mercoledì 26 giugno 2013

il Fatto 26.6.13
Epifani non si vergogna di governare con Berlusconi
Dopo la condanna del Caimano a 7 anni per reati infamanti, il segretario Pd se ne lava le mani: “B. non deve lasciare la guida del Pdl: rispetteremo le sue decisioni, è un problema tra lui e i suoi elettori”
Pur di salvare l’inciucio i democratici ingoiano qualunque rospo

Impotenza. Orfini: “Sono loro che hanno il controllo della situazione”
Il Pd si aggrappa a Silvio: “Non si vendichi su Letta”
Epifani: “Sarebbe irresponsabile far cadere l’esecutivo”
Bindi: “Sono tutti preoccupati che il Pdl si tiri indietro
di Wanda Marra


“Sarebbe irresponsabile far saltare l’azione di governo” a fronte di “episodi giudiziari” che riguardano Silvio Berlusconi. Guglielmo Epifani, segretario del Pd, lo dice spedito e sicuro ai giornalisti di Bruxelles, dove si trova per un incontro al Parlamento europeo. Di più: “Bisogna tenere distinti il piano giudiziario da quello politico”. E dunque, “noi rispettiamo quel che deciderà Berlusconi, se lasciare o meno la guida del suo partito”. Ma il Pd non ha nessun problema a governare con un pluri - condannato? La domanda la pone Rosy Bindi: “Il Pd, che nel rispetto delle regole e nel principio di legalità ha un suo tratto identitario, può stare in maggioranza con un partito guidato da un leader che ha già accumulato diverse gravissime condanne, che pretende l’impunità in nome della legittimazione elettorale e non perde occasione per attaccare la magistratura? ”. La risposta - evidentemente - è sì. Sempre che Berlusconi lo consenta, attenzione. Più che altro i Democratici giocano al rimpallo, al rimando, guardano cosa succede nel campo dell’ex avversario ora alleato. “La palla ce l’hanno in mano loro, mica noi”, chiarisce Matteo Orfini. “Noi siamo per rispettare la legge: quando arriverà in Parlamento la decadenza di Berlusconi, io voterò a favore”. Stessa posizione, Gianni Cuperlo, uno dei candidati in pectore alla segreteria: “Se la Cassazione dovesse confermare l'interdizione dai pubblici uffici il Pd dovrebbe votare e ratificare la decadenza del senatore Berlusconi dal suo seggio”. Sì, perché il Pd ci tiene a ricordare che è “solo” una sentenza di primo grado.
E NEL FRATTEMPO? Il Pd si preoccupa. Ancora Epifani: “Non può essere che un governo viva una fibrillazione continua”. Ieri mattina è andato dal premier, Enrico Letta. E oltre a garantirgli il sostegno del suo partito, gli ha detto che però Berlusconi deve dare delle garanzie, non può fare un continuo tira e molla. Sembra di rivedere la dinamica del governo Monti, con i Democratici inchiodati sulla “responsabilità” e il Pdl in campagna elettorale perenne e effettiva. Stavolta è ancora peggio. Si chiede ancora la Bindi: “Nel Pd sono tutti preoccupati che Berlusconi faccia cadere il governo, mi chiedo perché non capovolgiamo la domanda”. Già perché? Ragiona Dario Ginefra: “Noi non ci possiamo permettere di andare a votare adesso. Il paese non è in condizione, ma neanche noi”. Le larghe intese si pagano care, elettoralmente parlando. A Montecitorio si è appena formata la corrente dei senza corrente. Una quarantina di neo- deputati, molti anche su posizioni più radicali rispetto alla maggioranza ufficiale del partito. Ma la spinta verso l’uscita non si trova neanche da quelle parti. “Se c’è una corrispondenza diretta tra l’ossessione alla difesa del leader e la tenuta del governo lo si spieghi agli italiani”, dice Francesco La-forgia. Lui e la compagna di non-corrente, Alessia Morani, lo dicono a turno: “Lo sapevamo chi era Berlusconi, anche prima”. Lei si lancia in un ragionamento piuttosto ardito: “Questa non è una maggioranza politica è una maggioranza tecnica. È un governo nato per far fronte alla crisi economica, drammatica”. Ma come, una maggioranza non politica in un governo guidato da Enrico Letta, con vice Angelino Alfano? “Noi mica facciamo le riunioni di maggioranza”, continua imperterrita lei. Proprio ieri pomeriggio Roberto Speranza, capogruppo Democratico e Mario Mauro, Pdl, si sono incontrati per parlare degli F 35. Comunque. Se è per i renziani, almeno per ora, stanno sulla linea della “responsabilità”. I bersaniani pure. “Questo esecutivo è nato per fare una serie di cose e deve farle”, spiega Alfredo D’Attorre, ora in segreteria. “Però, certo non per dare un salvacondotto giudiziario a Berlusconi. Noi non siamo disponibili”. Sicuro? E se il Pdl lo mettesse come condizione? “Non cederemo al ricatto”. Sono giorni che si parla di maggioranze alternative, di redivivi progetti di governi di cambiamento. “È chiaro che se il governo dovesse cadere, un’altra maggioranza si formerà”, dice ancora Orfini. Chiaro pure che il Pd non sta lavorando per questo. La prodiana Sandra Zampa: “Noi non saremmo mai dovuti arrivare a fare un governo come quello che abbiamo. Non è ora che si pone il problema, c’è sempre stato. Ma dobbiamo pensare alla povera gente e andare avanti”. Però, almeno per lei è dura: “Non possiamo continuare a sostenere che le vicende giudiziarie del Cavaliere non hanno relazione con il governo. Respingo questo pragmatismo amorale. Dovremmo chiedere a Berlusconi di fare un passo indietro”. Silvia Velo, giovane turca, la butta quasi in battuta: “Ma sì, B. se ne vada e liberi i suoi”. In questa condizione, non sarebbe meglio cercare un’altra maggioranza? Ancora la Zampa: “Sì, ma una maggioranza diversa ora non c’è”.

il Fatto 26.6.13
E se non fossimo tutti puttane?
di Furio Colombo


Un fantasma si aggira nel pianeta berlusconiano. Hanno (tutti loro) creduto fermamente, per potente induzione mediatica, nel comandamento: fai ciò che ti pare (sostituire con la frase tipica delle truppe di B.) o ciò che ti conviene (badando che sia a tua insaputa). Insomma il credo è (da vent’anni): siamo tutti impegnati in concorso esterno nel reato di mafia. Siamo tutti puttane. Nel senso che tutti il comandamento, siamo a disposizione, per una cifra giusta, secondo il modello Lavitola-De Gregorio. All’improvviso una sentenza molto discussa (“reggerà la politica? ” si domanda con ansia il quotidiano Pd Europa) decide che la prostituzione è una cosa che richiede un padrone, dei mezzani delle ragazze sottomesse, in cambio di adeguate somme di danaro. E richiede una buona organizzazione, persone che procurano, persone che coprono, persone che pagano, case semichiuse che ospitano a spese di, con il controllo di, e dove si imparano buone maniere, come le regole di condotta nelle feste e – all’occorrenza – come testimoniare il falso. Ma eccoci al punto chiave della vita di Berlusconi e della sentenza che lo riguarda.
Per organizzare per bene la prostituzione ci vuole il potere. È il potere che spiega la severità dei giudici, che ha provocato costernazione tra i migliori amici. Infatti per la prima volta certe avventure del capo di un grande partito italiano e, a lungo, capo del governo, vengono chiamate con le parole appropriate: prostituzione minorile, vincoli di obbedienza, pagamenti puntuali e proporzionati al reato, con il concorso di abili e autorevoli complici. La via di fuga era pronta: dire e ripetere che siamo tutti puttane. La frase viene dal cuore e da una persuasione profonda. Si pronuncia con una solennità paraevangelica, tipo “siamo tutti fratelli”. Ma i giudici hanno smantellato la chiesa delle ragazze nude, vestite da suore, e il grosso del partito non si dà pace. Ecco dove i giudici guastano il gioco, non in un anno in più o in meno di galera (che fa effetto nel mondo, ma in Italia sarà scontato tra un salto a Palazzo Chigi e una capatina in Parlamento). Ma nel dover ammettere che i complici e le Ruby (e l’altra giovanissima Noemi, che lo chiamava “papi” e di cui ci eravamo quasi dimenticati) sono tanti. Tanti, ma non tutti. Anzi, si chiama fuori una buona parte degli italiani, e molti pentiti. In questo, colpa della Boccassini, nonostante le adunate di chi si proclama puttana, il gioco è fallito.

Corriere 26.6.13
Il Colle guida il fronte di chi vuole impedire scossoni sul governo
di Massimo Franco


Ha colto e intercettato i sintomi di un malumore latente. E li denuncia come una patologia che sarebbe bene non alimentare, dopo la sentenza di primo grado che ha condannato Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione per il caso Ruby. Quelle pronunciate ieri da Giorgio Napolitano sono parole che lasciano trasparire un’amara ironia. «Non passano due mesi dalla formazione di un governo», commenta il capo dello Stato, «che subito si parla dell’incombente, imminente o fatale crisi di governo. Abbiamo il record della fibrillazione politica».
È il segno di una precarietà che certamente esiste; ma che alcuni settori della maggioranza sembrano tentati di esagerare. Si tratta di un contraccolpo ampiamente previsto. Nel Pdl riprendono fiato quanti vogliono utilizzare il verdetto del tribunale di Milano come piedistallo per attaccare la maggioranza anomala e lo stesso Quirinale: tutti accusati più o meno larvatamente di non difendere a sufficienza Berlusconi. E nel Pd rispuntano i personaggi che non hanno mai mandato giù l’alleanza col Cavaliere, per quanto obbligata dai numeri. E dunque ostentano tutta la propria impazienza, ravvivata dall’esito del processo.
Per loro parla Rosy Bindi, ex presidente del partito, che chiede «fino a quando» il Pd «può stare in maggioranza con un partito guidato da un leader che ha già accumulato diverse gravissime condanne? ». Il discorso di Napolitano somiglia a un altolà preventivo a queste tendenze opposte ma convergenti. E incrocia la preoccupazione e la cautela dell’ala governativa dei due partiti, attenta a scindere questioni giudiziarie e politiche; e finora determinata a riuscirci, arginando le pressioni interne. Non a caso anche il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, usa il termine «fibrillazione», legandolo alle «scadenze giudiziarie» di Berlusconi.
«Sarebbe irresponsabile far saltare il governo», ribadisce Epifani. E mentre lo dice pensa al colloquio di ieri sera fra Enrico Letta e l’ex premier; alle dichiarazioni bellicose degli esponenti del Pdl che mettono paletti per andare avanti; e anche alle tensioni nel Pd. Il tentativo è di sottolineare quanto sia grave la situazione economica; e di far capire che i problemi non nascono dalla composizione della coalizione guidata da Letta ma da condizioni negative destinate a mettere in difficoltà qualunque compagine governativa. Quando il presidente della Repubblica chiede «continuità nell’istituzione governo», rivolge un appello al senso di responsabilità dei partiti.
E quando il premier Letta, che oggi sarà a colazione da Napolitano, invita a guardare ai prossimi diciotto mesi, cerca di scavalcare e minimizzare gli ostacoli di queste ore. Addita il 2014 come una sorta di traguardo al quale forse l’Italia arriverà con qualche speranza in più. Incognita fra le incognite, tuttavia, c’è il vertice europeo che comincia domani. Letta esorcizza la possibilità che si chiuda con un «compromesso al ribasso». Cresce l’attesa di un aiuto dall’Ue per favorire l’occupazione giovanile e sbloccare un po’ di fondi per gli investimenti. Ma il dubbio che si possa far poco rimane, e non depone bene per l’autunno.

Corriere 26.6.13
Matteo Orfini: inutile il voto in Commissione
«Berlusconi umilia l’Italia. Ma non è ineleggibile»
L’esecutivo resiste se risolve i problemi
di Alessandra Arachi


ROMA — Matteo Orfini, lei che è un giovane turco del Pd, cosa pensa: che succederà adesso dopo la sentenza di condanna per Berlusconi?
«La sensazione è abbastanza umiliante per il Paese. E’ umiliante che una personalità come lui, che è stata alla guida del Paese per tanto tempo, venga condannata per fatti di questa natura. Non dimentichiamo che la possibilità di uscire dalla crisi per l’Italia si gioca sulla sua forza, sulla sua credibilità internazionale. E adesso invece, siamo un Paese umiliato».
Ma in realtà intendevo dire: cosa succederà per il governo, secondo lei?
«Io fin dall’inizio dico che trovo molto difficile governare con il centrodestra. Avendo le due parti molti punti e molte idee divergenti si è costretti sempre a cercare un compromesso e quindi governare al ribasso. Dopo una vicenda come questa sarà quindi ancora più difficile. Ma.. ».
Ma cosa?
«Siccome questo governo trova la sua legittimità nell’affrontare e risolvere i problemi è qui che si vedrà la capacità della sua tenuta, si dovrà dimostrare ancora meglio la capacità di risolvere le situazioni. A cominciare dal prossimo cosiddetto “decreto del fare”».
Eppure c’è chi come Rosy Bindi pensa che non si possa governare con la maggioranza guidata da Berlusconi.
«Io penso piuttosto che si debba guardare all’interesse del Paese. Come ho appena detto: se questo governo è in grado di risolvere i problemi, va bene. Aggiungo: mi auguro anche che sia in grado di fare un salto di qualità rispetto a quanto fatto fino ad ora».
Il 9 luglio si dovrà votare al Senato anche l’ineleggibilità di Berlusconi...
«Non ha senso questo voto. L’ho già detto, prendendomi anche qualche critica: io ritengo Berlusconi eleggibile visto che c’è una legge che per vent’anni è stata interpretata così. Dunque semmai si cambia la legge, Non si può certo cambiare l’interpretazione».
Ma in ballo c’è anche la sentenza della Cassazione per Silvio Berlusconi sulla vicenda dei diritti Mediaset. Rischia l’interdizione dai pubblici uffici, in via definitiva...
«Se ci fosse una sentenza così bisognerebbe recepirla, ovviamente. Non si potrebbe fare altrimenti».
E non considera le reazioni che potrebbero arrivare dal Pdl?
«Spero che il Pdl anteponga l’interesse generale del Paese all’interesse personale di Berlusconi».
In realtà già con questa sentenza di primo grado dal Pdl stanno minacciando seriamente la stabilità del governo..
«Davvero? Se volessero mettere in crisi il governo allora sarà il presidente della Repubblica Napolitano a prendere in mano la situazione. A verificare l’esistenza di un’altra maggioranza in questo Parlamento».
Un’altra maggioranza?
«Sì, questa ipotesi adesso non è più così improbabile come lo era qualche mese fa».

Repubblica 26.6.13
La tentazione del Cavaliere usare i referendum radicali e giocare la carta dell’amnistia
Oggi comincia la partita sulla ineleggibilità
di Liana Milella


ROMA — È tutta in salita la strada del Pdl sulla giustizia. Più affidata ai proclami e agli annunci che alla concreta possibilità di portare a casa le riforme “epocali” che Berlusconi vagheggia da anni e che ripropone adesso, con il dichiarato scopo di dare una lezione definitiva alle toghe che, a suo dire, «lo perseguitano». Lo sanno bene anche i senatori e i deputati che si occupano di giustizia i quali, riservatamente, sono pronti a dire che «con questo governo, se dura, e in questa legislatura, se sopravvive, non si realizzerà nessuna delle riforme che da anni fanno parte dei programmi del Pdl». Eppure, non appena è diventata pubblica la sentenza Ruby, è partito un tam tam pesante, con una minaccia esplicita, «Letta sopravvive se cambia la giustizia».
Subito sono partiti segnali espliciti nei confronti dei Radicali e dei cinque referendum sulla giustizia per «sottoscriverli in pieno», come dice il capogruppo Pdl alla Camera Renato Brunetta, visto che di mezzo ci sono la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei giudici, la stretta sulla custodia cautelare e sui magistrati fuori ruolo e infine anche l’abolizione dell’ergastolo, tutti temi da sempre presenti nei programmi Pdl. I Radicali, ovviamente, ringraziano. Interesse scontato anche per l’amnistia e l’indulto, contenuti nella proposta fatta a marzo dal senatore Pd Luigi Manconi, ma firmata anche da Luigi Compagna di Gal, lista che fiancheggia il Pdl, in cui si ipotizzano rispettivamente un’amnistia a quattro anni e un indulto a tre. Esclusi tutti i reati gravi, quindi Berlusconi non potrebbe utilizzarla dopo la condanna per Ruby per via della concussione.
Ma entrambe le strade sono irte di difficoltà. I Radicali stanno raccogliendo adesso le firme. Dovranno portarle in Cassazione, che verificherà se il quorum (500mila) è stato correttamente raggiunto. Poi sarà la volta della Consulta sull’ammissibilità. Quindi tempi lunghi, sicuramente ben oltre l’anno. Stesso problema per l’amnistia, che richiede i due terzi, e su cui molti parlamentari del Pd non sono assolutamente d’accordo.
In concreto, l’attivismo del Pdl, a spigolare tra i provvedimenti, alla fine sembrerebbe più affidato ad agguati in Parlamento che, sfruttando maggioranze anoma-le, possano far entrare qualche singola norma a favore del Cavaliere, piuttosto che veri e propri progetti di riforma. Tuttavia l’intenzione di cavalcare qualche puledro utile c’è tutta. E c’è anche l’estrema attenzione a bloccare qualsiasi norma o misura sfavorevole, come dimostra il caso del decreto legge sulle carceri, che sarà approvato oggi in consiglio dei ministri. Ridotto all’osso, privato di tutta la parte sulla sicurezza che il ministero dell’Interno aveva cercato di far passare, il dl perde definitivamente il comma che cancellava la detenzione domiciliare «per qualsiasi reato» per gli over 70 e ne riduceva la possibilità solo a chi ha una pena di quattro anni. Salve invece le modifiche alla Cirielli per reinserire i recidivi nel giro di agevolazioni e permessi.
Allo stesso modo c’è massima vigilanza su due capitoli delicati per Berlusconi, la partita dell’ineleggibilità a palazzo Madama e il progetto del Pd di cambiare la legge anti-corruzione, sulla base di un ddl presentato dall’attuale presidente Pietro Grasso. La battaglia comincia oggi nella giunta per autorizzazioni, e due uomini di punta del Pdl, il vice presidente della giunta Giacomo Caliendo e il capogruppo Nico D’Ascola (vice dell’avvocato Niccolò Ghedini da Roma in giù e legale di Giampi Tarantini, il procacciatore barese di escort per il “sultano”), staranno di guardia. La stessa coppia ricompare nella commissione Giustizia dove il presidente Nitto Palma ha affidato proprio a D’Ascola il ruolo di relatore della legge anti-corruzione, che peraltro, tra le proteste dei Democratici, riesce ogni volta arinviare.


Corriere 26.6.13
«Delinquenti nel Pd? Mi riferivo ai gruppi di potere»
La durissima critica di Marianna Madia «Opacità nel partito dopo le elezioni»
di Alessandro Capponi


ROMA — «Avrei dovuto fare una maggiore attenzione al lessico ma era un incontro per soli militanti, e non immaginavo che qualcuno stesse riprendendo il mio intervento, due settimane fa, con Barca si parlava del partito che vorrei... ».
Madia, scusi, ma lei in quell’occasione ha parlato di «piccole associazioni a delinquere» sul territorio, di «opacità» a livello nazionale.
«Confermo la critica politica, certo, anzi posso dire che non avevo realmente compreso certe dinamiche fino alle primarie per i Parlamentari, è lì che ho capito cosa succede realmente sul territorio. E a proposito del partito nazionale: usare il termine opacità per i due mesi dopo le elezioni, semplicemente, mi sembra il minimo».
Marianna Madia ha 32 anni, un bimbo, si è sposata quindici giorni fa in gran segreto, una quindicina di invitati, nessun paparazzo; è alla seconda legislatura — voluta da Walter Veltroni nel 2008 — e da quando è entrata in Parlamento si è occupata principalmente di Lavoro. Detiene un specie di record, nel Pd: pare non abbia mai partecipato a una riunione di corrente. Lunedì sera ha ricevuto la telefonata del neosindaco di Roma, Ignazio Marino, che — dopo aver cercato di convincere la renziana Lorenza Bonaccorsi — la voleva in Giunta: anche lei, però, ha rifiutato.
Madia, cosa intende per «associazioni a delinquere» sul territorio?
«Alle Primarie dei parlamentari ho capito che tutto dipende da queste sommatorie di potere e comitati elettorali, prendono decisioni e pongono veti incrociati, paralizzano qualunque capacità progettuale del Pd, tengono lontani i simpatizzanti che non appartengono alle filiere, e quindi minano il consenso del partito. Le filiere si accordano e invece di aprire, allargare, che poi è il senso delle Primarie, spartiscono zona per zona».
Tanto vale che i partiti nominino i parlamentari, allora.
«Non so cosa è peggio, ma faccio un altro esempio: la gestione delle Primarie spettava alle federazioni provinciali e quindi, visto che a Roma legittimamente in molti della federazione erano candidati, non avevamo neanche più l’arbitro... ».
Per descrivere il piano nazionale ha parlato di «opacità», citato Gramsci per richiamare tre forme di «ipocrisie», anzi ne ha aggiunta un’altra...
«Nei due mesi dopo le elezioni non c’è stata verità, non abbiamo saputo dire che il Pd non aveva vinto, che c’erano tre forze equivalenti, e invece sostenevamo che l’elezione del Presidente della Repubblica era sganciata dal governo che si stava creando, e che non avremmo mai fatto un governo con il Pdl... ».
Ce l’ha con Bersani?
«Con chi ha preso decisioni in quei mesi, Bersani ma non solo. Ora, però, al congresso, bisogna capire che in ballo non c’è la linea politica, perché deve essere chiaro che il Pd è più indietro, qui si tratta della costituzione materiale del partito, di stabilire come sta assieme una comunità politica sui territori e sulle questioni nazionali».
Il video del suo intervento a Roma con l’ex ministro — che l’articolo de «Il Fatto» sintetizza nel titolo «Troppi delinquenti nel Pd» — le avrà garantito una buona accoglienza tra i suoi colleghi piddini, stamattina.
«All’inizio sì, un po’, ma al di là delle esagerazioni lessicali la critica politica è condivisa da molti nel partito».

