campo cristiano le implicazioni di quella affermazione non furono sempre riconosciute, ed esse furono specialmente avversate dalla chiesa di Roma che, come è ben noto e come lei ricorda, alla nascita delle libere istituzioni si oppose duramente. Nondimeno io continuo a credere che, se ne sia o meno consapevoli, quelle libere istituzioni riposino sul pensiero dell'umanesimo cristiano. Esemplare, in proposito, il caso di Erasmo che, come ho scritto altrove, io ritengo il vero padre della moderna libertà. Ebbene, Erasmo fu emarginato dalla chiesa di Roma e le sue opere messe all'indice, ma chi può dubitare che il pensiero di Erasmo, poco importa quanto gradito a Roma, sia pensiero cristiano?
Roberto Vivarelli, Firenze

Caro Vivarelli,
Credo che lei abbia ragione ed è probabile che nella mia precedente risposta io non abbia sufficientemente sottolineato il ruolo del pensiero cristiano nella storia d'Europa. Sull'importanza di Erasmo nel definire e approfondire il concetto di libertà non posso che essere d'accordo con lei. Ma il preambolo, ripeto, non è un trattato storico-filosofico. È l'introduzione (per quanto mi riguarda inutile) a un trattato costituzionale in cui devono esservi garanzie di libertà per tutti e l'implicita assicurazione che nessuno avrà il diritto di rivendicare la propria «nobiltà» per ottenere uno stato privilegiato e mantenere altri al di fuori della cerchia civile.
Aggiungo che la battaglia più insistente per l'introduzione del riferimento alle «radici cristiane» nella costituzione europea fu fatta allora dalla Chiesa, vale a dire dall'istituzione terrena che aveva spesso adattato i principi del cristianesimo ai fini e alle necessità del momento. Quale sarebbe stato, se la richiesta fosse stata accolta, il cristianesimo della Costituzione? Quello di Erasmo o quello praticato dalla Chiesa Romana nella sua lunga evoluzione storica? Non basta. Se le «radici cristiane» avessero trovato spazio nel preambolo, la Chiesa avrebbe fatto le sue battaglie contro le leggi sull'aborto, la procreazione assistita, il divorzio, le unioni fra le persone dello stesso sesso e l'eutanasia sostenendo che sono incostituzionali; e qualche giudice della Corte costituzionale, forse, le avrebbe dato ragione. Ancora una osservazione, caro Vivarelli. La libertà e la dignità della persona umana sono certamente valori cristiani. Ma la tolleranza, indispensabile complemento della libertà, fu una salutare reazione alle guerre di religione ed ebbe per effetto una inevitabile relativizzazione delle loro rispettive «verità». Sono queste le ragioni per cui, pur riconoscendo il ruolo fondante del cristianesimo nella storia d'Europa, continuo a pensare che sia stato opportuno omettere le «radici cristiane» dal testo della Trattato costituzionale.

il Fatto 19.6.13
I film che non vedremo mai
Dalla Sacher a Medusa, la distribuzione è ai minimi
E a farne le spese è il cinema di qualità
di Federico Pontiggia


