venerdì 21 giugno 2013

il Fatto 21.6.13
Cose sante. Indagine dei pm di Roma
Il prete pedofilo vuota il sacco: “Così funziona in Vaticano”, il Vaticano trema
Scontata una condanna a 5 anni, don Poggi ha chiesto di essere “reintegrato”, ma la Chiesa ha detto “no”
E allora ha deciso di fare i nomi: sfilata di sacerdoti a Palazzo di Giustizia
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


IL SACERDOTE PEDOFILO “COSÌ FUNZIONA IN VATICANO”
INCHIESTA A ROMA SU UN GIRO DI PRELATI. TUTTO PARTE DA L L’ACCUSA DI DON POGGI, CONDANNATO PER VIOLENZA SUI MINORI

C’è un’indagine della Procura di Roma che sta scuotendo la Chiesa romana. Da un mese a questa parte molti prelati sono stati sentiti a sommarie informazioni dal procuratore aggiunto Maria Monteleone, titolare della delega sui reati sessuali. Il fascicolo contiene i nomi di molti uomini di Chiesa accusati di atti sessuali su minori da parte di un loro collega: don Patrizio Poggi, un parroco che forse non ha rispettato tutti i comandamenti, a partire dal sesto, ma che conosce molto bene un passo dell’Antico Testamento: “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Come Sansone, anche don Patrizio si è sentito umiliato. Certo, la sua colpa era molto grave: avere abusato negli anni Novanta dei ragazzini che gli erano stati affidati dai parrocchiani.
DON PATRIZIO però voleva rientrare nella sua Chiesa e, di fronte all’ennesimo rifiuto ricevuto dalle alte gerarchie vaticane, ha pensato bene di scuotere con la sua deposizione di accusa le colonne portanti della sua casa per vendicarsi. Il fascicolo è seguito con attenzione dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, un cattolico che guida un ufficio giudiziario a poche centinaia di metri dal Cupolone. Gli accertamenti sulle dichiarazioni sono molto scrupolosi e sono ancora in corso.
Don Patrizio Poggi, 46 anni, è diventato famoso nel 1999 quando tutti i quotidiani hanno riportato la sua condanna a 8 anni di reclusione per atti di pedofilia su alcuni minori della sua parrocchia. Nei gradi successivi la pena è stata ridotta a 5 anni e il sacerdote ha scontato interamente il suo debito con la giustizia. Stufo di essere trattato da tutti come un reietto, ha chiesto ai vertici del Vaticano di essere riammesso a celebrare la messa e a dare i sacramenti come se nulla fosse. La Chiesa di Francesco non può permettersi un simile passo falso e l’ex viceparroco è stato tenuto fuori dalla porta.
Lui per tutta risposta si è ricordato di Sansone e si è presentato davanti ai Carabinieri per raccontare tutto quello che sostiene di sapere sulla pedofilia nella Chiesa di Roma, e non è poco. Don Patrizio ha raccontato di conoscere i comportamenti sessuali di un monsignore con la passione dei ragazzini che riveste un ruolo importante nella sua Diocesi e che è anche il segretario di un vescovo molto importante.
Nel racconto di Poggi non mancano i particolari sui comportamenti vietati che avrebbero coinvolto anche alti prelati e parroci legati in una sorta di lobby gay, come è stata definita da Papa Bergoglio, con in più la passione degli adolescenti. Inoltre don Patrizio ha descritto anche i canali per agganciare i giovani desiderati dai prelati. E ha indicato in particolare il nome di un soggetto che avrebbe avuto questo ruolo.
Sono accuse gravissime e tutte da provare. I Carabinieri del Nucleo investigativo di Roma guidato dal colonnello Lorenzo Sabatino hanno effettuato pedinamenti e indagini a tutto campo per riscontrare le accuse circostanziate di don Patrizio Poggi. Non tutto quello che ha raccontato l’ex viceparroco è stato verificato dagli investigatori anche se, almeno in un caso, i carabinieri hanno assistito in diretta a un incontro sospetto in una Chiesa.
Don Patrizio è una persona che non ha molto da perdere. Nel marzo del 1999 il Giudice Edoardo Landi lo ha spedito agli arresti domiciliari con l’accusa di avere abusato sessualmente di 5 ragazzini tra i 14 e i 15 anni che frequentavano la sua parrocchia, San Filippo Neri, al confine tra Boccea e Primavalle.
AL CRONISTA del Fatto che ha chiesto di lui ieri, i suoi ex parrocchiani hanno risposto: “non sappiamo più nulla di lui”. Un signore anziano che collabora con tutti i parroci da decenni ha aggiunto con una smorfia in volto: “Si è comportato male con mio figlio e se mi passasse davanti lo metterei sotto con la mia automobile”.
La polizia era partita dalla segnalazione di un obiettore di coscienza che era stato inviato a compiere il suo servizio civile nella parrocchia di San Filippo Neri. Stimolati dal giovane che aveva colto i segnali di malessere nei ragazzi, i genitori avevano posto le domande giuste per poi descrivere ai poliziotti quello che avevano saputo dai figli.
L’avvocato che difendeva don Patrizio minacciò querele ed esposti per calunnia. Poi, dopo gli arresti domiciliari e la condanna, don Patrizio era stato spedito dalle gerarchie vaticane in una comunità religiosa del Nord. Prima di ricomparire in una caserma dei Carabinieri. Stavolta nella veste di accusatore.

il Fatto 21.6.13
Gustavo Zagrebelsky
“Bis al Quirinale e larghe intese: paralisi politica”
Il costituzionalista: dietro queste proposte di riforme ci sono logiche di conservazione di poteri e interessi
Il presidenzialismo? Con il Parlamento in queste condizioni è un rischio per la democrazia Truzzi pag. 3  
Rischiamo derive da Terzo mondo
intervista di Silvia Truzzi


Capita talvolta che i ruoli s’invertano. “Lei sa che significa la parola parresia? ”, domanda l’intervistato. “Attitudine a dire la verità. Perché me lo chiede? ”. Gustavo Zagrebelsky esita nel rispondere: “Perché questa virtù – parlar chiaro e libero, e agire di conseguenza – mi pare oggi alquanto sbiadita. Il contrario è ipocrisia: negarsi al dovere di dire la verità o dire una cosa per volerne un’altra”.
Esempi, professore?
Stiamo parlando di riforme costituzionali: i discorsi in privato contraddicono quelli in pubblico. Oppure, ci si convince del contrario di quel che si è sempre pensato. Opportunismo o spirito d’omologazione.
Diceva anche: dire una cosa per intenderne un’altra.
Pensi alle “riforme”. Viviamo in tempi d’inceppamento. C’è un sistema di potere che non vuole o non riesce a rinnovarsi. Perciò si cristallizza. Le “larghe intese”, la rielezione della stessa persona a capo dello Stato: non sono due clamorose dimostrazioni di paralisi politica? Qui, nella stasi, s’innestano le riforme e la loro retorica. Ma riforme per cosa? Per aprire, rinnovare, vivificare oppure per afferrare più saldamente il potere, stringendolo nelle mani di sempre, per garantire perduranza d’interessi e pratiche consociative? In una parola: riformare per non cambiare. Mi riferisco agli strateghi del presidenzialismo.
Perché il presidenzialismo sarebbe strumento di conservazione?
Il presidenzialismo, nelle sue varianti, più di qualsiasi altro sistema cambia d’aspetto a seconda delle società ove opera. È camaleontico. Pensi al semi-presidenzialismo francese e alle sue imitazioni africane. Sono la stessa cosa? No. Gli “ingegneri costituzionali” si occupano di formule, ma i costituzionalisti sanno che le costituzioni sono fatte, sì, di formule, ma anche di storia, cultura, abitudini, vizi e virtù. Quale ignoranza nel pensare che la riforma della costituzione sia una questione di modelli astratti d’importazione!
Ha paura che veleggiamo verso il Ruanda più che verso la Francia?
Non facciamo terrorismo costituzionale. Tuttavia, saremmo ciechi se non ci preoccupassimo di alcuni fattori condizionanti. Il primo è la corruzione. Dove la corruzione è diffusa, i presidenzialismi sono non solo essi stessi corrotti, ma ne diventano garanzia. Il secondo è la cultura politica che, in nome della storia, delle libertà, delle tradizioni repubblicane, eccetera, trattiene dall’abuso del potere. Il terzo è la coesione sociale. Dove la convivenza è minacciata dalle disuguaglianze, dalla mancanza di lavoro, dall’abbandono a se stessi di cittadini più deboli, è forte la tentazione di cercare la pace sociale non nella partecipazione democratica, ma nelle misure energiche d’ordine pubblico. Da noi? Come stiamo a corruzione? A incultura politica? A ciò che, pudicamente, si chiama disagio sociale? Chiederei: che ne è del conflitto d’interessi? Credete che si possa pensare a un’elezione diretta del capo del governo senza avere sciolto il nodo che lega politica, economia, informazione?
Teme per la democrazia?
Nelle attuali condizioni sì. Di fronte alle difficoltà, non c’è il rischio che si dica: pensaci tu al posto nostro; fagliela vedere tu a questi queruli e fastidiosi postulanti che chiedono diritti e disturbano la (nostra) pace sociale? Quella massa di elettori mancati, quando si muoveranno, dove andranno a parare?
Il sistema parlamentare non è a sua volta in crisi?
Certamente! Ma, mi pare che la via per uscirne sia rinnovare la politica, cambiare dall’interno i partiti, non temere l’irruzione delle novità, ma assecondarle e costituzionalizzarle, come avviene nelle democrazie non assediate dalla paura del nuovo. Prima, il rinnovamento della politica; poi, eventualmente, la riforma della forma di governo.
Sulle “forme delle riforme” regna una grande confusione. Non si capisce bene quale ruolo abbia la commissione degli esperti e quale il governo. Che c’entra il governo con un percorso che dovrebbe essere parlamentare?
Si vuol seguire una procedura farraginosa, molto più complicata dell’articolo 138. In più, questa farraginosa procedura presuppone una legge costituzionale che la codifichi, da approvarsi con le procedure oggi vigenti. Chi guardasse dall’esterno, penserebbe che si vuole complicare per non fare nulla. Invece, la verità è che, con questo procedimento, non si esautora il Parlamento, ma lo si mette alle corde. Ricorda il discorso del presidente della Repubblica, al momento della sua rielezione? Si è trattato d’un atto d’accusa contro le Camere inconcludenti, che i parlamentari hanno incassato senza battere ciglio. Così, sullo svolgimento della nuova procedura vigilerà il governo, con l’aiuto dei suoi consulenti, sotto l’egida del capo dello Stato e secondo un “cronoprogramma” che dovrebbe garantirne la conclusione entro 18 mesi. Dove sia questa garanzia, però, nessuno lo sa. I Parlamenti, per definizione, sono padroni dei propri tempi e lavori: ci mancherebbe che non fosse così! Per ora, si sa solo che i 18 mesi suonano piuttosto come garanzia di durata del governo. E non vorremmo credere che la garanzia stia nella minaccia di dimissioni del presidente della Repubblica, dimissioni che, come sanno i costituzionalisti, non sono affatto nella sua disponibilità secondo valutazioni politiche e che precipiterebbero la situazione nel caos.
C’è una riforma necessaria e urgente?
Sì, lo si è detto infinite volte: la riforma della legge elettorale. Non sto a ripetere le ragioni. Faccio solo osservare che, per riconoscimento unanime, quella attuale è giudicata incostituzionale. Dunque, per quanto si voglia voltare lo sguardo dall’altra parte, noi abbiamo – unici nel mondo delle democrazie – un Parlamento carente di legalità costituzionale. Se poi consideriamo che la formula del governo di larghe intese – necessitata o non: non è questo il punto – non ha alcun rapporto, anzi è in contrasto, con la volontà degli elettori e con il risultato elettorale, allora al deficit di legalità si aggiunge un altrettanto, anzi più, grave deficit di legittimità. E, in queste condizioni, si pensa di dare al nostro Paese una nuova costituzione? Non è ybris, presunzione?
Sulle riforme gravano poi le incognite legate ai processi Berlusconi. Che opinione s’è fatto della decisione della Consulta sul legittimo impedimento nel processo Mediaset?
Da quel che si sa, mi pare che la Corte abbia fatto applicazione rigorosa dei suoi precedenti. Chi parla di contraddizione, dovrebbe avere cura di studiare un poco e non falsificare i dati. Il punto è la cosiddetta “leale collaborazione” tra governo e autorità giudiziaria. La leale collaborazione non significa affatto autorizzazione a una delle parti perché possa boicottare l’attività dell’altra. Significa che entrambe devono cooperare per un fine comune, il corretto esercizio di funzioni che hanno la medesima dignità costituzionale. La Corte ha ritenuto che da parte dell’allora presidente del Consiglio vi sia stato proprio questo boicottaggio dell’attività giudiziaria. Non c’è nulla d’aggiungere.

il Fatto 21.6.13
Saggi e comitato per ritoccare la Carta in diciotto mesi


DUE SETTIMANE FA , dopo qualche giorno di incertezze, il premier Enrico Letta ha nominato i 35 saggi che avranno il ruolo di comporre la commissione parlamentare dei 40 per le riforme istituzionali. I saggi, che vanno da Luciano Violante ad Angelo Panebianco, dovranno redigere un programma e seguire l’iter parlamentare del disegno di legge che in questi giorni naviga in Senato. I saggi sono stati accolti al Quirinale e sono operativi. Il Comitato dei 40 avrà, a cui i saggi faranno da tutor, sarà composto dai parlamentari delle commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato, e avrà 4 mesi di tempo per svolgere il proprio lavoro. Il limite posto dal governo è di 18 mesi. In deroga all’articolo 138 della Costituzione a ogni Camera sarà permesso limitare l’intervallo tra le 2 letture da 3 a un mese.

il Fatto 21.6.13
Chi annuncia le riforme non vuol cambiare nulla
di Tomaso Montanari


Governo Letta-Letta, e addirittura un presidente della Repubblica che, al secondo mandato e vicino ai novanta, guida direttamente una riforma della Costituzione attraverso una supercommissione non prevista dalla Costituzione stessa? Ma dopo aver letto Contro riforme di Ugo Mattei tutto questo sembra drammaticamente “normale”: l’ovvio sbocco istituzionale del pensiero unico “riformista” degli ultimi trent’anni. L’offensiva ultraliberista internazionale degli anni di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher e la poco successiva caduta del Muro di Berlino non hanno generato una reazione a sinistra, ma hanno invece inaugurato il pensiero unico, anzi il culto acritico, del mercato: “Il riformismo – spiega Mattei – è oggi un gigantesco quanto complesso dispositivo di potere autoritario globale, che porta alla massima estensione e concentrazione della proprietà privata a scapito di quella pubblica. L’ideologia riformista pone il denaro, strumento indispensabile del-l’attività di consumo e di accumulo, al centro della scala dei nostri valori sociali e promuove il mercato come sola costituzione materiale”.
Se le “riforme” sono diventate il mendace vessillo di chi, di fatto, non vuole cambiare in nulla lo stato presente delle cose, non rimane che la prospettiva della rivoluzione. Mattei pensa alla rivoluzione pacifica dei “beni comuni” che vede il Teatro Valle occupato a Roma, l’acqua di Napoli restituita ai cittadini o la Val di Susa vivere una nuova resistenza di radicalismo costituzionale. Una rivoluzione – e questa è la principale novità rispetto al precedente libro del giurista (Beni comuni. Un manifesto, 2011) – che trova ora la sua bandiera proprio nella Costituzione della Repubblica.
LEGGERE Contro riforme vuol dire misurare quanto l’edificio incompiuto, abusivo e atrocemente sfigurato dell’Italia di oggi sia distante dal meraviglioso e lucidissimo progetto della Costituzione: ma vuol dire trovare anche la motivazione, le idee e la forza per abbattere questo mostro, e ricostruire il Paese secondo quel progetto. Il primo passo per riuscirci è rigettare il modello “estrattivo” che crea ricchezza per pochi attraverso lo sfruttamento dei cosiddetti “giacimenti” (il patrimonio artistico e il paesaggio come “petrolio d’Italia”, per esempio), e rimettere al centro del sistema economico il lavoro, e al centro della vita civile lo spazio pubblico. “Il riformismo – conclude Mattei – è utilizzato ideologicamente per nuovi processi di recinzione e svendita dei beni pubblici e comuni, il che comporta privazione e sofferenza sociale ed ecologica. Smascherata l’ideologia, occorre ora insistere nella nuova elaborazione e prassi, capace di restituire forza costituente al testo del 1948, per un nuovo modello di società e un nuovo senso comune, che si faccia politica del comune. Questa è oggi la rivoluzione”.
CONTRO RIFORME di Ugo Mattei, Einaudi, Collana Le Vele pag 128 10 €

La Stampa 21.6.13
Invincibili nell’arte di non scegliere
di Luca Ricolfi

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La Stampa 21.6.13
Camusso: “Dal governo solo annunci”
«La sensazione è che i dossier si moltiplichino, ma che non si decida sui singoli capitoli»
No allo scambio tra Imu e Iva

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Repubblica 21.6.13
Il Porcellum blindato
di Gianluigi Pellegrino


