martedì 25 giugno 2013

il Fatto 25.6.13
Una buona giornata per la Costituzione
di Antonio Padellaro


È stata la giornata di Berlusconi condannato a sette anni per due reati infamanti. È stata la giornata delle dimissioni della ministra Idem, colpevole di comportamenti infinitamente meno gravi e però convinta dal premier Letta a lasciare, perché le regole sono uguali per tutti e soprattutto per chi siede al governo. È stata la giornata dei vespri siciliani, con il candidato di 5Stelle che stravince a Ragusa e il paladino della lotta contro il Ponte che batte a Messina l’uomo dei poteri forti targato Pd. Una brutta giornata per le larghe intese e per l’idea che basti un sinedrio di opportunisti e traditori del voto popolare per governare l’ingovernabile. E cioè le teste dei tanti che in questo travagliato Paese non si fanno mettere in riga da presunte ragioni di Stato e da alti moniti più o meno squillanti. È stata una buona giornata per la Costituzione della Repubblica, quella che all’articolo 101 dice che la giustizia è amministrata in nome del popolo e che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Facile a dirsi, ma nella realtà dei fatti significa scontrarsi con i reparti corazzati del Caimano, sfidare l’informazione padronale pronta a vendere qualsiasi balla utile al capo, subire le tragicomiche sceneggiate di amazzoni provviste più di botulino che di amor proprio. Andranno ricordati i nomi dei giudici della IV sezione del Tribunale di Milano, Turri, D’Elia e De Cristofaro e quello del pm Boccassini: quattro donne che facendo il proprio dovere hanno riscattato le altre donne e gli altri uomini, funzionari di palazzo in carriera, accusati di falsa testimonianza a favore della nipote di Mubarak e del suo mentore. Quello che le carriere poteva farle e disfarle con un semplice schiocco delle dita.
È stata una buona giornata anche per la politica irregolare, quella che non si fa ingabbiare negli inciuci e si rivolge ai residui elettori non ancora fuggiti verso l’astensione. Chi aveva dato per morto anzitempo il movimento di Grillo dovrà ricredersi dopo il voto di Ragusa. Che certo non cancella il crollo complessivo del M5S nelle amministrative e le contraddizioni di un gruppo parlamentare diviso e che fa registrare la fuoriuscita di un altro deputato, Zaccagnini, a disagio per il clima interno “di caccia alle streghe”. Però il voto siciliano dimostra che, per quanti errori i vertici grillini possano commettere, gli elettori ci sono ancora. Basta dare loro candidature credibili e una linea politica chiara. Da oggi il governo Letta e tutto ciò che ne consegue rappresenta l’ultimo salvagente a cui può aggrapparsi il concussore e utilizzatore finale di minorenni. Per l’unica opposizione che resta, si aprono praterie.

La Stampa 25.6.13
Le ragioni di una sentenza pesante
di Calo Federico Grosso


Con la sentenza Ruby i nodi, per Berlusconi, vengono finalmente al pettine. E il Presidente, dopo una prima condanna aquattroannidireclusione confermata in appello, è stato ieri condannato a sette anni dalla IV sezione del Tribunale di Milano.
Sentenza giusta? Sentenza ingiusta? Non mi si chieda, su tale profilo, una valutazione. Non avendo studiato gli atti del processo, ma avendo soltanto letto le cronache giornalistiche, non sono in grado di formulare un giudizio che vada aldilà dell’impressione personale. E sulle impressioni personali non è consentito esprimere giudizi o valutazioni. Non sarebbe serio.
Piuttosto, mi sembra utile commentare, in punto di diritto, il ragionamento che, stando al dispositivo letto in aula ieri pomeriggio, devono avere fatto i giudici per giungere alla pesante condanna pronunciata.
Nel dispositivo i giudici hanno innanzitutto scritto di ritenere «Berlusconi responsabile dei reati a lui ascritti»; qualificato quindi «il fatto di cui al capo “a” dell’imputazione come concussione per costrizione» (dando quindi al fatto «una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione», come consentito dalla legge), e «ritenuta la continuazione», lo hanno condannato «alla pena di anni sette di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali». Hanno infine soggiunto che «visti gli artt. 317 bis sulle pene accessorie, 29 e 32 del c. p. (rispettivamente in tema di interdizione dai pubblici uffici e di interdizione legale) », si dichiara l’imputato «interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, nonché in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena».
Entrambi i profili così enunciati meritano una spiegazione tecnica.
Berlusconi era imputato di due reati: del delitto di concussione previsto dall’art. 317 c. p. per avere telefonato in Questura da Parigi la sera del fermo di Ruby pretendendo il suo rilascio (avvenuto secondo le modalità ormai ampiamente note), del delitto di prostituzione minorile nella forma meno grave prevista nel comma 2 dell’art. 600 bis c. p. («atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o altra utilità»).
Il Tribunale ha giudicato il Presidente responsabile di entrambi i reati. Con riferimento alla concussione è interessante rilevare che il collegio ha ritenuto di dovere specificare di avere assegnato al fatto una definizione giuridica diversa da quella originaria, qualificandolo come «concussione per costrizione». Questa precisazione è conseguenza della circostanza che, nelle more del processo, la disciplina del delitto di concussione (oggetto dell’imputazione originaria) è cambiata, in quanto la riforma Severino della corruzione ha«spacchettato» tale delitto in due diversi reati: la «concussione per costrizione», mantenuta nell’art 317 c. p. con pena invariata, e la «induzione a dare o promettere» (sostitutiva della originaria «concussione per induzione»), spostata in un articolo autonomo e considerata reato meno grave assimilabile alla corruzione piuttosto che alla concussione (tanto che è stata prevista anche la punibilitàdel soggetto «indotto»).
Il Tribunale avrebbe, a questo punto, potuto qualificare il fatto come concussione per costrizione, ovvero secondo la nuova, meno grave, configurazione di «induzione a dare o promettere». L’avere optato per la prima configurazione significa, evidentemente, che ha ritenuto che nel comportamento dell’allora Presidente del Consiglio non fosse ravvisabile una mera«induzione», cioè una«spinta» più o meno forte della Questura ad agire in conformità ai propri desideri, bensì una pressione più intensa, qualificabile come una, sia pure implicita, minaccia. Il che, sul terreno della ricostruzione del fatto, mi sembra alquanto significativo.
Ma non solo. Nella configurazione giuridica del fatto come concussione per costrizione si ritrova anche la spiegazione della misura della pena concretamente inflitta. La concussione per costrizione continua ad essere punita dal codice penale con la pena della reclusione da quattro a dodici anni. Ebbene, a fronte di una pena edittale così elevata, sette anni di pena concretamente irrogata (che tiene oltre tutto conto anche della pena inflitta per la prostituzione minorile), appare assolutamente ragionevole, in linea con i criteri usualmente utilizzati nel commisurare in concreto la sanzione penale.
Come si è rilevato, il Tribunale ha altresì «ritenuto la continuazione» fra i due reati contestati (ha cioè ritenuto che essi sono stati commessi «in esecuzione di un medesimo disegno criminoso»). Il che, da unpuntodivistapratico, significache, anziché sommare materialmente le pene previste per i due reati, il giudice ha determinato la pena per il reato più grave (la concussione), aumentandola di una mera percentuale in ragione del secondo reato. A rigore, un vantaggio per il condannato.
Quanto, infine, all’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’interdizione legale, vi è poco da discutere: si tratta di conseguenze che seguono ex lege alla condanna pronunciata: l’art. 317 bis c. p. dispone infatti che la condanna per il reato di cui all’art 317 c. p. comporta automaticamente l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (e l’art. 29 c. p. soggiunge che essa segue comunque di diritto ad ogni condanna non inferiore a cinque anni) ; l’art. 32 c. p. prevede a sua volta l’interdizione legale a chi è stato condannato per un tempo non inferiore a cinque anni.

La Stampa 25.6.13
Enrico Letta va dal Papa
Il premier italiano sarà ricevuto in udienza nella prima settimana di luglio
di Andrea Tornielli


Mancano da definire ancora alcuni dettagli tecnici, ma la decisione è presa da tempo. Il presidente del Consiglio Enrico Letta sarà ricevuto da Papa Francesco nei prossimi giorni, entro la prima settimana di luglio. Secondo quanto apprende «Vatican Insider» non si tratterà di una visita ufficiale, come quella del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che prevedeva dunque la delegazione allargata e tutto il cerimoniale dei capi di Stato. Sarà, invece, una visita di cortesia, un'udienza che dovrebbe preludere, verso la fine di quest'anno o agli inizi del prossimo, anche a una visita ufficiale.
L'incontro tra il Pontefice argentino e il premier italiano avviene in un momento in cui le relazioni tra Italia e Vaticano sono buone e il clima appare disteso. Non è ancora escluso che Francesco possa ricevere Letta a Santa Marta, come ha già fatto in varie occasioni con altri capi di governo di vari Paesi, anche se rimane più probabile l'incontro nel palazzo apostolico. Il premier italiano, dopo Bergoglio, incontrerà il Segretario di Stato Tarcisio Bertone e i suoi collaboratori.

il Fatto 25.6.13
I giudici
Per B. niente da fare dinanzi al poker di donne
di g.b. e a.masc.


Donne. Sono l'ossessione di Berlusconi. Quelle che animavano le sue serate ad Arcore. E quelle che hanno costruito il processo (Ilda Boccassini) e ieri lo hanno condannato (Giulia Turri, Carmen D'Elia e Orsola De Cristofaro). “Eroine” per una parte del Paese, “toghe rosse persecutrici” per un'altra parte. La presidente della quarta sezione penale del Tribunale di Milano, Giulia Turri, in passato è stata giudice delle indagini preliminari a Milano. Nel 2006, con il rito abbreviato, ha condannato all'ergastolo e a 30 anni due degli imputati per il rapimento e l'omicidio del finanziere Gian Mario Roveraro. Nel marzo 2007 ha firmato l'ordinanza d'arresto per Fabrizio Corona, accusato di organizzare fotoricatti ai vip. Nel novembre 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti da gip finito sulla stampa è del luglio 2010: ha emesso cinque ordinanze di custodia cautelare per l'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle “Papi girl” che partecipavano alle feste di Arcore.
Il giudice a latere Carmen D'Elia ha già processato Silvio Berlusconi, insieme ad altri imputati, per la vicenda Sme. Ma non ha emesso il verdetto, perché la posizione di Berlusconi è stata stralciata e poi giudicata da altri giudici. Il 22 novembre 2003, per Sme, insieme alla presidente Lui-sa Ponti e al giudice a latere Guido Brambilla, ha condannato Cesare Previti a 5 anni di carcere. Nei mesi scorsi è stata giudice a latere al processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano per cui sono state condannate alcune banche.
Orsola De Cristofaro, ex pm ed ex gip, insieme a D'Elia è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a 15 anni e mezzo di carcere per il medico Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica alla clinica Santa Rita di Milano, imputato con altri colleghi per lo scandalo degli interventi superflui con danni irreversibili per i pazienti.
Ieri il processo Ruby ha regalato un colpo di scena. In aula non si è presentata il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, che il 13 maggio aveva concluso la sua requisitoria chiedendo per Berlusconi 6 anni di carcere e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, dopo essere stata fermata per tre udienze dai difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo con vari “legittimi impedimenti”. A rappresentare l'accusa arriva, con indosso la toga, il procuratore della Repubblica in persona, Edmondo Bruti Liberati, che si siede accanto al pubblico ministero Antonio Sangermano, che ha condotto tutta l'indagine e poi gestito, insieme a Boccassini, tutto il dibattimento. Scatta il “giallo” dell'assenza di quella che è stata dipinta come il grande nemico dell'ex presidente del Consiglio. “Nessun mistero”, spiega Bruti: la magistrata è in ferie. Queste vacanze di una decina di giorni erano programmate da tempo e Ilda non ha voluto cambiare i piani. Anche perché, fa capire il procuratore, il processo non è una guerra personale tra la pm dai capelli rossi e l'ex presidente del Consiglio, ma un servizio alla giustizia che “non deve essere personalizzato”: l'accusa è sostenuta dall'impersonale ufficio del pubblico ministero. La presenza in aula del procuratore (“Assurda”, secondo alcuni esponenti del Pdl) è legittimata dal suo ruolo di capo dell'ufficio della pubblica accusa, anche perché l'inchiesta è stata sottoscritta da tutto l'ufficio. Infatti Bruti era presente anche all'apertura del dibattimento, il 6 aprile 2011. In abiti “civili” perché con la toga c'erano già Sangermano e Boccassini.

il Fatto 25.6.13
Lo Stato i politici le ospiti delle cene eleganti
Avranno mica detto bugie?
I giudici non credono nemmeno al viceministro degli Esteri, Bruno Archi
Ora trenta testi possono essere incriminati per falsa testimonianza
di Antonella Mascali


Milano Rischiano un processo per falsa testimonianza a favore di Silvio Berlusconi alcuni membri di governo e parlamentari, oltre che diverse arcorine e ospiti delle serate del bunga-bunga ad Arcore. Ieri, infatti, il tribunale di Milano ha rinviato gli atti alla procura di 30 testimoni, compresi il viceministro agli esteri Bruno Archi, la deputata del Pdl Maria Rosaria Rossi, l'europarlamentare del Pdl Licia Ronzulli, l'ex parlamentare del Pdl e attuale consigliere per la politica estera di Berlusconi Valentino Valentini. Il tribunale propone l'indagine anche per la funzionaria di polizia Giorgia Iafrate che la sera del 27 maggio 2010 mandò a casa di una prostitutta, Michelle Coincecao, la minorenne Ruby, formalmente affidata alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti. Una scelta rivendicata in aula, quando Iafrate alzò la voce in risposta alle domande di Ilda Boccassini. La scelta del tribunale fa pensare (anche se bisogna aspettare le motivazioni) che le giudici abbiano pienamente creduto alla pm dei minori Annamaria Fiorillo. Chiamata a testimoniare, aveva confermato di aver disposto per Ruby o la comunità per minori o il fermo in questura. Per aver dichiarato questo in televisione, quando l'allora ministro Roberto Maroni disse in Parlamento (supportato da un comunicato di Bruti Liberati) che la questura aveva fatto il proprio dovere, è stata condanna dalla sezione disciplinare del Csm. Tra i possibili falsi testimoni, anche l'ex direttore del Tg1 e del Tg5 Carlo Rossella e Giorgio Puricelli, ex consigliere regionale in Lombardia del Pdl e fisioterapista del Milan. Ci sono pure i musicisti Mariano Apicella e Danilo Mariano che, in pieno processo, hanno venduto le loro case, a un ottimo prezzo, a un'agenzia immobiliare legata a Berlusconi. L'elenco dei possibili imputati di un possibile “Ruby 3” comprende anche diverse “Papi girl”. Alcune di loro continuano a beneficiare di uno stipendio al di sopra della media per un italiano, 2.500 euro, o hanno ricevuto bonifici e altri regali: Eleonora e Concetta De Vivo, Marysthell Polanco, Raissa Skorkhina, Roberta Bonasia, Michelle Coincecao, Barbara Faggioli, Lisney Barizonte, Joana Visan, Cinzia Molena, Marianna Ferrara, Manuela Ferrara, Miriam Loddo, Joana Claudia Arminghioali, Francesca Cipriani. Inviate ai pm anche le deposizioni di Antonio Passero, Serena Facchineri, Renato Cerioli, Lorenzo Brunamonti e Simonetta Losi. Ora la palla passa alla procura di Milano che deve valutare se chiedere il rinvio a giudizio per falsa testimonianza di chi è stato indicato dal Tribunale. In astratto, la procura potrebbe anche ravvisare nuovi reati a carico di Silvio Berlusconi: quello di corruzione in atti giudiziari o di subornazione di testimoni.

il Fatto 25.6.13
Michelle: “Ho mentito per paura”
Soltanto cinque ragazze non hanno dichiarato il falso per salvare B.
di Davide Vecchi


Non ho detto la verità perché avevo paura di lui, ho anche ricevuto delle minacce”. Michelle Coincecao è una delle oltre venti ragazze per cui il tribunale di Milano ora valuterà la falsa testimonianza. Lei è la brasiliana a cui viene affidata la marocchina da Nicole Mi-netti la notte del 27 maggio 2010 dopo il fermo in Questura e le insistenze di Silvio Berlusconi. Da mesi in Brasile, la donna ha raccontato più volte la sua difficile convivenza con Karima e i resoconti delle serate ad Arcore cui ha partecipato Ruby e a volte anche lei in prima persona. Inizialmente considerata una testimone chiave, ha perso credibilità dopo aver ritrattato la sua posizione, quando i riscontri investigativi hanno accertato che lei non era presente a Villa San Martino le sere in cui c’era la marocchina. “Su questo io però non ho mai mentito - garantisce - ho magari evitato di dire delle cose per paura di vendette”. Ma, aggiunge commentando la condanna, “se l’è cercato lui... fin quando aveva solo noi che non siamo minorenni tutto era più tranquillo. Spero che Ruby paghi per tutto il male che ha fatto, mi dispiace invece per Minetti”. Poi si dice pronta a “raccontare se servirà qualunque cosa”. Ma ormai è tardi. Falsa testimonianza. Per lei e le altre ragazze.
Ma c’è anche chi si è affacciata nel circo del bunga-bunga e ne è scappata disgustata. Come Melania Tu-mini. “So della sentenza, ma come sempre ho altro cui pensare”, evita di commentare. E gentilmente ringrazia, ma lei, assieme a poche altre ragazze aveva denunciato quello che succedeva ad Arcore: “Un puttanaio”, racconta al telefono al padre e lo ripete ai pm in aula. Tumini era stata reclutata da Nicole Minetti che la chiama per istruirla in vista della serata: “Ti volevo un attimo briffare. Cioè, ne vedi di ogni, la desperation più totale. C’è gente per cui è l’occasione della vita. Ci sono varie tipologie di… persone. C’è la zoccola, c’è la sudamericana che non parla l’italiano e viene dalle favelas, c’è quella un po’ più seria, c’è quella via di mezzo tipo Barbara Faggioli. E poi ci sono io che faccio quel che faccio, capito? ”. Melania va, ma ne rimane scioccata. Come lei si sottraggono al circo del bunga-bunga anche Imane Fadil, Ambra Battilana, Chiara Danese, Ma-ria Makdoum e Natascha Teatino. Le loro testimonianze hanno permesso di ricostruire il quadro di quanto effettivamente accadeva nella villa dell'ex premier, in quelle che il Cavaliere si ostinava a definire “serate innocenti”, “cene eleganti”. Ma di altro, appunto, si trattava. Danese e Battilana sono considerate le testimoni chiave. Raccontano di essere state presentate a Emilio Fede. Insieme si trovano ad Arcore il 22 agosto 2010. Raccontano che erano presenti, fra gli altri, Minetti, Marysthell Polanco, le gemelle De Vivo e Roberta Bonasia. “Le ragazze si dimenavano, ballavano, cantavano 'meno male che Silvio c'è', si facevano baciare i seni dal presidente, lo toccavano nelle parti intime, e poi facevano lo stesso con Fede. Eravamo scioccate, in una situazione più grande di noi. A un certo punto Berlusconi, visibilmente contento, disse 'siete pronte per il bunga-bunga?', e tutte in coro hanno urlato 'Siiii!'”, raccontano le due. Il Cavaliere “si fece portare una statuetta di Priapo e la fece girare tra le ragazze, chiedendo loro di inscenare un giochino erotico”. Disgustate se ne andarono e Fede le rispose: “Se volete andare via, va bene, ma non pensate di fare le meteorine o miss Italia”.

