lunedì 24 giugno 2013

La Stampa 24.6.13
Il primato delle regole sul voto popolare
di Vladimiro Zagrebelsky


L’ aspirazione dell ’onorevole Biancofiore a ricorrere alla Corte europea dei diritti umani, in difesa del diritto di Silvio Berlusconi a un processo equo, non ha spazio nel sistema europeo di cui l’Italia è parte. Alla Corte europea possono ricorrere le vittime, non gli amici ed estimatori.
Quella dichiarazione può dunque essere relegata tra le stravaganze. Ma non va lasciato in ombra un tema - quello delle conseguenze di condanne sul diritto dei cittadini di partecipare alle elezioni - che invece merita di essere trattato e discusso con riferimento al diritto europeo, cui l’Italia è legata. Per garantire la democraticità degli Stati europei, la Convenzione europea dei diritti umani stabilisce che le elezioni si svolgano in modo da assicurare «la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo».
In linea di principio tutti i cittadini devono poter votare e poter portarsi candidati per essere eletti. Ma se questo è il principio, in tutti i sistemi vi sono limitazioni. Basti pensare ovviamente all’età minima per essere elettori o per essere eletti. Ma le leggi elettorali di tutti gli Stati in vario modo prevedono anche casi di esclusione dai diritti elettorali, legati a condanne penali o ad altre circostanze assimilabili alle condanne.
Proprio come, nei Paesi dell’Est europeo, la passata collaborazione con i regimi comunisti prima della caduta del sistema sovietico. Quelle limitazioni hanno dato occasione a una serie di ricorsi alla Corte europea; in tempi recenti, contro l’Austria, il Regno Unito ed anche l’Italia. Si trattava di persone che, in conseguenza di condanne penali, avevano perduto, temporaneamente o per sempre, il diritto di partecipare alle elezioni legislative. La Corte ha riconosciuto che sono giustificate, in uno Stato democratico, sospensioni temporanee e persino esclusioni definitive dai diritti elettorali, quando queste siano proporzionate, ragionevolmente collegate alle condanne riportate e non indiscriminate. Secondo questi criteri la Corte ha affermato che viola la Convenzione europea dei diritti umani, la legislazione britannica, che priva del diritto di votare tutti i condannati a pena detentiva (con solo marginali eccezioni). La resistenza del Parlamento britannico a ridurre e ad articolare i casi di esclusione dal voto ha dato luogo a un braccio di ferro con la Corte, che è ancora in corso e che si iscrive tra le manifestazioni di rifiuto della integrazione europea che caratterizza ora la politica di quel Paese. La Corte ha anche censurato il sistema austriaco, per motivi analoghi a quelli che si riferiscono alla legge britannica. Con una sentenza dell’anno scorso, invece, la legge italiana, che stabilisce i casi di interdizione dai pubblici uffici e conseguente esclusione dal diritto elettorale, è stata ritenuta proporzionata, per l’attenzione che essa presta alla natura e alla gravità del reato commesso, risultante dalla valutazione che ne fanno i giudici nel caso concreto. E il ricorso contro l’Italia è stato respinto.
In tutti questi casi, i ricorrenti lamentavano di essere esclusi dal diritto di votare alle elezioni legislative. Il diritto di portarsi candidato, pur normalmente collegato al diritto di votare, mostra però un profilo specifico. L’esclusione dal diritto di votare per ragioni legate a condanne penali, riguarda sempre e comunque un numero ridotto di persone rispetto alle dimensioni generali dell’elettorato, cosicché non si hanno conseguenze sul risultato elettorale generale. In certi casi invece l’esclusione di un candidato può incidere sulle fortune della sua lista, sull’esito delle elezioni e, quindi, sulla composizione del Parlamento. Il problema dell’esclusione di candidature alle elezioni è quindi più complesso di quello della perdita del diritto di votare. Esso non riguarda solo il diritto della persona che intende candidarsi, ma si proietta sulla stessa «scelta del corpo legislativo» da parte del popolo elettore. E’ indiscusso il diritto degli Stati di proteggere il proprio Parlamento dalla candidatura di chi si sia reso responsabile di scorrettezze e infedeltà gravi, ma si pone la questione della giustificazione e proporzione. Un caso è stato esaminato dalla Corte europea. Si trattava del presidente della Repubblica lituana, che era stato dichiarato decaduto dalla carica per gli abusi e le irregolarità commessi. In vista delle imminenti nuove elezioni del Parlamento, l’ex presidente, che godeva di un importante seguito elettorale, aveva dichiarato di volersi candidare. Era stata allora approvata una legge che impediva ai presidenti dichiarati decaduti di candidarsi. La formula era generale, ma si trattava evidentemente di legge «ad personam», contro l’unica che si trovava in quella situazione. E l’interdizione era perpetua.
La Corte europea con una sentenza del 2011 ha ritenuto che in quel caso era sproporzionata la previsione di un’incapacità elettorale definitiva e irreversibile. Era stato rotto l’equilibrio tra l’esigenza, da un lato di escludere da cariche pubbliche e in particolare dal Parlamento, persone che avevano dimostrato di non assicurare la necessaria correttezza e affidabilità e dall’altro di non limitare eccessivamente l’espressione del voto popolare. La violazione della Convenzione europea da parte della Lituania indica che la concezione europea del valore delle libere elezioni non corrisponde alla pretesa di chi ritiene che ogni limitazione e regolamentazione sia una inaccettabile violazione del principio democratico di prevalenza, comunque, della maggioranza degli elettori. Regole e interdizioni legali, non sproporzionate rispetto allo scopo legittimo, sono cautele possibili in difesa delle istituzioni pubbliche: come per l’esclusione del diritto di votare, così anche quando si tratta di escludere l’eleggibilità di chi troverebbe sostegno nell’elettorato. Esse sono destinate a operare quando non funzionano i filtri che normalmente dovrebbero essere attivati in sede politica nella formazione delle liste elettorali.

Corriere 24.6.13
Oggi la sentenza Ruby
Ciak, si gira «La grande ipocrisia»
di Luigi Ferrarella


O ggi la sentenza Ruby, mercoledì scorso la Consulta sul legittimo impedimento, giovedì prossimo la Cassazione civile sul lodo Mondadori, a fine anno la Cassazione penale sui diritti tv Mediaset: il nuovo gioco di società è l'attesa sempre di una qualche altra sentenza «decisiva» per Berlusconi e quindi — si dice — per l'equilibrio del governo Letta che si regge sul suo appoggio.
Ma ci sarà sempre una sentenza più «decisiva» dell'altra, la prossima immancabilmente più della precedente. Perché ormai a questo sono ridotti i verdetti giudiziari: a essere usati come paravento dall'incapacità della politica di assumersi responsabilità autonome dalle condanne e dalle assoluzioni.
Non c'era bisogno di attendere 19 mesi il pronunciamento mercoledì della Corte Costituzionale per constatare che nel 2010 l'istituzione Presidenza del Consiglio era stata piegata all'interesse personal-processuale di chi si era procurato uno strumentale «legittimo impedimento». E oggi l'inquadramento giuridico che la sentenza-Ruby riterrà di dare alla telefonata di Berlusconi in Questura, calandola o meno in una fattispecie di reato, non accentuerà né mitigherà l'umiliazione di una ex maggioranza parlamentare consegnata al ridicolo («Ruby parente di Mubarak») da un premier ostaggio della propria oggettiva ricattabilità. Così come non sarà certo l'odierna scelta processuale dei giudici, tra gli elementi che militano per escludere e quelli che inducono a ravvisare la consapevolezza di Berlusconi della minore età di Ruby, a disvelare o a offuscare la palese incompatibilità tra taluni comportamenti dell'allora premier e le sue responsabilità di governo.
Il bello è che più si fa finta di attendere «decisive» sentenze definitive e più si fa poi finta di niente quando le sentenze arrivano davvero: basti vedere come imperterrita continua a essere snocciolata la litania di asserite vessazioni giudiziarie milanesi anti-Berlusconi nonostante appena un mese fa la Cassazione (nel respingere il trasferimento a Brescia) le abbia escluse a una a una, qualificandole come «accuse infamanti destituite di qualsiasi fondamento» e tracimate in «superficiale dileggio».
Ed è storia dell'ultimo quindicennio come le motivazioni di sentenze penali che hanno via via dato conto di compravendita di giudici (lodo Mondadori), corruzione di testimoni (Mills), tangenti ad apparati pubblici (verifiche fiscali Guardia di Finanza), falsi in bilancio per mille miliardi di lire (All Iberian) e finanziamenti illeciti a partiti (il Psi di Craxi), siano state digerite senza controindicazioni istituzionali per il solo fatto che la corretta traduzione giuridica di quei fatti fosse stata o la condanna di strettissimi collaboratori di Berlusconi in corrispondenza della sua assoluzione, o la sua non punibilità personale per intervenute prescrizioni e modifiche legislative.
Tutto destinato a ripetersi oggi, e ancor più poi con la già ora mitologica attesa della prossima sentenza «decisiva» di turno: quella della Cassazione sul processo Mediaset, sulla cui pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici saranno in ogni caso gli schieramenti parlamentari ad avere l'ultima parola, quando nella Giunta delle immunità eserciteranno la propria responsabilità politica nel ratificare o disattendere la decadenza da senatore di Berlusconi in forza dell'interdizione eventualmente confermatagli dalla Suprema Corte.
E allora, sia risparmiato almeno il cinema delle sentenze «decisive» gabbate per finte bussole dell'agire politico: al cinema vero, in luogo de «La grande bellezza», novelli Sorrentino e Servillo in erba stanno già crescendo per girare tra qualche anno, come spaccato di questa stagione, «La grande ipocrisia».

il Fatto 24.6.13
“Riconciliazione modello Mauro”
Il governo getta la maschera: “Amnistia per B.”
di Carlo Tecce


L’ex berlusconiano Mario Mauro, ministro per la Difesa, dovrebbe avere mestiere con carri armati e aerei caccia, ma si è schierato sul fronte giustizia, a poche ore dal verdetto del processo Ruby che inquieta il Cavaliere, già preoccupato per la condanna Mediaset a 4 anni: “Contrariamente a molti – dice al Corriere – io penso che per fare la riforma della giustizia ci voglia un provvedimento di amnistia”. Il ministro è angosciato per le carceri, che ospitano 65.866 detenuti e la capienza si ferma a 46.995? Mauro va oltre, s'intrufola in un panegirico che potrebbe segnare l’estate di governo e Parlamento: “Una stagione di riconciliazione comincia rimuovendo tutte le cause che fanno pensare alla politica come a una dimensione di scontro, senza esclusioni di colpi”.
Chissà se il montiano si riferiva al Cavaliere, che teme le pene accessorie incluse nelle sentenze, cioè l'interdizione ai pubblici uffici e si sovrappone a una questione serissima: le carceri in condizioni incivili. La soluzione la prevede l'articolo 151 del Codice Penale: “L’amnistia estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie”.
LE CAMERE non hanno mai ospitato una maggioranza così larga e ampia, e la votazione, che richiede i due terzi, non è impossibile. Non fu nemmeno sette anni fa, nonostante il precario esecutivo di Romano Prodi, per l'indulto firmato Clemente Mastella. Mauro ha riproposto, però col taglio politico, la possente apertura del ministro Cancellieri: “La via maestra potrebbe essere l'amnistia, ma decide il Parlamento”, ha detto qualche giorno fa.
Per la disumana situazione nei penitenziari italiani, che l'Europa non smette mai di rimprovera a palazzo Chigi, proprio il ministro per la Giustizia vuole intervenire con un decreto. E poi tocca al Parlamento, per l'amnistia, e quelli sensibili al Cavaliere non si fanno pregare: “Un atto di clemenza è necessario, noi siamo disponibili, non saprei dire se il pensiero 'riconciliazione' di Mauro era per il nostro presidente... ”, dice Saverio Nitto Palma, ex ministro, ora senatore Pdl e presidente in commissione Giustizia. Il Partito democratico, seppur impera assieme ai berlusconiani, si divide su questo argomento scivoloso, che potrebbe servire un regalo a Berlusconi. Il democratico di estrazione prodiana Sandro Gozi, che ha presentato una proposta di legge per indulto-amnistia a Montecitorio, quasi una fotocopia di quella al Senato trasversale Pdl-Pd, resta disponibile: “Parlare di amnistia non deve essere vietato dalla presenza dei problemi giudiziari di Berlusconi. Quindi, se l’ipotesi avanzata dal ministro Mauro serve per andare oltre, per affrontare la riforma della giustizia a prescindere dalle vicende di Berlusconi, la condivido”. Che c'entri o meno Berlusconi è quasi inevitabile, c'entra. Al governo la fanno passare per “riconciliazione”. E così Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato, non cambia opinione: “Noi siamo sensibile al tema carceri, per questo vogliamo che ci siano pene alternative per evitare il sovraffollamento. Ma non va concessa l'amnistia, come capitò per l'indulto, per rinviare il problema di qualche anno. Il nostro sistema ha bisogno di una riforma strutturale, non di scorciatoie che potrebbero avere un'utilità politica”. La giovane renziana Lia Quartapelle si aggancia a Zanda: “Ci sono dei progetti di legge in discussione, anche in fase avanzata in Commissione. É inutile andare con la testa altrove”.
ANCHE il Movimento Cinque Stelle, che già aveva individuato nel testo Cancellieri un aiutino per il Cavaliere, cioè i settantenni in libertà se la pena non supera i 4 anni, annusa il pericolo: “Ci sono tante strade percorribili per dare umanità ai detenuti, per noi non è valida quella – spiega il capogruppo a Montecitorio, Riccardo Nuti – che può agevolare l'impunibilità di Berlusconi”. I centristi di Scelta Civica, che ripongono in Mauro le ultime speranze di visibilità mediatica e politica, non si fanno troppe domande. E il magistrato e deputato Stefano Dambruoso al desiderio di “riconciliazione” di Mauro affianca la “stabilità”. Giù la maschera, tendiamo una mano, anzi il braccio verso Berlusconi: “All’interno di Scelta civica Mario Mauro è uno dei rappresentanti con più esperienza politica e in chiave politica l’amnistia può essere una concausa per raggiungere quella stabilità a cui Mauro fa riferimento”. Gianfranco Rotondi è un democristiano, ora votato al Cavaliere, che interpreta bene i segnali. E se promuove Mauro, non lo fa per cortesia: “Rompe un tabù. Questo paese è paralizzato da vent'anni da una guerra fra poteri”. Il governo potrà sempre dire che delibera il Parlamento. Quel Parlamento che unisce Pdl e Pd. E pazienza se qualche democratico dovrà provare ancora disgusto.

il Fatto 24.6.13
L’Ici del ministro
Idem, Letta non fa sconti Attese oggi le dimissioni
di Davide Vecchi