Era stato promesso “mai più al voto con il porcellum”. Ed invece si mettono le premesse per l’esatto contrario. Con tanto di timbro di una legge costituzionale che approvandosi con la procedura rafforzata della doppia lettura, impedirebbe persino al Parlamento di mettere mano alla legge elettorale nel caso, certo non improbabile, in cui le riforme si arenassero o comunque saltasse il tavolo della strana maggioranza e si dovesse tornare alle urne.
Il colpo di mano è all’articolo 2 del testo con cui il governo ha previsto la commissione dei 40 deputati e senatori che dovrebbero confezionare le ipotizzate riforme costituzionali. E però la norma non si limita ad assegnare a quel percorso (invero barocco) i soli disegni di modifica della Carta, ma obbliga i Presidenti delle Camere a farvi transitare anche «tutti i progetti di legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali».
Questo vuol dire che non solo una nuova eventuale legge elettorale è rinviata all’esito dell’ipotetica approvazione delle riforme costituzionali ma anche che, fuori da quel percorso, viene radicalmente impedito al Parlamento di superare il porcellum con procedura ordinaria. Morale della favola: se passano le complesse e per ora confuse riforme «forse» dopo si metterà mano al porcellum, ma se inconcludenza e veti incrociati freneranno le prime, come già mille volte è successo, allora il porcellum è persino blindato nel senso che una norma rafforzata come quella che si sta approvando impedisce di cambiarlo con procedura ordinaria.
Ci era stato detto invece che tra le posizioni, apparentemente contrapposte, del Pd che chiedeva un immediato ritorno al mattarellum e il Pdl che pretendeva un rinvio a valle della riscrittura della Costituzione, la via mediana era quella di aspettare il prossimo autunno, quando, promettevano i democratici, o con il pdl o con chi ci sta il porcellum sarebbe stato superato. Così prometteva il Pd, ma la legge proposta ora dal governo, se approvata, impedirebbe qualsiasi intervento sulla legge porcata se non dentro al percorso delle ipotizzate riforme del quale peraltro il progetto governativo allunga ulteriormente i tempi.
Avevano detto diciotto mesi dall’insediamento del nuovo esecutivo. Lo aveva promesso Letta e lo aveva ratificato Napolitano. Ma già adesso quei mesi son diventati molti di più. Ed infatti è scritto a chiare lettere che il termine di un anno e mezzo che noi pensavamo già partito in realtà non comincerà nemmeno a decorrere sino alla «data di entrata in vigore della presente legge costituzionale». E siccome per approvarla, questa norma costituzionale, ci vogliono almeno cinque o sei mesi ecco qui che già sui tempi, gli impegni presi ruzzolano giù quando ancora non hanno mosso i primi passi. Peraltro ove mai una qualche modifica costituzionale vedesse la luce, seguirebbero uno o più referendum ed eventualmente solo allora si potrebbe finalmente modificare la legge elettorale. Parliamo di molti anni, non certo di mesi.
Spiace dirlo ma sembra davvero che, al di là dei proclami, l’obiettivo che un po’ tutti i partiti vogliano garantirsi, sia proprio quello di fare il possibile perché il porcellum resista contro ogni minimo buon senso.
Persino il vagheggiamento del presidenzialismo che si fa oscillare come un drappo rosso davanti ad elettori esausti e che ovviamente non ne conoscono le implicazioni così poco consone alla realtà italiana, appare strumentale al medesimo disegno che infatti si disvela quando il Pdl annuncia di rifiutare qualsiasi degna riforma elettorale “se non passa quella presidenziale”. E siccome è certo che questa non passerà, è facile trarne la conseguenza che ancora una volta l’obiettivo di fondo è evitare l’unica riforma (quella elettorale) che da sola potrebbe garantire insieme governabilità nel mantenimento della democrazia parlamentare e ritorno della scelta in capo ai cittadini.
Riforme rinviate e nelle more il porcellum a ingrassare, sono davvero le ascisse e le ordinate di un programma intitolato “tirare a campare” che Letta per primo dovrebbe ripudiare.
Saremmo così non più cittadini governati sia pur da un esecutivo di necessità; ma “sudditi sequestrati” dalla trappola di una inagibilità democratica che impedisce la sola ipotesi di tornare alle urne con un legittimo sistema elettorale. Chiusi in gabbia con il porcellum nel pantano di una democrazia bloccata prima da un bipolarismo tra ammucchiate rissose, ora dal rischio di un nuovo consociativismo fondato sul minimo comun denominatore, contrapposizioni di facciata e strizzate d’occhio blindate dalla logica dei numeri.
La strategia del Pdl è ben chiara. Garantirsi il futuro prossimo, a partire dal mantenimento della legge-porcata. Molto meno comprensibile il torpore del Pd che invece proprio su questo tema deve finalmente battere un colpo cominciando con lo stralciare l’inaccettabile vincolo pro-porcellum dalla norma costituzionale. Spazzare via subito la legge porcata sarebbe doveroso. Ma addirittura vincolarsi a tenerla con una legge rafforzata è criminale e francamente, per i democratici, anche esercizio di inspiegabile masochismo.

il Fatto 21.6.13
“Non ha rispettato il patto” Il pdl contro Napolitano
Dopo la sentenza della Consulta sul caso Mediaset, i fedelissimi di B. minacciano il Colle, rammentandogli i presunti “accordi” e andando all’incasso in vista del vero salvacondotto: prescrizione in Cassazione o amnistia


La Stampa 21.6.13
Il peso crescente delle sentenze sul futuro dell’esecutivo
di Marcello Sorgi


La crisi di governo per i guai giudiziari di Berlusconi non ci sarà, ma la turbolenza cominciata dopo la sentenza della Corte costituzionale e in attesa degli altri verdetti che riguarderanno il Cavaliere nei prossimi giorni (Ruby uno e due, Bari e De Benedetti) si annuncia più intensa del previsto. Primi effetti, a sole 24 ore dal verdetto della Consulta, un rinvio del Consiglio dei ministri previsto per oggi, ufficialmente perché dev’essere votata la prima fiducia su un decreto in Parlamento, e un malumore che dalle stanze berlusconiane di Palazzo Grazioli si dirige verso il Colle.
Anche se tutti gli uomini di Silvio si affrettano a minimizzare, la versione che circola sembra assai vicina al pensiero del leader, che avrebbe preteso da Napolitano una più forte moral suasion nei confronti dei giudici costituzionali, considerati impropriamente agli ordini del Capo dello Stato. Il quale, ovviamente, da parte sua, considera irricevibili osservazioni di questo genere.
Nei prossimi giorni la pressione del Pdl sul governo sui temi dell’economia (taglio degli aumenti dell’Iva ma non a scapito di un ritorno dell’Imu) aumenterà. Anche in questo caso, ufficialmente senza alcuna connessione diretta con le pendenze giudiziarie del leader del centrodestra, ma forse in vista dell’apertura della procedura di convalida dell’elezione (ma leggi anche: di dichiarazione della possibile ineleggibilità) di Berlusconi. Una specie di fuoco di avvertimento, rivolto essenzialmente al Pd, nel quale non tutti sono d’accordo a lasciar correre anche stavolta e a far restare soli Movimento 5 stelle e Vendola in un eventuale voto per l’espulsione del Cavaliere dal Parlamento. Si tratterà, in ogni caso, di una pratica a lungo iter, e di un calendario che può essere allungato o accorciato, per evitare votazioni scomode (soprattutto per il Pd), o per tenere appeso Berlusconi non solo ai suoi processi. In due parole: nel Pd la divisione che si annuncia è tra chi vorrebbe votare per espellere politicamente Berlusconi dal Senato, e chi dice che è inutile, tanto presto potrebbe pensarci la Cassazione.

il Fatto 21.6.13
Il Pd getta la maschera: B. non è più ineleggibile
Da Boccia a Speranza a renzi, nessuno vuol rispettare la legge del 1957
Epifani: “Le sentenze si applicano”
di Tommaso Rodano


Diviso quasi su tutto, il Partito democratico si ricompatta su un argomento: Silvio Berlusconi non può essere ineleggibile. A intervalli regolari, senatori e deputati del Pd si premurano di tranquillizzare l’alleato di governo: la giunta per le elezioni del Senato, chiamata a valutare la compatibilità del conflitto d’interessi di Berlusconi con la sua carica di senatore, non taglierà il Cavaliere fuori da Palazzo Madama. Il voto, sul ricorso presentato dal Movimento 5 stelle, potrebbe arrivare già il 9 luglio. Ma Berlusconi può restare sereno. Lo ha chiarito a La Stampa il capogruppo del Pd alla Camera, Matteo Speranza. Lo ha ripetuto, al Messaggero, il lettiano di ferro Francesco Boccia. Lo ha fatto capire chiaramente anche Matteo Renzi. E il premier Enrico Letta ha posto la pietra tombale sull’argomento, rispondendo a una domanda della stampa estera: “L’ineleggibilità? Decideranno i parlamentari. Ma è una vicenda alla quale non darei grande importanza”. La parola d’ordine, quasi un mantra, è la seguente: “Berlusconi si sconfigge nelle urne, non in giunta”. Valutazione politica, ma nel merito dell’argomento giuridico i democratici preferiscono non avventurarsi. La questione ormai è arcinota: si tratta della legge 361 del 1957, che dichiara ineleggibile chiunque goda di una concessione statale, in proprio o in qualità di amministratore.
L’UNICO rimasto nel Pd a ritenere che Berlusconi non soddisfi questi requisiti è il capogruppo al Senato, Luigi Zanda. Sull’argomento, si è espresso senza mezzi termini e in tempi non sospetti, prima e dopo la nascita del governo: “Per la legge italiana, Berlusconi non è eleggibile”. La sua idea sull’argomento non è cambiata, ma preferisce non parlarne più: “Ora tocca alla giunta, che sta per iniziare a lavorare. Ha le sue procedure e la sua indipendenza”. Anche dalle dichiarazioni quotidiane dei colleghi di partito, che escludono l’ineleggibilità? “Non ho letto le parole di Speranza e Boccia – risponde Zanda – ma conosco personalmente i senatori e sono sicuro che non si faranno influenzare”.
Tra di loro, i democratici che siedono in giunta, si respira un’insofferenza sempre maggiore per le pressioni esercitate dai colleghi di partito. “Quello sull’ineleggibilità non è un dibattito politico – insiste il senatore Giorgio Pagliari – bisogna studiare le carte e decidere solo in base a quelle. Sul piano meramente politico l’ineleggibilità di Berlusconi è grande come una casa dal 1994”. Il senatore Giuseppe Cucca: “La giunta non fa valutazioni politiche, applica la legge”. Ancora più netta la senatrice Rosanna Filippin: “Le dichiarazioni dei compagni di partito? Non me ne frega niente”. Dalla giunta, in ogni caso, è difficile aspettarsi sorprese. Per Berlusconi il vero motivo d’angoscia è la sentenza della Cassazione sul caso Mediaset. Se dovesse essere confermata la condanna e l’interdizione dai pubblici uffici, il Pd non dovrebbe fare sconti: “Le sentenze – promette il segretario Guglielmo Epifani ieri al Tg3 – si rispettano e si applicano e questa sarà la nostra linea guida. Mancano ancora sei mesi... ”.

il Fatto 21.6.13
Questioni parallele
La decisione dei senatori e l’interdizione


INELEGGIBILITÀ e interdizione dai pubblici uffici sono due insidie distinte, per Silvio Berlusconi, ma viaggiano su binari paralleli. L’eventuale ineleggibilità deve essere stabilita dalla giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato, il ramo del Parlamento in cui è stato eletto l’ex premier. La giunta si riunisce per la prima volta martedì a Palazzo Madama. Il Movimento 5 stelle, che ha fatto partire il ricorso sull’ineleggibilità di Berlusconi, spera di arrivare al voto già il 9 luglio. Ma le procedure sono complesse e farraginose: bisogna stabilire i relatori regione per regione, preparare le relazioni, studiare i casi pregressi, ascoltare i ricorrenti. Difficile ipotizzare ci possano volere meno di tre settimane. L’interdizione dai pubblici uffici sarebbe stabilita dalla sentenza della Cassazione sul caso Mediaset, nel caso in cui la corte confermasse la condanna di Berlusconi. I giudici del Palazzo di Giustizia non si esprimeranno prima di novembre o dicembre, ma sicuramente entro la prossima primavera, per evitare di far scattare la prescrizione. In caso di interdizione, il Senato dovrebbe essere chiamato a decidere sulla decadenza del seggio del Cavaliere.

il Fatto 21.6.13
Lo svuota-carceri selettivo: salva solo potenti e benestanti
La bozza Cancellieri: libero chi ha pene sotto i 4 anni
di Emiliano Liuzzi


La bozza del decreto svuota carceri è già pronta. La strada più breve è stata quella di riprendere in mano la legge Simeone-Saraceni, entrata in vigore il 14 giugno 1998 (all'epoca salvò Forlani, Citaristi, Pomicino, Sama e Bisignani) che risparmiava il carcere a chiunque debba scontare fino a tre anni. Il decreto Cancellieri si limita in sostanza a due aspetti: concessione degli arresti domiciliari o pene alternative a coloro che abbiano compiuto i 70 anni, e ingresso in carcere impossibile alle persone condannate a 4 anni. Restano esclusi i condannati per associazione di stampo mafioso, traffico di droga, terrorismo, sequestro di persona a scopo di estorsione.
BENEFICI che il governo ritiene nella relazione “indispensabili per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri” e si aggiungono alla legge Gozzini, al rito abbreviato (che sconta già di un terzo la pena) e alla buona condotta, ossia 45 giorni di carcere in meno ogni anno al detenuto modello. Il punto è che la riforma, così come pensata dal governo, prevede tutti i benefici ottimi per la casta. E confezionati per coloro che hanno spalle robuste, una casa in cui vivere, una famiglia che può aiutare il condannato, un ottimo avvocato e nessun precedente.
Tutti requisiti che gli stranieri clandestini o gli scippatori non possono avere. Uscirebbero dal carcere il giorno successivo i poliziotti condannati per l'omicidio Aldrovandi, mentre resterebbe in carcere il clandestino albanese arrestato due giorni fa e colpevole di non avere il permesso di soggiorno e per “false dichiarazioni a pubblico ufficiale”. Altro punto fondamentale, che amplia ancora il raggio di azione della Simeone-Saraceni, riguarda la detenzione agli arresti domiciliari. Prima il magistrato di sorveglianza doveva per legge concederla alle persone anche parzialmente inabili che avessero compiuto i 60 anni di età. Adesso il parzialmente inabili sparirebbe e la detenzione a casa sarebbe concessa a tutti coloro che invece hanno compiuto 70 anni. Un esempio pratico, Calisto Tanzi: tornerebbe a casa, e non per lo stato di salute, ma solo per problemi anagrafici.
Il governo è pronto a portarla a termine perché è “l'Europa che ce lo chiede”. Come scritto in calce si tratta di un decreto per “contrastare il sovraffollamento delle carceri e per adottare i rimedi imposti allo Stato italiano dalla Corte europea dei diritti dell'uomo”. Opposizione per ora non c'è, eccetto quella del Movimento 5 stelle, pronto anche a manifestare. Il resto verrà deciso nelle stanze di palazzo Chigi, sede della solida alleanza tra il Pd e il Pdl.
Al momento si tratta di una bozza, ma la linea guida che ne segue è in realtà molto chiara e ha alle spalle un progetto politico. Non riguarda direttamente i pubblici ministeri: questa volta il decreto è molto legato alla parte finale dell'esecuzione della pena e non entra più nel merito di quelli che sono i reati scoperti in flagranza. In sostanza lo scippatore finisce in galera, successivamente godrà della liberazione anticipata. L'ordine di custodia cautelare, invece, dovrà seguire attentamente le disposizioni che Letta e i suoi si preparano a varare.
Il documento, fino a oggi mai uscito e in mano al Fatto Quotidiano, non prevede variazioni capillari della Simeone-Saraceni. I giuristi, quando venne varata la legge nel 1998, la definirono un “indulto permanente”. Questa ne è la fotocopia, con una più ampia valutazione dei benefici.
Si tratta di otto pagine con le linee guida dove – chi ha steso la relazione – si sofferma anche sui soldi da trovare per fare in modo di adeguare e ristrutturare le carceri che esistono in Italia. “In realtà”, spiega al Fatto il procuratore aggiunto di Torino, Paolo Borgna, “sarebbe bene pensare a strutture carcerarie diverse. Oggi abbiamo tutti carceri di massima sicurezza, nati e costruiti soprattutto negli anni del terrorismo. Oggi le esigenze sono cambiate. Probabilmente sarebbe più agevole costruire strutture che hanno costi meno sostenuti, anche aperte, dove i detenuti possano avere la libertà di lavorare, e non pensare solo alle evasioni. Chi ha commesso due scippi non pensa a evadere, non è il pluriomicida. Come diceva Cesare Beccaria sarebbe il caso di addolcire la pena. Che sia immediata o comunque vicina al reato commesso, ma più dolce”.