il Fatto 25.6.13
“Cose mai viste all’estero” Il tour del bunga bunga
Il sex-gate italiano è diventato un caso internazionale
Davies (Guardian) “In Gran Bretagna un leader sarebbe finito”


Milano Il bunga bunga di un presidente del Consiglio ha fatto il giro del mondo e ieri tutto il mondo mediatico era a Milano per seguire la sentenza. D’altronde il sex gate italiano è diventato internazionale già a gennaio 2011 quando la procura di Milano ha inviato a Silvio Berlusconi l’avviso a comparire per concussione e prostituzione minorile.
Giornalisti inglesi, americani, francesi, tedeschi, scandinavi, russi, giapponesi, olandesi e belgi si sono catapultati al palazzo di giustizia. Postazioni satellitari televisive lungo Corso di porta Vittoria, di fronte all’ingresso principale e lungo via Manara, uno degli ingressi laterali. Colleghi della radio della Bb-Bc hanno “occupato” anche una vecchia cabina telefonica e giornalisti di altre radio hanno dettato i loro servizi da alcuni bagni del Tribunale per migliorare la qualità del suono.
Nonostante la balla di Berlusconi per far rilasciare Ruby fosse quella sulla “nipote di Mubarak”, non c’erano giornalisti di media arabi. C’era solo Al Jazeera English. Per tutta la stampa estera è inconcepile che Berlusconi sia ancora un leader politico nonostante il suo curriculum giudiziario infinito. Patricia Thomas è l’inviata per la Tv di Associated press: “Se di mezzo c’è una storia di potere e sesso e che riguarda un politico importante e conosciuto come Silvio Berlusconi, l’interesse è alle stelle. La storia è esplosiva. Quando torno negli Usa mi chiedono solo del bunga bunga, di Berlusconi. Gianni Letta o Pierluigi Bersani non hanno idea di chi siano. Letta chi? Ber-sani chi? ”.
L’inviata di una televisione russa ci spiega che l’interesse “è massimo, anche perché Berlusconi è amico del presidente Putin” e, intimorita, dice che “in Russia non potrebbe mai esserci un processo contro un potente come Berlusconi”. Un’inviata della Cnn racconta che i telespettatori “seguono sempre con molto interesse il Ruby gate perché riguarda un ex premier. È’ incredibile che un uomo politico sia ancora in auge nonostante i guai giudiziari”.
ANCHE PER AL JAZEERA
English “è un caso importante, da seguire perché Silvio Berlusconi è molto conosciuto. È’ interesse capire anche le conseguenze politiche del processo”. Il fatto che abbia spacciato Ruby come nipote del presidente egiziano Mubarak “non rappresenta un interesse particolare. Invece, ha importanza l’accusa di abuso di potere (concussione, ndr) ”. Tra gli inviati stranieri c’è Lizzy Davies del Guardian: “Per i lettori inglesi questa storia sordida che coinvolge un ex premier e leader politico è molto interessante. Per noi è incredibile che con accuse del genere Berlusconi possa avere ancora potere. Dopo il Bunga Bunga in Gran Bretagna sarebbe uscito dalla scena politica”. Hedwig Zeedjk è inviata per le televisioni del Belgio e dell’Olanda: “Seguiamo con interesse il Ruby gate. In particolare in Belgio, colpito da scandali sessuali e dove c’è una grande comunità italiana. Vogliamo capire le ripercussioni sul personaggio pubblico e leader politico. La vita privata sregolata di Berlusconi, essendo un politico, viene vista in modo critico”. Udo Gumpel è il corrispondente della televisione tedesca Rtl: “In Germania c’è un interesse enorme per Silvio Berlusconi. Ora tutta la Germania si chiede quando finisce il suo dominio politico. Non voglio nascondere che la politica tedesca, di governo e di opposizione, spera che se ne vada. Ma Il fatto che forse saranno delle sentenze della magistratura a determinare la fine della sua carriera, però, viene valutato come un segno di debolezza della politica italiana”.
a. masc.

La Stampa 25.6.13
Il sipario sull’era del Cavaliere
di Marcello Sorgi


La sentenza con cui il tribunale di Milano ha condannato Berlusconi a sette anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici segna insieme la fine dell’avventura politica del Cavaliere, e più in generale quella della Seconda Repubblica, di cui per altro l’ex-Presidente del consiglio è stato l’uomo simbolo, come Andreotti lo era della Prima. In passato, anche in tempi recenti (si pensi alle elezioni politiche del 24 febbraio), Berlusconi ci ha abituato ad improvvise cadute e a subitanee resurrezioni. Ma stavolta è peggio di tutte le altre, come lui stesso sa o incomincia a capire, anche se ieri ha preferito negarlo nella prima reazione ufficiale.
Vent’anni fa, quando Craxi fu colpito dal primo avviso di garanzia, non tutti scommettevano sul suo declino.
Lo capirono dopo qualche mese, quando il leader socialista era ormai sommerso da una sequela di comunicazioni giudiziarie, e prima degli ordini di cattura scelse la strada dell’esilio. Lo stesso accadde quando Andreotti fu accusato di rapporti con la mafia e c’era chi sorrideva sulla scena inverosimile del bacio con Totò Riina. Al di là dei caratteri, e delle scelte opposte dei due illustri predecessori, sul modo di gestire i propri guai giudiziari, è fin troppo evidente che la magistratura ha riservato a Berlusconi lo stesso destino. La lezione di vent’anni fa ci dice che è inutile far finta di no, o evitare di prendere atto: tanto è così.
Si potrà discutere - anzi si dovrà - sul comportamento dei giudici di Milano che hanno fatto calare la ghigliottina sul collo del Cavaliere. La condanna a una pena superiore a quella chiesta dalla pubblica accusa, la scelta di riconoscere la fattispecie più grave del reato di concussione appena riformato dall’ex ministro Severino (con l’introduzione, va ricordato, anche di una contestata versione più lieve che aveva consentito di recente all’exPresidente della Provincia di Milano, il Pd Penati, di salvarsi), la pena aggiuntiva dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, cioè dalla vita pubblica e parlamentare, oltre alla decisione sorprendente di chiedere alla Procura di incriminare per falsa testimonianza i testi della difesa, sono tutti segnali inequivocabili. Presto, molto presto, come hanno dimostrato i giudici di appello che in soli tre mesi hanno confermato l’altra condanna a quattro anni per i fondi neri Fininvest, anche questo verdetto subirà la stessa sorte. A Berlusconi a quel punto resterà solo la carta della fuga, come qualcuno già ieri sera si spingeva a prevedere, o quella, estrema ancorché più regolare, della Cassazione: ma sarebbe ingenuo illudersi che sentenze così pesanti, ribadite in secondo grado, non influenzino i membri della Suprema Corte, caricando l’imputato di pesanti precedenti che non potranno non condizionare il giudizio definitivo che lo aspetta.
La fine, meglio sarebbe dire l’abbattimento per via giudiziaria, della Seconda Repubblica (già in corso da tempo, va detto, non solo a causa di Berlusconi, ma anche all’ondata generalizzata di corruzione che ha investito le amministrazioni locali) apre un vuoto anche peggiore di quello lasciato dal crollo della Prima. Allora, infatti, l’onda d’urto di Tangentopoli era stata affiancata, per non dire sovrastata, dalla reazione di indignazione, accompagnata anche dal desiderio di rinnovamento, espressi dai referendum elettorali del 1991 e ’93. E dall’introduzione del maggioritario e dei collegi uninominali, che offrivano ai cittadini, non va dimenticato, l’occasione - svanita purtroppo assai presto di poter scegliere direttamente i governi e rinnovare radicalmente i rappresentanti da mandare in Parlamento.
La transizione cominciata in quegli anni doveva purtroppo arenarsi in breve tempo, approdando alla confusione e allo scontro continuo in cui l’Italia si trascina da quasi un ventennio. Così, giorno dopo giorno, siamo arrivati a oggi. Un sistema politico ormai indebolito e incapace di autoriformarsi non ha potuto che soccombere a una magistratura forte; anzi resa più forte, in pratica l’unico potere sopravvissuto alla crisi delle istituzioni, dalla mancanza di riforme.
La caduta di Berlusconi, per quel pezzo del Paese - una metà ridottasi via via a un terzo - che lo aveva seguito come un idolo, affidandogli tutti i propri sogni e i propri timori, cancella di colpo ogni illusione. Il centrosinistra non è più in grado, al momento, di rappresentare l’alternativa, con o senza l’ausilio della dissidenza grillina e di qualche maggioranza raccogliticcia. Il governo delle larghe intese, che doveva favorire la pacificazione, dopo l’inutile e infinita epoca della guerra civile, sopravviverà, in una sorta di sospensione, magari ancora per un po’. Ma senza alcuna agibilità politica e senza la forza necessaria per affrontare la gravità del momento. Saranno in tanti, malgrado tutto, ad aggrapparcisi. Come a una zattera in mezzo alla tempesta.

Repubblica 25.6.13
L’abuso e la dismisura
di Ezio Mauro


UN’ITALIA compiacente e intimidita si chiede che cosa succederà adesso, dopo la sentenza sul caso Ruby del Tribunale di Milano che condanna in primo grado Silvio Berlusconi a sette anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuno si pone la vera domanda: cos’è successo prima, per arrivare ad una sentenza di questo genere? Cos’è accaduto davvero negli ultimi vent’anni in questo sciagurato Paese, nell’ombra di un potere smisurato e fuori da ogni controllo, che concepiva se stesso come onnipotente ed eterno? E com’è potuto accadere, tutto ciò, in mezzo all’Europa e agli anni Duemila?
La condanna sanziona infatti due reati molto gravi — concussione e prostituzione minorile — sulla base del codice penale, dopo un processo di due anni e due mesi, con più di 50 pubbliche udienze. L’accusa ha dunque avuto ragione, vedendo un comportamento criminale nel tentativo di Silvio Berlusconi di sottrarre una minorenne accusata di furto al controllo della Questura, imponendo ai funzionari la sua autorità di presidente del Consiglio, addirittura con l’invenzione di uno scandalo internazionale, perché Ruby era «la nipote diMubarak».
La difesa sostiene che non ci sono vittime per i reati ipotizzati, non ci sono prove e c’è al contrario la criminalizzazione di uno stile di vita e di comportamenti privati (le cosiddette “cene eleganti”), distorti da una visione voyeuristica e moralista che li ha abusivamente trasformati in crimine, fino alla sanzione di un Tribunale prevenuto, anche perché composto da tre donne.
Io credo in realtà che ci sia un metro di giudizio che viene prima della condanna e non ha nulla a che fare con il moralismo. Si basa su due elementi che Giuseppe D’Avanzo quando rivelò questo scandalo richiamò più volte — da solo e ostinatamente — sulle pagine di “Repubblica”. Sono la dismisura e l’abuso di potere. Di questo si tratta, e cioè di due categorie politiche, pubbliche, e impongono un giudizio politico per un leader politico che nel periodo in cui è scoppiato il caso Ruby aveva anche una responsabilità istituzionale di primissimo piano, come capo del governo italiano. «La questione — scriveva D’Avanzo — non ha nulla a che fare con il giudizio morale, bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni», perché tutto ciò «rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili».
La dismisura dunque come cifra dell’eccesso di comando, grado supremo della sovranità carismatica, con il voto che cancella ogni macchia e supera ogni limite, rendendo inutile ogni domanda, qualsiasi dubbio, qualunque dovere di rendiconto. E l’abuso di potere come forma politica di quella sovranità sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Perché nel sistema berlusconiano, dice D’Avanzo, «il potefondo:re statale protegge se stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con l’intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell’Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Nell’infelice Italia invece l’abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica».
Questo è ciò che ci interessa.Il disvelamento clamoroso di comportamenti privati di un uomo politico che imbarazzano le istituzioni e addirittura le espongono al ricatto, e spingono quel leader ad alzare la posta dell’abuso, imprigionandosi ogni volta di più in una rete di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi: fino al momento in cui si avvera la profezia di Veronica Lario sul «ciarpame senza pudore» delle «vergini offerte al Drago», si costruisce un castello di menzogne sui rapporti con la minorenne Noemi, si soffoca nel taglieggiamento incrociato dei profittatori e mezzani Lavitola e Tarantini, e infine si inciampa nel codice penale sul caso Ruby, perché qualcosa di inconfessabile spinge il premier a strappare quella ragazza dalla Questura, affidandola ad una vedette del bunga-bunga spacciata per “consigliere ministeriale”, per scaricarla subito dopo da una prostituta brasiliana.
Si capisce che questo processo milanese, costruito sull’inchiesta di Ilda Boccassini, sia stato vissuto da Berlusconi come la madre di tutte le accuse. L’ex premier nei due anni del dibattimento ha potuto giocare tutte le carte della sua difesa, compreso lo straordinario peso mediatico di un leader politico che ha invocato “legittimi impedimenti” ogni volta che ha potuto spostando ad hoc persino le sedute del Consiglio dei ministri, e ha addirittura imbastito due serate di gran teatro televisivo (una prima della requisitoria, l’altra prima della sentenza) sulle reti di sua proprietà con una sceneggiatura che sembrava anch’essa di sua proprietà, per parlare direttamente alla pubblica opinione sanzionando in anticipo la propria innocenza.
Questo “concerto” aveva da qualche mese una musica di la “pacificazione”, che è il concetto in cui l’egemonia culturale berlusconiana tenta di trasformare la ragione sociale del governo Letta, nato dall’emergenza e dalla necessità, e dunque senza radice e cultura ideologica, com’è naturale per un esecutivo che tiene insieme per un breve periodo gli opposti, cioè destra e sinistra. Questa necessità, e questa urgenza, per il Pdl e per i suoi cantori sono diventate invece qualcosa di diverso, quella “pacificazione” che dovrebbe chiudere i conti con il passato, sacralizzare Berlusconi come punto di riferimento istituzionale del nuovo quadro politico e del nuovo clima, farlo senatore a vita o vertice di un’improvvisata Costituente, in modo da garantirgli un salvacondotto definitivo.
Praticamente, è la proposta di prendere atto che lo scontro tra la legalità delle norme e delle regole e la legittimità berlusconiana derivata dal voto popolare sta sfibrando il sistema senza un esito possibile. Dunque il sistema costituzionalizzi l’anomalia berlusconiana (reati, conflitti d’interesse, leggi ad personam, strapotere economico e mediatico) e la introietti: ne risulterà sfigurato ma infine pacificato — appunto — perché nel nuovo ordine tutto troverà una sua deforme coerenza.
L’egemonia culturale crea senso comune, che in Italia si spaccia per buon senso. E dunque la destra pensava che il “clima” avrebbe prima addomesticato la Consulta, chiamata alla pronuncia definitiva sul legittimo impedimento che avrebbe ucciso il processo Mediaset, dove l’ex premier è già stato condannato a quattro anni. Poi l’“atmosfera” avrebbe dovuto contagiare il Tribunale di Milano, già avvertito fisicamente del cambio di clima dalla manifestazione dei parlamentari Pdl sul suo piazzale e nei corridoi. Infine la “pacificazione” dovrebbe salire le scale della Cassazione, per il giudizio Mediaset, sfiorare il Colle che ieri Brunetta chiamava in causa dopo aver definito la sentenza «atto eversivo», bussare alla porta di Enrico Letta (che ha già detto di no) e soprattutto del Parlamento, visti i tanti vagoni fantasma che aspettano nell’ombra delle stazioni morte il treno del decreto svuota-carceri, pronti ad assaltarlo con il loro carico di misure salva-premier, dalle norme sull’interdizione dai pubblici uffici fino all’amnistia, generosamente suggerita dai montiani. Il disegno berlusconiano prevede colpi di mano emaggioranze estemporanee, col concorso magari di quei parlamentari cannibali del Pd che nel voto segreto hanno già dimostrato di essere buoni a nulla e capaci di tutto.
Da ieri tutto questo è più difficile. La Consulta ha fatto il suo dovere, ricevendo in cambio accuse vergognose. E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo — che è il risultato più importante — assicurando giustizia e uguaglianza del trattamento dei cittadini davanti alla legge nonostante le intimidazioni preventive. Nella sentenza c’è un giudizio di condanna durissimo, per due reati molto gravi, soprattutto per un uomo di Stato che ha rappresentato le istituzioni. Non solo: il Tribunale ha trasmesso gli atti che riguardano 32 testimoni alla Procura, perché valuti se hanno reso falsa testimonianza in dibattimento. Sono ragazze “olgettine”, a libro paga del Cavaliere, amici suoi e stretti collaboratori, funzionari della Questura come Giorgia Iafrate. Con questa decisione, il Tribunale sembra convinto di aver individuato una vera e propria rete di organizzazione della falsa testimonianza di gruppo. Sarà la Procura a valutare se è così e chi è l’organizzatore, mentre è già chiaro che il beneficiario è Berlusconi. L’influenza economica, l’abuso di potere potrebbero arrivare fin qui.
Restano le conseguenze politiche. La più netta, la più chiara, sarebbe il ritiro di Berlusconi dalla politica, come accadrebbe dovunque. Ma in Italia non accadrà. La politica è il vero scudo del Cavaliere. E il governo, con la sua maggioranza di contraddizione, è l’ultimo tavolo dove cercherà di trattare, assicurando qualsiasi cosa (la durata dell’esecutivo fino alla fine della legislatura, la personale rinuncia a candidarsi alla Premiership) in cambio di un aiuto sottobanco. Altrimenti, salterà il banco, e dopo la breve parentesi da statista, il Cavaliere tornerà in piazza, incendiandola. Perché il populismo ha questa concezione dello Stato: o lo si comanda o lo si combatte, nient’altro.