Le dimissioni da ministro dell’atleta Josefa Idem sono attese per oggi. Il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, la riceverà, per la seconda volta in pochi giorni, e le chiederà di lasciare l’incarico di Governo per il bene del Paese e del Partito Democratico. “Voglio vedere le carte” ma “l’opportunità e il rispetto delle regole sono uno degli elementi chiave della vita del nostro governo: nessun doppio standard”, ha garantito ieri il premier a Otto 1/2, intervistato da Lucia Annunziata. Nel Governo e nel Pd sono in molti a dare per scontata la richiesta di Letta, meno ovvia è la reazione di Idem: dopo la conferenza stampa di sabato, infatti, non sembra disposta a salutare la poltrona della Repubblica italiana con facilità. “Io credo si dimetterà”, dice Giuseppe Civati, il giovane deputato del Pd, ex rottamatore renziano, aggiungendo però di essere in attesa “di parole chiare da parte di Letta” sulla vicenda. Mentre Enrico Rossi, presidente della Toscana, suggerisce a Idem come comportarsi: “Della ministra non convince soprattutto la frase ‘non lascio’. Avrebbe dovuto dire ‘penso di essere onesta, ma rimetto il mio mandato nelle mani del Presidente del Consiglio. Sta a lui decidere’. In politica si fa così”. E ancora: Dario Ginefra, deputato Pd, invita Josefa Idem a “valutare seriamente l’ipotesi di togliere il Governo Letta dall’imbarazzo di dover scegliere per lei”. Messaggio, tradotto dal politichese, quanto mai chiaro: o ti dimetti da sola o ci pensa Letta. Lo scenario atteso dai più, fanno notare i deputati vicini al premier, è proprio questo: Letta le chiederà le dimissioni. “Enrico le pretenderà, lei potrà temporeggiare forse un giorno, massimo due ma Idem sarà costretta a lasciare”, dice una giovane deputata Lombarda del Pd, tra le prime animatrice del think net lettiano, Vedrò. Se gli esponenti del Pd danno per scontate le dimissioni di Idem, anche nel Pdl (l’altra metà del governo) la convinzione è diffusa. L’ex ministro Claudio Scajola, cui è stata paragonata Idem per la vicenda della casa acquistata sua insaputa, ieri in un’intervista a Il Messaggero, ha chiesto che Idem segua il suo esempio: “Per il bene del Governo dovrebbe dimettersi, come ho fatto io”. Che il ministro per le Pari Opportunità non sia una “presenza indispensabile di questo esecutivo” lo sostiene Ignazio La Russa, oggi leader di Fratelli d’Italia. “Mi chiamano tutti gli amici, Pdl e Pd, per lamentarsi della situazione e io guardo e sorrido: questo governo, così come è, non può mica andar avanti per molto tempo ancora e la vicenda Idem lo ha già impantanato”.
A infastidire in realtà non è stato l’aver registrato la residenza nella palestra così da farla figurare come prima casa e non pagare l’Ici, né i successivi escamotage per risparmiare anche sull’Imu, né - ancora - l’essersi fatta assumere dal marito durante il suo incarico da assessore al Comune di Ravenna così da ricevere l’indennità da parte dell’amministrazione pubblica nei mesi dell’incarico. Nulla di tutto questo. A indispettire, piuttosto, è stata la conferenza stampa indetta sabato pomeriggio a Palazzo Chigi in cui si è difesa dalle accuse non presentando una documentazione adeguata a smentire le notizie ma rivendicando rispetto e silenzio per i suoi meriti sportivi. “Ci sono state delle irregolarità - ha detto fra l’altro - ma sanerò ciò che c’è da sanare”. E scappare di fronte alle domande dei giornalisti. “Un comportamento decisamente poco sportivo”, ha commentato Elvica Savino, deputata del Pdl. Oggi, prima di incontrare Letta a Roma, Idem incrocerà nuovamente la stampa: alle 11.30 è infatti prevista la sua presenza alla presentazione dell’associazione Sintini a Ravenna. Accompagnata dal suo avvocato, lo stesso a cui ha affidato la gestione della conferenza di sabato. L’inchiesta sui mille quesiti irrisolti della sua casa-palestra sta entrando nel vivo degli accertamenti. Da cittadina potrà dimostrare più agevolmente la sua “assoluta buona fede e onestà”. Da cittadina, appunto.

il Fatto 24.6.13
E ora il plurindagato Pini fa la morale sull’evasione
di Marco Lillo


Difficile non pensare al Vangelo di Matteo (“Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”) se si rileggono le dichiarazioni diramate a tutte le agenzie sabato dal vicecapogruppo della Lega Nord Gianluca Pini. La sua è stata un escalation. Il 21 giugno pontificava sul caso del ministro Idem: “C'è una questione politica irrisolta, in un affare che resta sempre più oscuro”.
Sabato 22 giugno, il leghista bolognese rincara la dose dopo la conferenza stampa nella quale il ministro ha ammesso le sue colpe sulla palestra e l’Ici non pagata: “La kompagna Idem con la conferenza stampa / farsa di oggi ha stabilito una nuova forma di comicità, superando di slancio il compianto -ma simpatico- Fantozzi nelle acrobazie per negare la realtà dei fatti”. Il punto è che Pini Gianluca, 40 anni, imprenditore dell’import alimentare dall’Asia, è indagato in tre procedimenti penali per vicende a prima vista ben più gravi di quelle (comunque degne di nota) contestate a Josefa Idem.
IL PROCURATORE DI FORLÌ Sergio Sottani insieme al sostituto Fabio Di Vizio, contestano a Pini di avere evaso imposte per 2 milioni e 34 mila euro creando ad hoc una società dopo avere perso la causa in commissione tributaria di secondo grado. Prima che il debito verso l’erario divenisse definitivo ed esigibile, Pini inizia a operare la sua attività di importatore di caffè non più con la Nikenny (debitrice verso l’erario) ma con la Gold Choice Europe SRL, creata due mesi dopo la sentenza di secondo grado sfavorevole.
Pini nega che abbia creato la Gold Choice per aggirare i suoi obblighi e giura ai pm di Forlì di voler pagare le imposte. Però nell’interrogatorio del vicecapogruppo della Lega Nord, c’è anche una seconda contestazione per l’appropriazione indebita di 400 mila euro provenienti da San Marino e sui quali Pini e il padre hanno effettuato lo scudo fiscale. I pm vorrebbero sapere da dove provengono quei soldi ma l’onorevole si rifiuta di dire dove li ha presi. Anzi il sei luglio del 2012 appena si è seduto di fronte ai pm Sottani e Di Vizio, Pini tiene a precisare: “Nella presente fase è mia intenzione non rispondere riguardo ai temi concernenti l'esistenza di provviste estere a me riferibili, loro provenienza e meccanismi di formazione e più in generale sulle operazioni connesse alla relativa emersione secondo procedura di scudo fiscale”. Parole poco coerenti con quelle infuocate riversate sulla Fantozzi-Idem. Il leghista nell’interrogatorio scarica la responsabilità sulla sua ex amministratrice. Nessuna intenzione - dice lui - di abbandonare la Nikenny con il suo carico di debiti verso il fisco al suo destino.
IL PARLAMENTARE al pm dice: “Dottor Di Vizio, questo era il massimo che si poteva fare per cercare di fare rientrare (l’erario Ndr) ”. I suoi ex compagni di affari dicono al pm che - se la Cassazione confermasse la sentenza di secondo grado - la Nikenny non sarebbe in grado di pagare i due milioni al fisco. Ma Pini replica: “Scusi Dottor Di Vizio, ma chi le dice che io non sia in grado, magari nel momento in cui diventa definitiva (la sentenza Ndr), di trovare le finanze per pagare la multa? ”. Per accreditare la sua esperienza di vero importatore, Pini offre ai pm le sue credenziali: “Io sono stato fra Taiwan, Malesia, Cina. Ho portato copia dei passaporti, così vi divertite. Sono stato lì dal settembre '99. Fra l'altro, quando arrivai ci fu quel magnifico terremoto a Taiwan che fece 2.000 morti, a Thaichung (...) facevo avanti e indietro. Diciamo che stavo un mese là e quindici giorni in Italia (...) Ci sono stato circa cento volte ad Hong Kong. Thailandia, Malesia, Singapore, Taiwan, Corea, Giappone”. Il pm gli ribatte che “lo scudo fiscale ha aspetti che meritano un’attenzione per alcune circostanze che sono segnalate già nella segnalazione operazione sospetta della Banca d’Italia, e cioè che è stato realizzato lo scudo, ha firmato lei, ma l'operazione fisica di rientro con un bonifico è stata disposta da suo padre. Questo è, credo, ormai acclarato”.
La sensazione è che Pini abbia usato lo scudo, non per far rientrare somme che erano all’estero come previsto dalla norma, ma di origine diversa. Il deputato leghista replica: “Dottore, torno a ripetere, ben volentieri in una seconda fase le do tutte le indicazioni”. Con comodo, Pini, con comodo.

Corriere 24.6.13
D'Alema apre la sua fondazione ai renziani
«Rivoluzione» a ItalianiEuropei: dentro parlamentari di tutte le correnti
di Tommaso Labate


ROMA — Ancora qualche giorno, forse una settimana o poco più. E anche se quelli che stanno lavorando agli ultimi dettagli tecnici mettono le mani avanti sui tempi — «È prematuro ma qualcosa sta per succedere» — una certezza rimane. Massimo D'Alema sta per tirare fuori dal taschino l'ennesimo jolly della sua carriera politica.
Ancora pochi giorni, insomma, e la creatura dalemiana ItalianiEuropei cambierà completamente pelle. Nel senso che l'Associazione collegata alla fondazione dell'ex premier sarà rivoluzionata. Aperta a tutte le anime del Pd che, tramite una serie di parlamentari (le iscrizioni saranno tenute aperte sempre) di riferimento, ne faranno parte. Renziani e bersaniani compresi.
Qualcuno già ipotizza che D'Alema stia per trasformare ItalianiEuropei in una sorta di «Aspen» del Partito democratico. Altri gli riconoscono il merito di aver individuato «la strada maestra» per superare le correnti tradizionali. Di certo c'è che, con il colpo a effetto, l'ex presidente del Consiglio punta a liberarsi dell'etichetta dei «dalemiani». Che, a sentir lui, non sarebbero mai esistiti.
La lista dei primi aderenti alla nuova Associazione Italianieuropei è ancora provvisoria. Negli appunti di chi lavora alla costituzione dell'organismo figurano i nomi del renziano Dario Nardella (già vicesindaco di Firenze), qualche fedelissimo di Franceschini (i nomi più gettonati sono Gianclaudio Bressa e Paolo Corsini), molti nuovi parlamentari (come Valentina Paris), oltre a un bel gruppo di lettiani e a qualcuno che ancora viene considerato dalemiano doc. Come i deputati Enzo Amendola e Andrea Manciulli. Anche Bersani ha mandato due dei suoi (Zoggia e D'Attorre) a vedere le carte.
La rivoluzione nell'Associazione ItalianiEuropei, però, divide il nucleo storico dell'ex premier. Matteo Orfini, per esempio, contesta la scelta di D'Alema. «Preferivo che rimanesse un luogo di formazione culturale. Per questo non farò parte dell'Associazione, anche se faccio gli auguri a tutti», spiega l'ex braccio destro del Líder Maximo. Uno dei ruoli operativi, al momento, è stato affidato a Marianna Madia, impegnata nell'operazione di raccogliere adesioni tra i colleghi parlamentari.
Ma stavolta, più che i nomi, conta «l'operazione». D'Alema sa che il governo Letta, il nome di Renzi e il congresso del Pd hanno già scardinato le vecchie correnti. I lettiani hanno congelato il loro appuntamento annuale Vedrò, i bindiani sono in sonno, i franceschiniani indecisi. Con la nuova ItalianiEuropei disegnata sul modello Aspen e con tutti dentro, infatti, l'ex premier lancia «un'opa amichevole» su tutti. Non a caso, nella nuova sede di Palazzo Rospigliosi, ha già fatto mettere delle postazioni di lavoro destinate ai parlamentari che aderiranno. Come a voler dire che, a prescindere da chi vince il congresso o da chi sta a Palazzo Chigi, sempre da lui bisognerà passare. Cade l'ultimo muro dalemiano, insomma. E il primo colpo di scena precongressuale sta per essere servito.

Repubblica 24.6.13
Appello dei renziani al sindaco: devi candidarti
Matteo resiste: “Non è ancora il momento”. E Prodi: “Io non sosterrò nessuno”
di Giovanna Casadio


ROMA — Avevano pensato a un documento ad hoc, poi hanno preferito evitare. Ma da #OpenPd, seminario di renziani a Torino, arriva il pressing, affinché il sindaco fiorentino corra per la segreteria del Pd. Con chi altri se no, sarebbe possibile riprendersi e rifondare il partito? Il resoconto finale dei renziani, dopo la due giorni di workshop organizzato dall’associazione “Ateniesi” e Renzi 2.0, proprio di questo parla: del partito che Renzi può rivoluzionare portando il centrosinistra alla vittoria.
Il sindaco “rottamatore” in realtà nicchia. «Sulla segreteria? Deciderò più avanti», ripete ancora ieri. «Non ha sciolto la riserva, perché non si può andare avanti a tranelli, bisogna chiarirsi », gli fa eco Dario Nardella, ex vice sindaco di Firenze, renziano di ferro. Molte cose sono cambiate nel Pd: ammette Simona Bonafè, in trincea con Renzi sin dai tempi della sfida con Bersani alle primarie per la premiership. A sorpresa i prodiani, a cominciare da Rosy Bindi - che del “rottamatore” è stata acerrima avversaria (e viceversa) - riconosce che non lo si può ostacolare. E Prodi? Il Professore non vuole essere tirato in ballo. Dal congresso si tiene lontano, e anche dal partito: la tessera 2013 del Pd con il suo nome non è mai andato a ritirarla; giace nel cassetto della sezione bolognese e lì, a quanto pare, resterà ancora a lungo. «Non sosterrò nessuno», ha detto. Con le questioni del Pd non intende più mischiarsi. Anche se con Renzi, l’ex premier ha buoni
rapporti. Quando fu fatto fuori dai 101 “franchi tiratori” nella corsa per il Colle, ricevette un sms in cui il sindaco gli ribadiva la lealtà sua e dei suoi.
Ma a parte Prodi, i contatti e le aperture in favore di Renzi si moltiplicano, sia perché a tutti fa gola salire sul carro di chi si immagina vincitore, sia perché è la leadership più forte insieme con quella di Enrico Letta. Da #OpenPd parte l’invito ai bersaniani Nico Stumpo e Stefano Fassina e ad Alessandra Moretti per il prossimo appuntamento, a Viareggio in settembre. Il workshop torinese si è autofinanziato e ha prodotto 17 mila post su Facebook, circa 30 mila tweet, con scambi di battute, tipo “qualcosa sta cambiando” e, in risposta, “per scaramanzia, mi preoccuperei...”. Dall’assemblea #InsidePd (al Nazareno sabato con Gozi, Marzano, Tocci, Mancuso) un consiglio al sindaco: «Matteo, meno cene con D’Alema ma confrontiamoci, vediamo se è possibile fare squadra per l’innovazione ». Bonafè segnala gli outing pro Renzi. Da Matteo Ricci, presidente della Provincia di Pesaro a Michele Emiliano e Valerio Merola, rispettivamente sindaci di Bari e di Bologna. Ma anche Stefano Bonaccini, il segretario regionale dell’Emilia Romagna, che ha appoggiato Bersani, è sempre più vicino alle ragioni renziane:no a modifiche delle regole del congresso. Guarda al sindaco “rottamatore” anche la corrente di Dario Franceschini, Areadem. E i lettiani? «Tra Matteo e Letta deve esserci un patto di reciproca fiducia », osservano i fedelissini di Renzi. Letta intanto punta ad abbassare i toni: «Proteggiamo ilpartito e facciamolo crescere». Riconosce a Renzi: «Ha un atteggiamento positivo nei miei confronti e nei confronti del governo e di quello che stiamo facendo, è collaborativo ». Tutto potrebbe ribaltarsi se Bersani e i bersaniani trovassero un candidato insidioso nella sfida con Renzi. Epifani, l’attuale segretario, potrebbe alla fine accettare di ricandidarsi. Oppure Stefano Fassina che, più di Roberto Speranza, è l’esponente della sinistra del Pd. Di donne in lizza per ora neppure l’ombra, eccetto Paola Concia che ha dichiarato la sua disponibilità.