Repubblica 21.6.13
L’emendamento fantasma del Cavaliere spuntano tetti più alti per l’interdizione
Tentato blitz nel decreto carceri. Slitta il Consiglio dei ministri
di Francesco Bei e Liana Milella


NON c’è niente da fare, mi vogliono arrestare. Ma io non mollo, io sarò sempre con voi: anche fuori dal Parlamento continuerò la mia battaglia». Mercoledì sera, a palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi ha indossato davanti ai suoi i panni del perseguitato politico, lo statista che predica «nervi saldi» nonostante la persecuzione dei giudici comunisti.
LO STESSO messaggio il Cavaliere l’ha fatto recapitare anche a Enrico Letta — nell’entourage del leader Pdl si parla di una conversazione diretta tra i due — volta a rassicurare il premier sulla navigazione tranquilla del governo «nonostante l’attacco dei pm contro di me».
Eppure, dietro la facciata da “force tranquille”,dietro la nuova strategia difensiva affidata al principe del foro Franco Coppi, qualche manina sarebbe già all’opera con i metodi di sempre. Quelli delle leggine ad personam. Ci sarebbe infatti un “emendamento-fantasma”, un codicillo ancora non precipitato in alcun testo formale ma pronto a spuntare all’improvviso sul primo vettore utile, magari nei primi due decreti utili: quello sulle carceri della Cancellieri o quello sulla sicurezza di Alfano, visto che ormai i due provvedimenti da ieri sono ufficialmente separati. La norma-ombra dovrebbe intervenire sugli articoli 28 e 29 del codice penale, quelli che disciplinano l’interdizione dai pubblici uffici. Proprio la pena accessoria a cui è stato condannato Berlusconi nel processo Mediaset. Si tratterebbe semplicemente di agire aumentando gli anni di pena che rendono obbligatoria l’interdizione, oppure escludendo alcuni reati per l’applicazione della pena accessoria. Insomma, se anche il Cavaliere perdesse in Cassazione, potrebbe sempre restare in Parlamento.
Dell’emendamento-fantasma si parla con circospezione nel governo, c’è chi sostiene di averlo visto materialmente. Ed è un fatto che il Consiglio dei ministri, che si sarebbe dovuto riunire oggi, è slittato a mercoledì. Ed è la seconda volta che il testo sulle carceri viene rimandato da una seduta all’altra per «divergenze di opinioni» tra il Viminale e la Giustizia. Che sia proprio l’emendamento-fantasma l’oggetto della disputa? Anche perché la parte che riguarda le pene alternative al carcere è già chiusa e non giustifica questo slittamento: si tratta di quattro articoli che aumentano la possibilità della liberazione anticipata, del ricorso al lavoro esterno e aprono le celle ai condannati per reati legati allo spaccio di stupefacenti. E tuttavia, se anche il testo venisse licenziato dal governo senza l’emendamento- ombra, nulla vieta che la stessa manina possa ripresentarlo in Parlamento. Del resto che il decreto carceri sia diventato un oggetto del desiderio lo dimostra il tentativo di Niccolò Ghedini che ieri l’Ansa ha portato alla luce. Il legale di Berlusconi voleva l'inserimento di una norma che prevedesse la possibilità di vedersi riconosciuta la detenzione domiciliare per reati con pena fino a 10 anni. Nel testo sulla messa alla prova questa possibilità viene riconosciuta solo per reati con pene fino a 6 anni.
Se la strategia difensiva del Cavaliere oscilla fra il virtuosismo giuridico di Coppi e il ricorso alla leggi ad personam, la stessa incertezza c’è sul destino del governo Letta. È vero che Berlusconi ha assicurato al premier di non voler ritirare la delegazione del Pdl, ma è anche vero che ieri il clima si era decisamente fatto più burrascoso. Il leader del Pdl si sente infatti «ingannato » e ce l’ha con tutti. Ce l’ha con la Consulta, ma ce l’ha anche con il capo dello Stato che non l’avrebbe tutelato. Insomma, Berlusconi inizia a sospettare che la pacificazione riguarda tutti tranne uno, proprio quello a cui servirebbe di più. Ma è anche consapevole di non poter provocare una crisi su un suo problema personale di giustizia. Per questo tutto il focus si èspostato adesso sui temi economici, gli unici che interessano agli elettori in questo momento. È lì che arriverà, se arriverà, il colpo mortale. «Noi — spiega Daniele Capezzone citando il motto olimpico - vogliamo un governo citius, altius, fortius.Ma se non fa quello che abbiamo promesso in campagna elettorale che ci sta a fare?». All’obiezione che non si trovano sei miliardi di euro per stoppare Imu e Iva, il presidente della commissione finanze risponde scrollando le spalle: «Ma davvero ci vogliono far credere che non si possono tagliare 6 miliardi? Sono 1/133esimo della spesa pubblica, lo 0,75% del bilancio dello Stato. Suvvia, non scherziamo».

il Fatto 21.6.13
Il salvacondotto
Ecco perché l’amnistia aiuta Berlusconi
di Antonella Mascali


Fa il ministro tecnico della Giustizia Annamaria Cancellieri, ma per due volte in 48 ore fa sapere che la “strada maestra” per risolvere la vergogna delle carceri italiane è quella dell’amnistia o dell’indulto. Un provvedimento che, se scritto con criteri esclusivamente umanitari, potrebbe anche essere utile, ma che per come è sempre stato fatto non ha mai risolto le condizioni terribili dei detenuti. Ha “graziato”, però, molti colletti bianchi.
IL PROVVEDIMENTO deve essere approvato dai due terzi delle Camere e il Guardasigilli, inevitabilmente, passa la palla: “Spetta al Parlamento decidere, il problema è squisitamente politico e non mi appartiene”. Ma intanto esprime il desiderio del governo che riaccende le speranze di farla franca del suo “azionista di maggioranza”, Silvio Berlusconi. L’amnistia estingue, in casi precisi, i reati. L’indulto, se passa uno dei disegni di legge depositati in Senato da Pd-Pdl, cancella oltre la pena (in parte) anche quella accessoria. E Berlusconi, come si sa, è stato condannato pure a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici al processo Mediaset, giunto in Cassazione.
''L'amnistia potrebbe essere la soluzione maestra, che darebbe più respiro. Ma è il Parlamento che deve fare questa scelta” ha ribadito ieri la ministra davanti al Plenum del Csm. Il sovraffollamento delle carceri “è una priorità assoluta per la quale avverto, come cittadina, l’urgenza anche morale di un efficace intervento”. E ha annunciato “di portare quanto prima all’esame del Consiglio dei ministri una serie di misure tese proprio ad alleggerire l’ormai insostenibile sovraffollamento delle strutture”.
Mercoledì, alla Camera, per rafforzare la sua tesi della necessità di un “provvedimento di clemenza” aveva fornito alcuni dati drammatici: nelle 206 carceri italiane ci sono 65.886 detenuti (tra loro 23 mila stranieri e 24.342 in attesa di giudizio) a fronte di una capienza di 46.945 posti e il piano di edilizia penitenziaria garantirà solo quattromila posti in più a fine 2013. Dunque che si fa? Amnistia o indulto. Come nel 2006 quando si disse che doveva essere un caso eccezionale per affrontare alla radice la piaga delle carceri traboccanti di detenuti.
In Parlamento ci sono già disegni di legge Pd-Pdl su amnistia e indulto che prevedono il salvataggio di Berlusconi se dovesse essere condannato anche in Cassazione all’interdizione dai pubblici uffici. Sono stati presentati al Senato e prevedono la cancellazione, per alcuni reati, delle pene accessorie. C’è poi un ddl alla Camera a firma Sandro Gozi (Pd) ma non è disponibile il testo.
UN PROGETTO è stato presentato dai senatori democratici Luigi Manconi (primo firmatario) Paolo Corsini, Mario Tronti e da Luigi Compagna, senatore del gruppo misto. Compagna, nella scorsa legislatura, come senatore del Pdl provò a inserire un emendamento “salva Silvio” alla già discutibile modifica del reato di concussione contenuta nella legge Severino. Questo ddl su amnistia e indulto è stato presentato al Senato il 15 marzo, assegnato in Commissione l’11 giugno ma l’iter non è ancora iniziato). Prevede l’amnistia per tutti “i reati commessi entro il 14 marzo 2013 per i quali è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni”. Per quanto riguarda l’indulto “è concesso nella misura di tre anni in linea generale e di cinque per i soli detenuti in gravi condizioni di salute”. Ed ecco la postilla “salva Silvio” che per motivi di età, ovviamente non andrà mai in carcere: “È concesso indulto, per intero, per le pene accessorie temporanee, conseguenti a condanne per le quali è applicato anche solo in parte l’indulto”.
In caso di condanna in Cassazione per il processo Mediaset, e in caso di indulto, i 5 anni di interdizione sparirebbero. Della pena a 4 anni di carcere ne rimane uno. Gli altri 3 sono cancellati già dal provvedimento del 2006. Pene accessorie automaticamente indultate anche in un altro ddl firmato solo da Compagna e Manconi.

il Fatto 21.6.13
Esecutivo precario
Ma Letta si fida del Caimano
di Sara Nicoli


Non credo ci saranno conseguenze”. Enrico Letta ostenta ottimismo. Il governo, crede, non avrà conseguenza dalle vicende giudiziarie che riguardano il leader del Pdl, Silvio Berlusconi. D’altra parte, è il ragionamento, è stato lo stesso Cavaliere a ribadire la sua assoluta fedeltà alle larghe intese, nonostante il “dispiacere” della sentenza della Consulta sul processo Mediaset. Però, fidarsi della parola di Berlusconi è da sempre un azzardo.
E, infatti, sulla strada del governo cominciano ad addensarsi nubi. Al momento, sostiene Letta parlando con la stampa estera, l’esecutivo “è stabile e concentrato sui suoi obiettivi”, ma l’inizio della salita è giusto dietro l’angolo. Dopo la sentenza della Consulta, infatti, la linea dei ministri del Pdl nel governo potrebbe diventare meno collaborativa e più improntata al raggiungimento degli obiettivi all’apice dell’interesse elettorale del partito e di Berlusconi. L’altra sera, durante un vertice a Palazzo Grazioli, sarebbe emersa una linea della maggioranza da imporre al vicepremier Alfano di “stringere la morsa” del governo sulle questioni-bandiera pidielline, ossia Imu, Iva e – ovviamente – riforma della giustizia. Il tema tornerà prepotentemente d’attualità nelle prossime settimane.
LO HA SVELATO, a sentenza della Consulta ancora “calda”, proprio un ministro, quello delle Riforme, Gaetano Quagliariello. “Ora non possiamo far finta di niente, il nodo giustizia si ripresentà – ha raccontato – finora era stato “congelato”, si era ritenuto che rafforzare l’esecutivo, migliorare i rapporti tra i poteri, chiarire il ruolo dello Stato potesse poi portarci a sciogliere il vero nodo gordiano della politica italiana dal ’92 a oggi. Ora tutto diventa più difficile e le risposte devono arrivare dall’intero governo”. Eppure Letta non sembra avvertire il pericolo incombente dell’inizio di una stagione conflittuale nell’esecutivo. Persino sull’ineleggibilità di Berlusconi, ormai incardinata in giunta per le immunità del Senato, il premier non vede pericoli di tenuta: “È una questione di dinamica parlamentare, il governo non c’entra, non do molta importanza a questo tema”. Così come Letta “non vede” la possibilità di “elezioni anticipate a breve”, “non mi sembra ci sia questa situazione”. E se si rivotasse con il Porcellum, che non a caso Berlusconi non vuol cambiare, saremmo “dentro un grande gioco dell’oca – sempre secondo Letta – anche se sono abbastanza sicuro che nuove elezioni con l’attuale legge elettorale ci ridarebbero una situazione ancora di maggioranze larghe”. C’è da giurare che il Pdl farà pesare la giustizia sul piatto delle riforme, a partire dalla legge elettorale, mentre su un altro aspetto le divisioni nella maggioranza di governo, se il Pdl deciderà di “smarcarsi” progressivamente, sono destinate ad allontanarsi da subito: l’Europa e l’euro. Letta dice che dovremmo diventare “il Paese più europeista d’Europa” iniziando a “parlare delle vicende europee come una storia di successo”. Il contrario di Berlusconi, deciso a scippare la bandiera dell’anti-europeismo addirittura a Beppe Grillo.

Corriere 21.6.13
Il caso Idem
Che cosa significa (altrove) «assumersi le responsabilità»
di Maria Teresa Meli


C'è una assai poco rassicurante continuità nella classe politica di questa Seconda Repubblica: la sbadataggine.
Nel 2010 Claudio Scajola, allora ministro dello Sviluppo economico del governo Berlusconi, scopre che a sua insaputa gli è stata generosamente comprata una bella casa a Roma, a due passi dal Colosseo. Tre anni dopo, nel 2013, la ministra Josefa Idem viene ad apprendere di aver commesso delle irregolarità nel pagamento dell'Ici. Nemmeno lei sapeva niente. La titolare del dicastero dello Sport e delle Pari opportunità era troppo indaffarata per occuparsi di persona di certe noiosissime pratiche. La canoa e le Olimpiadi l'hanno portata spesso e volentieri altrove, anche all'estero, e lei non aveva il modo di perdere tempo con scadenze, soldi, case, tasse e palestre.
Idem, però, appena è uscita la notizia, ha subito dichiarato con foga: «Mi assumerò le mie responsabilità». Qualche lettore ingenuo e poco avvezzo agli usi e costumi della classe dirigente nostrana ha letto quell'affermazione e ha capito male. Ha pensato che l'esponente del governo Letta si fosse decisa a dare le dimissioni e a concludere la sua avventura nell'esecutivo. Accade così in tanti altri Paesi: c'è chi se ne va perché non ha pagato i contributi alla collaboratrice domestica e chi rinuncia alla carriera politica perché è stato colto in flagranza di bugia.
Ma l'istituto delle dimissioni non si usa spesso e volentieri. Anzi, per essere più precisi, si usa veramente poco. Del resto, perché uniformarsi alle altre nazioni occidentali? Perché imitare quei bacchettoni degli americani che gridano allo scandalo per una banale irregolarità o perché un loro parlamentare ha detto il falso? In fondo, c'è un modo molto più semplice per riparare a certe «distrazioni»: rilasciare qualche dichiarazione alla stampa, assicurare che, nel caso in cui un errore, si badi bene inconsapevole, sia stato commesso, si provvederà prontamente a pagare quel che non si è pagato a suo tempo. E poco importa se quest'ultimo sia un atto obbligato per non incorrere in più gravi sanzioni, e che quindi non sia necessario annunciarlo con tutta questa enfasi, quel che conta veramente è che non si debba ricorrere all'atto, dovuto, delle dimissioni.

il Fatto 21.6.13
“L’assessore ha portato voti a Renzi, e lui l’ha mollato”
A Palazzo Vecchio tutti con Massimo Mattei e contro il sindaco
di Davide Vecchi


Mi creda: io non sapevo nulla di quello che faceva Adriana, né fuori né tanto meno dentro quella casa che le avevo dato; per me era una amica in difficoltà che ho aiutato come ho fatto con molti altri”. Massimo Mattei è costretto ad assistere allo scandalo delle escort che sta lambendo il comune di Firenze da un letto d’ospedale. Lo subisce. Perché, seppur non indagato, è l’unico politico, ormai ex assessore della giunta di Matteo Renzi, a essere finito nelle carte dell’inchiesta del pm Giuseppe Bianchi. Le intercettazioni che lo riguardano sono state secretate e inserite in una nuova inchiesta che, a quanto si apprende da fonti giudiziarie, sarebbe ancora in corso e riguarda un filone interamente “politico”. Mattei è finito nei faldoni del giro di escort, che vedono 14 persone indagate per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (anche minorile), perché si sentiva e frequentava Adriana, a cui aveva anche dato una casa della cooperativa sociale il Borro che lui presiedeva. Ma a Firenze nessuno pensa che Mattei sia coinvolto. Persino nemici storici dell’entourage renziano come Guido Sensi, consigliere provinciale del centrodestra, che ha avuto modo di conoscerlo (“e bene”) quando Renzi era presidente della Provincia fiorentina e Mattei guidava il consiglio provinciale. “Ha sempre ricevuto tutti, fuori dal suo ufficio c’era la coda di gente che aveva bisogno d’aiuto, che fosse lavoro o una casa o qualsiasi altra cosa, il Mattei, una mano provava a dargliela”. Prima in Provincia poi in Comune, all’assessorato mobilità. In città lo conoscono tutti, “il Mattei”. E “a differenza di Renzi, lui è parecchio stimato”, ammette un usciere del Comune che controlla il flusso continuo di giapponesi e turisti che fotografano Palazzo Vecchio, la statua di David e quella di Ercole che abbatte Caco in piazza della Signoria. A dieci metri il busto di Dante veglia l’ingresso degli Uffizi. Anche qui code infinite di turisti stranieri. “A loro non gliene frega nulla e neanche a voi giornalisti, ma dia retta: Mattei non c’entra nulla”. E via così. Al primo piano del palazzo comunale, lungo le scale e il corridoio che porta al gabinetto del sindaco e ad alcuni assessorati, se si chiede quale sia l’ufficio di Mattei la prima reazione è quella del dispiacere. “Magari ci fosse”, si lascia sfuggire una signora bionda di mezz’età che poi si fa dubbiosa: “Ma lei chi è? Che vuole dal massimino?”. Impossibile entrare invece negli uffici dell’assessorato alla mobilità di via Giotto, qui è stato sorpreso dalla donna delle pulizie L. R., funzionario del Comune, insieme alla regina delle escort, la rumena 42enne Adriana, ex modella (ha lavorato, tra gli altri, anche per Cavalli) e amica di Mattei. Ed è intorno a questo anonimo dipendente del Comune, prima impiegato al-l’ambiente e poi trasferito in via Giotto, che ruota buona parte del nuovo filone dell’indagine. E alle rivelazioni che, presumibilmente, secondo i più, potrebbe fare. Perché se dentro le mura di Palazzo Vecchio, “il Mattei” lo conoscevano tutti e lo difendono spesso quasi con affetto, fuori è un coacervo di veleni, accuse, rancori, bassezze umane da retrobottega che passano di bocca in bocca con un unico scopo: il tentativo di colpire Renzi. “Che un errore in questa vicenda l’ha fatto ed è grosso come una casa: l’aver accettato immediatamente, se non addirittura avergliele chieste, le dimissioni di Mattei”. La confidenza la fa un renziano che si definisce però “cioniano” cioè vicino a Graziano Cioni. E si scopre così che tra i fedeli del rottamatore in città ci sono addirittura le correnti. “Si stupisce? Renzi è un cavallo in corsa che non può rallentare né fermarsi e deve raggiungere il traguardo il prima possibile”. Ma pare che l’arrivo sia vicino. “Per questo nessuno parla e dice nulla, perché si spera di vincere con lui, facile”. Il cinismo toscano è noto, ma il mix con il calcolo politico è da brividi. Però l’aver sacrificato Mattei per tener lontane da Palazzo Vecchio le voci secondo alcuni è stato un clamoroso autogol. Oltre alle tante persone che lo affermano nascondendosi dietro l’anonimato c’è chi, invece, è disposto a metterci il nome: “il solito Sensi”, ci ride pure su. Poi si fa serio e spiega: “Senza i voti del Mattei, senza la storia e le possibilità del Mattei, senza la disponibilità verso gli altri del Mattei”, insomma senza il Mattei? “Col cavolo che Renzi diventava sindaco”. Perché Mattei è stato il portatore di preferenze. Eppure come ha presentato le dimissioni per motivi di salute Renzi le ha accolte subito e l’ha sostituito in un giorno con Filippo Bonaccorsi, fidato presidente dell’Ataf, società che gestisce il trasporto pubblico cittadino. “Avrebbe potuto tranquillamente congelarle, aspettare che Mattei facesse i controlli medici e temporeggiare; invece no; se non arriva presto al traguardo - ripete il renziano ciociano - il cavallo rischia di pagare cara anche questa”. E già girano i nomi di altri assessori e dirigenti comunali finiti nel giro di escort del Franchino. “Corri, cavallo corri”.