Distribuire, sì, una parola... In Italia al cinema si stenta, si fa fatica, si lancia un ula di qualitàetanti: direbbe Moretti, “continuiamo così, facciamoci del male”. Problema, se l’è fatto pure lui: la sua Sacher ha da poco chiuso i battenti, ovvero, ha sospeso acquisizione e distribuzione. Perché? “I nostri film art house – hanno dichiarato dalla società – la gente va sempre meno a vederli e le tv non li acquistano più: lavoravamo più per filantropia che altro”.
SPIEGAZIONE raggelante, questione allargabile. Vi immaginate una distribuzione che in poco tempo porta in sala due Orsi d’Oro, Cesare deve morire dei fratelli Taviani e Una separazione di Asghar Farhadi, un Oscar miglior film straniero (sempre Una separazione) e un Leone del Futuro, Muffa di Ali Aydin? Esiste, anzi, esisteva: è proprio quella di Moretti. Altrove – per dirne una: Francia – avrebbe suscitato invidia, da noi si becca il De profundis, con il penultimo film a fare da sintomo: Su Re, la Passione di Cristo di Giovanni Columbu. E il contagio esiste: non che sia colpa di Nanni, ci mancherebbe, ma chi ha prodotto il suo ultimo film Habemus Papam? La Fandango di Domenico Procacci, che a produrre continua, ma ha messo in soffitta – si vocifera di una possibile ripresa in autunno – la distribuzione: meno d’essai della Sacher, ma la qualità nemmeno qui difettava, 110 i titoli, ultimo Nina di Elisa Fuksas. To be continued? Chissà.
Guardando altrove, la situazione non cambia troppo: Medusa ha in sala La grande bellezza di Paolo Sorrentino, che ha superato abbondantemente i 5 milioni di euro, ma il disimpegno della controllata Mediaset è lapalissiano, il braccino della distribuzione corto come non mai. Le magagne stanno a monte, essere arrivati secondi dopo Warner Bros. per numero di spettatori nel 2012 e aver staccato il Biglietto d’oro per il film più visto, Benvenuti al Nord, non ha risolto nulla: il 20 giugno arriverà in sala il francese Dream Team, poi Medusa va al mare fino al 19 settembre, quando arriverà Un piano perfetto di Pascal Chomeil, mentre la bella stagione giungerà solo a ottobre, con Universitari di Federico Moccia (il 3) e Sole a catinelle con Checco Zalone (il 31).
Dopo Rai Cinema, è la seconda società di produzione e distribuzione italiana con 191.357.200 euro di ricavi nel 2012 (fonte: Rapporto 2012 “Il Mercato e l’Industria del Cinema in Italia” edizioni FEdS), ma il listino 2013 non è proprio abbondante: un occhio a Cologno, l’altro al mercato, anche Medusa non è più quella di una volta. E il ritornello è lo stesso per Filmauro: Colpi di fulmine per le Feste, The Last Stand con Arnold Schwarzenegger il 31 gennaio, poi più nulla, con Disconnect spostato a data da destinarsi, Jobs. Get Inspired sul fondatore della Apple – notizia delle ultime ore – mollato e due sole certezze, Colpi di fortuna a Natale e Verdone nel 2014. Da aprile Aurelio De Laurentiis ha iniziato a distribuire il catalogo in digitale, ma il dubbio strisciante è che abbia ormai traslocato dalla sala al San Paolo: il suo Napoli fa più notizia, non a caso, dovremmo ritrovare i calciatori partenopei nel prossimo cinepanettone.
PER FORTUNA, c’è chi non lascia ma raddoppia: all’ultimo festival di Cannes Lucky Red ha fatto il pieno, portando a casa la Palma d’Oro La vie d’Adèle di Abdel Kechiche, i fratelli Coen, la Coppola e Nebraska di Alexander Payne (nonché il nuovo di Tim Burton Big Eyes dal Marchè), la Bim ha risposto con Le passé di Farhadi, The Immigrant e Like Father, Like Son del giapponese Kore-eda, Academy Two con The Lunchbox, Il grande quaderno da Agota Kristof e Wakolda - L’angelo del male su Mengele in Argentina.
Bravi, ma non basta: The Congress di Ari Folman, il regista israeliano del caso Valzer con Bashir, Omar di Hany Abu-Assad (Paradise Now) sul collaborazionismo palestinese oppure Manuscripts Don’t Burn dell’iraniano antagonista Mohammad Rasoulof chi sulla Croisette non c’era quando mai li vedrà? Le rassegne Cannes a Roma e Milano mettono qualche pezza di valore, ma è il sistema distributivo a difettare. Ancor più nella società del-l’immagine, vedere è potere, il passo dall’oscuramento all’oscurantismo breve. Eppure, questa distribuzione che non va è l’effetto, non la causa prima: se la qualità non incontra la quantità, una, nessuna o cento copie uguali sono. E, per giunta, nessuno è mai riuscito a moltiplicare pani (film) e pesci (spettatori): almeno, senza far gridare al miracolo.

La Stampa TuttoScienze 19.6.13
“Dall’ansia alle abbuffate: ecco i disturbi del millennio”
Va in pezzi la vecchia concezione della ”follia” sostituita da un nuova visione dei disturbi mentali
Esce il manuale di psichiatria,  al confine tra cervello e relazioni interpersonali
di Francesco Rigatelli

qui segnalazione di Nuccio Russo

La Stampa TuttoScienze 19.6.13
Si chiama MechToy e i suoi sensori svelano i disturbi neurologici dei bebè
Il progetto di medici e studiosi di robotica: “Trasformeremo diagnosi e terapie”
di Simona Regina