Repubblica 24.6.13
L’intervista
Civati: “Io sarò in gara, ma è da matti cambiare le regole per penalizzarlo”
“Ora potrò sfidare Matteo sul partito prima non se ne voleva occupare”
Il congresso dovrà essere un confronto sul Paese tra Renzi, Civati e Epifani. Perché per me Gugliemo si candiderà
di G. C.


ROMA — Pippo Civati, siete diventati tutti renziani nel Pd?
«Non mi pare, ci sono altre forme di vita nel partito, come Bersani e i bersaniani, D’Alema ha addirittura due candidati, un po’ Cuperlo e un po’Renzi...».
Ma sono molti i leader democratici che riconoscono ormai la leadership di Matteo Renzi.
«Riconoscimenti ce n’erano già stati, solo un matto avrebbe potuto ignorare il cambiamento in atto. E può pensare oggi che si cambiano le regole del partito per tentare di penalizzare Matteo o addirittura di scoraggiarlo a candidarsi alla segreteria».
Anche lei alla fine voterebbe per il sindaco di Firenze?
«Non è molto elegante, ma voterò per me e consiglierò di votare per me. Vorrei che il Pd dei prossimi quattro anni fosse quello delle tante battaglie fatte in questi anni passati: un partito aperto alla società e ai suoi movimenti. Un Pd che studia, come dice Fabrizio Barca. Infatti ho proposto che Barca guidi la Fondazione democratica, non di questo o di quello ma proprio dei Democratici».
Lei un tempo era molto vicino a Renzi, ora che critica gli muove?
«Più che una critica, una differenza: non si mai voluto occupare del partito. Ma ora, guarda caso, è su questo che ci troviamo a confrontarci».
Barca traccheggia, ma dovrebbe entrare in gara?
«Non lo so, lo deciderà. Insieme condividiamo l’idea di Pd: un partito che mobilita, partecipa e ospita le cose nuove che nella società accadono».
Ci sarà un fronte di rinnovatori
che alla fine si salderà attorno al sindaco fiorentino?
«Non credo. Avrebbe potuto esserci quando il confronto è stato tra il vecchio e il nuovo, ma adesso è tra diverse idee di rinnovamento. Nel congresso del Pd del 2009, facemmo una battaglia con Ignazio Marino per raccontare una storia diversa, rispetto alla continuità con il partito “solido” prospettato da Bersani. Partito che non abbiamo neppure visto. Si tratta di immaginare un Pd nuovo, al passo con i tempi».
Nascono molti movimenti “RiprendiamociilPd”, #OpenPd, OccupyPd, buon segno?
«Mentre l’apparato discute di regole, corrente per corrente, che nemmeno le classificazioni di Linneo... per fortuna in tanti, più giovani di Renzi e di Civati, fanno proposte, si interrogano su cosa accadrà dopo il governo Letta che abbiamo fatto nascere per l’urgenza ed è l’esecutivo dei rinvii. Tra il 5 e il 7 di luglio, a Reggio Emilia ci sarà la nostra kermesse, che si intitola “Viva la libertà”, come il film di Andò. Il congresso non deve essere una guerra, ma un confronto sul paese e sul partito tra Renzi, Civati e Epifani. Perché secondo me Epifani si candiderà».
(g.c.)

il Fatto 24.6.13
Civati il politico formato tv
di Carlo Tecce


Giuseppe, detto Pippo, Civati è un politico che non sta mai bene dove gli capita di stare, o dove vuole stare, però sta benissimo davanti a una telecamera. Vaga di salotto in salotto, passeggia con fare assorto e riflessivo con quel tipico atteggiamento di chi sente una folgorante idea, geniale, solcare l'addome, lo stomaco e uscire con un soffio di voce.
Civati concede talmente tante interviste che, prima di ribattere qualcosa o domare qualcuno, rischia di smentire se stesso. Il giovane Pippo, che va per i 38 anni, milita a sinistra dal '95. Ha esordito con i comitati per Romano Prodi, la semina di quel grosso Ulivo l'ha coinvolto davvero, poi si sarà pentito: “Non possiamo fare un'alleanza di tutti contro Berlusconi, dalla Russia sovietica alle citazioni di Almirante”. Ha spronato Ignazio Marino, voleva rompere l'effetto Walter Veltroni e – da consigliere regionale, dopo un giro al Comune di Monza – vedeva di buon grado un chirurgo in politica piuttosto che Veltroni a palazzo Chigi. Quasi in contemporanea, o qualche intervista più tardi, si è schierato con Deborah Serracchiani, che aveva infastidito (?) il segretario Dario Franceschini con un discorso di un coraggio che nemmeno Kennedy a Berlino. L'amica Deborah, spedita a Bruxelles con tanto di silenziatore, già appariva obsoleta, usurata, passato. Così Pippo, scartabellata l'anagrafe democratica, ha beccato un certo Matteo Renzi di Firenze, presidente della provincia, evoluzione genetica dei popolari cattolici in Toscana, quelli che proprio odiano sin da bambini i comunisti. Un paio di conferenze con Renzi, e anche il coetaneo Matteo è diventato di troppo. Civati ha pensato di aver stravinto con lo sbarco degli alieni Cinque Stelle. E pazienza se tiene sempre la tessera Pd in tasca e quella tessera gli ha permesso di esordire a Montecitorio. Siccome le stagioni si ripetono e s'inseguono, Pippo ha cercato di provare a fare lo statista, dopo aver messo insieme un paio di statistiche per formare un'inedita maggioranza di governo e anche per eleggere il presidente della Repubblica. Il Movimento, o pezzi che gravitano intorno, l'ha accusato di voler trascinare verso il Pd qualche deputato o qualche senatore, ma non ci credeva nemmeno Civati. Fin quando non si è visto in televisione.

il Fatto 24.6.13
Giunta Marino: metà sono tecnici
Ma il vice non è donna come promesso


Sarà una giunta divisa a metà tra politici e tecnici, con quattro assessori al Partito democratico e il vicesindaco a Sel. E la sorella di Fabrizio Barca, Flavia alla Cultura. Ma il vice non sarà donna come promesso. Oggi il sindaco di Roma Ignazio Marino dovrebbe varare la sua squadra di 12 assessori. Ma ieri ne ha già delineato buona parte, incontrando i partiti in Campidoglio. Al Pd ha proposto questo schema: Paolo Masini, zingarettiano, ai Lavori Pubblici e Periferie; Daniele Ozzimo, dalemiano, alle Politiche abitative; Estella Marino, renziana, (Ambiente e Rifiuti). Poi un'indicazione a sorpresa: Lorenza Bonaccorsi, deputata renziana, al Commercio, Turismo e Attività produttive. I primi tre nomi sono certi, mentre la Bonaccorsi ieri sera doveva ancora sciogliere la riserva. Sel incassa la poltrona di vicesindaco per il consigliere Luigi Nieri: forse, con una delega pesante (al Bilancio?). Un assessore anche per la Lista civica Marino (forse Rita Paris). Mirko Coratti (Popolari) favorito per la presidenza del Consiglio. Tra i tecnici, l’assessore alla Cultura sarà Flavia Barca, sorella dell’ex ministro, suggerita a Marino da Matteo Orfini. Laureata in Lettere, dirige l’istituto di Economia dei media della Fondazione Rosselli. Possibile una delega ad Alessandra Cattoi, dello staff di Marino.
(ldc)

l’Unità 24.6.13
Giunta Marino quasi pronta: sei politici e sei tecnici
Quattro assessori al Pd, Nieri (Sel) vicesindaco, Flavia Barca alla cultura. Il nodo del bilancio
di Jolanda Bufalini


Si diradano i fumi e si sono stemperate le polemiche fra Pd, Sel da una parte e il sindaco di Roma dall’altra. Il metodo Marino sembra ai politici un po’ «marziano» però dovrebbe avere trovato la soluzione del rebus. Sabato Enrico Gasbarra e Eugenio Patanè, hanno ricevuto una telefonata in cui si chiedeva se fossero disponibili a un incontro di domenica. Detto fatto, l’incontro si è svolto nell’ufficio del sindaco in un assolato pomeriggio romano e Marino ha presentato la sua proposta, un mix sei a sei di politici e tecnici.
Saranno quattro gli assessori del Pd, tre sono stati eletti in consiglio comunale e si dimetteranno: Daniele Ozzimo, dell’area dalemiana di Umberto Marroni, avrà l’emergenza abitativa, Paolo Masini, zingarettiano, i lavori pubblici e le periferie, Estella Marino, che è ingegnere ambientale e si è occupata di ambiente e rifiuti anche nella federazione romana del Pd, avrà ambiente e rifiuti. Il quarto esponente Pd, esterno al consiglio comunale, dovrebbe essere Lorenza Buonaccorsi. Ad Eugenio Patanè è stato dato l’incarico di parlare con la deputata renziana che, tuttavia, ha chiesto un po’ di tempo per sciogliere la riserva: «Sono molto onorata ma voglio riflettere ha spiegato la deputata che ha ricevuto la telefonata alle 15 del pomeriggio, mentre era al mare sono stata scelta attraverso le primarie, devo anche rispondere agli elettori». Prima di decidere vuole parlarne con Matteo Renzi. A lei toccherebbe l’assessorato alle attività produttive e al turismo.
Le dimissioni di Lorenza Bonaccorsi aprirebbero le porte della Camera al primo dei non eletti Marco Di Stefano, lettiano. Al Comune, invece, dovrebbero subentrare, al posto dei consiglieri diventati assessori, Maurizio Policastro (popolare), Ilaria Piccolo (legata all’ex assessore regionale Fabio Ciani), Marco Palumbo, dell’area di Nicola Zingaretti. Un’architettura che, attraverso il meccanismo delle dimissioni, dovrebbe accontentare un po’ tutte le aree, per questa ragione un «no» di Lorenza Bonaccorsi farebbe venire meno un pilastro che rischia di far franare gli equilibri, sia per il segnale politico forte di un incarico a una renziana della prima ora, visto che il sindaco di Firenze si è speso in campagna elettorale nel sostegno a Marino, sia perché l’ingresso di Di Stefano in Parlamento dovrebbe dare soddisfazione all’area laziale del premier.
Restando nel quadrante politico, a Luigi Nieri (Sel) andrebbe l’incarico di vicesindaco. Un altro incarico si preparerebbe per Rita Paris, direttore del Parco dell’Appia antica, eletta nella lista civica. Infine, il tecnico scelto per la cultura è un tecnico d’area, Flavia Barca, economista culturale, specializzata in audiovisivo, sorella dell’ex ministro alla Coesione. L’indicazione è venuta a Marino da una lunga chiacchierata telefonica con Matteo Orfini.
Restano da riempire le caselle di cinque assessorati importanti, urbanistica, mobilità, personale e, soprattutto bilancio. Sul bilancio Ignazio Marino ha accusato il colpo del «no» di Giovanni Legnini, la ricerca, a questo punto, è all’interno del Mef, il ministero dell’Economia. All’urbanistica è sempre in pole position Giovanni Caudo, che ha la fiducia del sindaco, con cui ha parlato martedì scorso. Il nome dell’urbanista di RomaTre, però, suscita perplessità alla Regione, dove avrebbero preferito un incarico a Daniel Modigliani. Per Modigliani, comunque, si prepara l’incarico a commissario dell’Ater. All’urbanistica c’è anche l’ipotesi di Marina Dragotto, autrice di uno studio sulle aree pubbliche di Roma.
Per la mobilità, nei giorni scorsi è stato fatto il nome di un docente della Sapienza, Quintilio Napoleoni. Confermato Luca Pancalli all’assessorato agli stili di vita. Il sindaco, dopo l’incontro con il Pd ha ricevuto la delegazione del Movimento cinque stelle. De Vito e gli altri consiglieri si sono mostrati soddisfatti, per la convergenza su alcuni temi, come quello della differenziata spinta e della raccolta porta a porta, e si sono detti contenti dei criteri enunciati da Marino per la giunta: persone competenti, curricula, giovani.
Nel pomeriggio di ieri Eugenio Patané ha riferito al gruppo consiliare del Pd che dovrebbe eleggere il capogruppo. Il nome più accreditato è quello di Francesco D’Ausilio.
Resta fuori dalla giunta Michela De Biase. Tutti sono dispiaciuti per il rumore che ha fatto la notizia della sua relazione con Franceschini ma, al di là del dispiacere, è consigliere alla prima esperienza e dovrebbe prepararsi per lei la presidenza di una commissione (probabilmente la cultura), l’altro franceschiniano, Alfredo Ferrari, dovrebbe andare alla presidenza della commissione Bilancio.

Repubblica 24.6.13
Roma, alla Cultura la sorella di Barca
Marino vara la giunta dopo i contrasti con democratici e Sel
di Gabriele Isman


ROMA — A quattordici giorni dalla sua elezione a sindaco e dopo un lungo braccio di ferro con i partiti che lo sostengono, oggi Ignazio Marino dovrebbe presentare i dodici nomi della sua giunta. Il nuovo inquilino del Campidoglio per ora sembra aver vinto su Pd e Sel: al primo ha assegnato i quattro assessorati che aveva chiesto (più probabilmente la presidenza dell’aula Giulio Cesare) ma ha voluto indicare nomi e deleghe. Così, accontentando quasi tutte le anime del Partito democratico, in giunta dovrebbero entrare il veltroniano Paolo Masini a Lavori Pubblici e Periferie, il dalemiano Daniele Ozzimo (e compagno dell’onorevole Michela Campana) a Casa e Patrimonio e la bersaniana Estella Marino ad Ambiente e Rifiuti, che, grazie anche all’omonimia con il candidato sindaco vincente, è risultata a sorpresa la più votata tra i democratici. In più, per i renziani, probabilmente al Turismo, dovrebbe entrare l’onorevole Lorenza Bonaccorsi, che però ieri sera non aveva ancora sciolto l’ultima riserva. Sel invece avrebbe voluto due assessorati, ma ne avrà uno soltanto (forse il Bilancio), seppure di peso con Luigi Nieri che però sarà anche vicesindaco. Ex assessore anche della giunta Veltroni, Nieri, alle primarie del centrosinistra, si era ritirato per far spazio a Marino dopo un accordo sottoscritto anche da Vendola. Il neosindaco poi ha cercato a lungo un tecnico per quella casella, ma, come diceva il segretario cittadino reggente del Pd Patanè, pochi esperti di livello sono pronti ad abbandonare i propri settori per diventare assessori a 80 mila euro lordi l’anno. E così sono arrivati alcuni “no grazie”.
Poi ci sono i tecnici scelti dal nuovo sindaco: il nuovissimo assessorato agli Stili di Vita (con lo Sport accorpato), promesso già in campagna elettorale, dovrebbe andare a Luca Pancalli, mentre alla Cultura dovrebbe andare Flavia Barca, direttore dell'Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli, docente di Economia dei Media e dell’Information communication technology alla Sapienza e sorella dell’ex ministro Fabrizio, nome caro al Partito democratico. «Non so niente, l’ho letto sull’Huffington Post» diceva lei ieri, ma è stato proprio il sindaco a chiamarla e volerla con lui. Infine per l’Urbanistica Marina Dragotto sembra in vantaggio su Giovanni Caudo. Restano misteriosi i nomi per Scuola e Politiche sociali, ma Marino ha sempre parlato di una giunta composta al 50 per cento di donne. Oggi, probabilmente, si saprà se ha raggiunto il suo obiettivo.