Corriere 26.6.13
E adesso le olgettine hanno paura
Polanco: non vorrei che colpissero noi
Conceicao: le ragazze hanno taciuto per i soldi
di Andrea Galli e Cesare Giuzzi


MILANO — Una stanca e soprattutto assonnata Iris Berardi, fintamente grintosa al risveglio di mezzogiorno: «Non so nemmeno cos'è successo, chi se ne frega!». Beata lei. Iris Berardi, pur olgettina della prima ora, non compare nel dispositivo di sentenza, dunque non è una dei testimoni che, per aver detto il falso, rischiano di finire indagati. Come per esempio Manuela Ferrera. Un certo straripare verbale dopo essersi ordinata il silenzio stampa. «Non parlo». Ha sentito di Berlusconi? «Lo stimo, gli voglio bene». Certo, ma lei? «Ho raccontato la verità». Davvero? «Ho raccontato quel che dovevo. Comunque...». Eccoci. «...comunque Silvio si è conosciuto con i miei genitori, e loro mai avrebbero mandato la figlia da una cattiva persona, da, diciamo, un pedofilo. Mi sbaglio?».
Donne in fuga già da un pezzo. Aggrappate a tenerissime, per quanto fanciullesche, scuse. Un'affabile Marystelle Garcia Polanco incolpa il cellulare a corto di credito. Imma De Vivo insiste con un «Pronto? Pronto?» come in preda a un attacco di sordità. E se Imma mai crollerà, fino a tarda sera, mai inciampando, mai abboccando, la signora Polanco, più che altro per non rovinarsi il resto del giorno, a un certo punto, anzi quasi subito, si concede: «I sette anni di condanna? Me li aspettavo, lo sapevano tutti. Adesso non vorrei si mettessero a colpire anche noi». Ci sta pensando? «Ci penso con l'avvocato. Vede, è un po' difficile». Cosa è difficile? «Non lo so. Ma potrei presentarmi dai magistrati prima che mi chiamino...». Chissà se ci andrà anche Roberta Bonasia. Che ne pensa Roberta? «Mmmhhhh». Cosa teme? «Il problema, vede, è che non posso parlare». In che senso? «Non posso, mi perdoni».
Ora, sarà che a star lontano viene facile, pur se — qui introduciamo Michelle Conceicao — la lontananza è figlia di un provvedimento di espulsione dall'Italia; comunque, la medesima Michelle, dal Brasile, finalmente confessa la verità: «La verità è che le ragazze hanno paura. Hanno taciuto per paura e anche perché si aspettavano da lui una quantità di soldi. Qualunque persona che ha difeso Berlusconi rischia». Chi conosce si faccia avanti, sembra esortare. In realtà ci sarebbe una seconda verità: «Sono molto contenta». Motivo? «Contenta di non essere a Milano». Non c'è nemmeno Marystelle, a Milano, almeno a darle ascolto: «Mi trovo in Svizzera e, per quel problema al telefonino, che è morto, dovremmo risentirci domattina». L'indomani. Addirittura.
Ce n'è soltanto una, fra le mille, che con orgoglio non soltanto non scappa, ma adora farsi trovare. Miriam Loddo. Siccome il cellulare balbetta, con istantaneo sms regala un secondo numero. Signora Miriam Loddo... «Che tristezza». Teme la prigione? «Visto che accanimento contro Silvio? Ci sono assassini in libertà, che escono e scrivono libri e si fidanzano. Io, casomai dovessi ripresentarmi in tribunale, non cambierò una virgola rispetto all'iniziale deposizione». Entrando un poco nel dettaglio... «Avete sentito la quantità incredibile di soldi spesi per le intercettazioni?». Sicuramente, ma riguardo alla sua posizione... «Una rottura di scatole, questo è stata l'inchiesta, una gran rottura di scatole. La nostra vita, la nostra carriera...». Lei e Silvio avete avuto recenti incontri? «La saluto, devo finire degli studi per l'università... La verità è una». Cioé? «Davvero, ho da fare». Non può abbandonarci proprio ora: a proposito di verità... «Niente».
Non meno di quindici giorni e non oltre i venti. Francesca Cipriani, fa sapere un tipo con forte accento veneto che si presenta come suo manager, si è concessa il suddetto preciso lasso di tempo per evitare qualsiasi commento. Però il silenzio lo romperà, mica può tacere a vita. «Ovvio», spiega lui, «ovvio. Ci sono, mi creda, questo glielo posso anticipare, con uno strappo alla regola, ci sono delle novità bomba». Tipo? «Tipo delle bombe mediatiche. L'Italia intera parlerà di Francesca». Riguardano il processo? «No, per carità. Francesca si è lasciata alle spalle quel passato, si è buttata nella carriera, con forza e impegno. Le ferite sono state profonde. Quante ne ha subite, Francesca. Ma si rifarà ampiamente, avrà un successo televisivo strepitoso. Un clamoroso cambiamento nel suo percorso professionale». E se verrà indagata, condannata? «Figuriamoci». Potrebbe anche essere. «No, dai. Sarà una bomba». Perdoni, senza offesa: non alluderà per caso a uno scenario rivoluzionario, a un incredibile contropiede, al debutto nel mondo del... «Nooooo... Come la Tommasi? Fermi, fermi. Francesca è antitetica, rispetto alla Tommasi...». E quindi cosa diamine sarà? Hollywood? «Beh, non esageriamo».

Corriere 26.6.13
I 32 testi verranno tutti indagati poi i pm decideranno caso per caso
L'ipotesi è falsa testimonianza: rischiano da 2 a 6 anni
di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella


La sentenza del Tribunale di Milano che ha condannato Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e disposto che vengano trasmessi alla Procura gli atti su 32 testimoni MILANO — E adesso? Adesso, che poi non potrà essere «adesso» ma dovrà essere tra almeno 90 giorni, visto che soltanto con il deposito della motivazione dei 7 anni a Silvio Berlusconi avverrà anche la trasmissione in Procura delle deposizioni di 32 testi ordinata dal Tribunale, tutti costoro saranno per forza indagati dai pm per l'ipotesi di reato di falsa testimonianza: non perché il Tribunale abbia in sé la facoltà di incriminare qualcuno, ma perché la trasmissione degli atti contenuta nella sentenza del Tribunale è una notizia di reato qualificata, e dunque in regime di obbligatorietà dell'azione penale imporrà ai pm di iscrivere nel registro degli indagati tutti e 32 i testi. Solo in un secondo momento, in teoria anche il giorno dopo, i pm potrebbero chiedere l'archiviazione per tutti, il processo per tutti, oppure distinguere tra le posizioni.
Code procedurali di questo tipo non sono infrequenti nei dibattimenti delicati, basti pensare al processo per mafia al n. 3 del Sisde Bruno Contrada nel quale nel 1996 il Tribunale di Palermo trasmise gli atti per 24 testi tra i quali il generale dei carabinieri Mario Mori, l'ex capo della polizia Rinaldo Corona e una sfilza di prefetti. La differenza è che in quel caso era stata la Procura a sollecitare il Tribunale a trasmetterle gli atti sui testi, dei quali peraltro gli stessi pm chiesero poi l'archiviazione nel 1999 e nel 2000. Nel processo Ruby, invece, nell'assenza di richieste formali dei pm (che pure a parole si erano più volte doluti del comportamento di alcuni testi), sono state le tre giudici Turri-De Cristofaro-D'Elia a ravvisare in 32 deposizioni il possibile reato di «chi, deponendo come testimone innanzi all'Autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace in tutto o in parte ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato», ed è perciò punibile con una pena da 2 a 6 anni.
Sotto accusa, infatti, i testi non rischiano di finire per aver asserito qualcosa che contrasti con l'accusa o non garbi ai pm. Il problema potrebbe piuttosto essere, ad esempio, nel caso di Roberta Bonasia aver negato di aver ricevuto soldi da Berlusconi quando le intercettazioni l'avevano invece colta a parlare dei «soldi ricevuti per un negozio»; o nel caso di Barbara Faggioli aver declassato a momento di rabbia verso l'amato Berlusconi la propria intercettazione in cui si lasciava scappare che (Berlusconi, ndr) «quando se la faceva addosso per Ruby chiamava e si ricordava di noi... adesso fa finta di non ricevere chiamate». O ancora, nel caso del consigliere diplomatico Valentino Valentini e del caposcorta Giuseppe Estorelli, aver giurato d'aver chiamato il capo di gabinetto della Questura (Ostuni) e avergli poi passato Berlusconi, mentre Ostuni è categorico nel ricordare di essere stato chiamato solo da Berlusconi.
L'esito in questo genere di processi non è però mai semplice, e Berlusconi l'ha sperimentato in due occasioni. Intanto, anche la vicenda di David Mills cominciò come caso di possibile falsa testimonianza dell'avvocato delle società estere Fininvest, presto prescritta ma origine — dopo il ritrovamento della famosa lettera autoconfessoria al proprio commercialista e dopo l'interrogatorio inizialmente ammissorio dello stesso Mills — della ben più pesante contestazione di corruzione in atti giudiziari. E uno scenario simile è temuto dallo staff del leader del Pdl, visti i cospicui pagamenti (persino stipendi mensili da 2.500 euro al mese) elargiti dall'imputato alle testi che hanno deposto a sua difesa.
Ma Berlusconi ha anche un indiretto precedente a favore, prodottosi oltre 15 anni fa attorno al caso della sua segretaria storica Marinella Brambilla e del suo allora assistente Nicolò Querci. I due, infatti, furono imputati nel 1999 di aver negato, nel processo a Berlusconi per le tangenti alla Guardia di Finanza, che l'8 giugno 1994 l'allora premier avesse avuto a Palazzo Chigi un incontro con l'avvocato Massimo Maria Berruti, finalizzato a depistare le indagini (Berruti ebbe poi 8 mesi definitivi per favoreggiamento) e provato per l'accusa dal ritrovamento di un pass di Palazzo Chigi. L'altalena di verdetti si volse infatti in autentica saga processuale: condanna in primo grado a 2 anni mezzo nel 2001, conferma in appello nel 2002, annullamento in Cassazione, nuova condanna in appello a 1 anno e 4 mesi, e infine annullamento tombale in Cassazione nel 2008. Il bello è che nel frattempo anche l'autista di Berruti era stato indagato per quello che aveva testimoniato proprio nel processo a Brambilla e Querci nato dal processo a Berlusconi e Berruti: ma il giudice di primo grado lo assolse nel presupposto che «la distanza temporale» potesse averlo «indotto in errore» sulle rilevate discrepanze.

il Fatto 26.6.13
Il Pd litiga sui caccia e il Pdl vince sull’imposta
F-35 e Iva bombardano le larghe intese di Letta
Il Pd litiga sulla parola “sospensione”
Scontro tra Mauro (“Niente stop”) e Delrio: “Spesa senza senso
di Sandra Amurri


Gli F-35 non sono stati ancora acquistati, ma hanno già bombardato governo e Pd. Partito che ora cerca faticosamente di ricostruire dalle macerie una mozione unitaria. Diversa da quella che fino a ieri sembrava esserla: sospensione di circa sei mesi del programma per gli aerei, per approfondire la questione e avviare un'indagine su costi e benefici, al termine della quale decidere se acquistare o meno gli F-35. Che, invece, si è rivelato un accordo di cartapesta per prendere tempo e far saltare il dibattito alla Camera, per poi annunciare che seguirà una nuova assemblea (oggi) per trovare la sintesi tra le lontanissime posizioni.
IL DEPUTATO Francesco Boccia lo dice chiaramente: “Sono favorevole all'acquisto e chi sostiene il contrario in quanto i soldi – quei 14 miliardi di euro, che arriverebbero a 50 con assemblaggio e manutenzione – potrebbero essere utilizzati per la cassa integrazione, per ridurre l'Imu, per la scuola per gli ospedali, fa solo demagogia”. E aggiunge: “Venire meno all'accordo vuol dire compromettere gli equilibri internazionali”. Condividendo di fatto la posizione del ministro della Difesa, il montiano Mario Mauro, per il quale gli F-35 sono necessari per garantire la pace perché rafforzano il livello della difesa. Mentre il collega di governo, Graziano Delrio, afferma che “non ha senso spendere risorse nel comparto militare”.
A conti fatti sarà il Pd con i suoi 293 deputati a decidere l'esito della partita visto che i 36 deputati di Sel e i 109 del M5S più i 2 montiani e i 16 “dissidenti” democratici fanno 163 deputati e la maggioranza resta un miraggio. La parola da eliminare sarebbe “sospensione”, architrave della mozione che il Pd sembrava aver approvato. Così il lavoro degli sherpa, come Nico Stumpo, si fa di ora in ora più serrato: “Sono impegnato a trovare una soluzione di buon senso”. E a Nichi Vendola che via Twitter invita gli amici di @occupyPD a “occupare il partito che non occupa la trincea della pace e del disarmo” risponde piccato: “Non c'è niente da occupare, bisogna lavorare per raggiungere gli obiettivi di contenimento della spesa militare, migliorandone la qualità per la sicurezza del Paese”. A conferma che le campane del Pd, come le stelle sono tante, arriva quella del vicecapogruppo alla Camera Gero Grassi: “A noi la posizione del ministro della Difesa sembra irresponsabile e delegittimante verso il Parlamento che sta tentando di realizzare, con una discussione aperta, il bene dell’Italia che per noi non prevede l’acquisto”. Diversa da quella del presidente della commissione Difesa del Senato Nicola La-torre: “Nel Pd ci sono opinioni diverse, ma spero che si trovi un’intesa, ci sono ampi margini se c'è la volontà, anche tutelando il governo”. Già la tenuta del governo che, sempre secondo La-torre, verrebbe attentata dalla mozione di Sel. Tesi non condivisa da Pippo Civati che definisce la sospensione in vista di una riduzione del numero di acquisto un “regalo per gli italiani”.
QUELLO che emerge è un Pd che in passato votò per l'acquisto degli F-35 con il Pdl e ora che con il Pdl governa cerca di salvare capre e cavoli, in vista di una prossima campagna elettorale in cui un sì all'acquisto peserebbe non poco. Chi, invece, resta coerentemente sulla propria posizione è il Pdl che per bocca del capogruppo Brunetta, al termine della riunione governo-maggioranza alla Camera, dice: “Si deve partire dal testo della Commissione, condiviso dal governo e da noi. Aspettiamo la condivisione del Pd e di Sel”. Come dire: fine dei giochi. Ma i giochi in casa Pd sono appena iniziati, come conferma Roberto Speranza: “Stiamo lavorando a una proposta che tenga conto della nostra sensibilità e di quella del governo”. Gli fa eco il segretario Guglielmo Epifani: “Bisogna trovare una sintesi tra gli impegni internazionali già assunti, il bisogno di austerity e quello di ammodernare il nostro sistema degli aerei”. Dalla riunione di maggioranza l'ultimo a uscire è il ministro Mauro: “Non c'è intesa”, ma “i gruppi stanno lavorando. Il governo è paziente e ascolterà tutti fino alla fine”. Ma anche la pazienza ha il suo limite e a farne le spese sarebbe il governo delle larghe intese.

La Stampa 26.6.13
F35, maggioranza nel caos
Parte del Pd chiede di sospendere il programma di acquisto, il Pdl vuole andare avanti Esecutivo in difficoltà. I pontieri: supplemento d’indagine, decideranno le Camere
di Francesco Grignetti


È diventato un simbolo, il cacciabombardiere F35. E sui simboli, si sa, possono scatenarsi guerre terribili. Dentro il Pd s’è aperta una faglia che i pontieri stanno cercando affannosamente di ricucire tra chi vorrebbe tagliare il programma e far bella figura con gli elettori e chi chiama tutti al realismo. Ma la faglia a sorpresa attraversa anche il governo.
Il ministro Graziano Delrio, Affari regionali, si è esposto forse più di quanto avrebbe voluto. «Dobbiamo fare di tutto per recuperare più risorse possibili per l’emergenza vera che abbiamo, che non è la Difesa, ma il lavoro per i giovani», dice a «Repubblica tv». «Secondo me bisogna fare un’istruttoria supplementare e si può rimodulare questa spesa». Parole che fanno sobbalzare il collega Mario Mauro, Difesa, che invece sta conducendo una battaglia strenua per tenere duro sull’obiettivo di 90 velivoli. «Il governo dice Mauro - non ha cambiato posizione sul programma degli F35. Non c’è stata nessuna riunione a cui ho partecipato dove sia stata decisa una sospensione. Se poi si è tenuta una riunione dove le scelte sono state diverse, allora vuol dire che la maggioranza è già andata...».
È una battutaccia, ma rende bene il clima che si respira in questi giorni. Mauro è furioso: «Evidentemente c’è stata una crisi di governo e io non me ne sono accorto. Una mozione di maggioranza, a questo punto, è l’unica soluzione».
Ma una mozione unitaria ancora non c’è. Il punto è che da qualche giorno le tensioni squassano la maggioranza. E anche gli F35 sono diventati argomento di lite. Se faticosamente il Pd riuscirebbe a trovare una ricomposizione al suo interno, è il Pdl e Scelta civica che a questo punto non ci stanno. Tutti sono d’accordo sulla indagine conoscitiva, che peraltro è prevista per legge, ma si dividono se sospendere nel frattempo le acquisizioni di nuovi armamenti oppure no.
Renato Brunetta è intransigente: «Noi siamo responsabili verso gli impegni presi a livello internazionale, altro che decimali sotto e sopra il tre per cento. Non abbiamo problemi ma non vogliamo ambiguità e lo abbiamo detto».
Guglielmo Epifani prova invece a tenere tutti uniti: «Bisogna trovare una sintesi tra gli impegni internazionali presi da tempo, e il bisogno di ammodernare il nostro sistema di aerei, con il fatto che siamo in una fase di difficoltà finanziaria».
La soluzione a cui tende il Pd è un sostanzioso rinvio, di almeno 7 mesi, per dare modo al Parlamento di svolgere un’accurata indagine conoscitiva. Spiega Gian Piero Scanu, Pd, che è il mediatore in campo: «È indispensabile un’indagine conoscitiva che parta dalle variabili non indipendenti, quali la situazione di rischio nel Mediterraneo allargato e confronti i sistemi d’arma con il nostro modello di Difesa. Guardiamo poi agli auspicati Stati Uniti d’Europa e a una Difesa europea, che ci emanciperebbe da certo ruolo ancillare. Entro gennaio potremmo terminare l’indagine. Nel frattempo il governo sospenda gli acquisti, sia di F35, sia di quell’altro programma ancor più costoso che è Forza Nec dell’Esercito».
Intanto c’è chi ritiene, dentro il Pd, che si sia a un passo dalla crisi e che forse è giunto il momento di riaprire il dialogo con Sel e M5S. «Il voto sugli F35 - ammette Paola Balducci, Sel - potrebbe diventare il primo test per una futura maggioranza politica alternativa alle larghe intese». E Rosy Bindi incalza: «Il governo che ha fatto tanti rinvii e sospensioni perchè fa tanta resistenza a sospendere gli F35? ».

La Stampa 26.6.13
Civati
“Il programma di Bersani era chiaro: quei soldi sarebbero più utili altrove”
intervista di Fra. Gri.


Pippo Civati, deputato Pd e membro della direzione nazionale, non riesce a convincersi. Fosse per lui, del programma F35 non si parlerebbe già più. E sarebbe la prova tecnica di una nuova maggioranza.
«Io lo dico per una questione di fondo. È un programma faraonico e dispendiosissimo. Da qualche parte ci dovrebbe essere ancora il nostro volantino elettorale contro gli F35».
In effetti, prima del voto, l’allora segretario Pier Luigi Bersani aveva parlato molto chiaramente, no?
«Bersani disse che avrebbe rivisto il programma, con i soldi risparmiati avrebbe avviato un piano di investimenti diversi».
Su quella piattaforma, che era politica, simbolica, ma anche pratica, il Pd aveva stretto un’alleanza con Sel. E ora Sel vi incalza, richiamandovi alla coerenza. Era anche un argomento forte verso i grillini.
«Il Pd potrebbe dire: sospendiamo, in vista di una riduzione. Anche per dare un segnale. Ci ragioniamo bene in commissione Difesa e a settembre facciamo un regalo agli italiani. A me sembra una cosa che si può fare. Ma se invece devo immaginare come finisce, procederemo con tre mozioni differenti, ciascuno vota la sua e addio convergenze».
Prevarranno insomma quei suoi colleghi di partito che sono favorevoli all’acquisto.
«Mi sa di sì. Ma resta una posizione senza senso dal momento che anche altri Paesi come Canada e Olanda hanno scelto di uscire di fatto dal programma».

l’Unità 26.6.13
Se una condanna è la vittoria del buonsenso
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Oramai, agli occhi dell’opinione pubblica, i processi di Berlusconi hanno molto di politico e poco da spartire con l’amministrazione della giustizia.
La condanna di lunedì è stata vista come un gesto contro il leader del Pdl e questa è una sconfitta per tutto il sistema giuridico.
Roberto Colombo

La condanna di Berlusconi è la vittoria del buonsenso sui formalismi di una difesa arrogante e ben pagata. Le testimoni a discarico dell’imputato erano tutte a libro paga presso di lui e raccontano storie smentite dalle intercettazioni. Qualcuno crede davvero che ad Arcore si servissero cene eleganti? Le invitate erano tutte donne, attentamente selezionate nell’aspetto fisico. Fossero state eleganti avrebbero accettato alloggi e soldi da un ricco signore che le invitava periodicamente in casa sua? Secondo la testimonianza di Ruby piaceva alla Minetti vestirsi da suora. Era un gesto elegante? Inviare gli atti alla procura perché indaghi su tutte queste testimonianze era un atto dovuto. Alla logica e al buonsenso. Così come dovuta alla logica e al buonsenso era l’attenzione posta dai giudici alle telefonate in Questura di un premier braccato dalla paura che la ragazzina parlasse. Alcuni sostengono che la sentenza è politica. A libro paga anche loro? Il tempo lo dirà. Di certo, per me, c’è solo un fatto. Che mi sarei vergognato di essere italiano se i funzionari di polizia e i giudici avessero «coperto» un comportamento di questa gravità di un presidente del Consiglio. Il nostro è un Paese, ci dice la sentenza, in cui la giustizia c’è per tutti. Anche per le vittime che non hanno la forza di dire in giudizio le proprie ragioni.

l’Unità 26.6.13
Bindi: può il Pd stare al governo col Cavaliere?
di M. Ze.