La Stampa 25.6.13
E ora sull’ineleggibilità il M5S sfida un Pd separato dal suo popolo
In Giunta il 9 luglio: non esistono quasi spiragli
di Jacopo Jacoboni


«Berlusconi era ed è ineleggibile», accettarne l’elezione nel 1994 - fu possibile con una «finzione giuridica». L’ineleggibilità del Cavaliere? «Nel suo caso, la prevede il codice». Chi pronunciava queste due frasi, alla festa dell’Unità di Bologna del 2000 e, l’anno dopo, il 5 febbraio del 2001? Non un grillino, non un estremista. Lo diceva Massimo D’Alema.
Naturalmente il tema torna adesso attualissimo, ma dopo taluni cambi di idea D’Alema (e con lui il Pd) pare tornato sulla posizione classica: e cioè che Berlusconi è sempre stato dichiarato eleggibile, fin dal 1994, dunque cambiare idea un’altra volta ancora, dopo vent’anni, sarebbe improbabile persino giuridicamente. La «finzione giuridica» per aggirare la legge del 1957 fu considerare titolare della concessione non il proprietario (Berlusconi) ma il presidente di Fininvest (Confalonieri). Sylos Labini commentò: «Un miserabile cavillo».
La sentenza sul caso Ruby non c’entra, ma politicamente rende ancora più grave l’imbarazzo dei dirigenti del Pd davanti alla sofferenza di tantissimi militanti che assolutamente non volevano l’alleanza col Cavaliere, e a maggior ragione la patiscono adesso - vedendosi alleati con un condannato per concussione, esercitata quand’era premier. «Per noi è un disastro se ora il Movimento cinque stelle inizia una battaglia su questo, ma non farmelo dire in pubblico», sussurra il segretario di un’importante sezione romana. E il M5S, ovviamente, già lo chiede. Dice il portavoce al Senato, Nicola Morra, «il 9 luglio metteremo subito in calendario in Giunta la richiesta di ineleggibilità». Alessandro Di Battista in diretta tv da piazza Montecitorio si chiede «non capisco come il Pd possa non fare una battaglia su questo». Ma è, assai presumibilmente, quello che (non) farà.
È come se da una parte ci fossero i Boccia e gli Speranza («se fin qui Berlusconi è stato giudicato eleggibile, non vedo cosa possa essere cambiato rispetto alla norma esistente»), e dall’altra un popolo che ieri vedeva sancito ciò che ha sempre pensato: che Berlusconi è il Drago che divora le ragazze, il Caimano (lo diceva Nanni Moretti, non Grillo). Le sezioni sono molto agitate (uno che le conosce bene, Matteo Orfini, lo sa bene). Micromega spinge con un appello e in pochi giorni raccoglie 250mila firme. L’antica anima di Libertà e Giustizia frigge. Eppure i parlamentari Pd decisi a impugnare politicamente l’ineleggibilità - per quanto sia difficile giuridicamente - non stanno neanche sulle dita di una mano. C’è Civati, c’è Felice Casson, che su questo è assai duro. Massimo Mucchetti ha detto «considerare eleggibile Berlusconi e ineleggibile Confalonieri è un paradosso che va superato». Ma già una Bindi è su una posizione soft, chiedere a Berlusconi di «fare un passo indietro».
In Giunta i ricorsi si esaminano per regione (Berlusconi è eletto in Molise), e le regioni verranno divise in ordine alfabetico, mentre i commissari per anzianità. Dunque l’accoppiata tra il senatore e la regione di cui dovrà occuparsi sarà del tutto casuale. Pensate se a curare il casoCavaliere fosse il cinque stelle Giarrusso.

l’Unità 25.6.13
Francesca Izzo
«Ferito il senso civico. Dallo sdegno nacque “Se non ora quando?”
La sentenza oggi ci dà ragione: altro che scherzi, queste sono cose serie»
«Il primo no venne dalla piazza delle donne»
intervista di Ella Baffoni


Francesca Izzo è una delle promotrici di Se non ora quando?. Docente di Storia delle dottrine politiche all’Orientale di Napoli, è fuori Italia. Ma l’impatto della notizia coglie anche lei, che partecipa con passione alle vicende politiche italiane.
Una cosa le preme innanzitutto: ricordare come la grande manifestazione che ha portato da tutt’Italia una miriade di donne in piazza del Popolo, quel 13 febbraio, è una questione politica che aveva come obiettivo tutt’altro dall’esito giudiziario di cui si parla oggi. Sì, scatenanti furono le cronache delle serate di Arcore, la vicenda delle olgettine, la lettera di Veronica Lario. Ma «nell’appello che indiceva la manifestazione o dal palco in piazza mai si è fatto il nome di Berlusconi. Certo la vicenda del presidente del Consiglio era il sintomo di un clima generale, ma solo la punta di un iceberg. La manifestazione clamorosa di uno stato diffuso, generalmente nascosto, sotterraneo, che atteneva alla questione delle donne».
Allora ci fu un diffuso sentimento d’indignazione...
«Già, e lo sdegno ha accomunato mondi che prima di allora non avevano avuto se non sporadici rapporti. Ci fu il sentimento comune di intollerabilità di quella situazione: le battute, le barzellette, un continuo alludere alla potenza sessuale... a tutto questo si è sommata l’indignazione per l’impunità».
L’impunità, almeno quella, adesso è finita.
«La condanna è pesante, anche più alta delle richieste del pubblico ministero. Bisognerà leggere il dispositivo, capire bene. Sta di fatto che tutta quella vicenda e il suo contorno, al di là delle questioni penali e giudiziarie, ha avuto un ruolo emblematico nella storia di questi anni. Credo che sia anche questo, e l’idignazione che ha provocato, a provocare l’allontanamento di una vasta parte dell’elettorato da Berlusconi e dal Pdl, come mostrano i sei milioni di voti in meno alle recenti politiche. E poi, probabilmente, c’è stato anche il rifiuto per comportamenti che hanno ferito gangli vitali della coscienza e del senso civico del paese. Scatenando la reazione».
Cioè?
«Il tentativo di derubricare lo scandalo a qualcosa che appartenesse al ludico, all’allegria, al piacere di vivere. Questa sentenza ce lo dice chiaro: basta scherzare, queste sono cose serie e molto rilevanti per la società. La nostra mobilitazione è stato un tentativo, riuscito in parte, in altra parte no, come sempre avviene, di risvegliare un Paese passivo, in preda a oblio e afasia. Sì, uno spartiacque: la presa di coscienza sulla condizione vera dell’Italia».
Un risveglio agito, e questa è davvero una nostra peculiarità, da un movimento di donne.
«Abbiamo affermato dei valori comuni, li abbiamo rivendicati insieme. Dopo la manifestazione ci accusarono di voler giudicare tra buone e cattive, di essere contro le olgettine. Non fu che il tentativo di dividere il movimento, appello penoso a un moralismo d’accatto. Noi abbiamo affermato i nostri valori, senza mettere in discussione la libertà di ciascuno. Sulle vicende di rilevanza penale sono i giudici poi a dover intervenire».
Una delle conseguenze di questa sentenza è il rinvio a giudizio per chi ha fatto falsa testimonianza, tra cui moltissime ragazze.
«La responsabilità penale è personale, come la falsa testimonianza. Non c’è da dare nessun giudizio morale su comportamenti personali, quello che a noi preme è affermare questioni di valore generale se non universale. È vero che le vicende politiche e quelle giudiziarie dovrebbero essere separate. Ma gli anni che abbiamo alle spalle ne sono stati pesantemente segnati. Ora ci sono finalmente dei punti fermi. La crisi morale ma anche quella economica non si può superare senza il coinvolgimento delle donne. L’esistenza di questo governo, in una situazione così delicata, è in qualche modo una garanzia. Una risorsa di cui dovremmo avere cura».

il Fatto 25.6.13
La fossa della Marianna: “Troppi delinquenti nel Pd”
Duro attacco della Madia alla gestione del partito: “Opacità

di David Perluigi e Nello Trocchia
Nel Pd a livello nazionale ho visto piccole e mediocri filiere di potere. A livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie dei parlamentari ho visto, non ho paura a dirlo, delle vere e proprie piccole associazioni a delinquere sul territorio”. A pronunciare il pesante j’accuse ai quadri dirigenti del Pd e alle diramazioni territoriali del partito a Roma, non è una grillina, un’estremista di sinistra, ma Marianna Madia, giovane deputata Pd alla seconda legislatura. Veltroniana di ferro.
ANATEMI che Madia lancia in occasione del tour di Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione Territoriale nel governo Monti, che gira il Paese in vista del congresso del partito. Su un barcone lungo il Tevere Barca incontra i cittadini in un evento organizzato dai militanti di Sel e Pd per affrontare il nodo del futuro della sinistra italiana. L’ex ministro, nel centro culturale ‘Tevere democratico’, conclude il suo intervento e annota riflessioni, critiche e domande della platea. Prima di dare spazio ai militanti, la parola passa a due esponenti parlamentari, uno di Sel, Giorgio Airaudo, e una del Pd, proprio, Marianna Madia. L’onorevole piddina, nel suo intervento, cita Antonio Gramsci per richiamare tre forme di ipocrisia che garantisce: “Non le ritrovo nel documento di Fabrizio Barca e questo è già un passo avanti”. Poi lancia una granata nel terreno amico: “C’è una quarta forma di ipocrisia possibile che mi fa paura – prosegue Madia - e parlo per il Partito democratico, per casa mia". I presenti al convegno fanno una smorfia di sorpresa. "Spero che questa ipocrisia non ci sia nel futuro congresso. L’ipocrisia è pensare di parlare di linea politica senza capire che abbiamo un grossissimo problema di costituzione materiale del partito”. La parlamentare si scusa per aver ‘osato’ integrare il pensiero di Gramsci, ma la speculazione filosofica lascia presto il campo alla versione ‘cecchina’. La deputata che Walter Veltroni lanciò nell’agone politico alle elezioni nazionali del 2008 impallina gli attuali vertici nazionali. “Cosa ho visto nel Pd che ha gestito il gruppo parlamentare dall’inizio di questa legislatura?". Si chiede la Madia: "Ho visto ipocrisia, ho visto opacità, ho visto un sistema che non chiamerei neanche di correnti, ma di piccole e mediocri filiere di potere che sono attaccate così al potere e non vogliono cedere di un millimetro. Ho visto veti incrociati per mantenere tutto questo. Tutto questo - precisa - l’ho visto da chi oggi ancora ci dirige. E questo è il livello nazionale”. Madia poi affonda anche il Pd nelle sue diramazioni locali romane con l’esplicito riferimento alle “associazioni a delinquere”. Testuale. Per la deputata è l’ora delle scelte e del rinnovamento. Ha lanciato la proposta di legge, insieme con il senatore Walter Tocci e il deputato Pippo Civati, che prevede l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, i cosiddetti rimborsi elettorali, e la riforma del sostegno ai movimenti politici. Questa è la priorità insieme alla “costituzione materiale del partito”.
PAROLE pesanti quelle della deputata, una vera “orazione funebre” sui vertici nazionali, ma anche sulle diramazioni territoriali del Pd. Una reprimenda che ilfattoquotidiano.it   pubblica oggi sul sito in versione integrale. La platea ascolta, qualcuno strabuzza gli occhi, c’è chi si alza stizzito, ma molti apprezzano. Subito dopo si torna agli interventi della platea, si torna a discutere intorno al documento dell’ex ministro. Fabrizio Barca, chiudendo la serata, si mostra colpito dall’analisi spietata della Madia, riprende le sue parole e si sofferma sulla credibilità del partito, il bisogno di rappresentare una capacità di cambiamento. “Essere un poco meglio per noi è un suicidio. Quello che racconta Marianna Madia – chiosa l’ex ministro - in Calabria, ad esempio, lo vedi benissimo, assume toni drammatici. In quella terra il partito è diviso tra veri e propri capibastone che vengono dal passato e un 25% di partito straordinario. Quello che ci hai detto in modo molto libero la gente lo vede. Le persone a quel punto scelgono altri”. Gli altri sono il Pdl con il quale oggi il Pd è al governo. Il suicidio è servito.

l’Unità 25.6.13
Zaccagnini, un altro dissidente lascia i Cinquestelle
Il deputato spiega la sua uscita: «C’è un clima irrespirabile»
E se la prende con Casaleggio più che con Grillo
«Non sono a mio agio dove si epura, si emargina
C’è un aziendalismo inaccettabile in politica»
di Toni Jop


Via un altro dal Movimento: Adriano Zaccagnini se ne va, dice il deputato, per «paura» e molto ancora. Lo staff di questa forza politica avrà il suo daffare nel tentare di rinominare questa emorragia – ha lasciato nei giorni scorsi anche la senatrice Paola De Pin come una positiva opera di disinfestazione, ma è sicuro che ci proverà. Comunque, più del nuovo abbandono contano le motivazioni che hanno convinto il dissidente a prendere le distanze da Grillo e Casaleggio: Zaccagnini ha preferito non farsi interpretare, ha convocato la stampa e ha raccontato.
Il bello è che, disgraziatamente per i Cinque Stelle e per l’immagine di sé che intendono promuovere, questa non richiesta testimonianza non ha fatto altro che rinverdire ciò che sulle relazioni interne al potere grillino aveva a suo tempo rivelato Giovanni Favia in quel fuorionda divenuto ormai un pezzo di storia di questo Paese e delle ombre che affliggono la sua attuale cultura politica. Ecco, non esistono verginelle in politica; ciascuno ha la sua, ciascuno soffre della propria durezza, della mancanza, spesso, di chiarezza, della spietatezza che pure, a tratti, appartiene al grande e severo «gioco» che si svolge nelle aule istituzionali e anche all’esterno; ma non risulta, e possiamo sbagliare, che quando uno degli interpreti getta la spugna – ed è accaduto in ogni angolo della politica – citi la «paura» tra i motori di una legittima scelta individuale.
CRITICHE SIMILI A QUELLE DI FAVIA
Zaccagnini lo ha fatto, riprendendo le atmosfere Cinque Stelle che, con Favia, per prime avevano contestato l’elitaria aura di gioioso pauperismo con cui Grillo aveva infiocchettato e mimetizzato il suo potere assoluto. Da notare come la «paura» sia quindi uno dei tratti costitutivi ormai assodati in ampie zolle delle rappresentanze Cinque Stelle, un veleno che sta tutto dentro una formazione nata, sulla carta, per spazzare dalla realtà italiana i cadaveri putrefatti di tutti gli altri partiti, per ridare speranza al Paese e al suo provatissimo elettorato. Ma dove nasce questa «paura»? Conviene seguire le parole di Zaccagnini, sono chiare e non hanno bisogno di traduzioni. «Non mi sentivo più a mio agio – ha raccontato – c’è un clima irrespirabile»; e dove sarebbe questo clima irrespirabile? «Questo – risponde il deputato ora trasferito al gruppo Misto – non è un partito aziendalista ma un movimento aziendalista in cui la strategia politica è calata dall’alto», pesante ma confortato da troppe voci interne, oltre che da molte serene osservazioni esterne, per essere la boutade di uno che ha solo voglia di cambiare aria. Infatti, Zaccagnini sa dove posizionare il Movimento di Grillo nel quadro delle forze politiche italiane: «Dopo vent’anni di berlusconismo non poteva che nascere un Berlusconi 2.0», e per fortuna che non lo diciamo noi che siamo i cattivi putrefatti, ma almeno possiamo assistere incolpevoli ad una scena che assegna a Grillo e al suo staff lo scettro del Caimano.
Poi, spiega perché il clima interno sia divenuto «irrespirabile»: «Nel Movimento si è innescata una caccia alle streghe e non voglio stare in una formazione politica che epura, emargina, insulta e caccia persone per le loro opinioni... hanno instaurato la strategia del terrore al posto della rivoluzione che il movimento si era intestato». Non l’aveva svelato già il povero Favia, poi fatto a pezzi, verbalmente, nel blog di Grillo? Non aveva parlato esattamente di una paura diffusa, di un sistema che incuteva paura mentre esercitava il potere di censura su ogni possibile critica e verso chi la esercitava o pensasse di esercitarla? E come Favia, Zaccagnini tende a risparmiare Grillo e la sua verve: sostiene che «il problema non è lui... ma lo staff che ha un approccio non politico ma aziendale».
Il fatto è che quando da quel fronte si fa riferimento allo staff, si vuole indicare un soggetto preciso: Casaleggio, e la sua creatura d’affari. «Nomina e ruolo della Casaleggio Associati – analizza – non si capisce che regola seguano e se abbiano un termine, una verifica, una sostituzione, una eventuale turnazione»: sì che si capisce, invece, che Casaleggio non è sottoposto ad alcuna democratica mobilità, anzi, questa rigidità è uno dei pochi perni indiscutibili del Movimento, è l’asse del potere, tanto quanto la titolarità del marchio Cinque Stelle interamente nelle mani di Beppe Grillo. Comunque, il risultato è lo stesso: «La democrazia è in pericolo», annuncia il dissidente, grazie lo sapevamo. Se ne va e sputa fango perché – ed è l’accusa rituale lanciata dal web contro chi getta la spugna – ha bisogno di soldi, vuole forse tenersi gli euro della diaria? Macché, dovranno inventarsene un’altra, perché Zaccagnini ha fatto sapere di aver restituito oltre ottomila euro di spese non sostenute per la sua permanenza a Roma. Al talebani del Movimento risulta incredibile che qualcuno possa dire gratis la verità.

Repubblica 25.6.13
M5s: la diaspora dei deputati grillini

I litigi all'interno del Movimento 5 Stelle, le accuse e le controaccuse, e poi gli abbandoni e le espulsioni, dopo lunghe riunioni fiume e voti online. Dall'inizio della legislatura, i gruppi parlamentari hanno perso 4 membri, ma ci sono molti altri 'dissidenti' che - in un momento o nell'altro - potrebbero essere messi sotto accusa. L'ultima è stata la Pinna, ma le accuse verso di lei sono rientrate dopo una chiamata con Grillo. Ecco chi sono
qui

a proposito dell’intervista di Casaleggio su La Lettura del Corsera di domenica scorsa
Corriere 25.6.13
Nell'era digitale come ai tempi di Lenin la democrazia diretta resta un'utopia
di Paolo Franchi