l’Unità 24.6.13
La Costituzione di Casaleggio
L’idea di contrapporre la democrazia diretta alla democrazia rappresentativa è antica, ma ha dato vita a soluzioni autoritarie
di Marco Olivetti


Una strana situazione quella in cui si trova il governo Letta, costretto a cercare risorse per scongiurare l’aumento dell’Iva. Ma da dove viene questo aumento dell’Iva che nessuno vuole? È una storia molto complessa, ma emblematica, che è bene non dimenticare.
Al centro vi è l’idea che «la democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato. È una rivoluzione prima culturale che tecnologica». In questo contesto, «muta la natura» del Parlamento: i suoi componenti «devono comportarsi da portavoce, il loro compito è sviluppare il programma elettorale e mantenere gli impegni presi con chi li ha votati», con la conseguenza che dovrà essere introdotto il recall dei deputati. Ma l’agenda costituzionale pentastellata è assai articolata e richiede una revisione dell’«architettura costituzionale nel suo complesso in funzione della democrazia diretta», e occorrerà introdurre «il referendum propositivo senza quorum, l’obbligatorietà della discussione parlamentare delle leggi di iniziativa popolare, l’elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, l’abolizione del voto segreto, l’introduzione del vincolo di mandato».
Secondo Casaleggio, la democrazia diretta è leaderless e il concetto di leadership è incompatibile con essa. Così come la segretezza, che deve cedere il passo in via generale alla trasparenza, che in futuro «diventerà obbligatoria per qualunque governo o organizzazione». In tale contesto «il parlamentare o il presidente del Consiglio è un dipendente dei cittadini, non può sottrarsi al loro controllo, in caso contrario non si può parlare di democrazia diretta e forse neppure di democrazia».
Alle interessanti ma per nulla nuove (si vedano il cartismo, i movimenti svizzeri per la democrazia diretta, alcuni filoni del pensiero comunista, ecc.) proposte di Casaleggio è possibile opporre almeno tre ordini di obiezioni.
In primo luogo la democrazia diretta postula la partecipazione permanente dei cittadini alla vita pubblica. Ma questa si scontra con l’esigenza della divisione del lavoro, che è alla base di ogni società organizzata: in virtù di essa solo una parte relativamente ridotta di cittadini può dedicarsi a tempo pieno magari per un periodo limitato alla gestione della cosa pubblica. Oltre alle sfide che il lavoro e la complessità della vita urbana contemporanea pongono al cittadino, vi è la legittima aspirazione a ricercare la felicità anzitutto nella vita privata, mentre il tempo che è possibile dedicare alla politica è ridotto, salvo che nella dimensione locale.
Del resto, la riprova di questa sfida viene proprio dalla crisi della democrazia dei partiti: al di là delle tendenze oligarchiche di questi ultimi (tendenze a cui non sono sottratti i movimenti), la realtà delle democrazie contemporanee evidenzia proprio una riduzione della partecipazione dei cittadini nei partiti politici. Cosa ci assicura che grazie a Internet non sarà più così e che attraverso la rete sarà possibile una partecipazione ordinata (da popolo, non da folla) alla vita della polis? E come tutelare i cittadini che decidono di partecipare solo occasional-
mente, specie qualora essi siano la larga maggioranza dell’elettorato?
La seconda obiezione si riferisce all’idea assai schematica che i parlamentari possano ridursi a portavoce di programmi predeterminati in sede elettorale. Se ciò deve senza dubbio avvenire per i grandi principi orientatori della linea politica di un partito, questa tesi tace sul fatto che la realtà si modifica continuamente e che sorgono ogni giorno problemi nuovi (si pensi ai governi eletti nella prima metà del 2001, chiamati a governare dopo l’11 settembre).
Come è possibile governare un Paese con deputati «ingessati» sulle proposte sulla base delle quali sono stati eletti? E se si muove dall’idea che i movimenti o partiti che competono nell’arena elettorale esprimono solo una parte degli interessi presenti nella società, come è possibile raggiungere compromessi (che, come osservava Kelsen, sono essenziali in democrazia) in un sistema in cui i parlamentari sono vincolati al mandato degli elettori e al programma su cui sono stati eletti?
Ma l’obiezione più radicale riguarda proprio l’idea centrale di Casaleggio: quella della democrazia diretta come forma di democrazia alternativa alla rappresentanza. Certo, il guru del M5S non arriva a teorizzare la soppressione del Parlamento (come Schmitt, Lenin e Mussolini), ma preconizza una sua radicale trasformazione, che investirebbe la politica democratica nel suo complesso.
La riflessione contemporanea sulla democrazia partecipativa, tuttavia, sta percorrendo un’altra strada: quella dell’integrazione, correzione e arricchimento della rappresentanza con istituti come l’istruttoria pubblica delle leggi e il dibattito pubblico (che sono stati previsti dalla legislazione regionale in Emilia-Romagna e Toscana). E su questa linea non è impossibile correggere istituti come il referendum e l’iniziativa legislativa, ma alla condizione di non coltivare l’irrealistica illusione di un corpo sociale capace di autogovernarsi unicamente attraverso queste procedure e una rete di cittadini portavoce.
Che la leadership sia un ingrediente ineliminabile della democrazia contemporanea è del resto un dato acquisito da Hermens in poi e ciò è vero nei movimenti ancor più che nei partiti. La pratica del Movimento 5 Stelle in questi mesi (Grillo e Casaleggio docent) ne è una conferma.

l’Unità 24.6.13
Così ha parlato il guru al Corriere della Sera


«Le più immediate modifiche (alla Costituzione) sono il referendum propositivo senza quorum, l’obbligatorietà della discussione parlamentare delle leggi di iniziativa popolare, l’elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, l’abolizione del voto segreto, l’introduzione del vincolo di mandato».
«La democrazia diretta, resa possibile dalla Rete, non è relativa soltanto alle consultazioni popolari, ma a una nuova centralità del cittadino nella società. Le organizzazioni politiche e sociali attuali saranno destrutturate, alcune scompariranno. La democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato».
«La rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a  un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbedisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore. Può essere che si affermino entrambi. Certo, è molto più probabile che il controllo totale dell’informazione (...) avvenga nei Paesi dittatoriali o semi dittatoriali e che la democrazia diretta si sviluppi nelle democrazia occidentali e che queste aree in futuro confliggano». «Comunque, che in futuro sia possibile una guerra mondiale, per le risorse come il gas, l’acqua e il petrolio, non sono certo l’unico a dirlo».
«Ho un’ottima opinione di Assange. Ha rischiato e si è posto contro poteri enormi. La trasparenza in Rete è un’arma assoluta e lui l’ha usata. Spero di incontrarlo a Londra nei prossimi mesi».

Repubblica 24.6.13
Perché abbiamo bisogno della politica
di Ilvo Diamanti


ORMAI ci stiamo rassegnando alla precarietà.
Alla provvisorietà come condizione stabile. Può apparire un discorso scontato, ma perquesto è più significativo.
Perché ci capita di ascoltarlo e di ripeterlo ogni giorno. In automatico. A proposito del lavoro, dei giovani, dell’economia, del mercato. Della politica. Già: la politica. Che offre rappresentanza e rappresentazione agli orientamenti e ai comportamenti pubblici dei cittadini. È il teatro della provvisorietà. Oggi: perché il domani non è pre-visto. In fondo, il governo guidato da Enrico Letta è “a tempo”. Non è stato formato per governare fino al termine della legislatura. Ma per fare le riforme necessarie a sbloccare il Paese bloccato. Per mantenere i conti in ordine, rilanciare lo sviluppo. Per rispettare i patti con l’Europa e i partner internazionali. Per riformare la legge elettorale e il bicameralismo, troppo perfetto per permettere governabilità. Per cui non è dato di conoscere quanto durerà il governo. Perché non è possibile sapere quanto tempo richiederà il rispetto di questi impegni. La legge elettorale: nella storia della Repubblica è stata “riformata” solo per via referendaria, nel 1991 e nel 1993. O con un colpo di mano, dal centrodestra, nel 2005. Per impedire a chiunque, dunque all’Ulivo di Prodi, di conquistare una maggioranza vera.
Così è impossibile ipotizzare “quando” si troverà un accordo largamente condiviso su una legge elettorale che non sia il restyling di quella esistente. E se la durata del governo dipende dalla legge elettorale, non è possibile sapere quanto possa durare. Il lavoro dei saggi serve, come quello dell’analoga commissione istituita da Monti, a “prendere tempo”. Tanto le riforme elettorali – tanto più quelle istituzionali – sono e restano una questione politica, più che di saggezza.
Naturalmente un governo serve, all’Italia. Anche se la sua agenda è scritta dalle emergenze. In equilibrio instabile fra consenso interno e vincoli esterni. Fra Iva, Imu e parametri Ue. Difficile, in queste condizioni, immaginare il futuro. Tanto più che il governo si appoggia su forze politiche in sostanziale contrasto fra loro. Berlusconiani e antiberlusconiani. Costretti a coabitare dall’assenza di maggioranze politiche chiare e stabili. In Parlamento e nella società. Anche su questa “provvisorietà” si fonda il potere di Letta. Il punto di equilibrio di una maggioranza in equilibrio instabile. Che deve mantenere l’equilibrio, un giorno dopo l’altro. Per non precipitare. Insieme al governo di questo “Paese provvisorio” (titolo di un saggio profetico di Edmondo Berselli). D’altronde, quale “domani” propongono i partiti maggiori della maggioranza? Il Pd è in attesa delle “primarie”. Un partito con una leadership provvisoria. In attesa di Renzi. Il quale deve preoccuparsi – e si preoccupa – di questo. Perché essere considerato un leader senza esserlo formalmente, per un periodo in-certo, logora. Il Pdl. Liquidato dal leader maximo e unico. Silvio Berlusconi. Che ha deciso di ri-fondare – un’altra volta – il proprio partito personale. Tanto più e soprattutto dopo l’insuccesso alle elezioni politiche e la disfatta alle amministrative. Berlusconi, d’altronde, è, per definizione, in una situazione provvisoria. Tra un processo e l’altro. Tra un grado di giudizio e l’altro. Come può organizzare il futuro politico, per sé e per gli altri? Il centro, costruito da Monti e da Casini, non c’è più. È durato fino al voto di febbraio. Poi si è liquefatto. E oggi procede diviso. Anche se è difficile dividere quel che non c’è. Per cui, la maggioranza non ha futuro. Solo un presente.
E l’opposizione? Il M5S è l’attimo. Un non-partito istantaneo. Per linguaggio, comunicazione e modello organizzativo. Si riflette nell’immagine e nelle iniziative del leader. Il M5S. È emerso all’improvviso. Ed è cresciuto in fretta. Troppo. Anche rispetto alle attese di Grillo. Così procede incerto. Un autobus senza una mèta precisa. Molti passeggeri e abbonati, che fino a pochi mesi fa erano saliti in massa, ora scendono. Talora “cacciati” dal conducente. Più spesso, alla ricerca di un altro veicolo con cui viaggiare. Verso non-si-sa-dove.
Per queste ragioni, e non solo, neppure il Parlamento ha una durata pre-stabilita. Perché dipende dalla “missione” della maggioranza – provvisoria – che sostiene il governo. È un Parlamento di scopo, come il governo. Non si sa quanto durerà. Lo stessoGiorgio Napolitano è il simbolo della provvisorietà del nostro tempo. Lui: a quasi novant’anni, di nuovo Presidente. Costretto dall’emergenza. Dall’assenza di alternative. Egli stesso ha dettato l’agenda di questo governo – e, dunque, di questo Parlamento – di scopo. Che deve durare il tempo necessario per affrontare le emergenze – economiche e istituzionali. Giorgio Napolitano: l’uomo dell’Emergenza, non della Provvidenza. Un Presidente di scopo. Per senso del dovere. E per necessità.
Così viviamo tempi provvisori. Di passaggio. Verso non si sa dove né cosa. Sicuramente, senza più futuro. Perché il futuro è stato abolito, dal nostro linguaggio e dalla nostra visione. Finite le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata. Oggi tutto è marketing. Storie e slogan. Da rinnovare di continuo. Il futuro: se ne sta fuggendo insieme ai giovani. D’altronde, siamo tutti giovani. Adulti e anziani: non invecchiano mai. Nessuno accetta lo scorrere del tempo. Così i giovani, quelli veri, se ne stanno sospesi. Sono una generazione né-né. Né studenti né lavoratori. In Italia sono oltre due milioni (fonte Istat). Quasi un quarto della popolazione tra 15 e 29 anni. Il livello più alto nella Ue. Secondo Eurostat, inoltre, quasi 700 mila giovani italiani, nel 2012, si sono trasferiti all’estero per lavoro. Per non parlare di quelli che ci sono andati per motivi di studio. E chissà quando e se rientreranno. D’altronde 8 italiani su 10 pensano che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare altrove. Comunque, fuori dall’Italia (Demos, gennaio 2013).
È questo il nostro problema più grande, oggi: l’abitudine alla “precarietà”. La rimozione del futuro. Perché il futuro è passato. Emigrato. All’estero. E ci ha lasciati qui. Sempre più vecchi, ma incapaci di ammetterlo. Noi, passeggeri di passaggio in questo Paese spaesato: abbiamo bisogno di Politica. Perché senza Politica è impossibile prevedere. Progettare il nostro futuro. E senza pre-vedere, senza progettare o, almeno, immaginare il futuro, senza un briciolo di utopia: non c’è Politica. Ma solo “politica”. Arte di arrangiarsi. Giorno per giorno.

