giovedì 20 giugno 2013

l’Unità 20.6.13
Dire no agli F35 è un modo di difendere lavoro e famiglie
di  Felice Casson e Giulio Marcon


NELLE SETTIMANE SCORSE 158 DEPUTATI DI M5S, SEL E PD 18 SENATORI DEL PD E ALTRI SENATORI DI SEL HANNO PRESENTATO DELLE MOZIONI PER CHIEDERE di fermare la partecipazione italiana al programma di acquisizione e costruzione dei cacciabombardieri F35.
La vicenda è nota. Ridotti dal precedente governo da 131 a 90, i cacciabombardieri F35 rappresentano una spesa esorbitante (quattordici miliardi di euro) e una scelta discutibile per le caratteristiche dell’aereo: adatto per funzioni di attacco in teatri di guerra e abile a trasportare testate nucleari l’F35 sembra assai poco coerente con una politica estera e della difesa che dovrebbe perseguire obiettivi di
pace, cooperazione e prevenzione dei conflitti.
Già alcuni Paesi (Canada, Norvegia, Olanda) si sono ritirati dal programma e il Gao (Governmental Accountability Office), una sorta di Corte dei Conti americana, ha sollevato pesanti rilievi sull’anomalia della lievitazione dei costi di questo sistema d’arma. Inoltre diversi organi di informazione (dal Guardian al New York Times) nonché alcuni istituti di ricerca hanno evidenziato tutti i problemi tecnici ed operativi del velivolo. Nel corso degli ultimi mesi dubbi e perplessità sono state sollevati anche in am-
bito militare.
Gli effetti occupazionali del programma, sono per l’Italia, assai modesti e con le stesse risorse (investendole in opere pubbliche e in politiche per l’occupazione) si potrebbero creare moltissimi posti di lavoro in più.
In questi anni le associazioni e le campagne (tra cui la Tavola della pace, la campagna Sbilanciamoci e la rete Disarmo) hanno promosso mobilitazioni importanti raccogliendo anche ottantamila firme per chiedere lo stop agli F35 e la stessa Cgil ha chiesto al governo di rivedere questa scelta e di destinare le risorse risparmiate al lavoro e alle misure contro la crisi.
Inoltre in questi giorni un appello di importanti personalità (da don Luigi Ciotti a Roberto Saviano, da Gad Lerner a Umberto Veronesi) ha chiesto ai parlamentari di votare le mozioni che chiedono di fermare la partecipazione italiana al programma degli F35.
Si tratta di raccogliere queste spinte e queste richieste.
I più importanti leader di centro-sinistra (Bersani, Renzi e Vendola) e di centro-destra (Berlusconi) durante l’ultima campagna elettorale hanno usato parole chiare per auspicare un cambiamento delle scelte relative alla spesa per gli F35, mettendo al centro altre priorità: il lavoro, il rilancio dell’economia, l’aiuto delle famiglie.
Si tratta di dare seguito a quegli intendimenti, ribadendo oggi che quei 14 miliardi previsti nei prossimi anni per gli F35 possono essere investiti in ben altro modo: dando corpo ad un «piano di lavoro» sul quale in questi mesi la Cgil ha avanzato proposte concrete e specifiche; promuovendo un programma di «piccole opere», dalla messa in sicurezza delle scuole al riassetto idrogeologico; investendo nell’istruzione, nel welfare, nel sostegno alle imprese.
Il voto favorevole alle mozioni presentate alla Camera e al Senato di cui siamo i primi firmatari è un modo per fare una scelta responsabile, dalla parte del lavoro, delle famiglie, delle imprese. Gli F35 non sono uno «strumento di pace», ma un pericoloso sistema d’arma per fare la guerra.
E i soldi che spendiamo per questo cacciabombardiere sono un lusso che non ci possiamo permettere. Mentre ci dobbiamo permettere che quelle risorse oltre che per un modello di difesa sufficiente e rispettoso della Costituzione e della Carta delle Nazioni Unite servano a far uscire il Paese dalla crisi, a dare ossigeno al nostro sistema economico, combattere la disoccupazione e a costruire un’economia di pace di cui il nostro Paese ha urgentemente bisogno.

il Fatto 20.6.13
La Corte dei conti: l’evasione Iva e Irap vale 50 miliardi
La sottrazione di base imponibile è stata pari a circa 250 miliardi in valori assoluti (il 27 per cento dell’imponibile potenziale)


LA PRESSIONE fiscale effettiva “si è impennata fino al 53 per cento, dieci punti oltre quella apparente”. A denunciarlo il Presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino in una audizione in Parlamento. Alla base del problema, spiega Giampaolino, c'è l'evasione fiscale che “continua a essere un problema molto grave, tra le cause delle difficoltà del sistema produttivo dell'elevato costo del lavoro, dello squilibrio dei conti pubblici”. I dati parlano chiaro: “L'evasione Iva e Irap (relativi al 2011) – spiega – costano all’erario 50 miliardi, di cui 46 sottratti attraverso la mancata dichiarazione del-l’imposta sul valore aggiunto”. Anche se l'evasione ha mostrato un ridimensionamento resta “significativamente elevata”.
Spiega Giampaolino: “La sottrazione di base imponibile è stata pari a circa 250 miliardi in valori assoluti (il 27 per cento dell’imponibile potenziale), quattro punti in meno rispetto al 2000”.

l’Unità 20.6.13
Femminicidio
La convenzione di Istanbul è legge


La Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere è legge dello Stato Italiano. Il Senato ieri ha dato il via libera con un voto all’unanimità, dopo quello della Camera. Ad oggi la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, scritta a Istanbul l'11 maggio 2011, è stata ratificata da soli 5 Paesi: Albania, Montenegro, Portogallo, Italia e Turchia. Da altri 23 Paesi europei, per ora, è stata solo firmata, e perché entri in vigore serve la ratifica di almeno altri quattro Stati.
La viceministro per gli affari esteri Marta Dassù ha ribadito l'impegno del Governo italiano a esercitare pressioni affinché la Convenzione di Istanbul sia ratificata da parte degli Stati membri dell'Unione europea. Prima della votazione finale, la vicepresidente di
turno Linda Lanzillotta ha invitato l'assemblea ad osservare un minuto di silenzio, in ricordo di tutte le donne vittime di violenza. «Dedichiamo questo voto a tutte le donne vittime di violenza, a tutte le donne, le ragazze e le bambine che nella vita e nella morte hanno subito violenza fisica o psicologica». Grande soddisfazione anche da parte del ministro degli Esteri Emma Bonino. «È motivo di grande soddisfazione che la prima ratifica approvata dalle Camere nella nuova legislatura sia quella della Convenzione di Istanbul. Dobbiamo essere i primi ad attuare a casa nostra le “tre P” di Istanbul: prevenire la violenza, proteggere le vittime, punire i colpevoli». Polemico il leghista Calderoli con il ministro Idem che, a suo dire, non avrebbe votato. Invece il voto è stato registrato al di là delle possibili difficoltà tecniche.

il Fatto 20.6.13
M5S, il voto online fa fuori la Gambaro
"Ma 56% elettori è contro l'espulsione"

Il 65% degli iscritti estromette la senatrice che ha criticato Grillo. Partecipano 20mila su 48mila
Ma un sondaggio Ipr/Tg3: "La maggioranza di chi ha votato il movimento non condivide scelta"
Sul blog di Grillo i risultati della votazione sull'espulsione della senatrice Adele Gambaro sotto accusa per le critiche al leader. Gli aventi diritto, cioè gli iscritti al 31 dicembre 2012, erano 48.292: di questi hanno votato in 19.790. Il 65,8% (13.029 voti) ha votato per l'espulsione, il 34,2% ha votato no. Ma secondo un sondaggio Ipr/Tg3 gli elettori del Movimento non condividono la linea: consensi scesi dal 25 al17%, maggioranza contraria all'espulsione.

l’Unità 20.6.13
Gambaro espulsa ma cresce il dissenso: il 35% contro Grillo
Processo online: sì alla cacciata della senatrice dissidente
Ma sono quasi 7 mila i fedelissimi che si oppongono al leader
I Cinquestelle cercano di archiviare le faide interne buttandosi sull’ostruzionismo in aula
di Andrea Carugati


ROMA La Rete non sorride più a Beppe Grillo. Ieri il Capo dei 5 stelle ha messo al voto sul suo blog l’espulsione della senatrice bolognese Adele Gambaro, e l’ha ottenuta col 65%. Ma i numeri parlano di un consenso in caduta libera, e di un dissenso che arriva al 34% tra gli iscritti al portale, il nocciolo duro dei miltanti.
A fine aprile l’espulsione del senatore Marino Mastrangeli era stata plebiscitaria, vicina al 90%. Stavolta i sì hanno subito un netto calo, anche se si trattava di un esplicito referendum tra il Capo e la dissidente. Su 48mila aventi diritto, hanno partecipato solo in 19.790. Di questi, 13.029 hanno scelto l’espulsione, mentre 6.761 hanno votato per il no. Un numero enorme. Se si pensa che tra i parlamentari, considerati meno talebani dei militanti, avevano detto no 42 su 160 (circa il 26%), la percentuale dei no tra i militanti in Rete è decisamente superiore . Un dato che deve aver sorpreso lo stesso Grillo. Che ieri ha innestato una clamorosa retromarcia. Ha chiamato al telefono il primo dei dissidenti Tommaso Currò, quello che ieri mattina aveva definito «fascista» il metodo delle espulsioni di massa. E ha chiamato persino Paola Pinna, la deputata finita nel tritacarne subito dopo la Gambaro, su cui pendeva una richiesta di espulsione da parte di alcuni colleghi sempre per alcune interviste sgradite (in cui parlava di un «clima da psicopolizia»). Una richiesta che ora sembra derubricata. La settimana prossima, a quanto si apprende, la richiesta di espulsione di Pinna non sarà affrontata dall’assemblea dei parlamentari.
Alessio Villarosa, il vicecapogruppo, la spiega così: «Ho parlato con Colletti (quello che aveva chiesto l’espulsione, ndr), si è optato per ritirare la proposta. Una espulsione a settimana non giova senz’altro al Movimento». Davanti al flop del sit -in pro Beppe martedì davanti a Montecitorio, davanti ai numeri del dissenso tra gli eletti e in Rete, il Capo ha dato il contrordine. Salvata la faccia con la cacciata della Gambaro, ha deciso di cambiare registro, almeno per il momento. E dunque eccolo nella parte del padre comprensivo che telefona ai figli ribelli Pinna e Currò. Nessuno dei due ha fatto retromarcia o chiesto scusa. Nel corso della telefonata Currò ha stigmatizzato le espulsioni e ha rivolto un appello ad ascoltare le voci critiche e a tenere unito il gruppo. «Basta con gli estremismi», è stato l’appello del deputato siciliano. «Non esiste un unico detentore della verità».
«Aiutaci a stare uniti, evitiamo un clima da caccia alle streghe. Vogliamo lavorare per il Paese con tranquillità e serenità», ha detto dal canto suo Pinna al Caro leader. Difficile pensare che Grillo abbia condiviso, ma il fatto che abbia parlato con i due ribelli, nel giorno in cui aveva ripubblicato sul suo blog l’intervista Sky della Gambaro come grave capo d’accusa, la dice lunga sullo stato d’animo dell’ex comico.
L’altra faccia della medaglia di questa retromarcia è l’atteggiamento dei dissidenti. La parola scissione è stata derubricata, le reazioni alla cacciata di Gambaro ci sono state ma su toni relativamente più soft. «Scelta assurda e dannosa», dice Roberto Cotti. Francesco Campanella, uno dei dissidenti che l’altro giorno aveva fisicamente scortato la Gambaro nel percorso tra Senato e Camera prima del “processo”, allarga le braccia: «Certo che mi spiace per Adele, una persona in gamba. Ma queste sono le nostre regole. E non vedo scissioni». Così anche Serenella Fucksia: «Un errore grave ma non me ne vado». Il capogruppo al Senato Nicola Morra, uno dei pretoriani, sembra improvvisamente un vecchio Dc: «Ora occorre lavorare perchè le ragioni dell'unità riemergano con chiarezza. Non credo che ci sia un rischio scissione. In ogni caso la porta del mio studio è sempre aperta». Tacciono Crimi e Lombardi, che erano stati caricati a mille per la campagna finalizzata a liberarsi della «zavorra» dei ribelli.
La truppa ieri si è concentrata sull’ostruzionismo alla Camera contro il decreto emergenze, con toni durissimi e un appello a Napolitano perché «impedisca questo svuotamento del Parlamento da ogni funzione». Battaglia anche contro la possibile «svendita della Rai». Insomma, i grillini cercano di tornare ai temi concreti. E in Aula si trovano uniti contro un nemico comune. Non solo il governo e la Casta, ma anche il deputato Udc Angelo Cera che, secondo i 5 stelle, li ha bollati come «coglioni»e addirittura minacciati fisicamente al grido di «ti do un pugno che t’ammazzo». Cera si difende: «Volevo solo difendere Cesa», ma conferma le frasi. Scelta civica, il gruppo di cui fa parte, prende le distanze: «Parole censurabili».

l’Unità 20.6.13
Carlo Freccero
«Il leader del Movimento 5 Stelle è legato alle logiche del marketing televisivo
Sul web fa sondaggi e processi»
«Grillo, padre padrone nato in tv. E populista come Berlusconi»
intervista di Natalia Lombardo


«Davvero sono deluso, Grillo sembra Berlusconi, con Fini che agita il dito e gli dice: “Che fai mi cacci?”. Altro che rivoluzione della Rete, lui usa internet con la mentalità della televisione commerciale». È davvero deluso, Carlo Freccero, direttore di Rai4 e grande esperto di comunicazione e di linguaggi televisivi, dalle mosse del leader del Movimento Cinque Stelle.
Cosa ne pensa di questi processi che Grillo affida alla Rete, che ricordano la scelta feroce tra Cristo e Barabba?
«Grillo Usa la Rete per una specie di sondaggio di marketing che è tipico della tv commerciale anni 80. Ma voglio fare una premessa».
Quale?
«Giorni fa alla presentazione della sua ricerca, Giuseppe De Rita ha detto una cosa molto grave, ovvero che la riduzione del digital divide, la maggiore frequentazione di Internet, non porta necessariamente con sé una maggiore consapevolezza politica e alla partecipazione democratica, al contrario porta alla crescita dell’astensionismo. Ecco, secondo me Grillo usa la Rete in senso maggioritario».
Cosa vuole dire?
«Che le logiche usate da Grillo sono ancora televisive».
Quindi maggioritario come generalista? «Sì è fermo alla tv generalista quando non era assediata da Internet. Il fenomeno Grillo rappresenta oggi l’uso politico del net, ma manca totalmente lo spazio per le differenze, le decisioni si prendono per sondaggio. Le differenze non sono vissute come un arricchimento, anzi, il semplice dissenso dei voleri della maggioranza è motivo sufficiente per l’espulsione. Gli aderenti al movimento, o i simpatizzanti, devono fare proprie le convinzioni di Grillo e di Casaleggio senza contributi personalii».
Infatti anche i parlamentari 5 Stelle sembra che non possano avere posizioni autonome, per altro riconosciute dalla Costituzione.
«Esattamente. Casaleggio si è espresso per limitare l’intervento del movimento 5 Stelle alla soluzioni di problemi locali, evitando teorie di macro economia. E Grillo mette insieme problemi reali o anche micro problemi, come quello della diaria parlamentare, con fantasiose teorie paramediche. Eppure senza un sistema di potere piramidale dovrebbe scatu-rire un confronto collettivo. Invece no. Perché Grillo è abituato a misurarsi con logiche televisive, come l’Auditel, è nato in tv».
Insomma, l’ha deluso?
«È chiaro. Il suo protagonismo di attore fa di lui un leader populista un po’ alla Berlusconi. Il padre padrone di un movimento anziché di un partito. E anche la sua assenza dalla televisione è pretestuosa, nelle misura in cui la tv non fa che parlare di lui».
Crede che sbaglino i giornalisti e la televisione a inseguire ogni mossa di Grillo? «Questo succede perché la tv, dopo l’editto bulgaro di Berlusconi, ha il complesso d’inferiorità verso la libertà sfrenata di Internet. La censura ormai non si può fare, è una cosa antiquata e ridicola e se ci fosse stata Internet forte come oggi, l’editto bulgaro non ci sarebbe stato. Quindi l’assenza di Grillo dal piccolo schermo sembra un espediente per far parlare di sé. Un po’ come diceva Nanni Moretti, “mi si nota di più se non vengo o se vengo e mi metto da una parte?” l’assenza diventa oggetto di attenzione, così la tv lo insegue».
Lei aveva creduto nella potenzialità di cambiamento anche per la concezione della politica in Italia, grazie alla Rete. Un’occasione persa?
«Una sconfitta totale. Ora siamo al “mi piace non mi piace”, ma non basta. Dove sono finte le belle idee nate con Pierre Levy sul concetto d’intelligenza collettiva attraverso Internet? Come mai non si sono avverate con Grillo? Quell’intelligenza collettiva come costruzione comune per il superamento di problemi, forse ha una sua funzione sul sapere scientifico, nella politica siamo fermi al sondaggio, ormai Internet funziona come un talk show».
O a volte diventa uno sfogatoio?
«Già, come sfogatoio. Ma per me l’archeologia di tutto ciò è Funari, la sua trasmissione “A bocca aperta” che dava la parola a gente comune. Si parla tanto di uso interattivo, di questa rivoluzione copernicana per cui lo spettatore da passivo si fa attivo, ma questo nasce ancora prima di Internet con la tv commerciale, perché la rilevazione dell’audience è la vera matrice della programmazione, ed è così dagli anni 80. Lo spettatore si è voluto fare attore, da Funari fino al reality, in cui il narcisismo dell’uomo qualunque si fa attore e ha soddisfazione. Ecco, non siamo usciti da questo schema maggioritario. E Grillo sembra Berlusconi con Fini che gli dice “che fai mi cacci?”».

il Fatto 20.6.13
La telefonata di Grillo allunga la vita ai dissidenti
di Paola Zanca


IN RETE, L’ESPULSIONE DELLA GAMBARO PASSA CON IL 65% DI VOTI IL LEADER CHIAMA I RIBELLI CURRÒ E PINNA. PRESTO VERRÀ A ROMA