Nell'intervista rilasciata a Serena Danna per la Lettura, Gianroberto Casaleggio indica alcuni testi di riferimento indispensabili, a suo giudizio, per capire la rivoluzione digitale. Prometto che li leggerò. Ma mi permetto pure di suggerire a Casaleggio di leggere, o di rileggere, Stato e Rivoluzione. È ovvio, tra l'agosto e il settembre del 1917, quando scrisse questo pamphlet (un mito per generazioni di giovani rivoluzionari, un testo a dir poco imbarazzante per generazioni di funzionari di partito), Lenin la rivoluzione digitale non poteva neanche immaginarla. Ma la democrazia diretta, quella che, secondo Casaleggio, grazie alla Rete riuscirà finalmente a imporsi su scala planetaria, gli stava a cuore, eccome. L'imminente dittatura del proletariato avrebbe avuto nei Soviet, il suo organo di governo, anzi, di autogoverno. Nell'assemblea dei Soviet (il futuro Soviet supremo) la funzione esecutiva e quella legislativa si sarebbero combinate. E tanti saluti all'assenza di vincolo di mandato: ogni collegio elettorale avrebbe avuto il diritto insindacabile di revocare in qualsiasi momento i propri rappresentanti. Per questa via, alla lunga, lo Stato si sarebbe estinto. E nel frattempo anche una cuoca avrebbe potuto, e dovuto, imparare a gestirlo. Magari a rotazione.
Intendiamoci. Le purghe staliniane non erano già scritte in Stato e Rivoluzione. E può darsi benissimo che, quasi un secolo dopo, la rivoluzione digitale apra alla democrazia diretta prospettive più luminose. Ma forse sarebbe bene ricordare, per sommi capi, come andò a finire in quella circostanza non propriamente secondaria nella storia del mondo. Già sette mesi dopo la rivoluzione d'ottobre i menscevichi e i socialisti rivoluzionari furono espulsi dai Soviet. Per un breve periodo vi furono riammessi, nei giorni più difficili della guerra civile contro le armate bianche. Poi ne furono di nuovo e definitivamente cacciati, e di loro cominciò ad occuparsi attivamente la Ceka. Nel febbraio del 1921 i marinai rivoluzionari di Kronstadt insorsero per rivendicare il ripristino della democrazia sovietista, la fine dello strapotere bolscevico, la libertà di parola e di associazione per tutti i partiti socialisti (degli altri partiti, ovviamente, non si parlava nemmeno). A reprimerli nel sangue provvide Leone Trotzkij, che di lì a una ventina d'anni sarebbe stato a sua volta assassinato. Delle fortune dell'autogoverno dal basso negli anni di Stalin — anche se milioni di uomini che vivevano e soffrivano fuori dai confini dell'impero continuavano a pensare all'Urss come al «Paese dei Soviet» — è ovviamente inutile dire. Quanto a quelle della cuoca e delle sue ambizioni di governo, Nikolaj Bucharin avanzò i suoi dubbi, chiamiamoli così, già nell'aprile del 1918, sul Kommunist. Lenin aveva scritto cose giustissime, ci mancherebbe: «Ma cosa accade quando per ogni cuoca c'è un commissario nominato per darle costantemente degli ordini?».
Intendiamoci di nuovo. Casaleggio e Beppe Grillo con Lenin e Stalin, Trotzkij e Breznev, non c'entrano nulla. Bisognerebbe essere ciechi e sordi per non comprendere che la crisi incalzante (di legittimazione, di rappresentanza, di decisione) della politica da una parte, la Rete dall'altra hanno determinato, e sempre più determineranno, su scala mondiale, uno scenario letteralmente inedito, e potenzialmente sconvolgente. Rapidamente cambiano tutti, ma proprio tutti, i paradigmi sulla cui scorta abbiamo ragionato sin qui, e indietro (per dire: alla politica orgogliosamente «separata», ai grandi partiti di massa, ai giornali di un tempo) non si torna. Chi si ferma è perduto, avrebbe detto quel tale. Solo che non basta camminare, e nemmeno correre. Bisognerebbe avere un'idea ragionevole (e, se possibile, democratica) su dove si vorrebbe arrivare: a quali società, a quali istituzioni, a quali forme di organizzazione del consenso, e magari anche del dissenso. La storia, in proposito, come sempre non ci insegna nulla. Più precisamente: ci insegna, o dovrebbe insegnarci, quali trappole sarebbe meglio, molto meglio evitare. L'ideale della democrazia diretta universale, tanto nobile quanto irrealizzabile nella sua versione anarchica, in tutte le altre versioni, compresa quella di Casaleggio è, temo, una di queste.
Molti dei perché li ha esposti, sul Corriere, Augusto Barbera, che pure non è né un conservatore né un nostalgico della vecchia politica; e, prima ancora, Stefano Rodotà, che non è «un ottuagenario beneficiato dalla Rete», secondo la graziosa definizione di Grillo, ma uno che sul complesso rapporto tra Rete e democrazia ha molto da insegnare a chiunque. Qui vorrei proporne solo uno ulteriore, suggeritomi dall'intervista di Casaleggio. Secondo il quale «il concetto di leadership è estraneo alla democrazia diretta», tanto è vero che i movimenti che la praticano sono per definizione leaderless, senza leader. In molti casi, come quello, citato da Casaleggio, di Occupy Wall Street, è vero. In altri, come quello a noi più vicino del Movimento Cinque Stelle, no. La leadership c'è, eccome, e gli eletti del movimento vi sono legati da un vincolo inscindibile, quasi mistico, mettendo in discussione il quale si autoconsegnano al ruolo dei traditori: ma nessuno sa, può o vuole dire da chi, come e quando sia stata conferita, né se sia contendibile, e in quali forme. I congressi del Pcus, a paragone, erano dei modelli di democrazia. 

l’Unità 25.6.13
F-35, scontro a sinistra
Il Pd prova a mediare: più tempo per approfondire
di U. D. G.


Un dibattito sofferto per una scelta impegnativa: quella sugli F-35. E un voto, quello previsto per oggi, che avrà comunque un impatto sul futuro stesso del governo. La partecipazione italiana al programma Joint Strike Fighter diventa un banco di prova per l’esecutivo Letta e per il Pd. La posta in gioco è altissima: 14 miliardi di euro (nel periodo 2009-2026 con pagamenti a rate di circa un miliardo l’anno). Giampiero Scanu, capogruppo Pd in Commissione Difesa rassicura: «Stiamo lavorando per trovare una soluzione ampiamente condivisa e al momento non esiste alcuna spaccatura nel partito».
SCELTA CRUCIALE
Secondo indiscrezioni, l’ipotesi più accreditata è la proposta di una «sospensione temporanea»: i democratici non sosterranno l’impegno annunciato dal governo, per bocca del ministro della Difesa Mario Mauro, all’acquisto immediato dei cacciabombardieri. L’ufficialità arriverà nel corso della riunione del gruppo Pd in programma alla Camera in tarda serata. Ma nel pomeriggio a Montecitorio Scanu, incaricato da Epifani di trovare una mediazione tra le diverse anime del partito, ha riunito il gruppo di lavoro dei democratici con i quali ha steso il testo della mozione che sarà illustrato in serata. Il documento impegna il governo a dare il via a «un’indagine conoscitiva», alla quale lavoreranno le commissioni Difesa di Camera e Senato. Con questa misura, ha assicurato Scanu ai deputati, si intende che fino all’esito dell’indagine il governo italiano non darà seguito ai pagamenti previsti dal programma d’acquisto. L’obiettivo è presentare una mozione che venga incontro alle esigenze di una totale trasparenza sul progetto di difesa nazionale, una verifica dell’entità dei costi di tale progetto e la sua compatibilità con l’attuale situazione di finanza pubblica. Il compito di Scanu non è semplicissimo. Il rischio di una spaccatura al momento del voto continua ad aleggiare. Dario Ginefra, per esempio, è tra quanti chiedono di «rivedere il piano» studiando un «nuovo modello di difesa europeo». Gero Grassi, cattolico, è contrario per motivi di merito e anche di principio: «Io penso che con una spending review devastante, nella situazione in cui siamo, il lusso di andare a comprare questi aerei non ce lo possiamo permettere. Poi sono tra quelli che dicono “se vuoi la pace, prepara la pace”...». Molti altri deputati democratici pensano invece che l’Italia non possa sfilarsi da un progetto che ha una valenza sia strategica che economica: ci sono aziende italiane che partecipano alla realizzazione degli aerei e c’è l’alleanza con gli Usa. Il ministro Mauro, in una recente intervista, aveva assicurato che non ci sarebbe stato nessun ritardo rispetto all’acquisto di ben 131 aerei. Scanu ha incontrato alla Camera anche lo stesso ministro Mauro. Si lavora a una mediazione, spiegano fonti accreditate, che al momento appare difficile. La posizione del Pd sarà decisiva. La mozione «anti-F-35» può contare in partenza sul sostegno dei 163 firmatari: i gruppi di Sel (36) e Movimento 5 Stelle (109), 2 di Scelta Civica, 16 del Pd. Il gruppo di Epifani conta alla Camera 293 deputati. Ne basterebbe poco più della metà per assicurare al documento l’approvazione certa.

La Stampa 25.6.13
Mozione sugli F35, il Pd si spacca

qui

La Stampa 25.6.13
Sugli F35 Civati si smarca dal Pd Malumori anche nel fronte cattolico
Pippo Civati si è unito ieri alla manifestazione di protesta organizzata da Sel e grillini
di Fra. Gri.


Aeroplanini di carta contro gli F35. È divertente la protesta dei grillini contro i costosi cacciabombardieri che l’Italia intende acquistare. Ma i parlamentari del M5S non sono soli in piazza Montecitorio. Ci sono anche quelli di Sel, con Nichi Vendola in testa. E c’è il bastian contrario del Pd, Pippo Civati, Pd con altri quattro. Via Twitter arriva l’appoggio inaspettato del Governatore della Toscana, Enrico Rossi.
Giornata cruciale per il destino degli F35. La Camera discute le mozioni antispesa di grillini e vendoliani, e una a favore presentata in extremis dall’ex ministro Ignazio La Russa. Ma è il Pd a fare notizia. La spaccatura del partito è plateale. Pippo Civati, che su questi temi dialoga da tempo con i trentenni di Sel e di M5S, ha un diavolo per capello. Fosse per lui, di F35 se ne comprerebbero la metà. Ma il partito, pur con grandi mal di pancia, non lo segue. «Io - si sfoga - questi “governisti” a oltranza del mio partito non li capisco proprio. Ma ci voleva tanto a dire una parola chiara? Non si poteva proporre di sospendere il programma fino all’autunno, quando si concluderà un’indagine conoscitiva? ».
Per tutto il giorno, le varie anime del Pd si confrontano. Anche i cattolici sono in fibrillazione. Il deputato Paolo Beni interviene in Aula: «Per me, il progetto andrebbe sospeso». Il suo collega Giorgio Zanin: «Inutile girarci intorno: le lobby della spesa militare assediano da sempre i governi». Ma poi ancora un Pd, Carlo Galli, richiama tutti al realismo di un Mediterraneo bollente: «E’ per ovviare all’obsolescenza della sua arma aerea che l’Italia negli ultimi quindici anni ha partecipato». O ancora Giancarlo Antonelli: «Serve una mappa dei rischi, di cui non parliamo come se agissimo in un mondo che è quello di Alice nel paese delle meraviglie». Così la questione è rinviata alla notte. «Stiamo lavorando - afferma Giampiero Scanu, capogruppo Pd in commissione Difesa - per trovare una soluzione ampiamente condivisa».
Ad assistere al dibattito c’è un pensieroso ministro della Difesa, Mario Mauro. Forse non s’aspettava tanti distinguo nel Pd, ma si morde la lingua: «Sono certo - dice - che governo e Parlamento insieme sapranno garantire la pace promuovendo un efficiente livello delle nostre forze armate».

il Fatto 25.6.13
Ballottaggi in Sicilia, crollano affluenze e Pd


La Sicilia al ballottaggio umilia il centrosinistra dei “larghi inciuci”, dà una boccata di ossigeno a Beppe Grillo che conquista un altro capoluogo di provincia, Ragusa, e terremota Messina facendo vincere Renato Accorinti, il candidato del “No Ponte”. Il partito di Epifani, sull’isola fortemente ipotecato dal governatore Rosario Crocetta, vince solo a Siracusa con Giancarlo Garozzo, che porta a casa il 53,3 per cento battendo Paolo Ezechia Reale, il candidato sostenuto dal centrodestra, che si ferma al 46,7. Tutto questo in un crollo generale alle urne: appena il 46,19 per cento degli elettori, con 21,72 punti in meno rispetto al primo turno, quando votò il 67,9. Detto questo, i risultati che fanno notizia sono quelli di Messina e Ragusa. Nella città dello Stretto, vince, e con una sola lista, Renato Accorinti, personaggio di rottura, lontanissimo dal sistema di potere che da anni domina sulla città. L’insegnante di educazione fisica notissimo per le sue battaglia No Ponte, porta a casa il 52,86 per cento superando il candidato di centrosinistra più Udc, Felice Cavallaro che si blocca al 47,14.
Un miracolo, giurano nella città dello Stretto. Accorinti aveva il 23,8 per cento al primo turno e 19 mila voti, il suo avversario il 49,94 e 40 mila voti, per appena 59 schede non ha vinto subito. Clamoroso il risultato di Ragusa, dove il giovane ingegnere elettronico Federico Piccitto, sbaraglia col 70 per cento il candidato di centrosinistra, sostenuto da cinque liste e anche dal Pdl nel secondo turno, che si ferma al 30 per cento. Giovanni Cosentini, già vicesindaco della città col centrodestra, è fuori gioco. Perde il centrosinistra allargatissimo all’Udc e ai transfughi del Pdl in rotta, e agli uomini di Raffaele Lombardo orfani del Mpa.

il Fatto 25.6.13
La folle riforma della Carta
di Maurizio Viroli


Pur consapevole del pericolo di essere giudicato nemico della trionfante pacificazione nazionale, ritengo che la riforma della Costituzione alla quale lavora il comitato dei saggi del Presidente del Consiglio avrà conseguenze nefaste sulla vita repubblicana. Per quattro motivi: 1) non esiste alcuna valida ragione per procedere a una radicale modifica della nostra Carta fondamentale; 2) il rimedio ventilato – presidenzialismo o semipresidenzialismo – è peggiore del male; 3) il metodo adottato è incongruo; 4) non è questo il tempo per riformare la Costituzione.
Una riforma costituzionale, o una nuova Costituzione, sono necessarie se la vecchia ostacola o impedisce il buon governo. Orbene, sarà certo un mio limite, ma non ho ancora letto o ascoltato un ragionamento che spieghi in modo convincente perché non si potrebbe governare bene con l’attuale Costituzione, ove ci fosse una maggioranza parlamentare composta di uomini e donne probi e competenti, ministri dediti al bene comune e un presidente del Consiglio all’altezza del suo delicato ufficio. Se questo non esiste il problema sono i partiti, i candidati, gli elettori e soprattutto la legge elettorale, non la Costituzione.
Il semipresidenzialismo o il presidenzialismo non sono la cura al male dei cattivi e dei mediocri governi perché l’uno e l’altro sistema assegnano all’esecutivo poteri più ampi di quelli oggi assegnati al presidente del Consiglio. L’esperienza storica insegna che le buone leggi sono frutto della saggezza, dell’autorevolezza di chi le propone e delle disponibilità al dialogo con l’opposizione (se questa ha i requisiti minimi di lealtà repubblicana), più che del potere di imporre la propria volontà. Maggiore il potere, e minori i vincoli, più alta la probabilità di avere cattive leggi.
PREVEDO L’OBIEZIONE: ma l’evoluzione dalla Repubblica parlamentare alla Repubblica presidenziale è già in atto, e dunque bisogna adeguare le norme. Rispondo che sarebbe più saggio procedere nella direzione esattamente contraria, vale a dire fare rientrare la Presidenza della Repubblica nel suo alveo e invertire la tendenza che ha conosciuto una forte accelerazione con la rielezione di Giorgio Napolitano. E non è fuori luogo ricordare quanto ebbe a dichiarare il Presidente Emerito Carlo Azeglio Ciampi, quando da più parti gli chiesero di restare al suo posto: “Confermo la mia non disponibilità a candidarmi per un secondo mandato. Nessuno dei precedenti nove presidenti della Repubblica è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. È bene non infrangerla. A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo, qual è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”.
Circa il metodo, mi pare evidente che una riforma costituzionale della portata di quella ventilata dovrebbe essere varata soltanto da un’Assemblea costituente con le medesime prerogative di quella del 1946. Il cambiamento annunciato non è una modifica di qualche articolo, ma la fondazione di un ordinamento repubblicano di tipo nuovo, e dunque non rientra nei caratteri della revisione descritta dall’art. 138. Non è saggio, inoltre, affidare ai parlamentari in carica, e soprattutto a parlamentari eletti con il vergognoso sistema elettorale in vigore, il compito di definire le regole entro le quali dovranno legiferare. Le Costituzioni devono essere scritte da persone scelte per svolgere soltanto quel compito e che non traggono alcun beneficio o danno immediato dalle norme approvate. Se proprio volete scrivere e approvare una nuova Costituzione, fatelo almeno come si deve.
Infine, è da irresponsabili creare un forte potere esecutivo fino a quando esiste la possibilità che alla nuova carica salga, per voto popolare libero e democratico, un uomo come Silvio Berlusconi. Se ciò avvenisse avremmo al vertice dello Stato un presidente con un immenso potere personale. Chi gli impedirebbe di farsi signore di fatto della Repubblica? Gli scrittori politici repubblicani chiamano questa situazione tirannide. E i liberali nostrani? Mai come in questo caso vale l’antico adagio: medice cura te ipsum: invece di dedicare tempo e risorse a riformare la nostra ottima Costituzione, pensate piuttosto a riformare voi stessi.
e.f.

il Fatto 25.6.13
Roma, mossa del “marziano”: “5 Stelle entri nella giunta”
Faranno consultazioni on line per scegliere l’assessore
di Luca De Carolis


Aveva appena ricevuto l’ennesimo no, di quelli che complicano una partita già estenuante. E allora il democratico più grillino su piazza ha rovesciato il tavolo: ovvero, ha aperto a M5S e ha azzerato la precedente lista per la giunta. Sorprendendo tutti, e facendo più d’uno: soprattutto tra i consiglieri del Pd.
IERI POMERIGGIO il sindaco di Roma Ignazio Marino ha chiesto a 5 Stelle di indicargli un nome per la sua giunta. Più precisamente una donna, per l’assessorato alla Sicurezza e alla legalità urbana. Un tecnico, da inserire assieme agli altri 5 non politici della giunta che verrà. Forse stasera, se il sindaco riuscirà finalmente a trovare la quadra dopo 13 giorni di trattative e ripensamenti. Ma non è affatto detto, perché la squadra di 12 assessori è ancora sospesa a tante variabili. E a tanti no, come quello della renziana Lorenza Bonaccorsi, che ieri sembrava l’unico tassello rimasto per completare la squadra. Ma nel pomeriggio la deputata ha declinato l’offerta: “Grazie, ma continuo a lavorare in Parlamento”. Secondo voci di corridoio, la Bonaccorsi avrebbe posto come condizione per accettare la nomina a vicesindaco. La certezza è il suo rifiuto: un altro no per Marino, dopo quelli rumorosi del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanni Legnini e del direttore di Radio 3, Marino Sinibaldi. Poche ore dopo, il sindaco ha fatto la sua mossa. E ha aperto a a 5 Stelle, convocato ieri pomeriggio in Campidoglio assieme al Pd. O meglio riconvocato, visto che Marino aveva già incontrato la delegazione dei 4 consiglieri comunali domenica scorsa, assieme a quelle di Pd e Sel. Ieri ha formalizzato la proposta a M5S. “Il sindaco si è dimostrato disponibile a valutare per l’Assessorato alla legalità e sicurezza urbana anche dei curricula segnalati dal Movimento”, spiegano in una nota i consiglieri. In serata hanno lanciato un sondaggio sul blog di Grillo, aperto solo agli iscritti di Roma, a cui chiedono se accettare di scegliere tra i curricula “una donna di comprovata esperienza e di elevata professionalità, preferibilmente di formazione giuridico-amministrativa”. La consultazione si concluderà oggi alle 11. Marino celebra: “Sono contento della disponibilità dimostrata dal Movimento. Durante la campagna elettorale erano già emersi punti di convergenza su molti temi, la loro apertura è un’ulteriore conferma della discontinuità della nostra proposta rispetto alla vecchia politica”. In queste ore il sindaco riscriverà la sua giunta.
ALLA DELEGAZIONE PD ieri ha detto di volersi prendere 24 ore per formulare “una nuova proposta organica”. Ossia, ha azzerato i nomi del precedente schema con 6 politici. “Marino resetterà tutto, e il Pd politicamente gli ha garantito l’autonomia per farlo” afferma il segretario regionale, Enrico Gasbarra. A detta del quale l’apertura a 5 Stelle “è una novità politica interessante. ma non rappresenta un allargamento della coalizione”. L’unica certezza è che gli assessori del Pd rimarranno quattro. Per il resto, è difficile prevedere se verranno confermati nomi come Flavia Barca (sorella di Fabrizio) alla Cultura o Estella Marino, renziana, all’Ambiente. Unico nome sicuro, quello dello zingarettiano Enzo Foschi come capo segreteria. Tra i consiglieri del Pd (riunitisi in serata) diversi scontenti. Non si aspettavano l’ennesimo rinvio. “Siamo sconcertati” sibilava ieri sera uno dei più arrabbiati. Malumore anche in Sel. Sembrava fatta per Luigi Nieri come vicesindaco. Un’altra nomina tutta da verificare, nell’infinito Risiko del Campidoglio.

il Fatto 25.6.13
Pedofilia in Vaticano, ecco i primi indagati
M.Lil. e V.Pac.