Repubblica 24.6.13
Moneta della discordia o rilancio dell’Unione?
di Mario Pirani


Il veleno antitedesco inquina la politica e l’economia europea con caratteristiche, per rozzezza e approssimazione, proprie a ciascun paese, in particolare l’Italia e la Francia. Il provincialismo populista antigermanico caratterizza l’approccio italiano, non a caso interpretato in prima persona con istrionico empito da Berlusconi, il che dovrebbe indurre ad una più saggia prudenza i suoi partner, occasionali o meno, di cordata governativa. Non si tratta, comunque, di contrapporre le cafonaggini nostrane alle risate di scherno della Cancelliera, quanto di saper leggere con attenzione i profondi sommovimenti di una politica europea che sta cambiando paradigma con rischi per l’Italia assai più incombenti che per tutti gli altri Paesi associati all’Unione, in primo luogo la Germania. Per chi voglia fare il punto con dovizia di documentazione si legga l’ottimo libro, recentemente edito da Donzelli,
Cuore tedesco,del germanista Angelo Bolaffi, per molti anni direttore dell’Istituto di cultura italiana di Berlino. “In principio c’è una data, il 9 novembre 1989, la caduta del Muro di Berlino. Quel giorno è finito il Novecento”. Con queste parole Bolaffi introduce il suo libro che spiega come da quell’episodio, inizialmente locale, da nessuno neppure lontanamente previsto né voluto, si diparta la dissoluzione dell’ordine geopolitico, uscito dalla seconda guerra mondiale e si apra un nuovo capitolo della storia europea o, meglio, “una nuova era della storia umana che avremmo imparato a chiamare globalizzazione”.
Un approfondimento di particolare interesse si trova nelle pagine che lo studioso dedica al rovesciamento di senso dell’Unione europea. Se il vecchio europeismo era nato e si reggeva (vedi il rapporto franco-tedesco) per difendere il Vecchio Continente dai fantasmi del proprio passato (le ricorrenti guerre civili europee), il nuovo europeismo dovrebbe servire a scongiurare l’Unione dalle minacce presenti e future. Col 1989 tutto è cambiato rispetto al punto di partenza e rischia di provocare una paradossale eterogenesi dei fini. “Anzichéunire il demos europeo minaccia, infatti, di trasformarsi in fattore di crisi, in motivo di nuove divisioni… Con disincantata lucidità l’ex cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt indica i termini del problema aiutandosi anche a ricercare le ragioni all’origine dell’odierna disunione europea nel terremoto geopolitico causato dalla caduta del Muro… La fine della guerra fredda e la riunificazione della Germania hanno radicalmente cambiato i presupposti sui quali era stato costruito il progetto europeista annunciato da Schuman nel 1950”.
A questo punto Bolaffi affronta con ricchezza analitica e precisi richiami la questione centrale che travaglia l’Ue, le sorti dell’euro. “Avrebbe dovuto essere – scrive - lo strumento per spianare la strada verso la definitiva unità dell’Europa e invece ha provocato la più grave crisi nella storia del progetto europeista. Avrebbe dovuto avvicinare i popoli del Vecchio continente, dando loro quello che mai avevano avuto in comune, una moneta: invece li ha messi l’un contro l’altro armati, riaccendendo antichi egoismi e provocando nuovi risentimenti… Gli europei hanno imparato di nuovo ad odiarsi per colpa di questa feroce e per molti versi incomprensibile guerra dei tassi d’interesse (spread)… L’euro si è rivelato davvero una moneta della discordia”. Nella sua seconda parte l’autore propone una tesi affascinante, da una parte avversa a quanti, in nome dello sviluppo, vorrebbero rilanciare una politica di indebitamento (ma come dice Draghi: “Essa non è percorribile perché in tal modo noi graviamo sulle generazioni a venire”) e, dall’altra di accettazione dell’errore, ormai ineluttabile, che è stato compiuto nei tempi di costruzione della moneta unica. Resta la via d’uscita che non è quella del rigore tout court ma dell’economia sociale di mercato, quel modello tedesco, sancito anche dal Trattato di Lisbona, che unendo l’austerità alla efficienza e alla produttività raddrizzerebbe le sorti dell’Europa e dell’euro in un rinnovato processo di unificazione non fittizia.

l’Unità 24.6.13
La disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è un fattore recessivo
L’economia ferma dei troppo ricchi e troppi poveri
di Carlo Buttaroni


Per il premio Nobel Joseph Stiglitz, quando le disuguaglianze sociali crescono, s’innesca una spirale negativa. Nei Paesi dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri il prodotto interno lordo tende a decrescere. Quando si afferma una grande «classe media», invece, la prosperità si diffonde.
Stiglitz, analizzando il caso degli Stati Uniti, rileva come nei due periodi storici in cui l’1% dei ricchi è arrivato a concentrare nelle proprie mani il 25% della ricchezza complessiva è poi scoppiata una terribile recessione. È quanto accaduto sia nel ’29 che nella crisi esplosa nel 2008. Due crisi, diverse nelle origini e negli effetti, ma unite significativamente dal fatto che, alla vigilia di entrambe, la polarizzazione della ricchezza aveva raggiunto quella che sembra sempre più una soglia che diventa molto pericoloso oltrepassare. Ancora, nel corso del 2010, quando l’intera nazione americana era nel pieno della battaglia contro la crisi, la piccolissima percentuale di popolazione super-ricca continuava a guadagnare il 93% del reddito aggiuntivo creato nel frattempo dalla fragile ripresa (da questa spaventosa disuguaglianza nasce nasce il movimento Occupy Wall Street, all’insegna dello slogan «Siamo il 99%»).
Il problema principale di tutte le economie avanzate e altamente industrializzate, secondo l’analisi di Stiglitz e Krugman, è rappresentato dalla debolezza della «domanda aggregata», cioè la domanda di beni e servizi espressa da un sistema economico nel suo complesso. Premesso che la porzione di reddito spesa per l’acquisto di beni e servizi è, per forza di cose, maggiore nei redditi bassi, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi è diventata un problema strutturale. Questo perché non è semplicemente un portato delle forze del mercato, ma dipende dalle scelte di politica economica che, incentivando le rendite finanziarie e sfavorendo gli investimenti produttivi, hanno orientato le scelte imprenditoriali e industriali in tale direzione. Meno investimenti produttivi significano un’economia meno dinamica e meno florida, minata alla base delle sue prospettive di crescita. A risentirne, inevitabilmente, è la «struttura» produttiva di un sistema Paese, cioè la sua «economia reale».
I DUELLANTI
L’analisi di Stiglitz è una bomba lanciata nelle retrovie neo-liberiste che partono dall’assunto opposto, e cioè che le diseguaglianze non inficiano in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto i patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genera un cosiddetto «effetto a cascata», che dai vertici della piramide fa discendere la ricchezza fino ai livelli più bassi, portando un arricchimento generale e una maggiore crescita. E quanto più lo Stato rimane estraneo a questo processo «naturale», liberamente guidato dalle spontanee forze economiche, tanto maggiore è il vantaggio che ne traggono l’economia e lo sviluppo del Paese (idea alla base della deregulation dei mercati finanziari, ed economica in generale). Stiglitz ritiene, invece, che il prodotto interno lordo dei paesi segnati dalle maggiori diseguaglianze nella distribuzione complessiva della ricchezza cresce con grande difficoltà e discontinuità, andando incontro a veri e propri crolli. Il motivo di questo fenomeno non risiede nella moralità del pensiero egualitario, ma in un ben individuato meccanismo economico chiamato propensione al consumo. Contrariamente a quanto generalmente si crede, infatti, nei ricchi tale propensione è più bassa, mentre il vero motore dei consumi è il ceto medio, non solo perché rappresenta una platea più ampia, ma anche perché è portato a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito rispetto ai ricchi. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi delle economie avanzate per far ripartire l’intera economia (insieme a un aumento delle esportazioni), ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza e il rafforzamento della classe media. Esattamente l’opposto di quanto avvenuto finora.
Oltretutto la crescita della disuguaglianza coincide con il depotenziamento della cittadinanza sociale e della partecipazione politica che, fino a vent’anni fa, in Italia come in Europa, era considerata un traguardo dello status inclusivo proprio del ceto medio. Ci ha pensato la crisi a spazzare via questa speranza, con il risultato che anche la democrazia si è indebolita nelle forme e nei contenuti.
Adesso viene da chiedersi cosa altro serva per avere la consapevolezza della necessità di politiche completamente diverse, redistributive ed espansive, in grado di far ripartire la domanda interna? Quali ulteriori prove occorrono per comprendere l’urgenza di politiche per il lavoro fondate sulla qualità sociale, sui diritti che sostengano le famiglie e il ceto medio? E chi è più visionario: chi pensa di poter uscire dalla crisi proseguendo sulla strada del «rigore» con road map irrealizzabili o chi ritiene come Stiglitz emolti economisti premi Nobel che occorre mettere al centro politiche economiche che superino i paradigmi hanno portato alla situazione attuale? Se è vero che la crisi parte da lontano e affonda le radici nella globalizzazione, è altrettanto vero che ciò che la nutre non è l’interconnessione planetaria, ma l’arretramento della politica dal governo dalle grandi questioni economiche e sociali. Ed è anche su quest’aspetto che Stiglitz, Krugman e altri economisti, più o meno indirettamente, affondano le loro critiche. Aver sottoposto i cittadini a sofferenze incredibili sulla base di teorie e scelte politiche sbagliate.
D’altronde l’inizio del nuovo capitalismo finanziario mondiale prende avvio agli inizi degli anni 70 con la scelta (politica) del governo statunitense di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Fu quello il fischio d’inizio della fase espansiva delle teorie iperliberiste, ispirate al pensiero di Milton Friedman che, negli anni 80, hanno trovato interpretazione nelle politiche conservatrici di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, centrate sulla deregolamentazione del mercato, la privatizzazione delle aziende pubbliche, l’alleggerimento della struttura statale e dei sistemi di protezione sociale. La famosa deregulation, cioè l’abbandono del mercato da parte dello Stato, lasciandolo quindi libero di trovare il proprio punto di equilibrio, autoregolandosi, autolimitandosi e autocomponendosi. La promessa è stata mancata, ma gli effetti di quell’impostazione si fanno sentire, con il ritiro della politica dall’economia, dalla produzione, dall’occupazione, de-territorializzando i processi economici staccati sempre più dalle grandezze reali dell’industria. Processo, questo, che ha lasciato spazio alle dimensioni finanziarie della ricchezza, senza che queste abbiano necessità di passare attraverso investimenti nelle attività imprenditoriali e industriali, separando la finanza dalla produzione e assegnando all’economia una dimensione prima cartacea, poi telematica. La rottura della relazione tra capitale e lavoro è stata una conseguenza inevitabile. Come inevitabile è stato il progressivo distacco dell’economia dal territorio e dalla dimensione nazionale, che di quel legame ha sempre costituito l’aspetto politico. Negli anni 80 ha preso avvio un processo di progressiva indipendenza dell’economia finanziaria dal palinsesto pubblico e in particolare dallo stato e dalla legge. Un processo presto diventato insofferenza per la politica, il territorio, i confini, il limite, la legge e il diritto: elementi avvertiti come ostacoli al consolidamento del potere della finanza. Una finanza che, in questi anni, ha preteso sempre più «mano libera», rivendicando il potere di invadere i mercati con un rovesciamento dei rapporti di forza non solo tra capitale e lavoro ma anche tra capitalismo e democrazia.
È questa la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi: dare uno stop alle politiche del rigore che alimentano la crisi e rendono più forte il capitalismo finanziario. Occorre il coraggio di rovesciare i paradigmi che hanno guidato le scelte di politica economica negli ultimi anni, mettendo al centro la questione sociale, il lavoro, i diritti. E per fare questo è necessario un passo avanti della politica. Forse occorre persino una nuova Bretton Woods. E questa sì, sarebbe una rivoluzione.
I grafici sono tratti da «Dati del Rapporto BES 2013, il benessere equo e sostenibile in Italia» realizzato dall’ISTAT e dal CNEL.

l’Unità 24.6.13
Bray: «Il Maggio Fiorentino non deve morire»


«Da parte mia intendo garantire l’esistenza del Maggio, salvaguardare i posti di lavoro e quindi individuare tutte le soluzioni possibili per raggiungere questi obiettivi. Per questo motivo ne ho discusso con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Filippo Patroni Griffi, che coinvolgerà il governo in questa urgente decisione». Lo scrive su Facebook il ministro dei Beni Culturali Massimo Bray, commentando la possibile chiusura della Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino. E fonti ministeriali confermano: il ministro starebbe studiando un piano industriale per far fronte alla crisi del Maggio Musicale, quantificando le risorse necessarie per salvare la fondazione e predisponendo le norme per la salvaguardia dei lavoratori. Un piano che verrà presentato al governo non appena sarà pronto. L’istituzione
è infatti a rischio liquidazione, considerata anche dal governatore della Toscana, Enrico Rossi, l’unica alternativa alla chiusura. Questo l’altro giorno si sono incontrati a Roma lo stesso Bray, Rossi, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi e il commissario straordinario del Teatro, Francesco Bianchi, dopo la relazione del quale, gli enti hanno chiesto al commissario un piano in grado di consentire la continuità e il rilancio dell’attività e della programmazione artistica, insieme al raggiungimento entro un tempo prestabilito dell’equilibrio economico e finanziario. E sempre Rossi aveva spiegato: «Chiediamo al governo di intervenire, anche attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. Si tratta di uscite sostenibili. La liquidazione ci dà la possibilità di riassorbire eventuali esuberi anche in un lasso di tempo pluriennale.

l’Unità 24.6.13
Turchia, finora più di due milioni in piazza
I dati della protesta resi noti dal ministero dell’Interno di Ankara
Sono cinquemila i dimostranti «fermati» e oltre quattromila i feriti
Continua l’azione non violenta: fiori ai poliziotti
di Virginia Lori


Neanche i fiori hanno funzionato. La polizia ha represso con brutalità la protesta «non violenta» dei manifestanti che a Istanbul sino a ieri notte hanno tentato di «riprendersi» piazza Taksim. Non sono bastati i garofani rossi offerti agli agenti in tenuta anti sommossa per fermare le loro cariche.
Sin dal pomeriggio i dimostranti a migliaia si erano dati appuntamento nel luogo che oramai è il simbolo dell’opposizione alla politica del premier Erdogan e alla sua svolta islamista per ricordare le quattro vittime, le migliaia di feriti e le centinaia di arrestati in queste tre settimane di opposizione alla scelta di smantellare i seicento alberi del Gezi park imposta dal capo del governo per far posto ad un centro commerciale e ad una moschea. Una battaglia «ecologica» che ben presto ha assunto un valore più generale, di difesa della laicità e delle libertà democratiche del Paese.
Le forze dell’ordine in un primo tempo hanno cercato di contenere i dimostranti, spostandoli ai margini della piazza poi in tarda serata, con violenti getti d’acqua sparati dagli idranti e facendo un uso massiccio di lacrimogeni e gas urticanti li hanno costretti ad allontanarsi dalla piazza. Gli scontri si sono poi spostati nelle vie adiacenti e nelle altre strade del centro della città sul Bosforo. Stesso trattamento è stato riservato a chi ha tentato di manifestare nella capitale, ad Ankara. Ma malgrado la durezza della repressione la protesta non si ferma.
Ieri il ministero dell’Interno turco ha fornito i «numeri» della protesta. Dal 31 maggio sono stati circa 2,5 milioni i turchi che hanno partecipato alle proteste antigovernative. Tutto è partito con contro lo smantellamento del parco Gezi di Istanbul. Le persone fermate sono state 4.900, i feriti 4.600, tra cui 4mila civili e 600 poliziotti. Le manifestazioni hanno coinvolto ben 79 delle 81 province del Paese. Quelle più significative si sono tenute a Istanbul e ad Ankara. Ora però, è soprattutto Istanbul il cuore della protesta. Secondo le autorità «le manifestazioni hanno causato perdite per 55 milioni di euro». Gli edifici pubblici danneggiati sono stati 58, mentre danni sono stati causati a 68 telecamere di sicurezza, 337 uffici, 90 autobus comunali, 214 macchine, 240 veicoli della polizia e 45
ambulanze, infine 14 sedi di partiti politici avrebbero subito danni durante gli scontri.
È questa la quantificazione un po’ burocratica del movimento di protesta che ha sorpreso molti e che ha dato il segno di un cambiamento profondo in atto nella società turca. Soprattutto della consapevolezza dei rischi per la modernizzazione segnata da una «islamizzazione forzata» perseguita dal premier Erdogan che rischia di metterne a rischio non solo la laicità, ma anche le libertà fondamentali. Dal canto suo Erdogan, ben consapevole che in settimana il «dossier» Turchia sarà all’esame dell’Unione europea non fa un passo indietro. Anzi, denuncia un «complotto di forze straniere, banchieri e media» contro il Paese.

l’Unità 24.6.13
Özden Ihtiyar
Avvocato dell’Ordine dei legali di Istanbul dall’inizio
delle manifestazioni ha assistito le persone fermate
«Abbiamo difeso ragazzi terrorizzati dalla polizia»
di Claudia Bruno