Lo squillo arriva quando mancano pochi minuti alle 17. Il verdetto su Adele Gambaro è lì, pronto ad essere comunicato: fuori, colpevole di oltraggio al capo del Movimento. Su ordine di 79 parlamentari, 13.029 iscritti al blog hanno votato la sua espulsione. È il 65,8 per cento. Ha votato meno della metà degli aventi diritto, 19 mila su 48, e in 6.761 hanno detto che no, la Gambaro non se ne doveva andare. Non è stato un plebiscito, non si è sfiorato il 90 per cento come accadde con Marino Mastrangeli. E forse è anche per questo che Beppe Grillo, ieri, ha preso in mano il telefono. Ci aveva pensato già nei giorni scorsi, stanco di sentire ogni giorno critiche e distinguo. Poi, tutto era precipitato con le parole della Gambaro: non ha retto il colpo, sentire quella senatrice emiliana dire che il problema nel gruppo era lui. Invece, chi l’avrebbe mai detto, ora che la casa brucia, a fare il pompiere è tornato proprio il padre ferito.
NON PUÒ ASPETTARE la settimana prossima, quando sarà a Roma, probabilmente in occasione del “Restitution day”, il giorno in cui tutti dovrebbero versare la diaria avanzata. Fa il numero di Tommaso Currò, dissidente della prima ora, ieri di nuovo critico sulla cacciata della collega senatrice. Parlano a lungo, i due. Nel corridoio fumatori di Montecitorio, il deputato catanese si affanna a spiegare il suo disagio: “Come faccio io? Anche adesso qui è pieno di giornalisti”. Poi, poco più tardi, è la volta di Paola Pinna. Anche lei vede il cellulare illuminarsi con il nome del fondatore. Anche lei, che era arrivata a parlare di un nuovo gruppo pronto a nascere alla Camera, si confronta con l’uomo che ha chiesto il processo per Adele Gambaro e che sembrava pronto a fare lo stesso con lei.
Fuori una, fermiamo gli altri. Fino all’altro ieri, sembrava che i “big” dei Cinque Stelle non vedessero l’ora di “sfoltire” il gruppo. Via le mele marce, meglio pochi ma buoni, dicevano, pensando addirittura ad una espulsione collettiva per tutti quelli che hanno osato criticare pubblicamente il gruppo. Eppure, dev’essere scattato qualcosa, nella testa del Movimento. Un senatore ha la sua teoria: “È come con la ghigliottina. Devono essersi ricordati che alla fine c’è finito sotto anche Robespierre”. Fatto sta che sulla guerriglia interna è scesa una pace surreale. I risultati del voto sull'espulsione della Gambaro, a sera, sono già scivolati via dall'homepage. Sul blog di Beppe Grillo, i numeri della cacciata ratificata dalla Rete sono un capitolo chiuso, acqua passata, da non tenere in evidenza. La parola d'ordine è far “decantare”. Per esempio il processo a Paola Pinna. Era praticamente già in calendario per lunedì, ma ieri Andrea Colletti, promotore della richiesta di espulsione della deputata sarda, ha dato retta al pressing dei colleghi. Spiega Alessio Villarosa: “Mi ha detto che la ritira. È stato un gesto fatto d'istinto, quell'intervista avrebbe fatto arrabbiare chiunque. Però è il momento di parlare d'altro. Basta con queste storie, finisce che ci oscuriamo da soli”. Proprio così. A furia di discutere, dissidenti e talebani, hanno scritto l’agenda di giornali e tv. Solo il caso Gambaro, raccontano, ha oscurato il resoconto dei primi tre mesi da capogruppo di Vito Cri-mi, ha cancellato il dibattito sulla scuola pubblica, azzerato le cronache sulla proposta di abolizione dell'Imu, raso al suolo l'ostruzionismo sul decreto emergenze. Così, si volta pagina. Fine dei processi, giurano. Ma sarà dura calmare le acque. Ieri, tra le tante voci amareggiate per l’addio alla Gambaro, la senatrice Serenella Fucksia è stata quella più irruenta: “Proprio Grillo che è stato cacciato dalla Rai per le cose che diceva, come fa a non avere una corrispondenza di amorosi sensi con chi dissente? ”. Poi, si guarda intorno, tra le facce attonite dei cronisti e dei colleghi. “Che dite, la prossima sono io? ”.

il Fatto 20.6.13
La deputata Marta Grande
“Uno vale niente? Beppe, come ti permetti?”
di Pa. Za.


Spero che la Rete alla fine ragioni, che si faccia un’idea di quello che davvero è successo. Spero che non valgano soltanto i post che ha scritto Grillo”. Cortile di Montecitorio, ore 15. Il voto su Adele Gambaro è ancora in corso quando Marta Grande, la più giovane deputata dei Cinque Stelle, è lì ad augurarsi che alla fine il web perdoni la sua collega senatrice. Nonostante le accuse firmate dal leader sul blog. Lei e la Gambaro si conoscono bene, perchè entrambe sono in commissione Esteri, una alla Camera, l’altra a palazzo Madama. Spesso, nelle riunioni tra parlamentari, hanno discusso del lavoro in comune: “Una persona pacata, preparata, molto elegante”, se la ricorda così, la Grande. Per questo crede che aver deciso di mandarla via sia un errore grave e pericoloso.
Lei ha votato contro la richiesta di espulsione. La Gambaro non vi ha danneggiato?
Capisco le ragioni di chi crede che quelle parole possano aver creato un danno al Movimento. Ma secondo me il gioco non vale la candela. Che ha detto di così grave?
Ha detto che la colpa del fallimento alle amministrative è di Grillo.
E infatti lui ha reagito in una maniera comprensibile. Ha chiesto dal blog: davvero il problema sono io? Posso capirlo: il suo era un normale tono riflessivo, interlocutorio... poteva finire lì.
Invece poi che è successo?
Poi ha scritto quella cosa: “Uno non vale niente”. Ma come si permette? È una che sta lavorando! È qui, tutti i giorni, come noi... come fa a dire che non vale niente?
Meno della metà dei parlamentari però ha deciso che se ne deve andare.
Ho sentito qualcuno parlare di quorum zero. Ma quello vale quando c’è un referendum fatto apposta d’estate perché nessuno vada a votare, non quando c’è in ballo la vita di una persona.
Ora rischia anche Paola Pinna. Se si dovesse votare, sarebbe di nuovo contro?
Non ho visto l’intervista, non posso giudicare, prima di parlare dovrei capire cosa ha detto. Comunque questo metodo non mi piace. Spero che la Rete non cacci nemmeno Adele. La situazione non è tragica come la raccontate.
Si parla di dissidenti e di talebani.
Mi sembra una assurdità. Anche quelli che voi chiamate dissidenti, in realtà criticano alcune modalità di azione, ma sui contenuti siamo tutti dalla stessa parte. Ci si divide sullo 0,1 per cento delle questioni. Sul resto siamo tutti d’accordo.

Repubblica 20.6.13
L’ultimo giorno da grillina “È nazismo informatico”
La senatrice: non sottovalutate questa gente
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Adele Gambaro si è svegliata di colpo, bruscamente: «Questo è una specie di nazismo informatico». In privato la senatrice ha scelto parole pesanti come pietre. Perché in un attimo l’incantesimo grillino si è spezzato. La Rete, la democrazia diretta dei cinquestelle, l’immagine tranquillizzante dei parlamentari-portavoce che docili si lasciano guidare dai consigli degli attivisti del movimento. Tutto evaporato. L’hanno processata, insultata, buttata fuori. Lei ha osservato l’escalation sentendosi già lontana. E nel momento più cupo dell’epurazione si è lasciata andare: «Questa è una gabbia di matti».
In pubblico, però, Gambaro ha scelto un profilo diverso. Quasi sempre silente. Si era già spinta troppo in avanti, sfidando il leader assoluto. Ha ascoltato chi l’ha difesa fino alla fine e chi le ha chiesto di togliere il disturbo per un’intervista. Ha dimostrato doti di grande incassatrice. Mai scomposta, mai sopra le righe: «Lo devo - ha confidato - a quelli che mi sono stati vicini. Ai colleghi che mi hanno accompagnato ».
L’ormai ex parlamentare grillina si è confrontata a lungo con chi ha condiviso con lei i giorni più difficili. «Ho sofferto, ho sofferto tantissimo». Ora che tutto è finito, però, non riesce a scacciare lontano i timori per l’andamento del dibattito interno al pianeta grillino, né l’angoscia per il futuro: «Nessuno deve sottovalutare questa situazione, che è davvero preoccupante sotto il profilo democratico».
L’ultimo giorno a cinquestelle, Gambaro ha deciso di viverlo almeno un po’ al Senato. Accanto ai suoi ex compagni di strada. Anche a quelli che le hanno voltato le spalle. L’esito dello spoglio virtuale l’ha atteso però lontano da tutti, mentre in Aula proseguiva il dibattito. In fondo, la Corte del web doveva ancora pronunciarsi, ma la senatrice già sapeva come sarebbe andata a finire: «L’esito è scontato - ha detto ad alcuni senatori - Come volete che vada a finire?».
È finita con la senatrice Adele Gambaro da Bologna fuori dal gruppo grillino del Senato. La prossima destinazione è già fissata, l’accoglierà il gruppo Misto. E come spesso accade quando una storia finisce male, i titoli di coda hanno il vantaggio di sembrare quantomeno liberatori: «Finalmente è finita... Non vedevo l’ora che questa pantomima terminasse».
I rapporti umani con molti dei senatori restano ottimi. La maggioranza dei colleghi di Palazzo Madama si è esposta per lei, rischiando nuove scomuniche. Ieri la senatrice ha ringraziato parecchi di loro. Ma il giudizio sul movimento e sulle dinamiche che l’hanno stritolata, quello è cambiato radicalmente: «Io sono una persona per bene, ma alcuni di questi sono personaggi assurdi. Attenzione - ha avvertito in privato - non dovete sottovalutarli». Il processo l’ha lasciata a tratti senza fiato. E un po’ l’ha fiaccata: «Mi è molto pesato, umanamente, essere finita in prima pagina per un’intera settimana. Io sono schiva, riservata. È stato un vero tritacarne. Mi ha fatto soffrire».
Al Senato i colleghi degli altri partiti l’hanno osservata a lungo con curiosità. Hanno imparato il suo cognome dall’accento che inganna. E di fronte al processo del web, iniziato ben prima della votazione finale, hanno iniziato a rispettarla. Se non altro per la determinazione con la quale ha affrontato il giudizio. Proprio ieri un senatore, lontano anni luce dall’orbita grillina, si è avvicinato a Gambaro. Davanti agli altri colleghi del movimento le ha stretto la mano. E senza abbassare il tono della voce l’ha salutata: «Senatrice, complimenti. Lei è stata coraggiosa». Ha ringraziato, nulla di più. Mai una parola fuori posto, in pubblico.
Parlerà, l’ex grillina. Non ora, ma tornerà a farsi sentire. Forse con un video, sicuramente incontrando la stampa. Intanto ragiona sui numeri, sui tredicimila che l’hanno bocciata e i seimila che hanno tentato di salvarla: «Voglio comunque analizzare cosa significano questi dati. Voglio capire». Con la stessa calma con la quale, dopo aver osato contestare Beppe Grillo in persona, domandava: «Ma cosa ho detto di male?».

Repubblica 20.6.13
La senatrice Serenella Fucksia contesta le modalità della consultazione:
“Dalle 11 alle 17 la gente lavora”
“Non è un giudizio rappresentativo a quell’ora votano i fanatici del web”


«Il Parlamento non è solo critica, noi vogliamo e dobbiamo anche costruire».
Resta il caso Gambaro.
«È stato un errore. Un grave errore. Una vicenda iniziata male e finita peggio. Ma...».
Ma?
«Ma il movimento è vivo e dagli errori ci possiamo rinforzare. Per ripartire».
Non ce l’ho con Grillo, ma questo è un errore Adele non aveva detto niente di rilevante Se vogliono, mi caccino
ROMA — È una furia. Incontenibile, a tratti. Non si ferma un attimo mentre percorre il Transatlantico del Senato. Appassionata, la senatrice grillina Serenella Fucksia contesta la scelta di aver indetto la votazione per l’espulsione di Adele Gambaro senza un ragionevole preavviso: «Il voto non è rappresentativo. Ma dico, ma si può far votare dalle 11 alle 17? Io avevo da lavorare, non ho potuto neanche votare. Non è una cosa normale». Lei era contraria alla cacciata. L’ha detto in assemblea, l’ha ribadito davanti ai cronisti. Non pensa che sia un errore e non teme sanzioni: «Io dico sempre quello che penso. L’ho sempre fatto. Mio padre mi diceva di stare un po’ più attenta, ma ho semprefatto così». Lo dice sorridendo, la rabbia va via in fretta.
Senatrice, si calmi. Ripartiamo dall’inizio. Dalla scelta di intraprendere la strada dell’espulsione di Adele Gambaro.
«Io avrei evitato. Ero contraria. Abbiamo creato un caso dal nulla».
Le rimproverano di aver mosso critiche troppo forti.
«Io ero contraria all’espulsione. L’ho detto. Adele non ha detto nulla di rilevante».
Oggi però la Rete ha deciso che Gambaro deve lasciare il Movimento cinque stelle.
«Il voto non è rappresentativo. Ma dico, ma si può far votare dalle 11 alle 17? Io avevo da lavorare, non ho potuto neanche votare».
In tutto si sono espressi in
diciannovemila. Tredicimila hanno votato per l’espulsione.
«A quell’ora possono votare solo i cosiddetti fanatici della Rete».
Ne vuole parlare con Grillo?
«Sì».
Ma lei ce l’ha con Grillo?
«Ma ci mancherebbe. Io non ho nulla contro Grillo. Non gli rimprovero nulla. I post li ha sempre fatti. Le parolacce le ha sempre dette. Pure io le dico e va bene così. Io non ho nulla contro Grillo, non ho mai detto nulla contro di lui».
E allora?
«Lui è il nostro megafono. Ma non è più solo il nostro megafono, è anche qualcosa di più».
Non è che lascia il movimento?
«Ma scherziamo? Io penso
che il movimento sia l’unica strada».
Non teme che possano cacciarla?
«Io dico quello che penso. Lealmente. Poi se qualcuno vuole, mi può espellere...».
Senatrice, però forse in Parlamento non riuscite a incidere come vorreste.

La Stampa 20.6.13
Roberto Speranza, presidente dei deputati Pd
“Il governo andrà avanti. Non faremo un altro esecutivo con i 5 stelle”
di Carlo Bertini


Onorevole Speranza, il governo ha i giorni contati?
«Intanto è scorretto parlare di sentenza persecutoria come fa il Pdl. E comunque non ritengo che ora il governo sia più debole: è nato per rispondere ai grandi problemi del paese ed è solo su questo che si potrà misurare la sua forza e la sua durata. Non possono essere le vicende giudiziarie di uno, se pure non uno qualsiasi, più importanti dell’interesse generale del Paese. La forza dell’esecutivo sta nelle ragioni di fondo della sua nascita e cioè la necessità, in una fase di crisi drammatica, di dare risposte concrete prima di tutto sul terreno economico e sociale.
Anche se la Cassazione confermerà la condanna con interdizione dei pubblici uffici del Cavaliere, ritiene che Letta resterà in sella?
«Non credo possa essere questo a determinare la caduta di un governo di emergenza. Sono due terreni diversi, una cosa sono le vicende giudiziarie, altra cosa le ragioni politiche per il sostegno ad un esecutivo di questo tipo. Sbaglia il Pdl a dare una lettura politica di questa sentenza, non è immaginabile che la Corte faccia una scelta con criteri diversi da quelli di merito. È un grave errore pensarlo, le sentenze vanno rispettate e basta. Non vedo dunque nessuna persecuzione e nessun accanimento. E per quanto riguarda il pronunciamento della Cassazione non tifiamo in alcun senso, ma rispetteremo rigorosamente l’esito. Resta il fatto che Berlusconi va battuto sul terreno politico».
Dunque voterete contro i ricorsi sull’ineleggibilità di Berlusconi?
«Le norme vanno rispettate e non si possono immaginare scorciatoie. Se fin qui è stato giudicato eleggibile, non vedo cosa possa essere cambiato rispetto alla norma esistente».
Potrebbe nascere un altro esecutivo con i 5 Stelle? O è solo una minaccia spuntata?
«I grillini hanno scelto nei mesi scorsi di essere irresponsabili rispetto alla sfida del governo. Oggi noi abbiamo scelto di sostenere un esecutivo nell’interesse dell’Italia e continueremo a impegnarci in questa direzione».
Se Renzi diventasse segretario che vita avranno le larghe intese?
«Sono sicuro che chiunque guiderà il Pd metterà avanti l’interesse del paese prima di ogni altra cosa».

il Fatto 20.6.13
Enrico Letta come Clark Kent
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, ma chi è Enrico Letta che, da vicesegretario tuttora in carica del Pd, fa il primo ministro con il vice Alfano in Berlusconi? I voti e il mandato di uno dei suoi due incarichi sono l’opposto all’altro. In più non si capisce se obbedisca (a chi?) o comandi (a chi?). Mi può aiutare?
Pino

IN EFFETTI, tutti prendono per naturale e scontato un gruppo di fatti che non sono affatto normali. Non è normale che il numero due di un partito vada a fare il numero uno di un governo (che non è il governo del suo partito) mentre al suo numero uno viene tolta non solo la possibilità di governare, ma anche quella di restare leader del partito. E così il numero due si tiene il suo posto nel partito (in cui invece viene nominato un altro numero uno) e va a guidare un governo che è l’opposto di quello presentato agli elettori dal suo ex capo, una promessa che aveva fruttato la piccola vittoria di cui stiamo parlando. Dunque, a pensarci bene, Enrico Letta, con la sua aria da dottorando che già insegna qualche corso e partecipa, con apparente mitezza e pericolosa precisione, alle commissioni d’esame, ha fatto qualcosa di straordinario, saltando due caselle in avanti, mentre rimane fermo nel suo posto all’indietro. Come se non bastasse, appena dice una cosa, qualunque cosa, con il suo tono saggio e di buon senso, tutti lo lodano, o almeno riconoscono che “sta lavorando bene” . Non vi viene in mente Clark Kent, il mite, impiegatizio alter ego di Superman? Anche lui sembra un dottorando con i dovuti occhiali, ma all'occorrenza è una forza della natura. Tanto è vero che, con apparente gentilezza, governa un governo di caimani (che hanno già mangiato, ma niente lacrime) e di “italianieuropei” che sanno tutto, con esattezza, un po’ prima e che ricevono sempre il dovuto riconoscimento perché sono intelligenti. Più un assortimento vario di brave persone dell’una e dell’altra denominazione di cui si parla il meno possibile. Clark Kent, come ricordano coloro che hanno amato il celebre fumetto, qualche volta riceve una botta, una spinta, un po’ di sarcasmo da qualcuno che ignora la vera identità e approfitta del-l’essere (di sembrare) molto più forte. Ma noi, che sappiamo tutto di questa storia, siamo in attesa del momento in cui il ragazzo con gli occhiali indosserà la calzamaglia blu con la iniziale gigante, e spazzerà via con un soffio i suoi avversari. A meno che ci sia kriptonite nei dintorni. Provvede, di solito, a portarla vicino a Superman qualche finto alleato con la faccia insospettabile, tipo Quagliariello. E così non ci resta che sostare in attesa dell’uno o dell’altro momento. A meno che questo Clark Kent sia soltanto il mite ragazzo con gli occhiali e la storia finisca qui.