La Procura di Roma ha iscritto 4 persone nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta su un presunto giro di prostituzione minorile che coinvolge alcuni prelati. Come rivelato da Il Fatto Quotidiano giovedì scorso, l'indagine nasce dalla denuncia di Don Patrizio Poggi, condannato nel 1999 a 8 anni reclusione con l'accusa di avere abusato sessualmente di 5 ragazzini tra i 14 e i 15 anni che frequentavano la sua parrocchia, San Filippo Neri, a Primavalle. Dopo aver trascorso anni in una comunità del Nord, Don Patrizio è tornato a Roma e ha raccontato di conoscere i comportamenti sessuali di un monsignore con la passione dei ragazzini che riveste un ruolo importante nella sua Diocesi e che è anche il segretario di un vescovo molto importante. Comportamenti vietati che avrebbero coinvolto anche alti prelati e parroci. A seguito di queste dichiarazioni il pm Maria Monteleone ha convocato molti prelato e ha già iscritto 4 persone nel registro degli indagati. Tra questi un ex poliziotto, con il compito di reclutare i minori.

Repubblica 25.6.13
Firenze, il vescovo attacca sugli scandali
Nella città di Renzi sotto accusa escort, cocaina e record di senzatetto
di Simona Poli


FIRENZE — Prima in Italia per consumo di cocaina, quarta per presenza di senza fissa dimora. Firenze “peccatrice”, egoista, incurante delle sue bellezze culturali e infettata dalla «voglia di trasgressione, in tutte le forme possibili». Così la descrive il cardinale Giuseppe Betori parlando dal pulpito del Duomo nel giorno della festa di San Giovanni Battista, patrono della città e simbolo della rinascita morale della cristianità. Ad ascoltare Betori c’è anche il sindaco Renzi, che esce dalla chiesa visibilmente seccato per l’attacco a sorpresa.
L’inchiesta sul giro di escort che ha puntato i riflettori su incontri a luci rosse negli uffici del Comune è ancora in corso e per Renzi è difficile non pensare che leparole di Betori non suonino come un rimprovero. Cerca di cavarsela con una battuta di replica ma stavolta la dice a denti stretti: «Vorrà dire che quest'anno a Benigni facciamo leggere Dante,mentre il prossimo anno gli faremo leggere Boccaccio», scherza. In realtà è furioso, sulla storia degli homeless chiede alla sua vice Saccardi di chiarire in un comunicato ufficiale che «Firenze spende oltre 50 milioni di euro nelle politiche sociali, di cui 4,2 nell’accoglienza» e per il resto decide di ingoiare l’a- boccone senza scatenare polemiche che inevitabilmente avrebbero riflessi sulla sua corsa verso la leadership del Pd. Ma le critiche dell’arcivescovo al sindaco cattolico rischiano di segnare una svolta nella fin qui civile convivenza tra la Curia ePalazzo Vecchio.
In Arcivescovado si dà una lettura diversa dell’omelia di Betori, che non sarebbe ispirata da sentimenti anti renziani bensì dal nuovo corso imposto alla chiesa da Papa Francesco, che chiede maggiore impegno sul sociale e un grado di attenzione e partecipazionealla materia viva dell’emergenza economica.
Qualunque sia la verità, comunque, il monito di Betori non può certo lasciare indifferente chi da quattro anni è alla guida dell’amministrazione. «Un’improvvida voglia di trasgressione passa dalle piazze ai luoghi della cultura, anche qui senza che si notino apprezzabili reazioni, pur con qualche lodevole eccezione», attacca il cardinale. «Si aprono spazi di trasgressione, in tutte le forme possibili, che incidono sull’identità stessa della città», che invece avrebbe tra i suoi compiti quello «di salvaguardare i beni di cui è custode».
I vizi superano le virtù, insomma. Dante avrebbe abbondante materia su cui lavorare per popolare i suoi gironi infernali, secondo l’arcivescovo. «Come non reamarogire alla notizia del primato di questa città nel consumo di cocaina e agli avvertimenti circa la diffusione anche tra noi della piaga del gioco d'azzardo?», dice rivolto alla platea del Duomo. Ma pensa anche ai poveri, agli ultimi: «Firenze è al quarto posto in Italia per presenza di senza dimora e si registra un’allarmante crescita del bisogno alimentare. I senza dimora sono quasi duemila, centinaia e centinaia di famiglie cui è negata la possibilità di un tetto che le accolga. Aumenta la gente che letteralmente ha fame», insiste, «mentre non si riescono a debellare le gravi forme di spreco che definiscono il nostro stile di vita». Un avvertimento per tutti, certo. Ma anche una bella tirata d’orecchie per il sindaco che si candida a governare l’Italia.


l’Unità 25.6.13
Indesit, governo in pressing sulla famiglia Merloni
I sindacati confermano il «no» al piano di tagli
di Massimo Franchi


Il governo Letta in pressing sulla famiglia Merloni. Dopo aver incontrato ieri mattina i sindacati, il ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato e il viceministro Claudio De Vincenti hanno deciso di convocare con ogni probabilità giovedì i vertici dell’Indesit per cercare di convincerli a modificare il piano di delocalizzazioni della produzione. L’impresa non si preannuncia per niente facile, ma per la moral suasion il governo punta a far breccia sulla famiglia Merloni con il tema dell’italianità, le radici che legano il gruppo a Fabriano e a tutto il Paese.
Il ministro Zanonato aveva deciso di incontrare Fim, Fiom e Uilm per conoscere le ragioni della rottura del tavolo con l’azienda consumatasi venerdì quando l’azienda ha confermato i 1.425 esuberi (1.250 operai, 150 impiegati e 25 dirigenti) a causa della delocalizzazioni delle produzioni in Turchia e Polonia. La posizione unitaria dei sindacati
e quella dei sindaci delle tante città italiane sede di stabilimenti, prima fra tutte Fabriano, sede del gruppo e della famiglia Merloni, e Caserta, città che ospita il secondo stabilimento che sarà chiuso o fortemente ridimensionato. l o stabilimento di Melano, a Fabriano, perderebbe la produzione di piani cottura; quello di Teverola, a Caserta, perderebbe le lavatrici, mentre si aggrava la situazione anche della fabbrica di Comunanza, nell’ascolano, dove sono previsti tagli per 240 posti di lavoro per le lavabiancherie.
VERTENZA PILOTA
Più passano i giorni e più la vicenda Indesit assume i contorni di una vertenza pilota. Se il piano passasse, molti grandi gruppi italiani, non solo del settore elettrodomestici, sarebbero pronti a fare la stessa scelta: delocalizzare le produzioni per ridurre il costo del lavoro. Un rischio oggi ribadito dai sindacati: «Fim, Fiom, Uilm informa una nota congiunta hanno rappresentato al ministro il rischio concreto di scelte analoghe anche da parte di altri grandi gruppi con conseguenze gravissime sul piano occupazionale e per l’intera economia nazionale».
«Il piano è inaccettabile perché delocalizzare produzioni per un milione di pezzi è una scelta di disarmo per un settore, quello degli elettrodomestici, che è il secondo per occupazione in Italia dopo l’automotive attacca Michela Spera, segretario nazionale Fiom . In più i 1.425 esuberi arrivano quando ci sono ancora 300 lavoratori che perderanno il lavoro per il piano precedente negli stabilimenti del Nord di None (Torino), Brembate (Bergamo) e Refrontolo (Treviso). Per questo chiediamo che il governo non si limiti a convocare Indesit, ma convochi un tavolo con tutti i maggiori gruppi del settore elettrodomestici: Electrolux, Whirpool, Candy».
«Abbiamo ribadito la necessità da parte del governo di interventi di politica industriale a sostegno del settoreper evitare, che si ragioni sempre in emergenza dichiara la segretaria nazionale della Fim Cisl, Anna Trovò -. È inaccettabile che il gruppo Indesit, il cui brand è legato nel mondo al made in Italy, comunichi un piano di riorganizzazione che delocalizzi e impoverisca proprio le produzioni italiane e l’occupazione in uno dei settori industriali che rappresentano una delle eccellenze produttive dell’Italia».
«La straordinarietà del momento impone uno sforzo straordinario anche da parte del soverno», sottolinea Gianluca Ficco, coordinatore nazionale Uilm del settore degli elettrodomestici.
«Un no deciso è quello che abbiamo espresso al governo perché il piano avrebbe ripercussioni drammatiche sull’occupazione e sull’intero settore degli elettrodomestici in Italia. L’azienda faccia un passo indietro», dichiara il vice segretario nazionale dell’Ugl Metalmeccanici, Antonio Spera.

l’Unità 25.6.13
Diritti
Tortura, ancora troppe vittime
Si celebra domani la Giornata internazionale
Tante le iniziative, anche in Italia, che non l’ha ancora introdotta come reato nel codice penale
Ma in 100 piazze si raccolgono firme per tentare di colmare questo ritardo
di Flore Murard-Yovanovitch


NEL 2012 SECONDO IL RAPPORTO ANNUALE 2013 DI AMNESTY INTERNATIONAL, 112 PAESI HANNO TORTURATO I LORO CITTADINI. Inflitto un’acuta sofferenza fisica o/e psichica, a colpi di percosse fisiche o raffinate tecniche di distruzione, a nemici presunti o reali nel nome di un fine superiore. Punire, intimidire, estorcere informazioni, confessare. Non esistono nel mondo zone libere dalla tortura e le agghiaccianti immagini di Abu Ghraib avevano rivelato al mondo che il problema non è limitato alle dittature militari o ai regimi autoritari, né appartiene al passato, ma è una pratica odierna, diffusa anche negli Stati più democratici.
Come definita in sede Onu, la tortura si distingue da altri maltrattamenti crudeli, degradanti e inumani, in quanto è commessa da un pubblico ufficiale (o simile): attiene all’esercizio del potere punitivo dello Stato. Si esercita sul corpo. Degrada la persona. Non a caso il concetto di dignità umana è stato una pietra miliare della storia relativamente recente per l’abolizione della tortura a livello internazionale. Nel 1984 viene adottata dall’Assemblea delle Nazione Unite la Convenzione contro la tortura (ratificata da 151 Paesi), seguita nel 2002, dal Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede meccanismi di controllo nei luoghi di detenzione. (L’Italia lo ratifica solo lo scorso 24 ottobre 2012).
Con la svolta della guerra al terrorismo internazionale sono sempre più diffusi i massacri e le sparizioni forzate, c’è una lenta globale erosione del diritto e la diffusione di pratiche che sono riconducibili alla tortura.
In Italia seppure il nostro Paese abbia ratificato nel 1998 la Convenzione delle Nazione Unite contro la tortura, che prevede l’obbligo giuridico di conformare i propri codici alle norme internazionali la tortura non è reato. Lo scandalo, come illustra Patrizio Gonnella in La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica uscito di recente per i tipi di DeriveApprodi, non è solo la mancata legislazione. Ma l’omertà di tutta la classe dirigente italiana, durata venticinque anni. Un vuoto di legge, che come denunciava Amnesty all’indomani della sentenza di Cassazione sui maltrattamenti e abusi di Bolzaneto lo scorso 14 giugno, ha permesso ai responsabili di rimanere impuniti (come per Asti e le altre violenze di Genova). Torturatori impuniti. Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Carlo Saturno e tanti altre vittime del potere. Perché non si tratta di incidenti isolati o di mele marce, ma qualcosa di organizzato e di sistemico, un miscuglio di consenso e di identificazione dello Stato con la sicurezza e le proprie forze dell’ordine: un «sistema» che produce tortura, la promuove, la protegge. Come sottolinea con forza il libro del presidente di Antigone, che ci fa entrare nel cuore buio dello Stato e dei suoi poteri, nella sub-cultura che la leggittima.
Le zone d’ombre dell’impunità sono ancora tante, come le potenziali vittime fra le persone in custodia dallo Stato; carceri italiane sovraffollate, Cie con stranieri reclusi, ma anche respingimenti, che rimandano migranti verso Paesi (la Libia in quel caso) dove il rischio di torture è concreto.
La tortura quindi è sempre pronta a riproporsi. Per questo deve d’urgenza essere «nominata», come scrive Mauro Palma nella postfazione al libro di Gonnella, codificata, e introdotta come reato specifico nel codice penale nel Paese. È l’appello che rivolge, da un quarto di secolo, la società civile al legislatore italiano. Non a caso è la prima delle tre leggi di iniziative popolare lanciate con la campagna «Tre leggi per la Giustizia e i Diritti» promossa da Antigone, Unione Camere penali, decine di associazioni e sostenuta dai Radicali. Da domani, in 100 piazze di tutta Italia sarà possibile firmare per colmare un gravissimo ritardo. In molte città italiane, decine di banchetti di raccolta firme, eventi a tema, concerti, mentre a Roma si terrà una manifestazione concerto a piazza Farnese dalle 18 alle 23 e l’evento-spettacolo Di untori e altri demoni, con la regia di Nube Sandoval e Bernardo Rey, presso il Teatro Palladium e un monologo di Erri De Luca La slegatura.

l’Unità 25.6.13
“Le colpe dei padri”
Un uomo alla ricerca dell’identità perduta nel libro di Perissinotto
di Angelo Guglielmi


LE COLPE DEI PADRI
“Le colpe dei padri” di Alessandro Perissinotto pagine 316 euro 17,50 Piemme

ALESSANDRO PERISSINOTTO È UN BRAVO INSEGNANTE DI TEORIE E TECNICHE DELLA SCRITTURA E IL MODELLO CHE SUGGERISCE AI SUOI ALLIEVI E COMUNQUE cui certamente si attiene per il suo romanzo (Le colpe dei padri) è quello classico (oggi il più diffuso) : un intreccio a suspence che aggancia il lettore ribaltando le aspettative iniziali. Il protagonista è un ingegnere già al top della carriera come direttore di un importante industria metalmeccanica; lasciata la moglie vive con una bellissima studentessa di vent’anni più giovane di lui, ha un elegante appartamento a Torino in Piazza Castello,incontra una volta alla settimana senza convinto trasporto madre e padre, un ex dirigente della Fiat ormai in pensione. Ha tutti i motivi per essere tranquillamente soddisfatto. Ma a questo punto la storia abbandona il percorso in linea diretta e attraverso una trovata invero pretestuosa inizia una marcia di rovesciamento, di capovolgimento e di inversione. L’ingegnere ha la prima avvisaglia (all’inizio è solo un fastidioso disturbo) di essere protagonista di un caso di agnizione che, alla fine di un lungo (e invero anche questa volta artificioso) tragitto, lo costringe a prendere atto di non essere la persona che credeva di essere. Altro è il suo nome, altri i suoi genitori.
Per tutta durata del romanzo l’ingegnere protagonista vive prima con il sospetto poi con la certezza di avere un doppio con cui dover fare i conti e il suo smarrimento è tanto più acuto in quanto il suo doppio (che poi è lui stesso) è l’opposto di quel che crede di essere , giacché in realtà è il figlio naturale di due giovani esaltati di estrazione umile che, negli anni settanta al tempo del terrorismo, muoiono in un incidente di macchina inseguiti dalla polizia. Lui di appena sei anni in macchina con loro, miracolosamente si salva ma perde la memoria di chi fin lì è stato. Il lettore segue con piacere l’inatteso sviluppo dell’intreccio partecipando con curiosità alle vicende che fanno avanzare il processo di agnizione e condividendo il turbamento e lo smarrimento del protagonista. Ma a certo punto si chiede ma cosa in realtà sto leggendo? Dietro le appassionanti avventure che mi tengono stretto alla lettura che cosa c’è? Certo c’è il racconto di quel che è stato il nostro Paese negli ultimi 40 anni. La Fiat motore d’Italia, consistenti masse di popolo emigrano verso Torino,la realizzazione di importanti conquiste sociali frutto di valorose lotte sindacali e poi, all’arrivo di una nuova situazione nuova (che in verità non riguarda solo il nostro Paese), l’incapacità di affrontarla, il disfacimento, la crisi. Disordini, terrorismo, milioni di disoccupati, impotenza dei sindacati, disperazione, miseria.
In più, il racconto beneficia del vantaggio rappresentato dalla doppia identità del protagonista che in quanto direttore dello stabilimento e figlio (adottivo) di un ex dirigente della Fiat assicura il punto di vista dei «padroni» e in quanto figlio naturale di due giovani allo sbaraglio quello delle vittime.
Dunque un racconto sufficientemente ricco e convincente. Ma che cosa mi racconta che io non sapessi? Ho sempre saputo che i padroni sono spregiudicati e senza cuore e quando la multinazionale di cui sono a capo non produce ricavi sufficienti o inferiori a quelli garantiti dalla delocalizzazione, non esitano a trasferirla in Paesi anche lontani e in realtà a chiuderla. E so anche che le tecniche per raggiungere lo scopo (e mettere in cassa di integrazione e poi licenziare migliaia e migliaia di lavoratori) sono sofisticate e incomprensibili e si ispirano alla filosofia della «conquista del bene tramite il male». Né mi stupiscono le parole con cui «l’uomo grigio» ( il vero padrone dell’Azienda) apostrofa il sottoposto (in questo caso l’ingegnere che ha firmato i licenziamenti e oggi davanti al cadavere di una ragazza-madre lacerato dalle ruote di una Freccia rossa si riconosce colpevole e cede alla commozione): «Credi che non piacerebbe anche a me fare il generoso, quello che non licenzia mai nessuno? Hai presente quante sarebbero le famiglie sul lastrico? Se non ci fosse qualcuno che si prende la pena di fare il cattivo, di suicidi ne avremmo uno al giorno». Che è quanto in realtà oggi sta accadendo.
E non possiamo non apprezzare il tono profetico di queste parole nelle quali percepiamo la certezza che il vero proposito di Marchionne, nascosto dietro la promessa di prossimi investimenti miliardari, è di chiudere in tempi brevi Fiat Italia. Ma forse anche di questo avevamo più di un sospetto.
L’AGNIZIONE DEL PROTAGONISTA
Cosa altro ci resta del romanzo? Indubbiamente ci resta la trovata dell’agnizione che perfino nella versione Carrà riusciva a avvincerci; e ci resta soprattutto la figura del protagonista ingegnere alle prese con la gestione del suo doppio. Che tuttavia ci appare come un bamboccione in balia alle sue due identità tra le quali comprensibilmente non sa scegliere ma non sa nemmeno vivere la contraddizione con disperazione attiva.
Sì, a un certo punto (dopo il suicidio della ragazza madre) si martirizza privilegiando la sua identità di figlio di genitori del popolo (di cui non conserva nessun ricordo) rispetto a quella di figlio di un ex dirigente della Fiat. Ma non capiamo perché il problema che non gli dà tregua (e torna ripetutamente alla sua mente) è riuscire a sapere se i suoi genitori naturali facessero parte delle brigate rosse e soprattutto se avessero mai ucciso. La ragione è forse perché l’Azienda lo costringe a girare con una rivoltella sotto l’ascella da quando scritte di minacce di morte contro lui (più plateali che reali) sono apparse imbrattando i muri dello stabilimento? In realtà con la rivoltella lui ci gioca utilizzandola per rilassarsi nei momenti di ansia quando si precipita al poligono di tiro e spara contro le figure cartonate dietro le quali porrebbe immaginare (ma non lo fa) gli autori delle scritte. Ma è pur sempre una rivoltella. E se un giorno dovesse utilizzarla contro qualcuno? La teoria delle sincronie junghiane (più poveramente delle coincidenze) nella quale crede fideisticamente lo ammonisce che se i genitori naturali hanno ucciso, anche a lui può capitare di uccidere. Ma come: lui un assassino?! Di qui l’ossessione che lo perseguita e la domanda che continuamente si pone se i genitori hanno ucciso. L‘impossibile risposta consultato tutta la possibile documentazione lo lascia vuoto e inerte.
Altra e ultima cosa che ci resta del romanzo è la perfetta costruzione del narrato di cui l’autore non sbaglia un incastro come gli accadeva da bambino con il meccano. E ci mancherebbe altro! Perissinotto, come abbiamo già ricordato, è un professore di tecniche di scrittura serio e bravo. Conosce tutto gli artifici con cui dar seguito al meglio alla sua competenza. Come non essergli riconoscenti per l’oggetto pulito e di sicuro funzionamento che ha messo a disposizione di lettori golosi (di storie e di settimane enigmistiche)?