Nel momento in cui la crisi non si sta affatto risolvendo e forse si sta aggravando, nel momento in cui ci sono tanti problemi da affrontare, sarebbe irresponsabile far saltare l'azione del governo in ragione di questi problemi giudiziari». Guglielmo Epifani parla subito dopo aver preso parte a un incontro al Parlamento europeo, per cercare di sminare il campo del governo Letta. Ieri, prima di volare a Bruxelles ha incontrato per oltre un’ora il premier non soltanto per parlare di Europa, non soltanto per parlare dei provvedimenti che il Consiglio dei ministri dovrà varare stamattina, tutti argomenti sui quali tra i due c’è stata massima sintonia, entrambi convinti, sul fronte interno, che l’azione del governo debba essere incisiva soprattutto per le misure per i giovani e l’occupazione.
Ma il segretario del Pd ha parlato a lungo anche delle fibrillazioni che la sentenza Ruby ha innescato nella maggioranza. Silvio Berlusconi è furibondo, vorrebbe staccare la spina all’esecutivo, tornare alla carica sulla giustizia, i falchi del suo partito sono pronti, aspettano solo l’ok. Enrico Letta l’aveva messo nel conto, erano previste le sentenze della Consulta della scorsa settimana e quella di ieri del Tribunale di Milano. «Siamo sereni, perché nel discorso di insediamento alla Camera non ci sono state zone d’ombra», ha detto ieri Letta a Epifani. Nessuna legge ad personam e nessuno spazio di intrusione delle vicende giudiziarie dell’ex premier.
Ma poi nei fatti le cose sono più complesse. Ieri il siluro l’ha lanciato Rosy Bindi a cui questo governo con il Pdl non è mai andato giù. Il Pd «può stare in maggioranza con un partito guidato da un leader che ha già accumulato diverse gravissime condanne, che pretende l’impunità in nome della legittimazione elettorale e non perde occasione per attaccare la magistratura?», chiede con un post sul sito Democratici davvero. Invita il suo partito ad «aprire un confronto politico serio», scrive: «Sono garantista e fino ai tre gradi di giudizio Berlusconi non può essere considerato colpevole. Né credo che questa sentenza debba pesare nella valutazione della Giunta per le elezioni al Senato. Ma la condanna del tribunale di Milano non può passare sotto silenzio». Dichiarazioni che scatenato il già scatenato Pdl. «Spudorate falsità», le definisce Renato Brunetta, mentre Mara Carfagna invita i «dissidenti» Pd, Bindi e Enrico Rossi (il governatore della Toscana l’altro giorno ha chiesto a Berlusconi di ritarsi dalla vita politica) a farsi da parte loro.
Epifani sembra parlare sia al Pd sia al Pdl quando dice «noi rispettiamo quel che decide Silvio Berlusconi, il problema non è se lui debba lasciare la guida del suo partito, ma il rapporto fra lui e quelli che lo eleggono. Bisogna tenere distinto il piano giudiziario da quello politico». Dall’incontro tra Letta e Berlusconi spiega di aspettarsi «che questo punto venga chiarito». Il vice presidente vicario del Parlamento europeo, Gianni Pittella, candidato alla segreteria del Pd, sull’Huffington Post va giù duro: «Trovo imbarazzante il silenzio del Pd sugli attacchi di Berlusconi alla magistratura e sul tentativo ritorsivo del leader del Pdl sul governo. I massimi dirigenti del mio partito dovrebbero alzare la voce su questo. Berlusconi faccia un passo indietro dalla politica, senza salvacondotti». Critico anche Pippo Civati che dai microfoni di Radio Città Futura dice: «Quando leggo alcune dichiarazioni dei nostri rappresentanti di governo in merito alla condanna di Berlusconi non so se sono del Pdl o del Pd, e mi dispiace perché inverano una delle profezie di Grillo più dolorose per il centrosinistra».
Letta ed Epifani sanno che questo è uno dei momenti più a rischio per il governo, conoscono bene le tensioni interne al Pd e quelle esterne. Per questo sono convinti che ora più che mai bisogna fare «squadra» e che il Pd debba continuare a garantire il massimo appoggio all’esecutivo, «ribadendo che i fatti personali di Berlusconi non devono avere alcuna conseguenza sull’esecutivo». Il sospetto che dal Pdl partano ultimatum più o meno espliciti sulla giustizia è sempre lì, ancora più forte dopo la sentenza Ruby. Davide Zoggia prova a rimettere i puntini sulle «i»: «Non è un argomento tabù perché ci sono molti aspetti che vanno migliorati», ma se il Pdl dovesse «pensare e proporre dei provvedimenti su singole persone, i cosiddetti provvedimenti ad personam, il Pd non sarebbe assolutamente disponibile, anche perché le «regole di ingaggio» individuate all’inizio della vita del governo Letta e di questa maggioranza sono molto chiare rispetto a questo, è chiaro che noi stiamo lavorando insieme solo su due fronti: le risposte alla crisi finanziaria ed economica e le riforme».

La Stampa 26.6.13
Ma nel Pdl c’è chi teme una saldatura a sinistra
di Marcello Sorgi


Pressato da Sel e Movimento 5 stelle, il Pd s’è spaccato sul problema dell’acquisto di 90 caccia da combattimento F35, che potrebbero in futuro anche aumentare. Tra i Democrat c’è un largo fronte di contrari, dalla Bindi a Civati, convinti che in buona parte l’investimento in armamenti vada ripensato e riorientato al più presto verso provvedimenti per il lavoro e per la riduzione del carico fiscale delle imprese. Ma la divisione più grave s’è aperta nel governo, tra il ministro della Difesa Mario Mauro che tiene duro sugli F35, e sostiene (smentito dal segretario Ferrero) che in passato anche Rifondazione comunista s’era schierata a favore, e il ministro degli Affari Regionali Graziano Delrio, favorevole a un ripensamento.
Da Palazzo Chigi è arrivata l’indicazione di annunciare una sospensione provvisoria di ogni decisione, per schivare l’insidia del voto sulla mozione avanzata da Vendola e grillini. Il Pdl sta a guardare, forse anche per godersi lo spettacolo del Pd che si spacca, all’indomani della giornata nera della condanna di Berlusconi. Ma a destra c’è chi si preoccupa dell’insidia di un voto che, al di là della materia per cui è proposto, tende a misurare la possibilità di una maggioranza diversa da quella delle larghe intese che sostiene il governo. Che si formi uno schieramento anti-spese militari, anche più largo di quel che le prese di posizione ufficiali farebbero presumere, è possibile. Che possa raggiungere numeri da maggioranza alternativa, è più difficile. Ma il governo, in un momento così delicato come quello che sta attraversando, non è in grado, né di porre la fiducia per bloccare sul nascere la sorpresa di un risultato parlamentare che lo metterebbe in imbarazzo, né di condurre un’accettabile mediazione che gli consenta almeno di ricompattare le fila dei gruppi parlamentari Pd.
La tensione introdotta dalla sentenza dei giudici di Milano contro Berlusconi non è dunque l’unico motivo di preoccupazione per Letta, che ieri sera ha incontrato il Cavaliere, reduce da un gran consulto del Pdl in cui i «falchi» avevano fatto la parte del leone. Ogni giorno che passa la strada del governo si fa più impervia e questo spiega perché alla fine il presidente del consiglio abbia deciso un alleggerimento dell’ordine del giorno del consiglio dei ministri di oggi, che doveva varare anche le misure per l’occupazione, rinviando le decisioni più spinose, a cominciare dal taglio o dal rinvio dell’aumento dell’Iva previsto per il primo luglio, a una nuova seduta del consiglio, forse sabato, dopo il vertice europeo di questa settimana.

La Stampa 26.6.13
La politica harakiri del Pd
di Luigi La Spina


È vero che le vicende giudiziarie di Berlusconi rischiano di disintegrare il partito da lui fondato e di ipotecare pesantemente il futuro della destra italiana, ma la catastrofica strategia dei dirigenti Pd potrebbe portare il maggior partito della sinistra a non approfittare di una straordinaria occasione per lanciare agli italiani un messaggio di chiarezza e di coerenza. Gli errori, in politica come nella vita, dovrebbero insegnarci a non farli più, perlomeno negli stessi modi.
Sembra, invece, che l’esperienza delle sconfitte, sul piano della politica nazionale, non riesca a modificare per nulla un atteggiamento che, applicato con una pervicace costanza, produce sempre un duplice danno all’immagine del partito, senza arrecare alcun vantaggio.
L’ultimo caso della politica harakiri del partito democratico riguarda la posizione assunta sull’opportunità di acquistare dagli Stati Uniti gli ormai famosi (per la verità, evidentemente non a tutti in quel partito) aerei da combattimento F35. Per apprezzare, però, fino in fondo il gusto masochistico che, ormai, pervade la dirigenza Pd, è meglio fare un breve riassunto delle puntate precedenti.
Dopo una campagna elettorale all’insegna del «grande cambiamento» necessario nella vita politica italiana e condotta con la tranquillità, per non dire la fiacchezza, di chi si sente sicuro della vittoria, il Pd e il suo segretario scoprono, invece, di non aver vinto. A questo punto, pur insistendo sul «grande cambiamento», si acconciano all’accordo con Berlusconi sul nome di Marini per la presidenza della Repubblica, il quale, non solo non è un grande segnale di cambiamento, ma finisce per essere bocciato dai franchi tiratori dello stesso suo partito. Con una giravolta di 180 gradi, per di più in 24 ore, la strategia muta nell’ipotesi di segno politico opposto, quello di Prodi, ma il risultato è lo stesso: la partita del Quirinale termina con una sconfitta per due a zero.
La rivincita, nella gara per il nuovo governo, comincia con un farsesco corteggiamento di Grillo che si conclude con un solenne e umiliante schiaffone in faccia al Pd, simboleggiato dal penoso spettacolo, in diretta tv, dell’incontro di Bersani con i capogruppo del «Movimento 5 Stelle». Non resta, a quel punto, che la partecipazione dei democratici a un governo con il partito di Berlusconi. Una scelta che, da un lato, solleva la protesta di gran parte dei militanti, perché contraddice lo slogan di una ventennale politica della sinistra italiana, dall’altro, non viene neanche riconosciuta come un apprezzabile segno di realismo e di serio riformismo dagli elettori più moderati di quello schieramento, perché viene compiuta con una evidente riserva mentale di ambiguità e di scarsa convinzione. Anche in questo caso, dunque, un doppio danno.
Il pessimo bilancio d’inizio legislatura non convince la dirigenza Pd a cambiare registro, anche se a Bersani succede Epifani. Prima, il nuovo segretario partecipa, con dichiarazioni di appoggio incondizionato ed entusiasta, a una manifestazione dei sindacati contro la politica del governo guidato dall’ex vicesegretario del suo partito e composto da molti ministri provenienti sempre dal suo partito. Poi, sulla questione degli F35, il Pd si divide tra un atteggiamento populista e propagandistico che sostiene la necessità di preferire altre spese a queste, in un momento di difficoltà economiche così gravi per tante famiglie italiane e la presa d’atto, ma silenziosa e vereconda, di un indispensabile rinnovamento della flotta aerea italiana, pena la rinuncia all’efficacia di qualsiasi operazione militare in campo internazionale.
Al di là della coerenza e persino della moralità politica, impressiona l’effetto negativo di un metodo che, solo nel nome, può ricordare la famosa «doppiezza» togliattiana. All’epoca del grande capo Pci nel primo dopoguerra, quella «doppiezza» consentiva di ottenere l’egemonia culturale e politica dell’opposizione al governo e, contemporaneamente, di condizionarlo in maniera pesante in Parlamento, costringendolo a un continuo patteggiamento. Ora, questa novella «doppiezza» non soddisfa elettori e militanti delusi da scelte che, alla fine, non corrispondono alle sbandierate dichiarazioni bellicose e intransigenti dei leader. Ma non ottiene neanche il riconoscimento dovuto alla prova di realismo, di concretezza, di moderno riformismo che il Pd compie appoggiando la politica del premier, anche quando Letta è costretto a decisioni che non possono suscitare vasti consensi popolari.
È ora che nel partito democratico si prenda atto di una strategia sbagliata, non tanto e non solo perché ambigua e confusa, quanto perché destinata all’incomprensione della gran parte degli italiani. È legittimo rivendicare la vocazione maggioritaria della sinistra, ma bisogna dimostrare di meritarla. Cioè avere il coraggio di rivendicare pure, con chiarezza, posizioni coerenti con l’ambizione di poter raccogliere i consensi della maggioranza del Paese.

Corriere 26.6.13
Una malsana immobilità
di Ernesto Galli della Loggia


La sentenza di condanna nei confronti di Berlusconi, emessa dal tribunale di Milano, consegna ancora per chissà quanti anni i due maggiori protagonisti della politica italiana — e quindi, necessariamente, l'intera politica italiana in quanto tale — a una virtuale condizione di ostaggio. Oggi più che mai, infatti, sia il Pdl che il Pd sono soggetti su cui «si possono esercitare ritorsioni — così recita la definizione di «ostaggio» sullo Zingarelli — nell'eventualità che certe richieste non siano accolte».
Oggi come non mai il Pdl è ostaggio — verrebbe da dire di più: prigioniero politico — di Silvio Berlusconi. Che questi decida di liberarlo dalla sua presenza, di favorirne in qualche modo l'emancipazione, è, dopo Milano, assolutamente impensabile. Il Cavaliere ha bisogno del «suo» partito per restare un soggetto politico (e di quale stazza!, egli è tuttora il vincitore in pectore di ogni eventuale competizione elettorale), e in tal modo, grazie al proprio ruolo pubblico, oscurare e annullare le condotte della sua figura privata. Naturalmente, insieme al Pdl è tutta la Destra italiana ad essere ostaggio del Cavaliere, anche se si tratta di un ostaggio preda da un ventennio dalla «sindrome di Stoccolma». E cioè grata al suo padrone per i benefici insperati di cui egli l'ha gratificata evocandola dal nulla in cui era stata relegata dalla Prima Repubblica. Lo stesso nulla di personalità e di idee in cui a questo punto, però, la Destra appare destinata a tornare nel momento in cui Berlusconi cessasse (e prima o poi cesserà!) di essere il suo padrone. Riconsegnando così il Paese a quell'identico squilibrio organico tra Destra e Sinistra che lo ha afflitto fino al 1994.
Il Pd, dal canto suo, solo a prima vista sta meglio. Che se ne renda conto o meno, la sentenza milanese, infatti, lo consegna ancora più che per il passato in mano al sistema giudiziario e al suo establishment castale. A sinistra non sono molti, temo, coloro abituati a leggere sul Fatto Quotidiano le puntuali, documentate analisi critiche di un valente giurista e magistrato come Bruno Tinti circa la deriva politico-correntizia in cui è da tempo immerso il Consiglio Superiore della Magistratura e il tono malsano che esso così finisce per dare a tutto l'ordine giudiziario. Sono molti di più, invece, coloro che da anni vedono nella magistratura una preziosa alleata di fatto, capace tra l'altro di risultati politici molto più risolutivi di quelli ottenuti da un'azione e da una leadership di partito sempre, viceversa, ondivaghe e incerte. La clamorosa condanna di Berlusconi non può che suonare come una conferma di tutto ciò. E quindi dare ancora più spazio, se mai ce ne fosse bisogno, a quell'area giustizial-movimentista alla sinistra del Partito democratico che da sempre, con varie denominazioni, gli sta piantata come una freccia nel fianco. Proprio quell'area politico-culturale, va aggiunto, che finora ha impedito al Pd di essere davvero un partito «a vocazione maggioritaria», padrone del proprio operato, in grado di dare al Paese un governo di sinistra riformatrice sottratto ai ricatti di coloro che a sinistra detestano ogni riformismo.
Sia chiaro: nessuno pensa che la magistratura debba farsi condizionare dalle eventuali conseguenze politiche del suo operato. Ma da quando è accaduto che vent'anni fa tale operato è valso a disintegrare una maggioranza parlamentare, nonché il sistema dei partiti del Paese, sarà pur consentito, spero, di valutare quell'operato anche per i suoi effetti politici. Che nel caso di questa sentenza sono pessimi: suonando come una ratifica della paralizzante immobilità della scena italiana.

Corriere 26.6.13
Nel Pd cresce la tentazione delle urne. Epifani al premier: la base è in rivolta
Bindi torna all’attacco dell’esecutivo. E il segretario avverte: no ai ricatti del Pdl
di Maria Teresa Meli


ROMA — Bastano poche, all’apparenza inutili, novità per capire quello che succede nella politica italiana. E soprattutto nel Pd, dove la sentenza Berlusconi ha innestato un tormentone che difficilmente si esaurirà entro pochi giorni. I cambiamenti sono questi: l’organizzazione del partito e l’ufficio tesseramento verranno spostati altrove rispetto alla sede del Pd, in via Tomacelli, precisamente. Segno che l’apparato teme il precipitare delle cose e tenta di apprestare l’ultima trincea contro Matteo Renzi, tenendo lontani dall’occhio dei sostenitori del sindaco di Firenze gli ultimi luoghi del potere del partito, quella ridotta dove i maggiorenti del Pd sperano di ritrovare forze e vigore per mandare l’altolà a Berlusconi e a Renzi insieme.
L’idea che le elezioni possano arrivare, macinando mesi e aspettative, preoccupa i maggiorenti del Pd. «A questo governo per adesso non ci sono alternative», dice Guglielmo Epifani per non esasperare gli animi, che sono, a dir poco, esacerbati. Poi però il segretario si rende conto delle paure e dei malumori della base e spiega ai suoi: «Dobbiamo dire che il Pdl la deve smettere di mettere le sue bandierine. E noi dobbiamo capire che sarebbe un errore intrecciare insieme le vicende giudiziarie e quelle politiche». Il governo vacilla. Enrico Letta chiede al suo partito se è disposto a reggere l’ondata d’urto che arriverà di qui ai prossimi giorni. La risposta, ovviamente, è un sì, pronunciato da Guglielmo Epifani prima di partire per Bruxelles: «Non sarà Berlusconi a decidere le sorti del governo, ma sappi che noi possiamo reggere fino a un certo punto. Oltre non ce la facciamo. Se Berlusconi attacca i magistrati, o ti chiede delle contropartite sulla giustizia, noi non possiamo dire di sì. La nostra base è già in fermento e vorrebbe il divorzio breve dal Pdl». E non è solo la base che soffre.
L’ex presidente del Pd Rosy Bindi parla, come al suo solito, senza peli sulla lingua, e rivolge a sé medesima ma anche al suo partito questo interrogativo, retorico fino a un certo punto: «Il Pd può stare in maggioranza con un partito guidato da un leader che ha già accumulato diverse gravissime condanne, che pretende l’impunità in nome della legittimazione elettorale e non perde occasione per accusare la legislatura? ». Monta l’insoddisfazione e l’argine del ritornello di Epifani — «A questo governo, per adesso, non ci sono alternative» — non sembra rassicurare troppo i militanti del Pd, e, quel che è più grave, nemmeno i dirigenti e i parlamentari. Dice Gianni Pittella, europarlamentare nonché candidato alla corsa per la segreteria del Pd: «Il silenzio del mio partito sulle esternazioni di Berlusconi contro i magistrati è imbarazzante». Veramente non di silenzio si tratta, ma di una vera e propria strategia della disattenzione. Basta leggere le parole di Epifani: «Nel momento in cui la crisi non si sta affatto risolvendo e, anzi, forse si sta aggravando, nel momento in cui ci sono tanti problemi da affrontare per il nostro Paese, sarebbe irresponsabile far saltare l’azione del governo in ragione di questi problemi giudiziari».
Ma al di là delle dichiarazioni ufficiali e di quelle ufficiose, fatte ai parlamentari per non demotivarli, l’ansia dei dirigenti del Partito democratico corre sui cellulari: scambi di opinione, ricerche di rassicurazione, suggerimenti e consigli: «Ragazzi, preparatevi, perché qui stiamo ballando», dice ai compagni di partito il neo presidente della commissione Difesa del Senato Nicola Latorre. Fassino, più ottimista, dice: «Penso che il governo tenga, noi non abbiamo nessun interesse a far saltare il banco». E il vice ministro Stefano Fassina spiega ad alcuni parlamentari amici qual è lo stato dell’arte: «Il governo tiene e noi reggiamo... per ora». Già, per ora. E poi? La parola al vicepresidente della Camera Roberto Giachetti: «E poi, o il governo fa veramente qualcosa, oppure sarà fibrillazione continua». Non conta, dunque, che Epifani continui a ripetere che «il governo non può dipendere dalle scadenze giudiziarie di Berlusconi», perché sarà inevitabile questo «maledetto intreccio» (per dirla con parole di Matteo Renzi) tra politica, governo, stabilità e giustizia. L’allarme è talmente alto che il sindaco rottamatore medita se scendere o no in campo per la corsa alla segreteria, finora la bilancia propendeva per il sì, ma se gli eventi dovessero subire un’accelerazione, se il governo dovesse cadere anzitempo, perché affrettarsi, dividersi e combattere per una poltrona che, inevitabilmente, verrebbe assegnata a Matteo Renzi?

il Fatto 26.6.13
Pedofili in Vaticano, parla il prete pentito:
“Così alti prelati adescano i ragazzini nei locali di Roma”
Don Poggi: “Vi racconto chi sono i preti pedofili
Il viceparroco svela i dettagli dell’organizzazione che reclutava minorenni per incontri particolari
Secondo la denuncia i ragazzi venivano fatti prostituire per cifre oltre i cinquecento euro
di Marco Lillo e Rita Di Giovacchino