Repubblica 20.6.13
L’amaca
di Michele Serra


Destano una certa ammirazione la serietà e la convinzione con le quali Enrico Letta interpreta il suo ruolo di premier, appeso a una decina di fili nessuno dei quali è nelle sue mani. È come erigere un muro sapendo che il primo che passa può prenderlo a mazzate. Per finta o per tigna, Letta impila i suoi mattoni “come se”. Come se il suo governo non fosse una pura e fragile alchimia di Palazzo, senza alcun rapporto con il risultato elettorale. Come se Berlusconi non avesse il potere di farlo crollare alla prima sentenza – tra mille – che gli vada di traverso. Come se il suo partito, il Pd, fosse davvero un partito e non un avventuroso collage di correnti e ambizioni personali. Come se Brunetta e Fassina (per dirne solamente due) davvero potessero far parte della stessa maggioranza parlamentare, benedicendo l'uno ogni giorno ciò che l'altro maledice, e viceversa. Come se, insomma, lui fosse effettivamente il vero presidente del vero Consiglio dei ministri, come formalmente risulta e come, nella prassi, cerca di essere con tutte le sue forze.
Questo significa avere carattere. Di solito in Italia la regola è vivere con precarietà anche le situazioni più serie. Lui vive conserietà la più precaria delle situazioni.

il Fatto 20.6.13
F35, il ministro Mauro vuole comprare altri 40 caccia
“90 aerei sono pochi: a Finmeccanica non conviene”
di Daniele Martini


Contrordine: per gli F-35 la Difesa cambia idea per la seconda volta. Ed è un ripensamento del ripensamento che ha il sapore della beffa. Ridotto dal ministro precedente da 131 a 90 esemplari, l'ordine d'acquisto per i supercacciabombardieri della Lockheed Martin ora torna d'incanto alla cifra originaria con il nuovo ministro, Mario Mauro. In visita all'annuale fiera aeronautica parigina di Le Bourget, reduce da un incontro con i manager Lockheed e nel corso di colloqui allo stand della Finmeccanica, azienda italiana che partecipa al megaprogetto per gli F-35 in qualità di partner di secondo livello, come se niente fosse il responsabile della Difesa del governo Letta ha detto che il taglio di 41 aerei annunciato dal suo predecessore, l'ammiraglio Giampaolo Di Paola, non è irrevocabile, anzi, si può tranquillamente tornare alla cifra originaria. Come si trattasse di quisquilie e di mezzo non ci fossero miliardi di euro di differenza. Novanta esemplari di F-35 costano circa 12 miliardi, mentre per 131 ci sarebbe bisogno di 4 miliardi in più.
CHE COSA sia successo di sostanziale dall'annuncio del taglio al controannuncio di oggi, non è dato sapere. Non risulta siano repentinamente cambiate le esigenze delle nostre forze armate, né che si sia appalesata un'improvvisa minaccia militare contro il nostro paese tale da imporre il rafforzamento dei programmi di armamento né che gli alleati Nato ci chiedano ulteriori sforzi strategici. E non risulta neppure che il governo abbia improvvisamente scovato altri quattrini da buttare per gli armamenti. All'origine del ribaltone del ministro Mauro ci sarebbe la convinzione che sotto una certa soglia di esemplari ordinati dall'Italia, il lavoro di supporto della Finmeccanica al progetto internazionale (la costruzione delle ali e di parte della fusoliera) non sarebbe economicamente conveniente. Quindi per fare un favore a Finmeccanica rendendo l'operazione vantaggiosa dal punto di vista dell'azienda italiana, il ministro si dice disposto non solo a sconfessare il suo precedessore che non era di certo un pacifista e probabilmente qualche conto se lo era fatto, ma a buttare nella fornace degli F-35 un altro bel po' di soldi pubblici.
Di certo rispetto al primo ripensamento ministeriale è cambiata aria. Non tanto perché sia scemata l'opposizione all'operazione F-35 che rimane forte e vigile in larghi strati dell'opinione pubblica e anzi cresce. Di recente, per esempio, un appello per la cancellazione della commessa è stato firmato da numerose personalità come don Luigi Ciotti, padre Alex Zanotelli, Umberto Veronesi, Chiara Ingrao, Cecilia Strada, Savino Pezzotta, Roberto Saviano, Riccardo Iacona, Gad Lerner. La differenza è che nel frattempo ci sono state le elezioni e i partiti che prima del voto avevano promesso agli elettori un approccio più cauto e riflessivo al delicatissimo e popolare tema dei cacciabombardieri, ora probabilmente si sentono liberi di tornare ai vecchi amori. Emblematico il caso del Pd che per bocca del suo segretario Pier Luigi Bersani in campagna elettorale si era impegnato per ridurre ulteriormente l'impegno italiano per gli F-35. Quello stesso partito ora non sa che pesci prendere in vista del prossimo appuntamento parlamentare di lunedì e martedì alla Camera, quando si voterà in aula la mozione contro gli F-35. Il documento è presentato da Sel e Movimento 5 Stelle ed è firmato anche da una ventina di deputati Pd, mentre il grosso del gruppone piddino ancora non riesce a decidersi come schierarsi. Idem al Senato dove una parte del Pd ha presentato una mozione simile (primo firmatario Felice Casson) che però è stata firmata solo da 18 senatori.
LE SCELTE del Pd diventano a questo punto determinanti. Se il gruppo della Camera decidesse di convergere in blocco sulla mozione anti F-35, il costoso e discusso programma dei cacciabombardieri sarebbe definitivamente cancellato e finirebbe una vicenda fin qui condotta all'insegna della scarsa trasparenza. Il ripensamento del ministro Mauro non è che l'ultimo episodio di un comportamento opaco. A tutt'oggi, per esempio, non è chiaro neppure quanti aerei siano stati effettivamente già comprati dalle nostre forze armate. Secondo fonti ufficiali italiane sarebbero 3, ma citando fonti ugualmente ufficiali, però statunitensi, Toni De Marchi, blogger del Fatto Quotidiano ed esperto di questioni militari, sostiene siano 7 di più.

il Fatto 20.6.13
Illeciti: il ministro Idem ammette ma non lascia
di Martina Castigliani


DOPO LA DENUNCIA DEL “FAT TO ” JOSEFA IDEM DICE: “PRONTA AD ASSUMERMI LE MIE RESPONSABILITÀ” LA LEGA ANNUNCIA UNA MOZIONE DI SFIDUCIA

Ammette le irregolarità, ma non parla di dimissioni. Mentre la palestra Jajo gym allestita nella sua casa di Ravenna resta chiusa, il ministro alle Pari opportunità Josefa Idem scarica la colpa su “tecnici di sua fiducia” e si dice pronta ad assumersi le sue responsabilità. Quattro anni di Ici non pagata e operazioni di restauro non segnalate, sono le accuse che risultano dopo l'accertamento anagrafico del sindaco Pd Fabrizio Matteucci e nelle carte pubblicate ieri dal Fattoquotidiano.it  .
MA IL MISTERO non finisce qui. “Se la palestra non esiste, la società dilettantistica a chi pagava l'affitto? ”. La domanda arriva dal consigliere comunale del Movimento 5 Stelle Pietro Vandini che leggendo gli atti, rileva come “nell'accertamento di illecito dell'11 giugno” si specifichi la presenza di “un affittuario” chiamato Maurizio Patanè, titolare dell'Associazione sportiva dilettantistica Sicul Motori e Sports. “Se non ho capito male”, ha continuato Vandini, “si tratterebbe di un'attività commerciale in un luogo dove non è presente alcuna attività commerciale. La Guardia di Finanza ha intenzione di verificare? ”. Come dire: ma non è che la società sportiva pagava un affitto in nero? Patanè però non dà spiegazioni. E anzi contattato dal Fatto si definisce un “semplice collaboratore di Guglielmo Guerrini, (il proprietario e marito della Idem, ndr). Non sono tenuto a darvi altre informazioni”.
E intanto verso mezzogiorno di ieri ha cancellato il suo nome dalla pagina Facebook promozionale della palestra in cui era indicato come il contatto a cui rivolgersi in caso di necessità. “La palestra è chiusa per motivi familiari”, conclude, “non chiedetemi altro”. Un silenzio stampa durato tutta la giornata.
La palestra incriminata è una villetta lilla e bianca nelle campagne di Santerno, frazione alle porte di Ravenna. Le strade sono deserte, al campanello della casa del marito non risponde nessuno. I vicini di casa scostano le tende, ma di rispondere a domande non vogliono saperne: “Abbiamo sentito la storia sui giornali”, dicono, “ma speriamo non sia vero. Sarebbe il colmo con tutto quello che paghiamo noi”. L'edificio in questione è quello che fino al 4 febbraio era registrato come la prima casa del ministro, nonostante lei abitasse con la famiglia a pochi metri di distanza. Il 5 giugno scorso la regolarizzazione del pagamento dell'Imu con un “versamento a titolo di ravvedimento operoso” per riparare al ritardo. La ricerca ora è per quel contratto d'affitto tra la società dilettantistica e la Idem, per dimostrare la correttezza della gestione Patanè. “Abbiamo chiesto una visura camerale della società”, è intervenuto il consigliere regionale Andrea Defranceschi, “e risulta che si tratta di un'associazione senza scopo di lucro. Ora ho chiesto l'accesso agli atti perché vorrei sapere se effettivamente hanno mai ricevuto fondi dalla Regione”.
Una verifica importante per cercare di capire quanti erano a conoscenza della palestra che di fatto agli atti non esiste. Ieri Nicola Morra, capogruppo al Senato del Movimento 5 Stelle, ha depositato un'interrogazione per chiedere chiarimenti. Mentre la Lega Nord ha presentato una mozione di sfiducia: “Deve dimettersi, quello che è accaduto è gravissimo, inaccettabile che su un ministro gravino accuse di furberie”. Innervosito dalla situazione anche il sindaco Pd di Ravenna: “Il ministro deve chiarire, è l'unica che può farlo. Io faccio e farò quello che devo secondo la legge italiana”. La Idem nel frattempo ha ammesso che qualcosa nella vicenda non torna: “Alle prime verifiche fatte dal mio avvocato, sembrano emergere alcuni profili di irregolarità, e ovviamente, sono pronta come qualunque cittadina ad assumermi ogni responsabilità, versando le eventuali sanzioni amministrative conseguenti se dovessero essere confermate, sulla base degli accertamenti disposti, delle irregolarità”.
LA COLPA di tutto, secondo l'ex campionessa, sarebbe una cattiva organizzazione dovuta ai suoi continui viaggi in giro per l'Italia: “Durante la mia carriera da atleta sono stata per lunghi periodi lontana da casa. Per questo ho affidato la gestione dei miei interessi a persone e tecnici di mia fiducia. Anche in questo contesto” ha concluso la ministra, “continuerò a ispirarmi a un principio fondamentale della mia esistenza che è il rispetto delle regole e l’assunzione di responsabilità in caso di loro violazione". Le responsabilità sì, ma non le dimissioni.


l’Unità 20.6.13
Renzi: «Se cambiano le regole non corro»
Dura polemica del sindaco: «Se l’obiettivo del gruppo dirigente è “fregarmi” resto a Firenze»
Bersani: «Sulle primarie nessuno è più aperto di me, anche l’altra volta c’erano le iscrizioni»
di Andrea Carugati


ROMA «Se il Pd pensa solo a non far partecipare alle primarie le persone, se l’obiettivo del gruppo dirigente del Pd è “come ti frego il candidato”, io ho una buona notizia per loro: se vogliono fare le regole loro, io resto a Firenze tranquillo. Mica mi annoio a fare il sindaco».
Matteo Renzi parla di buon mattino ad Agorà su Raitre e dà “il la” a una nuova giornata in cui il Pd discute delle regole per il congresso. Una discussione che attorno allo statuto vede lo scontro tra diverse idee di partito, e soprattutto tra diverse linee politiche per il futuro. Renzi non ha dubbi: vuole che le regole restino quelle con cui è stato eletto Bersani nel 2009, dunque primarie aperte agli elettori, e vuole soprattutto che il segretario del Pd resti il candidato premier designato, così come lo immaginò Veltroni nel 2008. Infine, il sindaco vuole che il Pd si attrezzi alla nuova campagna elettorale, cambiando subito la legge elettorale e senza investire troppe energie nel cammino delle riforme istituzionali.
«Io vado via da Firenze o se mi cacciano i fiorentini o se c’è la possibilità di guidare il Paese», dice il sindaco. Tertium non datur. Dunque deciderà se candidarsi «appena decidono le regole loro, perché l’altra volta ho deciso e hanno cambiato le regole, stavolta non passo da fesso. Mica c’ho scritto “giocondo” in fronte». «Non toccate le regole», è il messaggio che manda ad Epifani, paragonando questa discussione a «un film di Dario Argento». «Sarebbe assurdo se il Pd restringesse la partecipazione. Abbiamo iniziato a perdere le elezioni quando abbiamo messo troppi paletti a quelli che volevano venire a votare alle primarie». «Il congresso si deve fare entro il 7 novembre», è l’altro avvertimento.
Sembra di tornare allo scorso autunno, ai giorni roventi delle primarie. «Ma che gli ho fatto io a Pier Luigi Bersani che mi attacca?», s’accalora il sindaco. Poi contrattacca: «Lui ha sbagliato un rigore a porta vuota. Abbiamo consentito a Grillo di prendere il 25 per cento e a Berlusconi di recuperare. Oggi è lui che detta l'agenda... magari fosse Bersani a farlo». L’ex segretario allarga le braccia e sorride: «Primarie aperte? Mi sono anche stufato. Nessuno è più aperto di me e poi le iscrizioni si sono fatte anche l’altra volta...». Il bersaniano Davide Zoggia pone un quesito: «Non toccare le regole non si può, altrimenti perché si è deciso di formare la commissione?». Tra i fedelissimi dell’ex segretario l’idea è quella di ideare una forma di registrazione, in modo che «non possa votare chiunque passa di lì quella domenica». L’obiettivo non è quello di circoscrivere la scelta del leader ai soli iscritti, ma di fare un albo un po’ come avvenne per le primarie di fine 2012. «Poi si può ragionare se uno si può iscrivere anche il giorno del voto, ma l’importante è che debba impegnarsi a sostenere il Pd», ragiona una fonte vicina a Bersani. Un discrimine sottile, ma che può diventare una voragine.
C’è poi la delicata questione del rapporto tra Renzi e Letta. E di come una eventuale elezione del sindaco alla guida del Pd potrebbe destabilizzare il governo. Gli ex popolari vicini a Fioroni si schierano a falange per il premier, chiedendo che i due ruoli, quello di segretario e di candidato premier, vengano decisamente sganciati. Fioroni lancia una provocazione: «Se le regole del congresso non cambiano, io chiedo a Enrico Letta di candidarsi alla segreteria».
Gero Grassi la vede così: «Se Matteo vuole fare il segretario lo faccia pure. Poi quando ci sarà da scegliere il candidato premier, se vorrà, potrà partecipare alle primarie. Nessuno glielo potrà impedire». Quanto ai votanti, Grassi fa una battuta: «Le regole devono impedire che voti uno come Briatore. Ai gazebo deve venire chi è consanguineo con i valori del Pd».
Un’idea che non convince Walter Verini, braccio destro di Veltroni: «Bisogna spalancare le porte, come abbiamo fatto nel 2007. Serve un partito aperto e capace di parlare anche ai delusi di Berlusconi. E il leader deve essere il candidato premier. Se poi Letta avrà governato bene e vorrà sfidare il segretario alle primarie si farà una deroga come abbiamo fatto nel 2012 per Renzi». Conclude Verini: «Alla fine non credo che la discussione delle regole si trasformerà in un tentativo per escludere Renzi: sarebbe un suicidio».
Sul rapporto con l’inquilino di palazzo Chigi, il sindaco resta sul diplomatico: «Io non sono in competizione con Letta. Io faccio il tifo per lui. Se il governo funziona, va bene. E qualcosa di buono lo sta cominciando a fare. Ma il problema è la maggioranza che ha...». Renzi ricorda di aver detto no alla proposta di fare il ministro. «Mi interessa che il centrosinistra vinca, invece di correre per partecipare e poi ritrovarsi col governo delle larghe intese. Purché si vinca a me va bene candidare anche Mazinga...».

il Fatto 20.6.13
Lo schiaffo quotidiano: in scena la telenovela Pd
Bersani costruisce ostacoli per Renzi: “Sono un pazzo visionario”
Lui: “Non mi fregate, piuttosto sto a Firenze”
di Wanda Marra