La nuova piattaforma riesce a misurare la risposta del bambino a stimoli diversi: per esempio come afferra gli oggetti come modula la forza e anche come dirige l’attenzione visiva
Si chiama MechToy ed è la nuova piattaforma per diagnosticare i disturbi dello sviluppo neuropsichico nei bambini entro il primo anno di vita.
A che punto siete? «MechToy ha superato tutti i test e adesso continueremo con altre sperimentazioni e ci auguriamo che diventi uno strumento diagnostico nei centri di neuropsichiatria infantile. Il progetto CareToy, invece, si concluderà il prossimo anno».
Giovanni Cioni Neuropsichiatra : È PROFESSORE DI NEUROPSICHIATRIA INFANTILE ALL’UNIVERSITÀ DI PISA E DIRETTORE SCIENTIFICO DELLA FONDAZIONE STELLA MARIS IL SITO : WWW.INPE.UNIPI.IT/
Frutto della collaborazione tra la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e l’Istituto Scientifico Fondazione Stella Maris di Calambrone, MechToy è stato realizzato con un finanziamento di 400 mila euro della Regione Toscana e consente di valutare le funzioni motorie, visive e sensoriali nei lattanti, individuando così eventuali disturbi neurologici. «Solo a una diagnosi precoce può seguire un tempestivo trattamento terapeutico, migliorando così la qualità della vita dei bambini - spiega Giovanni Cioni, direttore scientifico della Fondazione Stella Maris e docente di neuropsichiatria infantile all’Università di Pisa -. Difetti genetici, asfissie da parto o parti prematuri possono causare ritardi nelle funzioni percettive, cognitive e motorie, ma il destino dei bambini non è segnato, perché interventi riabilitativi mirati possono cambiarne il futuro». Come può MechToy aiutare il medico nella diagnosi? «MechToy è il frutto della tecnologia messa a punto dal team di Paolo Dario, direttore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Sant’Anna, applicata alla diagnostica. Aiuta il medico a capire e individuare in modo oggettivo quali sono, fin dai primi mesi di vita, i disturbi neurologici del bambino. In pratica, attraverso un sistema di sensori, la piattaforma riesce a misurare la risposta del bambino agli stimoli: per esempio come afferra gli oggetti, come modula la forza, come dirige l’attenzione visiva. Consente così di valutare quali funzioni sono state compromesse dal danno cerebrale per pianificare in modo più mirato l’intervento riabilitativo. Ovviamente non può sostituire il neuropsichiatra, ma ne agevola il lavoro, perché rende più precise e complete le diagnosi. E ormai sappiamo che, intervenendo al momento giusto con le cure più appropriate, è possibile evitare che ritardi nello sviluppo nella primissima infanzia si trasformino in grandi disabilità da adulti». Chi sono i bambini più a ri­ schio di sviluppare danni neu­ rologici? «Sono a rischio di sviluppare ritardi nello sviluppo i nati prematuri: in Italia i parti pretermine sono circa il 5%. Inoltre, secondo un’indagine dell’Istat, quasi il 10% dei bambini e degli adolescenti ha qualche disturbo neuropsichico, più o meno lieve: ritardi nello sviluppo dell’attenzione visiva, difficoltà cognitive, linguistiche, motorie, oltre che di apprendimento e del comportamento, e circa il 2% ha patologie gravi. Parliamo dunque di un fenomeno enorme, se consideriamo che ogni giorno un bambino su 10 fa i conti con difficoltà a parlare, vedere, sentire, ragionare o camminare». Possiamo però affermare che la ricerca neuroscientifica ha fatto passi da gigante e ha messo a disposi­ zione nuo­ vi approcci per gestire e a volte ri­ solvere queste di­ sabilità? «Assolutamente. L’assistenza neonatale ha fatto progressi straordinari per ridurre i danni da parto e così le neuroscienze cliniche per prevenire e ridurre la disabilità nei casi in cui i danni siano comunque avvenuti, grazie a diagnosi e interventi terapeutici sempre più precoci». A proposito di terapia, di soli­ to in cosa consiste un pro­ gramma riabilitativo? «Terapisti e genitori, insieme, cercano con interventi ed esercizi mirati di sviluppare le funzioni compromesse. MechToy è uno strumento utile perché, perfezionando la diagnosi, permette di impostare il programma terapeutico più adeguato. Ma obiettivo del nostro team è anche rendere la riabilitazione sempre più efficace, quindi più precoce, intensiva e personalizzata. Perché è noto quanto la terapia sia importante per cambiare in modo significativo la prognosi di bambini a rischio per disabilità neuropsichiche. Il cervello dei bambini, infatti, è molto sensibile alle stimolazioni ambientali e un’adeguata terapia può riuscire a sfruttare la plasticità del sistema nervoso tipica dei primi anni di vita. Ecco che allora stiamo lavorando a un progetto internazionale finanziato dall’Ue, finalizzato a sviluppare giocattoli intelligenti per la riabilitazione intensiva dei bambini a rischio di disabilità. Si tratta di CareToy: è una palestrina intelligente con giochi sensorizzati per promuovere lo sviluppo dei bambini, specie se nati prematuri ed è il frutto del “matrimonio” tra neuroscienze e alta tecnologia».

Corriere 19.6.13
«Trapianto di cervello tra due anni»


Impossibile, fantascientifico e anche vietato dalla legge: medici, filosofi e istituzioni giudicano così la prospettiva di un trapianto di testa, annunciato da Sergio Canavero, neurochirurgo di Torino secondo il quale entro due anni sarebbe possibile realizzare l'intervento. Si tratta di un progetto pubblicato sulla rivista Surgical Neurology International e battezzato Heaven-Gemini, nome che indica la possibilità di fondere due diversi tratti di midollo spinale, quello di un corpo donato, col moncone nel collo del soggetto ricevente. Viene in mente la fanta-medicina del Frankenstein letterario e filmico. Al di là dei limiti etici, comunque, in Italia è vietato per legge trapiantare cervello e organi genitali.