l’Unità 21.6.13
D’Alema-Rodotà, intesa sul modello tedesco
Il giurista: «È l’ideologia bipolare e maggioritaria che ha allontanato i cittadini dalla politica»
di Bruno Gravagnuolo


ROMA E tra Massimo D’Alema e Stefano Rodotà sboccia la grande intesa. Succede a Roma a Piazza Margana 41, nel corso di un’incontro realizzato da Italianieuropei e dalla sezione Pd Roma centro, coordinato da Natalia Augias e introdoto dalla segretaria del circolo. Per l’occasione viene anche consegnata a Fabrizio Barca, presente in sala, la tessera del partito che già da tempo aveva richiesto.
Dunque intesa su tutto, salvo sfumature, tra il totus politicus e il teorico dei diritti e della società civile, corteggiato da Grillo e lanciato per il Colle, ma poi scomunicato solo perché aveva fatto valere qualche riserva, su dialogo e democrazia interna dei Cinquestelle.
Ed eccoli i due punti chiave dell’accordo: semipresidenzialismo, bocciato da entrambi. E intreccio tra partiti, istituzioni e spazio della rete, irrinnunciabile per entrambi. Comincia Rodotà che sostiene una tesi molto netta e controcorrente: «È stata la personalizzazione della politica, unita all’ideologia bipartitica e maggiori-
taria, ad avere allontanato i cittadini dalla politica». Come? Con il bipolarismo selvaggio e la frammentazione favorita dalle ammucchiate maggioritarie, che hanno generato piccoli e grandi leader carismatici. Con corredo di populismo e trasformismo, figlio di quelle ammucchiate.
Sono cose che Rodotà dice inascoltato da decenni e ci tiene a rimarcarlo. Aggiungendo altresì che non è un conservatore, e che una seria manutenzione può salvare e rilanciare la democrazia parlamentare, insidiata dalla deleggittimazione. In altri termini per Rodotà non si può scaricare la crisi della politica sul mito di istituzioni forti e semplificatrici. Il che significa: sistema tedesco, cancellierato, due Camere con diversi ruoli e diminuzione dei parlamentari con sbarramento.
Fin qui Rodotà. Quindi tocca all’ex premier, che fa alcuni distinguo. Ad esempio rileva che «la personalità dei candidati conta, incluse le preferenze, come ha dimostrato il grande risultato di Zingaretti nel Lazio: 78-80% di partecipazione e 10,8% in più per il Pd negli stessi giorni della non vittoria in Italia e a Roma». Altro distinguo di D’Alema: «Il maggioritario ha contato, non è tutto da buttare, perché le alternanze bene o male ci sono state e ciò ha aiutato i cittadini a scegliere». E tuttavia precisa ancora D’Alema: «Oggi sono diffidente sul semipresidenzialismo rispetto a 15 anni fa». Perché? Perché per fortuna in tempi come i nostri «abbiamo sempre avuto un Presidente di garanzia e guarda caso eletto sempre con l’apporto decisivo del centrosinistra. Porta bene quel tipo di Presidente...». Non basta perché lì l’ex premier fa un’altra considerazione dirimente. Questa: «Il semipresidenzialismo ha assunto ormai una connotazione ideologica, rischia di non farci combinare nulla per costruirlo, e ciò sarebbe letale per le nostre istituzioni». E ancora: «Non siamo la Francia a suo modo “monarchica”, e un presidente eletto da una metà di elettori contro l’altra può distruggere lo Stato e inasprire i conflitti». Poi, sul finire, parte la discussione su Grillo. Sia Rodotà che D’Alema ne riconoscono il tratto «nuovo».
Un tratto però in bilico tra modernità e arcaismo, sempre sul punto di preciptare in furore «roussoiano». Cioè nella democrazia diretta che si riassume in un capo assoluto e in scomuniche. No, convengono entrambi, decisivo è integrare partiti, istituzioni e rete. Come ha fatto Obama. E a questo punto la grande intesa è davvero completa.

il Fatto 21.6.13
La strana coppia
Rodotà (applaudito) e D’Alema (interrotto)
di Fabrizio d’Esposito


Stefano Rodotà, da perfetto gentiluomo, arriva con cinque minuti di anticipo. Massimo D’Alema, invece, ritarda. Sta terminando un’altra iniziativa. “Professore è la prima volta che partecipa a una manifestazione del Pd dopo i noti fatti del Quirinale? ”. Un momento di esitazione, poi la risposta: “Guardi che io ricevo tantissime chiamate dal Pd, da tutta Italia. Per me non è una novità. Comunque sì, è la prima volta dopo quei fatti”.
Nell’attesa di D’Alema ci sono altre domande al candidato fu grillino per la successione a Giorgio Napolitano. “Professore che ne pensa dell’espulsione della senatrice Gambaro? ”. “Professore correrebbe alle primarie del centrosinistra”. Da uomo mite ma deciso, Rodotà rifiuta altre investiture e altri giudizi. Piazza Mar-gana, alle spalle di via delle Botteghe Oscure, laddove una volta esisteva il Partito comunista italiano. In una elegantissima saletta d’antan c’è un incontro sulla crisi di “rappresentanza” dei partiti. Lo spunto è offerto dall’ultimo numero di ItalianiEuropei, la rivista dell’omonima fondazione dalemiana. A organizzarlo uno dei circoli più antichi e prestigiosi del Pd, quello del centro storico della Capitale, che ha sede in via dei Giubbonari. Finalmente l’ex premier arriva. Tra il pubblico ci sono anche Marianna Madia e Fabrizio Barca, altro invocato nome nuovo dei democratici.
Ed è proprio Barca il protagonista iniziale. L’incontro inizia con una relazione della segretaria del circolo. Prima però chiama Barca: “Caro Fabrizio ecco la tessera del partito democratico”. Un altro iscritto di rango per la sezione che vanta già un capo dello Stato. Napolitano, infatti, fino alla prima elezione al Quirinale pagava le quote in via dei Giubbonari. Barca prende la tessera e D’Alema sorride. Il bello del popolo di sinistra è questo. Per i militanti, i semplici elettori esiste sempre un tetto dove poter riunire le anime diverse, se non opposte, del fu Pci. Rodotà, adottato dai grillini, ha incarnato la speranza di un governo di cambiamento con il Movimento 5 Stelle. D’Alema è l’emblema del pragmatismo togliattiano, del primato dei partiti. Eccoli qua, uno accanto all’altro, a chiamarsi per nome, “Massimo”, “Stefano”, e a richiamare il comune passato in Parlamento, sempre tra i comunisti. D’Alema cita Togliatti, “i partiti sono la democrazia che si organizza”, e rivela un episodio personale sulla funzione totalizzante e pedagogica del “Partito” di un tempo: “Avevo ventuno anni e fui eletto consigliere comunale a Pisa. Allora convivevo con una ragazza e fui chiamato dal segretario della federazione. Mi ordinò di sposarmi e io obbedii”. Quando tocca a Rodotà, la premessa strappa applausi e sorrisi: “Preciso che io mi sono sposato 53 anni fa per mia autodeterminazione, liberamente”. La sorpresa c’è quando il dibattito si inoltra sui sentieri delle riforme e della crisi dei partiti. Il pubblico democratico batte le mani a Rodotà sulla politica incapace di governare se stessa e sulla sacralità della Costituzione contro l’ingegneria costituzionale. D’Alema, al contrario, viene interrotto due volte. La prima quando si sofferma sul primato dei partiti. Dal pubblico un uomo grida: “Allora perché avete distrutto il Pci? ”. Da notare il verbo polemico usato: distruggere. L’ex premier se la cava con una battuta: “Diciamo che è cambiata la storia dell’umanità”. Una signora in prima fila intigna quando è il momento di parlare del Pd del futuro. D’Alema si pronuncia per la separazione delle figure di segretario e candidato premier in vista del congresso, chiede che “il partito non sia un’agenzia per montare i gazebo delle primarie”, dice che c’è “un centrosinistra da ricostruire”. La signora interrompe: “Il Pd è messo male”. D’Alema la mette sul potere: “Non mi pare abbiamo il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e il presidente del Senato”. La signora, in rosso, non molla: “Se ci fosse Enrico Berlinguer... ”. I puntini sospensivi sono eloquenti. Ma Rodotà e D’Alema si trovano d’accordo su qualcosa. Contro il semipresidenzialismo e contro il mito della Rete, in riferimento a Grillo. Dice Rodotà: “Per l’espulsione della Gambaro hanno votato dalle 11 alle 17 quando in Rete ci sono solo i maniaci”. A sua volta D’Alema rivela di trovare “molto dignitoso” il comportamente della Gambaro e paragona Grillo a Mussolini per il suo progetto di conquistare il 100 per cento del Parlamento. L’incontro dura più di due ore e nessuno abbandona la sala prima delle nove di sera. Rodotà è più applaudito di D’Alema. La base del Pd è anche questo. Alcuni momenti della giornata di ieri. Nella foto a sinistra, Fabrizio Barca. Qui accanto, la deputata del Pd Marianna Madia insieme al Professor Stefano Rodotà

il Fatto 21.6.13
F-35 Democratici divisi tra pacifisti e mediatori
di Wa.Ma.


Finirà che ci faremo scavalcare a sinistra dal Pdl”. Paolo Gandolfi, neodeputato emiliano del Pd, lo dice con una (mezza) battuta. Ma in realtà la questione - ancora una volta - è seria: ieri mattina i Democratici si sono riuniti a Montecitorio con una parte del gruppo per discutere degli F-35.
Sì, perché Sel ha presentato una mozione, firmata anche da alcuni deputati del Pd e dei Cinque Stelle (in btutto hanno aderito in 158), che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al programma F-35 Joint Strike Fighter, la cui spesa è stimata attorno ai 14 miliardi di euro. Per acquistare un aereo con funzioni d’attacco, capace di trasportare ordigni nucleari.
Ma la maggioranza del partito ha un’altra posizione, che ieri mattina è stata illustrata dalla Mogherini: questa mozione non si deve sostenere. Perché, come spiega Antonello Giacomelli: “Abbiamo approvato una legge l’anno scorso, secondo la quale spetta al Parlamento decidere se il programma va fermato, sviluppato o modificato”. Dunque, la motivazione ufficiale: “Non serve una mozione, basta l’iniziativa parlamentare”.
Lunedì inizia la discussione generale in Aula e il rischio di litigi è alto. Tanto che il partito s’è inventato addirittura la figura di un mediatore: Giampiero Scanu, capogruppo Commissione Difesa del Pd, ha l’incarico di trovare un accordo condiviso tra le diverse posizioni dei suoi colleghi democratici. E nel frattempo l’aula del Senato ha detto no alla calendarizzazione della mozione: la denuncia arriva da Loredana De Petris.

il Fatto 21.6.13
Barca: “Siamo come un condominio, si odiano tutti”


PER QUALCHE SETTIMANA si era parlato perfino di lui come possibile segretario. Ma al momento, l’ex ministro Fabrizio Barca non sembra molto voglioso di mettersi al timone del Pd. Se non altro perché, dopo averlo frequentato per un po’, non si è fatto un’ottima impressione della casa democratica . “Nei partiti, per riuscire a innovare ci vuole conflitto, uno scontro aperto - ha detto intervistato da Un giorno da pecora, su Radio2 - Il Pd non è innovatore, perché lì non c'è conflitto ma zizzania, e come fosse un condominio dove ci si odia”. L’amministratore lo faccia qualcun altro.

Corriere 21.6.13
Grillo-D'Alema, scintille a distanza
Il leader del M5S: «Terza guerra mondiale in corso»
L'ex premier: «Grillo vuole il 100% dei seggi come il Duce»

qui

Repubblica 21.6.13
L’intervista
Adele Gambaro, la senatrice espulsa: continuerò a restituire la parte extra dello stipendio
“Nel Movimento ha vinto la censura il clima è di terrore, non c’è futuro”
di Caterina Giusberti


BOLOGNA — «Sarà una questione di età, di sicurezza. Io non sono più una ragazzina e non sopporto di essere comandata a bacchetta ». Il giorno dopo l’espulsione, la senatrice Adele Gambaro descrive la sua delusione senza scomporsi. Usa lo stesso tono pacato di quando una settimana fa ha osato criticare Grillo, dai microfoni di Sky. Quello di una signora di 49 anni, ragionevole e indignata. Lo ribadisce, la comunicazione del m5s è sbagliata. «Qualcosa non va, in tre mesi siamo riusciti a fare passare solo le polemiche interne. E non si può dire sia colpa dei giornali ». Si augura che le epurazioni siano finite. «Ho sentito che Grillo ha chiamato i dissidenti. Penso sia una novità importante. Spero che la mia espulsione sia servita a questo». E annuncia: «Continuerò a ridurmi l’extrastipendio».
Senatrice Gambaro, come si sente oggi?
«Molto amareggiata. In una settimana è successo di tutto. I miei bambini sono sperduti, colpa della sovraesposizione mediatica. Io non capisco perché nel Movimento è prevalsa questa linea di censura, avevo solo fatto un invito ad abbassare i toni. Sono molto pessimista sul futuro dei 5 Stelle. D’altronde sono stata espulsa due volte...».
La sua espulsione era decisa fin dall’inizio?
«È ragionevole pensarlo. Grillo l'ha detto subito che me ne dovevo andare, fin dal primo post. E alla fine è andata così. Passando per tutta la trafila, la stessa di Mastrangeli: prima il voto in assemblea, poi in rete».
Lei è stata buttata fuori peraver criticato la comunicazione di Grillo, ma tanti suoi colleghi sono a disagio per lo stesso motivo. Accusano il “gruppo comunicazione” di fare politica obbedendo al volere del guru, spesso in aperto contrasto con le posizioni dei parlamentari.
«Qualcosa che non va nella comunicazione c’è. In tre mesi di lavoro siamo riusciti a parlare solo delle nostre polemiche interne. E non è colpa dei giornali. Non so perché si sia instaurato questo clima di terrore, ma mi ha messo a disagio».
Prevede altre espulsioni dopo la sua?
«Non saprei. Ora Grillo ha cambiato strategia, cerca il dialogo. Penso che questa sia una novità importante, che potrà servire auna comunicazione migliore. Il dissenso va ascoltato».
I suoi colleghi la pensano come lei?
«Io avevo un disagio che era mio. Altri lo sentono, ma in maniera meno forte. Dipende dalla storia di ognuno».
Andrà nel gruppo misto?
«Direi di sì, come Mastrangeli».
È stata contattata da altri gruppi parlamentari?
«Non direttamente».
I maligni dicono che lei ha architettato tutto per non tagliarsi lo stipendio.
«Mi sono impegnata a restituire una parte dello stipendio e lo farò. Anzi finalmente potrò farlo, visto che la questione extrastipendio finora è stata gestita con molta approssimazione dal M5S. Ne hanno fatto uno spot elettorale, ma si tratta di cose serie. Sceglierò a chi devolverlo e lo farò. Da sola».

il Fatto 21.6.13
Afragola, africani picchiati “Ci trattano come animali”
In pochi giorni si moltiplicano gli episodi di violenza contro la comunità nera
di Antonio Massari