«C’è un gruppo di attivisti che ha superato la soglia della paura e il governo fa di tutto per spaventarli e rispedirli a casa. Medici e avvocati hanno aiutato i manifestanti e sono stati presi di mira per mandare un messaggio a chi protestava: “Non confidate in dottori e avvocati, noi abbiamo potere anche su di loro”. Ma non ha funzionato, ancora più medici e avvocati hanno cominciato a supportare le proteste». Özden Ihtiyar è un avvocato dell’Ordine dei legali di Istanbul: dall’inizio delle manifestazioni, si è impegnata per assistere le persone fermate.
Qual è stata la sua esperienza nei primi giorni di OccupyGezi?
«Erdogan aveva annunciato l’intenzione di andare avanti con il piano stabilito per Gezi Park, a prescindere dalle contestazioni. Il 30 maggio, alle 5 di mattina, la polizia ha fatto irruzione nel parco e ha colpito con i gas la gente che dormiva. Sono andata al parco alle 10 e ho iniziato a supportare il gruppo; nel corso della giornata, il parco ha cominciato a riempirsi sempre di più. Il giorno dopo la polizia è intervenuta di nuovo e ha rimosso alcuni alberi. Dopo un incontro con la stampa di fronte al Divan Hotel, mentre ci stavamo allontanando, c’è stato un grande attacco improvviso con i gas. Sin dall’inizio la gente ha resistito in maniera non violenta alla brutalità della polizia: le immagini sono state diffuse sui social media e le “masse silenziose” che non tolleravano questi abusi hanno avuto il coraggio di scendere in strada per la prima volta. Allora hanno visto con i loro occhi che esisteva qualcosa chiamato “terrore di polizia”».
Molte persone sono state arrestate dall’inizio delle proteste. Alcuni avvocati sono stati fermati dalla polizia. Come spiega la risposta dura delle autorità? «Sin dall’inizio gruppi di protesta hanno organizzato dimostrazioni dappertutto e a qualsiasi ora. Noi eravamo lì come avvocati autorizzati dall’Ordine dei legali di Istanbul. Quello stesso venerdì, 31 maggio, l’ingresso a Gezi Park è stato bloccato; nella sera ci sono stati i primi arresti. Da quel momento stiamo dando assistenza legale agli attivisti. Gli arresti mirano a spaventare i dimostranti: questi manifestanti sono colpevoli di “resistenza a pubblico ufficiale e disobbedienza agli avvertimenti della polizia”; in realtà è evidente che non sono per niente colpevoli. Il massimo della pena prevista per questi crimini è di due anni e, per la procedura prevista dalla legge, la loro pena verrà posticipata. Quindi queste persone non andrebbero in carcere neanche per un giorno; eppure, sono state detenute a volte per più di 72 ore in modo del tutto arbitrario». La polizia è stata accusata di un uso eccessivo della forza nei confronti dei manifestanti. Qual è stata la sua esperienza?
«Sono morte delle persone e migliaia sono state ferite. La polizia ha attaccato anche centri medici. Per esempio, domenica 16 giugno sono stata tutto il giorno in un centro medico a Sisli, perché i medici avevano paura che la polizia potesse arrivare e arrestare loro e i dimostranti feriti. In effetti i Toma (veicoli antisommossa della polizia, ndr) hanno colpito con getti di acqua arancione le finestre del centro e hanno lanciato gas urticanti contro la porta. I dottori che arrivavano per aiutare i manifestanti sono stati maltrattati dalla polizia, che ha sequestrato maschere antigas, caschi e attrezzature mediche. Le azioni della polizia sono diventate ancora più brutali dopo che gli agenti hanno lavorato fino a 48 ore senza riposare o andare a casa. Poliziotti stanchi e insonni hanno cominciato a colpire non solo la gente per strada, ma anche le case. Per esempio, quel giorno è arrivata al centro una signora di 83 anni: la sua abitazione, al quinto piano, era stata colpita da un candelotto di gas. Dopo l’attacco, sono andata alla stazione di polizia per aiutare le persone fermate: molte di loro erano ferite. Uno di loro aveva danni la retina e corre il pericolo di perdere la vista».
È preoccupata per il futuro della democrazia turca o pensa che queste proteste possano portare cambiamenti positivi per le Istituzioni?
«Sono più fiduciosa che mai. Come ho già detto, c’è un gruppo di persone che ha superato la soglia della paura. Il livello di istruzione dei manifestanti è abbastanza alto, e questo ci aiuta a conoscere e diffondere la verità su quello che sta succedendo. Per tanti anni, fra amici, abbiamo discusso delle cose che non andavano. Tutti stavano perdendo la speranza nel futuro. Pensavamo che la “generazione ’90” fosse apolitica; invece questa generazione ha iniziato un’azione che nessuno si aspettava. Spero che riusciremo a creare nuove organizzazioni e piattaforme attraverso i social media, come ci sono stati esempi in Italia. Una nuova rete, una nuova piattaforma, è proprio quello di cui abbiamo bisogno».

Repubblica 24.6.13
Dalla Turchia al Brasile, il filo che unisce la protesta
di Moisés Naim


In principio fu la Tunisia, poi il Cile e la Turchia. E ora il Brasile. Che cos’hanno in comune le proteste di piazza in Paesi così diversi tra loro?Varie cose… e tutte sorprendenti.
1. Piccoli incidenti che diventano grandi. In tutti questi casi, le proteste sono partite da avvenimenti locali che inaspettatamente si sono trasformati in un movimento nazionale. In Tunisia tutto cominciò quando un giovane venditore ambulante di frutta, non sopportando più gli abusi delle autorità, si immolò dandosi fuoco. In Cile furono i costi degli studi universitari. In Turchia un parco, e in Brasile le tariffe degli autobus. Con sorpresa dei manifestanti stessi – e dei governi – queste rivendicazioni specifiche hanno trovato eco tra la popolazione e si sono trasformate in proteste generalizzate su temi come la corruzione, la disuguaglianza, l’alto costo della vita o l’arbitrio di autorità che agiscono senza tener conto delle opinioni dei cittadini.
2. I Governi reagiscono male. Nessuno dei governi dei Paesi dove sono scoppiate queste proteste è stato in grado di anticiparle. Inizialmente non hanno nemmeno compreso quale fosse la loro natura, e non erano preparati per affrontarle con efficacia. La reazione comune è stata quella di inviare i reparti antisommossa per disperdere le manifestazioni. Alcuni governi si sono spinti più in là e hanno scelto di schierare l’esercito. Gli eccessi della polizia o dei militari hanno finito per aggravare ulteriormente la situazione.
3. Le proteste non hanno capi né una catena di comando. Queste mobilitazioni di rado hanno una struttura organizzativa o leader chiaramente definiti. Alla fine qualcuno dei protestanti si mette in luce più degli altri, che li designano (o i giornalisti li identificano) come portavoce. Ma questi movimenti – organizzati spontaneamente attraverso reti sociali e messaggi di testo – non hanno né leader né una catena di comando.
4. Non c’è qualcuno con cui negoziare o qualcuno da incarcerare. La natura informale, spontanea, collettiva e caotica delle proteste disorienta i governi. Con chi negoziare? A chi fare concessioni per placare l’ira delle piazze? Come fare a sapere se quelli che appaiono come i leader sono realmente in grado di rappresentare e impegnare gli altri?
5. È impossibile prevedere le conseguenze delle proteste. Nessun esperto è riuscito a prevedere la primavera araba. Fino a poco tempo prima della loro repentina defenestrazione, Ben Alì, Gheddafi o Mubarak erano considerati da analisti, servizi segreti e mezzi di comunicazione come leader intoccabili, di cui si dava per certa la permanenza al potere. Il giorno seguente, quegli stessi esperti spiegavano perché la caduta di questi dittatori era inevitabile. Come non si sa perché né quando cominciano le proteste, così non si sa come e quando termineranno e quali saranno i loro effetti: in alcuni Paesi non hanno avuto conseguenze di vasta portata, o hanno prodotto solo riforme di minor rilevanza; in altri, le mobilitazioni hanno fatto cadere governi. Non sarà questo il caso del Brasile, del Cile o della Turchia, ma non c’è dubbio che il clima politico in questi Paesi già non è più lo stesso.
6. La prosperità non compra la stabilità. La principale sorpresa di queste proteste di piazza è che sono avvenute in Paesi di successo, dal punto di vista economico. La Tunisia aveva la migliore situazione economica del Nordafrica. Il Cile è un esempio mondiale del fatto che lo sviluppo è possibile. Definire la Turchia un “miracolo economico” negli ultimi anni è diventata una banalità. Il Brasile non solo ha tirato fuori milioni di persone dalla povertà, ma è riuscito perfino nell’impresa di ridurre la disuguaglianza. Tutti questi Paesi oggi hanno una classe media più numerosa che mai. E allora? Perché scendere in piazza a protestare, invece di festeggiare? La risposta sta in un libro pubblicato nel 1968 dal politologo statunitense Samuel Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale.
La sua tesi è che nelle società che sperimentano trasformazioni rapide, la domanda di servizi pubblici cresce a velocità più sostenuta della capacità che hanno i governi di soddisfarla. È questo il divario che spinge la gente a scendere in piazza per protestare contro il governo. E che alimenta anche altre, giustificatissime proteste: il costo proibitivo dell’istruzione superiore in Cile, l’autoritarismo di Erdogan in Turchia o l’impunità dei corrotti in Brasile. Sicuramente in questi Paesi le proteste si spegneranno, ma questo non significa che le loro cause scompariranno: il divario di Huntington è incolmabile.
E questo divario, che produce turbolenze politiche, può essere trasformato in una forza positiva che favorisce il progresso.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 24.6.13
Born to kill
Dal Kentucky all’inferno iracheno, prima mitragliere poi cecchino
Il sergente Dillard ha annotato i nemici uccisi fino a contarne 2.746
di Vittorio Zucconi


Il sergente scelto Dillard Johnson detto “il carnivoro” è l’uomo che ha sterminato più nemici in guerra nella storia degli Usa.
Nato nel Kentucky, ha combattuto nel 2003 contro l’esercito di Saddam Adesso, a 48 anni, è malato a causa dell’uranio impoverito dei proiettili esplosi. E ha deciso di raccontarsi in un libro: “Non per vantarmi, ma per pagarmi le cure” ha spiegato
“Perché la battaglia non è quella illustrata nei fumetti”
“Così ho ucciso 2.746 iracheni”

WASHINGTON Contava le teste come i petali delle margherite: morto, non morto, e nel dubbio, poiché era “umano”, finiva quelli ancora vivi. Il sergente Dillard Johnson del 7mo Cavalleria contò 2.746 iracheni uccisi da lui in un mese di guerra, record assoluto di petali umani staccati per un soldato, almeno da quando l'esercito americano tiene questa contabilità.
Ora che sta morendo anche lui, ad appena 48 anni, ucciso proprio da quelle munizioni di DU, di uranio impoverito, che aveva usato per la sua collezione di vite nemiche recise e che gli hanno causato un linfoma di Hodgkins, il sergente Johnson ha ripercorso in un libro di memorie il sentiero di sangue che lo portò dal Kuwait alla capitale irachena. Dalla fine del marzo 2003 alla resa di quello che restava delle forze di Saddam Hussein il primo maggio, guidò nell'avanzata il “Bradley”, il carro leggero per trasporto truppe che gli era stato affidato proprio dal reggimento dei suoi sogni, il 7mo Cavalleria, e percorse 600 chilometri. Alla velocità media di 4,5 morti al chilometro.

Fu lui stesso, dopo il primo incontro con il nemico nel villaggio di As Samawah, vicino a Nassiriya, nel buio terrorizzante di una tempesta di sabbia, a battezzare il carro leggero con il soprannome di “Carnivore”, il carnivoro. Con tre proiettili ben temperati del suo cannoncino da 25 mm, il sergente centrò un camion carico di soldati iracheni, sbriciolandolo. «Mi avvicinai ai resti fumanti del veicolo e dei loro occupanti» racconta nel libro che ha preso il titolo dal soprannome, e cominciai a contare le teste, che erano spesso la sola cosa riconoscibile. Erano sedici e qualcuno sembrava ancora vivo. Feci il solo gesto compassionevole che potessi fare. Li finii».
Quel giorno — era la fine di marzo — fu il coronamento di un sogno che Dillard Johnson aveva accarezzato fin da bambino. Nel Kentucky dove era nato e cresciuto, la terra dei distillatori di whisky di contrabbando in perenne lotta con le autorità, la culla delle figure leggendarie della frontiera cone Daniel Boonegran cacciatore si selvaggina e di indiani Shawnee, «i miei compagni di scuola sognavano di diventare astronauti, giocatore di football, pompieri, sceriffi». Ma non lui. Il suo eroe immaginario era il Sergente Rock, il micidiale soldato dei fumetti raccontato dai DC Comics, capace di abbattere aerei tedeschi con la mitragliatrice a braccio e di colpire nemici con mira infallibile e bombe a mano lanciate con la precisione di una pallina da baseball.
Anche lui, come un altro sergente, ma autentico, reso immortale dalle imprese nella Grande Guerra, il sergente York, aveva imparato l'arte di uccidere dal padre, nella vita quotidiana fra le colline e le valle degli Appalachiani. Il padre gli aveva regalato un fucile calibro 22 da bambino, glielo aveva personalizzato e lo aveva portato a caccia con sé, di giorno e di notte. Ma i cervi, gli orsi, i falchi di queimonti avevano un ovvio difetto: non sparavano a lui. Gli iracheni invece sì e questo aveva reso la caccia al soldato di Saddam infinitamente più «soddisfacente ed eccitante», dice.
Seguì i corsi paramilitari al liceo, ma non all'università, che non frequentò, dove sarebbe potuto diventare ufficiale, non che le barrette da sottotenente gli interessassero. «Gli ufficiali danno ordini, guidano plotoni, compagnie, reggimenti. Io volevo essere in prima linea, a combattere, a guardare in faccia chi voleva uccidere me, prima di ucciderlo». E poiché sparare proiettili all'uranio impoverito da un cannoncino a tiro rapido dalla torretta non è proprio il massimo del combattimento da Frontiera, il sergente Johnson decise di abbandonare il 7mo Cavalleria. Lasciò il reggimento che era stato del colonnello Custer nel disastro di Little Big Horn contro Sioux e Cheyenne, smontando dai cavalli e salendo su mezzi corazzati ed elicotteri a tutte le guerre americane, per trasformarsi in tiratore scelto.
Attraverso il mirino ottico del fucile da cecchino, nella solitudine degli agguati con lo “spotter”, l'assistente accanto per la misurazione della distanza e del vento, il sergente aggiunse altri 126 mortial bottino fatto con il 'Carnivore', portando ai 2.746 il totale. Uno per uno, contando le teste, quando non restava altro nei veicoli nemici carbonizzati, i fucili abbandonati, poi i nemici colpiti senza che neppure potessero immaginare di essere bersagli a centinaia di metri di distanza, Johnson annotava tutto. Su un libretto, e sempre con una matita, molto più affidabile di biro o penne, annotava i suoi successi. Li riportava ai superiori come un diligente compito a casa, per il “body count”, il conteggio dei corpi che il Pentagono diceva di non fare più dai tempi del Vietnam, ma che continuava a fare.
Non si può naturalmente sapere con certezza storica se quei quasi tremila nemici abbattuti siano realmente un record assoluto, nella infinita sequenza di guerre, non soltanto americane. Miti e leggende ricordano altri celebri mietitori individuali di vite. Uomini come “La Morte Bianca”, il soprannome che i russi avevano dato al cecchino finlandese Simo Häyhä, quello che nell'inverno del 1940, con temperature polari, uccise con il proprio fucile almeno 705 soldati dell’Armata Rossa. O come Carlos Hatchkock, che in Vietnam freddò a distanze superiori al chilometro più di cento fraVietcong e soldati del Nord. Anche lui, come il sergente Johnson, si era fatto l'occhio cacciando nella Grande Praterie del West, con la propria tribù di Cheyenne. I Nordvietnamiti lo avevano identificato soltanto come “Penna Bianca” e avevano messo una taglia da 30 mila dollari sulla sua vita. Lo avevano fatto anche i nazisti sulla testa di Ludmilla Pavlichenko, tiratrice infallibile, secondo la storia ufficiale sovietica, con 309 vittime tedesche confermate.
Ora, dieci anni dopo la mietitura di vite nelle valli dell'Eufrate e del Tigri, il grande falciatore venuto dal Kentucky è un signore vicino ai cinquant'anni che vive della pensione militare e di una consulenza per una società che produce, e non potrebbe essere altro, munizioni. Ha quattro figli ancora piccoli, l’Hodgkins che gli consuma il corpo e le risorse finanziarie oltre l'assistenza sanitaria degli ospedali militari, un cassetto di medaglie, un proiettile conficcato in una gamba e una casa in Florida, che divide con i figli e la moglie. Non vuol sentire parlare di record, ha detto al Ny Post che lo ha intervistato. Se ha scritto il libro è perché gli servono soldi, per le cure, la chemio e per lasciare qualcosa alla famiglia. «Non me ne vanto, non ne sono orgoglioso, non me ne importa molto. Ricordo con molta più gioia il primo cervo che abbattei nel Kentucky andando a caccia con mio papà che era tanto orgoglioso di me».
Dell’Iraq ricorda quello che tutti i veterani e reduci ricordano, la paura, l'estraneità di quel mondo, il buio delle tempeste di sabbia, l'adrenalina. Ricorda: «Ci trovammo improvvisamente avvolti in un tornado di sabbia che ci accecò e che ci impediva di vedere anche gli altri mezzi corazzati che pure stavano a tre o quattro metri da noi. Vedevamo soltanto attraverso la radio e la voce del capitano che era in contatto con i ricognitori JSTAR in volo e ci riportava notizie terrificanti. C'era un ponte sull'Eufrate, davanti a noi, da qualche parte e il capitano ci avvertiva che una colonna di forse mille, dico mille camion per il trasporto truppe venivano nella nostra direzione. Voleva dire alme-no ventimila uomini e poi carri armati, trasporti blindati, pezzi semoventi. Da un'apertura improvvisa nel buio della tormenta di sabbia credetti di vedere la sagoma di un autocarro iracheno e feci fuoco con il cannoncino rapido, tre colpi, tuf, tuf, tuf, pregando che non fosse uno dei nostri, perché tanti di noi erano già stati centrati dal fuoco amico».
Fu il suo primo “kill”, il suo primo bersaglio centrato, quello che lo portò a contare i resti come petali caduti. «Tirai un grande sospiro di sollievo, quando vidi che avevo centrato il nemico», ma la sua gioia più grande sarebbe venuta più tardi, alle porte di Baghdad, quando vide una Mercedes bianca correre via su una strada. «Nonc'erano veicoli civili sulle strade, in quei giorni, e certamente non Mercedes Benz. Avevo letto che Saddam aveva a disposizione una flotta di auto blindate così e per un attimo pensai che sopra ci fosse lui». Il “Carnivoro” esplose un salvo di proiettili all'uranio e la Mercedes si inchiodò, colpita. Il sergente la avvicinò con il suo mezzo, senza scendere e portò il carro sopra, schiacciandola. E se ci fosse stato sopra Saddam? «Lo avrei schiacciato, come lo scarafaggio che era». Non ha più voglia di sparare, oggi il sergente maggiore Dillard Johnson. Tra una sessione e l'altra di chemio va con i figli a fare surf nelle onde dell'Atlantico, sulla costa della Florida. «Ho fatto quel che volevo e che dovevo fare, non ho rimpianti né vanità». Una cosa però ha imparato, il sergente carnivoro: «La guerra non è quella illustrata nei fumetti».