Eccola la denuncia del viceparroco che svela i nomi dei preti e monsignori pedofili. Oggi Il Fatto pubblica il testo della denuncia dell’8 marzo scorso - anticipata il 21 giugno dal nostro giornale - nella quale don Patrizio Poggi descrive un’organizzazione, guidata da un ex carabiniere, che recluterebbe - a suo dire - minori per metterli a disposizione di prelati e parroci a Roma. Quando don Patrizio si presenta davanti al colonnello Sergio De Caprio (conosciuto da tutti come il Capitano Ultimo che ha catturato il boss Riina) per fare i nomi non è solo. Don Patrizio è accompagnato da cinque persone per rafforzare la sua credibilità: monsignor Luca Leorusso, 51 anni, consigliere di nunziatura apostolica e avvocato canonico di Poggi nel procedimento di Restitutio ad Integrum di don Poggi sospeso a divinis dopo la condanna per abusi su minori nel 2002, con pena scontata di 5 anni. E poi don Marco Valentini, 46 anni, viceparroco della Chiesa di Sant’Andrea Avellino a Roma. L’ex viceparroco si fa accompagnare anche dal comandante del XVI gruppo della Polizia di Roma Capitale (Marco Giovagnorio) e da due vigili urbani.
Nella denuncia sostiene che un ex carabiniere sarebbe “organizzatore e promotore di incontri e attività legate alla prostituzione maschile minorile attraverso la quale reperisce soggetti, anche minori, che introduce in Italia e che mette a disposizione dei clienti sacerdoti”. Poi don Poggi fa i nomi di quattro parroci in carica in altrettante parrocchie di Roma ovest e nord; due ex parroci; il segretario particolare di un cardinale importante; un cappellano militare; un insegnante di religione già coinvolto in un’indagine; e poi un monsignore con un ruolo importante nel Cerimoniale. Poggi poi racconta che l’ex carabiniere si serve di un’agenzia di modelli di due amici per reclutare i ragazzi dediti alla prostituzione. La selezione avverrebbe nei pressi del locale Twink vicino alla stazione Termini e nelle discoteche frequentate da omosessuali come il Qube al Portonaccio o in saune. Locali che nulla hanno a che fare con i reati ovviamente. Don Patrizio racconta di minori pagati fino a 500 euro, fa i nomi dei sacerdoti e degli extracomunitari pronti a confermare.
Sono tutte accuse che provengono da un sacerdote condannato a 5 anni e infuriato con il Vaticano. Dopo avere espiato nel 2008 la pena, don Poggi aveva ottenuto nel maggio 2011 la Restitutio ad Integrum dal Papa, mentre la Congregazione della dottrina e della fede continua a tenerlo sospeso a divinis. Molti sacerdoti sono stati sentiti a verbale e alcuni pedinamenti avrebbero dato esito positivo. Sono accuse gravi che il pm Maria Monteleone e i carabinieri del Nucleo investigativo guidati dal colonnello Lorenzo Sabatino vogliono riscontrare in fretta. In un senso o nell’altro.

il Fatto 26.6.13
Le discoteche dove adescavano i minori


NELLA DENUNCIA vengono citati una serie di locali dove sarebbe avvenuto il reclutamento dei minorenni per gli incontri con i prelati. Tra questi il più famoso è il Qube di via del Portonaccio, uno dei locali storici della movida romana. Con una superficie di 3200 mq su tre piani e una capienza complessiva di oltre 6000 persone è la discoteca più grande di Roma. La sua fortuna è legata anche al “Muccassassina”, la festa gay ideata negli anni ‘90 da Vladimir Luxuria e Imma Battaglia, diventata un appuntamento fisso soprattutto per la comunità omosessuale, ma frequentata anche dal pubblico etero. Oltre al locale di Via del Portonaccio, secondo la denuncia, i minorenni sarebbero stati reclutati in un’altra discoteca, il Twink e in una serie di centri benessere e saune in centro. I locali non sono coinvolti nell’indagine.

il Fatto 26.6.13
Il verbale
“Così un ex carabiniere seleziona i ragazzini per i sacerdoti clienti”


Lo scorso 8 marzo, Don Patrizio Poggi si presenta agli uffici del Noe, il comando carabinieri per la Tutela del-l’Ambiente, insieme a Don Marco Valentini, vicario presso la parrocchia Sant'Andrea Avellino a Roma e a Monsignor Luca Lorusso, consigliere della Santa sede, ma anche della Nunziatura in Apostolica in Italia e San Marino. Monsignor Luca Lorusso è anche l’avvocato canonico che ha difeso Don Patrizio Poggi durante il processo per abuso sessuali finito con una condanna a 5 anni di reclusione. Davanti al colonnello Sergio De Caprio, alias Ultimo, e ad altri tre agenti del Noe, Don Poggi, racconta nei dettagli un giro di prostituzione minorile.
“MI SONO PRESENTATO a questo ufficio poiché sento il dovere di tutelare la Santa Chiesa e la comunità cristiana essendo a conoscenza di gravi fatti che ne minano l'integrità e le normative canoniche e penali. Mi sono deciso a fare questa denuncia e a collaborare con la giustizia dopo una lunga riflessione interiore e dopo un percorso doloroso di abusi e soprusi che ho superato grazie alla fede che mi guida e non sono mosso da rancori o rivalse nei confronti di alcuno in quanto sacerdote. Nel corso della mia permanenza a Roma quale seminarista dal 1986 al 1994 e come sacerdote della parrocchia San Filippo Neri dal maggio del 1994 fino al marzo 1999 (anno del mio arresto) quale vicario parrocchiale, ho avuto modo di conosce persone che a vario titolo e ricoprendo vari incarichi commettono reati di natura sessuale nei confronti di minori e inducono e favoriscono la prostituzione minorile e fenomeni riconducibili alla pedo-pornografia che diffondono nella rete web con cassette o dvd e più in generale compiendo azioni che offendono e vilipendono la religione cattolica. Sono a conoscenza che G. B. (un ex carabiniere) frequenta e dimora presso una cappella a La Pisana. Lo stesso è un organizzatore e promotore di incontri e attività legate alla prostituzione maschile e in particolare minorile attraverso la quale reperisce soggetti anche minori che introduce in Italia e che mette a disposizione di clienti, tra i quali conosco sacerdoti quali: Don G. F., Don R. C., Don N. C., Monsignor N. F., monsignor N. T., Don L. L., Don G. V., Don D. R., Mons. F. C.. L’ex l carabiniere, unitamente a omissis e omissis. (un uomo di circa 40 anni il quale dovrebbe avere una agenzia di modelli e attori in Roma) presentano ai su citati clienti i ragazzi che ingaggiano in maniera disparata i quali esercitano poi la prostituzione dando compensi ai ragazzi ed ai promotori. L'ingaggio dei ragazzi da parte dei tre avviene essenzialmente utilizzando la disperazione e l'assenza di mezzi di sostentamento che caratterizzano la loro condizione sociale. Sono a conoscenza che l’ex carabiniere li incontra e li "seleziona" all'interno e nei pressi del locale ''Twink" sito in Roma adiacente alla stazione Termini. A. G. recluta i ragazzi o in locali e discoteche frequentate da persone prevalentemente omosessuali quali "Qube" (zona Portonaccio), saune e centri benessere ubicate in via Mecenate (altezza teatro Brancaccio), via Villari (altezza via Labicana) e in via Persio (nei pressi della caserma dei Carabinieri). Anche i poveri che chiedono aiuto alla parrocchia vengono utilizzati per fini di prostituzione. Omissis è una persona molto effeminata che svolge funzione di direttore di un’agenzia. Nei locali della società "recluta" ragazzi in prevalenza minorenni che sono attratti dalla falsa attività di modello o attore formalmente proposta. Tutti e tre i personaggi citati hanno realizzato un programmi televisivo, nel quale hanno utilizzato minori sia di sesso maschile e di sesso femminile che mi risulta essere collegati con i sacerdoti prima elencati. Sono a conoscenza del fatto che, all'interno dei locali di una chiesa alla Pisana avvengono incontri sessuali a cui partecipano l’ex carabiniere e soggetti minorenni e non provenienti dai paesi dell'est Europa.
Ricordo che il 28 novembre 2012 fra le ore 23.00 alle ore 04.00, unitamente a don Marco Valentini ho visto l’ex carabiniere giungere unitamente a un ragazzo che ritenevamo essere di circa 16 o 17 anni, entrare dal cancelletto verde della chiesa”. Il verbale si interrompe e interviene Don Marco Valentini che conferma quanto detto da Don Poggi, indica una serie di persone che potrebbero fornire a chi svolge le indagini maggiori informazioni e precisa che “i sacerdoti citati pagano prestazioni dei minori e non con somme di danaro che vanno da 150 a 500 euro circa, ed in alcune occasioni anche oltre. Ho saputo che inoltre è coinvolto nel commercio clandestino di "ostie consacrate" acquistate da aderenti a sette sataniche”. Lo stesso Don Va-lentini poi racconta di essere stato vittima di aggressioni che a suo parere potrebbero esser state organizzate “dallo siano state organizzate e comunque promosse dall’ ex carabiniere nei suoi confronti.
“E PIÙ IN GENERALE -aggiunge a verbale- ritengo che a causa del mio carattere un intransigente in termine di legalità e di aderenza ai principi della chiesa alcuni miei superiori gerarchici abbiano realizzato nel tempo situazioni di Mobbing al fine di indurmi ad abbandonare il sacerdozio. Emblematica è la situazione attuale e che vede un provvedimento di "Restitutio ad integrum " firmato da sua Santità Benedetto XVI ancora pendente e mai notificatomi”. Questo è tutto ciò che è stato raccontato agli agenti. La denuncia è stata trasmessa alla procura di Roma, che ha già iscritto nel registro degli indagati tre persone. Don Patrizio Poggi a prova delle sue affermazioni, ha fornito al Noe anche due cartelle con materiale fotografico e una corrispondenza mail. In una di queste le foto utilizzate per il programma televisivo.

Corriere 26.6.13
Scandalo pedofilia nella Curia romana
L'ex sacerdote Poggi fa il nome di nove prelati: «Vero giro di prostituzione»
di Ilaria Sacchettoni


ROMA — L'8 marzo scorso don Patrizio Poggi si accomoda in un ufficio dei carabinieri del Noe (Nucleo per la tutela dell'ambiente) e inizia il proprio racconto. Senza alcun giro di parole, dichiarando in premessa di essere stato condannato a cinque anni di reclusione per violenza sessuale nei confronti di minori, l'ex parroco del San Filippo Neri di Roma assicura di aver sentito «il dovere di tutelare la Santa Chiesa e la comunità cristiana». Quasi una chiamata della propria coscienza «essendo a conoscenza di gravi fatti che ne minacciano l'integrità e le normative canoniche e penali».
Con lui, durante il dettagliato racconto che chiama in causa per nome e cognome nove prelati, sono presenti altri due religiosi (uno dei quali andrà via prima della fine per impegni personali) che in qualche modo garantiscono sulla sua «serietà». È a conoscenza, spiega, di un circuito di prostituzione giovanile/minorile a beneficio di monsignori e parroci romani. Nulla di improvvisato e spontaneo, bensì un giro organizzato e gestito con metodo da una sorta di mediatore. L'ex carabiniere (di cui Poggi fa il nome e che sarebbe iscritto sul registro degli indagati) promuove «incontri e attività legate alla prostituzione maschile e in particolare minorile» per alcuni religiosi. Semplici parroci, ma anche alti prelati. Seguono i nomi.
Come avviene il reclutamento si legge più avanti: l'ex carabiniere, dice Poggi, «li incontra e li seleziona all'interno e nei pressi del "Twink" di via Giolitti, adiacente alla stazione Termini». Seduto su un'auto con un provvidenziale contrassegno «Emergenza sangue», l'ex carabiniere sosta ai lati della via e seleziona i ragazzi, in primis con gli occhi. Il procacciatore lavora in pool. Oltre a lui c'è il direttore di una piccola agenzia che recluta testimonial di spot «attratti dalla falsa attività di modelli o attori formalmente proposta» e un personaggio che «svolge attività di contabile in nero per la parrocchia di San Filippo Neri» da cui lo stesso Poggi, per inciso, proviene.
I tre «selezionatori» hanno già lavorato assieme «realizzando un programma denominato "Belli e Dannati"» ad uso, evidentemente dello stesso mercato. Volutamente meticoloso, don Poggi testimonia di incontri sessuali nelle chiese alla periferia romana con giovani dell'est Europa ed è in grado di fare i nomi di parroci che pagano abitualmente «per prestazioni dei minori», quantificandone perfino le cifre. Somme «fra i 150 e i 500 euro» alla volta dice.
Don Poggi regala al Noe ulteriori spunti investigativi. L'ex carabiniere? Non solo seleziona i giovani destinati all'entourage della Curia, ma è anche «coinvolto nel commercio clandestino di ostie consacrate, acquistate da aderenti a sette sataniche». Dettaglio di sapore un po' gotico del quale dovranno occuparsi gli investigatori coordinati dal procuratore aggiunto Maria Monteleone. Il magistrato ha già iscritto tre persone sul registro degli indagati, ma nessuna risulta essere un sacerdote.
A don Poggi resta il tempo per una confidenza penosa: «Essendo seminarista presso il seminario minore di Firenze ho subìto vari atti di molestie da parte dell'allora rettore». La parrocchia, dice «aveva tra i suoi fedeli anche i noti Pietro Pacciani e Mario Vanni». Il mostro di Firenze e il suo compagno di merende. Un riferimento tanto suggestivo quanto difficile da riscontrare. L'uno e l'altro sono morti da tempo.

Repubblica 26.6.13
Il giudizio universale di J. P. Morgan
di Barbara Spinelli


IL TEMPO storico ha degli scatti, scrive Franco Cordero su questo giornale (9 maggio), e ogni tanto gli scenari mutano improvvisamente: un tabù civilizzatore cade; avanza un nuovo che scardina la convivenza cittadina regolata. Gli Stati di diritto d’un colpo son traversati da crepe, come il Titanic quando urtò l’iceberg e in principio parve un nonnulla.
Oggi, è «l’idea d’uno Stato dove i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario appartengano a organi diversi e siamo tutti eguali davanti alla legge» a esser malvista dallaparte dominantenel XXI secolo. Soprattutto, sono malviste le Costituzioni nate dalla Resistenza. Specie quelle del Sud Europa: in Italia, Grecia, Spagna, Portogallo.
Nessuno Stato lo proclamerebbe a voce alta. Ma lo dice con grande sicurezza, perché fiuta larghi consensi, una delle più potenti banche d’affari del mondo, JPMorgan, in un rapporto sulla crisi dell’euro pubblicato il 28 maggio. È un testo da leggere, perché in quelle righe soffia lo Spirito del Tempo. Il proposito di chi l’ha redatto è narrare la crisi (narrazioneè termine ricorrente) e la morale è chiara: se l’Europa patisce recessioni senza tregua, significa che le sue radici sono marce, e vanno divelte. Berlusconi lo disse già nel febbraio 2009: la nostra Costituzione fu «scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate che vedevano nella Costituzione russa un modello». Sapeva di avere il vento in poppa. Oggi è azzoppato da una sentenza che lo giudica un fuori-legge, ma che importa se il pericolo vero è la Costituzione (solo Vendola chiede le dimissioni). Anche JPMorgan è accusata dal Senato Usa di speculazioni fraudolente, ma che importa.
La radice europea è il delicato equilibrio tra poteri fissato nelle Carte postbelliche. È il bene pubblico e l’uguaglianza. C’è un problema di retaggio,pontifica il rapporto: un’eredità di cui urge sbarazzarsi, in un’Unione dei rischi condivisi. Troppi diritti, troppe proteste. Troppe elezioni, foriere di populismi (è il nome dato alle proteste). All’inizio si pensò che il male fosse economico. Era politico invece: altro che colpa dei mercati. Unico grande colpevole: «Il sistema politico nelle periferie Sud, definito dalle esperienze dittatoriali» e da Costituzioni colme di diritti fabbricate da forze socialiste. Ecco lo scatto che compie la storia: una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti.
Le patologie europee sono così elencate: «Esecutivi deboli; Stati centrali deboli verso le regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso sfocianti in clientelismo; diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo». Di qui i successi solo parziali, in Sud Europa, nell’attuare l’austerità: «Abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».
In tempi più lontani si suggeriva di correggere la democrazia «osando più democrazia »: lo disse Willy Brandt. Non così quando la Cina vince senza democrazia. E non s’illuda chi vuol rafforzare i diritti riversandoli in una Costituzione europea. Se il guaio è l’eredità, il testamento svanisce e i padri costituenti vanno uccisi: non ovunque magari — Berlinosta rafforzando il suo Parlamento e la Corte costituzionale – ma di certo nei paesi indebitati, dove guarda caso la Resistenza fu popolare e vasta.
Il rapporto di JPMorgan è uscito prima che, la notte dell’11 giugno, venisse chiusa l’Ert, equivalente greca della Rai, aprendo una falla nelle torbide larghe intese di Samaras. Di sicuro il colpo di mano sarebbe stato applaudito: anche l’informazione non-commerciale è costoso bene pubblico di cui disfarsi. La trojka (Commissione europea, Bce, Fondo Monetario) ha ottenuto molto, concludono i sei economisti autori del rapporto. Ma il mutamento cruciale, delle istituzioni politiche, «neanche è cominciato». «Il test chiave sarà l’Italia: il governo ha l’opportunità concreta di iniziare significative riforme».
Alla luce di rapporti simili si capisce meglio la smania italiana, o greca, di nuove Costituzioni; e l’allergia diffusa alle sue regole fondanti, che vietano l’uomo solo al comando, l’ampliarsi delle disuguaglianze, la svendita delleutilità pubbliche. L’economista Varoufakis s’allarma: «Murdoch e simili saranno in estasi: l’Ert smantellato diverrà un modello per privatizzare la Bbc, o l’Abc in Australia, o la Cbc in Canada ». O la Rai. Si capisce infine la trepidazione di costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky: ferree leggi dell’oligarchia imporranno una riscrittura delle Costituzioni che svuoterà Parlamenti e democrazia.
Discutendo il presidenzialismo, Zagrebelsky vede in azione il perturbante: «Penso che il tema andrebbe trattato non come fosse al centro di una guerra di religione, ma guardando empiricamente come funziona il presidenzialismo nei vari paesi». Colpisce l’accenno alle guerre di religione, perché fideistica è l’apparente sfrontatezza degli economisti di JPMorgan. Il neo-liberismo s’irrigidisce in credo, come intuì nel 1921 Walter Benjamin nel frammento Capitalismo come religione.
Invece di una svolta, di un rinnovamento, abbiamo una sorta di anticipato Giudizio Universale al cui centro c’è il binomio punitivo colpa/ debito. In ted esco
Schuld significa le due cose ed è parola «diabolicamente ambigua », ric orda Benjamin. Non prefigura redenzioni,
ma trasforma l’economia in divina legge di natura, e volut amente perpetua «un’in-quietudine senza via d’uscita». Siamo prede del Destino, fatto di sventura e colpa: «una malattia dello spirito propria del capitalismo».
Chi la pensa così ha un credo, per di più autoassolutorio. La storia delle nazioni, quel che hanno costruito imparando dagli errori: non è che un incomodo, ribattezzato status quo. In un libro appena uscito, Roberta De Monticelli parla di catarsi mancata dall’Italia, di una speranza «non aperta al vero se non ha memoria» (Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina). Il rapporto di JPMorgan non ha contezza di tragedie e catarsi.
È vero, le Costituzioni sono la risposta data ai totalitarismi. I cittadini devono poter protestare, se dissentono dai governi. Quando l’articolo 1 della nostra Carta scrive che la Repubblica è fondata sul lavoro, afferma che economia e finanza vengono dopo, non primadella dignità della persona. Quando l’articolo 41 sostiene che l’iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», ricorda che il bene pubblico è legge per i mercati. L’Unione sovietica ignorava la legge.
La Resistenza ci ha affidato questo retaggio. Ha generato, contemporaneamente, sia l’unità europea, sia la lotta alla povertà e il Welfare. Sfrattare le Costituzioni vuol dire che l’Europa sarà autoritaria, e decerebrata perché senza memoria di sé. Per altro è nata, conclude De Monticelli: «Perché le leggi di natura scendessero giù, nel fondamento muto delle nostre vite, e in alto invece – al posto del cielo e delle stelle – fossero poste leggi fatte da noi, fatte per porre un limite a ciò che c’è in noi di violento e di rapace (...) Fatte soprattutto perché la giustizia cosmica non c’è, perché l’ordine del cosmo è per noi umani cosmica ingiustizia ». Demolire le Costituzioni in nome della cosmica giustizia dei mercati: questo sì sarebbe colpa-debito, e inquietudine senza via d’uscita.