Afragola (Napoli). Afragola cambia pelle, passo dopo passo, mentre dalle luminarie accese di corso Garibaldi ti avvicini alla piazza del Municipio: si fa sempre più nera, a ogni isolato, in ogni corte che s'apre e in ogni basso abitato. “Uagliò, epassstapall! ”, dice un ragazzino nero al suo amichetto bianco. La versione afragolese dello spot sui biscotti Ringo, purtroppo, non rispecchia la realtà. Anzi. Sabato notte un ragazzo del Burkina Faso è stato aggredito a legnate da due coetanei: mentre scriviamo è ricoverato nel reparto di chirurgia maxillo facciale dell'ospedale Cardarelli di Napoli. Suo cugino ci racconta l'aggressione: “L'hanno fermato mentre era in bici, l'hanno stretto con le spalle al muro, poi l’hanno colpito con un asse di legno, sulla testa, ma lui ha schivato il colpo e la legnata l’ha colpito in faccia”. A quanto pare - anche se non risultano altre denunce - non si tratta di un caso isolato. Fratture al volto, denti rotti, trauma fisico e psichico, per questo bracciante, che dall'Africa ha tentato la fortuna nella provincia di Napoli, la degenza in ospedale si profila lunga e dolorosa. Ieri è morto Samuel, ghanese che gestiva un internet point vicino piazza del Municipio, ma a quanto pare non s’è trattato di razzismo. Le indagini sono in corso, ma un fatto è certo: è volato giù da un terzo piano. Gli inquirenti stanno abbandonando l’ipotesi del suicidio: a lanciarlo dal balcone sarebbero stati degli italiani, tre giorni fa, ferendolo in modo mortale. Forse aveva infastidito qualcuno. E quel qualcuno s’è fatto giustizia da sé. Afragola sembra tranquilla, mentre il sole tramonta, e i bordi della fontana di piazza del Municipio ospitano italiani e immigrati, gli uni accanto agli altri, senza alcuna apparente tensione. Ma basta fare qualche domanda per capire che qui siamo arrivati al-l’umiliazione del tiro a segno: “C'è chi ci colpisce con le patate mentre torniamo a casa”, dice un uomo in un italiano stentato. “Abbiamo visto ragazzi in auto con mazze di legno. Ti fermano, e se gli rispondi, ti menano”.
STORIE di ordinaria umiliazione. E di scarse denunce: in tre anni, a parte il caso di Ibrahim, non ricordo alcuna denuncia, dice un investigatore. Va detto che se sei clandestino, però, denunciare è l'ultimo dei pensieri che può venirti in mente. E lo sfogo di Barah e del suo amico è duro: “Lavoriamo in campagna e nei cantieri, ci pagano poco e paghiamo i contributi, facciamo una vita di merda e adesso non possiamo neanche uscire la sera. Gli animali non pagano le tasse: quindi non possiamo essere degli animali. Però qui da animali ci trattano. E ora ci siamo stancati”. Due giorni fa, dopo il pestaggio del giovane Ibrahim, è stata indetta una manifestazione, qui di fronte al municipio, a cui hanno partecipato immigrati e italiani venuti anche da Napoli. Ma una manifestazione non basta. È necessaria un'inversione di rotta, in questa città, che a detta del suo stesso sindaco, Domenico Tuccillo, sta vivendo un razzismo strisciante. “Andrò a trovare Ibrahim in ospedale, per dare un segnale alla comunità degli immigrati e a quella degli afragolesi. È stato senza dubbio un episodio di razzismo: è un problema che sta crescendo di pari passo con la crisi economica che, in realtà come le nostre, già in sofferenza per la scarsa occupazione, creano disgregazione e conflittualità sociale”. Qui gli immigrati sono migliaia, da decenni, eppure “non c'è un'anagrafe che li censisca - dice il sindaco, che s'è insediato da pochi giorni - manca la conoscenza adeguata della loro condizione. Eppure, le assicuro, questo paese ha una grande tradizione di accoglienza”. C'è un forte sentimento religioso. E anche un forte attaccamento, però, alle ricchezze materiali. “Siamo in gran parte un popolo di edili e carpentieri: la crisi ci ha messo in ginocchio. C'è una gran fame di lavoro. Non credo sia un fenomeno che riguarda solo Afragola: in scala nazionale, a mio avviso, il razzismo e il conflitto stanno deflagrando per colpa della crisi”, spiega il sindaco. Sarà, ma qui gli immigrati denunciano di non voler più uscire la sera per strada, perché oramai si sentono il bersaglio di ragazzi armati di mazze. E con l'umiliazione - basti ricordare i giorni nefasti di Rosarno - il conflitto può trasformarsi in sommossa e guerriglia. Su corso Garibaldi le luminarie azzurre e rosse risplendono, tra bancarelle e negozi che chiudono, mentre gli afragolesi scendono per strada, pronti a salutare Sant’Antonio da Padova che, intorno alle dieci, sfilerà per tutta la città. Pochi giorni fa, a Napoli, è stato ucciso un ragazzo del Bangladesh. Dice Jammil Qaddora, responsabile immigrazione per Cgil Campania: “ Ad Afragola c'è stato un ferito e un morto. Se si tratta di semplice delinquenza o peggio, di camorra, bisogna alzare la guardia. Non vorrei invece che si trattasse di razzismo e, in questo caso, siamo pronti a grandi manifestazioni”.

La Stampa 21.6.13
Ius soli

Dietro le critiche la lotta assurda all’immigrazione
di Giovanna Zincone


Lo ius soli di stile europeo, il solo in discussione oggi in Italia, non prevede che il figlio di uno straniero nato sul posto diventi all’istante un cittadino, vuole che ci sia andato a scuola o che i suoi genitori ci vivano da tempo. La distinzione tra ius soli puro, che per semplicità chiamiamo all’americana, e ius soli temperato all’europea pareva ormai entrata nel dibattito pubblico nostrano. Non solo, sembrava pure che la variante europea fosse giudicata con favore da un numero crescente di politici raziocinanti di qualunque partito, non ultimo il governatore Zaia. Una riforma di questo tipo che – come è stato detto – allineerebbe la legislazione italiana alla gran parte degli Stati europei può rappresentare ancora motivo di scandalo? Pare proprio di sì. C’è chi, come Sartori, si indigna e dà dell’ignorante proprio a coloro che invece non ignorano di cosa si stia parlando. Lo spauracchio di uno ius soli all’americana, che nessun politico responsabile ha mai proposto per l’Italia, viene agitato ancora in questi giorni fuori luogo e fuori tempo: un fantoccio polemico per ripescare un’espressione di Einaudi.
Ma coloro che se la prendono con una proposta inesistente, così come quelli che mugugnano perfino per una mini revisione che prevede di non tener conto di inadempienze amministrative dei genitori, di fatto hanno un bersaglio più grande e assurdo: l’immigrazione. Purtroppo l’assurdo alligna tra gli umani.
La riluttanza di fondo ad accettare l’immigrazione è un malessere diffuso tra molti cittadini europei, non solo tra gli italiani. Gli scossoni sociali non si assorbono facilmente, richiedono tempi lunghi. Proprio per questo è bene inserire elementi di razionalità che contrastino le pur comprensibili reazioni di spaesamento e di insofferenza. Si tratta di un esercizio abusato, ma evidentemente vale la pena di ripeterlo di tanto in tanto. Ci riprovo.
Si può razionalmente pensare che la presenza di immigrati sia un fenomeno temporaneo e reversibile? Si può ancora credere che si tratti di un incidente di percorso della società italiana, miracolosamente destinata a restare, unica nell’occidente, popolata di soli autoctoni, tutt’al più contornati da lavoratori stranieri destinati ad andarsene? Le ultime valutazioni indicavano più di 5 milioni di residenti stranieri, l’8 per cento della popolazione, con percentuali più alte sulla popolazione più giovane e sui nuovi nati. Possiamo ignorare il peso dei numeri? E vogliamo sul serio credere che le attività preminenti tra queste persone consistano nel delinquere o bighellonare per strada? Nel 2012 gli immigrati erano il 10,2% degli occupati in Italia. I lavoratori stranieri rappresentano un polmone della nostra economia: sono infatti più presenti dei nazionali nelle nuove leve degli assunti, ma sono anche stati colpiti dalla crisi molto più degli italiani. Tra il 2008 e il 2012 il loro tasso di disoccupazione è cresciuto di 2 punti percentuali in più rispetto a quello degli italiani. Chi auspica il blocco degli arrivi dall’estero dovrebbe osservare che quando l’immigrazione rallenta o si ferma è assai probabile che l’intera economia sia inceppata. La crisi ha drasticamente ridotto i nuovi ingressi di immigrati e il governo ha programmato per ora solo permessi di lavoro stagionale. Si segnalano flussi di rientro nei Paesi di origine. Sono tutti segnali negativi: ci dicono che qui manca lavoro per tutti, ma ci dicono anche che la componente straniera rappresenta un fattore di flessibilità molto importante per il sistema economico. Gli immigrati costituiscono poi circa l’80% del lavoro domestico. Mi pare superfluo ricordare a chi vede l’immigrazione come un flagello biblico, il ruolo determinante che questi lavoratori svolgono nel coprire grosse lacune del nostro welfare familiare.
Le migrazioni evidenziano problemi, carenze congiunturali e strutturali. E non sempre le risolvono. In una recente conferenza al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, un brillante economista, Eric Hanushek, ha illustrato – tema ormai ben noto – la forte relazione empirica che esiste tra capitale umano, tra competenze realmente acquisite, da una parte, e crescita economica, dall’altra. E ha indicato l’Italia come un Paese perdente nel confronto con altre economie avanzate: attardato sia sul fronte delle capacità acquisite con l’istruzione, sia conseguentemente sul fronte della crescita. Si aggiunga che il nostro Paese esporta più studenti universitari, più giovani laureati e lavoratori altamente istruiti di quanti ne importi. E questo è un danno. Altro che chiudere le porte a giovani stranieri capaci, per paura che rubino il lavoro ai nostri. Dobbiamo, invece, impegnarci a importare capitale umano e dovremmo al contempo produrne di più: pretendere maggiore qualità dai nostri sistemi di istruzione e più raccordo tra istruzione e lavoro. Si tratta di investimenti a lungo termine, ma necessari e, con il tempo, tremendamente redditizi. Per intanto è bene avere chiaro che la domanda di lavoro non è un bacino immutabile o destinato a un’inevitabile contrazione, non è una torta che lavoratori nazionali e immigrati si litigano tra loro. La presenza sul territorio di lavoratori capaci ai vari livelli è uno dei fattori, anche se certo non il solo, che può attrarre capitali esteri, ingrandire la torta, creare nuove opportunità di lavoro per tutti. Una società e un sistema economico piccoli, chiusi, spaventati e senescenti sono proprio l’opposto di quel che ci serve per la crescita. E non dimentichiamo che gli stranieri sono anche consumatori, inquilini, acquirenti di case: sono anche domanda, non solo offerta. Insomma, se è innegabile che l’immigrazione crei problemi e che quei problemi vadano affrontati, tuttavia fissare l’attenzione solo sul lato oscuro non aiuta a far crescere l’Italia. La cosa vale anche con riferimento specifico ai bambini stranieri. La nostra popolazione è pericolosamente vecchia. Dobbiamo dolerci del fatto che stiano nascendo meno figli di immigrati. Abbiamo un gran bisogno di quei bambini ai quali non si vorrebbe dare la cittadinanza prima dei 18 anni. Ne abbiamo bisogno non solo per la nostra economia, in particolare per l’annoso problema del saldo pensionistico, ma perché ci piace che scorrazzino nei cortili delle nostre scuole e nei nostri giardini. Non credo che basti dare a loro e ai loro genitori un permesso di soggiorno permanente, come suggerisce Sartori. Peraltro già ora, dopo 5 anni di residenza regolare, si può ottenere la carta di soggiorno CE a tempo indeterminato e farla avere ai familiari. Può darsi che alla gran parte degli immigrati questa soluzione vada bene, ma dovrebbe preoccupare gli italiani. Operare in modo che milioni di lavoratori e di loro discendenti siano esclusi il più a lungo possibile dalla cittadinanza e dalla comunità politica non giova alla salute della nostra democrazia. Forse la bontà a volte ci inganna, ma il malanimo, a pensarci bene, ci inganna più spesso.

La Stampa 21.6.13
Rifugiati, il rapporto dell’Onu
Arriva l’effetto Siria È boom di profughi
Nel mondo sono 45 milioni , mai così tanti dal 1994
di Tomaso Clavarino


I numeri fanno rabbrividire, a maggior ragione se si pensa che la cifra raggiunta è la più alta dal 1994 a oggi: 45 milioni e 250 mila persone, è questo il numero degli sfollati nel mondo nel 2012. Di questi circa 15 milioni e mezzo sono rifugiati, 937 richiedenti asilo, mentre quasi 29 milioni sono le persone costrette a lasciare le loro case pur rimanendo all’interno dei confini dei loro Paesi. Persone fuggite da conflitti, repressione, disastri ambientali e carestie, e provenienti, per il 55%, da Paesi dove sono in corso guerre o violenti conflitti interni: Afghanistan, Siria, Iraq, Somalia e Sudan.
«Sono numeri allarmanti – ha affermato António Guterres, Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati, durante la presentazione del report «Global trends» redatto dall’Unhcr – che riflettono sia sofferenze individuali su larga scala che le difficoltà della comunità internazionale nel prevenire conflitti». Quello siriano è certamente l’indiziato numero uno per l’aumento del numero dei rifugiati nel mondo. Secondo l’Unhcr solo nel 2012 sono state oltre 600 mila le persone costrette a fuggire da Damasco, Aleppo, Homs, in quello che è stato il più grande esodo annuale da parte di un singolo gruppo di rifugiati dal 1999 a oggi. Allora erano state 867 mila le persone costrette a fuggire dal Kosovo. Inimmaginabile è anche il numero degli sfollati rimasti all’interno dei confini siriani: oltre quattro milioni, cifra che contribuisce al raggiungimento del più alto numero di persone, all’interno di questa categoria, da vent’anni a questa parte.
Sempre secondo l’Unhcr dall’inizio del conflitto siriano, nel 2011, sono stati oltre un milione e 600 mila i rifugiati oltre confine, più di metà dei quali bambini. Numeri che raccontano una crisi che non sembra avere mai fine. Una crisi che costringe oltre 23 mila persone ad abbandonare le proprie case ogni giorno e che fa sì che oltre il 46% del totale dei rifugiati sia composto da bambini e ragazzi con meno di 18 anni. Non è un caso quindi che nel 2012 l’Unhcr abbia registrato il più alto numero di richieste di asilo da parte di bambini non accompagnati: oltre 21 mila. L’Afghanistan si riconferma per il 32° anno consecutivo il Paese con il più alto numero di rifugiati (due milioni e 500 mila), seguito dalla Somalia (un milione e 100 mila) e dall’Iraq (740 mila). Paesi dove i conflitti vanno avanti da anni e la situazione sembra essersi stabilizzata. Sono invece i nuovi fronti di guerra ad allarmare gli operatori delle ong e dell’Unchr. Paesi come Siria, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Mali, potrebbero far aumentare nei prossimi mesi il triste bilancio degli sfollati.
Sul tema è anche intervenuto, con un messaggio rivolto all’Unhcr, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affermando che «la comunità internazionale ha più che mai il dovere di impegnarsi affinché i diritti fondamentali della persona umana siano non solo invocati ma soprattutto tutelati».

Corriere 21.6.13
Violenza sulle donne Il 30 per cento colpite da compagni o ex
Primo studio globale sulla violenza Una donna su tre ha subito abusi
Il 38 per cento degli omicidi avviene per mano del partner
di Anna Meldolesi


La violenza contro le donne è un'emergenza globale. Lo dice una ricerca dell'Organizzazione mondiale della sanità su abusi sessuali e costi sociali.
Vittime. I dati si basano sull'analisi di 141 ricerche compiute in 81 Paesi e comprendono costi economici e sociali. Indicano che il 35% delle donne è costretto a subire forme di violenza. La più comune è perpetrata da mariti, fidanzati o ex compagni. Ne risulta vittima il 30% delle donne.
Lavoro. La Banca d'Italia ha diffuso intanto uno studio sulla condizione femminile con particolare riguardo al mercato del lavoro: i cambiamenti ci sono, ma sono ancora pochi e lenti.

Dati affidabili non ce n'erano, ora ci sono, e dicono che la violenza contro le donne è una questione strutturale globale. «Un problema sanitario di dimensioni epidemiche», lo ha definito ieri il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità Margaret Chan, presentando il più grande studio mai fatto sugli abusi fisici e sessuali subiti dalle donne in tutte le regioni del pianeta.
Questi i dati più impressionanti emersi dall'analisi di 141 ricerche effettuate in 81 Paesi. Il 35% delle donne subisce nel corso della vita qualche forma di violenza. La più comune è quella perpetrata da mariti e fidanzati. A esserne vittime sono ben il 30% delle donne. E ancora: il 38% di tutte le donne uccise muore per mano del partner, certifica l'Oms che per l'occasione ha lavorato insieme alla London School of Hygiene & Tropical Medicine di Londra e al South African Medical Research Council. Il 42% di coloro che hanno subito violenze fisiche o sessuali da uomini con cui avevano avuto una relazione intima ha riportato danni alla salute. Sono tante, troppe per pensare che siano diverse da noi, queste madri, sorelle, figlie, lavoratrici. Troppe anche per pensare che il problema riguardi i singoli anziché la politica, le istituzioni, la collettività.
Quello che non sappiamo è come il fenomeno stia evolvendo nel corso del tempo: «È la prima volta che i dati sono compilati in modo rigoroso e sistematico, perciò non abbiamo termini di paragone. Il rapporto mostra che i livelli di violenza sono molto alti ovunque. Dobbiamo concentrarci sulla prevenzione e sulle risposte da dare su scala internazionale, nazionale, locale», ha detto al «Corriere della Sera» Jenny Orton, dell'istituto londinese.
Appena la scorsa settimana la rivista medica «Lancet» aveva pubblicato uno studio firmato da un'altra partnership internazionale, secondo cui una donna su sei tra coloro che si fanno curare per delle fratture ha subito violenze domestiche nell'ultimo anno. A quasi nessuna di queste 3.000 donne, prima di allora, un medico aveva mai fatto domande su eventuali abusi subiti dal partner. Questa situazione deve cambiare, ha ammonito l'Oms, presentando apposite linee guida per gli operatori sanitari. L'impatto degli abusi sulla salute, aggiunge l'organizzazione di Ginevra, comprende anche depressione e alcolismo, che sono due volte più probabili in chi ha subito violenze dal partner. Le infezioni sessualmente trasmissibili sono una volta e mezzo più probabili. Il ricorso all'aborto due volte maggiore, mentre i bambini che vengono fatti nascere sono meno sani.
Non vengono rilasciati dati scorporati, divisi per singoli Paesi, ci conferma una delle studiose coinvolte, ma la classifica delle violenze domestiche è guidata da Asia sudorientale, Paesi arabi del Mediterraneo e Africa, tutti con percentuali intorno al 37%. In Europa va meglio, ma non abbastanza: oltre 25 donne su cento sono abusate fisicamente o sessualmente dai partner.
Le sofferenze non hanno prezzo, ma se si potesse conteggiare il danno economico annuale della violenza domestica globale sarebbe enorme, considerato che Inghilterra e Galles da sole stimano un costo di 15 miliardi di sterline. I dati non sono ancora esaustivi, il quadro delle variazioni regionali comunque identifica almeno in parte le radici del fenomeno e suggerisce le contromisure. Proteggere i bambini dalle violenze aiuta a farne degli adulti migliori. L'istruzione femminile secondaria è correlata a una maggior sicurezza. Quanto al lavoro femminile retribuito, l'influenza dipende dal contesto geoculturale, spiegano su «Science» i ricercatori che hanno lavorato con e per l'Oms. Nell'immediato una donna che inizia a lavorare può essere più a rischio, soprattutto se ha un partner disoccupato, che si sente minacciato dalla sua indipendenza. Nel lungo periodo però l'emancipazione è benefica.
Oltre ad aiutare le vittime, c'è un grande lavoro di educazione e sensibilizzazione da fare, che passa anche per le riforme del diritto familiare e la lotta a tutte le disparità di genere. L'obiettivo è rendere le violenze sulle donne sempre meno accettabili socialmente. Un dato infatti è chiaro: anche al netto del grado di sviluppo economico dei Paesi, gli abusi fisici e sessuali sono più diffusi là dove, per affermare l'autorità maschile all'interno della coppia, le norme culturali tendono a giustificare il ricorso alla forza.