l’Unità 25.6.13
Il ricordo di Nilde Iotti, lo stile femminile della Repubblica
Con Boldrini e D’Alema la presentazione della biografia, che contiene anche le lettere d’amore scambiate con Palmiro Togliatti
di Bruno Gravagnuolo


C’è una lettera bellissima del 7 novembre 1946, di Togliatti a Nilde Iotti, che dice testualmente: «Una sola cosa mi guiderà...e voglio che tu lo sappia: il proposito di evitare a te che per l’affetto che tu mi porti, la tua vita possa essere più meschina di quella che la tua intelligenza e la tua devozione al partito promettono». Ecco, in queste parole c’è tutto, o almeno una parte rilevante del legame d’amore che legò il fondatore del «Partito nuovo» alla giovane deputata di Reggio Emilia. Totale autonomia e rispetto dell’altro. Stima, e promessa di autonomia reciproca, tra due persone che militavano per una grande causa ma non erano disposte a sacrificare i sentimenti sull’altare delle convenienze e delle ipocrisie, pur dovendoci fare i conti a quell’epoca. Dentro e fuori il Pci, e «un Pci persino più puritano del resto d’Italia», come ha ricordato Massimo D’Alema alla presentazione romana alla Camera del volume Donzelli da cui la lettera è tratta: Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile. Introduzione di Livia Turco (e il nostro giornale ne ha datto ampio conto in anticipo).
Non è un «siparietto» quella lettera, come tante altre, riscoperte da Luisa Lama nel volume, grazie al ruolo della «Fondazione Iotti» e di Marisa Malagoli Togliatti, figlia adottiva di Nilde e Palmiro. Ma è uno spiraglio per intravedere il destino, l’aura e la forza di una grande italiana, che poi sono i veri temi del libro, nonché quelli emersi nella serata alla Sala della Regina di Montecitorio. Con Laura Boldrini, Presidente della Camera, Livia Turco, D’Alema, Marisa Malagoli Togliatti, Rosa Russo Jervolino e l’autrice. Ma in che senso «grande italiana», di là dello stile e dell’autorevolezza che la giovane Iotti seppe via via conquistarsi, in un dopoguerra non certo amico dell’intelligenza femminile?
Bene, almeno su quattro fronti incide la Iotti, come hanno ricordato tutti i partecipanti e le partecipanti all’incontro. Centralità del Parlamento, e fissazione di un «canone» della democrazia fra opposizione e governo. Il che le verrà riconosciuto da tutti. Tenacia sulle battaglie di emancipazione femminile, sulle quali, a partire da «famiglie irregolari» e «divorzio» fu sempre tosta, malgrado la prudenza del suo compagno e del suo partito. E poi ancora, aggiunge d’Alema: costruzione sul territorio da cui veniva del «partito nuovo», «nel vivo di un scontro al calor bianco con l’estremismo del triangolo rosso erede di una Resistenza combattente e radicale» (nella quale cui la Iotti fu staffeta partigiana). Infine c’è il rapporto con i cattolici, di cui ha parlato Rosa Russo Jervolino, evocando la biografia della Iotti figlia di un ferroviere antifascista e socialista, e allevata da una madre che la manda a studiare alla Cattolica di Milano. Dove conoscerà La Pira e Dossetti, all’ombra dell’ormai filofascista Padre Agostino Gemelli, socialisteggiante nella prima gioventù. Quei La Pira e Dossetti che la Iotti reincontreà alla Costituente nella Commssione dei 75 dove sarà giovanissima protagonista redigente della Costituzione repubblicana, con posizioni avanzatissime per l’epoca. Dunque biografia politica completa, che riassume il meglio del Pci all’incrocio delle grandi ragioni che ne hanno fatto la forza nella storia d’Italia: emancipazione dei ceti subaltreni e diritti civili.
Ben per questo Nilde Iotti, come dicevano Laura Boldrini e Livia Turco, fu un modello femminile ineludibile per le donne italiane. Per lo charme, l’esperienza e la cultura con diresse da presidente la Camera dei deputati, e per tre volte tra il 1979 e il 1987. Insomma, impossibile non ammirarla. E soprattutto perché malgrado il «peso» che la relazione con Togliatti rappresentarono in quell’Italia la Iotti seppe fare grande politica senza mai stare all’ombra di nessuno, fosse anche quella di un grande leader amato (e odiato) italiano e internazionale come Togliatti. Perciò niente gossip nel libro che semmai usa le memorie private per far luce su una storia collettiva di civiltà democratica e che trovò in Nilde Iotti una cifra originale e altamente incisiva sul costume degli Italiani. E a proposito di tenacia, annota D’Alema, la Iotti duellò fino all’ultimo anche con Berlinguer: non condivideva la guerra civile col Psi e tentò di moderarla. Chiude Marisa Malagoli Togliatti: «Eravamo allegri in famiglia e non solenni. Amavamo, gatti, cani, animali ed escursioni. E soprattutto ci divertivamo». Già, chi ha detto che la «grande politica» voglia dire tetraggine?

Corriere 25.6.13
Arpinati silurato dal Duce e poi ucciso dai partigiani
Il ras dimenticato, sospetto ai fascisti e agli antifascisti
di Paolo Mieli