Repubblica 26.6.13
La macchina cieca dei mercati finanziari
di Luciano Gallino


Uscito di prigione dov’era finito per aver esagerato con i suoi traffici, il finanziere Gordon Gekko dice al pubblico stipato in sala che, guardando il mondo da dietro le sbarre, ha fatto delle profonde riflessioni. E le condensa in una domanda: «Stiamo diventando tutti pazzi?» La scena fa parte di un film su Wall Street, ma la stessa domanda uno poteva porsela giovedì 20 giugno mentre gli schermi tv e tutti i notiziari online sparavano ancora una volta notizie del tipo: “I mercati prendono male le dichiarazioni del governatore della Fed”; “crollo delle borse europee”; “bruciati centinaia di miliardi”; “preoccupati per il futuro, i mercati affondano le borse”. E, manco a dirlo, “risale lo spread”.
Esistono due ordini di motivi che giustificano il chiedersi se – cominciando dai media e dai politici – non stiamo sbagliando tutto preoccupandoci dinanzi a simili notizie di superficie in cambio di ciò che realmente significano. In primo luogo ci sono dei motivi, per così dire, tecnici. Nel mondo circolano oltre 700 trilioni di dollari (in valore nominale) di derivati, di cui soltanto il dieci per cento, e forse meno, passa attraverso le borse. Il resto è scambiato tra privati, come si dice “al banco”, per cui nessun indice può rilevarne il valore. Ma anche per i titoli quotati in borsa le cose non vanno meglio. Infatti si stima che le transazioni che vanno a comporre gli indici resi pubblici riguardino appena il 40 per cento dei titoli scambiati; gli altri si negoziano su piattaforme private (soprannominate dark pools,ossia “bacini opachi” o “stagni scuri”) cui hanno accesso soltanto grandi investitori. Di quel 40 per cento, almeno quattro quinti hanno finalità puramente speculative a breve termine – niente a che vedere con investimenti “pazienti” a lungo termine nell’economia reale. Non basta. Di tali transazioni a breve, circa il 35-40 per cento nell’eurozona, e il 75-80 per cento nel Regno Unito e in Usa, si svolgono mediante computer governati da algoritmi che esplorano su quale piazza del mondo il tale titolo (o divisa, o tasso di interesse o altro) vale meno e su quale vale di più, per avviare istantaneamente una transazione. L’ultimo primato noto di velocità dei computer finanziari è di 22.000 (ventiduemila) operazioni al secondo, ma è probabile sia già stato battuto. Ne segue che chi parla di “giudizio dei mercati” dovrebbe piuttosto parlare di “giudizio dei computer”. Con il relativo corredo di ingorghi informatici, processi imprevisti di retroazione, episodi d’imitazione coatta, idonei a produrre in pochi minuti aumenti o cadute eccessive dei titoli, del tutto disconnessi da fattori reali.
In sostanza, i mercati finanziari presentati al pubblico come fossero divinità scese in terra, alla cui volontà e giudizio bisogna obbedire se no arrivano i guai, sono in realtà macchine cieche e irresponsabili, in gran parte opachi agli stessi operatori e ancor più ai regolatori. E, per di più, pateticamente inefficienti. Soltanto dal 2007 in poi la loro inefficienza è costata a Usa e Ue tra i 15 e i 30 trilioni di dollari. Emergono qui i motivi politici per guardare ai mercati in modo diverso da quello che ci chiedono. Cominciando, ad esempio, a rivolgere ai governanti e alle istituzioni Ue una domanda (un po’ diversa da quella di Gekko, ma nello stesso spirito): se in effetti sono i mercati ad essere dissennatamente indisciplinati, perché mai continuate a raccontarci che se noi cittadini non ci assoggettiamo a una severa disciplina in tema di pensioni, condizioni di lavoro, sanità, istruzione, i mercati ci puniranno?
In verità una domanda del genere governi e istituzioni Ue se la sono posta da tempo, pur senza smettere di bacchettarci perché saremmo noi gli indisciplinati. Fin dal 2007 la Ue aveva introdotto una prima Direttiva sui mercati degli strumenti finanziari (acronimo internazionale Mifid). Non è servita praticamente a nulla, meno che mai a temperare la crisi. Ma governi e istituzioni Ue non si sono arresi. Prendendosi non più di cinque o sei anni di tempo, intanto che i mercati finanziari contribuivano a devastare l’esistenza di milioni di persone, si sono messi alacremente al lavoro per elaborare una Mifid II. E poche settimane fa l’hanno sfornata – in ben tre versioni differenti. Esiste infatti una versione del Consiglio dell’Unione, una del Parlamento europeo e una della Commissione europea. Gli esperti assicurano che nel volgere di un anno avremo finalmente una versione definitiva, che emergerà dal “trialogo” fra le tre istituzioni. Quando entrerà pienamente in vigore, nel volgere di un biennio o due dopo l’approvazione come si usa, anche i mercati finanziari saranno finalmente assoggettati a una robusta disciplina, non soltanto i cittadini che han dovuto sopportare, a colpi di austerità, il costo delle loro sregolatezze. Saranno trascorsi non più di otto o dieci anni dall’inizio della crisi.
È tuttavia probabile che di una vera e propria azione disciplinare i mercati finanziari non ne subiranno molta, e di certo non tanto presto. In effetti, il meno che si possa dire della tripla Mifid è che le divergenze fra le tre versioni sono altrettanto numerose e consistenti delle convergenze, mentre in tutte quante sono pure numerose e vaste le lacune. Da un lato ci sono notevoli distanze nei modi proposti per regolare le piattaforme di scambio private (idark pools),le transazioni computerizzate ad alta frequenza, l’accesso degli operatori alle stanze di compensazione. Dall’altro lato, non si prevede alcun dispositivo per regolare i mercati ombra; vietare la creazione e la diffusione di derivati pericolosi perché fanno salire i prezzi degli alimenti di base; limitare l’entità delle operazioni meramente speculative. Ovviamente, tra divergenze e assenze le potenti lobbies dell’industria finanziaria ci guazzano. Sono già riuscite a ritardare l’introduzione di qualsiasi riforma di una decina d’anni dopo gli esordi della crisi, una riforma che sia una di qualche incisività a riguardo sia dei mercati sia del sistema bancario; se insistono, magari riescono pure a raddoppiare questi tempi. I governi e le istituzioni Ue hanno dunque larghi spazi e tempi lunghi davanti, per insistere nel disciplinare i cittadini invece dei mercati finanziari.

Corriere 26.6.13
Tensioni sul decreto carceri, firma solo Cancellieri
Piano per le carceri Alfano si sfila: non firma la legge
di Giovanni Bianconi


ROMA — Doveva essere un decreto a doppia firma, ministro della Giustizia e ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri e Angelino Alfano, che incidentalmente è anche vicepresidente del Consiglio, ex Guardasigilli nonché segretario del Pdl. Invece no.
A meno di ulteriori e a questo punto clamorosi slittamenti degli ultimi minuti, stamane al Consiglio dei ministri arriverà un provvedimento proposto dalla sola Cancellieri: misure urgenti per fronteggiare l’emergenza carceraria. Tutta la parte sulla sicurezza e altri aspetti di competenza del Viminale resta fuori, stralciata in vista di un nuovo appuntamento governativo. E chissà se nella decisione di non sottoscrivere, in questo momento, un testo insieme alla collega di via Arenula, per Alfano abbia contato più la carica di ministro o una delle altre.
La coincidenza tra il decreto dimezzato (con relativo sgravio di responsabilità da parte del vicepremier) e le polemiche seguite alla nuova sentenza di condanna per Silvio Berlusconi è sotto gli occhi di chiunque. Con tutto il suo significato, quantomeno simbolico e evocativo. Dietro queste decisioni si trovano sempre giustificazioni tecniche: problemi giuridici ancora irrisolti, testi da limare e via di seguito. Ma al di là delle versioni ufficiali, mai come in questo caso risalta una sola realtà: Alfano si sfila dal primo intervento governativo di peso in materia di giustizia, anche se su un aspetto specifico come il problema del sovraffollamento delle prigioni. Ed è inevitabile immaginare che le fibrillazioni seguite alla sentenza di Milano abbiano pesato sulla scelta. Magari per dare un segnale concreto che il governo può pure reggere, ma non si pensi che il percorso che ha davanti non sia segnato da quel che accade nei tribunali. Tanto più quando s’interviene sul terreno minato che compete al Guardasigilli.
Di fronte alle reazioni scandalizzate del centrodestra per il verdetto sul caso Ruby, il ministro Cancellieri ha rispettato la regola del silenzio. Nessun commento, né sulla condanna né sul putiferio politico che ne è seguito. Nemmeno per dire delle ovvietà che in un momento come questo chissà come sarebbero lette: per esempio che se un imputato si ritiene innocente è normale che consideri ingiusta la condanna; meno normale è considerare ingiusta e «politicizzata» una sentenza (e tutto il resto degli improperi lanciati ai giudici) solo perché non è andata nel verso sperato, pena la perdita di credibilità dell’intero sistema giudiziario.
Stavolta Anna Maria Cancellieri non ha ribadito nemmeno il tradizionale rispetto per l’autonomia della magistratura; non perché non lo consideri scontato, anzi, ma per evitare che anche la più semplice delle considerazioni potesse essere strumentalizzata. Soprattutto alla vigilia del tanto annunciato decreto-carceri, che dopo il via libera del Consiglio dei ministri dovrà affrontare un non semplice cammino parlamentare. Del quale qualcuno potrebbe approfittare per tentare di inserire o togliere eventuali norme considerate a favore o contro l’imputato Berlusconi, con tutto ciò che ne conseguirebbe.
Molti esponenti del Pdl hanno colto l’occasione della nuova condanna dell’ex premier per tornare a chiedere riforme radicali sulla giustizia, rimaste rigorosamente fuori dal programma del governo Letta, ché altrimenti difficilmente sarebbe nato. D’altronde, se ci fosse stata l’intenzione di mettere mano a temi che dividono destra e sinistra da oltre vent’anni, al dicastero di via Arenula non sarebbe stato chiamato un tecnico di tutt’altra materia come l’ex prefetto Cancellieri. Scelta per gestire nella maniera più indolore possibile l’ordinaria amministrazione, e risolvere singole emergenze. Come quella delle prigioni troppo piene, per l’appunto. Senza alimentare ulteriori tensioni, che interventi più incisivi o «di sistema» finirebbero inevitabilmente per provocare; bastano quelle provocate dagli appuntamenti giudiziari dell’ex premier, che non sono ancora finiti.

il Fatto 26.6.13
Giunta capitolina, è quasi fatta: 6 tecnici, c’è la Barca


DOPO 14 giorni, la giunta Marino pare prendere forma. E oggi potrebbe essere varata. Anche se rimangono ancora caselle importanti da riempire. La certezza è che la squadra di 12 assessori sarà per almeno metà composta di tecnici. Cinque i politici sicuri, con quattro del Pd; Paolo Masini, zingarettiano, ai Lavori Pubblici; la renziana Estella Marino all’Ambiente, poi due dalemiani, Daniele Ozzimo (Emergenza abitativa e Decoro) e Marta Leonori (Commercio, Turismo e Attività Produttive). Il vicesindaco sarà Luigi Nieri di Sel. Poi i tecnici: con Giovanni Caudo, docente all'Università Roma Tre, all’Urbanistica e il presidente del comitato paralimpico Luca Pancalli allo Sport e agli Stili di Vita. Confermata alla Cultura Flavia Barca, sorella dell’ex ministro Fabrizio, e direttrice dell’istituto di Economia dei media della Fondazione Rosselli. Dentro anche Alessandra Cattoi, storica capoufficio stampa di Marino: forse con delega alla Scuola. Alle Politiche Sociali, Rita Cutini (comunità di Sant’Egidio), candidatasi con Scelta Civica alle Politiche. Probabile presidente del Consiglio, Mirko Coratti: Pd, area Popolari. Restano da assegnare tre deleghe pesanti: Bilancio, Sicurezza e Trasporti. Gli ultimi nodi, nell’infinito Risiko del Campidoglio.

il Fatto 26.6.13
“Nessun nome a Marino” A Roma vince la linea Grillo
Respinta l’offerta del sindaco
Ma sul web il 79% era per il sì
di Luca De Carolis


L’ennesimo scontro dentro 5 Stelle si consuma all’ombra del Campidoglio. Dura una giornata che pare eterna, e alla fine lo vince Grillo. L’ispiratore, di fatto, di una dichiarazione delle 21.15: “Non ci sarà nessun nome per Marino, è finita cosi. Il sindaco ci ha fatto una richiesta e noi abbiamo risposto”. A parlare è un consigliere comunale di M5S a Roma, Daniele Frongia. Poche parole, a chiudere una vicenda che poteva spalancare nuovi scenari anche a livello nazionale. Il sindaco di Roma aveva chiesto ai 5 Stelle di indicare un tecnico per la sua giunta: una donna, per l’assessorato alla Legalità e Sicurezza. E i 4 consiglieri erano più che disposti, tanto da lanciare un sondaggio sul web tra gli iscritti. Il 79 per cento ieri ha detto sì. Ma Grillo ha detto no. E alla fine il suo veto ha prevalso, dopo una tesa telefonata con i consiglieri.
La giornata inizia proprio nel segno del fondatore, che dal suo blog sbarra la strada all’entrata in giunta: “In merito ad alcune iniziative dei consiglieri comunali di Roma si ribadisce che il MoVimento 5 Stelle non fa alleanze, né palesi né tantomeno mascherate, con alcun partito, ma vota le proposte presenti nel suo programma. L’unica base dati certificata con potere deliberativo è quella nazionale che si è espressa durante le Parlamentarie e le Quirinarie: il voto chiesto da De Vito on line non ha alcun valore”. È furibondo, Grillo, perché non è stato consultato prima del lancio del sondaggio, in cui si chiede agli iscritti M5s di Roma se fornire o meno “uno o più curricula allo staff del sindaco”.
I 4 CONSIGLIERI, tra cui l’ex candidato sindaco Marcello De Vito, si riuniscono. E tirano dritto. “Il sondaggio on line va avanti, chiariremo la nostra posizione dopo la chiusura del voto alle 15 con una conferenza stampa” fanno sapere. Le agenzie traboccano di reazioni. A cominciare da quella di Marino: “A Grillo replichiamo con il nostro metodo di lavoro: faremo scelte sulla base dei curricula e delle capacità delle singole persone. E comunque non abbiamo proposto nessuna alleanza a M5s”. Il segretario del Pd Lazio, Enrico Gasbarra, entra duro: “Grillo si conferma il padre padrone del suo movimento, impossibile il confronto con chi ha come priorità un chiaro disegno di distruzione”. Da 5 Stelle, censure in serie. “Non possiamo allearci con partiti, lo dice lo statuto” ricorda il capogruppo in Senato, Nicola Morra. I consiglieri si chiudono nell’ufficio in via delle Vergini. De Vito ammette: “È un momento difficile”. In serata i 4 fanno trapelare la notizia: il sondaggio ha dato il via libera alla proposta di un nome al sindaco. Con il 79 per cento, pare (ma il dato ufficiale verrà diffuso oggi). Nella stanza però la tensione è altissima. Qualcuno si alza e se ne va. C’è spaccatura. Alla fine, arriva la telefonata di Grillo. Parla in viva voce. Da fuori lo sentono dire: “Avete sbagliato, dovete dire no”. De Vito replicherebbe: “Abbiamo sbagliato, ma tu sapevi del sondaggio”. Di sicuro c’è che alle 21.15 Frongia cala il sipario. Niente nome a Marino. Per il sollievo anche del Pd nazionale, che proprio non ha gradito l’apertura a sorpresa del sindaco. Raccontano di un Epifani “irritato”. Ora Marino dovrà sostituire il possibile nome grillino con un altro tecnico. Pare comunque vicino alla quadra, anche se ieri ha incassato l’ennesimo no: quello di Marina Dragotto, che doveva essere l’assessore all’Urbanistica. Marino manterrà lo schema con quattro assessori Pd. Al posto della renziana Bonaccorsi, che aveva rifiutato due giorni fa, un’altra deputata, Marta Leonori: membro di spicco della fondazione dalemiana Italiani Europei, vicinissima al sindaco, di cui ha coordinato il comitato elettorale. Il suo ingresso spalanca le porte del Parlamento al lettiano Marco Di Stefano. Eugenio Patanè, reggente del Pd Roma: “Il sindaco ci ha presentato l’ipotesi della sua squadra, manca solo qualche aggiustamento. La giunta molto probabilmente verrà presentata domani (oggi, ndr) ”. Ma restano ancora caselle da riempire, tra cui quella ingombrante del Bilancio.

il Fatto 26.6.13
M5S: parlamentari in fuga, risse con la stampa
In bilico Alessio Tacconi e Monica Casaletto
Alla Camera la lite tra cronisti e 5 stelle su un post di Beppe
di Emiliano Liuzzi


Un colpo ai giornalisti, uno agli espulsi. E la barca va. A fatica, in quel mare magnum della politica, Beppe Grillo cerca di tenere insieme un Movimento 5 Stelle che a volte sembra sull’orlo di una crisi di nervi, salvo poi riprendersi all’improvviso, senza che nessuno se lo aspetti. Ma il momento non è sensazionale, se si esclude la vittoria elettorale alle comunali di Ragusa. Grillo non vuole per niente ammorbidire i toni. Se la prende dal blog con i giornalisti, sui quali spara cannonate: “Pennivendoli e gossippari”, li ha definiti. Per poi aggiungere che “andrebbero cacciati da Montecitorio”. Con il risultato che alla Camera, dove il Movimento aveva in programma una conferenza stampa, i cronisti e i parlamentari stellati hanno discusso in maniera plateale, per l’ennesima volta. “I giornalisti devono essere nei posti deputati allo svolgimento del loro lavoro – dice Laura Castelli – non nei nostri uffici o dietro le porte dei bagni a origliare. Un tempo non era ammessa la presenza della stampa”. Come accadeva decenni fa, quando ancora nelle campagne c’era la mezzadria? chiedono i cronisti. “Meglio la mezzadria, almeno quella funzionava”.
Intanto, sul fronte dissenso, le cose non è che vadano meglio. I Cinque stelle perdono numeri. I vertici non ne fanno un dramma, anzi. La considerano una loro vittoria. “Nessuna espulsione, se ne andranno loro. Quelli che conosciamo, quelli della diaria e degli accordi col Pd”. Questo Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si sono detti. E questo è quello che accade. Senza nessuna preoccupazione da parte dei leader che nel taglio delle radici ci credevano e che ottengono ormai senza colpo ferire. Se n’è andato Adriano Zaccagnini, ora dovrebbe essere la volta di Alessio Tacconi, deputato, e Monica Casaletto, senatrice. Entrambi con motivazioni che spiegheranno alla stampa nelle prossime ore.
SU TACCONI DUBBI non ce ne sono, perché lui stesso ha spiegato che la sua è una questione di soldi e che è contro il dimezzamento dello stipendio: “Ho sollecitato il capogruppo Riccardo Nuti due settimane fa. Gli ho fatto presente che le spese vive della mia famiglia superano i 5 mila euro lordi che dovrei percepire, stabiliti dall’interpretazione restrittiva che è stata fatta rispetto al Codice di comportamento”, ha detto. “Ho sollecitato affinché il mio caso fosse valutato, perché potessi continuare a mantenere la mia famiglia e restare nel M5s nelle modalità decise dall’assemblea dei parlamentari”.
Nessun dissenso politico. Solo che Tacconi vive tra la Svizzera e Roma, e vorrebbe una deroga ad personam perché altrimenti non può mantenersi. La sua richiesta non è neanche stata presa in considerazione. Perché di una cosa Grillo non vuole sentir parlare: i soldi, appunto. “Era stato deciso prima delle candidature, è stato riproposto in campagna elettorale, e su questa strada andiamo avanti. Non si tradisce il mandato degli elettori su un argomento così serio”.
Restano però quelli che non ci stanno: alcuni animati dai problemi economici, altri da questioni più politiche. Dentro al Movimento 5 stelle c’è una parte che, fin dall'inizio, è rimasta convinta che si dovesse aprire un tavolo col centrosinistra. A livello locale e nazionale. Una questione – e su questo Casaleggio è più rigido di Grillo – che non è in discussione: “Il centrosinistra è il Pdmenoelle, chi vuole andare lo accoglieranno a braccia aperte”. A seguire Zaccagnini e Tacconi, dovrebbe esserci Monica Casaletto, senatrice lombarda, da tempo in rotta di collisione coi vertici. Ma non è sola. Nel gruppo dei dissidenti, quelli che hanno già formato una squadra ombra, ci sono anche altri che hanno congelato la loro posizione, in attesa degli eventi: per adesso restano, poi si vedrà. Come Paola Pinna, sarda, arrivata a un passo dalla gogna. Il suo nome era già pronto, poi Grillo e Casaleggio hanno frenato per opportunità. Lei non dice apertamente di volersene andare, aspetta di capire se c'è una possibilità (e i numeri) per formare un gruppo con gli altri che dovrebbe contare su 20 deputati e dieci senatori. E nelle riunioni per ora la possibilità non c'è: quelli che alla fine usciranno potrebbero essere venti in tutto. Non di più.
Sta per prendere una decisione anche Marta Grande, 25 anni, la più giovane. Qualcuno – sui giornali – a febbraio l’aveva anche indicata come possibile presidente della Camera, se una presidenza della Camera il governo avesse offerto a Grillo. Ma è rimasta una intuizione molto giornalistica e poco reale: Marta Grande da tempo frequenta poco i suoi colleghi.