“Sono un pazzo? Sì, sono un pazzo visionario: sono sempre sei mesi avanti agli altri”. Pier Luigi Bersani cammina per il Transatlantico, piglio deciso. Lo ferma Giacomo Portas, leader dei “Moderati”, eletto come indipendente nelle liste dei Democratici. Lo abbraccia: “Lui per me è un amico vero. Ma va sempre più veloce: per lui la giornata ha 20 ore non 24”. Conclude affettuosamente: “È pazzo”. L’ex segretario Pd - che ha visto la sconfitta alle amministrative dei grillini e le difficoltà dei Cinque Stelle come una sua rivincita personale - si muove come uno che è pronto a ripartire. Per dove, non è chiaro. Incontra Guido Crosetto. Baci e abbracci anche con lui: “Quando divento premier, ti faccio Ministro”. Ma insomma, in questo governo di cambiamento che ha ritirato fuori negli scorsi giorni, ci crede davvero? “Io sono assolutamente leale con Letta. Ma per i Cinque Stelle, sono qui, il Pd è qui. Mica potremo fare un esecutivo d’emergenza per sempre”. Poi chiarisce la sua posizione sulle regole del congresso: “Facciamo le primarie per il segretario. E dunque, devono essere primarie di iscritti, pur con la possibilità di iscriversi fino all’ultimo momento”. Da Statuto non è così: gli iscritti votano per selezionare i candidati, che poi si sottopongono a gazebo aperti a tutti. Lui stesso è stato eletto così. Non solo: “Segretario e candidato premier sono due figure distinte. Se il segretario vuol fare il premier, farà le primarie”. Insomma, l’obiettivo è rendere permanente la modifica dello Statuto che fece approvare per permettere a Renzi di correre. “Mica ci sono due partiti, mica stiamo andando verso un sistema bipolare”. Andando avanti così, i partiti saranno dieci, il commento sorge spontaneo. “Appunto”, dice Bersani. Scenario inquietante, anche alla luce della battuta di Massimo D’Alema, riportata da Repubblica: “Magari nel Pd ci fossero le correnti. C’è solo caos”.
IL CAOS e gli schiaffi vanno in scena quotidianamente. Ieri comincia appunto D’Alema. Sul Corriere della sera Stefano Fassina all’indirizzo dei Giovani Turchi e di Orfini: “Quella corrente non è mai esistita. È facile parlare nelle stanze di partito”. Il piatto forte - al solito - lo offre Matteo Renzi. Ad Agorà. “Non toccate quelle regole è l’unica regola. Se vogliono fare le regole loro io me ne sto a Firenze, questa volta non mi faccio fregare. La prima regola è che il congresso si fa il 7 novembre e si fa aperto”. E aggiunge: “Io me ne andrò da Firenze o se mi cacciano i fiorentini o se posso guidare il governo”.
Insomma, lo Statuto non si tocca. E la norma che ha permesso a lui di correre è bene che resti transitoria.
Bersani contro Renzi, atto secondo. Il film è ricominciato. Angelo Rughetti, renziano, di buona mattina in un blog sull’Huffington Post: “Ci risiamo. Le lancette sembrano tornate all’autunno del 2012. Ripartono le discussioni sulle regole, come se l’obiettivo finale di un partito sia quello di organizzare le modalità di partecipazione dei suoi sostenitori e non quello di vincere le elezioni”. Davide Zoggia, responsabile Organizzazione Pd va per la sua strada: “Certo che le regole le cambiamo, altrimenti la Commissione che l’abbiamo fatta a fare? ”. Renzi alza il tiro: fino a che punto è disposto ad arrivare? Persino a prendere atto del fatto che il partito “è caos” (per citare il suo nuovo sponsor Maximo), e candidarsi da solo? Rughetti dice: “Io sono un estremista. Ma già nell’estate 2012 facemmo una cena con Renzi, Delrio ed altri. Io gli dissi: ‘Ma se cercano di fregarci, lo facciamo un altro partito? ’. Matteo rispose: ‘Assolutamente no’. Però, le cose cambiano”. Un altro renziano, Matteo Richetti affida la sua staffilata a un Tweet. “E qualcuno con questi ci voleva fare il governo di cambiamento? Da un'ora si susseguono interventi da asilo nido”. (il soggetto primo sarebbero i grillini).
Ci mette del suo pure Beppe Fioroni, che insieme alla Bindi non è stato invitato al seminario di Italiani europei di lunedì. “Se segretario e premier coincidono, chiederò a Enrico Letta di candidarsi alla segreteria”. Stamattina si vedono i 40 senza corrente, capitanati dalla ex portavoce di Bersani, Alessandra Moretti. Civati ricorda che lui è candidato segretario e Bettini che è a disposizione. Ce n’è per tutti i gusti.
TRA L’ALTRO, è tornato a giocare un ruolo Napolitano, preoccupato da una parte dal-l’attivismo di Renzi, dall’altra dalle ipotesi di ribaltone. L’altroieri ha visto il sindaco di Firenze. Prima col ministro Bray. Poi, da solo: più di mezz’ora a quattrocchi, evidentemente i due hanno ri - preso le misure del momento. Ieri Bersani che gli ha dovuto ribadire il sostegno al governo. Infine, nella prima segreteria ogni discussione spinosa è stata evitata. Il dibattito si è concentrato sulla tessera online. Opinioni diverse sulle modalità d’adesione.

La Stampa 20.6.13
I renziani vanno a scuola di politica (a pagamento)
Nel Pd non tutti gradiscono
di Andrea Rossi


Ecco, perché a nessuno salti in mente che è in corso un processo di pacificazione, loro la spiegano così: «Il Pd organizzava weekend a Napoli con centinaia di giovani pagati per assistere. Noi facciamo il contrario: siamo disposti a investire i nostri soldi per alimentare il flusso della bella politica». Buoni contro cattivi. Renziani contro resto del mondo. Oppure, ateniesi contro spartani: di qua i fedelissimi del sindaco di Firenze, di là i pretoriani radunati all’epoca delle primarie da Bersani.
Nel mezzo c’è una novità assoluta e, ovviamente, fucina di veleni: il primo appuntamento politico a pagamento. Si chiama «#OpenPd», workshop organizzato sabato e domenica, a Torino: iscrizioni a numero chiuso, duecento partecipanti (gli organizzatori dicono che le richieste erano il doppio), dieci sessioni di lavoro (dalla legge elettorale alle norme sui partiti), dieci deputati tra i quali Simona Bonafè, cinque senatori, un consigliere regionale toscano e un saggio, il costituzionalista Francesco Clementi, membro della commissione che dovrà partorire le tanto agognate riforme. Tutti di stretta osservanza renziana. Ma senza Renzi.
Partecipare costa 55 euro, 40 se si ha meno di 25 anni. Scelta che in casa Pd non tutti hanno digerito. Per dire, Chiara Geloni, l’amazzone dell’ex segretario Bersani, direttrice di YouDem tv, l’ha definita un’iniziativa «sgradevole». Altri l’hanno messa sul ridere: «Ci auguriamo che non siano le stesse persone che criticavano i 50 euro chiesti per il corso di formazione politica del Pd a Cortona». Gli organizzatori fanno spallucce: «Essere liberi ha un costo», spiegano il torinese Davide Ricca e la toscana Carolina Massei. «Sì, chiediamo una quota di iscrizione per pagare le spese. Anche noi paghiamo e per tutti è un sacrificio, perché molti, come la stragrande maggioranza degli italiani, stanno veramente faticando». In fondo, raccontano, se si è contro il finanziamento pubblico ai partiti si dovrà pur agire di conseguenza: «In Italia siamo abituati ad andare agli incontri politici senza preoccuparci di chi ha pagato la sala».
Va da sé, anche ai parlamentari verrà chiesto un contributo. E da Torino verrà lanciato un messaggio al Pd. «Vorremmo un partito aperto, libero, liberale, pragmatico, innovatore, riformista, solidale, combattivo, anticipatore. Un partito che abbandoni gli antichi vizi del passato, soprattutto quello di perdere».

Corriere 20.6.13
E c'è anche Bettini: Matteo leader, io segretario
di M.T.M.


ROMA — Goffredo Bettini è tornato in campo e non esclude di candidarsi alla segreteria del Partito democratico. Intascata la vittoria romana per il «suo» candidato Ignazio Marino, l'ex coordinatore del Pd si è spostato sul fronte della politica nazionale. Per la premiership Bettini non ha dubbi: il candidato è Matteo Renzi, perché, sottolinea, «non ci sono alternative al sindaco di Firenze». Ma la segreteria, a suo avviso, «non è nelle corde» del primo cittadino del capoluogo toscano.
È ovvio che la mossa di Bettini è fatta per spiazzare i maggiorenti del Pd, tutti impegnati in giochi tattici e pre-tattici, e per cercare di focalizzare l'attenzione del gruppo dirigente del partito su altri temi e «non sui soliti argomenti autoreferenziali»: «Tanti vogliono solo mantenere i loro orticelli di potere, sostanzialmente conservatori». Tra questi l'ex braccio destro e sinistro di Walter Veltroni inserisce anche Pier Luigi Bersani: «Lui dovrebbe riflettere prima di parlare, e sta parlando tanto. Io al suo posto avrei riflettuto di più anche prima».
Dunque, è con piglio battagliero che Bettini si prepara all'appuntamento congressuale. Ha preparato un documento che ha fatto vedere anche a Matteo Renzi e che presenterà ufficialmente nei prossimi giorni. Il primo capitolo ha un titolo significativo: «Riaccendiamo una speranza riconoscendo la sconfitta». È di lì che bisogna ripartire, secondo l'ex coordinatore del Pd, senza ipocrisie e infingimenti: «L'illusione ottica di aver ottenuto una maggioranza di deputati per una pessima legge elettorale- è sottolineato nel testo - non può nascondere la sostanza del problema: i cittadini ci hanno rifiutato, considerandoci parte di un sistema politico autoreferenziale, conservatore, ripetitivo, inconcludente. Non aver preso atto onestamente, subito dopo il voto, di questa realtà, ha portato a una catena impressionante di errori». E ancora: «Con meno del 25 per cento dei consensi degli italiani, se si considera la platea degli aventi diritto al voto, abbiamo preteso in modo velleitario di dare tutte le carte. Indicare il premier, i presidenti delle Camere, il presidente della Repubblica. Invece di mettere a disposizione i nostri voti per sostenere un governo di scopo e di breve durata, abbiamo dichiarato guerra al mondo, finendo per spararci sui piedi».
E Bettini avverte che non bisogna farsi altre illusioni, dopo il successo delle amministrative: «La splendida vittoria del Pd e del centrosinistra nelle città, e in particolare a Roma, con Ignazio Marino, non cambia la situazione nel profondo. Semmai dimostra che con una direzione politica più accorta e con uno schema politico più aperto, chiaro e coerente, le cose migliorano nettamente». Nelle quasi venti pagine del suo documento, Bettini mette in guardia i maggiorenti del Pd dal rischio di trasformismo: «Anche di questo muore un partito: di un ceto politico incapace di assumersi le responsabilità, autoreferenziale e sempre pronto a rielaborare se stesso a seconda delle conveniente».
A pagina 10 Bettini arriva al cuore del suo ragionamento politico e avanza la proposta di costituire un unico grande soggetto politico (che lui chiama «il campo democratico»), dove confluiscano tutte le diverse culture che appartengono al centrosinistra, perché ormai, secondo lui, non ha più senso che restino separate. «Occorre lavorare — scrive infatti Bettini nel documento — per un campo unico, largo, inclusivo dei democratici, quello che purtroppo non è riuscito a essere il Pd».

il Fatto 20.6.13
Firenze, l’ex assessore alla escort: “Amore mio”
Quella lunga storia con Adriana: tutte le telefonate che incastrano l’uomo della giunta Renzi
di Davide Vecchi


Quattro anni di telefonate e di sms partite dal cellulare intestato al Comune di Firenze in uso all’ex assessore Massimo Mattei rivelano come il rapporto tra l’uomo della giunta di Matteo Renzi e la “regina” delle escort fiorentine, Adriana, sia stato ben altro che di amicizia. “Ignoravo che la mia amica fosse una escort”, ha detto Mattei martedì, “era una mia amica”. Leggendo le carte degli inquirenti dell’indagine “Bella vita”, per quanto ben nascoste e omissate, gli sms e le telefonate del politico ad Adriana sono tempestate da “amore mio”, “vita mia”. In particolare negli anni 2011 e 2012. Luogo degli incontri tra i due l’appartamento in zona viale Europa di proprietà della cooperativa sociale il Borro, nel quale, sempre secondo quanto risulta della intercettazioni sull’utenza della donna, Adriana metteva a disposizione anche di alcune sue amiche della scuderia di Franchino, soprannominato, in maniera molto eloquente, “capo puttaniere”.
Mattei, che non risulta indagato e appare all’oscuro di quanto faceva Adriana, a qualunque ora manda messaggi alla rumena 42enne. E le telefona. “Ci sei tra mezz’ora a casa? ”. “Ti trovo verso le 17? ”. “Vita mia ho bisogno di passare a casa, sei lì? ”. E molti altri di contenuto strettamente personale e non connesso all’attività di prostituzione della rumena. Appare ormai chiaro però che gli uomini di Palazzo Vecchio siano coinvolti nel giro di escort. Dopo il funzionario sorpreso proprio con Adriana nell’ufficio comunale dalla donna di servizio, ora emerge con chiarezza il legame di Mattei. Il politico si è dimesso per motivi di salute appena pubblicata la notizia delle indagini e martedì ha tentato di prendere le distanze dalla donna con una lettera ufficiale in cui ha sostenuto “che la ragazza (...) era mia amica da circa dieci anni, è stata dipendente della Cooperativa e di altre mie aziende in varie riprese e per vari periodi. Ha lavorato con profitto e responsabilità”.
Nato a Firenze nel 1971, laureato in lettere, Mattei è un imprenditore che a 24 anni ha fatto il suo ingresso in politica. Qui è cresciuto all’ombra di Matteo Renzi. Prima in Provincia, dove è stato eletto nel 2004 (insieme al rottamatore) e due anni dopo diventò presidente del Consiglio. Poi in Comune, assessore alla mobilità a cui nel tempo ha aggiunto le deleghe a infrastrutture, grandi opere, trasporto pubblico locale, manutenzioni e decoro. Dal 2000 al 2004 ha ricoperto anche la carica di presidente del Calcio Storico Fiorentino ed è stato presidente del Viola Club Provincia di Firenze.
Mattei ha un profondo legame con Renzi e a Palazzo Vecchio c’è chi garantisce sia stato il sindaco a suggerirgli di lasciare subìto l’assessorato. Nel 2008, quando nel Pd all’epoca guidato da Walter Veltroni, ci fu il primo battibecco sulle regole delle primarie, fu Mattei a esprimersi: “Non si cambiano le regole a partita già iniziata”. Ora è stato costretto a dimettersi. E potrebbe essere la prima vittima politica dell’inchiesta sulle escort del franchino.

Repubblica 20.6.13
Assessori, escort e coop:  i segreti hard di Firenze
"Non stupitevi, qui così fan tutti". Pettegolezzi e intercettazioni, viaggio nella città investita dallo scandalo
Una studentessa racconta: "Te lo insegnano quando arrivi da matricola, se ti servono soldi, un modo è quello. Poi una si regola come crede"
di Concita De Gregorio

qui

l’Unità 20.6.13
Il congresso del Pd e l’ubriacatura di Hobbes
di Michele Nicoletti


SE PER UN MESE IL PD FACESSE I CONTI CON THOMAS HOBBES, ANZICHÉ CON LE PROPRIE BEGHE INTERNE, il suo cammino verso il congresso risulterebbe – almeno filosoficamente – un po’ più interessante. C’è stata, infatti, un’ubriacatura hobbesiana da cui sarebbe bene risvegliarsi. Non da Hobbes, la cui lezione è sempre utile, ma dall’ubriacatura, sì, è bene liberarsi. Almeno per tre ragioni.
La prima ragione è la rimozione della «coscienza storica»
che era uno dei tratti più significativi della cultura politica italiana. Dall’antica Roma a Machiavelli, da Vico a Rosmini e Mazzini, da Croce a Gramsci, da Moro a Berlinguer la politica è stata concepita come azione storica. Storico il pensiero politico, storiche le azioni politiche, storico il farsi del diritto e delle istituzioni. Anche la coscienza storica ha avuto i suoi eccessi: c’è stata anche un’ubriacatura di storicismo e la sottovalutazione di altri saperi nell’approccio alla politica. Ma ora siamo passati all’estremo opposto.
Da bravi «hobbesiani» la politica ci viene oggi presentata come opera di un’astratta ragione calcolatrice. Si pensa che la Costituzione possa nascere da cervelli pensanti rinchiusi in una stanza dimenticando che le assemblee Costituenti americana o francese, italiana o tedesca hanno scritto le Carte fondamentali dopo lotte e rivoluzioni, guerre e resistenze, anni di oppressione o liberazione. I concetti di «sovranità popolare», «Parlamento», «libertà di coscienza» si sono forgiati in quella storia. La via prevista dai Costituenti all’art. 138 non era solo il frutto della loro volontà di «irrigidire» la Carta, ma era espressione di una concezione della Costituzione come insieme di norme e di pratiche, di dottrine e interpretazioni, di giurisprudenza e revisione, che si modifica a piccoli passi, adattandosi alla mutevole realtà sociale, per via di emendamenti.
La coscienza storica non impedisce l’apertura al nuovo. Al contrario. Chi legge i discorsi di Moro o Berlinguer sulla contestazione giovanile degli anni ’60 e ’70 trova un’apertura al nuovo e una curiosità di cui oggi v’è ben poca traccia. Il Berlinguer che diceva ai giovani «entrate e cambiateci» non viveva certo di nostalgia della politica dei bei tempi andati e non si lasciava andare alle prediche moralistiche oggi dominanti. La storia non è solo quella alle nostre spalle, ma anche quella davanti a noi: la novità sempre possibile.
La seconda ragione è antropologica. All’homo homini lupus di Hobbes, qualunque segretario del Pd (di circolo o nazionale) potrebbe aggiungere la glossa democraticus democratico lupissimus. Ma il punto non sta solo nella natura rissosa dei democratici che non sopportano la vita pacifica e, come l’uomo pascaliano, dopo un mese di governo res dura l’amministrazione, vuoi mettere la Grande Politica? già si annoiano e in cerca di divertissement si danno alla caccia, al gioco o alla guerra. Eterni ragazzi della via Pal. Il punto sta nel paradigma antropologico dell’atomismo individualistico hobbesiano, secondo cui senza sottomissione a un sovrano non c’è società. Non ci sono soci. Anche nel Pd sembrano non esserci «soci». Solo iscritti o elettori al seguito di questo o quel capo. Si ritiene che il popolo non si formi sulla base di relazioni orizzontali tra le persone che mettono i propri interessi, i propri valori e le speranze gli uni nelle mani degli altri, ma si costituisce nella promessa di fedeltà verticale a un Leviatano. In un colpo ci siamo congedati da Aristotele, Tommaso, Marx e il personalismo sociale, insomma da tutta l’antropologia relazionale.
Non è certo compito di un partito darsi un’antropologia. Ma è difficile negare che tanti articoli della nostra Costituzione sono anche il frutto dei dialoghi tra Giorgio La Pira, Concetto Marchesi e Lelio Basso, alle cui spalle c’era la tradizione dell’umanesimo relazionale e civile «italiano» che era il sostrato pre-politico di tanti costituenti. Non proprio l’antropologia hobbesiana per capirci.
Infine ci si potrebbe liberare dal monismo di Hobbes. Quanta mistica unitaria nei nostri discorsi. La Chiesa, lo Stato, il Partito, la Politica, sempre tutto al singolare e maiuscolo. E quanto poco spazio al pluralismo religioso e sociale, al repubblicanesimo e al federalismo. Eppure le tradizioni cristiane, liberali, socialiste hanno saputo pensare la politica e la società come luoghi della pluralità irriducibile. E hanno custodito una sana diffidenza nei confronti della mistica delle unioni umane e dell’illusione che vi possa essere una società con una «direzione politica». In questa idea di una «guida» politica della complessità fa capolino di nuovo il razionalismo astratto, l’idea che si possa esercitare una «egemonia» sulla realtà sociale (idea mai tramontata non solo tra i leninisti ma anche tra qualche riformista a cui scappò di usare il termine «egemonia» come sinonimo di «vocazione maggioritaria»). Ma il compito della politica oggi non è piuttosto quello di far vivere la libertà e fiorire la pluralità entro un orizzonte di giustizia? E dunque il tema è: pensare un universo plurale in cui ci stanno e le persone e le formazioni sociali, e i partiti e i movimenti e le istituzioni, e gli Stati e le culture. Oggi un partito deve pensarsi dentro questa pluralità irriducibile di coscienze, associazioni, istituzioni che lo costituiscono e lo trascendono, accettando fino in fondo la propria natura strumentale ossia il proprio essere per altro. La storia del Novecento è in gran parte la storia di forme di partito (dal totalitarismo alla partitocrazia) che non hanno accettato il loro limite radicale.
Forse tutto questo non è roba da congresso, si dirà, e a ragione. Ma qualche volta discutere sulle questioni radicali aiuta ad aprire qualche buona prospettiva politica.