Repubblica 24.6.13
Nel segno del David
Quando Firenze era la città modello dove l’arte aveva una funzione civile
di Salvatore Settis


«Odi l’altra parte» : così ammonisce la scritta di una lunetta dipinta a Firenze verso il 1430, e che serviva da sovraporta in una sede pubblica, probabilmente il Monte Comune, dove si amministravano i prestiti forzosi e volontari dei privati raccolti dal Comune di Firenze per contrastare il debito pubblico. Iconografia religiosa ed etica civica si intrecciano in modo indissolubile non solo in questa, ma in ogni altra opera esposta alle Gallerie dell’Accademia di Firenze in una mostra eccezionale,Dal Giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento (fino all’8 dicembre). Curata da Maria Monica Donato e Daniela Parenti con un nutrito gruppo di collaboratori anche giovanissimi, la mostra ricostruisce con un percorso rigoroso e accattivante un universo di immagini e un orizzonte di valori che il tempo sembra aver disperso. Ci mette sotto gli occhi una Firenze intrisa di figure, prelevate talvolta dal mito antico (Marte, Ercole), altre volte dal repertorio dell’arte cristiana, ma tutte reindirizzate a dispiegare, come altrettanti e convergenti manifesti, un’idea di città, un ideale di cittadinanza. Si alternano, nelle preziose stanze dell’Accademia, opere di grandi maestri (come il bronzeo Santo Stefano di Lorenzo Ghiberti o Ercole che strozza l’idradi Antonio del Pollaiuolo), dipinti e sculture di maestri “minori” (Niccolò di Tommaso, Bernardo Daddi), ma anche sigilli, manoscritti, miniature, iscrizioni. L’impressione che se ne ricava, grazie alla sapiente scelta e presentazione dei materiali, è di una grande polifonia corale, in cui il pensiero dominante non è l’“arte” (concetto astratto, che solo nel Settecento prese il significato che ha per noi oggi), ma lafunzionedelle immagini. Nel mondo che la mostra ricostruisce per noi, magistrati e cittadini privati, vescovi e abati, eruditi e notai, tutti sembravano volersi dire l’un l’altro, attraverso le immagini oltre che con le parole, quale fosse e quale dovesse essere la loro città. Quali le aspirazioni, quali le regole del gioco, quale il passato e quale il futuro.
La città come spazio pubblico del discorso, come luogo primario della politica (nel senso di “discorso fra cittadini della polis”):questa la lezione che la mostra ci impartisce, riallestendo in diverso ordine e secondo una sequenza stringente opere anche assai note, ma che in questo contesto prendono nuova luce e spessore e si illuminano a vicenda. Basta una visita a questa mostra per intendere che, strappando dai loro contesti d’origine affreschi e statue, iscrizioni e tavole dipinte, non abbiamo reso un gran servizio alla verità storica. Abbiamo allineato “opere d’arte” sulle pareti dei nostri musei, mettendo al margine le ragioni e i pubblici per cui furon create. Per cominciare a capire, dovremmo molto più spesso provare, come fa questa mostra, a ricreare almeno un’ombra dei contesti antichi: contesti di intenzioni, di pratiche socioculturali, di reazioni, di sguardi.
Già entrando a Firenze, sopra le porte dalla cinta muraria trecen-tesca demolita nell’Ottocento, limpide iscrizioni su lastre di marmo dichiaravano la fascia di rispetto, dentro e fuori le mura, dandone le esatte misure perché nessuno osasse edificarvi nulla. Una costante, questa, che rimase in vita anche nella Firenze granducale, con due ragioni convergenti: assicurare la funzione difensiva delle mura e garantire la forma della città, la sua visibilità e riconoscibilità da lontano. Quale baratro si sia spalancato fra tanta civiltà e dignità e la trista periferiache oggi assedia Firenze (e quasi tutte le nostre città) non fa bisogno ricordare. Simboli civici, come il giglio e il Marzocco, presidiavano porte e strade, libri e monete, ma anche un edificio come il Battistero poteva diventare simbolo della città, anche perché si credeva che fosse un tempio pagano riutilizzato (come a Roma il Pantheon), e dunque adattissimo a rappresentare la genealogia di Firenze dalla Roma imperiale, nonché la sua aspirazione ad esserne in Italia la vera erede, controaltri aspiranti come Pisa o Siena. Un’Incoronazione della Verginedipinta nel 1372-73 da Jacopo di Cione, Niccolò di Tommaso e Simone di Lapo potrebbe apparirci, se la vediamo sulla parete di un museo, un quadro-standard di devozione: e invece fu commissionato dagli ufficiali della Zecca fiorentina, e a suggello della sua valenza squisitamente politica pone la scena sacra sopra uno zoccolo decorato con nove stemmi (due rami degli Angiò, Firenze, la Parte Guelfa, le Arti di Calimala e del Cambio, i due Signori della Moneta in carica). Anche i dieci Santi che assistono alla scena non sono lì a caso, ma tracciano una topografia celeste che corrisponde alla situazione politica di Firenze. San Giovanni Battista, ad esempio, è il protettore non solo della città ma di Calimala; san Barnaba è qui dipinto perché nel giorno della sua festa i guelfi sconfissero i ghibellini a Campaldino (1389); né poteva mancare sant’Anna, visto che nel suo giorno i fiorentini cacciarono il Duca di Atene (1343).
L’iconografia sacra diventa così veicolo e bandiera di un’esaltazione civile tutta profana, ma legittimata da una sorta di sovradimensione religiosa che a ogni tappa delle glorie di Firenze imprime il timbro della volontà divina. E quando Andrea Orcagna dipinge a fresco, nel vestibolo del carcere delle Stinche non lontano dal Bargello, un’articolata Cacciata del Duca di Atene (1344-45), la vicinanza dell’evento non fa che accrescere la pregnanza della rappresentazione. Inquadrato (sembra) da una cornice astrologica oggi quasi interamente perduta, il tondo mostra al centro una gigantesca sant’Anna in trono, sullo sfondo di una cortina riccamente decorata con le principali insegne della città. Con la destra, la santa consegna le bandiere alle milizie comunali, con la sinistra stende la mano a proteggere Palazzo Vecchio, mentre giace nella polvere il vessillo del Duca scacciato, che fugge in un angolo avvinghiandosi a una sorta di Gerione dantesco, barbuto e alato (una personificazione di difficile interpretazione), mentre lì presso si erge il trono vuoto della Giustizia. L’affresco, oggi frammentario, era corredato di iscrizioni che celebravano la cacciata dell’«aspro tiranno», «siché la libertà non vi sia tolta». Parole e immagini cospirano a comporre un unico discorso: in questo affresco come in altre rappresentazioni, ma anche nella fittissima trama di parole e di figure che si dispiegava per tutta la città.
Questa potente rete di immagini, che avvolgeva e condizionava la vita civile orientandone i valori e le azioni, si è dissolta e frammentata nel tempo. Perciò questa mostra ha natura archeologica, poiché ricompone un orizzonte che il tempo ha sconnesso. Ma ha, soprattutto, un forte carattere civile, perché ci ricorda che Firenze, come ogni altra nostra città, non sarebbe mai stata quel che fu, se quel sistema di pensieri e di discorsi pubblici non ne avesse informato ogni angolo e ogni istante. Uno straordinario richiamo al significato primario dell’arte come funzione della cittadinanza. Un richiamo che emerge da questa mostra, e che dovrebbe quanto meno frenare la cieca corsa verso la monetizzazione dei beni culturali che (anche a Firenze) ci offende e ci avvilisce.

LA MOSTRA Dal Giglio al David all’Accademia di Firenze fino all’8 dicembre

il Fatto 24.6.13
La parole da salvare
Follia, sorella sfortunata della poesia
Quel confine che ci passa accanto
di Eugenio Borgna


La follia fa parte della vita malata, ma anche di quella normale. É la sorella sfortunata della poesia. Se incontriamo persone disturbate psichicamente, parliamo con la leggerezza e la delicatezza che risuonano nella follia.

Le parole sono creature viventi, come diceva splendidamente Hugo von Hofmannsthal, il grande scrittore austriaco, e fra di esse ce ne sono alcune che hanno una radicale ed emblematica pregnanza tematica: non sempre riconosciuta nei suoi profondi significati. Cosa dire di una parola così rimossa, e così emarginata, e nondimeno così intessuta di umanità e di gentilezza, come è quella di follia? Cosa si pensa quando si abbia la occasione di leggerla, o di sentirla nominare, nei giornali e nei libri? Nonostante i cambiamenti radicali, ai quali la psichiatria italiana è giunta con una legge di riforma di gran lunga la più umana di quelle europee, si continua a rivivere la follia come una forma di vita sigillata dalla incoerenza e dalla anarchia dei pensieri e dei sentimenti, dalla insensatezza e, cosa ancora più frequente, dalla violenza. Questa è stata nel corso di due secoli la concezione dominante della follia, ancora oggi non certo scomparsa.
SFIDANDO L’IMPOSSIBILE , negli anni Sessanta, sono entrato come medico nell’ospedale psichiatrico di Novara, lasciando la Clinica delle malattie nervose e mentali della Università di Milano, allora la più famosa in Italia, nella quale ci si occupava delle malattie neurologiche, e si guardava con sospetto, e con noncuranza, alle malattie psichiche, alla follia che si preferiva chiamare - cambiano le parole e cambia il mondo, come diceva Ludwig Wittgenstein - pazzia: una parola da cancellare che continua ad essere crudelmente diffusa. Quando così sono entrato la prima volta al di là delle mura dell’ospedale psichiatrico, che a Novara, come dovunque, separavano il mondo della follia dal mondo della (apparente) normalità, e mi sono inoltrato lungo i corridoi e le stanze dell’ospedale, sono stato subito colpito dalla fragilità e dalla gentilezza, dalla timidezza e dalla sensibilità, delle pazienti che ne erano ospitate. Certo, il destino ha voluto che lavorassi nei reparti femminili dell’ospedale psichiatrico, e la follia femminile ha elementi tematici più creativi che non quella maschile; ma, in ogni caso, nell’una e nell’altra non si constatava nulla di quello che così falsamente allora, ma ancora oggi in molti luoghi, si attribuiva alla follia sia nei comportamenti sia nelle emozioni. Ma cosa rinasceva dai volti e dagli sguardi, prima ancora che non dalle parole, talora dimenticate a causa della solitudine nella quale si viveva in ospedale psichiatrico, delle pazienti? L’infinito desiderio di essere accolte nel loro dolore e nella loro angoscia, di essere guardate con gentilezza e con partecipazione, e di ascoltare parole che venissero dal cuore (come diceva Nietzsche: i grandi pensieri vengono dal cuore, e non dalla testa), e che si aprissero alla speranza. Come è facile ferire chi sta male psichicamente con parole aride e glaciali, indifferenti e aggressive, che accrescono il dolore e la disperazione, e come c’è bisogno di parole, come questa di follia, che ne rispettino la dignità. La follia fa parte della vita malata, sì, ma anche di quella normale, e, come diceva Clemens Brentano, il grande poeta romantico tedesco, la follia è la sorella sfortunata della poesia. Se la vita ci fa incontrare con persone disturbate psichicamente, e che oggi non conoscono più la solitudine dell’ospedale psichiatrico, dovremmo ricordarci di dire parole che non offendano, e non facciano del male, e che abbiano la leggerezza e la delicatezza che risuonano nella follia. Questo è il messaggio che la psichiatria, quando sia ascolto dell’indicibile e dell’inesprimibile che sono nella follia, potrebbe augurarsi di inviare in questo bellissimo dibattito sulla parola da salvare.