C'è un altro difficile 25 luglio nella vita di Benito Mussolini. Un 25 luglio nove anni prima di quello del 1943, nel corso del quale sarà sfiduciato dal Gran Consiglio del fascismo e fatto arrestare dal re Vittorio Emanuele III. È quello del 1934, in cui fu lui a decidere di mettere agli arresti (il giorno successivo) un'illustre personalità del regime: Leandro Arpinati, fascista della prim'ora, padrone del partito a Bologna e successivamente potentissimo sottosegretario all'Interno. L'influente uomo politico — ricostruisce Brunella Dalla Casa nell'affascinante libro Leandro Arpinati di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino — era caduto in disgrazia già da un anno. Precisamente dal 27 aprile del 1933, quando Mussolini lo aveva ricevuto per comunicargli seccamente che il segretario del Partito nazionale fascista, Achille Starace, non si sentiva più «in grado di collaborare» con lui e per rinfacciargli di aver sparlato della sua famiglia. Arpinati aveva immediatamente scritto un breve biglietto a Starace: «Se avessi avuto bisogno di un elemento per giudicare della bassezza degli uomini, tu me l'hai offerto; sei un mentitore e un vile». Questi era sul punto di sfidarlo a duello, ma Mussolini lo fermò, scrivendo a sua volta un altrettanto breve messaggio ad Arpinati: «Si è determinata una situazione per cui ti prego di rassegnare le tue dimissioni dalla carica di sottosegretario». E Arpinati obbedì su due piedi. «Con immutata devozione», scrisse
Finiva quel giorno la vita politica dell'uomo di Civitella, che da sindacalista a Torino era stato dapprima socialista, poi anarchico rivoluzionario: una carriera che era passata di successo in successo. Nel 1910 era avvenuto l'incontro tra lui diciottenne e Mussolini, che allora di anni ne aveva 27, all'epoca segretario della sezione socialista di Forlì e direttore del settimanale «La Lotta di Classe». Da quel momento Arpinati avrebbe seguito Mussolini in ogni passaggio della sua vita (o quasi), a cominciare da quello che lo portò a essere uno dei più importanti leader interventisti (anche se poi non prese parte attiva alla guerra, essendo stato «reclutato», tra il 1915 e il 1918, come «ferroviere elettricista» alla stazione di Bologna). «L'interventista non intervenuto», lo avrebbe definito sarcasticamente il suo avversario Giorgio Pini, precisando che negli anni di guerra la sua missione speciale era stata quella di accendere le luci la sera e spegnerle la mattina dopo.
Anche l'adesione di Arpinati al fascismo fu in leggero ritardo rispetto ai giorni della fondazione (piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919): fece la sua prima apparizione pubblica a fianco di Mussolini nell'ottobre di quello stesso anno, al Congresso di Firenze. E da quel momento fu il principale organizzatore dello squadrismo nella sua terra, distinguendosi, il 21 novembre del 1920, nella guida dell'assalto a Palazzo d'Accursio, il municipio di Bologna in mano alle sinistre: la spedizione provocò undici morti (tutti socialisti, tranne il consigliere liberale Giulio Giordani) e una sessantina di feriti. Innumerevoli furono nei mesi successivi le aggressioni a parlamentari socialisti prima e comunisti poi, case del popolo, sedi di partito, capilega, treni che trasportavano operai, singoli militanti. Al punto che qualcuno volle scorgere un richiamo nel testo che Mussolini gli inviò per apprezzare il modo in cui era stato ricevuto a Bologna nell'aprile del 1921: «Carissimo Arpinati, permettimi di ringraziarti per le accoglienze trionfali. È anche stato il trionfo della tua fervida attività e di quella dei tuoi amici che mi sono presenti. Ricorderò per sempre le giornate del fascismo bolognese. Ora ti prego di consolidare il movimento, seguendo queste direttive generali: 1) limitare l'uso della violenza allo strettamente necessario e impiegarla cavallerescamente; 2) penetrare nelle campagne».
Quando Mussolini siglò il «patto di pacificazione» con i socialisti, Arpinati si oppose e continuò a fare di testa sua, subendo per questo, verso la fine del 1921, un'emarginazione dalla guida del partito. Ma già agli inizi del '22 (l'anno della marcia su Roma), Mussolini lo richiamò al suo posto e gli consentì di portare il suo «stile» anche in Parlamento, dove il 9 agosto Arpinati fu fermato mentre era sul punto di esplodere un colpo di pistola contro il deputato comunista Luigi Repossi. In quella estate fu lui stesso oggetto di un attentato a Cesenatico, dove, al suo posto, rimase ucciso il fascista bolognese Clearco Montanari. Fu poi a fianco di Mussolini senza tentennamenti nella crisi successiva all'uccisione di Giacomo Matteotti e in prima fila nella battaglia interna contro l'ala sindacalista del Pnf.
In tutti quegli anni, Arpinati aveva mantenuto un profondo rapporto di amicizia con un avvocato socialista, Torquato Nanni, che, pur senza aderire mai al Partito fascista, era stato anche lui amico di Mussolini, interventista e redattore del «Popolo d'Italia». Circostanze che però non attenuavano l'odio nei suoi confronti da parte dei mussoliniani scalmanati: Nanni era bersaglio fisso di molti fascisti toscani e romagnoli, Amerigo Dumini, Enrico Manica, Umberto Odett Santini, Dino Perrone Compagni. E di Giovanni Bertini, che, nei giorni della marcia su Roma, alla guida di un manipolo di camicie nere lo malmenò e lo sequestrò, dopo aver distrutto il suo studio. Arpinati intervenne per farlo liberare e un movimento, «fascisti Alta Romagna», lo accusò di voler «proteggere i farabutti». Lui rispose dando del «disonesto» a Perrone Compagni e del «camorrista» a Odett Santini, con ciò lasciando una scia di ruggine tra sé e i più intransigenti tra i fascisti tosco-romagnoli. Tracce di questa ruggine si ritroveranno qualche anno dopo, nel novembre del 1925, in alcuni numeri clandestini della rivista «Fiamma», settimanale del fascio imolese, nei quali lo si accuserà di essere «schiavo della plutocrazia meno onesta» e lo si definirà «incapace, dal punto di vista politico e sindacale, di reggere il posto che occupa». Ma Arpinati non si lascerà intimidire e anzi, nel 1927, suggerirà all'amico socialista Torquato Nanni di scrivere un libro su di lui e sul fascismo bolognese, libro che però, pur completato, non vedrà mai la luce per un intervento di Arnaldo Mussolini, buon amico di entrambi. In quel libro Nanni avrebbe dovuto spiegare il perché del successo di Arpinati, che nella seconda metà degli anni Venti divenne l'uomo più potente e osannato di Bologna: divenne comproprietario e consigliere delegato del «Resto del Carlino»; fondò il più grande stadio di calcio d'Italia (il «Littoriale»); attuò la riforma tranviaria con il raddoppio della rete; avviò un piano di costruzione di case popolari, edifici scolastici, pavimentazione della città e fognature; si dedicò a un nuovo piano di illuminazione delle strade, alla costituzione di una scuola superiore di commercio, all'avvio dei lavori per la funivia di San Luca, alla realizzazione dell'ospedale Pizzardi e della Clinica psichiatrica, alla costruzione di un nuovo aeroporto militare e a una quantità di altre iniziative che non ebbe uguale né prima né dopo di lui.
Arpinati si sentiva amato dai suoi conterranei e perciò onnipotente. Il 31 gennaio del 1927, il prefetto di Bologna inviò al ministro dell'Interno una relazione in cui si raccontava che, a un banchetto con Torquato Nanni, il ras gli offrì su un vassoio «quelle stesse manette colle quali nella giornata della marcia su Roma la squadra di azione fascista di Civitella ebbe a trarlo in arresto». Un gesto di sfida che, ancora secondo il prefetto, avrebbe potuto «incoraggiare elementi dissidenti sempre pronti a insorgere e a stringersi attorno a lui per muovere battaglia alla Federazione provinciale fascista»; talché molti componenti della Federazione si erano mostrati «indignati e allarmati».
Anche sulla base di rapporti di questo tipo, Mussolini aveva iniziato a diffidare dello strapotere locale di Arpinati e nel settembre del 1929 lo aveva chiamato a Roma come sottosegretario all'Interno. Ma a Roma Arpinati aveva legato con pochi, continuando ad avere la testa e il cuore nella sua Bologna. Prendeva atteggiamenti in aperta dissonanza con il regime: contro i Patti lateranensi, contro Giovanni Gentile per la gestione della Treccani, a favore di provvedimenti di clemenza nei confronti di alcuni antifascisti, contro il segretario del Pnf Giovanni Giuriati e (errore che, come si è visto all'inizio, gli fu fatale) contro il suo successore Achille Starace. Per di più qualcuno giurava di avergli sentito pronunciare parole come queste: «L'Italia non è un feudo della famiglia Mussolini!»; «A Bologna posso fare tutto quello che voglio perché Mussolini l'ho in pugno». Annotò Giovanni Giuriati: «Il tono che usava per parlare a Mussolini non somigliava affatto a quello in uso da parte dei collaboratori del Duce, me compreso». Da lui ispirato, Leo Longanesi, suo buon amico, sulle pagine della rivista «L'Assalto» guidava una fronda anticoncordataria contro le pretese dell'Azione cattolica.
In un discorso del 9 agosto 1931 a Pistoia, Arpinati si dichiarò liberista e denunciò quella che, nel nome del corporativismo, gli appariva come una «concezione filistea, piccolo borghese della Rivoluzione fascista da respingere alla stregua di una parodia e di un insulto». La sua presenza a Bologna il 14 maggio del 1931, allorché Arturo Toscanini fu aggredito da un gruppo di fascisti per essersi rifiutato di far suonare «Giovinezza» e la «Marcia reale», fu infine sfruttata per muovergli l'accusa di aver sottovalutato la portata degli eventi. E ciò fu in qualche modo provocato dalla circostanza che lo stesso Toscanini, in una lettera a Mussolini, volle precisare di essere stato ingiuriato e colpito «da una masnada inqualificabile essendo presente in Bologna il sottosegretario all'Interno». Come se tra le due cose ci fosse un rapporto di causa ed effetto. Stavolta Longanesi, che aveva approvato lo schiaffo a Toscanini, fu costretto a dimettersi da «L'Assalto». Al che Arpinati, senza darsi per vinto, iniziò una battaglia per far promuovere un altro giornalista amico, Mario Missiroli, alla direzione del «Resto del Carlino» costringendo il partito a rilasciargli la tessera. E fu questo il pretesto con il quale Starace mosse all'attacco contro di lui, ottenendone la testa da Mussolini.
La storia avrebbe anche potuto concludersi qui, nel 1933. Avrebbe potuto se solo Arpinati si fosse dato per vinto. Probabilmente qualche anno dopo Mussolini lo avrebbe anche recuperato. Ma Arpinati non si rassegnò e conobbe una vita politica di altri dodici anni, nel corso dei quali si allontanò sempre più dal regime mussoliniano e si avvicinò per gradi ai lidi dell'antifascismo. Fece l'errore di tornare subito a Bologna. Ed ecco che un informatore di polizia segnalò: «Adesso si dice che Arpinati è veramente silurato e pedinato dalla polizia, perché si teme che voglia costituirsi nel bolognese una roccaforte come quella di Farinacci a Cremona». E in effetti ogni occasione era buona per raccogliere attorno a sé gli «arpinatiani», compreso il funerale di un cognato, il 25 marzo del 1934. Passato qualche tempo, Mussolini decise di farlo arrestare. Per l'arresto, racconta Brunella Dalla Casa, «si fece ricorso a uno spiegamento di forze spropositato, difficilmente spiegabile con la facilità di un'operazione che, se opportunamente preventivata e controllata, avrebbe potuto essere eseguita con poche unità»: furono mobilitati un'ottantina di carabinieri e due torpedoni di agenti di pubblica sicurezza! E, a riprova del clima psicologico in cui viveva la famiglia di Arpinati, la moglie avrebbe detto agli agenti che lo arrestavano: «Non fategli fare la fine di Matteotti». A Bologna furono diffuse ad arte voci che parlavano addirittura di un suo coinvolgimento, con il ruolo di «organizzatore occulto», nell'attentato a Mussolini dell'ottobre 1926 a opera del giovane Anteo Zamboni. Ad Arpinati fu inflitta la pena (massima) di cinque anni di confino di polizia, dapprima nell'isola di Lipari, poi nella sua villa di Malacappa. Di qui, con l'aiuto di Torquato Nanni, prese a tessere la tela dei rapporti, dapprincipio cauti poi sempre meno, con gli antifascisti. Quando nel 1940 l'Italia entrò nella Seconda guerra mondiale, chiese, a 48 anni, di arruolarsi. Glielo permisero, ma come soldato semplice, talché fu l'unico soldato semplice nato nel 1892 della sua unità. Man mano che si avvicinava il 25 luglio del 1943, la caduta del fascismo, cercò contatti con Bonomi, De Gasperi, Sforza e persino con il re, che glieli rifiutò perché lo considerava «troppo notoriamente antifascista». Ivanoe Bonomi, invece, glieli accordò su intercessione del socialista Enrico Bassi, e gli rivelò i piani di cui era a conoscenza. In seguito ebbe relazioni con due congiurati del 25 luglio, Dino Grandi e Galeazzo Ciano.
Quando giunse il giorno fatidico della caduta di Mussolini, si pronunciò contro l'incarico al maresciallo Badoglio e la prosecuzione della guerra a fianco dell'alleato tedesco. E si sorprese assai che le autorità postfasciste lo tenessero nel conto di un profittatore di regime e disponessero il sequestro dei suoi averi, a cominciare dalla villa di Malacappa. Ma non fecero in tempo. L'8 settembre fu l'armistizio, l'Italia si divise in due, Mussolini fu liberato dai tedeschi da Campo Imperatore e a Rocca delle Caminate, dove trovò rifugio, volle incontrare Arpinati per chiedergli di unirsi a lui. Arpinati rispose di no e, ancorché vivesse a Bologna, rifiutò di schierarsi dalla parte della Repubblica sociale italiana. Qualche tempo dopo Mussolini, conversando con il giornalista Giovannini, così disse di lui: «Per ciò che riguarda Arpinati, la colpa è mia. Se non ci fossimo incontrati, sarebbe probabilmente rimasto un buono e innocuo anarchico. Si era trasformato in un cattivo fascista e ora è liberale, in ritardo di cinquant'anni. Mi dicono che treschi coi partigiani. Non so se spera in qualcosa; in tal caso non ha capito niente».
Quel «mi dicono» di Mussolini corrispondeva al vero. Arpinati «trescava», eccome, con i partigiani, nonché con movimenti antifascisti come l'Unione dei lavoratori italiani di Giusto Tolloy. E anche con gli Alleati. Ebbe un incontro con il generale Philip Neame, che però non ne ricavò una buona impressione e lo considerò un «tipico boss politico», «prodotto del regime fascista», animato «dal desiderio di tenere il piede in due scarpe». Torquato Nanni, nel frattempo, dopo aver subito anche lui anni e anni di confino (a Lanusei, in provincia di Nuoro), adesso si vedeva riconoscere i titoli del suo rango di socialista e organizzava un gruppo resistenziale nella valle del Bidente. Ma i fascisti della Rsi avevano fatto ripetute irruzioni nella sua casa, costringendolo a cercare rifugio nella villa di Arpinati a Malacappa (la figlia Giancarla Arpinati ha parlato di questa stagione in Malacappa. Diario di una ragazza 1943-1945, pubblicato dal Mulino). Si era così ricostituito il loro antico sodalizio e i loro contatti con gli antifascisti si intensificarono sempre di più. Con l'azionista Bruno Angeletti, con l'ex ufficiale Riccardo Fedel («Libero»), con i socialisti Enrico Bassi e Clodoveo Bonazzi, con il popolare Fulvio Milani, con Silvio Corbari, vicino al Pci. A proposito del Partito comunista, Giovanni Martini, catturato a Bologna il 1° dicembre del 1944 e rinchiuso nella caserma delle Brigate nere di via Borgolocchi, prima di essere fucilato (il 15 dicembre), dichiara ai suoi torturatori che Arpinati li aveva traditi e già da un anno aveva presentato domanda di iscrizione al partito della falce e martello. Ma, avverte Brunella Dalla Casa, «le condizioni in cui queste dichiarazioni furono fatte non consentono di dare loro alcun valore probatorio». Arpinati, del resto, continuava a dichiararsi anticomunista e il Pci era assai diffidente nei suoi confronti. Il comunista Luigi Gaiani ricorda di aver saputo da un compagno di partito, Umberto Ghini, che nel febbraio del '44 Arpinati aveva offerto cento quintali di farina alle organizzazioni comuniste e il partito aveva ordinato loro di non accettare la donazione. Ma Arpinati, man mano che trascorrono i mesi, si impegna sempre di più a favore della Resistenza. Scriveva di lui Tonino Spazzoli, che gli aveva reso possibili alcuni dei numerosi abboccamenti con gli antifascisti della sua terra: «Leandro desta l'attenzione, l'ammirazione di tutti i sani, cioè i galantuomini, politici e non. Aspettano una parola sua, desiderano un consiglio, invocano l'intervento. Tira avanti come può, difendendosi un po' da tutti e cercando solo di risparmiare sangue che qua scorre troppo per la cattiveria, l'incomprensione di tanti. Ed è riuscito a salvare molte persone oltre che dalle prigioni anche, con la sua autorevolezza, da più brutti guai». Qualcuno — ma in merito le testimonianze non sono univoche — pensa anche di offrirgli il comando di una banda partigiana. Ma lui rimane a Malacappa, nonostante l'amico giornalista Mario Missiroli gli dica che è imprudente restare in quel posto. Lì, la sua stessa villa si trasforma in una piccola centrale della Resistenza: vi sono nascosti «Augusto» e «Gigi», due giovani dell'Intelligence inglese a cui ha dato riparo, il «dottor Bernardo» (l'azionista Dino Zanobetti) e molti sfollati. E ovviamente l'amico di una vita, Torquato Nanni. Che quando giunge il giorno della liberazione (qui 72 ore prima che a Milano) lo abbraccia ed esulta: «Leandro, ce l'abbiamo fatta!»
Fatta… In quel momento, scrive Brunella Dalla Casa, Arpinati «era forse convinto di dover affrontare una fase giudiziale, per il suo passato di gerarca fascista e per le accuse di profitti di regime che già gli erano state intentate durante il periodo badogliano, ma riteneva anche che il suo allontanamento ormai più che decennale dal potere fascista e il rifiuto da lui opposto al richiamo di Mussolini, e anzi l'appoggio dato in più occasioni, direttamente e indirettamente, alla Resistenza e all'opposizione antifascista lo avessero ormai emancipato dal suo passato politico e assicurato contro possibili rappresaglie e vendette». Ad ogni buon conto, poi, Arpinati «si fidava delle rassicurazioni raccolte negli ambienti della Resistenza e del Cln». Ma all'improvviso la mattina di quel 22 aprile 1945, mentre tutto procedeva nella più assoluta tranquillità, si presentò alla villa un furgoncino dell'Unione nazionale di protezione antiaerea, da cui scesero quattro uomini e due donne. Chiesero di Arpinati. Nanni, che domandò loro di dire chi erano e a nome di chi fossero in quel luogo, fu colpito alla testa con il calcio di un mitra. A quel punto Arpinati si fece avanti e fu ucciso su due piedi. Dopodiché, prima che i responsabili lasciassero in fretta la scena del delitto, anche Nanni, che giaceva a terra svenuto, fu ammazzato con un colpo dietro l'orecchio. Una ragazza del commando urlò che quell'assassinio a freddo era stato compiuto per vendicare l'uccisione del proprio padre. Chi fossero quei sei, non si è mai saputo. Quello stesso giorno la radio diede notizia della fucilazione del «gerarca fascista» e comparvero a Bologna manifesti che così annunciavano l'avvenuta esecuzione: «Arpinati ucciso a furore di popolo». Qualche giorno dopo, l'VIII armata annunciò l'uccisione di Arpinati e del suo «segretario» (sarebbe il socialista Torquato Nanni) da parte di «patrioti». Ma i giornali locali, tra cui il «Corriere dell'Emilia» — che aveva momentaneamente preso il posto del «Resto del Carlino» —, ignorarono l'episodio.
La famiglia di Arpinati restò attonita. Fu il figlio di Nanni, Torquato jr, a non darsi per vinto e a chiedere lumi sull'uccisione del padre. Le indagini furono affidate a un commissario che già era stato fascista e che non venne a capo di niente. Fu messa in giro la voce che si era trattato di un regolamento di conti di fascisti fanatici, che avevano voluto vendicare il tradimento del ras romagnolo. Il che avrebbe potuto spiegare perché gli assassini non si fossero fatti problemi a uccidere anche Nanni. Solo nel 1989, in occasione di un convegno promosso dal comune di Santa Sofia sulla figura del proprio cittadino Torquato Nanni, toccò a Luciano Bergonzini riaprire il caso. L'uccisore di quel 22 aprile di 44 anni prima fu identificato in Luigi Borghi, nome di battaglia «Ultimo». Un personaggio irregolare e violento, il cui nome era stato fatto filtrare dal gruppo comunista a cui faceva capo. Quel nome solo, però. Degli altri non si è mai saputo nulla. «Il perché di questa omissione», scrive Brunella Dalla Casa, «rimane oscuro, dal momento che i criteri di identificazione che sono valsi per indicare Borghi avrebbero potuto essere utilizzati anche per individuare gli altri componenti del gruppo, che invece si è preferito lasciare nell'ombra». Per la cronaca, Borghi si macchiò di numerosi altri delitti nel dopoguerra, per questo fu portato in giudizio e condannato (nel 1953) a poco meno di 22 anni di reclusione, che per effetto di condoni si ridussero a sei. Ma niente fu fatto per Arpinati e Nanni. Va detto, afferma Brunella Dalla Casa che «se si analizzano a posteriori le caratteristiche e i contesti delle uccisioni attribuite a Borghi e alla sua banda, l'uccisione di Arpinati (dal momento che quella di Nanni ha l'aria di un "incidente" di percorso) deve aver richiesto, rispetto a quelle, un di più di decisione politica che si stenta ad attribuire alla semplice volontà di un singolo partigiano di un gruppo periferico, per quanto questi possa essere stato un individuo violento, caratterialmente incontrollato e incontrollabile».
Nessun colpo di testa da parte di un gruppetto di disperati, perciò. Ma un'azione ordinata dall'alto, secondo i familiari, che però non sono stati in grado di addurre prove definitive, dal capo partigiano Ilio Barontini. E perché Barontini avrebbe ordinato quella subitanea uccisione di Arpinati e Nanni? Forse per il fatto che qualcuno temeva Arpinati potesse svolgere un ruolo in quello che si annunciava come un tormentato dopoguerra. A questo proposito la Dalla Casa riporta una testimonianza del segretario socialista del Cln bolognese, Verenin Grazia, nella quale si menziona il fatto che «da parte di elementi anticomunisti, al fine di "tenere testa", come dicevano, al socialismo, si fosse prospettata agli Alleati persino la possibilità di riportare alla ribalta l'ex gerarca e ministro fascista Leandro Arpinati, l'uomo che sparse il terrore e il sangue a Bologna e in Emilia, capace di trascinarsi dietro un considerevole seguito di forze contemporaneamente antifasciste e anticomuniste». Del resto, proseguiva Verenin Grazia, «Arpinati era già in contatto con personalità non secondarie del movimento antifascista, presso le quali vantava, come titoli, il dissidio con Mussolini del 1933 e il rifiuto dato ai fascisti repubblichini subito dopo l'8 settembre 1943, quando pare gli proponessero un alto incarico nella Repubblica sociale». In ogni caso il primo ad accorgersi di qualche conto che non tornava in quella vicenda era stato Enzo Biagi, in un reportage pubblicato su «Gazzetta sera» il 24-25 aprile 1947 con il titolo: Arpinati strano gerarca.
Singolare destino quello di Arpinati, conclude Brunella Dalla Casa, «l'essere finito dopo gli onori e gli allori di una prima fulgida stagione politica nel fascismo, in un limbo di silenzio e di opacità destinato a durare oltre un decennio per l'ostracismo decretato contro di lui da Mussolini e da Starace, e anche negli anni a venire, sia per la memoria mai rimossa del suo violento passato sia per l'innominabilità della sua morte, le cui circostanze (inclusa quella della morte di un amico innocente) favorivano un imbarazzato riserbo su tutto, anche sull'ultima fase della sua vita, spesa al di fuori del fascismo e, per molte scelte, contro di esso… In questo consiste l'anomalia permanente di Arpinati, guardato al contempo con sospetto dai fascisti, che lo considerano un traditore e un "voltagabbana", e dagli antifascisti, che non dimenticano il ruolo primario da lui avuto nell'affermazione del primo fascismo e del regime». «Arpinati si illude, perché anche senza saperlo è imbarcato sulla nostra stessa barca, e quando affonderemo noi, verrà a fondo anche lui», aveva confidato Benito Mussolini poco prima di essere ucciso. Di essere ucciso sì, ma qualche giorno dopo che quello stesso destino — come aveva previsto — era toccato a Leandro Arpinati.

Repubblica Salute 25.6.13
Panico
Cento sintomi per un pericolo che non esiste
di Anna Rita Cillis


Secondo alcune proiezioni, almeno 10 milioni di italiani l’avrebbero provato
almeno una volta nella vita
Ma sono due milioni coloro che hanno un vero e proprio disturbo: colpisce all’improvviso senza un apparente motivo
Le cure mirate, le strategie per affrontare la situazione ed avere auto-controllo

Chi l’ha provato non lo scorda più: è come un dado lanciato nel vuoto che spariglia tutto. La sua sigla è Dap, disturbo da attacchi di panico. E rende i giorni di chi ne soffre un inferno: tachicardia, tremori, un senso di oppressione al petto, giramenti di testa, dolori addominali, nausea. Scatenando varie fobie (come la paura degli spazi aperti o chiusi, agorafobia e claustrofobia) e perdendo la propria autonomia. Poi quel terrore che si cementa nell’anima: la paura di avere paura di nuovo, per sempre.
In realtà, rivela Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Psichiatria e Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano, i sintomi «sono oltre cento anche se poi quelli più frequenti e identificabili sono una ventina». Ora, dopo anni di studi, gli esperti sono concordi su una cosa: esiste una base biologica. «Spesso in una famiglia a soffrirne sono più d’uno: madre e figlio, nonno e nipote, anche se non è sempre così», aggiunge Mencacci.
Una simulazione di morte — come viene etichettato spesso da chi è costretto a farne i conti — il disturbo d’ansia prende all’improvviso, senza un apparente motivo, anche di notte. Un campanello d’allarme che scatta in un angolo quasi nascosto del nostro cervello per avvertirci di un imminente pericolo che, però, non c’è. Un meccanismo di allerta dei sistemi vitali. E a esserne vittime sono in genere più le donne che gli uomini e i giovani dai 15 ai 30 anni. Due le principali strategie d’attacco messe in campo oggi: l’assunzione di particolari antidepressivi e la psicoterapia. Con una sorpresa: «Alcuni studi hanno dimostrato che diverse tecniche di respirazione sono utili, integrate alla psicoterapia, come ad esempio lo yoga», aggiunge Mencacci. (info: www.iahv-italia.org) Per Antonio Tundo, direttore dell’Istituto di psicopatologia di Roma, «la cura più rapida resta quella farmacologica. Oggi si utilizzano gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, triciclici e inibitori delle monoaminossidasi in grado di bloccare gli attacchi di panico nel 70-80 per cento dei casi, di migliorare l’ansia anticipatoria e gli evitamenti di alcune situazioni che fanno paura, tipici di chi ne soffre; mentre la psicoterapia cognitivo comportamentale, per i casi più complessi è in grado di migliorare il quadro generale dando una spinta essenziale all’autocontrollo dei sintomi fisici, fornendo delle strategie per affrontare le situazioni di cui ha paura».
Un convegno che si è appena concluso nella Capitale organizzato dell’associazione Alpa, Liberi dal panico e dall’Ansia (si occupa di gruppi di auto aiuto, ha una help line in diverse città e offre diversi servizi) ha messo l’accento anche su alcuni dati: «Almeno 10 milioni di italiani hanno vissuto l’esperienza dell’attacco di panico e oltre due milioni hanno sviluppato un vero e proprio disturbo con attacchi ripetuti», sostiene Giampaolo Perna, psichiatra e presidente del Comitato dell’associazione. Che spiega: «Da un’analisi della letteratura scientifica emerge che il 20-40 per cento dei pazienti trattati con i farmaci non risponde alle terapie, come il 30-40 per cento di chi ha seguito un percorso cognitivo comportamentale ». Bassa anche la possibilità di trovare una via d’uscita a distanza di anni per chi sbaglia cura. «Potrebbero sembrare dei dati sconfortanti ma in realtà sono più il risultato di approcci al disturbo inadeguati che l’effetto della reale resistenza del disturbo alle cure», conferma Perna per il quale «un passo fondamentale è identificare non solo l’attacco vero e proprio ma anche l’ombra del panico», ovvero di tutti quei sintomi che l’accompagnano. E una volta avuta la certezza che non esistono altre patologie «bisogna puntare a terapie basate sulle evidenze scientifiche come quella farmacologica con inibitori della ricaptazione della serotonina e la psicoterapia breve a cui vanno aggiunti stili di vita antipanico, come il non fumare e una regolare attività fisica».