il Fatto 20.6.13
Caro Epifani, così rinneghi te stesso
di Piergiovanni Alleva

Responsabile della consulta giuridica della Cgil

So bene che quello della “lettera aperta” è un genere letterario passato di moda, ma credo di avere due ottime ragioni per farvi ricorso. La prima è che siamo alla vigilia del più micidiale attacco mai portato ai diritti dei lavoratori, e che nessuno sembra essersene accorto, perché il governo Letta, che ne è l’autore, ed è espressione del Pd di cui sei Segretario, l’ha mascherato da semplice misura di supporto al-l’occupazione giovanile. Si tratta in realtà della “liberalizzazione” dei contratti a termine, ossia della istituzionalizzazione e generalizzazione del precariato come normale – e ricattatoria – forma del rapporto di lavoro. La seconda ragione è che ho lavorato con te per molti anni, quando eri Segretario della Cgil, in qualità, per così dire, di “giuslavorista in capo” e ti ho sempre sentito ripetere, in pubblico e in privato, che il rilancio dell’economia e dell’occupazione non passa dall’eliminazione dei diritti dei lavoratori, e, soprattutto, dalla distruzione della loro dignità e riduzione a uno stato di soggezione tramite licenziamenti “liberi” e precariato incontrollato. Hai sempre rimarcato che è falso che licenziamento e precariato “liberi” aumentino l’occupazione, che dipende, invece, dalla politica economica e dalla crescita della domanda aggregata.
Lo dimostra l’esempio della Spagna, che dopo aver liberalizzato i contratti a termine per i giovani, ha visto aumentare la disoccupazione giovanile ben oltre il 50%, e lo ha dimostrato anche l’inutile manomissione da parte del governo Monti-Fornero dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che dopo un anno non ha creato neanche un posto di lavoro in più.
Ma vediamo più da vicino la micidiale proposta del governo Letta: in sostanza, i contratti di lavoro a termine diverrebbero “acausali” e senza limiti di ripetibilità per i giovani fino a 29 anni, mentre per gli altri il “primo” contratto a termine (che la riforma Fornero ha già reso “acausale” fino a 12 mesi) potrebbe prolungarsi a 18, 24 mesi o a chissà quando. “Acausale” significa che il termine automatico di scadenza potrebbe essere apposto anche senza una specifica causa, e cioè anche per far fronte a normali e continuative esigenze produttive, e non soltanto quando ricorrano esigenze temporanee. Ma chiediamoci, allora, perché il datore di lavoro, per sopperire a esigenze produttive continuative, dovrebbe ricorrere non a contratti a tempo indeterminato, come sarebbe naturale, ma a contratti a termine, e perché le organizzazioni datoriali insistano tanto per introdurre questa anomalia.
Semplice, perché il contratto a termine, a scadenza automatica e rinnovabile solo se il datore di lavoro lo vuole, gli conferisce uno strapotere contrattuale durante tutto lo svolgimento del rapporto, e mette di fatto fuori gioco lo Statuto del Lavoratori e ogni altra legge protettiva, che nessun lavoratore precario oserà più invocare per timore di un mancato rinnovo. Non per nulla un entusiastico plauso alla “proposta Letta” è venuto da una schiera di eminenti giuristi e avvocati di parte datoriale, che della negazione e del contrasto verso i diritti dei lavoratori hanno fatto la loro professione, nonché la fonte di ingenti fortune personali.
SE PASSERÀ la “Riforma Letta” (o Giovannini) tutte le nuove assunzioni saranno a termine, e il precariato sarà la condizione normale dei lavoratori, privati di tutela e di dignità. Né si dica che già oggi la maggioranza delle assunzioni avviene mediante contratti a termine o di lavoro somministrato: ciò è vero, ma costituisce semplicemente un’illegalità di massa, perché almeno l’80% di quei contratti è illegittimo, per carenza del presupposto di temporaneità delle esigenze produttive, e in ogni momento il lavoratore che voglia sottrarsi al ricatto, può denunziare in giudizio l’illegittimità, ottenendo la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. E nessuno lo sa meglio di te, caro Segretario Epifani, che hai sempre voluto che la Cgil disponesse di una capillare rete di uffici vertenze legali, nei quali centinaia di bravi e motivati attivisti lottano ogni giorno contro l’illegalità. Puoi, dunque, come Segretario del Pd – da cui questa disastrosa proposta interamente dipende – consentire all’abolizione, nella sostanza, del diritto del lavoro, che essa renderebbe, in concreto, impraticabile per i lavoratori ormai totalmente precarizzati? In molti, moltissimi, speriamo e crediamo che non lo permetterai, che farai decadere, anche mettendoti in gioco personalmente, la proposta governativa di “acausalità” dei contratti a termine che, tra l’altro, viola platealmente la Direttiva europea n. 1999/70, la quale richiede, per la loro legittimità, che siano “determinati da condizioni obiettive”. Ribadisco che alla presentazione del decreto da parte del ministro Giovannini mancano poche ore: bisogna, dunque, schierarsi e agire adesso.

Capitalismo e democrazia
il Fatto 20.6.13
Ricetta Jp Morgan per Europa integrata: liberarsi delle costituzioni antifasciste

Report della banca d'affari statunitense, considerata dal governo Usa responsabile della crisi dei subprime: "I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l'integrazione. C'è forte influenza delle idee socialiste". E cita, tra gli aspetti problematici, la tutela garantita ai diritti dei lavoratori
di Luca Pisapia
l’articolo segue qui

l’Unità 20.6.13
Oltre 45 milioni, l’«esercito» degli sfollati
Oggi la Giornata mondiale dei rifugiati. Radiografia di un fenomeno in crescita. L’appello del Papa
«Siano accolti e sia loro garantita sicurezza»
di U. D. G.


Boom di rifugiati nel mondo: il 2012 ha fatto segnare la cifra record di 45,1 milioni di sfollati, gente costretta ad abbandonare case, famiglie e beni a causa di guerre e carestie. È quanto emerge dall’ultimo rapporto annuale Global trends sulle tendenze a livello globale in materia di spostamenti forzati di popolazione pubblicato ieri dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) in occasione della Giornata mondiale del rifugiato che sarà celebrata oggi. Lo studio prende in esame le migrazioni forzate avvenute durante il 2012 basandosi su dati prodotti da governi, organizzazioni non governative partner e dalla stessa agenzia Onu. Mentre alla fine del 2011 si legge nel rapporto le persone coinvolte in tali situazioni nel mondo erano 42,5 milioni, un anno dopo erano ben 45,1 milioni. Di queste 15,4 milioni erano i rifugiati, 937mila i richiedenti asilo e 28,8 milioni gli sfollati, persone cioè costrette ad abbandonare le proprie abitazioni ma che sono rimaste all'interno del proprio Paese.
ESODI BIBLICI
Le guerre restano la principale causa alla base della fuga. Il 55% di tutti i rifugiati presi in esame dal rapporto proviene, infatti, da appena 5 Paesi colpiti da conflitti: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria e Sudan. Importanti nuovi flussi si registrano anche in uscita da Mali, Repubblica democratica del Congo e dallo stesso Sudan verso Sud Sudan ed Etiopia.
«Sono numeri allarmanti» ha affermato l’Alto commissario Onu per i rifugiati Antònio Guterres. «Indicano non solo una sofferenza individuale su vasta scala, ma anche le difficoltà della comunità internazionale nel prevenire i conflitti e nel promuovere soluzioni tempestive per una loro ricomposizione». Le tendenze che emergono dal rapporto sono preoccupanti sotto diversi aspetti; uno di questi è la rapidità con la quale le persone sono costrette a spostamenti forzati. Durante il 2012, 7,6 milioni di persone sono state costrette alla fuga, delle quali 1,1 milioni hanno cercato rifugio all’estero e 6,5 milioni sono rimaste sfollate all’interno del proprio Paese. Ciò consente di affermare che ogni 4,1 secondi una persona nel mondo diventa rifugiato o sfollato. Drammatica è anche l’incremento del numero di bambini e dei minori che rimasti soli e abbandonati fanno richiesta di asilo politico: nel 2012 sono state, per la prima volta, oltre 21.300 le domande di asilo di minori non accompagnati, registrate dall’Unhcr.
Emerge poi come il gap tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri si faccia più ampio quando si tratta di accogliere rifugiati. La metà dei 10,5 milioni di rifugiati che rientrano nel mandato dell’Unhcr (altri 4,9 milioni sono rifugiati palestinesi che ricadono invece nella competenza dell’Unrwa, l’agenzia Onu che si occupa specificamente di tale popolazione) trova infatti accoglienza in Paesi che hanno un reddito pro capite annuo inferiore a 5mila dollari Usa. Complessivamente i Paesi in via di sviluppo ospitano l’81% dei rifugiati di tutto il mondo, un netto aumento rispetto al 70% di un decennio fa. I minori bambini e adolescenti con meno di 18 anni costituiscono il 46% di tutti i rifugiati.
L’ITALIA IN CONTROTENDENZA
In Italia nel 2012 sono state presentante 17.352 domande d’asilo, circa la metà dell'anno precedente, rimarca sempre
il rapporto annuale Global trends. Questo calo significativo, determinato prevalentemente dalla fine della fase più drammatica delle violenze in nord Africa, riporta il numero di domande in media con il dato degli ultimi dieci anni. I rifugiati nel nostro Paese alla fine del 2012 erano 64.779, questa cifra colloca l’Italia al 6° posto tra i Paesi europei, dopo Germania (589,737), Francia (217,865), Regno Unito (149,765), Svezia (92,872), e Olanda (74,598). L’Italia ha accolto più di 9mila richieste su un totale circa 15mila. Nel 2012 abbiamo garantito protezione a quasi 2mila rifugiati maliani, seguiti da somali e afghani (rispettivamente 875 e 865).
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, Papa Francesco ha lanciato un appello a conclusione dell' udienza generale di ieri. «Oltre ai pericoli del viaggio ha rimarcato nel suo discorso il Papa spesso queste famiglie si trovano a rischio di disgregazione e, nel Paese che li accoglie, devono confrontarsi con culture e società diverse dalla propria». «Non possiamo essere insensibili verso le famiglie, verso tutti i nostri fratelli e sorelle rifugiati», ha detto ancora Bergoglio. «Siamo chiamati ad aiutarli, aprendoci alla comprensione e all’ospitalità. Non manchino in tutto il mondo persone e istituzioni che li assistano: nel loro volto, è impresso il volto di Cristo».

l’Unità 20.6.13
Mario Marazziti
«La mia proposta è creare un corridoio umanitario internazionale, un tratto pattugliato,
in modo che chi fugge da guerre e persecuzioni passi di lì»
«Lampedusa sia frontiera di accoglienza europea»
intervista di Jolanda Bufalini


ROMA Sente un po’ di nostalgia per la comunità di Sant’Egidio, a cui non ha molto tempo da dedicare, però il lavoro parlamentare gli piace molto mentre, al contrario, non lo appassionano le questioni del gruppo. Mario Marazziti, eletto con Scelta civica, è una matricola della Camera, anche se ha fatto molta politica. «Penso dice che il 60% dei parlamentari fa parte del partito che vorrebbe fare cose utili al Paese, però, tutte queste persone, sotto il cappello dei partiti, diventano minoranza». Si diverte a ricordare l’occupazione grillina dell’aula del Mappamondo, quando era in corso la commissione speciale: «Chiesi al presidente di smentire l’occupazione, visto che i nostri lavori non si erano interrotti e i deputati M5S erano nel pieno diritto di stare». Il suo «fare cose utili» si concentra sul tema dei migranti: la legge sulla cittadinanza, che «è bene sia di iniziativa parlamentare, per sollevare il governo da una questione che non è nelle urgenze del programma». La questione degli sbarchi. Nella informativa del governo Angelino Alfano ha affermato che l’incremento de-
gli sbarchi ha origine nelle instabilità politiche. È d’accordo?
«Ho molto apprezzato il cambiamento di registro, finalmente è stato abbandonato il linguaggio del disprezzo. Quello che ha detto il ministro è giustissimo, i 60.000 sbarchi del 2011 corrispondono alle Primavere arabe, negli sbarchi di quest’anno cominciano ad arrivare i siriani. Dal mare arriva chi scappa dalle guerre, eritrei, somali, Mali. Nel 2011 arrivavano pakistani e bangladeshi che lavoravano in Libia. È un problema strutturale che non ha nulla a che vedere con la migrazione economica. Alfano ha usato una espressione molto efficace: Lampedusa è il Check Point Charlie, l’ingresso al mondo libero dal Sud del Mediterraneo».
Come gestire questo Check Point?
«Ho proposto due cose, la prima è fare di Lampedusa una frontiera di accoglienza europea, ci vuole una governance europea del problema dei perseguitati. La seconda è volta a ridurre le tragedie e a contrastare i trafficanti. Sono 19.000 le morti accertate nei viaggi della speranza, 3000 delle quali, soltanto nel 2011, nel Canale di Sicilia. A questi numeri va aggiunto quello degli scomparsi, di cui non si è mai saputo più nulla. La mia proposta è creare un corridoio umanitario internazionale, un tratto pattugliato, così che chi fugge sappia che può passare di lì».
La cittadinanza. Il progetto del Pd si basa sullo Ius soli, la proposta di Scelta civica sullo Ius culturae, ma perché un bambino nato in Italia deve dimostrare di essere italiano?
«La nostra proposta non è solo Ius culturae, nella sua prima parte è uno Ius soli temperato. Si prevede che sia italiano chi nasce in Italia, se uno dei due genitori è regolarmente nel paese da cinque anni. Questo dovrebbe tranquillizzare chi teme che si venga a partorire qui. Inoltre, anche chi non è nato in Italia può diventare italiano, compiuto il ciclo della scuola dell’obbligo o acquisito un titolo di studio o professionale, nel periodo fra i 18 e i 21 anni. Questo dovrebbe tranquillizzare chi teme una perdita di identità: la cittadinanza si acquista in forza dell’attrazione della cultura italiana, è così che è nata l’Italia, sulla base di un patto di volontà e di cultura. Il 71% degli italiani, secondo l’ultimo «Studio Elettorale», è d’accordo sulla cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia».
Il problema dei figli richiama quello di padri e madri che restano stranieri.
«Dobbiamo adeguare la nostra legislazione agli standard europei. Oggi il tempo medio per avere la cittadinanza italiana è 15 anni (10 per legge più gli anni per espletare le pratiche). Secondo noi si deve ridurre a cinque gli anni e si devono rivedere i vincoli di reddito, ci sono giovani laureati, figli di immigrati diventati italiani, che non hanno le condizioni di reddito. Su 4 milioni e mezzo di immigrati stabili in Italia, di cui 2 milioni con permesso a tempo indeterminato, nel 2010 le cittadinanze sono state 65.000. È un processo troppo lento e, ora, fra difficoltà economiche e burocratiche stiamo perdendo perché se ne vanno gli stranieri integrati, che producono un nono del Pil e danno allo Stato, fra tasse e tributi, sette miliardi e mezzo l’anno».
Sembra che in Scelta civica ci siano venti di scissione. Cosa ne pensa?
«Penso che il problema sia quel 50% di elettori che non vota e che il problema dei partiti sia nell’offerta politica che, evidentemente, non è adeguata. Ci vuole una casa più grande per un mondo popolare, cattolico, sociale, umanista, liberale e egualitario. Per fare questo non mi pare si possa partire da una scissione».

Repubblica 20.6.13
Un sistema europeo per il diritto d’asilo
di Cecilia Malstrom


Caro direttore, gli Stati europei hanno l’obbligo giuridico e morale di offrire protezione e libertà ai rifugiati provenienti sia dal nostro continente che da altri paesi: l’Unione europea ha appena adottato un pacchetto di importanti riforme legislative che garantirà meglio i diritti delle persone in fuga dalle persecuzioni. Ciò dota l’Ue di un sistema europeo comune di asilo.
La Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno lavorato per anni alla definizione di un quadro giuridico completo per il trattamento dei richiedenti asilo. Il recente accordo sulla riforma del sistema europeo di asilo rappresenta un risultato di grande rilievo e rende omaggio alla volontà e alla determinazione politica di quanti, per quasi cinque anni, hanno partecipato a negoziati spesso difficili. Ricorda che l’Unione europea si fonda su valori che sanciscono il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, e dimostra che, anche in tempi di crisi economica, la promozione del diritto di asilo è al centro degli sforzi dell’Unione per costruire uno spazio di libertà e giustizia.
Fino ad oggi la nostra politica in materia di asilo era un’opera imperfetta e incompleta. Le marcate differenze tra i vari paesi dell’Unione nell’esito delle domande di asilo, nelle condizioni materiali in cui i richiedenti asilo sono accolti e nei diritti procedurali ad essi riconosciuti avevano ormai compromesso la credibilità e l’efficacia del nostro sistema.
Questa situazione è ingiusta sia per i richiedenti asilo sia per i paesi che li accolgono; è anche uno dei principali motivi per cui un piccolo numero di Stati membri ricevono una quota sproporzionatamente elevata del totale di richiedenti asilo. Attualmente infatti nell’Ue, il 90% di tutte le domande di asilo sono presentate in solo sei Stati membri – di cui tre grandi, come la Francia, la Germania e il Regno Unito, e tre piccoli, come il Belgio e la Svezia e l’Austria.
Il quadro giuridico che abbiamo appena adottato contiene norme comuni dettagliate che definiscono criteri chiari per l’esame delle domande di asilo, procedure più efficaci e migliori condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo.
Sono introdotte garanzie specifiche per determinate categorie di persone vulnerabili, in particolare i minori e le vittime di tortura o violenza, ed è ora espressamente stabilito che gli Stati membri si astengano dal trattenere i richiedenti asilo.
Per quanto riguarda coloro la cui domanda di asilo è stata accettata e a cui pertanto è concessa la protezione internazionale, le nuove norme armonizzano i vantaggi connessi a tale status, in particolare rafforzando i diritti di soggiorno e facilitando l’accesso all’occupazione e all’assistenza sanitaria.
Tali cambiamenti dovranno ora essere attuati in tutta l’Unione per garantire che le norme comuni vengano applicate in pratica. Nei prossimi anni i nostri sforzi si concentreranno sulle misure pratiche volte a garantire norme elevate in tutta l’Unione.
Oltre a dover difendere i valori umani a favore dei propri cittadini, l’Unione europea ha un ruolo di primo piano da svolgere nella comunità internazionale, accogliendo quanti cercano rifugio da guerre e persecuzioni. Abbiamo l’obbligo di trattare ogni persona in modo umano e di offrirle – se si ritiene che abbia diritto alla protezione – la prospettiva di una vita dignitosa e la possibilità di apportare un contributo alla nostra società, qui in Europa. Sono certa che il quadro giuridico per la politica comune europea in materia di asilo da noi concordato ci aiuterà a concretizzare tale aspirazione.
L’autrice è commissaria per gli affari interni dell’Unione europea