l’Unità 21.6.13
«Sviste»
Il tesoretto dimenticato
Ogni anno l’Italia non utilizza i fondi europei per la cultura
Dei 28 miliardi di euro a disposizione ne sono stati spesi circa la metà. La denuncia dell’economista Flavia Barca e i possibili scenari strategici per il futuro
Occorre coinvolgere esperti di internet e nuovi media avere obiettivi chiari e controlli trasparenti
di Luca Del Fra


ROMA DA DOVE PUÒ ARRIVARE QUALCHE BUONA NOTIZIA PER LA CULTURA? DAI FINANZIAMENTI MESSI A DISPOSIZIONE DALL’UNIONE EUROPEA PER IL PERIODO 2014 2020, SECONDO L’INTERVENTO DI FLAVIA BARCA AL CONVEGNO «CULTURA E CREATIVITÀ PER LO SVILUPPO» che si è tenuto nella sede capitolina del Parlamento Europeo.
In un panorama come quello italiano dove, per intese quanto mai larghe, di nuovi investimenti pubblici alla cultura oramai nessuno si azzarda neppure a parlare, una pioggia di miliardi proveniente da oltralpe appare come ossigeno purissimo. Tuttavia accanto alle luci anche in questo caso non mancano le ombre, che la relazione non nasconde, proponendo però alcune linee strategiche per il futuro.
Flavia Barca infatti affronta il tema da economista della cultura ricordando come i fondi strutturali europei destinati all’Italia nel periodo 2007 2013, siano rimasti in larga parte inutilizzati: di 28 miliardi di euro a disposizione, ne sono stati spesi per ora circa la metà (14,4) e per i progetti culturali circa 475 milioni, sugli 800 milioni di euro a disposizione.
MIOPIA
Che tutto ciò fosse prevedibile e previsto, dispiace ma non sorprende: la Fondazione Rosselli allora Barca era direttore del settore economia dei media -, aveva dato l’allarme già a inizio 2012. Più intrigante è come i finanziamenti europei siano investiti: secondo «opencoesione», il portale che monitora i flussi di danaro Ue, oltre l’80% delle risorse sarebbero finite nella conservazione del patrimonio la programmazione prevedeva per questo settore il 47% -, mentre per le infrastrutture culturali la spesa è stata solo del 12,5% (su una programmazione del 20,1%), che scende ulteriormente per i servizi culturali al 5,5% a fronte di una programmazione del 32,5%.
Una singolare situazione che Flavia Barca spiega come «dovuta anche alla mancanza di una “vision” innovativa sul ruolo e le potenzialità della cultura, nonché al fatto che il patrimonio stesso è per lo più di proprietà pubblica ed il trasferimento di risorse tra amministrazioni pubbliche risulta assai più agevole che destinare risorse a soggetti privati».
Si potrebbe aggiungere che tra i paesi europei l’Italia detiene di gran lunga il maggior patrimonio (siti archeologici, monumenti, edifici storici, musei e così via) e dunque è naturale che i fondi Ue finissero nella sua conservazione, soprattutto in un decennio dove i finanziamenti dello Stato a questo scopo sono stati ridotti a lumicino.
Il che porta ad alcune considerazioni più generali, che esorbitano la relazione di Barca ma possono chiarire il contesto di come e perché molto danaro della Ue non sia stata utilizzato nel settore cultura. Da una parte è evidente come al momento di decidere le linee programmatiche dell’Unione Europea per gli investimenti la voce italiana sia stata debole rispetto a quella di altri paesi (Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna) e delle lobby, dunque le nostre esigenze sono passate in secondo piano rispetto ad altre.
A fronte delle precise regole e tempi dettati dai regolamenti europei, si aggiunga la italica incapacità alla programmazione, in parte derivante da una crisi politica endemica, che nel settore cultura ha preso spesso l’aspetto di una cronica guerriglia tra bande.
Dall’altra parte sarebbe controproducente negare come nel nostro paese il cosiddetto apporto dei privati nella cultura è orientato per lo più verso logiche intrattenitive e di modesto peso culturale, il che lo esclude dal flusso madre dei finanziamenti alla cultura della Ue. Infatti, la stessa relazione di Flavia Barca evidenzia come i progetti culturali abbiano ottenuto maggiori investimenti dai fondi Ue per il turismo: dunque nella logica della cultura quale attrazione, cioè specchietto per villeggianti-allodole.
Per uscire da questa impasse e utilizzare al meglio gli investimenti Ue per il 2014-2020, Barca suggerisce alcune contromisure di pronta attuazione: occorre in primo luogo avere una maggiore attenzione alle linee guida dettate dalla Ue, che nel futuro privilegeranno la cultura come strumento di innovazione, puntando alla digitalizzazione, all’apporto di internet, alla promozione e salvaguardia dell’ambiente. La relazione aggiunge acutamente di tenere presente l’investimento in formazione, il sostegno all’occupazione e alla sua mobilità, quest’ultima caratteristica del lavoro creativo.
AL CENTRO DELLA STRATEGIA
Ed è proprio in direzione dell’unione di cultura e creatività che bisognerà muoversi, asse dove è facile avvertire le pressioni delle lobby economiche molto vitali a Strasburgo e Bruxelles, ma, suggerisce Barca, ponendo al centro della strategia pubblica italiana la cultura a partire dal Documento di programmazione economica del Governo -, in modo che Stato, Regioni e Comuni possano indicare le strade di un maggior intervento dei capitali privati, in Italia a essere ottimisti esigui.
E qui c’è molto da fare, a iniziare dalla selezione dei progetti e di una valutazione della loro riuscita in corso e a fine opera. Questo è un tema ancora in alto mare soprattutto nella cultura, dove sfuggire a una valutazione di merito appare impossibile, ma apre le porte a pericolose intromissioni di gusto e soggettivismi. Dunque occorre formare dei «decisori», cui sia dato peso, creare «un
a nuova coesione sociale tra esperti di cultura ed economisti», coinvolgere esperti di internet e nuovi media, avere chiari obiettivi e controlli trasparenti. Il tutto naturalmente potrà avvenire all’ombra di politiche dove, per citare l’intervento di Barca, sia definita «una chiara, condivisa e unitaria visione nazionale sul ruolo della cultura», che nel nostro paese non sembra affatto scontata o facile da raggiungere.

Corriere 21.6.13
I beni culturali, la nostra ricchezza dimenticata
di Luciano Canfora


«S e Atene piange, Roma non ride» potremmo dire ritoccando l'antico motto. Ad Atene è stata chiusa per un bel po' (e da ultimo riaperta solo a ranghi ridotti) la Televisione di Stato con effetto devastante su molti piani. A Roma, solo per qualche ora, è stato chiuso il Colosseo. Ad Atene si trattava di punire giornalisti colpevoli di voler troppo informare i cittadini, a Roma sono gli operatori del settore che vogliono poter offrire in condizioni più accettabili un servizio migliore. Si sa che l'Italia vive da decenni un paradosso: il Ministero forse più rilevante, giacché cura la nostra maggiore ricchezza — i beni culturali — è anche quello cui le insondabili alchimie del bilancio statale infliggono le maggiori privazioni. Se fosse solo questione di ritocchi e aggiustamenti, e non invece di drastici tagli e riduzione del personale, non si ricorrerebbe ad un atto estremo qual è sempre l'interruzione di un servizio. Per giunta nel cuore dell'afflusso turistico estivo. Afflusso ormai molto più intenso, popolare e redditizio, che non ai tempi della turista «britanna» dalle «cineree trecce» immortalata dal Carducci nell'ode barbara Dinanzi alle Terme di Caracalla. Nel rituale politico di ogni tempo e di ogni Paese la nascita di un nuovo governo è sempre occasione di nuove speranze. E allora quella attuale potrebbe essere la volta buona per i beni culturali, se è vero che già si levano voci critiche verso gli sprechi guerreschi (bombardieri di ormai penultima generazione) cui il precedente governo non aveva saputo rinunciare. Ripensare nel suo complesso il bilancio dello Stato in funzione della cultura e, perché no?, dell'istruzione, sarebbe una vera rivoluzione pacifica e dai durevoli effetti. Se dunque è giusto segnalare l'enormità di quanto accaduto ieri al Colosseo, è anche giusto ripetere con la Scrittura: oportet ut scandala eveniant!

l’Unità 21.6.13
Maggio Fiorentino destinato
alla liquidazione
Summit sullo stato «gravissimo» della Fondazione con il ministro Bray e il sindaco Renzi
di Tommaso Galgani


FIRENZE LIQUIDARE O CHIUDERE. «TERTIUM NON DATUR». IL MAGGIO MUSICALE FIORENTINO È AL BIVIO PIÙ DIFFICILE DELLA SUA STORIA. L’esito del summit al Ministero dei Beni culturali non lascia infatti scampo: il commissario della Fondazione, Francesco Bianchi, prospetta un quadro della situazione «gravissimo», e per lui non esiste alternativa alla liquidazione della Fondazione, «pena la sua definitiva e totale chiusura». E il ministro Massimo Bray, il sindaco di Firenze Matteo Renzi, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e l’assessore provinciale Pietro Roselli, presenti all’incontro, ne devono prendere atto. Per dirla con la nota ufficiale del Ministero dopo l’incontro, «il Commissario ha rappresentato ai presenti la situazione gravissima che comporta o la chiusura o la liquidazione della Fondazione». Ma ancora non c’è rassegnazione: tutti i presenti al summit hanno chiedono a Bianchi «un piano che consenta la continuità e il rilancio dell'attività e della programmazione artistica, e il raggiungimento entro un tempo prestabilito dell’equilibrio economico e finanziario».
Lo scenario che si auspica è quello di un Maggio-Araba Fenice, che rinasca dalle proprie ceneri. Liquidazione (che Bray dovrebbe ufficializzare, pare, in tempi brevi), andare avanti con le attività (prossimi appuntamenti; il MacBeth al teatro fiorentino della Pergola e gli eventi a Palazzo Pitti da fine giugno), pagare tutti i debiti milionari e «rinascere» in una nuova Fondazione, più snella. Certo, l’organico e gli integrativi non saranno i soliti (si parla anche di ricollocazioni al Ministero), cercando di non sacrificare troppo la qualità e le attività del «prodotto», oggi uno dei migliori. In un quadro che resta drammatico, una strada la indica Rossi, dopo il summit romano: «Il mio obiettivo è salvare il Maggio, in coerenza con il mandato ricevuto dal Consiglio regionale. Se la liquidazione è il passaggio tecnico obbligato, ho chiesto che venga accompagnato anche da un piano di rilancio produttivo del Maggio». Come? «Serve innanzitutto garantire al nuovo ente la necessaria liquidità per lo svolgimento della propria attività dice il governatore -. A questo scopo ho chiesto un intervento del governo che assicuri attraverso la Cassa depositi e prestiti la necessaria liquidità per superare la fase di criticità e garantire lo svolgimento dell’attività. Ho chiesto anche la garanzia per i lavoratori, eventualmente in esubero, del posto di lavoro attraverso percorsi di formazione e di mobilità anche in altri enti».
Mentre il Maggio rischia anche di diventare un modello per le altre crisi di altre Fondazioni liriche italiane, sfiancate dai tagli, lavoratori e sindacati cosa dicono? Il colpo è stato grosso, anche se non è stato certo un fulmine a ciel sereno. E i dipendenti lo sanno bene: negli ultimi anni hanno dovuto fare diversi sacrifici (Cassa integrazione, solidarietà, cessione del Tfr) e anche polemizzare con Renzi che li accusava di avere «sacche di privilegio». «È una drammatizzazione ulteriore della situazione e valuteremo come rispondere», commenta Paolo Aglietti della Slc Cgil e dipendente del Teatro fiorentino. Proprio in contemporanea al summit romano, Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil illustrano a Firenze il piano alternativo a quello del Commissario che prevede 119 esuberi per un rientro annuo di 4,5 milioni di euro. Secondo il programma dei sindacati, con cui secondo loro si potrebbe evitare la liquidazione, si arriverebbe invece a un risparmio di 2 milioni e 750mila euro all'anno, attraverso tagli alle retribuzioni e incentivi all’esodo. I lavoratori del Maggio sono in agitazione: già si parla di assemblee e proteste. In molti si sfogano su Facebook nella pagina «Noi che vogliamo che il Maggio non chiuda» (20mila membri), prendendo di mira soprattutto Renzi e qualcuno anche Rossi.

il Fatto 21.6.13
Com’è ingannevole il termine “democrazia”
di Bruno Tinti


BOBBIO diceva che gli intellettuali devono seminare dubbi, non raccogliere certezze. Di questi tempi mi viene facile. In Turchia, Erdogan, democraticamente eletto, incarcera gli oppositori, reprime il dissenso ed emana decreti contro i baci in pubblico e l’alcool. Il suo predecessore, il padre della patria Ataturk, illuminato tiranno, si sforzò di costruire una democrazia di stampo occidentale. Nei Paesi arabi del nord-Africa, i regimi sedicenti democratici che hanno sostituito i dittatori Mubarak, Gheddafi e via dicendo, sono gestiti da integralisti islamici che si propongono, tra l’altro, di limitare i diritti delle donne. Però hanno vinto formali elezioni e hanno il consenso di una grande maggioranza.
In Siria, il dittatore-assassino Assad è combattuto da fondamentalisti islamici che, quando e se prevarranno, dopo elezioni presumibilmente sanguinose e inquinate da brogli, seguiranno lo stesso percorso dei loro consimili mediterranei. In Ungheria, Orban, anche lui democraticamente eletto, sta realizzando una dittatura fascista che Putin, altro vincitore di elezioni democratiche, ha completato da un pezzo.
Infine Hitler e Mussolini non sono spuntati un giorno sotto un cavolo, seguiti da SS e Ovra: entrambi hanno vinto elezioni democratiche e hanno contato per anni su entusiastiche maggioranze. I dubbi seminati da questi esempi potrebbero essere dissolti da una riflessione ormai dimenticata: democrazia non significa solo vincere le elezioni; significa accettare un sistema di controllo (delle opposizioni, della magistratura, degli organi di informazione). Sicché, se il popolo contesta, si fa un referendum; se i giornali criticano, si danno spiegazioni (vere, non bla bla bla) ; se la magistratura assolve o condanna, si rispettano le sentenze (soprattutto quando riguardano la classe dirigente). Quindi, nei Paesi citati, accade quel che accade semplicemente perché lì non c’è democrazia. Una tranquillizzante certezza. Poi però scopriamo che negli Usa (e non in Italia, dove le intercettazioni sono ordinate dai giudici dopo la consumazione di un reato e riguardano una decina di migliaia di persone all’anno) milioni di cittadini sono quotidianamente spiati; legalmente, è vero, poiché Presidenti e Congresso sono stati e sono d’accordo e hanno emanato leggi apposite; però in violazione dei principi fondamentali di una Costituzione universalmente portata ad esempio.
E NEGLI USA vige certamente una democrazia reale, sia perché frutto di libere elezioni sia perché il suo sistema di controlli è feroce. Sarà che anche la legge deve cedere alla necessità? Per meglio dire, sarà che la necessità impone leggi non democratiche? Obama ha detto che tutto questo si fa per combattere il terrorismo e per non avere mai più un altro 11 settembre. Sembra ragionevole. Ma un Paese controllato da un Grande Fratello è ancora un Paese democratico? Forse non esistono ricette; forse un regime è buono quando sono buoni gli uomini che lo gestiscono (Snoopy sdraiato sulla sua casetta: “Se la mente del giudice funziona, la legge è sempre buona”). E quando smettono di esserlo? Come li si manda via? Bastano, per oggi, come dubbi?