Repubblica Salute 25.6.13
I racconti allo specialista durante le sedute: le varie forme dell’angoscia e le cause
Alessia, 17 anni, in preda alla paura e l’incapacità di restare da sola
di Anna Oliveiro Ferraris


Alessia ha quasi diciassette anni. È una ragazza carina, riesce bene a scuola, ha degli amici di lunga data, dei genitori amorevoli e nulla lascerebbe pensare, per chi la osservi dall’esterno, che sia tormentata. E invece la sua vita è dominata dalle paure, dall’insicurezza e dall’angoscia. (...) Tutto la preoccupa: la sua riuscita scolastica, il suo avvenire sentimentale, il giudizio degli altri, le violenze (in particolare quelle sessuali), le ma-lattie, la morte, l’invecchiamento dei genitori. Si lamenta spesso di mal di testa e di crampi addominali. «Non c’è nulla di organico», ha assicurato il medico, «si ascolta troppo». Allo psicoterapeuta confida di essere sempre tesa, ansiosa e di non sopportare di restare sola. Alcuni episodi mostrano la misura del disagio. Tempo fa, trovandosi sola in casa e sentendosi molto agitata, si precipitò in strada alla ricerca affannosa di sua madre, che con un’amica era andata in centro per acquisti. Dopo averla cercata in diversi negozi senza trovarla, Alessia entrò come una bomba in farmacia accusando un malore. «Ho avuto paura di morire», spiega al terapeuta, «sudavo, avevo un dolore allo stomaco, il cuore andava a mille e le gambe non mi reggevano ». (...) La presenza degli altri è, insieme al consumo di alcol, il rimedio che Alessia utilizza, ormai da alcuni anni, per placare l’angoscia. Questa incapacità distar sola, però, e le crisi di panico a essa collegate, la portano ad attaccarsi agli altri (mamma, amiche) con una insistenza eccessiva e a dipendere in tutto e per tutto da loro (...) Le capita di pensare di essere pazza e questo pensiero aumenta la sua paura. (...) L’angoscia è un sentimento di insicurezza interna indefinibile ma reale, che può manifestarsi in varie forme: dall’agitazione ai dolori fisici, da sensazioni di soffocamento a percezioni di estraneità. Nell’adolescenza l’angoscia può avere molteplici origini. La tranquillità del bambino che, sentendosi protetto dai genitori, cresce in un clima sereno può dileguarsi all’improvviso quando il giovane si trova a confrontarsi, da solo, con le proprie fragilità. (...) Sono fonte di preoccupazione anche le trasformazioni cui va incontro il corpo e la sessualità. (...) L’angoscia, però, che nasce da questo stato di tensione, presenta alti e bassi – in taluni momenti è più acuta che in altri – cosicché non sempre si riesce a capire quali siano le cause dirette o indirette che la provocano. (...) Se l’angoscia impedisce all’adolescente (...) di sentirsi bene e in salute e se, come nel caso di Alessia, (...) obbliga il giovane a dipendere dagli altri e/o da sostanze come l’alcol, i farmaci o le droghe, allora è urgente trovare il modo di uscire da questa specie di camicia di forza, frutto in alcuni casi di uno stile educativo iperprotettivo, in altri, di una eccessiva impressionabilità, in altri ancora di entrambi i fattori. (...)
* Psicologia dello sviluppo univ. Sapienza, Roma (l’articolo integrale su Psicologia Contemporanea luglio-agosto)

Repubblica Salute 25.6.13
Gli effetti dell’approccio cognitivo-comportamentale su ansia e qualità della vita
Tra farmaci e psicoterapia di gruppo i confronti sull’efficacia delle cure
di Francesco Cro


Per le forme più lievi del disturbo da attacchi di panico potrebbe essere sufficiente la sola terapia farmacologica, con antidepressivi che aumentano il livello di serotonina cerebrale; ma se al disturbo si associa l’agorafobia (paura di trovarsi all’aperto, innescata dal timore che nuovi attacchi possano presentarsi in una situazione non protetta) è meglio associare al farmaco una psicoterapia cognitivo- comportamentale. Sono le conclusioni cui sono giunti i ricercatori dell’università di Groningen (Olanda), coordinati dalla psicologa Franske van Apeldoorn, che hanno seguito per un anno 151 pazienti confrontando l’efficacia dei due trattamenti, psicologico e farmacologico, da soli o in associazione. Il farmaco garantisce una remissione più rapida dei sintomi, e se mantenuto per un periodo sufficientemente lungo protegge dalle ricadute anche dopo la sua sospensione, ma da solo non riesce a ridare fiducia ai pazienti che hanno sviluppato la paura di uscire di casa.
Oltre che nella classica versione individuale, la psicoterapia cognitivocomportamentale può essere efficace anche in un contesto di gruppo, più praticabile nei servizi pubblici, come dimostrato dalla psichiatra Concettina Mastrocinque, del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura dell’Azienda Usl 5 di Pisa, che ha documentato i buoni risultati, sui sintomi ansiosi e sulla qualità della vita, di dieci sedute psicoterapeutiche di gruppo di due ore ciascuna. L’intervento terapeutico può rivestire un’importanza cruciale, se condotto intempo, nel modificare il decorso del disturbo e nell’impedire la sua cronicizzazione: studi della Temple University di Philadelphia e del Centro per l’Ansia e i Disturbi Correlati dell’Università di Boston hanno dimostrato l’efficacia della psicoterapia, in termini di miglioramento sintomatologico a lungo termine, su bambini e adolescenti.
Anche il trattamento delle future mamme è di grande importanza, visto l’effetto negativo del panico sulla lunghezza della gravidanza e sul peso del nascituro, segnalato da Faruk Uguz, professore di psichiatria all’Università di Konya (Turchia). L’efficacia degli interventi terapeutici può essere dimostrata anche con riscontri neurofisiologici: i ricercatori del Cheng Hsin General Hospital di Taipei hanno dimostrato, con la risonanza magnetica, cambiamenti microstrutturali nella sostanza bianca cerebrale associati a un buon effetto della terapia farmacologica, mentre la psichiatra Dana Kamaradova, dell’ospedale universitario di Olomouc (Repubblica Ceca), ha osservato con l’elettroencefalogramma una diminuzione delle onde alfa a livello dei lobi occipitali e un aumento di quelle beta nella corteccia cingolata posteriore nei pazienti che hanno risposto positivamente alla terapia cognitivocomportamentale. La psicoterapia migliora anche le sensazioni somatiche associate all’attacco di panico, come il dolore toracico, che spesso spinge i pazienti a recarsi in pronto soccorso per il timore di avere un infarto: la psichiatra Marleen van Beek, dell’università Radboud di Nijmegen (Olanda), ha ottenuto un significativo miglioramento della sintomatologia ansiosa in pazienti con dolore toracico con un programma di sole dodici sedute.
*Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

Repubblica 25.6.13
Eugenio Gaburri, un battitore libero della psicoanalisi
Il libro postumo dello studioso scomparso di recente
di Massimo Recalcati


Non sono in molti i nomi degli psicoanalisti italiani che hanno saputo fare avanzare la dottrina della psicoanalisi in modo originale e creativo. Franco Fornari e Elvio Fachinelli si distinguono probabilmente su tutti. Ma al loro fianco andrebbe inserito anche il nome di Eugenio Gaburri, scomparso all’età di 78 anni il 6 dicembre del 2012 a Milano, dopo una lunga malattia vissuta con grande dignità e coraggio. Medico-psichiatra, formatosi alla durezza del lavoro istituzionale a Varese negli anni Sessanta, svolse la sua formazione tra Milano e Ginevra e fu uno degli psicoanalisti italiani che maggiormente si entusiasmarono per il lavoro clinico coi gruppi. Battitore libero, insofferente alle teorizzazioni scolastiche della dottrina colpevoli di irrigidire i concetti separandoli dall’esperienza viva dell’analisi, fu uno dei più sensibili lettori di Wilfred Bion che contribuì, insieme a Francesco Corrao, Claudio Neri e Antonino Ferro, a far penetrare nella cultura psicoanalitica del nostro paese.
Amava confrontarsi senza pregiudizi e senza darsi arie con le nuove generazioni. Ogni volta che ho potuto dialogare con lui restavo colpito dalla assenza di chiusure ideologiche, dalla curiosità e dalla flessibilità del suo modo di interrogare l’esperienza dell’analisi. Lacan diceva che il peggio che possa capitare ad uno psicoanalista era sentirsi installato come psicoanalista. Ecco questo non era accaduto a Gaburri che non parlava dell’analisi a partire dal suo titolo di didatta, ma sempre a partire dalle manifestazioni originali dell’inconscio. Il suo amore per il mare non era solo un gusto estetico, ma caratterizzava la sua tendenza ad allargare i concetti, a dilatarli per impedire che il loro uso stereotipato ne sterilizzasse la vitalità. Per lui, davvero, pensare era come viaggiare in barca a vela: seguire la direzione imprevedibile del vento, farsi portare dal non ancora saputo, dal non ancora visto. Di questo psicoanalista illuminato è stato recentemente pubblicato, per i tipi di Raffaello Cortina, un libro postumo, scritto a quattro mani con la sua compagna Laura Ambrosiano, titolato Pensare con Freud. Esso conclude idealmente una sorta di trittico preceduto dallo straordinario Ululare coi lupi (Bollati Boringhieri, 2003) e da La spinta a esistere (Borla, 2008), pubblicati mentre la malattia era già in corso, scritti sempre insieme ad Ambrosiano. Si tratta di un libro splendido e imperdibile che ha un valore testamentario. Il lettore vi troverà tutti i temi freudiani e bioniani cari a Gaburri: la nozione di “campo”, di “capacità negativa”, di “narcisismo e socialismo”, la spinta “impersonale” a esistere e il problema della sua soggettivazione. Ma, soprattutto, l’idea che la psicoanalisi non sia affatto una “cura del passato”, ma un “recupero del futuro”, una “cura del futuro”. Da questo accento bioniano e, mi permetterei di aggiungere, lacaniano, dell’inconscio come apertura verso l’inedito, scaturisce tutto il valore paradigmatico che i Gaburri assegnano alla figura freudiana della sublimazione intesa non tanto come un processo di difesa o di soddisfazione pulsionale secondaria rispetto a quella direttamente sessuale, ma come prototipo di ogni possibile processo di soggettivazione e di umanizzazione della vita. In che consiste la forza trasformativa della psicoanalisi se non nell’attivare la capacità di sublimazione intesa come capacità di allargare il proprio mondo, di rendere plastica la propria esperienza del corpo pulsionale, di rendere possibile il pensiero?
Per poter accedere a questa possibilità bisogna separarsi dalla dimensione avida e acefala degli “agiti antropofagi” della pulsione ed apprendere ad aprirsi all’imprevisto. Scritto per resistere all’ombra cupa e incombente della malattia e della morte, questo libro è prima di tutto testimonianza di come vi possa essere “gaia scienza” che non escluda la finitezza della vita. La morte, infatti, non è l’ultima parola della vita, ma è ciò che spinge la vita a “fare spazio” all’inedito e al non ancora pensato. In questo senso la parola “sublimazione” diventa l’indice della possibilità dell’umano di appassionarsi alla propria esistenza, al fine di simbolizzare «la paura ad esistere in quanto individui separati» e di liberarsi dalla «fame cannibalica e dalla coazione a tappare tutte le mancanze».
L’immagine dell’inconscio come serbatoio del passato, come baule dove giacciono sepolti i nostri ricordi, viene sostituita dall’immagine dell’inconscio come “spazio in divenire”, come forza di espansione. E’ questa la posta in gioco di ogni analisi: «allargare lo spazio mentale dell’inconscio, venire fuori dagli intrappolamenti della coazione a ripetere». Quando invece lo spazio per pensare si chiude, quando l’identità si irrigidisce su se stessa, c’è massa senza mente, senza pensiero, vita morta, passione paranoica che spinge la vita individuale e collettiva a serrarsi nelle proprie nicchie difensive e autoidentitarie. Diversamente, scrivono i Gaburri, l’esperienza analitica dell’inconscio «richiede sempre di andare oltre quello che si sa già». Per questo la mano di Eugenio Gaburri ci lascia ricordandoci che «la cosa più importante da trasmettere ai nostri figli è proprio la capacità di sublimazione, intesa come interesse per la vita nonostante il dolore».

IL LIBRO Pensare con Freud, di L. Ambrosiano e E. Gaburri (Cortina pagg. 132 euro 15,50)

Repubblica 25.6.13
Le fantasie oniriche sono utili per capire la realtà? Il dilemma a due voci del premio Nobel
Cari romanzieri, troppo facile scrivere di sogni
di John M. Coetzee


l brano di John Maxwell Coetzee sarà letto dall’autore stasera alle 21 al Teatro dal Verme di Milano nell’ambito della Milanesiana 2013, il festival di letteratura, musica, cinema, scienza, arte, filosofia e teatro ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi. Con Coetzee saranno presenti Michael Chabon, Andrea De Carlo, Wole Soyinka. Introduce Antonio Gnoli

Caro O, grazie per la copia del tuo nuovo romanzo, che ho letto con ammirazione. C’è una questione che vorrei approfondire con te. Non è una cosa che può interessare il pubblico, ma una domanda rivolta da un addetto ai lavori a un altro addetto ai lavori.
Nel capitolo 15 Gregor, il tuo personaggio, si trova in un vicolo cieco. Deve continuare a cercare la verità sul suicidio di sua moglie, o deve abbandonare la ricerca e tornare alle comode e sobrie abitudini della sua vita di vedovo? Incerto su cosa fare, scivola nel sonno e sogna.
Il sogno in sé è confuso, come lo sono in generale i sogni nella vita vera, pieno di particolari irrilevanti o superflui. E nondimeno — come subito riconoscerà il lettore perspicace — contiene un indizio vitale, un indizio che, se solo Gregor lo afferrasse, lo porterebbe alla verità.
Il nodo (e qui tu come me dovresti cogliere il problema meglio della maggior parte dei lettori) è che nella vita vera, cioè a dire nella vita costituita sia dai giorni in cui è in scena nel tuo romanzo, sulla pagina, sia dai giorni che passi sotto silenzio, Gregor sogna molto. Non c’è niente che dica al Gregor della vita reale che proprio questo sogno, il sogno che tu, suo fedele scriba, scegli di sottoporre alla nostra attenzione, sia un sogno speciale, col potenziale di districare il mistero che lo inquieta.
Gregor fa molti sogni. A noi, suoi lettori, d’altra parte, viene presentato solo questo unico sogno (non ce ne sono altri nel libro).Perché ci viene offerto un sogno?, ci domandiamo.
L’unica risposta possibile è che sia significativo. Che contenga un indizio. E allora cerchiamo questo indizio.
C’è un altro modo in cui posso chiarire il mio punto. Nella forma del sogno di Gregor, tu, il romanziere, metti in scena la tesi che segue: «Aun qualche livello, Gregor sapeva la verità sul perché la sua amata moglie si era uccisa. E tuttavia, poiché trovava doloroso quello che sapeva, reprimeva quella cognizione. La reprimeva così bene che riusciva a riemergere solo nel sonno, quando le sue difese psichiche erano abbassate ».
La mia domanda: perché mettere in scena la tesi? Perché non scrivere semplicemente: Gregor sapeva perché si era uccisa sua moglie ma si rifiutava di confrontarsi con quanto sapeva perché lo trovava troppo doloroso?
Perché darsi tanta pena e costruire un sogno di due pagine, pieno di elementi irrilevanti e superflui accuratamente architettati, un sogno che comunque il lettore deco-dificherà subito per quello che significa: né più e né meno di quello che ho detto?
I sogni nei romanzi mi sembrano un espediente primitivo quanto i sogni nelle fiabe popolari. Non hanno fatto il loro tempo?
Cordiali saluti, John *** Caro John, grazie per la tua lettera. Sono un po’ sorpreso dai tuoi commenti sul sogno di Gregor — avrei pensato che qualsiasi cosa entri nella nostra vita diurna o notturna debba entrare anche nel romanzo — ma farò del mio meglio per rispondere. Lo farò segnalandoti una poesia della scrittrice polacca Wislawa Szymborska, che è molto più eloquente di quanto riuscirei ad essere io sul tema del sogno.
In questa poesia, intitolata Il Sogno, Szymborska descrive alcuni tratti che distinguono l’esperienza onirica dall’esperienza quotidiana. Per esempio nei sogni ci succede di esperire spazio e tempo in modi nuovi e inquietanti. Nei sogni riusciamo a vedere le cose nei particolari con una chiarezza e una minuziosità allucinatoria irraggiungibili nella vita vera. Abbiamo poteri sorprendenti: voliamo in cielo, nuotiamo negli abissi. Incontriamo donne di una bellezza incredibile che cedono immediatamente ai nostri desideri. Tutto questo è possibile nel nostro mondo onirico. E inoltre,conclude Szymborska, di tanto in tanto i sogni ci danno una chiave, un’indicazione su come trasformare la nostra vita vera.
I sogni fanno tutto questo per noi. Arricchiscono la nostra gamma di esperienze e ci mostrano come cambiare la nostra vita. Tornando al sogno di Gregor, mi stai davvero dicendo che avrei dovuto eliminarlo e sostituirlo con la formulazione pedestre da te fornita:Gregor sapeva perché si era uccisa sua moglie, ma si rifiutava di confrontarsi con quanto sapeva perché lo trovava troppo doloroso?
Questo non è scrivere romanzi. Questo è un riassunto dellatrama dei più noiosi. Mi meraviglio di te.
Sempre tuo, O *** Caro O, tu ignori un assioma del mestiere del poeta: «Se una poesia è facile da scrivere, in quella poesia ci deve essere qualcosa che non va». I sogni sono facili da scrivere; per questo ci sarà sempre qualcosa di sospetto nei sogni in un romanzo, nei sogni inventati.
Citi Szymborska per sostenere la tua posizione. Se lasciamo da parte, per il momento, la frecciata nel finale della sua poesia, che cosa ci dice? Che nei sogni si possono avere esperienze che non è possibile avere nella vita vera, come fare l’amore con le star del cinema. E perché è possibile? Risposta: perché si tratta di esperienze immaginarie, non della vita vera.
Ma non è proprio quello il punto? L’impegno del romanzo non è con la realtà piuttosto che con la fantasia? Non è quello che ci dice Cervantes quando scrive il suo testo seminale per il mestiere che facciamo tu ed io? Che non ci possiamo inventare la vita secondo i nostri desideri man mano che andiamo avanti, che dobbiamo affrontarla per quello che è?
Potrei capire se, nel raccontarci tutto il sogno di Gregor, tu di fatto avessi inteso dirci: «Ecco, Gregor in questa fase della sua vita è questo tipo di uomo. Questo è il tipo di fantasie che ha. Le nostre fantasie rivelano molto del nostro carattere». Ma non è quello che dici. Tu dici: «Dai più profondi recessi della memoria repressa, riemerge un’informazione cruciale sulla moglie: lei sapeva che i nomi Roland e Ronald e Orlando e Ronaldo erano tutte varianti uno dell’altro». Noi, come lettori, riconosciamo subito questa informazione come di un ordine diverso dalla fantasia convenzionale del resto del sogno. Èun indizio.Ma Gregor non riconosce l’indizio come tale. Non vuole riconoscerlo. Come Edipo, Gregor ha tutti i fatti sotto gli occhi, ma non può o non vuole metterli insieme. Si rifiuta, per così dire, di mettere insieme il quadro. Allora ripeto la mia domanda: perché non limitarsi a dire,Gregor sospettava che l’uomo che sua moglie aveva incontrato a Malaga, Orlando, altri non fosse che Ronald, il suo collega all’istituto per la traduzione; ma quella cognizione era troppo penosa per lui, perciò se la nascose?
Potresti perfino aggiungere: «È coraggioso l’uomo che è capace di accettare con spirito filosofico che la donna amata abbia una vita emotiva ed erotica dalla quale lui è escluso. Gregor non era un uomo coraggioso. Preferiva ignorare l’evidenza; preferiva la sua beatitudine irreale». Sempre tuo, John *** Caro John, sono sempre più sorpreso dal tipo di argomentazione che proponi. Stai davvero suggerendo che dovrei scrivere quella roba su Gregor, che dovrebbe accettare «con spirito filosofico» l’infedeltà della moglie? Che dovrei scrivereio in prima persona? Nonriesco a crederci. Vorresti che scrivessi un romanzo tutto diverso da quello che ho scritto, un romanzo in cui costruisco un narratore intermediario cui è affidato il compito di raccontare la storia di Gregor, o meglio di riflettere la storia di Gregor attraverso il tipo di temperamento che si esprime parlando di “spirito filosofico,” eccetera — un temperamento tutto diverso dal mio.
Ma non è questo che mi interessa fare, John. Nei miei romanzi le persone fanno quello che fanno nella vita vera; dormono, vegliano, mangiano, cacano, ridono, piangono, scopano, mentono, e tutto il resto. Mentono al consorte e a se stesse. Mentono a se stesse e poi fanno sogni in cui quelle menzogne saltano fuori. Le menzogne saltano fuori e vengono subito ricacciate nel sacco dell’oblio.
Peccato che il libro non ti sia piaciuto. Ce la metterò tutta la prossima volta.
Sempre tuo, O
© John Coetzee 2013 Traduzione di Maria Baiocchi