Repubblica Lettere 20.6.13
Paolo Izzo

Roma. IN occasione della Giornata mondiale del Rifugiato è bene ricordare che due dei dodici referendum proposti dai Radicali nelle ultime settimane riguardano il tema dell’immigrazione. Le nostre autorità, che spesso omettono di valutare lo “status di rifugiato” dei migranti in arrivo da Paesi in guerra o da condizioni di vita insostenibili, si valgono della introduzione di un reato inesistente: quello di clandestinità. I referendum sono volti ad abrogare proprio questa norma assurda che punisce una condizione piuttosto che una condotta e gli articoli che legano indissolubilmente la possibilità di restare nel nostro Paese alla stipula di un contratto di lavoro, con ciò costringendo centinaia di migliaia di migranti al continuo ricatto dei datori di lavoro oppure a sottomersi al lavoro nero o alla microcriminalità.

l’Unità 20.6.13
A Viterbo il Forum Arci: serve una scossa
di Paolo Beni

Presidente Arci

A DOMANI AL 23 GIUGNO L’ARCI ORGANIZZA IL SUO FORUM NAZIONALE A VITERBO. UN’OCCASIONE DI INCONTRO, scambio di esperienze e dibattito tra i nostri operatori e circoli di tutta Italia, e con la partecipazione di esperti, politici, rappresentanti delle istituzioni. Il titolo può apparire ambizioso – Energie popolari: associazionismo e partecipazione per reagire alla crisi ma parte dalla consapevolezza che il nostro è un Paese ormai stremato da una crisi più grave persino di quella degli anni trenta: una crisi economica, sociale, culturale, che lambisce anche il nostro sistema democratico. Siamo convinti che per risollevarsi ci sia bisogno di una scossa, di un progetto complessivo che dia risposte ai temi del lavoro che non c’è, di una finanza che ha divorato l’economia reale, della povertà che incombe su fasce sempre più ampie di popolazione, di una corruzione che inquina la vita pubblica e sottrae risorse al Paese, di un sistema democratico sempre più indebolito.
Pensiamo che alla costruzione di questo progetto anche l’Arci debba contribuire, con molti altri attori – partiti, istituzioni, organizzazioni sociali, movimenti – in un grande sforzo comune. L’associazionismo può svolgere un ruolo importante, forte della sua vocazione civica e solidale, della sua capacità di promuovere partecipazione, di costruire relazioni tra le persone, di leggere i bisogni e costruire risposte dal basso. L’Arci intende anche contribuire, attraverso il suo lavoro di animazione sui territori, al cambiamento della politica, al rinnovamento della rappresentanza, alla riunificazione di pezzi e culture di una sinistra oggi dispersa. Vogliamo rivisitare e rafforzare quel concetto di associazionismo popolare che ha rappresentato il fulcro della nostra identità ed è la nostra vera forza. Parlare a tanti e non a ristrette elite, dare voce e strumenti per esprimersi a chi ne è privo, raccontare il Paese reale: è così che il nostro sviluppo associativo si intreccia con l’attività concreta di trasformazione sociale.
Durante le giornate di Viterbo ci saranno diversi momenti di confronto organizzati dai gruppi di lavoro tematici dell’associazione. Tra questi, un seminario di due giorni sui temi del protagonismo giovanile, una sessione di lavoro su «difesa del territorio, nuova società e nuova economia», una su politiche sociali e pratiche di mutuo aiuto. E ancora, discuteremo di antimafia sociale, di politiche per l’infanzia e l’adolescenza, di associazionismo culturale e recupero degli spazi urbani, di nuovi modelli di organizzazione collettiva.
Parleremo dei nostri progetti di solidarietà internazionale presentando, tra l’altro, la campagna «I say Palestina» e incontrando esponenti della società civile afgana. Domani celebreremo la Giornata del Rifugiato, ma ricorderemo anche il nostro presidente Tom Benetollo, scomparso nove anni fa. Il 21 lo dedicheremo alla Festa della Musica, che da anni l’Arci celebra in tutta Italia con concerti e iniziative culturali; parleremo anche di «Crisi economica, emergenza sociale e diritti di cittadinanza» con la ministra Cècile Kyenge.
La giornata di sabato sarà tutta dedicata al confronto sulle tante buone pratiche che, in campi diversi, i nostri circoli svolgono sui territori. Ogni serata sarà conclusa da un evento culturale: musica, teatro, proiezioni video. Cercheremo così, attraverso gli strumenti che quotidianamente utilizziamo per costruire aggregazione, partecipazione e coesione sociale, di portare un contributo positivo per contrastare lo smarrimento e il disagio che caratterizza questa nostra epoca.

il Fatto 20.6.13
Seimila euro: diploma assicurato
Indagine sugli istituti privati. Per il titolo basta pagare


La storia non insegna, nemmeno a scuola. Nemmeno quando l’alunno è un po’ di coccio e tende a ripetere l’anno accademico più e più volte.
La storia si chiama “Alunni fantasma” e ha già mandato agli arresti domiciliari una dozzina tra politici e funzionari che avevano messo in piedi un bel sistemino, ovvero “un’organizzazione scolastica di tipo criminale il cui unico scopo è stato quello di assicurare ai clienti dietro cospicui compensi il superamento degli esami di idoneità e di maturità senza che costoro siano stati sottoposti alla benché minima formazione”, hanno scritto i magistrati.
Più precisamente: Gaetano Galeota, 45 anni, indicato dagli inquirenti come il “gestore occulto della scuola paritaria Lucia Pacioli di Nola”, s’inventava classi abbondanti e desiderose di procurarsi i fretta un diploma; idem per Angelo Iervolino, 40 anni, nella nota della Procura descritto come “proprietario occulto” della scuola paritaria Vittorio Emanuele II di No-la”; e soprattutto c’era Roberto Conte, già consigliere regionale nonchè “socio occulto” della scuola Achille Lauro di Torre Annunziata, accusato di chiedere voti in cambio della mirabolante promessa di tanti bei posti di lavoro per insegnanti, bidelli e segretarie.
IL PROBLEMA È CHE quelle scuole private, parificate alle statali, dovevano mantenere un numero minimo di iscritti per restare aperte e offrire il sospirato pezzo di carta: se gli studenti mancavano, bastava inventarseli a registro e incassare la retta degli altri, mantenendo il buon nome della struttura. Per completare del-l’opera, secondo l’accusa, i gestori del business pilotavano gli esami di Stato ottenendo la sostituzione dei membri delle commissioni esterne non graditi con personale docente collegato a Iervolino e al Galeota, garantendosi cospicui ritorni economici.
“Al Pacioli mi sono presentata tre volte per le prove scritte. Mi facevano copiare temi e verifiche su varie materie” ha spiegato una ragazza agli agenti della Finanza. Precisando che a Bologna, la sua città, aveva frequentato un corso ritrovandosi spedita a Nola per sostenere la maturità. Una confessione totale, inevitabile davanti alle intercettazioni di altre studentesse che urlavano al telefono: “Mi avevi promesso un 75, mi spieghi perché ho preso 60 caro Galeota? ”.
Le indagini, partite da Torre Annunziata, proseguono alla procura di Nola, ma la storia vera continua nell’hinterland napoletano dove i pullman consegnano nuovi gruppi di ragazzi pronti a sostenere il fatidico esame. “Abbiamo pagato seimila euro per fare il biennio - spiega un ragazzo al Corriere del Mezzogiorno in un video pubblicato ieri -. E adesso ne abbiamo dati altri 900 per le spese della maturità. Però è sicuro che prendiamo il diploma, qua è facile”.
GLI STUDENTI arrivano da Messina e da Milano, da Roma e Ancona, dormono tutti nello stesso hotel e usano la navetta organizzata direttamente dalla scuola. Hanno in spalla zainetti semivuoti, facce tranquille. Qualcuno pure la mamma al fianco: “Noi siamo della Sardegna, purtroppo abbiamo dovuto spendere un sacco di soldi, almeno siamo sicuri che qua andrà tutto bene” dice la signora con un sospiro. Lei sa che la storia, in pratica, è sempre la stessa.

Corriere 20.6.13
Ha rifiutato le cure per motivi religiosi
Muore di anoressia a 19 anni
La storia di Maria Antonella Mirabelli. Al momento della morte pesava 31 kg. La madre: «Crediamo che Dio curi tutto»
di Angela Geraci

qui

l’Unità 20.6.13
Un pamphlet che va a ruba a Parigi, firmato dal filosofo Jean-Paul Galibert, affronta il tema dei suicidi «da lavoro»
La redditività è assoluta, esige da ogni essere di produrre di tutto ma di costare poco o niente
di Flore Murard-Yovanovitch


L’ONDA ANOMALA DI SUICIDI NELLA RECENTE CRONACA, NON È EPIFENOMENO DEL BEL PAESE. IN FRANCIA, IL SUICIDIO FA PIÙ DI DIECIMILA MORTI ALL’ANNO, senza contare i tentativi, stimati a circa 150 000 all’anno. Eppure, pochissimo è stato fatto di fronte a questa strage all’ultimo posto delle priorità della salute pubblica. Che volto ha, che regola ontologica anima questa nuova società che spinge al suicidio? Ecco la tesi controcorrente del filosofo francese Jean-Paul Galibert in Suicide et Sacrifice. Le mode de destruction hypercapitaliste (Lignes 2012): il sistema attuale -«l’ipercapitalismo» porta al suicidio: è «suicidatore».
Il pamphlet veloce, che va a ruba a Parigi e non è stato ancora tradotto in Italia, non è un trattato di sociologia, bensì un’ introduzione politica engagée alla nostra nuova società del sacrificio. Il vecchio capitalismo era ancora fondato sulla produzione, l’«ipercapitalismo» -, concetto coniato dall’autore, è un modo di distruzione. Svuota, chiude, licenzia. Si fonda sull’«hypertravail» (l’iperlavoro): un doppio modo di sfruttamento totale, dove il consumatore accetta di lavorare per il venditore, per poi comprare la merce; cioè, regala due volte il valore della merce, in cambio di nulla. Un sistema che vende un’immaginario a quello che immagina, nella scia delle scoperte di Guy Debord sulla società dello spettacolo, a cui questo libro è ispirato. Il surlavoro diventa in questo sistema l’unica chance di «esistere» perché unico modo di accedere all’«iperreale».
Nell’ipercapitalismo, la redditività è assoluta, esige da ogni essere di essere assolutamente profittevole, cioè di produrre di tutto ma di costare poco o niente. Smantellato tutto l’apparato produttivo, l’impresa più profittevole è quella che sopprime più salari, opera più licenziamenti e disperazione... Cosa si diventa oggi senza stipendio? Non è il problema del sistema, tutto al più un problema personale, psicologico. L’esistenza non è mai garantita: è insieme fonte del valore dell’oggetto e oggetto di tutte le lotte. Ma una società che inizia per fare coincidere la realtà alle cose inanimate, distruggendola, finisce necessariamente per distruggere la realtà dentro le persone.
Essere suicidario, tra l’altro, non implica necessariamente un passaggio all’atto. La maggioranza dei suicidari, sopravvive in una «vita senza esistenza», ritmata dall’ipersfruttamento. L’ipercapitalismo è ultraliberale, lascia la scelta tra vita ipersfrutatta o l’immolazione, la sua formula tacita è «ognuno è libero di distruggersi».
Il suicido d’altronde è comodo, è un’omicidio senza colpevole, perché la vittima assicura se stessa la propria distruzione. Autorizzate a vivere, sono difatti solo le esistenze assolutamente redditizie, produttori e lavoratori. Cosa fare allora degli operai, dei disoccupati, dei poveri, di quelli che non possono più consumare? Perché non farne, si chiede Galibert, dei suicidati? Dietro l’apparente insostenibilità delle domande, il filosofo denuncia il cinismo totale dell’ipercapitalismo che opera «un triage selettivo tra le esistenze che consacreranno la loro esistenza all’iperlavoro, e quelle che saranno distrutte».
In prospettiva storica, questa nuova fase del capitalismo dove il suicidio è il modo di selezione ideale, apre ad una fase di obbedienza assoluta: «la prima obbedienza assoluta dal periodo della schiavitù : obbedire a tutto o morire» . Per questo motivo l’indignazione è l’esatto contrario del suicidio. L’unica via per uscire da una società suicidatrice, come richiama Galibert: la rivolta collettiva, planetaria e nonviolenta, non a caso vera bestia nera del ipercapitalismo.
L’analisi, per certi tratti violenta, è intelligente e acutissima. Eppure, manca una riflessione sugli aspetti più profondi e invisibili di questa crisi antropologica di dimensione storica. Perché l’identità umana cede di fronte ad una semplice perdita del lavoro? E la rivolta non è forse meglio dell’autodistruzione?



Qui di seguito un paragrafo dell'articolo originale che l'Unità ha tagliato:
"L’analisi, per certi tratti violenta, è intelligente e acutissima. Eppure, manca una riflessione sugli aspetti più profondi e invisibili di questa crisi antropologica di dimensione storica. Perché l’identità umana cede di fronte ad una semplice perdità del lavoro? Perché scegliere l’autodistruzione piuttosto che la rivolta? Il suicidio non sarebbe rivelatore di una già soggiacente malattia mentale ? Un filone di ricerca potrebbe invece indagare come la razionalità imposta a tutti gli ambiti della vita, resa utilitaristica, non lascia all’essere umano la libertà di scoprire la sua vera identità profonda, per una realizzazione di sé che non sia sola materiale ma interna. Il suicidio contemporaneo rivelerebbe allora il fallimento storico di tutta una cultura violentemente razionale che annulla la fondamentale psiche umana".
Il testo integrale si troverà a breve sul blog dell'autrice sull'Unità http://diversamente.comunita.unita.it/


Corriere 20.6.13
America, più limiti all’aborto La Camera approva la legge

Ma la Casa Bianca minaccia di mettere il veto
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Con 228 voti a favore e 196 contrari, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, a maggioranza repubblicana, ha approvato un disegno di legge che vieta di abortire dopo la 20esima settimana di gravidanza. Il limite, secondo la controversa teoria sposata da una minoranza di medici Usa, entro il quale il feto può sentire dolore. Anche se la proposta di legge non ha alcuna chance di diventare effettiva, dato che i democratici controllano il Senato e la Casa Bianca minaccia di porre il veto, il voto è considerato uno spartiacque da entrambi gli schieramenti.
«È un evento storico che spiana la strada alla revisione dell’intera legge», esulta Marjorie Dannenfelser, presidente della potente lobby antiabortista «Susan B. Anthony List», dal nome della celebre attivista Pro-Life scomparsa nel 1906. Di ben altro avviso i gruppi Pro-Choice quali Naral, secondo i quali la norma è «anticostituzionale» perché viola la legge federale Roe Vs. Wade del 1973 che autorizza l’aborto fino alla 24esima settimana di gravidanza.
Contro l’iniziativa che certifica la crescente influenza dell’ala ultraconservatrice all’interno del Gop e rischia di alienargli ulteriormente le simpatie delle donne, si è schierata la Casa Bianca che l’ha già bollata come «un attacco al diritto della donna di scegliere». «Questo disegno è un affronto diretto a Roe v. Wade — spiega — e mostra disprezzo nei confronti della salute e dei diritti delle donne, del ruolo dei medici e della costituzione».
Per lo speaker repubblicano della Camera John Boehner si tratta invece di «una risposta appropriata» alla recente condanna per omicidio colposo del ginecologo di Philadelphia Kermit Gosnell, che nella sua clinica praticava aborti oltre i limiti fissati dalla legge. «Dopo ciò che è successo a Philadelphia — ha detto — la stragrande maggioranza degli americani crede in questa legge».
Dopo essersi focalizzati per anni su un’agenda fiscale- economica, i repubblicani tornano ad occuparsi di temi sociali quali il matrimonio gay e l’aborto. Quest’anno, ben 14 Stati dell’Unione, tra cui Alaska, Georgia, Montana, Utah, hanno varato 32 misure ad hoc che impongono nuove restrizioni sull’aborto. E se i numeri continuano a favorire i democratici, l’ago della bilancia potrebbe presto invertirsi.
«La morte del senatore Frank Lautenberg e la nomina di John Kerry a segretario di Stato hanno finito per vacare due importanti seggi democratici, rispettivamente in New Jersey e in Massachusetts», scrive il Washington Post, secondo cui le prossime elezioni senatoriali nei due Stati Pro-Choice potrebbero «alterare il voto sull’aborto in direzione opposta».

l’Unità 20.6.13
Brasile. Un caos Mondiale
Da San Paolo a Rio cresce la protesta anti Mondiali
In Brasile cresce il movimento contro la Coppa del 2014
In centomila a Rio de Janeiro, 80mila a San Paolo. Si protesta contro gli sprechi delle opere
La gaffe del capo della Fifa Blatter: Il calcio più importante delle insoddisfazioni della gente
di Cosimo Cito