*Eugenio Borgna già direttore dell’ospedale psichiatrico di Novara è ora primario (emerito) dell’ospedale Maggiore di Novara. I suoi ultimi libri: “La solitudine dell’anima” e “Di armonia risuona e di follia” (2012), editi da Feltrinelli.

il Fatto 24.6.13
Se all’analisi di Veltroni manca Berlusconi
di Furio Colombo


C’è differenza fra un libro serio, pensoso e intelligente sul dramma dell’Italia di oggi e la mappa che indica dove, come uscire dalla crisi. C’è differenza fra una meditazione e un “che fare”. Walter Veltroni, in questo suo E se noi domani, L'Italia e la Sinistra che vorrei (Rizzoli) si ferma a riflettere in una meditazione in pubblico ricca di dati, fatti, notizie, ricordi, preannunci, desideri, attese. Ma una meditazione non è un programma. È vero che l'autore non promette mai ciò che non può mantenere. È vero che fin dall’inizio non gioca con abilità (il tipico gioco della politica) e non esibisce carte che non vuole usare.
Il libro è onesto, è in parte (sia pure in modo implicito) un diario. C’è in ogni pagina un desiderio sincero di “uscire a riveder le stelle” (cito più Benigni che Dante). È anche vero che, fatalmente, i lettori, nonostante la lealtà dell’autore e la chiarezza del libro, aspettano fatalmente la risposta alla domanda: come mi salvo? E chi mi salva?
PROVO A DIRE che cosa c’è e che cosa manca (manca, naturalmente, in una attesa che non ha niente a che fare con il progetto dell’autore e che però non può essere cancellata) in questo libro di Veltroni. C’è una buona analisi del precipitare nella crisi, non solo, non tanto numeri, quanto constatazioni e confronti, un inedito modo di narrare in modo letterario una crisi che viene rappresentata sempre e solo con cifre. C’è una sosta sulla parola e sul concetto di sinistra. Troppa o troppo poca? Compare, più o meno al centro, la parola “riformismo” come il luogo e la pietra magica del cambiamento dal peggio al meglio. C’è una sosta sul sistema elettorale che non appartiene a questa “meditazione” perchè o si entra nel labirinto tecnico del bene e del male che c’è in ciascuna proposta o si è costretti a sostare in una zona di buon auspicio. Veltroni qui si accosta al semipresidenzialismo. Sono le uniche pagine che mi sembrano appartenere a un altro libro.
QUI INVECE CI SONO tre parole, responsabilità, comunità, opportunità che possono aprire un discorso interessante, ma con chi? Neppure il senso di preoccupazione e di affetto che passa nelle pagine di questo libro diminuisce la solitudine, che resta la sindrome prevalente di questa crisi. Ma il problema più grave a me sembra il non avere affrontato la clamorosa deformazione di tutto imposta all’Italia dalla lunga e pesante egemonia di Berlusconi. Il conflitto di interesse e la potenza illegale si rovesciano da 20 anni su tutto e cambiano e peggiorano ogni scena, in ogni campo. Vorrei chiedere a Veltroni di non continuare a pensare che il berlusconismo sia nella testa di chi lo denuncia. Il Berlusconismo è Berlusconi. E il Paese ne sta morendo.

La Stampa 24.6.13
A lezione di Ignoranza
Un corso sorprendente ma serissimo alla Columbia di New York
Lo tiene un professore di neuroscienze
Il progresso della scienza avviene tanto più rapidamente quanto più gli scienziati sono consci della loro ignoranza
Ma non basta sapere di non sapere. Bisogna sapere che può esserci qualcosa che ignoriamo di ignorare
di Piero Bianucci


Sapevate che alla Columbia University di New York c’è un corso di Ignoranza? Lo tiene Stuart Firestein, che è anche professore di neuroscienze e direttore del Dipartimento di biologia.
Immaginare come funzioni un corso di Ignoranza porta a paradossi curiosi. L’esame misura quanto si sa sull’ignoranza o quanto si ignora? Per gli studenti è meglio prendere 18 o 30 e lode? Ancora: con quali criteri si organizza un concorso alla cattedra di Ignoranza? Come si forma la commissione? Con docenti di quali discipline? I suoi componenti dovranno essere di chiara fama o precari sfigati? I candidati presenteranno una lista di pubblicazioni scadenti? Vincerà la cattedra chi ha il curriculum peggiore?
Messa così non sembra una cosa seria. Invece lo è. Possiamo immaginare la conoscenza come un’isola che cresce in mezzo a un oceano che rappresenta l’ignoranza. All’inizio la scienza era un atollo piccolissimo, oggi è una grande isola divisa in varie regioni: fisica, chimica, biologia, informatica e così via. E si allarga sempre più rapidamente. Ma attenzione: con la stessa velocità si allunga la sua linea di costa. Cioè il confine con l’oceano dell’ignoranza. Dunque, osserva Firestein, il prodotto finale della conoscenza è l’ignoranza. Però, aggiunge, una «ignoranza informata», che si configura come nuove domande, che a loro volta produrranno risposte, cioè conoscenza, e quindi altra ignoranza.
Fin qui è tutto abbastanza normale. Socrate insegnò che la vera conoscenza è sapere di non sapere e il cardinale Nicola Cusano (1401-1464) parlava di «dotta ignoranza», intendendo che si può conoscere l’ignoto solo mettendolo in relazione con ciò che già si conosce, ma perché ciò avvenga, occorre avere qualche vaga conoscenza dell’ignoto; solo Dio possiede una conoscenza infinita.
È tuttavia necessario un passo ulteriore, e Stuart Firestein lo fa: al di là dell’ignoranza che sappiamo di avere perché è il confine con il conosciuto (la linea di costa dell’isola), bisogna sapere che può esistere qualcosa che ignoriamo di ignorare. È un po’ come se, dalla costa dell’isola, vedessimo soltanto oceano e oceano e oceano: ciò non significa che oltre l’orizzonte non ci siano altri continenti, cioè l’ignoto immerso nell’ignorato. Questa, se volete, è una «dotta ignoranza» di secondo livello. Una meta-ignoranza o, da un altro punto di vista, una meta-conoscenza.
Stuart Firestein, da buon americano, non si avventura in ragionamenti così sottili, tipici della nostra filosofia europea. Però coglie il centro del bersaglio: la scienza progredisce tanto più rapidamente quanto più gli scienziati prendono consapevolezza della loro ignoranza e – ancora meglio – del fatto che esiste una ignoranza che ignorano.
Oggi quasi tutti i ricercatori lavorano chiusi dentro le soffocanti pareti della specializzazione. Firestein ricorda che nel 2002 «sono stati archiviati nel mondo cinque esabyte di informazioni, cioè quanto basta a riempire la Biblioteca del Congresso Usa trentasettemila volte». Ma dal 2002 «questo dato è cresciuto di un milione di volte». Nessuno potrà mai dominare una tale massa di informazioni neppure nell’ambito della propria disciplina. Figuriamoci che cosa potrà sapere delle discipline altrui. Eppure le cose più interessanti (le scoperte) si fanno sulla frontiere tra scienze diverse. Una dotta ignoranza dovrebbe portare a questa consapevolezza. Se poi si vuole davvero scoprire qualcosa di rivoluzionario, serve la meta-ignoranza: sapere che può esserci qualcosa che ignoriamo di ignorare.
Ecco perché, nel suo corso alla Columbia University, Firestein invita colleghi fisici, biologi, chimici, matematici, e chiede loro di tenere una lezione su ciò che non sanno. Non contento, ha scritto un libro - Viva l’ignoranza!, ora tradotto per Bollati Boringhieri (pp. 156 pagine, € 14) - dove ha raccolto il suo messaggio e una serie di «case history». Tra le «case history» c’è anche la sua. Incominciò a lavorare come aiuto direttore di scena di una compagnia teatrale e fece carriera fino a diventare regista. A quel punto, senza abbandonare il palcoscenico, si laureò in etologia alla San Francisco State University. Dopo aver indagato sul ruolo dell’olfatto negli animali, poiché il senso dell’odorato è costituito da terminazioni nervose, passò allo studio del cervello, l’organo più misterioso. Un percorso dall’ignoranza totale all’ignoranza che sa di ignorare e sa che potrebbe non sapere di non sapere.
Non vorrei però che qualcuno, scoprendo i paradossi di Firestein, giungesse alla conclusione che la scienza sa poco o niente e finisse con lo svalutarla, come tanti oggi tendono a fare. Se così fosse, il rimedio c’è. È il libro di Gilberto Corbellini Scienza (Bollati Boringhieri, pp. 156, € 9): qui troverete risposta a tutte le critiche che una cultura ignorante della propria ignoranza muove alla conoscenza scientifica. Tipo: la scienza è riduzionista e quindi inadeguata a spiegare la complessità del reale, gli scienziati non vanno d’accordo neppure tra loro, la scienza è un’organizzazione di potere, la scienza non genera valori e quindi è sottoposta all’etica, la scienza annulla la soggettività e quindi è sorda ai valori umanistici.... E se fosse vero proprio il contrario?

Corriere 24.6.13
Il lato paterno di Gramsci
di Arturo Colombo


Pochi conoscono il Gramsci «privato»: ecco un motivo in più per leggere le lettere raccolte nel piccolo, singolare libro Come va il tuo cervellino? (L'orma, pp. 64, € 5), dove fin dal 1924 confessa alla moglie Giulia di aver «preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari», e più tardi, dal carcere, nel 1931 confida al fratello Carlo: «Ho l'impressione che le generazioni anziane hanno rinunziato a educare le generazioni giovani». Nel 1929 insiste con il figlio Delio (di appena 5 anni): «Voglio sapere un mucchio di cose». Il riferimento al «cervellino» e alle «molte forze ivi latenti» riguarda l'altro figlio, Giuliano (nato nel 1926, che Gramsci non conoscerà mai): «Mi interessa che tu studi bene e con profitto, ma anche che tu sia forte e robusto e moralmente pieno di coraggio e di risolutezza, che tu riposi bene e mangi con appetito, ecc.», perché «tutto è collegato e intessuto strettamente; se un elemento viene a mancare o fa difetto, l'intero si spappola».

Corriere 24.6.13
Super Luna in tutto il mondo

Illuminati dal passaggio nel punto più vicino alla Terra

Appuntamento con la «super Luna» ieri in tutto il mondo (sopra, foto Liverani). Il satellite della Terra si è trovato ieri nel suo punto più vicino al nostro pianeta — sulla sua orbita ellittica (perigeo) —, raggiungendo la distanza minima di 357 mila chilometri. La differenza tra la super Luna ed una normale Luna in realtà lo si è potuto ammirare soltanto con l'aiuto di un telescopio. Oppure con una macchina fotografica. Nel nostro Paese ieri il momento di massima grandezza del satellite è stato osservato verso le 13.32. Il fenomeno si ripete a intervalli di circa quattordici mesi. Il prossimo appuntamento con la super Luna è già fissato per il 10 agosto 2014, con una brillantissima Luna piena che ruberà la scena alle stelle cadenti. La distanza tra i due corpi celesti cambia ogni mese e va da un minimo di 357 mila chilometri e un massimo di 406 mila, dato che l'orbita compiuta intorno alla Terra ha una forma ellittica.

Corriere 24.6.13
«La musica del suk romano conquista i teatri d’Europa»
L’Orchestra di Piazza Vittorio rilegge Mozart e Bizet
di Sandra Cesarale


ROMA — L’Orchestra di Piazza Vittorio ci riprova. Dopo aver riletto Il flauto magico di Mozart (portato in tour in tutta Europa negli ultimi quattro anni) l’ensemble multietnico, guidato dall’ex Avion Travel Mario Tronco, ha preso in mano la Carmen» di Bizet. E l’ha stravolta. «Raccontiamo una storia diversa dal libretto originale, non nella trama, ma nella psicologia dei personaggi», dice il direttore dell’Orchestra che raccoglie musicisti da tutto il mondo, anche dall’Italia.
Lo spettacolo — nato in collaborazione con il Teatro dell’Opera di Saint-Étienne — ha debuttato ieri in prima mondiale in Francia, al Festival Nuits de Fourvière di Lione. Si replica fino a mercoledì 26. «Cose da pazzi, noi coprodotti da un ente lirico», dice ancora incredulo Tronco che ha fondato l’Opv undici anni fa con il regista Agostino Ferrente per salvare uno storico cinema del quartiere romano dell’Esquilino, caotico come un suk, dove gli italiani sembrano essere una minoranza.
Carmen ha il viso di Cristina Zavalloni, voce italiana dal cuore jazz. Don José, invece, è interpretato dal diciannovenne indiano Sanjay Khan. «Siamo abituati all’idea di un Don José perdente, che ha avuto problemi con il gioco e la vita, si arruola nell’esercito e cambia città — spiega Tronco — Carmen incarna la sensualità sfacciata, la bellezza priva di scrupoli. Vogliamo mostrare gli altri volti di queste persone. La nostra Carmen non è una donna senza cuore, non è una mangiatrice di uomini. Si innamora di Don José e cerca di salvarlo, allontanandolo da sé. La nostra è la storia d’amore fra un ragazzo giovane e una donna fatale, ma descrive anche la generosità in amore delle donne e l’egoismo, il senso di possesso degli uomini». Perché anche la Carmen dell’Orchestra finisce con l’omicidio della sfacciata sigaraia per mano del suo adorato José. «Sembra una vicenda anacronistica — osserva Tronco — e poi ti accorgi che è cronaca moderna, che il rapporto fra uomo e donna non è cambiato come dovrebbe. E che, sì, è una storia malata, come ogni amore che finisce in tragedia. Carmen è contemporanea, una tragedia che quotidianamente si ripete nel mondo».
Sul palco, una carovana di zingari «che dal Rajasthan arrivano in Europa, un viaggio che i gitani hanno fatto mille anni fa». Appeso in cielo, a quattro metri d’altezza, il coro. «Sgomento, guarda dall’alto quello che succede sulla terra, interviene. È un ensemble improbabile, dove si litiga e si canta anche in un linguaggio inventato».
L’elaborazione musicale, firmata da Tronco e Leandro Piccioni, contamina classica e folk. «Quando siamo entrati in teatro per le prove con le ballerine indiane e rumene, i tamburi e i cimbalom la gente ci guardava curiosa. E durante le prove c’era sempre un piccola folla in platea, la sala non era mai vuota».
L’Orchestra ha girato tutto il mondo. In America, nel 2007 (un anno dopo l’uscita del famoso documentario sulla nascita del gruppo), ha sedotto anche il Tribeca Festival di Robert De Niro. Adesso aprirà il 25 luglio il Womad Festival fondato da Peter Gabriel in Inghilterra riproponendo la sua rilettura moderna del «Flauto Magico» di Mozart, dove Papageno non canta in tedesco, ma in dialetto senegalese. «Gli organizzatori avevano già chiuso il cartellone — dice Tronco —, l’hanno riaperto apposta per noi. Incredibile. È vero, non riusciamo a scrollarci di dosso Il Flauto, ma per noi è una benedizione».
In Italia, invece, potrebbe arrivare la «Carmen», forse a Roma, ma non v’è certezza. «Mi rattrista che finora nessun ente lirico italiano abbia deciso di produrci o di ospitarci nel suo cartellone. Eppure a qualche porta abbiamo bussato. Però poi guardo avanti e penso che la vocazione dell’Orchestra è internazionale, per i musicisti stessi che la compongono». Tornano ancora nella caotica piazza Vittorio? «Per noi è un luogo sempre più simbolico che reale. Quando guardo indietro mi chiedo: “Come siamo finiti così lontano? ”»