Corriere 21.6.13
In piedi e libro in mano Dimostranti e polizia muti nel faccia a faccia
La nuova forma di protesta in Turchia
di Monica Ricci Sargentini


ISTANBUL — Uomo in piedi contro uomo in piedi. La forma di resistenza civile lanciata lunedì sera dal coreografo Erdem Günduz, che è rimasto per ore fermo e silenzioso al centro di piazza Taksim, ha avuto talmente successo che il governo ha deciso di neutralizzare la protesta imitandola invece che criminalizzandola. «Non è un atto di violenza, non possiamo condannarlo» ha detto mercoledì scorso il vicepremier Bulent Arinc, sorprendendo tutti dopo che la prima notte i poliziotti avevano arrestato quelle persone sole e pacifiche, che non si agitavano, non urlavano, non minacciavano nessuno. Anzi Arinc ha addirittura detto che questo tipo di esternazione è «piacevole da vedere», a patto che non intralci il traffico.
«Se è cosa buona e giusta, facciamola anche noi» devono aver pensato i sostenitori di Erdogan. Così, mercoledì scorso, otto uomini si sono piazzati davanti ai manifestanti silenziosi. «Uomo in piedi contro uomo in piedi» era scritto sulle loro magliette sotto il palmo di una mano rossa. Come a dire: ci siamo anche noi. Di fronte al calo dei sondaggi, dal 46% al 35%, l’Akp, il partito filoislamico al governo dal 2002, corre ai ripari: piuttosto che lasciar scatenare sostenitori violenti per le strade, come è successo domenica scorsa dopo il comizio del premier ad Istanbul, decide di rispondere con la stessa moneta. Una strategia adottata anche dal comando di polizia che ha distribuito agli agenti costretti a passare ore e ore fermi a far nulla più di cento libri, dai romanzi classici ai saggi più svariati, scientifici ma anche psicologici. Nell’arco di pochi giorni Piazza Taksim si è trasformata da luogo di battaglia in biblioteca a cielo aperto: tutti con un libro in mano, dai manifestanti ai ragazzi in divisa blu. E il sindacato di polizia Eminiyet-Sen, nato lo scorso marzo per la prima volta, ha lanciato una campagna su Facebook dal titolo: «Cammina senza lanciare pietre». È un modo per dire, spiegano nella sede di Istanbul ad Arakoy, «se vuoi manifestare sii pacifico. Pensa agli altri. Non è giusto danneggiare i negozi, bruciare le auto» .
I poliziotti, però, si sentono sulla graticola. «Siamo noi le vere vittime di Gezi Park. Abbiamo preso il gas e la gente ci odia – dice al Corriere Hanif Calisgan un dirigente del sindacato -, eseguivamo gli ordini e ora diventiamo noi quelli su cui gettare la croce». Quattro agenti della polizia municipale della città e un loro assistente tecnico sono stati sospesi per aver dato fuoco ad alcune tende dei manifestanti che occupavano il parco. Calisgan descrive condizioni di lavoro disumane: «I colleghi al parco lavorano da 20 giorni senza una pausa e tutti ora ci danno addosso. Persino il ministro dell’Interno ha detto che aprirà un’inchiesta sul nostro comportamento. I diritti umani per noi valgono? ».
Le cose non vanno meglio tra i ragazzi del movimento. «Abbiamo paura - ammette al Corriere Mustafa Nogay, uno dei leader ambientalisti della rivolta -, la gente cambia il numero di telefono e chiude l’account twitter. Ci hanno fatto tanto male, ci hanno gasato come scarafaggi e ora ci stanno arrestando senza pietà e soprattutto senza motivo».
Ieri la polizia turca ha arrestato altre 13 persone accusate di atti di vandalismo, uso di bombe molotov e incitamento ai disordini. Secondo quanto denunciano i gruppi per i diritti umani, dal 31 maggio ad oggi, sono state già più di tremila le persone portate via in manette dagli agenti. La maggior parte di loro è stata rilasciata, ma decine sono ancora in custodia e almeno sei sono state accusate formalmente.
La protesta contro l’autoritarismo del governo Erdogan, comunque, continua anche se non con la stessa intensità. I ragazzi di Solidarietà a Taksim, la piattaforma di 116 associazioni alla base della rivolta, hanno deciso di occupare altri parchi, 35 solo a Istanbul e cento in tutto il Paese. Ieri il premier è stato contestato a Mersin da un migliaio di persone che, avvolte in bandiere con l’immagine di Ataturk, hanno intonato Bella Ciao. Erdogan era nella città dell’Anatolia meridionale per presenziare alla cerimonia di apertura dei Giochi del Mediterraneo.
A Gezi Park, intanto, continuano senza sosta i lavori di ristrutturazione. Ieri, Kadir Topbas, il sindaco della città, ha annunciato che saranno piantati 129 nuovi alberi, oltre a un laghetto, che sembra sia in costruzione, e alle aiuole fiorite che già si possono ammirare passeggiando attorno all’area verde. «Da oggi in poi chiederemo il parere del popolo anche per il cambio di una fermata dell’autobus» ha ironizzato Topbas, riducendo quella che è stata una delle rivolte più imponenti che la Turchia ricordi a una mera questione ambientalistica.

Repubblica 21.6.13
Brasile, un milione in piazza.
Rousseff convoca vertice d'urgenza

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l’Unità 21.6.13
Allarme Unesco. La guerra in Siria uccide anche i monumenti
A rischio i beni dell’umanità
di Umberto De Giovannangeli

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il Fatto 21.6.13
Il paradosso di Obama: record di neri in carcere
I carcerati oggi sono più degli schiavi nel 1850
di Angela Vitaliano


New York Qualsiasi successo io abbia raggiunto, qualsiasi posizione di leadership io abbia ottenuto è dipeso, più che dal livello dei miei studi, dal senso di connessione e di empatia da quello speciale senso di dovere che io sento, da afroamericano come voi, di aiutare coloro che hanno più bisogno, coloro che non hanno avuto le opportunità che io ho avuto. Perché io avrei potuto trovarmi al posto loro. Avrei potuto essere in prigione. Avrei potuto essere disoccupato. Avrei potuto essere impossibilitato a sostenere la mia famiglia. E tutto ciò ha costituito per me la più grande motivazione”. Così Barack Obama durante il discorso agli studenti afroamericani del Morehouse College di Atlanta, interrompendo, in maniera visibilmente commossa, il testo scritto del suo intervento, tutto incentrato sulla famiglia e sull'importanza della paternità. Poche volte, durante la sua presidenza, Obama, si è lasciato andare a commenti che facessero direttamente riferimento alla sua razza e alla sua condizione di primo afroamericano alla Casa Bianca. Spesso, però, ha rimarcato il ruolo determinante giocato dai suoi nonni nella sua crescita e formazione, come contraltare a quel grosso handicap determinato dall'assenza di suo padre. E sebbene questo potrebbe sembrare un aspetto minore in un paese che continua a lasciare indietro intere generazioni di afro americani che restano fra i più emarginati e i più colpiti da ogni tipo di crisi economica e sociale, nella realtà delle statistiche non lo è affatto.
I NUMERI ci parlano di una situazione in cui, il contrasto fra il presidente “nero” e gli “altri” afro americani, che sempre più a fatica riescono a farsi spazio nella società, è sempre più drammatico. Un dato per tutti: oggi sono molti più gli afro americani in carcere o in libertà vigilata di quanti fossero gli schiavi nel 1850. Numeri che in città come Chicago diventano poi l'immagine di uno scivolare pericolosamente all'indietro, quando al Congresso di neri se ne vedevano pochi, ma la classe media afro americana aveva fatto grandi passi in avanti.
La drammaticità della situazione, tornando alle parole di Obama, sebbene possa sembrare difficile da credere, deriva ancora e sempre da quella disumana catastrofe che fu la schiavitù. Decennio dopo decennio, intere generazioni di individui vennero private di ogni senso di dignità, capacità di ribellione, volontà di miglioramento e speranza di progresso. Un fardello troppo pesante per pensare che 150 anni di storia e un presidente alla Casa Bianca lo abbiano cancellato. A dare conferma di una situzione che, spesso, si fa fatica a comprendere persino come contrastare, sono ancora una volta i numeri: il 72% delle madri afro americane non è sposata. Moltissime crescono i figli da sole. I giovani cresciuti senza padre, però, hanno il doppio delle possibilità dei loro coetanei, di finire in prigione; sono senza padre il 63% dei suicidi; l'80% di giovani con problemi di comportamento, il 71% di coloro che abbandona gli studi superiori e il 70% di quelli che finiscono in riformatorio. Tanto per dare un'idea, le madri di origine asiatica non sposate sono il 16% negli Usa mentre il 26% quelle bianche. Su questi dati, influisce anche, in maniera pesante, un retaggio culturale che, per decenni, ha contribuito a “dipingere” le donne di colore come “non sposabili” o meno appetibili al gusto degli uomini. La preoccupazione è che, in tempi di crisi economica, diventa sempre più “facile” voltarsi altrove, perdendo l'opportunità di provare quel sentimento di empatia di cui ha parlato Obama nel suo discorso che consentirebbe, più di tanto altro, di vedere e capire chi sono gli uomini e le donne che ci si sta lasciando alle spalle.

il Fatto 21.6.13
Usa. Chiude l’associazione che voleva curare i gay


Exodus International, l’associazione di ispirazione cristiana che negli Usa da 37 anni si dedica “alla cura” dell’omosessualità, chiude i battenti, e chiede scusa: “Mi spiace per il dolore che molti di voi hanno patito”, ha scritto il presidente Alan Chambers. Ansa

il Fatto 21.6.13
Il vero potere iraniano
Khamenei, la sfinge di Teheran
di Marco Dolcetta


Primo presidente dell'Iran islamico nel 1981, dal 1989 Guida Suprema al posto di Khomeini, l'Ayatollah Ali Khamenei è da oltre trent'anni l'eminenza che dirige la teocrazia iraniana: i presidenti si succedono, lui resta e tiene le redini del potere “divino” fondato dal predecessore nel 1979. Da quando ha sostituito Khomeini non ha praticamente più intrattenuto rapporti diretti con i media, così come è la regola per la massima autorità religiosa e politica sciita. Ma nel 1988 – alla vigilia della pace con l'Iran dopo 8 anni i guerra - abbiamo avuto la possibilità di incontrarlo e saggiare il suo potere. Dopo un lungo controllo da parte dei militari all'aeroporto siamo finalmente accreditati per andare all'hotel, che ai tempi dello scià era loSheraton. Lì vediamo che gli unici occidentali che risiedono in una Teheran semidistrutta e ancora sottoposta al coprifuoco, continua a essere sotto le incursioni aeree degli iracheni. È una nazione agli sgoccioli che ha subito forti perdite sia alla frontiera con l'Iraq sia nelle città martoriate dall'aviazione nemica. Durante i 3 giorni di visita si alternano i discorsi dell'allora presidente Ali Khamenei e del primo ministro Rafsanjani. Veniamo fermati più volte nell'auto molleggiata da parte di poliziotti, di pasdaran, dei comiteè e anche dai bassidji e anche semplici cittadini incuriositi nel vedere aggirarsi per Teheran occidentali con telecamere. Tra l'altro, ci fermano come fosse un posto di blocco un'auto in mezzo alla strada, da cui scendono 5 persone con abiti civili, e a bruciapelo dicono che sono dei corrispondenti della radio di Stato e che ci vogliono intervistare in lingua inglese. Le domande vertono sul perché siamo qua e sulle impressioni sull'Iran. Il tutto dura circa mezz'ora: tornati in hotel il portiere si complimenta per ciò che abbiamo detto nell'intervista trasmessa in diretta. Passano poche ore e riceviamo da parte del funzionario del ministero dell'Interno che ci ha accompagnato durante tutta la nostra permanenza, l'invito a recarci nell'ufficio di Ali Khamenei che ha intenzione di incontrarci assieme ad altri giornalisti del mondo arabo. Avvenuto l'incontro formale in cui vediamo Khamenei parlare da un pulpito che brandiva il sigillo Usa trafitto da 12 frecce. La sera stessa sarà la tv iraniana a intervistarci in una sorta di “Porta a porta” locale fra gli invitati. Ali Khameni è seduto a pochi metri di distanza. Può utilizzare solo la mano sinistra, in quanto, come ci ha poi detto lui stesso, ha perduto l'uso di tutto il braccio destro, dovuto a un attentato, nell’81, con una bomba nascosta in un registratore.
Parlava tramite un traduttore in modo monotono con una lenta cadenza e con uno sguardo che fissava i vicini che interloquivano con lui, e al tempo stesso manteneva una sorta di distanza. Oltre a invitarci per le future celebrazioni del decennale della rivoluzione, sia a Teheran che alla città santa di Qom, volle sapere cosa pensavano in generale gli occidentali e gli italiani in particolare della rivoluzione che aveva portato l’Iran alla repubblica islamica.
In particolare ci teneva a far capire come il regime avesse dovuto sopportare il boicottaggio perenne da parte dell'Occidente che aveva anche il suo agente Saddam in Iraq a non dare un attimo di pace alla giovane Stato iraniano. Erano i tempi dell'Irangate in cui erano implicati l'Iraq, Ronald Reagan, la Banca Nazionale del Lavoro di Cristopher Drogoul che tramite la filiale di Atlanta, faceva confluire a favore dell'Iraq ingenti capitali. Al tempo stesso risultava chiaro che i legami fra gli Hezbollah libanesi e l'Iran erano molto stretti, poiché Husain Fadlallah, “guida spirituale” del “partito di dio” libanese era parente di Khomeini.
Come lo ricordano oggi anche il nipote Mahmoud Moradkhani, medico a Lille, in Francia, e altri iraniani a Parigi, da sempre Khamenei ha evocato l'immagine di una persona estremamente limpida, diretta e autoritaria, nel suo comportamento di trascendente e discreto esercizio dell'arte del potere.
A DIFFERENZA DI KHOMEINI è meno eclatante il suo potere carismatico, che però, l'attentato da lui subito, gli ricama un ruolo di eroe e martire vivente. A luglio compirà 74 anni, e nonostante tutte le speranze e le malelingue dei nemici dell'Iran ha una buona salute e tiene strettamente sulla sua scrivania tutti i dossier importanti, come l'esercito, la polizia, i servizi segreti, la giustizia, le relazioni internazionali, la radio e la tv.
Il nuovo presidente eletto Ha-san Rohanì sarà un religioso di grande seguito popolare, falsamente interpretato in Occidente come un progressista, in realtà è un moderato che avrà la chiave del suo potere se saprà mantenere un buon rapporto con Khamenei prendendo ad esempio quanto accadde ad Ahmadinejad, presidente uscente, che da pupillo di Khamenei negli ultimi tempi si è trasformato in una persona non gradita, tra l’altro per il tentativo di accreditare persone di famiglia all'elezioni e di essersi addirittura arrogato il titolo di Mahdi ovvero l’incarnazione del XII Imam che secondo la tradizione sciita chiuderebbe il ciclo dei tempi.

il Fatto 21.6.13
Rivelazioni
Il caso Palatucci e la Shoah italiana
di Furio Colombo


La scoperta è brutale. Viene fuori che Giovanni Palatucci, commissario con incarichi speciali all’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume (allora città italiana e fascista) negli anni 1943-1945 non era affatto il protagonista di racconti, deposizioni, documenti, libri e film sul suo coraggio nel difendere e salvare migliaia di ebrei, per poi finire lui stesso a Dachau, dove è morto a 37 anni.
Era invece un informatore speciale degli uffici speciali di Hitler che tessevano per tempo la ragnatela di informazioni che avrebbe consentito ben poche fughe. È un colpo duro per Israele, che proprio quest’anno aveva iniziato, con il nuovo ambasciatore Naor Gilon, una speciale celebrazione dei Giusti italiani. È un colpo duro per molte serie documentazioni esistenti. Ma è forse il momento in cui si rivela in pieno un aspetto scostante e difficile del dramma italiano: italiani come complici, non come Giusti che salvano a costo della vita. O almeno non tutti coloro finora celebrati. Provo a raccontare.
NEL 1987 un’importante casa editrice di New York, Basic Books (seguita l’anno successivo dalla Nebraska University Press) ha pubblicato il primo testo americano di livello accademico sulle leggi razziali italiane, la persecuzione, la deportazione, lo sterminio non solo ad opera dei tedeschi, ma anche dei fascisti e dei delatori italiani. L’autrice, Susan Zuccotti, era docente di Storia della Columbia University, nota per lo scrupolo della documentazione e ricerca. Il libro The Italian Holocaust, Persecution and Survival ha meritato quell’anno il National Jewish Book Award. È toccato a me scrivere l’introduzione.
In quelle pagine ho potuto dire i due problemi che hanno tormentato l’Italia (o meglio la coscienza pubblica e privata degli italiani) dopo la guerra: un lungo silenzio sulla Shoah italiana, al punto che persino i sopravvissuti hanno rinunciato a parlare per paura di non essere creduti, e in cui tutto lo spazio è stato occupato dal mito esclusivo della Resistenza. E poi, a mano a mano che l’immenso problema emergeva, in brani di storiografia, documenti ritrovati e, finalmente nelle testimonianze raccolte, nella viva voce dei sopravvissuti, è cominciato un “riscatto” degli italiani, che in infinite storie sono apparsi come protettori, salvatori e garanti dei perseguitati. In questo modo, scrivevo, non c’era ancora stato un rendiconto della Shoah italiana.
Naturalmente tenevo conto di Primo Levi. Ma Primo Levi è diventato presto il simbolo dell’orrore concentrazionario nazista, non della persecuzione italiana. E così restava libero lo spazio per continuare a celebrare la grande umanità degli italiani. Nasce di qui, da questo libro e da questa riflessione cominciata quando ancora, insieme con Edoardo Sanguineti, nel nostro liceo D'Azeglio di Torino abbiamo creato problemi ai nostri docenti (tutti antifascisti) perché volevamo parlare di leggi razziali prima che delle eroiche vicende della Resistenza, la mia ostinazione a istituire per legge un “Giorno della Memoria”.
La ragione è scritta nelle prime righe di introduzione alla legge: “Perché la Shoah è un delitto italiano”. Eppure anche nel libro di Susan Zuccotti, a pag. 218 e 219, la storia di Palatucci è narrata come quella di un eroe che sacrifica tutto e va a morire a Dachau per salvare dalla città di Fiume di cui è responsabile, quanti più ebrei è possibile. Tutto falso, ci avvertono ora ricerche accurate. Dachau è la sventura di un funzionario caduto in disgrazia dopo avere servito al meglio nel compito di identificare, trovare, arrestare, consegnare cittadini ebrei, con destinazione esclusiva allo sterminio. Alexander Stille, di questa materia studioso più che giornalista, ha indicato al New York Times tre ragioni: il desiderio cattolico di sbloccare la questione Pio XII esibendo il lavoro e l’impegno per gli ebrei di emblematiche figure di cattolici: la voglia continua e appassionata degli italiani (gli stessi della guerra d’Africa) di essere “buoni” e comunque migliori degli altri europei. E quel tipo di “pacificazione” dopo la Resistenza che ha avuto il merito di evitare la guerra civile, ma il torto di seppellire molti misfatti.
MI SEMBRA che Stille abbia ragione, e – conoscendo le fonti da cui ora viene accesa la luce sul mito di Palatucci – temo che la storia sia credibile. Ho detto temo perché in passato, e sulla base di ciò che sapevo, ne avevo scritto anch’io e mi piaceva l’immagine di un giovane funzionario, in questo Paese conformista e tutt’altro che anarchico, quando si tratta di stare al sicuro dalla “parte giusta”, un uomo che capisce subito e da solo che stava servendo leggi disumane e insensate. Trovo una misera attenuante per l’ignoto funzionario Palatucci, diventato informatore speciale dei nazisti in Italia: non aveva esempi, non sentiva voci, nel senso di vere voci umane e note. Controprova: ricorda qualcuno che mi sta leggendo o che discuterà queste note, un solo grande intellettuale o artista italiano, qualcuno con il microfono aperto e rapporti col mondo, che abbia detto una sola parola contro le leggi razziali italiane? Temo che la caduta di Palatucci sia un colpo mortale alla celebrazione continua della grande umanità degli italiani. Esiste, certo che esiste. Ma non così come ci hanno detto.