«NON PROTESTATE, NON ORA ALMENO». E POI: «IL CALCIO È PIÙ IMPORTANTE DELL'INSODDISFAZIONE DELLA GENTE». INFINE: «IL BRASILE HA CHIESTO I MONDIALI, NON SIAMO STATI NOI AD IMPORLI». Sono i tre passaggi cruciali, si fa per dire, dell'intervista rilasciata a Rete Globo da Joseph Blatter. Gli indignados da una parte, con le loro rivendicazioni e una protesta sempre più larga, sempre più minacciosa. La Fifa, il calcio, il denaro dall'altra, la difesa impossibile di Blatter, la Confederations Cup oscurata, le spese folli disposte dal governo di Dilma Rousseff per tenere fede agli impegni.
Ieri erano in centomila a Rio de Janeiro, 80mila a San Paolo, altri 70mila nelle altre grandi città del Paese. Il Brasile è sceso in piazza in massa, come non accadeva da almeno vent'anni. Si protesta in ogni angolo del grande paese, 200 milioni di anime e molta rabbia che in occasione della Confederations Cup ha trovato spazio, visibilità e una dimensione inattesa.
Protestano i brasiliani contro il caro vita, ormai insostenibile per le fasce più deboli della popolazione, e contro gli sprechi legati ai grandi eventi che il Brasile organizzerà nel prossimo triennio, il Mondiale di calcio e l'Olimpiade di Rio 2016. A Brasilia erano in 30mila, raccolti intorno al nuovissimo, faraonico stadio Garrincha, un gigante insensato in una città in cui il calcio di fatto non esiste, senza una squadra di club che possa anche lontanamente riuscire a riempirlo.
Così a Manaus, nel cuore dell’Amazzonia, 60mila posti e più di un miliardo di euro spesi per uno stadio che dopo aver ospitato le sue quattro partite del Mondiale 2014 resterà inutilizzato. Intanto la gente muore di fame, nella tenaglia di una pressione fiscale crescente. Anche per questo prima di Brasile-Giappone, la partita inaugurale della Confederations Cup, stravinta dai verdeoro, il pubblico ha sonoramente fischiato la presidente Dilma Rousseff. In quell'occasione Blatter aveva invitato il pubblico a essere più «educato» nei confronti del Capo dello Stato. Ieri il boss della Fifa ha usato parole più dure: «Ho chiesto rispetto per il presidente, possono fischiare me, non mi importa, ma non il loro Capo dello stato, ho chiesto fair play e responsabilità, l'ho fatto per lei, non per me».
La rabbia monta trasversalmente nella popolazione, in strada, a lanciare pietre, molotov, a incendiare cassonetti c'erano i ragazzi delle periferie, ma anche over 40, vessati dal problema della mancanza di lavoro e dall'aumento vertiginoso nelle spese per mobilità, sanità e istruzione. Non ha alternative però il governo, costretto a tassare per rientrare nei costi e rispettare i diktat della Fifa, severissima sui tempi di consegna degli stadi. «Quelli che abbiamo visto in questi giorni aggiunge Blatter sono meravigliosi, veri gioielli, soprattutto il Maracanà e lo stadio di Brasilia mi hanno impressionato. Questo è il calcio, noi siamo qui per offrire divertimento ed emozioni, le proteste sono un fatto interno, di cui deve occuparsi il governo. Aggiungo solo che i Mondiali non lasceranno solo bellissimi stadi, ma anche nuove infrastrutture, hotel, aeroporti, e questi resteranno ai brasiliani».
I costi sociali di quest’opera di maquillage del Paese, l’ottava economia mondiale, la terza dietro Cina e India come trend di crescita nell’ultimo decennio, sono quasi insostenibili per una popolazione che di fatto almeno così sostengono i leader della protesta di strada paga di tasca propria un sogno di grandezza deciso nelle stanze del potere e imposto dall’alto.
Dopo il pugno di ferro e l'uso massiccio delle forze dell’ordine utilizzati nei primi giorni della protesta, ora la presidente Rousseff cerca un dialogo probabilmente impossibile: «Le proteste sono il sale della democrazia» dice, chiedendo misura e la rinuncia alla violenza, dall'una e dall'altra parte. L’ex presidente federale Lula invita il governo a risolvere i problemi «col dialogo e non con la polizia».
La battaglia degli indignados era cominciata davanti allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro, prima di Brasile-Giappone, sabato scorso.
Inizialmente al centro del mirino vi era l'aumento dei prezzi del trasporto pubblico. Il movimento si è poi gonfiato e ha inglobato le istanze di una largo strato della popolazione che chiede un miglior uso dei fondi pubblici, maggiore trasparenza, un maggior dialogo col potere. Una nuova ondata di proteste e manifestazioni è attesa per la notte italiana a San Paolo.
Il movimento potrebbe accompagnare e condizionare l'avvicinamento del paese al Mondiale, il secondo organizzato dalla Grande Madre del calcio, e all'Olimpiade, la prima mai celebrata nell'intero sub-continente. Il popolo, unito, in Sudamerica sa farsi sentire, e rispettare. Piaccia o non piaccia a Blatter.

La Stampa 20.6.13
Brasile, la rivolta si allarga
“Più pane, meno circo” Fra il popolo deluso da Dilma “la banchiera”
In piazza gli ex seguaci della presidente: pensa solo alle multinazionali
di Paolo Manzo


Angela, la chiameremo Angela il transessuale che martedì sera, davanti al Municipio di San Paolo, ha letteralmente salvato una collega giornalista dalla furia cieca di pochi ma esaltati vandali. A viso coperto, volevano scavalcare le transenne con spranghe, pietre e calcioni quello che per loro altro non è che il «palazzo del potere». Angela era lì assieme ad altri 50mila manifestanti brasiliani pacifici e sino all’ultimo ha tentato di bloccare i vandali. Senza riuscirci. Poi ha chiamato la Polizia Militare affinché intervenisse ma, per quasi due ore, davanti al Municipio paulista non si è presentato nessuno, neanche un agente in borghese della P2, l’equivalente della nostra Digos.
Quando la Pm è finalmente arrivata a salvare il Comune, i 50mila manifestanti pacifici si erano intanto spostati sull’Avenida Paulista, il centro finanziario della metropoli, sventolando con orgoglio cartelli del tipo «Non è solo per 0,20 centesimi», un concetto ormai chiaro a tutti. Anche alle Tv e ai giornali brasiliani, compresa la tv Globo che ha acquistato i diritti dei Mondiali e che ieri è stata costretta a mettere in secondo piano persino la Seleçao impegnata contro il Messico per dare spazio agli indignati brasiliani.
Un movimento eterogeneo il loro e che continua a crescere non perché i governanti verde-oro abbiano deciso di aumentare di pochi centesimi di euro i biglietti dei bus, quella è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. «Siamo qui perché vogliamo un Brasile più giusto e meno corrotto», spiegano in coro Stefanie Egedy e Luisa Reis de Leao, due studentesse del movimento di San Paolo che hanno coinvolto nelle proteste anche i professori del loro liceo. «È una vergogna che a Brasilia abbiano speso 1,3 miliardi di reais solo per rifare uno stadio quando là quasi non giocano neanche a pallone, mentre in Brasile i trasporti fanno schifo, la scuola fa schifo, la sanità fa schifo», rafforza il concetto un documentarista di Anonymous Brasil che sta seguendo tutte le principali marce per girare video da mettere poi in rete.
«Haddad (il sindaco di San Paolo, ndr) prendi il bus» gridano in coro sulla scalinata della centrale Praca da Sé paulista almeno 15mila persone che, quando in cielo appare l’elicottero della Globo, cambiano il refrain in «Globo fuori, Globo fora». Molti, la maggioranza degli indignati brasiliani sono di sinistra. Sono i tanti delusi dal Pt, il Partito dei Lavoratori della presidente Dilma Rousseff, accusata di fare politiche troppo a favore di banche e multinazionali, tralasciando sanità, istruzione e trasporti pubblici. Tanti di questi ex elettori di Dilma, la cui popolarità è in calo, arrivano dalle periferie, sono di classe medio-bassa e sono stufi che nel Brasile del boom economico l’unica cosa che cresca per loro siano i prezzi di frutta, verdura, pane e carne, mentre lo stipendio resta fermo. Cominciano però a farsi vedere tra i manifestanti, e sempre più numerosi, anche gli indignati di destra, gente che Dilma non l’ha mai votata e che in corteo gridano a più non posso che Dilma lasci la presidenza. Tra costoro anche parecchi ex esponenti di «Cansei», un movimento nato nel 2007 per chiedere, all’epoca, le dimissioni di Lula.
Il movimento è dunque difficile da definire anche perché, ogni giorno, un tassello creativo si aggiunge alla protesta che ha il fondamentale appoggio degli hacker di Anonymous per organizzare la marcia degli studenti (che sono la grande maggioranza dei manifestanti) e per «craccare» siti governativi. Dopo la sigla Passe Livre che ha acceso la miccia e che vuole un trasporto di qualità a zero costo, dopo «Copa Pra Quem» che ha denunciato gli sprechi del Mondiale e dopo i «Senza Tetto» sloggiati con gli indios dalla zona del Maracana per un parcheggio, ieri a Fortaleza ha fatto il suo esordio per la prima volta il movimento «Mais Pao Menos Circo», Più Pane Meno Circo. I suoi membri, che sono anche tifosi, sono apparsi a Fortaleza prima di Brasile Messico. La maggior parte dei suoi 15mila indignati non sono riusciti ad entrare allo stadio e dopo aver attaccato con pietre le forze dell’ordine sono stati fermati dall’antisommossa della Pm. Alcuni sono riusciti però a entrare ed hanno cantato l’Inno nazionale brasiliano con le spalle rivolte al campo per protestare contro le spese faraoniche volute dalla Fifa. Al momento in cui andiamo in stampa i feriti sono 6, 5 poliziotti feriti e un manifestante. La speranza di tutti è che non ci scappi il morto. A cercare di stemperare la tensione arriva la marcia indietro del sindaco e del governatore di San Paolo: stop all’aumento del prezzo dei biglietti del bus.

Repubblica 20.6.13
Amo la mia Istambul che si è ribellata all’autoritarismo
di Elif Shafak


Istanbul assomiglia a una matrioska: apri una bambola e all’interno ne trovi un’altra. È una città di colori e contrasti. Una città di storie non narrate. E al cuore di tutto c’è piazza Taksim, ora sotto una nuvola di gas lacrimogeni.
Tutto ha avuto inizio dalla protesta pacifica per salvare gli alberi di un parco pubblico. Il governo è stato irremovibile nel proposito di abbattere Gezi Park per ricostruire le baracche dell’esercito ottomano, che verrebbero trasformate in un museo o in un centro commerciale. Il governo ha preso questa decisione senza un opportuno dibattito nella società o nei media. La popolazione non ha avuto la possibilità di esprimere il proprio parere. Molti istanbuliti preferivano proteggere il parco che avere un centro commerciale. Tra di loro alcuni hanno finito coll’occupare il Gezi Park con tende e chitarre. Erano giovani, in buona parte. E non necessariamente politicizzati o impegnati in politica.
La repressione della polizia è stata inflessibile e sproporzionata. I giovani ambientalisti disarmati sono stati picchiati e le loro tende sono state date alle fiamme. Il giorno seguente, quando Internet e i media (alcuni media) hanno iniziato a trasmettere le immagini degli agenti della polizia in assetto di combattimento che facevano un uso eccessivo del ricorso alla forza, la società intera è rimasta sconvolta e sgomenta. Centinaia di persone sono scese in piazza. Le donne hanno partecipato percuotendo coperchi e pentole dai balconi. Liberali, cittadini di sinistra, nazionalisti, kemalisti, aleviti, e giovani… nel giro di pochi giorni perfino i cittadini apolitici si sono politicizzati.
In un’intensa lettera indirizzata al Primo ministro, un giovane istanbulita, direttore creativo di un’agenzia pubblicitaria, ha scritto: “Sa perché sono sceso in strada, mio caro Primo ministro? Perché non voglio che mio figlio viva queste stesse cose. Perché voglio che cresca in un paese democratico”. Gli appelli sinceri e umani come questo sono rimasti inascoltati. I primi giorni per le strade si respiravano speranza e spensieratezza. Questa forma di ottimismo però ha subito lasciato il passo all’amarezza. Come sempre, la violenza della polizia ha innescato la violenza per le strade. Le dimostrazioni sono divampate ovunque come un incendio. In un attimo si sono registrati tumulti in oltre 70 città. Sono rimaste ferite 2400 persone e i morti sono almeno quattro. Da lì sono nate altre proteste, e altre violenze. Il personaggio al centro di tutto ciò, il Primo ministro Erdogan, avrebbe potuto scegliere un approccio più soft, toni più contenuti. Avrebbe potuto placare la folla. Non lo ha fatto. I suoi discorsi, al contrario, hanno attizzato gli incendi. Ha redarguito i manifestanti, chiamandoli “razziatori”. Ogni suo discorso ha innescato una nuova reazione violenta.
Durante questi 13 giorni di sospensione nei quali piazza Taksim è stata occupata dai dimostranti, sono comparsi manifesti di ogni tipo, con l’effigie di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna; con quella di Deniz Gezmis, l’iconico leader della sinistra impiccato negli anni Settanta; con le bandiere turche; con il simbolo della pace. Questi manifesti mettono in luce la eterogeneità dell’opposizione. Persone che di norma non starebbero mai insieme, oggi cantano fianco a fianco in piazza Taksim. A unirle è lo sdegno nei confronti del governo.
Gli eventi non si stanno ancora placando e resta ancora da trovare una soluzione. Dopo giorni di tumulti e tensione, nell’aria si respira l’odore acre dei lacrimogeni, e i cuori sono impregnati di amarezza.
Questa non è la Primavera turca e nemmeno l’Estate turca. Più che altro perché la Turchia è un paese diverso, con una lunga storia di occidentalizzazione, modernità e laicismo dietro di sé. Questo è un bivio per la Turchia e per i politici turchi. Niente sarà più uguale a prima. Questa non è una spaccatura tra “kemalisti” e “islamisti”. All’improvviso il vaso di Pandora è stato aperto, e ne sono usciti nuova rabbia e vecchi rancori accumulatisi nel tempo.
La ragione principale di questi scontri non è l’islamismo, come ipotizzano alcuni commentatori in Occidente. La causa di tutto è l’autoritarismo.
L’autoritarismo ha una lunga storia in Turchia. L’Impero ottomano nacque da una forte tradizione statale. L’élite kemalista modernizzò la società dall’alto verso il basso, poiché credeva in uno stato forte. E così pure il suo evidente avversario, il partito Ak. Ogni qualvolta un’opposizione o la possibilità di un’opposizione prospera, le tendenze autoritarie reagiscono.
In Turchia lo stato è forte e nonostante ciò è trattato come se fosse fragile. È sempre lo stato a essere protetto dalle opinioni critiche dei singoli individui. In una vera democrazia, invece, si proteggerebbe il singolo individuo dallo strapotere statale.
Traduzione Anna Bissanti

l’Unità 20.6.13
TV. Oggi l’ultima puntata di «La Storia siamo noi»


Si conclude stasera (ore 23, Rai 3) con una puntata dedicata a Giorgio Almirante, la lunga avventura televisiva de «La Storia siamo noi» di Giovanni Minoli. Per oltre undici anni il programma ha raccontato i grandi eventi storici, le inchieste, l’attualità e i suoi protagonisti. Per ognuna delle 5000 puntate andate in onda dal 2002 ad oggi, il criterio è sempre il massimo del rigore storico. La puntata su Almirante di Marco Marra si inserisce nella lunga collezione di biografie dei personaggi della politica.

Repubblica 20.6.13
Epurazioni. Quando la politica non tollera il dissenso
L’espulsione della Gambaro dal movimento di Grillo riporta l’attenzione su una
vecchia pratica di partito che si aggiorna con la lapidazione a colpi di “post”
di Francesco Merlo


Sono gli epigoni dei cekisti di Beria e delle guardie rosse di Mao. Premiano la delazione e si eccitano nell’accusa
In una normale democrazia il dissidente è l’avversario che rafforza anche il capo affrontandolo con la dialettica

La macchina del fango, che per Berlusconi è un armamentario di giornali e televisioni, per Grillo è il web, il post, la rete, ma il metodo dell’epurazione è lo stesso e infatti la Gambaro è “tossica” come Biagi e Santoro erano “criminosi”. Così il web diventa una parodia del tribunale del popolo, anche se lo spettacolo è più simile alla lapidazione che all’arbitrio dei giudici: «Chi è senza peccato scagli il primo post».
Contro l’epurata, come sempre, si esercitano i solerti esecutori. I Crimi, i Morra, i Lombardi, i Colletti, gli Incerti, i Nesci sono gli epigoni grotteschi dei cekisti di Beria e delle guardie rosse di Mao, stanano gli epurandi, premiano la delazione, si eccitano nell’accusa, digrignano i denti come i capi-plebe del Sinedrio, sono gli impunti all’ombra del capo che nel dissidente intravede la propria fine e dunque lo ridicolizza o, addirittura, prova a dargli del ladro che ruba sui rendiconti, così come i sovietici e i fascisti provavano a dargli del matto.
Certo, nell’Italia di oggi l’epurazione è uno sfratto e Grillo più che lo Stalin delle purghe conosce l’Orietta Berti di «e qui comando io / e questa è casa mia». Nel suo codice, che è quello del teatro di varietà, chi non applaude disturba, sovverte l’ordine di sala: «si accomodi fuori». Ma se l’Italia è cambiata, le parole sono le stesse: epurare, purificare, depurare e dunque trasformare il dissentire, “non sentire” allo stesso modo, nel dissidére, “sedersi a parte”: via, sciò, dalli all’untore.
E però l’epurato non è più l’eretico che anticipa la storia, come Sacharov per Breznev e come Il manifestodi Pintor e Parlato che portò via dal Pci la fiammella della sinistra illuminista. Oggi è un licenziato, buttato fuori da un padrone più che da un tiranno o da un partito o da una setta. Non rinnegato come Kautsky, ma disoccupato come Fini; non impazzito come il Koestler nel buio a mezzogiorno ma esodato come Bocchino sul quale (ricordate?) si rovesciarono le battute grevi sul cognome che oggi è la cifra stilistica del grillismo e del giornalismo della vecchia destra da casino e da forca che Grillo ispira.
Non c’è nessun motivo che giustifichi l’epurazione, ordigno di guerra pesante, «chi non è con me è contro di me», la sostituzione dell’intelligenza con la scimitarra o «con il calcio nel culo» diceva Bossi quando, prima di essere epurato, epurava mostrando il dito medio a Giafranco Miglio inviato come una «scorreggia nello spazio», e poi a Formentini, a Pagliarini, all’intera Liga Veneta… Eppure, quello stesso Bossi, ora sotto epurazione, dice:«Bisogna esser forti per non epurare ». Scopre, finalmente e sulla sua pelle, la saggezza: «Quelli che la pensano come noi sono quelli che non la pensano come noi» scriveva Sciascia. E Lyndon Johnson, più sboccato: «Meglio averli dentro la tenda che pisciano fuori, piuttosto di averli fuori che pisciano dentro». Borges arrivava alla dissidenza da se stesso: «Mi sono iscritto al partito conservatore. Ma una volta affiliato al conservatorismo, il trionfo radicale mi ha fatto piacere».
E però quella di Bossi non è una storia di (im)purezza ideologica ma di finte lauree e di signorine in cerca di ribalta, di soldi pubblici finiti in comodato, di diamanti e appartamenti. Nel leninismo, che pure praticava il furto e l’esproprio proletario, il cerchio magico come crapula di famiglia non era previsto. E la Chiesa non epurava e non bruciava i ladri, ma gli eretici. Perfino nella mafia, dove l’epurazione è annientamento fisico anche dei figli e dei nipoti, i ladri vengono abbandonatie non epurati.
Bossi sa bene che le epurazioni della Lega sono sempre state ingiunzioni padronali, sgomberi. Ecco perché cacciandolo, la Lega caccia il padrone e si spegne: è la signora messa alla porta dalle serve. Non ci sarà mai un Kruscev del dito medio e neppure un Gorbaciov dell’ampolla padana, nessuno storico racconterà il celodurismo diviso, come la filosofia di Hegel, in una corrente di destra e una di sinistra che si epurano a vicenda perché, come diceva Nenni, «c’è sempre un puro, più puro di te, che ti epura».
In una normale democrazia il dissidente è l’avversario che rafforza anche il capo perché lo affronta con la dialettica, libro contro libro, intelligenza contro intelligenza. La scorciatoia dell’epurazione che rimanda alla purezza religiosa e quindi all’inquisizione oggi è anche ridicola perché non ci sono più le fornaci delle ideologie, delle chiese politiche, e forse non ci sono neppure gli ideali … In Italia poi anche l’epurazione di guerra è stata «una burletta» scrisse Alessandro Galante Garrone: «Si sarebbe dovuto procedere dall’alto. Invece ci si accanì contro gli applicati d’ordine e gli uscieri, o magari il capofabbricato che aveva indossato la divisa per vanità».
Gli storici ancora si dividono sull’amnistia di Togliatti che liberò i fascisti, sulla resistenza che divenne desistenza, sullo Stato fascista che si mutò in democristiano, sull’epurazione del signor Piscitello (pescepiccolo appunto) raccontata da Vitaliano Brancati. Avventizio al Comune, fu convocato dal podestà fascista che doveva epurarlo dall’ufficio perché non iscritto al partito. Per iniziativa della moglie, che non lo voleva più avventizio («avventizio, sei solo un avventizio», gli gridava attraverso la porta del bagno), Piscitello si fabbricò allora un’identità fascista, addirittura di marciatore su Roma. Poi, finita la guerra, il podestà, post fascista senza essere stato antifascista, di nuovo doveva epurarlo perché Piscitello addirittura aveva marciato su Roma. E Piscitello inutilmente presentò un certificato medico dal quale risultava che già a quei tempi aveva il morbo di Parkinson e che dunque mai avrebbe potuto marciare, ma solo marcire.
Come si vede, l’epurazione all’italiana era già stata commedia e infatti al cinema la portarono sia Paolo Stoppa sia Alberto Sordi. Del resto, è stato commedia sbracata anche Storace che, presidente della commissione di Vigilanza della Rai negli anni bui del Berlusconi padrone di tutto, si compiaceva del soprannome di Epurator poi esteso anche alla figlia che, ignara e innocente, divenne Epurina. Ebbene, alla storia dell’epurazione all’italiana, che è ferocia senza grandezza, Grillo non porta nulla di leggero e di pulito, ma solo il ghigno truce di chi non sa ridere di sé e festeggia il neopresidente della vigilanza Rai Roberto Fico, infilandogli in tasca un pizzino con i nomi dei giornalisti da epurare, ovviamente approvati dal web-sinedrio. Primo: Floris. Secondo:…