il Fatto 26.6.13
Criticare Grillo non è lesa maestà
di Roberta De Monticelli


Scrivo a Nicola Morra Senatore della Repubblica, ma scrivo anche a Nicola Morra collega insegnante di Filosofia, anzi di più: educatore, perché il risveglio alla ragione e alla libertà che può aver luogo in un ragazzo negli anni del liceo è qualcosa di immensamente più importante per il futuro di un Paese del seguito che avrà poi la formazione di questo ragazzo. Ti ho conosciuto nella tua Cosenza proprio in occasione di un incontro che tu avevi organizzato sulla “questione morale”. E già allora avevo ammirato la ricchezza e insieme la chiarezza dei tuoi riferimenti al pensiero etico e civile dei nostri classici.
SOCRATE E KANT erano evidentemente interlocutori quotidiani per te, ma tu li facevi dialogare con i classici di quel pensiero etico e civile italiano che aveva ispirato la parte migliore – e sconfitta, purtroppo – della resistenza antifascista: lo spirito di Piero Calamandrei sembrava soffiare nelle tue parole, e ricordo che ci fermammo un momento sull’idea di un filosofo quasi dimenticato, Guido Calogero: l’ispiratore di Norberto Bobbio, ma soprattutto l’autore di Filosofia del dialogo (1969). Colui che riformulò l’imperativo categorico kantiano proprio come il dovere di permettere all’altro di contraddirmi. “Ogni altra verità è un logo, che va sottoposta al dialogo. Ogni altra verità è soggetta alla discussione, e nessuno può pretendere che si finisca a un certo punto di discutere. Per nessun’altra verità io posso prescindere dalla critica altrui, dalla discussione e dal consenso altrui. Ma la volontà di discutere non ha bisogno di essere discussa, perché ogni discussione la presuppone”.
Ho ancora nelle orecchie il discorso che tenesti forse un mese fa in Parlamento. Si concludeva con queste parole: “Restituire un po’ di speranza ai giovani”. Ma non erano le solite parole vuote cui siamo abituati, perché quella speranza fluiva fin dall’inizio del tuo discorso da te a quei ragazzi venuti ad assistere alla seduta parlamentare. Che indicava loro, i ragazzi, come i “cittadini di domani”.
UNA QUASI-CITAZIONE da don Milani, del resto, che “sovrani di domani” chiamava i suoi allievi. E da cima a fondo quel discorso ribadiva proprio questo: la trasparenza che tanto manca alle pratiche di governo italiane comincia a mancare fin dal Parlamento, da questo Parlamento che non esercita le sue fondamentali funzioni – e non riesce ad esempio a far applicare una legge che esiste fin dal 1957 sul conflitto di interessi. Ma invece di fermarsi qui, o agli altri scandali che quel discorso certo menzionava, ecco l’idea tornare, chiara, ferma: le regole rinviano a un ambito che prima che giuridico è etico, dicevi. La crisi che ha investito il nostro paese è una crisi morale prima che politica. Citavi l’eredità morale di Dossetti e il suo contrario, la manzoniana “giustizia che s’aggiusta”, che ispira tanti parlamentari venuti dalle file dell’avvocatura italiana, e parte della quale al conflitto di interessi partecipa. Ti richiamavi a una luce di rigore e indipendenza nella magistratura italiana come Piercamillo Davigo.
Ecco: quello che più mi colpì di quel discorso era il rispetto profondo per il ruolo del Parlamento, come rappresentanza dei cittadini ed esercizio della loro sovranità “nei limiti e nelle forme” stabiliti dalla Costituzione – e di nient’altro. Questo ruolo tanto umiliato, per diverse ragioni, nella storia della nostra Repubblica. Non ce ne era abbastanza per sollevare una speranza profonda in tutti coloro che della completa esautorazione del Parlamento da cui questo governo è nato continuano a soffrire? E allora mi tornò in mente la questione fondamentale, quella cui la Filosofia del dialogo di Calogero voleva rispondere: “che cosa avviene, in una democrazia, se il più gran numero decide di sopprimere la democrazia”?
Troverai lunga questa premessa forse, per venire alla questione della ventilata e poi avvenuta espulsione di una senatrice dissenziente dal M5S, e forse in avvenire di altri, e alle espressioni che i media hanno in queste ultime settimane riportato come tue, in questa occasione. Ecco, Senatore Morra: a che titolo chiamare “mancanza di rispetto” un'opinione critica espressa dalla Senatrice Gambaro – peraltro che io sappia – senza alcuna parola offensiva? "Mancanza di rispetto" verso chi e perché? O addirittura "offesa"! Dire appunto che uno sbaglia (fra l'altro, che sbaglia a sparare vere parole di insulto, del tipo "morti viventi" e mille altre anche più offensive) è un'"offesa"? E auspicare addirittura che una persona possa chiedere o ottenere “perdono”? Cosa può mai aver a che fare un concetto religioso con la relazione fra i partecipanti a un movimento? Non era questione di "una testa un voto"? O ci sono teste che son più "une" delle altre? Come concludere che “un errore è stato corretto”, o che “se qualcuno ha idee diverse può tranquillamente andar via”?
CERTO, PRIMA O POI le strade si dividono. Ma un movimento politico che intenda portare quel rinnovamento morale e civile che tanto ci sta a cuore non dovrebbe in primo luogo applicare a se stesso la “filosofia del dialogo”? Che altro mezzo c’è alla libera partecipazione alla formazione delle decisioni se non la discussione? Quale consenso, ci insegna Socrate, può essere libero se non è libera la discussione? Chiunque credo capisca che sono stima e amicizia a indurmi a queste domande. E ti scrivo quindi nello spirito del nostro Calogero: “Nessuno al mondo potrà mai convincermi a spezzare quel rapporto di comprensione, che è il rapporto etico fondamentale”. A rinunciare alla speranza di capire, infine, anche quello che pare incomprensibile.

La Stampa 26.6.13
Il sindaco new age di Messina “Ho detto no a Beppe, e ho vinto”
Accorinti: “Non voglio lo stipendio, mi basta quello da professore”
Al ballottaggio Accorinti ha ottenuto 47.886 voti e il 52,67%
Il suo avversario di centrosinistra Calabro si è fermato al 47,33%
di Laura Anello


Messina. Ha indossato la fascia tricolore sopra la t-shirt con la scritta «No ponte», una delle tante con cui ha girato negli ultimi dieci anni per opporsi alla mega-opera costata seicento milioni di sola progettazione. «Il colosso non si farà mai, ma c’è gente che sta andando in pensione dopo una vita passata a lavorare nel consorzio Ponte sullo Stretto», spiega Renato Accorinti dal telefono della sua casa dove risponde, come da accordi, alle tre e mezza del pomeriggio, «perché il cellulare non ce l’ho, non l’ho mai avuto, anche se adesso mi sa che dovrò soccombere. Anzi, mi scusi un attimo ché suonano al citofono».
Incredibile che quest’uomo di 59 anni arrivato dall’obiezione di coscienza, dalle battaglie nonviolente, dalle marce antimilitariste, dall’ambientalismo, sia il nuovo sindaco di Messina, 245 mila abitanti, la città che un tempo era la «babba», la sciocca, risparmiata dalle pallottole di Catania e Palermo, e che poi si è scoperta soltanto più capace di una crudele, apparente, rispettabilità. Pentola a pressione di mafia, ’ndrangheta e massoneria che non è mai esplosa. «Dal dopoguerra in poi nessuno ha scalfito il potere, mai. Adesso abbiamo vinto a mani nude contro una portaerei con missili nucleari», dice con un sorriso sul volto scavato da santone.
Una vittoria partita dal basso, da una raccolta di 5.000 firme, e poi approdata al ballottaggio con Felice Calabrò, lo strafavorito esponente del Pd che al primo turno ha mancato la vittoria per soli 59 voti. Calabrò «figlio politico» di Francantonio Genovese, il reuccio di Messina, Accorinti outsider con la bicicletta e il barbone bianco. Il Movimento Cinque Stelle, che alle politiche aveva raggiunto il 30 per cento, non è arrivato neanche al 3 nonostante la candidata Maria Cristina Saija avesse aggiunto «detta Grillo» sulla sua scheda elettorale.
Proprio Accorinti era stato vicino a correre per la lista dell’ex comico genovese, «ma non ero iscritto, io non prendo tessere, sono anarchico dentro, allora non se n’è fatto niente. Ma del Movimento non mi è piaciuta la linea politica dopo le elezioni. Se hai vinto, hai la responsabilità di governare». Lui ha sempre fatto l’insegnante di Educazione fisica alle scuole medie. «Adesso ho rinunciato allo stipendio di sindaco, mi tengo quello da professore che basta alle mie necessità. Non amo il superfluo, la vera ricchezza è lo spirito», racconta. Già. Se Beppe Grillo con le sue invettive è la post-politica, Accorinti è la new age dell’amministrazione, uno che a scuola ha realizzato «una cosa forse unica in Occidente, la stanza del silenzio, del respiro consapevole e della meditazione, e i miei alunni quando escono da lì scrivono pensieri di profondità incredibile. Li faccio leggere ai miei amici intellettuali dicendo che sono versi di monaci tibetani del 1200 e loro ci credono».
Ebbene, quest’uomo che dieci anni fa salì per un giorno e una notte sul pinnacolo principale del traliccio Enel alto 220 metri per dire no al ponte sullo Stretto, adesso è al timone di Messina, impegnato nella missione impossibile di salvare dal dissesto una città con un buco da 392 milioni di euro dove tutto è commissariato, dalla Fiera alla Asl, dall’Ente porto all’Istituto case popolari. Un disastro. «Ma a me, più del default economico, preoccupa quello culturale e spirituale. Nella mia vita ho incontrato tre volte il Dalai Lama, l’ultima volta sono rimasto con lui per mezz’ora nella stessa stanza, ed è stata un’esperienza pazzesca. Sono pieno di energie grazie agli esercizi di respirazione yoga, credo che la politica debba ripartire dalla partecipazione, basta con la delega. Come diceva Giorgio Gaber, voglio essere concreto come un sognatore».

l’Unità 26.6.13
Editoria, torna norma antiblog
di Giuseppe Vittori


ROMA Un’altra proposta di legge ammazza-blog? L’iniziativa ricorda da vicino quella portata avanti nel 2011 dal governo Berlusconi, all’interno dell’operazione complessiva con cui intendeva mettere lo stop alla pubblicazione di intercettazioni telefoniche. Ma il promotore, stavolta di Scelta Civica, dice di non vederla affatto così: che non si parli di bavaglio.
La norma in questione è contenuta in una proposta di legge depositata alla Camera da Scelta civica, per modificare la legge sulla stampa del 1948 in tema di diffamazione. Il testo, a prima firma di Stefano Dambruoso, è stato depositato il 6 giugno ed è stato assegnato alla commissione Giustizia, dove è già partito l’iter per riformare le disposizioni in tema di diffamazione a mezzo stampa. La proposta, sottoscritta anche da altri tredici deputati centristi, introduce anche per le testate online l’obbligo di rettifica e dispone che «per i siti informatici, ivi compresi i blog, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, in testa alla pagina, prima del corpo dell’articolo, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono». La multa prevista per chi non rispettasse quest’obbligo andrebbe dagli 8mila ai 16mila euro.
L’obbligo di rettifica viene esteso anche alla stampa non periodica, inclusi quindi anche i libri. In questo caso la rettifica deve avvenire entro sette giorni dalla richiesta su due quotidiani a tiratura nazionale e nelle successive edizioni e ristampe con chiaro riferimento al testo da correggere. Peraltro il testo presentato da Dambruoso prevede in ogni caso, anche per i quotidiani, che la rettifica venga pubblicata senza alcuna possibilità di replica o di commento, mentre per il reato di diffamazione a mezzo stampa viene cancellato il carcere, sostituito da una multa da 5 a 50mila euro.
«Nessuna norma ammazzablog», contesta però Dambruoso, che parla della volontà di «valorizzare il momento della rettifica», da un lato «per salvaguardare le persone che hanno interesse alla correzione di dati inesatti» e dall’altro per introdurre «ricadute significative nella determinazione del danno». Intanto all’esame della commissione Giustizia ci sono già anche altre due proposte sulla diffamazione a mezzo stampa, di cui sono relatori Walter Verini (Pd) ed Enrico Costa (Pdl).

La Stampa 26.6.13
Stesi a terra come morti Nuova protesta a Istanbul
Diecimila contro il rilascio dell’agente che ha ucciso un dimostrante
di Marta Ottaviani


Istanbul Stesi per terra. Morti, come Ethem Sarısülük, il giovane ucciso ad Ankara durante le proteste delle scorse settimane, con un colpo alla testa esploso a distanza ravvicinata. La protesta in Turchia cambia faccia, ma non per questo diventa meno intensa. Ieri sera fra Istanbul e Ankara ancora circa diecimila persone sono scese in piazza per manifestare contro il governo islamico-moderato, in particolare contro la decisione della Procura di Ankara di rilasciare senza conseguenze l’agente che ha ucciso Ethem. Lo spiegamento delle forze dell’ordine era imponente ma, per la prima volta dall’inizio della protesta, sono usciti dalle caserme per nulla.
È cambiato il modo, ma la rabbia è rimasta la stessa. I giovani di Piazza Taksim sembrano aver accolto la mano tesa dell’Europa e hanno iniziato prima a manifestare, a centinaia in diverse parti del Paese, stando zitti e fermi. Un fenomeno, quello dei «duran adamlar» - gli uomini immobili in piedi - che ha commosso il mondo ed è diventato il simbolo di una protesta incisiva e pacifica al tempo stesso, che non può essere repressa brutalmente, com’è avvenuto nelle manifestazioni delle scorse settimane, e dove la decisione di sdraiarsi rappresenta l’ultima, intensa evoluzione.
Ma la tensione nel Paese rimane alta e la polizia è nell’occhio del ciclone. Due giorni fa, nella parte asiatica di Istanbul e nella capitale Ankara, altri due cortei sono stati dispersi dalle forze dell’ordine. Su internet, poi, è stato diffuso un video agghiacciante, dove 15 poliziotti picchiano tre manifestanti in un garage di Antalya, la città simbolo delle vacanze estive in Turchia, nota per il suo mare e la spensierata vita notturna.
Le immagini dei giovani che continuano a manifestare senza arrendersi, ma in modo pacifico, contrastano con l’atteggiamento del governo. Erdogan domenica ha parlato con il presidente americano Barack Obama, assicurandogli sforzi per il rispetto della libertà di espressione e il miglioramento degli standard democratici. Ma da giorni il premier turco ha puntato il dito contro un gruppo di manifestanti, accusati di aver bevuto alcol nella moschea di Istanbul che aveva offerto loro riparo durante i violenti scontri con la polizia nel quartiere di Besiktas.
Ieri poi nel suo discorso del martedì davanti al proprio gruppo parlamentare, il primo ministro è tornato a menzionare le influenze straniere, che avrebbero giocato un ruolo chiave nell’organizzazione delle manifestazioni, e la stampa internazionale, accusata per l’ennesima volta di fare cattiva informazione.
Il clima è quello di una caccia alle streghe. Lo stesso Mit, il servizio segreto turco, ha annunciato un’inchiesta approfondita sulle responsabilità di Paesi stranieri nelle proteste delle scorse settimane.
Il sindaco di Ankara, Melih Gokcek, e il ministro delle Finanze, Mehmet Simsek, hanno iniziato a usare Twitter per attaccare alcuni media stranieri. Simsek se l’è presa soltanto con la Cnn, accusata di dare informazioni false, mentre il primo cittadino della capitale ha attaccato direttamente la giornalista del servizio turco della Bbc, Selin Girit, accusata di essere una spia degli inglesi.

La Stampa 26.6.13
Ed è boom di vendite dei gas lacrimogeni
In venti giorni di proteste a Istanbul la polizia ha utilizzato 130 mila cartucce
di Filippo Femia


L’immagine di piazza Taksim lastricata di candelotti di lacrimogeni e oscurata da nuvole acide è ancora viva. Ma non tutti sono preoccupati. C’è chi segue la situazione con un occhio particolare: i produttori delle cosiddette «armi non letali». La Turchia è infatti fra i Paesi che hanno contribuito al boom di vendite dei gas lacrimogeni. In venti giorni di proteste la polizia ha utilizzato 130 mila cartucce (l’85% di quelle acquistate nel 2013).
Ma si tratta di un affare globale, un autentico «business delle rivolte». Una manna per le compagnie produttrici, che hanno visto triplicare il loro fatturato. Un esempio: il colosso brasiliano «Condor Non-Lethal Technologies» (fornitore del governo Erdogan) ha esteso le vendite a 41 Paesi. L’immensa nube di Gezi Park ha invaso negli ultimi giorni le avenidas del Brasile, che protestava contro gli sprechi per i Mondiali 2014. Prima c’era stata la Primavera Araba, con le sue 21 tonnellate di lacrimogeni utilizzati. E dopo il 2011 gli investimenti sulla sicurezza interna del Medio Oriente sono aumentati del 18%, per un valore di oltre 6 miliardi.
L’Europa non fa eccezione. Il piano «lacrime e sangue» del governo Rajoy ha travolto sanità, educazione e welfare. Ma il budget per i materiali anti-sommossa non ha subito sforbiciate. Anzi, è schizzato da 173 mila euro a oltre 3 milioni (incremento del 1780%).
Anna Feigenbaum, ricercatrice dell’Università inglese di Bournemouth, ha elaborato una mappa che mostra quanto sia diffuso l’uso dei lacrimogeni: dalle rivendicazioni studentesche in Cile alle manifestazioni dei lavoratori in Francia e Belgio, passando per i disordini in India dopo lo stupro di una giovane.
Sempre più utilizzati, poi, sono gli spray irritanti. Il volto sfigurato dalle lacrime di Dorli Rainey, la pensionata di Occupy a Seattle, e la dama rossa di Gezi Park, travolta dagli spruzzi urticanti, sono istantanee simbolo che hanno fatto il giro del mondo.
L’etichetta «non letale», che campeggia su molti loghi dei produttori, è al centro di un grande dibattito. «I lacrimogeni sono studiati per creare impedimenti temporanei e non causare danni irreversibili», si difendono. Ma il confine della pericolosità - replicano le associazioni dei diritti umani - è determinato dall’utilizzo. «Spesso vengono usati illegalmente, sparati ad altezza d’uomo o in luoghi chiusi: possono causare aborti, danni permanenti alla vista e perfino la morte. Lo dimostrano i 34 decessi registrati durante le rivolte del 2011 in Bahrein», spiega Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International.

La Stampa 26.6.13
“I giovani di Piazza Taksim sono già europei nell’animo”
Temel Iskit: sull’ambiente e i diritti civili sono come gli occidentali
intervista di M. Ott.


Temel Iskit è stato il primo direttore generale del ministero per gli Affari europei, quindi ambasciatore in vari Paesi

Un sì dell’Europa dedicato soprattutto al popolo turco e un primo ministro che, nonostante i proclami e gli attacchi, non può fare a meno dell’Europa. Temel Iskit, ambasciatore di lungo corso, ora in pensione, ha spiegato perché, nonostante tutto, i negoziati fra Turchia e Unione europea sono destinati ad andare avanti.
Ambasciatore Iskit, l’Unione europea ha scelto di dare fiducia alla Turchia nonostante i dubbi degli ultimi giorni, come se lo spiega?
«Credo che il premier Erdogan debba ringraziare i ragazzi di Gezi Park e gli oltre due milioni di persone che sono scese in piazza nell’ultimo mese. Sono loro che rappresentano la Turchia veramente progressista, che ambisce alla piena democrazia e incarna con maggiore autenticità i valori europei».
Il premier no, quindi?
«Erdogan è stato autore di importanti riforme e sta portando avanti decisioni coraggiose come quella di trattare con i curdi. Diciamo che negli ultimi tempi ha avuto uscite molto poco europee».
Ha detto che la Turchia non ha bisogno dell’Europa, come l’aveva detto qualche mese fa anche il ministro per l’Europa, Egemen Bagis...
«Sì, è vero, ma quelle del premier molto spesso sono uscite studiate a tavolino. Erdogan sa che ci sono alcuni argomenti in grado di infiammare la folla, come l’ingresso in Europa. Se ne serve soprattutto in campagna elettorale. Certe frasi non hanno il compito di lanciare messaggi a Bruxelles, che sono veicolati tramite i tradizionali canali diplomatici, ma quello di creare una ricaduta interna che gli faccia gioco nei consensi. A inizio 2014 ci saranno le amministrative e dopo queste settimane di protesta Erdogan deve recuperare voti. Penso proprio che dopo quella data si sentirà parlare di Europa in modo diverso».
Il rapporto sui progressi del Paese però lo pubblicano a ottobre… «Le dichiarazioni del premier hanno impatto zero sui contenuti del rapporto che sicuramente sarà molto critico. Erdogan lo sa e con il suo ministro degli Esteri Davutoglu ha fornito tutte le rassicurazioni del caso sul rinnovato impegno al processo di adesione».
Nelle scorse settimane, però, girando per le piazze non si è sentito parlare molto di Europa, sembra che anche la protesta dei giovani avesse una connotazione prettamente interna.
«Le posso assicurare che fra i ragazzi di piazza Taksim l’ispirazione europea è stata fortissima. Molti dei movimenti presenti, soprattutto quelli legati all’associazionismo, come gli ambientalisti, le associazioni di omosessuali e quelli delle donne, hanno connessioni dirette con i loro “colleghi” europei».
E il popolo turco?
«Il popolo turco vive sicuramente una fase di disamoramento alla causa europea, ma questo calo di entusiasmo è dovuto in larga parte alle posizioni altalenanti di Bruxelles, non certo alle dichiarazioni di Erdogan o di altri membri del suo governo. Posso comunque affermare che la maggior parte rimane intimamente e fermamente filo europea».
La Turchia entrerà in Europa?
«Ci vorrà tempo ma ce la faremo, è un obiettivo troppo importante per entrambe le parti».

La Stampa 26.6.13
Con le proteste in Brasile va in crisi il modello Lula
di Martin Hutchinson


Le proteste che stanno lacerando il Brasile mettono in discussione le carenze del modello economico introdotto dall’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva e sostenuto dal suo successore, Dilma Rousseff. I due leader hanno cavalcato l’onda di un boom dei prezzi delle merci, tuttavia il loro ricorso alla spesa è stato eccessivo e il loro atteggiamento verso la corruzione troppo tollerante. Così, i prezzi delle esportazioni hanno finito per crollare dando vita alla necessità di tagliare la spesa, cosa che, ovviamente, non è piaciuta molto ai cittadini. Ma tentare di placare gli animi riaprendo i rubinetti peggiorerebbe la situazione.
Le rivendicazioni dei manifestanti, inizialmente, si sono concentrate sull’aumento dei prezzi dei mezzi di trasporto pubblici, generati in parte da una serie di nuove imposte introdotte dagli Stati per ordine del governo federale. Ma, con il crescere della protesta, anche le tematiche affrontate si sono ampliate fino a comprendere i miliardi di dollari spesi per gli stadi di calcio in previsione della Coppa del mondo del 2014. La stessa Rousseff, con alle spalle un passato come guerrigliera e contestatrice, ha tentato di trattare con i dimostranti esprimendo ammirazione per la loro “grandezza” e promettendo di affrontare seriamente i problemi da loro sottolineati, senza mancare però di avvisare che sarebbe stato fatto tutto il necessario per mantenere l’ordine.
Con i prezzi di beni come il minerale di ferro, fondamentale per le esportazioni del Brasile, ben al di sotto del massimo livello raggiunto, le finanze del Paese stanno affrontando un momento di magra che non si vedeva dagli anni precedenti al governo Lula, tra il 1998 e il 2002, quando il default sul debito estero sembrava dietro l’angolo. Tuttavia, sebbene l’espansione dell’economia abbia reso il livello del debito estero molto più gestibile, il Brasile mostra ancora la più alta spesa pubblica in relazione al Pil di tutta l’America latina unita a corruzione, clientelismo e ricorso a finanziamenti fuori bilancio, effettuati tramite la Bndes, la banca di sviluppo del Brasile, e altri istituti.