Repubblica 21.6.13
La gioiosa macchina da guerra e quella ossessione per D’Alema, memorie dello scordato Occhetto
Il libro dell’ultimo segretario del Pci
di Filippo Ceccarelli


Autobiografia
Le memorie di Achille Occhetto usciranno a breve per Editori Riuniti Internazionali. Titolo: “La gioiosa macchina da guerra”

DO YOU remember Achille Occhetto? Ecco, Achel (e non Akel, come precisato) ha scritto le sue memorie. Non è la prima volta, ma queste sono più complete, più appassionate, più buffe, a tratti, e più sofferte. In una parola – e si perdoni – più occhettiane.
Di solito i ricordi dei leader si rivelano noiosi, monocordi e interessati. Queste 300 pagine dell’uomo che ha messo fine al Pci si possono leggere con altro spirito. Usciranno a breve per gli Editori Riuniti Internazionali con il titolo «La gioiosa macchina da guerra», e già in questa rivendicazione s’intuisce la provocazione, ma anche il gusto per l’improvvido ossimoro a sfondo mitologico (lo «zoccolo duro», il «nuovo inizio ») che con i dovuti inciampi e fraintendimenti ha per anni allietato e sfibrato la storia non solo espressiva della sinistra in Italia.
Ebbene, riguardo alla famosamacchina bellica che perse contro Berlusconi nel 1994, e a cui Occhetto fu a lungo impiccato, si legge qui, baldanzosamente, che si trattò di un equivoco, o di un’espressione «dai toni del tutto ironici». Furono i giornalisti, complici e ammiccanti, a sollecitargli un giudizio sul cartello elettorale progressista: «Prestandomi al gioco, pensai di pronunciare una frase scherzosa e sdrammatizzante. Stavo per dire: “È un’armata Brancaleone”, poi mi morsi la lingua e pronunciai la fatidica formula magica».
Pochi politici sono impulsivi, sinceri e sfacciati come Occhetto. Ma forse proprio questi suoi tratti spiegano perché, di tutti gli oligarchi del Pci-Pds-Ds-Pd, egli è rimasto l’unico – e gli torni a merito - eliminato per sempre, l’«empio» sottoposto a
damnatio memoriae.
Ora, è anche vero che «il mio orgoglio - come riconosce - è smisurato », pure richiamando «l’ira di Achille », tra parentesi: «Quello più famoso ». Ma più che levarsi sassolini dalle scarpe, si capisce che ha scritto questo libro per esprimere tutto il senso di una impietosa e spaventosa ingiustizia consumata ai danni di un animo al tempo stesso nobile e fragile; comunque tale da dedicare una dozzina di pagine al suo carattere, inframezzate da valutazioni cosmiche, Leopardi e Shakespeare, oltre a pensieri anche interessanti sulla società delle formiche, le deiezioni dei cani e il corteggiamento dei pesci.
Si capisce anche, e anche qui con la più assoluta schiettezza, che Occhetto patisce una sorta di dolorosa ossessione nei confronti di D’Alema, i cui comportamenti assimila al «male oscuro». Pensare che fu Craxi a metterlo sull’avviso: «Caro Achille, sento che in tv e sui giornali questo D’Alema dice sempre “io... io”, a fare intendere che lui parla solo a nome suo, e questo non va bene».
Con Bettino si conoscevano dai tempi della politica universitaria. Prima della svolta del 1989, Occhetto gli propose di passare all'opposizione. «”Vedi, Achille - fu la risposta - se io vado anche solo un giorno all’opposizione, questi qui mi fanno fuori”, e fece con la penna in mano un ampio giro del braccio tutt’intorno alla sua stanza».
Però poi Occhetto flirtava anche con Martelli, e s’imbarcò nell’avventura referendaria con Segni, che avrebbe voluto premier. Strepitoso anche il modo in cui racconta la stretta sul governo Ciampi, con il leader asserragliato dai maggiorenti del Pds che resistono e Scalfaro che telefona una, due, tre volte, sempre più infuriato, per ottenere il sì. Lui glielo concede, per poi ritirarglielo poco dopo.
Così è il personaggio. Inventivo, impulsivo, approssimativo. Generoso, curioso, precipitoso. Enfaticoe impudico, ma autentico, nel suo spiccato e poetico egocentrismo. Definisce «miele» il colore di Torino, dove cresce, figlio di intellettuali, bimbo nella Resistenza, il conte della sinistra Cristiana Felice Balbo padrino di cresima, Bollati gli dà ripetizioni, in giro per casa ci sono Einaudi, Calvino, Pavese.
A Torino cerca lapidi di Nietzsche; ma vive benissimo anche a Palermo tra nobili, dame e operai dei cantieri navali. A Roma abita dinanzi alla statua di Giordano Bruno, frequenta gli stessi ristoranti di Pasolini, conta le siringhe che i tossici gli lasciano nel portone di casa.
Un giorno, in un bosco acquitrinoso, scopre che la sua vita ha «qualcosa di paradigmatico», rispecchiando la seconda metà del 900. È come se fosse sempre dentro un film, tratto dal romanzo di se stesso, con tentazioni tolstojane, proustiane. Odori, sapori, leggende di avi, la nonna che perde la fede cedendo aun prete dentro un confessionale, le prime erezioni stimolate da una tata montanara...
Forse troppo. E però, sugli angoli e angoletti del Pci c'è una miriade di fatti e fattarelli. L’orologio con sveglia che Togliatti usa per fulminare chi parla più di dieci minuti. Gli indimenticabili funerali con pugni chiusi e segni della croce. Una cena incredibile a Pechino in cui i dignitari del Pcc esplodono a ridere prefigurando l’apocalisse nucleare. Un incontro con Berlinguer che già nel 1974 pensava di cambiare nome al Pci.
Ma soprattutto, prima e meglio di ogni altro Occhetto percepisce la fine di un mondo: «Sentivo che la nostra storia stava per finire». Avverte di dover «fare qualcosa». Spia ogni evento, si «rannicchia come un gatto pronto a saltarci sopra». Ma poi, dopo il balzo, prova a placare lo stress facendosi insegnare canto da Aureliana, la terza moglie, l’unica nominata.
Questo è dunque Occhetto. Con estremo e reiterato candore confessa di godere degli applausi ai comizi; rilegge le foto dei baci di Capalbio tra il polemico e il lamentoso; nega il patto del garage con D’Alema; tace sulla defenestrazione di Natta e sugli improperi di Cossiga, che lo qualificò “Zombie coi baffi”. In compenso su questi ultimi è prodigo di ricordi, legati all'invasione della Cecoslovacchia.
È raro, ma a volte perfino il narcisismo riscatta i bruciori e i sopori delle autobiografie. Perché la storia sarà anche fatta di grandi e piccole cose, ma gli uomini tengono insieme le une e le altre.

Repubblica 21.6.13
Così si chiedeva asilo nell’antica Roma
di Maurizio Bettini


Per un romano l’exiliumnon costituisce una condanna, ma una scelta fatta per sottrarsi a una pena o a una disgrazia incombente. L’exilium è un rifugio, l’exul abbandona Roma per cercare asilo presso un’altra città di cui, se verrà accolto, entrerà a far parte perdendo la cittadinanza romana. L’exul è propriamente un espatriato, un rifugiato, e in quanto tale si presenta come una figura estremamente attuale. I migranti, i richiedenti asilo che si affacciano oggi alle coste italiane o spagnole in cerca di un’accoglienza spesso negata, secondo le categorie dei romani sarebbero da considerare altrettanti exules, altrettanti troiani che fuggono dalle rovine della loro città. Senza peraltro dimenticare che i troiani furono inizialmente respinti da tutte le terre in cui cercarono rifugio, anche quelle del Latium.
Se gli etimologisti interpretavano la parola exiliumcome un uscir fuori (ex-) dalsolum, anche Cicerone spiegava che l’esiliato è propriamente colui che vertit solum, che “muta terra”. Per i romani dunque l’esilio prendeva forma dal “suolo” d’origine che si era costretti a lasciare. All’exul inoltre veniva comminata laaquaet igni interdictio, l’interdizione dall’acqua e dal fuoco. Come spiegava un grammatico antico, «i condannati vengono esclusi dall’acqua e dal fuoco, tanto quanto ricevono [l’acqua e il fuoco] le spose novelle, evidentemente perché da queste due sostanze deriva più che da ogni altra la vita umana». Era costume infatti che, in occasione delle nozze, sulla soglia di casa la sposa fosse accolta con questa offerta, a significare la “comunione dell’acqua e del fuoco” con il proprio marito. L’esclusione del damnatus dall’acqua e dal fuoco, dunque, indicava il contrario di ciò che il donarli significava in occasione del matrimonio: la fine di una “comunione”.
La condizione dell’esiliato, a Roma, si definisce all’interno di un gioco di sostanze molto concrete: terra, acqua, fuoco. Costretto a “mutare terreno”, l’esiliato veniva escluso anche dall’acqua che lo dissetava e dal fuoco che lo riscaldava e gli cuoceva i cibi, luogo fisico e sostanze vitali gli erano simultaneamente preclusi. Le testimonianze antiche ci mettono dunque in grado di ambientare in qualche modo l’exilium. Non so quanto sia lecito trarre significati da ciò che la cultura antica lascia intravedere intorno alla condizione dell’esiliato. Ma è difficile resistere alla tentazione di farlo. Come sappiamo per un romano l’exiliumconfigura una condizione simile a quella del moderno rifugiato, cioè di chi emigra o espatria per chiedere asilo in un altro paese o presso un’altra comunità. Non vi è dubbio che se il moderno rifugiato si presenta come qualcuno costretto a “mutare terreno” proprio come l’antico exul,egli sia spesso anche qualcuno a cui, nella propria terra, viene negata l’acqua, soprattutto, e talora anche il fuoco. Dipende solo dal “terreno” che l’esiliato è costretto ad abbandonare, se esso si trovi nel sud o nel nord del nostro mondo. Esclusione dall’acqua in Africa, assenza o negazione dell’energia in altre latitudini, paiono oggi restituire drammatica sostanza al fantasma romano della aqua et igni interdictio.

Repubblica 21.6.13
Da Monterchi a San Sepolcro, da Anghiari a Città di Castello: una serie di iniziative e mostre in una regione che è stata culla dell’arte
Sulle strade di Donatello, Rosso e gli altri capolavori della Valtiberina
di Lea Mattarella


Anima di tutta l’operazione è proprio Piero della Francesca che è nato a Sansepolcro intorno al 1415 e qui ha lasciato un capolavoro giovanile come ilPolittico della Misericordia dove santi, un angelo annunciante e una Vergi- asterebbero le due Madonne di Piero della Francesca, quella che, con fierezza, offre allo sguardo il suo ventre in attesa e l’altra con i suoi fedeli sotto un manto che assomiglia a una cupola, a giustificare un viaggio in Valtiberina. Il bello è che, oltre a queste due icone impassibili e monumentali, qui c’è ancora moltissimo da scoprire, ammirare, ritrovare. La rassegna Capolavori tra Toscana e Umbria. Da Piero della Francesca e La Battaglia di Anghiari,aperta dal 16 giugno al 3 novembre con una serie di appuntamenti volti a valorizzare il territorio conduce in diverse sedi espositive, tutte ricche di opere di pittura che vanno dal 1200 alla seconda metà del Novecento. Infatti, proprio in questi luoghi è nato Alberto Burri che nella sua Città di Castello, ha voluto lasciare un patrimonio di opere allestite in due splendide sedi.
L’iniziativa fa parte del Progetto di valorizzazione del patrimonio culturale Piccoli Grandi Musei, è promossa dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, Regione Toscana e Regione Umbra ed è giunta alla nona edizione. La sua particolarità è quella di realizzare interventi permanentine annunciata circondano una Crocifissione e una Madonna della Misericordia che mostrano come già Piero abbia guardato e fatto sua la rivoluzione spaziale di Masaccio, depurandole però da qualsiasi tono tragico. Maria è una colonna, quasi una figura geometrica, ha un’espressione imperturbabile, un’aria solenne, un aspetto regale. Eppure, nonostante le sue grandi dimensioni, non puoi sentirla distaccata o lontana dalle piccole figure in ginocchio che stanno pregando intorno a lei: apre il suo manto in un gesto di accoglienza, dando origine a una perfetta forma circolare che pare davvero quella di una cupolarinascimentale.
Dopo 8 anni di studi e di restauri il polittico di Sansepolcro è stato riassemblato secondo una nuova composizione e, in questa occasione, il Museo Civico che lo conserva è stato dotato di untouch screenche permette di visualizzare i dettagli secondo un’innovativa tecnologia in 3D e documenta la storia dell’opera e del recenteintervento che gli ha restituito l’antica bellezza. Nello stesso luogo è possibile ammirare la bellissima Resurrezione che mostra un Cristo magnetico e volumetrico, che risorge mentre l’alba sta sconfiggendo la notte, quasi come si trattasse del sogno dei due soldati addormentati in primo piano.
Tutto è volume in Piero della Francesca, come se la pittura stessa fosse sottomessa a un sicuro dominio razionale del mondo. È l’intelletto a dettare leggi e non certamente l’emotività, come accade in Masaccio o in Botticelli.
Non lontano da qui, a Monterchi, ecco un’altra Grande Madre, laMadonna del parto, per la quale è stato realizzato un nuovo allestimento. Anche qui c’è una stoffa che si apre, è quella delle tende del padiglione sotto cui c’è la Vergine. Ha uno sguardo lontano, come se prefigurasse il destino del figlio, tiene una mano su un fianco e l’altra sulla pancia in un gesto comune a tutte le donne in attesa. Sembra una contadina ma anche“la figlia del re” come ricordava Roberto Longhi. La forza espressiva di Piero è proprio quella di tenere continuamente annodato il filo del vero e quello della sacralità, come sottolinea Antonio Paolucci nel testo redatto per questa occasione. Per secoli ha attirato processioni di donne arrivate fin qui a chiedere la grazia di una gravidanza, o la protezione per i loro parti. Guardate bene la curva del drappo spalancato dai due angeli perfettamente speculari (tanto da essere stati realizzati da uno stesso cartone preparatorio rovesciato): lo ritroverete a Città di Castello, negli Ex Seccatoi del Tabacco dove Burri, prima di morire nel 1995, ha voluto allestire la sua gigantesca e scura ‘cattedrale gotica’ per conservare i suoi cicli pittorici. Ne Il viaggio, una sorta di riepilogo di tutti i suoi temi e i suoi materiali composto da 9 dipinti, l’apertura, la prima tappa di questo rito maestoso, è proprio un grande ferro dove Burri evoca la parte superiore dell’opera di Pie-ro, pittore che amava moltissimo.
La sede della Collezione Burri di Palazzo Albizzini raccoglie le sue opere dal 1948 in poi in un’impaginazione voluta dall’artista. Non stupisce che il destino lo abbia portato a comporre uno dei suoi due musei nel palazzo dovevivevano i committenti di uno dei capolavori giovanili di Raffaello,
Lo sposalizio della Vergine. Delle quattro opere dipinte dal maestro del Cinquecento in questa zona, la Pinacoteca di Città di Castello conserva loStendardo della Santissima Trinità . Qui sono raccoltianche fondi oro del 1200, capolavori del Ghirlandaio, una Flagellazione di Signorelli. In questo museo diffuso che è la Val Tiberina si incontra anche la bizzarra stravaganza di Rosso Fiorentino e la scultura di Donatello e di Jacopo della Quercia. E durante tutta la durata della rassegna, curata da Barbara Tosti, sarà possibile vedere la celebre Tavola Doria che riproduce un particolare della scomparsa Battaglia di Anghiaridi Leonardo. Sottratta al patrimonio italiano in modo illegale, è tornata a casa grazie al recupero condotto dalla magistratura e dai Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio Culturale e a un accordo redatto con il giapponese Museo Fuji, il suo ultimo proprietario. Dopo un’accurata messa in sicurezza da un punto di vista conservativo grazie all’intervento dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, la tavola si potrà guardare con attenzione proprio ad Anghiari.