Repubblica 20.6.13
Le tappe
Da Silla a Stalin, la sindrome storica del “purificatore”
di Massimo L. Salvadori


Quelle totalitarie si rivolgevano sia all’interno contro gli appartenenti alle schiere dei buoni che avevano tradito sia all’esterno nei confronti delle forze schierate a difesa del mondo vecchio, malato, decadente, inquinatore dei principi intangibili della globale rifondazione dell’ordine giusto a cui a nessuno era dato di resistere

Eliminare per purificare, isolare la fonte del male per preservare intatta quella del bene. Tra l’epuratore e l’epurato scatta pertanto un rapporto oggettivo e soggettivo di reciproca inconciliabile ostilità. La storia di questo rapporto è antica come il mondo. Il meccanismo dell’epurazione si ripresenta ogni qual volta il nucleo dominante di un’entità umana — sceso in lotta con altre entità con la volontà di far prevalere un tipo di ordine e di identità nella sfera ideologica, politica, religiosa, etnica o d’altra specie — avendo scoperto o ritenendo di avere scoperto al proprio interno dei devianti, degli eretici, dei traditori, procede ad eliminare questi ultimi al fine di riaffermare e preservare la propria originaria purezza.
Dove vi è un’ortodossia o comunque un forte nucleo di interessi da difendere ritenuti minacciati, vi sono nemici da combattere ed eliminare. Le epurazioni implicano sempre il ricorso a forme di violenza e portano con sé la pratica delleespulsioni. Tali forme possono non assumere un carattere fisico, ancorché in ogni caso accompagnate da accuse più o meno aspre di infamia, di indegnità — come le espulsioni da questa o quella organizzazione — ma anche manifestarsi nella caccia all’uomo, nella ghettizzazione, nella reclusione di singoli individui e di masse intere per arrivare allo sterminio e al genocidio. Dal mondo antico al mondo contemporaneo si è assistito a un susseguirsi di epurazioni su grande scala accompagnate da efferate crudeltà: si è epurato, dicevo, per motivi politici, religiosi, etnici, ecc., con un incrociarsi sovente degli uni con gli altri. Procedendo solo per esempi: Silla fu il prototipo dello spietato epuratore, il triumvirato Antonio-Ottaviano- Lepido superò Silla, le vicende della Francia dalla rivoluzione alla Restaurazione furono un succedersi di impietose epurazioni, aprendo il capitolo delle grandi epurazioni culminate nell’età contemporanea. Si tratta di quelle che hanno trovato il punto estremo nelle tecniche di inumana repressione messe in atto dai regimi totalitari nell’Unione Sovietica, nella Germania nazista, nella Cina maoista, in cui gli uni impararono dagli altri. Bisognava epurare, tagliare i corpi infetti, annientarli — scatenando il «grande terrore» purificatore — per impedire loro di ostacolare i progetti di rinascita definitiva della società. Le epurazioni totalitarie si rivolgevano sia all’interno contro i già appartenenti alle schiere dei buoni che avevano tradito sia all’esterno nei confronti delle forze schierate a difesa del mondo vecchio, malato, decadente, inquinatore dei principi intangibili della globale rifondazione dell’ordine giusto a cui a nessuno era dato di resistere. La logica è: si salvaguardia la purezza e ci si rigenera solo attraverso la continua vigilanza e l’espulsione di chi traligna. Questa logica la espose con la massima chiarezza Stalin nel 1926, quando in piena lotta con Trockij e gli altri oppositori spiegò che tutta la storia del bolscevismo dalla sua fondazione in avanti insegnava che la via del successo era passata e passava attraverso «il superamento delle divergenze all’interno del partito mediante la lotta» per liberarsi di quanti divenuti complici e agenti del fronte nemico.
Si è detto che dove vi è stata ortodossia da affermare e difendere è sempre comparsa la coppia epuratore/epurato e ci sono citati esempi tratti dalla politica. Manon si dimentichi quale ruolo dominante la coppia abbia avuto nella storia delle religioni, a partire da quelle cristiana e islamica. Contrasti implacabili tra ortodossi ed eretici, fedeli e infedeli, credenti e non credenti, inquisizioni, processi, condanne, roghi, esecuzioni. Da un lato i custodi della purezza, dall’altro i divenuti impuri o i mai divenuti puri.
Oggi, da noi, si aggirano nei meandri della politica nazionale i Grillo e compagni, i Maroni e compagni nelle vesti di «difensori della fede» intesi a epurare i reprobi accusati di aver tralignato e meritevoli, quando rifiutino di recitare il mea culpa, di essere espulsi. Certo il meccanismo dell’epurazione è sempre nella sua essenza quello sopra delineato. Ma, di grazia, teniamo fermo il senso della misura ovvero della differenza incommensurabile che separa i grandi epuratori da questi nostri inquisitori ed epuratori paesani. È la differenza che passa tra la tragedia e la commedia, sebbene — e anche questo occorre dire — la sgradevole commedia recitata dai Grillo e dai Maroni è un qualcosa che vorremmo ci fosse risparmiata anzitutto nelle sue forme ridicolmente rituali. Se devono regolare contrasti interni, lo facciano, ma senza le tante chiacchiere sulla difesa dei sacri e puri principi, dell’identità originaria violata. Un po’ di sano senso della laicità, anche in politica.

Repubblica 20.6.13
Da Allen a Bellocchio, quando il cinema non fa melodramma
di Guido Barbieri


«L’opera è come il baseball. Se conosci le regole ti diverti, ma se non le capisci è una noia infinita». Woody Allen fa filotto, come al solito: l’opera è un linguaggio e se ti vuoi divertire, che tu sia un regista o uno spettatore, un cantante o un macchinista, devi imparare le regole. Altrimenti, la seconda volta al Metropolitan non ci torni: come a un match dei New York Yankees.
Deve essere per questo motivo che il rapporto tra il teatro d’opera e i registi cinematografici, è, da sempre, una vera e propria relazione pericolosa. Perché molti di loro non riescono o non possono, nel giro di tre settimane di prove, dimenticare la lingua del cinema e imparare quella dell’opera. E rimangono il più delle volte senza una grammatica e senza una sintassi. I fallimenti non si contano. Lo stesso Woody Allen, nel 2008, ha trasformato GianniSchicchi di Puccini in una farsa colma dei più triti luoghi comuni sulla “italianitá”. Ferzan Ozpetek, un paio d’anni fa, ha messo in scena al Maggio Fiorentino, una Aidatalmente convenzionale da far nascere il sospetto di uno strano complesso di inferiorità. Lo stesso gesto di «sottrazione» lo compie, di solito, Werner Herzog che rinuncia totalmente, nelle sue regie operistiche, alla visionarietà inquieta dei suoi film. E non sono stati più felici, dispiace ammetterlo, gli incontri tra William Friedkin e ilWozzek di Berg, Carlo Verdone eIl Barbiere di Sivigliadi Rossini, Marco Bellocchio e ilRigoletto di Verdi. Una eccezione fuori dalle regole (anzi dentro le regole...) la cruda, amarissima visione diCosì fan tutteimmaginata quest’anno da Michael Heneke per il Teatro Real di Madrid. Sulla carta la sa lunga, ancora un volta, il vecchio Woody: «Al cinema non esiste una cosa così lunga come un’aria. E io le cose lunghe non le sopporto». Le regole, appunto...

il Fatto 20.6.13
Così Marzullo ha scoperto la decrescita felice
di Nanni Delbecchi


Noi non siamo soli. Ognuno di noi è parte di un cosmo che ci unisce e il teatro è la prova vivente di tutto ciò… Così parlò Pippo Franco, emerso dal teleschermo nel cuore della notte come per un sortilegio. Lo spettatore insonne, in dubbio se la vita sia un sogno, si dà un pizzicotto, ma Pippo non sparisce, resta con l’ostinazione tipica della realtà, continua a discorrere, a filosofare di vita, teatro e fratellanza energetica. Strano ma vero. Sembra che quell’ospite in primo piano parli da solo proprio mentre sostiene il contrario, una specie di flusso di coscienza alla Virginia Woolf; solo che è Pippo Franco, indiscutibilmente Pippo Franco, tanto è vero che tra una considerazione cosmologica e l’altra promuove il suo prossimo show che debutterà alla Quercia del Tasso. Così arriva l’illuminazione. Pippo Franco dice il vero, anche lui, nonostante le apparenze, non è solo; ha davanti a sé Gigi Marzullo, risponde alle sue domande nella penombra azzurrina del suo studio, è ospite del programma Applausi, una delle tante creazioni dell’offerta marzulliana. Si sapeva che Gigi, promosso vicedirettore, a partire da giugno avrebbe dovuto rinunciare ad apparire in video. Una specie di rivoluzione copernicana per la notte di Raiuno visto che, con i suoi programmi che abbracciano ogni branca dello scibile, l’uomo vanta più presenze sul servizio pubblico di Buffon in Nazionale. La notte di Raiuno senza Marzullo. Possibile? Noi stessi stentavamo a crederlo e speravamo in un miracolo.
EBBENE, IL MIRACOLO c’è stato. Stavolta Tolomeo ha battuto Copernico. Mentre tutti si riempiono la bocca con la decrescita più o meno felice, Marzullo con un colpo di genio l’ha messa in pratica, una decrescita felice, estatica, un capolavoro di gattopardismo dove si dimostra che, davvero, less is more. Gigi da Avellino come Mies van der Rohe, anche meglio. L’assenza fisica lo rende ancor più presente: come se fossero voci di dentro, gli ospiti rispondono ai suoi leggendari tormentoni sull’infanzia, la carriera, la famiglia, il mistero della vita e della morte. E volano alto. Ecco Bianca Guaccero, ospite martedì notte a Sottovoce: “C’è in me una grande dicotomia tra il mondo delle scienze e il mondo della letteratura…”. “La letteratura è la cosa che mi ha aiutata a sentirmi meno sola nella mia follia…” . “Ho anche una grande passione per l’astronomia. Guardare il cielo nella notte mi spinge a pensieri molto infiniti…”. Ed ecco il boudoir similfreudiano, l’atmosfera ovattata, l’album delle fotografie, la pianista che suona la canzone del cuore, il sogno ricorrente interpretato al telefono dalla psicologa…”
Come sarà riuscito a ottenere così tanto con così poco? Azzardiamo una spiegazione: dopo vent’anni di trattamento intensivo allo star system nostrano, Marzullo è come il Nerone di Petrolini, lui non deve più fare niente, gli ospiti gli rendono omaggio in automatico perché la marzullità è diventata una categoria dello spirito. E come sempre, quando c’è di mezzo lo spirito, apparire diventa superfluo. Pippo Franco ha ragione: non siamo soli. C’è sempre un Marzullo accanto a noi, e forse dentro di noi, soprattutto se non lo vediamo.

l’Unità 20.6.13
Intervista a Joumana Haddad
«Dichiaro guerra a Superman»
La scrittrice libanese sempre al centro di furibonde polemiche:
«Serve una rivoluzione nel genere maschile che sia radicale e non violenta.
E deve iniziare nel rapporto tra madri e figli»
di Giuliano Battiston


ADOLESCENTE CINICA E DISINCANTATA, JOUMANA HADDAD RICORDA DI AVER AVUTO IL SUO «BATTESIMO SOVVERSIVO» QUANDO, A DODICI ANNI, SI È IMBATTUTA NELLE OPERE DEL MARCHESE DE SADE. Quella ragazzina libanese che leggeva letteratura «dissoluta»è diventata una donna che scrive poesia erotica, dirige una rivista sul corpo e la sessualità, Jasad, e non perde occasione per demistificare i tabù che ronzano intorno alla «trinità sacra e intoccabile» di sesso, religione e potere. Accusata di essere immorale, dissoluta e corruttrice, la responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese An Nahar non teme le scomuniche dei «retrogradi oscurantisti». E dopo Ho ucciso Shahrazad torna a ironizzare su di loro e sulle loro debolezze nel suo ultimo libro, Superman è arabo. Su Dio, il matrimonio, il machismo e altre invenzioni disastrose (Piccola biblioteca Oscar Mondadori, trad. di Denise Silvestri, euro 10.50).
Cosa intende quando scrive che «quella di Superman è una menzogna: disgustosa, pericolosa, velenosa, oltre che suicida»?
«Dopo Ho ucciso Shahrazad, in cui ho affrontato i temi della femminilità araba, ho voluto dedicarmi alla mascolinità araba, che giorno dopo giorno affonda nell’aggressività, un prodotto dell’insicurezza maschile. Questa non è la vera mascolinità ed è arrivato il tempo di “salvarla” e reinventarla. Quella di Superman non è solo una menzogna, ma una vera malattia. Il libro è un urlo in faccia alla specie dei macho, dell’uomo di Neanderthal, la specie del “tu esisti solo nella mia ombra”. Sarebbe bello pensare che questa specie si sia estinta, che le rivoluzioni arabe stiano per farla giungere a termine, ma quella specie è ancora dappertutto».
Lei invoca una rivoluzione maschile «radicale, strutturale, non violenta», che produca e sia prodotta da un nuovo tipo di uomo, capace di riconoscere in modo liberatorio e catartico le proprie debolezze. Da dove cominciare per trasformare i Superman in «uomini veri» con le loro insicurezze?
«A casa, con l’educazione dei nostri figli. A volte, anche la madre partecipa alla continuazione della specie dei Superman. Le donne devono liberarsi della tendenza a sottostimarsi, a considerarsi meno forti e capaci degli uomini, e a veicolare questa inferiorità ai loro figli. Ci sono tante donne che scelgono maschi “alfa” invece di uomini decenti; che educano i loro bambini a essere dei superuomini e le loro bambine a essere docili; che restano in silenzio quando non dovrebbero, o predicano ad altre l’obbedienza e la sottomissione. Anche loro devono guarire da questo masochismo sociale e intellettuale»
Con il Christopher Hitchens di «Dio non è grande» lei condivide una profonda avversione per le religioni monoteiste, a cui imputa il rafforzamento dei modelli patriarcali. Perché?
«Le tre religioni monoteiste promuovono e rinforzano i modelli patriarcali, l’umiliazione delle donne, la loro sottomissione. Tutte e tre sono oppressive e misogine, ognuna a modo suo, oltre a essere razziste, sessiste, omofobiche, sanguinarie e ostili verso la libertà e i diritti umani. L’ho scritto e lo ripeto: sono istituzioni create dai maschi e dal potere, che puntano a controllare le persone e la loro vita, sfruttando perfino le guerre e il terrorismo»
Per lei, la laicità una condizione necessaria ma non sufficiente per l’uguaglianza di genere. Anche per questo, considera il femminismo islamico un «ossimoro deprimente»...
«È inutile cercare il cambiamento all’interno di quello che definisco come il “frutto marcito”. Non c’è incontro possibile tra gli insegnamenti monoteisti attuali e la dignità e i diritti delle donne. Il femminismo è laico, punto. Mentre i diritti umani sono universali, non un monopolio dell’Occidente. La laicità non è l’unica garanzia di un’uguaglianza fra i generi. Ma è un primo passo fondamentale per ottenerla».
Nel libro si chiede se la cosiddetta «primavera araba rappresenti davvero una primavera anche per le donne.
«Sono in ansia anche perché so che l’Islam serve la causa della destra estremista in Occidente, producendo radicalismo su entrambi i fronti. Bisogna sbarazzarsi degli strumenti patriarcali e dei sistemi che, fingendo di proteggere le donne, usano questa “protezione” per giustificare la loro oppressione».
Non crede che la «primavera araba» sia comunque riuscita a scalfire quei muri da martellare di cui lei scriveva in «Ho ucciso Shahrazad»?
«Quei muri sono caduti solo in apparenza. E noi siamo ancora a un inizio deludente e pieno di difetti. Spodestare un dittatore è solo il primo passo verso un vero cambiamento. Nel mondo arabo, la transizione dall’autocrazia alla democrazia e dall’autoritarismo al pluralismo deve passare per la fase di un governo islamico. Nel libro lo chiamo un “purgatorio” necessario. Ma la strada è ancora molto lunga»