Corriere 26.6.13
La Corte Suprema annulla la legge sul voto dei neri
La Casa Bianca «delusa»
di A.Far.


NEW YORK — I media parlano di «ritorno al passato», mentre i gruppi per la difesa dei diritti civili non esitano a usare termini quali «catastrofico» e «tradimento dei più deboli». Con un voto di 5 a 4 che ha visto la Corte Suprema Usa spaccarsi in due su posizioni rigorosamente di parte, ieri il massimo tribunale del Paese ha inferto un colpo mortale al Voting Rights Act, la storica legge del 1965 promossa da Martin Luther King Jr che ha permesso a intere generazioni di cittadini neri di votare, vietando, di fatto, le pratiche discriminatorie implementate negli stati del sud per tenere le minoranze lontane dai seggi.
In una mossa definita «subdola» dalle organizzazioni afro-americane, la corte non ha abolito la cosiddetta «sezione 5» del Voting Rights Act (fulcro della legge) che ordina ai nove Stati del Sud con un passato di discriminazioni razziali (tra cui Alabama, Mississippi e Texas) di modificare i propri regolamenti elettorali solo se autorizzati dal Congresso. I cinque giudici conservatori (tra cui gli italo-americani Scalia e Alito e l’afro-americano Thomas) hanno invece sentenziato che la formula usata per determinare quali stati necessitano la vigilanza del governo centrale è obsoleta e quindi «anticostituzionale». «L’America oggi è cambiata», ha spiegato il giudice capo John Roberts che ha istruito il Congresso di rivisitare la questione, trovando una formula che «rifletta la nuova realtà del paese». Ma con un Congresso sempre più spaccato in due, nessuno si fa illusioni che Washington riesca a porre rimedio a una situazione destinata a riesumare nuove disparità sul fronte del voto delle minoranze, oggi molto più numerose e influenti di 50 anni fa proprio negli stati del sud che negli ultimi hanno varato una serie di misure che scoraggiano la loro partecipazione al voto.
«Le discriminazioni ancora esistono», ha puntato il dito ieri il presidente Obama, che si è detto «profondamente deluso» dalla decisione della Corte suprema, «un passo indietro nella strada dei diritti civili»). «Il verdetto colpisce un pilastro della legge», ha spiegato, «e ribalta quell’orientamento che nel corso di molti decenni ha aiutato a rendere il voto in America più giusto, specialmente in luoghi dove la discriminazione ha storicamente prevalso».

La Stampa 26.6.13
Contrordine compagni l’egemonia culturale adesso sta a destra
Dall’edonismo reaganiano al berlusconismo: così si è rovesciata un’idea forza gramsciana
di Massimiliano Panarari


C’era una volta, in Italia, l’egemonia culturale della sinistra. Durata a lungo - anche se tutt’altro che incontrastata e indiscussa - e dotata di radici abbastanza salde. Il tutto fino all’inizio degli Anni Ottanta, quando, puf!, è svanita – forse anche perché, come avrebbe commentato il Karl Marx di una celebre citazione divenuta il titolo di un testo di Marshall Berman, «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria».
E alquanto solido, infatti, era risultato l’ascendente degli intellettuali delle varie famiglie della sinistra nel soft power dell’Italia degli scorsi decenni (dall’editoria ai giornali, sino al cinema), mentre il «potere duro» e i centri decisionali politici ed economici rimanevano fermamente in mano ad altri. Poi, con l’avvento della sempre più liquida epoca del riflusso, gli equilibri, anche in campo culturale, sono cambiati, e si è assistito, in certo qual modo, all’avvento del gramscismo rivisto (e massicciamente applicato) da destra. Un tema tornato recentemente d’attualità, tra libri, polemiche culturali e voci (da Gianni Cuperlo a Fabrizio Barca) che tornano sull’argomento in un Pd da anni assai distratto.
Le avvisaglie della «controrivoluzione» dell’egemonia si son viste, naturalmente, oltre Atlantico, dove il reaganismo arrivò al potere attraverso un articolato progetto di reconquista dell’immaginario e della cultura, sviluppato con efficacia anche mediante una fitta rete di think tank, riviste, centri di ricerca, giornali e teste d’uovo. In La società dell’uguaglianza (Castelvecchi, pp. 371, € 25), il professore del Collège de France Pierre Rosanvallon descrive la crisi delle società liberaldemocratiche nei termini di un cambio di paradigma che ha legittimato la disuguaglianza e l’esclusione sociale (con il disastroso «effetto collaterale» del populismo), indotto proprio dall’egemonia culturale del neoliberismo.
Diversi anni dopo l’affermazione del primato ideologico dell’edonismo reaganiano, a giudizio di alcuni studiosi, il berlusconismo arrembante è riuscito a compiere un’operazione analoga dalle nostre parti – e anche se la sua spinta propulsiva sembra essersi arrestata sotto il profilo politico (come sottolineava ieri sulla Stampa Marcello Sorgi), la sua onda lunga nel costume e nelle culture è destinata a rimanere ancora assai duratura.
Di egemonia culturale della destra aveva parlato, qualche tempo fa, Marc Lazar, professore a Sciences Po e presidente della Luiss School of Government, oltre che attento osservatore delle vicende nazionali. Analoga è la posizione dello storico (e parlamentare Pd) Miguel Gotor, per il quale «negli ultimi trent’anni, c’è stata un’egemonia neoliberista a livello mondiale – che la lunga crisi economica ha messo in crisi – i cui elementi fondamentali sono stati l’automatismo del mercato, il ritorno al privato, il rifiuto dell’intervento pubblico in economia (a parte il salvataggio delle banche), il progressivo smantellamento del welfare, la flessibilità/precarietà delle attività lavorative, il passaggio da una cittadinanza dei diritti e dei doveri a una dei desideri e dei consumi. In Italia, questa egemonia è stata interpretata in modo originale da Berlusconi, che vi ha aggiunto una torsione populista favorita dalla proprietà dei mezzi televisivi e dalla conseguente influenza diretta e indiretta sull’opinione pubblica».
Lo storico Gabriele Turi si spinge oltre e, nel suo La cultura delle destre (Bollati Boringhieri, pp. 192, € 14), analizza quella che considera una precisa operazione culturale al servizio di una strategia politica, prestando particolare attenzione alla narrazione e «reinvenzione» del passato effettuata da think tank come la Fondazione Magna Carta, la Fondazione Liberal e la Fondazione Nova Res Publica, e da riviste quali Ideazione, Nuova storia contemporanea, l’ Occidentale eIl Domenicale. La presa berlusconiana del potere si è saldata, sostiene, con l’idea del superamento delle distinzioni tra destra e sinistra e con un lavoro manipolatorio sullo spirito dei tempi, tra revisionismo storiografico, un’interpretazione identitaria e tradizionalista del cristianesimo e la rilettura del fascismo e della seconda guerra mondiale.
Una tesi opposta a quella illustrata dal libro dello storico Giovanni Orsina nel saggio Il berlusconismo della storia d’Italia (Marsilio, pp. 239, € 19,50), per il quale il capo del centrodestra avrebbe puntato a rappresentare ilPaese reale, senza alcuna vocazione pedagogica. Al riguardo, secondo lo storico delle dottrine politiche Alessandro Campi (già direttore scientifico della finiana Fondazione Fare Futuro): «A partire dal 1994, anche grazie a Berlusconi, la destra (anzi, le destre) ha sicuramente avuto uno spazio di agibilità pubblica che non aveva più avuto sin dagli Anni Cinquanta. In realtà, già all’epoca di Craxi la cultura della destra – in coincidenza non causale con il collasso ideologico della sinistra – aveva acquisito uno status di piena cittadinanza. Ma da qui a parlare di egemonia francamente ce ne corre, a meno di non confondere, nel caso di Berlusconi, quella culturale in senso gramsciano, capace di sedimentare nuovi equilibri politico-sociali e di contribuire alla costruzione di un nuovo senso comune, con quella mediatica, per definizione effimera e fragile, veicolata dai programmi di intrattenimento e dai rotocalchi, e che si limita a spettacolarizzare l’esistente. Il Cavaliere non è mai stato interessato alla battaglia delle idee, presupposto necessario per impostare una strategia di conquista culturale della società. Egli si è trovato a spadroneggiare politicamente in un vuoto di culture politiche e di appartenenze che non ha creato lui e che ha riempito con le uniche cose che gli siano mai interessate: donne poppute, intrattenimenti comici e feste danzanti».
E, allora, nel caso in cui si consideri l’Italia berlusconiana un unicum, sorge spontaneo il quesito: si è trattato di egemonia culturale in senso proprio o, piuttosto, di qualcosa di natura differente, profondamente intriso delle dinamiche della società dello spettacolo e, dunque, di un caso di (penetrante) egemonia «sottoculturale» (che si è avvalsa delle armi di distrazione di massa del gossip, dei programmi tv trash e dell’idolatria del corpo e dell’estetica)? Agli storici, giustappunto, e ai posteri, l’ardua sentenza.

La Stampa 26.6.13
“Racconto Ustica in tv in attesa del finale vero”
Marco Paolini domani su LaEffe: “Spero smuova ed educhi”
intervista di Adriana Marmiroli


A 33 anni dalla strage Marco Paolini durante lo spettacolo «Racconto per Ustica» nella versione diretta da Ferrario: pensato per la tv, venne registrato nel 2002 a Gibellina, con il Cretto di Burri come scenografia Ora Paolini ha aggiunto una introduzione sulla sentenza della Cassazione di alcuni mesi fa
Esattamente 33 anni dopo quella notte del 27 giugno 1980 in cui il DC9 Itavia ITIGI sparì dai cieli sopra a Ustica con i suoi 81 passeggeri, e a pochi mesi dalla storica sentenza della Cassazione che definisce in un missile la causa della sua distruzione, la neonata LaEffe (canale 50 del DTT free) mette in onda domani sera alle 21,35, per la prima volta in chiaro, Racconto per Ustica di Marco Paolini nella versione diretta da Davide Ferrario: pensata per la tv, venne registrata nel 2002 a Gibellina, con il Cretto di Burri a fare da scenografia.
Marco Paolini, di questo spettacolo esistono diverse versioni.
«Questa e quella mandata in onda da Rai2 nel 2000. Ma non ero convinto di un lavoro fatto in tempi troppo brevi. Le parole hanno bisogno di decantare. L’ho quindi ripreso in mano, ho approfondito la conoscenza degli atti dell’istruttoria e sono giunto a una forma più semplice e asciutta e, secondo me, più efficace».
Cosa c’è al centro di «Racconto»?
«Lo spettacolo parte con le registrazioni audio (quanto resta, almeno) di quella notte. Quindi racconto i “cieli”, cioè la successione di spazi in cui si muove l’aereo, circa un’ora di volo, da un radar all’altro, ciò che c’è e ciò che manca, sulla falsariga dell’istruttoria del giudice Rosario Priore».
Ha apportato qualche intervento dopo la sentenza della Cassazione?
«C’è solo l’aggiunta di una breve introduzione in forma di intervista in cui non commento la sentenza, ma esprimo il mio scontento. Se da una parte è resa giustizia ai familiari, non si arriva a spiegare come accaddero le cose. Sono convinto che a una ricostruzione lineare dei fatti si arriverà solo quando in altri paesi decadrà la secretazione dei documenti: e non sarà per mano di un italiano, temo, né della magistratura, forse di un giallista... ».
Neppure lei dà risposte, quindi.
«Le sole accettabili devono arrivare dagli atti giudiziari. La storia narrata e quella giudiziaria possono convivere ma la prima non può surrogare l’altra. Anche se questo è, purtroppo, un vizio nazionale, quello di volere un finale e non appassionarsi alla ricostruzione. È un atteggiamento che non mi piace e alimenta un sottobosco da cui prendo le distanze. Tuttavia è vero che come io rimasi sconvolto da Muro di gomma, il film di Risi su Ustica, così spero che Racconto smuova ed educhi».
Cosa intende per «sottobosco»?
«Mentre preparavo e portavo in scena Racconto, sono diventato l’oggetto di ingerenze varie: intercettazioni, interpellanze parlamentari, provocazioni... Mai minacciose ma insistenti, melliflue, sgradevoli. Non ha idea di quante persone - mitomani, millantatori, provocatori -abbiano preferito venire a confessare a me piuttosto che al magistrato di essere a conoscenza di fatti sostanziali. Mi sono sempre rifiutato di ascoltarli».
Vajont, Ustica... affronterà altri argomenti controversi?
«Porto Marghera, l’uranio impoverito, la bolla economica di fine millennio sono temi che ho affrontato seppure non programmaticamente. Non voglio diventare lo specialista delle sfighe italiane. Un ruolo comodo ma diseducativo quello del grillo parlante delle debolezze del nostro Paese».

La Stampa 26.6.13
Muti: il Maggio Musicale va salvato a tutti i costi


Il Maggio Musicale Fiorentino «va salvato a tutti i costi. Se si chiude è una tragedia per il Paese». È l’appello di Riccardo Muti a margine della presentazione del concerto dell’Amicizia del Ravenna Festival, che il maestro dirigerà a Mirandola il 4 luglio con un programma tutto verdiano in favore delle popolazioni terremotate dell’Emilia Romagna. Ieri Muti ha anche incontrato per la prima volta il responsabile di Beni culturali e Turismo Massimo Bray ed è stato chiaro: «Arriva nel momento più drammatico, deve fare il portatore della croce!», ha detto al ministro. «Basta con il ritornello dell’importanza della cultura, se vuole avere un futuro l’Italia si deve svegliare».

Corriere 26.6.13
Ministero della Cultura in rosso «Non pagava più neanche la luce»
L'allarme di Bray: ho trovato 40 milioni di vecchie bollette
di Maria Rosaria Spadaccino


ROMA — I fondi sono stati sbloccati dal Mibac: il Colosseo non chiuderà per mobilitazione sindacale. Forse. In sintesi è quello che potrebbe accadere al più importante monumento d'Italia, e ai siti monumentali coinvolti da un paio di settimane dallo stato di agitazione dei lavoratori dei Beni Culturali.
A Roma giovedì scorso la protesta ha lasciato fuori di mattina migliaia di turisti, con un'appendice di un paio d'ore (dalle 9 alle 11) domenica 23, a causa di un'assemblea sindacale indetta dalla Flp, sigla minore, ma molto rappresentata tra i lavoratori dell'anfiteatro Flavio.
I due giorni di ingressi proibiti potrebbero essere replicati nel fine settimana: venerdì 28 è prevista una giornata di mobilitazione nazionale dei lavoratori dei Beni culturali. E domenica 30 la sigla Flp ha annunciato una nuova assemblea sindacale al Colosseo nel pomeriggio alle 17.
Un grave danno all'immagine del nostro Paese, tanto che il ministro per i Beni e le Attività Culturali Massimo Bray è intervenuto subito su una delle cause dell'agitazione sindacale. «Il ministro ha acquisito i pareri definitivi e favorevoli della Funzione pubblica e della Ragioneria generale dello Stato per la ripartizione del fondo unico amministrazione 2013. Questo consentirà di pagare le retribuzioni straordinarie arretrate da gennaio ad oggi, causa di agitazioni sindacali degli ultimi giorni. Sono quindi sbloccati i fondi accessori per il personale del ministero che consente le aperture dei luoghi della cultura: archivi, biblioteche ed aree archeologiche di tutt'Italia, compreso il Colosseo», si precisa in una nota dal Collegio Romano.
«L'Italia deve capire che cultura e turismo sono straordinarie leve per la ripresa economica e per il lavoro — ha detto il ministro, a margine della presentazione del libro di Pietro Folena — quando sono arrivato al Mibac ho trovato ottomila bollette non pagate per un totale di 40 milioni di euro. Se non diamo nemmeno luce e riscaldamento al ministero come pensiamo di andare avanti?». Il ministro elenca i tagli subiti dal Mibac, «da quello del 47%, ai fondi per le emergenze. Voglio vedere se domani cade qualcosa a Pompei se qualcuno ha il coraggio di dirmi qualcosa. Come si fa a intervenire se non ci sono risorse?».
I dubbi di Bray sono condivisi dai sindacati: «Noi apprezziamo molto l'intervento, lo sblocco dei fondi è un fatto positivo che non risolve del tutto una vertenza molto più complessa», dice Claudio Meloni responsabile Cgil per il Mibac. «Il ministro ci incontri prima del 28», chiede rilanciando Salvatore Chiaramonte, segretario nazionale Fp Cgil. Allora il Colosseo e gli altri siti resteranno aperti venerdì e domenica prossima? «Apprezziamo l'impegno del ministro, va nella direzione giusta — spiega Rinaldo Satolli, segretario nazionale di Flp —. Venerdì è una giornata di mobilitazione nazionale, per domenica ci stiamo pensando, non abbiamo l'obiettivo di far chiudere i siti».

Repubblica 26.6.13
Husserl a Darwin per una filosofia più evoluzionista
di Giulio Azzolini


Che l’evoluzionismo non sia una teoria scientifica come le altre, per la composita e talora radicale gamma di sfumature che ospita ma soprattutto per le conseguenze filosofiche che implica, non è una novità. Ciò che fa (per l’appunto) specie è imbattersi in un saggio sul tema pensato e non solo scritto in prima persona, tanto più in questi tempi soliti relegare l’io saggistico nel finale di introduzioni che non si stancano di avvertire i lettori: l’autore è l’esclusivo responsabile di tutti gli errori.
InVermi con ali di farfalla(Viella, pagg. 178, euro 22) Luigi Bianchi racconta il suo ritorno alla speculazione teoretica. L’aveva lasciata da ragazzo sotto la guida di Pantaleo Carabellese, la riprende negli anni Novanta dopo una carriera giornalistica alGiorno e alCorriere della sera.Tenendosi alla larga dalla nutrita schiera degli evoluzionisti militanti, Bianchi coglie nell’opera di Charles Darwin un luogo di osservazione privilegiato sulla storia della filosofia, inclusa la contemporanea.
Con una prosa limpida e pacata, equilibrata nei giudizi e misurata nella gergalità, fornisce quindi una personale versione del valore filosofico insito nel complesso delle teorie evoluzionistiche. Fa, in un certo senso, un discorso sul metodo, poiché indica una precisa traiettoria intellettuale, un percorso riconoscibile e reiterabile, che lo conduce dalla Crisi delle scienze europee di Husserl alla selezione naturale di Darwin.
“Conversione” generata da una meditata interpretazione della filosofia moderna, in particolare del suo filone empirista. Perfettamente consapevole delle origini presocratiche dell’idea evoluzionistica, Bianchi rafforza la sua particolare concezione attraverso lo studio dei classici moderni. È grazie al confronto con Cartesio sull’esigenza della certezza e a quello con Kant sui limiti della conoscenza che forgia, infatti, la sua filosofia evoluzionistica.
Un pensiero che procede per brevi e successive approssimazioni. Individuato il cuore dell’evoluzionismo — la differenza di grado, non di genere, tra l’uomo e l’animale — , Bianchi svolge due direttrici: da una parte i momenti salienti del pensiero biologico (da Buffon a Lamarck a Spencer), dall’altra il confronto con le più vitali espressioni della filosofia contemporanea. La trama non procede mai in modo assiomatico, ma sempre come il frutto genuino di chi si avventuri autonomamente nei classici del pensiero.
E allora uno a uno vengono a galla i risultati del principio evoluzionistico: la crisi di ogni dualismo, primo fra tutti quello tra anima e corpo, il congiunto dissolvimento dell’idea di un fondamento eterno come garante teleologico della vita terrena, il crollo delle credenze ereditate. Effetti che si moltiplicano, non si sommano, e producono una nuova gerarchia dei valori ma, soprattutto, una nuova piramide sociale alla cui cima salgono gli scienziati, gli unici in grado di decifrare davvero i meccanismi della realtà.
Tuttavia, conclude Bianchi, se l’evoluzionismo è un principio filosofico assicurato da un «piedistallo» sostanzialmente accettato dalla comunità scientifica, deve potersi confrontare, se non addirittura integrare, con le più vitali espressioni della teoresi contemporanea. Ed è quindi nella terza e ultima sezione del libro che emerge con la massima evidenza l’originalità del libro. L’antropologia di Ernesto De Martino e di Ian Tattersall, la filosofia di Roberto Esposito e di Paolo Virno, sono solo alcuni tra i numerosi interlocutori della filosofia evoluzionistica. Un pensiero di quell’oscuro e banale fenomeno unitario che, come insegnava Foucault, è la più grande invenzione moderna, la vita.

IL LIBRO Vermi con ali di farfalla di Luigi Bianchi (Viella, pagg. 178, euro 22)

Repubblica 26.6.13
MicroMega esce con il numero sull’ateismo e il fascicolo “Il futuro dell’Altra politica”
Perché ci affidiamo al soprannaturale
Le ragioni biologiche della fede in un saggio sul nuovo “MicroMega”
di Giorgio Vallortigara e Vittorio Girotto


L’ipotesi che si è fatta strada in questi anni tra scienziati cognitivi e neuroscienziati è che l’architettura naturale della mente umana farebbe sì che nell’usuale ambiente in cui cresce un bambino, la credenza in un Dio creatore sia destinata a emergere in modo del tutto spontaneo, anche se le forme attraverso cui si manifesta possono variare con le circostanze socio-culturali. Gli esperimenti condotti dagli scienziati cognitivi suggeriscono che i bambini trovano del tutto naturale, indipendentemente dall’opinione degli adulti che stanno loro intorno, l’idea di un creatore non-umano del mondo, un creatore che possiederebbe super-poteri, super-conoscenza, super-percezione (Barrett, 2004). Le credenze religiose e nel sovrannaturale poggerebbero perciò su caratteristiche naturali della mente umana (Bering, 2011).
Alcune di queste caratteristiche dell’architettura cognitiva della nostra specie sono state svelate dalla ricerca empirica. Ad esempio, i bambini nascono con una predisposizione naturale a cercare di comprendere e di attribuire significato ai fenomeni dell’ambiente in cui vivono, scovando senza posa (a proposito e a sproposito) relazioni causali negli even-ti del mondo. [...] La predisposizione a cogliere rapporti di causa-effetto basandosi sulla mera correlazione spazio-temporale tra due eventi (indipendentemente quindi dal fatto che gli eventi siano davvero fisicamente correlati) non è però sufficiente a produrre la credenza in un mondo dotato di significato e «progettato per», e quindi nell’idea di un creatore che regge la trama causale degli eventi. Un secondo aspetto cruciale dell’architettura naturale della mente umana riguarda la tendenza a rilevare la presenza di agenti.
I bambini posseggono fin da pochi mesi d’età nozioni basilari su come si comportano gli oggetti inerti. In effetti, fissano moltopiù a lungo eventi che violano le usuali leggi della fisica, mostrando di conoscere che, per esempio, un oggetto inerte si muove solo se urtato da un altro oggetto, che gli oggetti si muovono lungo traiettorie continue, che cadono se viene a mancare loro un supporto, che non possono impunemente passare attraverso altri oggetti eccetera (Spelke e Kinzler, 2007). La capacità di violare alcune di queste proprietà, seppure in grado moderato, è ciò che caratterizza il soprannaturale, ed è prerogativa di una speciale categoria di oggetti, gli oggetti animati, o agenti, per i quali i bambini sembrano possedere una rappresentazione neurologicamente distinta (Bloom, 2004). Gli agenti, a differenza degli oggetti inerti, possono muoversi da soli e ovviamente possono far muovere altre entità (sia inerti sia altri agenti). Inoltre, diversamente dagli oggetti inerti, gli oggetti animati agiscono, e non si muovono semplicemente in modi arbitrari — ovvero i loro movimenti, le loro azioni, sono volte all’ottenimento di scopi. Per i bambini gli agenti non devono necessariamente essere visibili per manifestare la loro presenza (più del quaranta per cento dei bambini ha nell’infanzia almeno un amico immaginario) e, qualora gli agenti siano visibili, non debbono avere necessariamente sembianze umane o comunque animali per esser trattati come tali (Carey, 2009). [...] Oltre a quelli indicati, vi è un altro processo fondamentale predisposto nei nostri cervelli: la tendenza a vedere negli oggetti uno scopo, l’intenzione di un artefice.I bimbi manifestano tale tendenza non solo nei riguardi dei manufatti della cultura umana, ma anche degli oggetti del mondo naturale («Le giraffe servono a stare negli zoo»), e lo fanno anche in assenza d’indottrinamenti espliciti da parte degli adulti (Kelemen, 2003). Si è visto inoltre che gli stessi adulti non sono mai davvero esenti dall’inclinazione a interpretare gli eventi in termini di scopi e funzioni, anziché di meccanismi, anche quando l’interpretazione funzionale è manifestamente scorretta. [...] Lasciati a se stessi in un ambiente sociale, i bimbi svilupperebbero spontaneamente, anche senza alcun indottrinamento, una qualche forma di credulità che comprenderebbe quasi certamente l’idea di uno/o più creatori, l’idea di una qualche forma di sopravvivenza dopo la morte, l’idea che il mondo sia popolato di agenti dotati di proprietà-limite (demoni, angeli, spiriti…) che violano, ma solo di poco, le usuali proprietà associate ai domini degli oggetti inerti e degli agenti, rendendoli per questa ragione memorabili (Boyer, 2001).

Repubblica 26.6.13
La biografia di Simon Norton autore di scoperte decisive e inventore degli “scacchi” a tre giocatori
Il matematico in cantina. Quelle strane abitudini di un genio dei numeri
di Piergiorgio Odifreddi


Se uno vuole giocare a scacchi su una sola scacchiera, può farlo solo con un altro giocatore per volta. Lo sanno tutti, eccetto coloro che, non adattandosi all’evidenza dei fatti e alla necessità delle cose, decidono di inventare una versione degli scacchi a tre giocatori. E per farlo, concepiscono una scacchiera a caselle romboidali di tre colori, adattano opportunamente i pezzi e le regole di mossa e di cattura, e incominciano a divertirsi con un nuovo tipo di scacchi a tre giocatori, invece che a due.
Questa capacità di “cambiare le regole del gioco” è uno dei modi in cui si estrinseca la creatività, fino ai limiti estremi della genialità. Nel caso degli scacchi ci si cimentò persino Bobby Fisher, che pure non giocava male alla versione usuale. Egli propose infatti una nuova versione del gioco, oggi chiamata appunto “scacchi di Fisher”, che mantiene la scacchiera, i pezzi e le regole solite: come unica eccezione, si dispongono agli inizi i pezzi in maniera casuale, sulle prime due righe, invece che nella maniera normale.
Fisher era certamente un genio, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta. E lo è anche l’inventore degli scacchi a tre giocatori: il matematico inglese Simon Norton, di cui è appena uscita la biografia Un genio nello scantinato di Alexander Masters (Adelphi). Naturalmente, uno degli svantaggi che il genio comporta è di essere e rimanere “incompreso” dalle persone comuni: in particolare, da coloro che ne scrivono le biografie senza essere all’altezza delle vette che vogliono scalare. E il rischio esiste per il biografo di qualunque genio: se non altro, perché in genere gli altri geni si dedicano alle proprie attività, e non alla scrittura delle biografie dei loro rivali in genialità.
Per fare un esempio concreto, ogni volta che si parla di un altro genio della matematica, l’indiano Srinavasa Ramanujan, tutti raccontano questo famoso aneddoto, che viene ripetuto anche dal biografo di Norton. Un giorno che era ammalato, l’indiano ricevette una visita del matematico inglese Godfrey Hardy, che gli disse di essere arrivato con un taxi dal numero poco interessante: 1729. Ramanujan rispose immediatamente che invece si trattava di un numero molto interessante, essendo il primo che si può scrivere in due modi diversi come somma di due cubi: rispettivamente, 12 al cubo (1728) più 1 al cubo (1), oppure 9 al cubo (729) più 10 al cubo (1000). Stupore generale, soprattutto dei biografi! I quali non sanno, e se lo sanno (come Hardy) non lo dicono, che qualunque studioso dei numeri degno di questo nome, e soprattutto uno sommo come Ramanujan, poteva non metterci molto a fare questa associazione. I cubi di 9 e di 12 si imparano infatti già alle elementari, e i teorici dei numeri non li dimenticano, anche perché li usano spesso. I cubi di 1 e di 10 sono invece delle banalità, anche per i non addetti ai lavori. Dunque, la cosa non è così sorprendente come può apparire a prima vista. E non è un caso che sia proprio il 1729 a ricomparire nelle gesta di un altro genio dello scorso secolo: il fisico Richard Feynman, che nella sua autoagiografia Sta scherzando, Mr. Feynman! (Zanichelli, 2007) racconta un episodio che gli successe in una bettola brasiliana, quando un avventore che non sapeva con chi aveva a che fare lo sfidò a fare radici cubiche, e “per combinazione” gli propose quel numero come test.
È chiaro comunque che, poiché anche piccole osservazioni matematiche come queste possono risultare presto eccessive per un lettore generico, di libri o di giornali, le biografie dei geni non vanno molto oltre aneddoti come quelli citati. Col risultato, com’è appunto il caso diUn genio nello scantinato, di concentrarsi soltanto sugli aspetti più folcloristici della vita di una mente eccelsa, all’insegna del benevolo motto “genio e sregolatezza”, o del più crudo “genio e follia”. Il più noto esempio recente di questa banalizzazione dell’intelletto a favore dell’eccentricità è sicuramente il film A beautiful mind,che narra la tragica storia del matematico John Nash. Romanzando la sua schizofrenia, fino al punto di inventarsi allucinazioni visive che egli non ha mai avuto. Ma lasciando lo spettatore nel dubbio atroce di cosa mai egli abbia potuto fare per mancare di un soffio la medaglia Fields per la matematica, nel 1958, e vincere un premio Nobel per l’economia, nel 1994. La biografia di Simon Norton prosegue in questa scia, dettagliando fino alla nausea caratteri secondari quali la sua trasandatezza e il suo disordine, o abitudini balzane quali le sue continue peregrinazioni sugli autobus, ma lascia il lettore nell’altrettanto atroce dubbio di cosa mai egli fatto in matematica, per meritarsi l’onore di una biografia. E cerca di distrarre da questa mancanza con impaginazioni “creative”: come alle pagine 152-153, che contengono solo la parola “cavolo” in varie dimensioni e caratteri. O con sospette rivendicazioni, quali: «la biografia è il modo in cui l’autore sceglie di rappresentare quelli che per lui sono i fatti», e «riguarda talmente poco il soggetto, che è meglio fingere che esso non esista e inventare le sue risposte ». Forse per ingenuità, Masters infarcisce il racconto con le giustificate proteste del matematico, che non riconoscendosi nelle descrizioni si lamenta dicendogli: «se posso accettare il concetto di licenza d’autore, non vedo alcun motivo valido per molti degli errori fattuali che hai inserito». O: «sarebbe meglio se i lettori potessero acquisire un minimo di informazioni utili dal tuo libro ».
Ciò che emerge dalle nebbie di questa caricaturale invenzione letteraria è che Simon Norton è stato un bambino prodigio, il cui primo ricordo riguarda il calcolo delle potenza di 2 fino alla trentesima: che, per la cronaca, è 1.073.741.824. Benché l’autore dichiari che per lui «dai dodici anni in su Simon è incomprensibile», il bello viene ovviamente dopo. Anzitutto alle superiori, a Eton, quando Norton vinse per tre volte consecutive la medaglia d’oro alle Olimpiadi di matematica, stabilendo una volta il record assoluto del punteggio pieno e senza errori. O all’università, a Cambridge, dove egli entrò con vari anni di anticipo rispetto alla norma. Ma soprattutto da ricercatore, quando insieme all’altro genio John Conway studiò le proprietà di un oggetto matematico singolare, chiamato non a caso “il mostro”: un insieme di circa 10 alla 54 elementi, con un’operazione definita da una tabella avente altrettante righe e colonne, e rappresentabile in uno spazio a 196.883 dimensioni. Una congettura a proposito di questo oggetto, enunciata da Conway e Norton, fu dimostrata nel 1992 da Richard Borcherds, in un lavoro che gli valse la medaglia Fields nel 1998.
Di tutto questo Un genio nello scantinato non lascia che trasparire qualche flebile traccia, ma forse non dobbiamo preoccuparci troppo. Infatti, «solo un computer può apprezzare i sonetti scritti da un computer», disse il genio dell’informatica Alan Turing, e ripeté il letterato Raymond Queneau nell’esergo dei suoi Centomila miliardi di poemi. Analogamente, solo un genio può apprezzare i pensieri di un genio. Gli altri, cioè le persone normali come noi, devono accontentarsi delle biografie: tutte inadeguate, come un sonetto che cerca inutilmente e impotentemente di descrivere il sorgere del Sole o il sorriso di un bambino.

IL LIBRO Un genio nello scantinato di Alexander Masters Adelphi euro 22.

Repubblica 26.6.13
Ecco perché scegliamo Allah
di Vladimiro Polchi


Sono oltre 70mila nel nostro Paese, e crescono sempre di più
Rappresentano un ponte di dialogo tra la fede e il paese in cui vivono, sono ambasciatori dell’Islam
C’è anche chi segue un percorso radicale, come il ragazzo genovese morto in Siria, e contesta i valori dell’Occidente.
Un fenomeno, questo, che le stesse comunità non sempre riescono ad arginare

«Cosa mi piace dell’Islam? Certamente il concetto di responsabilità individuale, la mancanza di intermediazione tra credente e Dio. Nell’Islam non esiste la confessione e l’imam non è certo un sacerdote». Alessandro Paolantoni, 45enne romano, ha “rivoluzionato” la sua vita nel 2001. «Testimonio che non vi è dio se non Iddio e testimonio che Muhammad è l’inviato di Dio». Il rito è semplice: una volta verificata la sincerità dell’intenzione, si pronuncia la testimonianza di fede davanti a un uomo di credo musulmano e due testimoni. Così ci si converte: una scelta minoritaria, ma crescente, condivisa negli ultimi anni da oltre 70mila persone nel nostro Paese.
A riportare sotto la luce dei riflettori la galassia dei musulmani d’Italia è il caso del 24enne genovese, Giuliano Ibrahim Delnevo, ucciso in Siria mentre combatteva a fianco dei ribelli. Delnevo si era convertito all’islam nel 2008. Un percorso di fede, il suo, sempre meno raro nel nostro Paese. «Stando alle nostre stime, i “convertiti d’Italia” superano i 70mila — fa sapere Izzedin Elzir, imam a Firenze e presidente dell’Ucoii (l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, che riunisce oltre 150 organizzazioni) — le conversioni degli italiani all’Islam sono infatti sempre più frequenti, una scelta figlia anche della crisi economica e morale di questi anni».
Per Elzir, i nuovi musulmani «possono essere un prezioso ponte di dialogo tra la fede e il Paese in cui vivono». Insomma, una sorta di ambasciatori dell’Islam.
Di dialogo parla anche Alessandro Paolantoni, oggi segretario dell’Ucoii (organizzazione considerata non lontana dalla Fratellanza musulmana): «Ero un cattolico tiepido — racconta — mi sono fermato alla comunione. Ad avvicinarmi all’Islam sono stati degli amici della comunità palestinese della capitale. Sia chiaro, una comunità laica e talvolta anche critica verso alcuni aspetti della fede. Incuriosito, ho cominciato un percorso solitario di studio durato due anni. Ho letto molti libri di storia e solo in un secondo momento mi sono avvicinato al Corano, nella traduzione italiana. Qualche volta sono andato a chiedere spiegazioni alla moschea ». Paolantoni si converte nel 2001 nella moschea di Centocelle a Roma, poco tempo dopo l’attentato dell’11 settembre: «Sì, è vero, sono andato in controtendenza. Il fatto è che dai miei studi mi ero accorto che nessun elemento estremistico fa veramente parte della fede musulmana». Dopo la conversione «i miei famigliari mi sono rimasti vicini e anche la maggioranza dei miei amici, solo qualcuno si è allontanato ». Grazie all’Islam, Paolantoni incontra la donna della sua vita: «Mia moglie è tunisina, l’ho sposata quando ero già convertito da tre anni, oggi abbiamo una figlia. Lei porta il velo, ma è una sua libera scelta».
Paolantoni riconosce dei limiti alle comunità musulmane in Italia: «Errori di comunicazione, per esempio, dovuti al fatto che sono comunità ancora giovani e poco radicate. Ol-tretutto molti musulmani si autodefiniscono “ospiti”, come se non facessero davvero parte del Paese, un limite questo che col tempo e con una maggiore integrazione si supererà ». E cosa pensa del gesto estremo di Giuliano Ibrahim Delnevo? «Pur essendo anch’io dalla parte del popolo siriano, non condivido questa scelta. Soprattutto tra i convertiti, accade di trovare chi decida di diventare musulmano contro qualcuno, in contrapposizione per esempio all’Occidente, perché spesso si proviene da un percorso personale di disagio. Un’impostazione, questa, radicale e sbagliata. Non solo. Credo che le comunità islamiche europee stianosottovalutando questo fenomeno, seppure minoritario, mentre dovrebbero impegnarsi ad arginarlo».
«Il caso dello studente genovese non è purtroppo isolato — conferma l’imam della moschea al-Wahid di Milano e vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica), Yahya Pallavicini — tra i convertiti all’Islam c’è una minoranza crescente che ha scelto di radicalizzare la propria vita, finendo così nelle mani di falsi maestri e falsi predicatori». Insomma il richiamo del fondamentalismo estremista sarebbe più forte tra gli islamici convertiti, «perché spesso hanno cambiato vita per disgusto o in contrasto con un’esperienzaprecedente. Ma convertirsi contro qualcosa o qualcuno significa tradire lo stesso spirito della conversione, che deve essere solo una scelta di fede, mai di violenza». Lo stesso Pallavicini è figlio di un convertito.
Non mancano però, nei confronti del giovane genovese morto in Siria, posizione diverse. «Ho fatto “professione di Islam” nel 1990, 23 anni fa — ricorda Patrizia Khadija Dal Monte (oggi dirigente Ucoii) — Provengo da una famiglia non religiosa. Ho abbracciato il cristianesimo cattolico a circa 16 anni spinta dalla ricerca di un senso profondo dell’esistenza. Poi sono diventata musulmana, a 35 anni». Nulla di strano: «C’è continuità tra le due esperienze religiose e anche col desiderio di verità che mi animava prima. L’Islam rappresenta per me la maturità della fede, quella che confida totalmente in un Dio unico, senza bisogno di raffigurazioni, che lo adora con perseveranza cinque volte al giorno, che ringrazia delle cose buone della vita e vi vede la promessa del bene che verrà».
La Dal Monte oggi indossa il velo. «Lo porto — spiega — perché fa parte della tradizione islamica, la quale ha insegnamenti che coinvolgono non solo lo spirito ma anche il corpo. Penso che in ciò vi sia una grande saggezza che considera l’essere umano nella sua unità. Il ruolo della donna nell’Islam si dipana tra uguaglianza e complemen-tarietà con quello maschile, ha certo bisogno di essere liberato da tradizioni culturali che lo restringono, ma dall’altra di conservare una propria originalitàrispetto alle mode attuali».
Quindi la Dal Monte affronta il caso degli ultimi giorni: «La morte di Ibrahim Delnevo mi ha rattristata, sono madre di un ragazzo che ha più o meno la sua età. Cosa penso della sua scelta? Credo che al di là delle motivazioni religiose, sia stato mosso dal desiderio di aiutare un popolo oppresso. Credo si possa e si debba rispettare come tale».
Hamid Abd al-Qadir Distefano, membro della Coreis, si è convertito all’Islam nel 2002. Oggi si occupa della formazione di aspiranti imam in Liguria. All’anagrafe, Hamid fa Roberto. Hamid («Colui che loda Dio») Abd al-Qadir («Servo dell’Onnipotente ») è infatti il nome che ha assunto dopo la sua conversione. «Ho avuto una formazione cattolica: battesimo, comunione, cresima e scuola dai gesuiti — racconta — poi è iniziato un periodo intenso di ricerca spirituale all’interno della Chiesa cattolica e l’incontro con alcuni maestri musulmani mi ha consentito di riconoscere il richiamo dell’ultima Rivelazione del monotesimo abramico: l’Islam ». Hamid riconosce ai musulmani convertiti il ruolo importante di possibili pontieri: «Noi siamo cittadini a tutti gli effetti della nostra Patria e quindi possiamo, anzi dobbiamo, svolgere una funzione di trasmissione della conoscenza dell’Islam, o meglio, una funzione di rappresentanza e testimonianza delle diverse istanze del sacro anche nella dimensione sociale, culturale e politica del nostro Paese». Ma, certo, «lontani daogni estremismo».

Repubblica 26.6.13
Lo scrittore Hanif Kureishi: “Il multiculturalismo riguarda le libertà individuali”
“Così il nostro bisogno di ideali può trasformarsi in fanatismo”
intervista di Maurizio Bono


«Di nuovo, in fondo non vedo cosa ci sia di così nuovo. È sempre successo, pensi alla partecipazione internazionale di giovani comunisti di mezza Europa alla guerra civile in Spagna. Con la differenza che allora c’era in gioco la libertà, mentre in questo caso a fornire la spinta è l’attrazione per l’obbedienza, per le regole che danno certezze, fino al sacrificio di sé, e degli altri, in nome di quelle regole. È questo che rende molti convertiti ferventi. Ma non si scambi per follia, c’è una logica, tutte le religioni lo sanno».
Non c’è gara con l’attrattiva delle libertà personali, delle infinite possibilità dell’individuo, che sono state la molla dei movimenti che per decenni abbiamo conosciuto?
«Libertà e democrazia, il diritto di scegliere il proprio comportamento privato, le ripeto, non sono chiese o ideologie. Chi l’ha dettoche la gente vuole sempre la libertà? Coi bambini non è così, ai genitori chiedono regole su cosa fare in ogni momento della giornata...».
Allora pensa che non si possa nemmeno educare, alla libertà?
«Purtroppo è così, l’educazione è per sua natura terribilmente normativa, stabilisce cos’è giusto e cos’è sbagliato. Non si insegna a essere liberi».
E il mondo islamico come vede l’Occidente?
«Domanda complicata. L’Islam è un modo di essere, è il fondamentalismo a essere un’ideologia, e gli islamici naturalmente non sono tutti fondamentalisti. Ma in ciò che vogliono dall’Occidente sono piuttosto selettivi: bene il materialismo, i televisori, le automobili e ricchezza più uguale, Ma non il libero pensiero, la libertà di parola, o i diritti agli omosessuali...»
Visione pessimista...
«Dice? Non vedo molte ragioni per essere ottimista. Ma è ottimismo scrivere e perseguire la creatività in tutti i campi. Io faccio del mio meglio».
Hanif Kureishi, che oggi ha cinquantanove anni, un Oscar vinto a 31 per la sceneggiatura di My Beautiful laundrette e una carriera costellata di romanzi importanti, dal Budda delle periferie aL’ultima parola(a ottobre da Bompiani), è anche lo scrittore che ha cominciato a raccontare nel 1995 l’attrazione fatale per l’islamismo estremo degli immigrati di seconda generazione. Dopo l’11 settembre il suoBlack album, storia londinese di ragazzi aderenti entusiasti o riluttanti alla jihad, è diventato un parametro dell’incomprensione da parte dell’Occidente dei fatti che stavano per capitargli addosso. E più in generale del divorzio ideale e psicologico di una parte della gioventù d’Inghilterra e d’Europa dal contesto di diritti democratici, libertà civili, consumi e individualismo, in cui pure erano cresciuti. A Milano dove ha partecipato a un incontro alla Milanesiana, organizzata da Elisabetta Sgarbi, Kureishi dice «non sono sorpreso né dall’aumento delle conversioni all’Islam né dalle derive estremiste. È una storia che negli anni 70 abbiamo già vissuto con altre ideologie di ribellione, l’estremismo ha sempre grandiattrattive per una parte dei giovani. E l’islamismo oggi è una realtà molto forte e pervasiva in buona parte del mondo. Ma a me, piuttosto che analizzare le singole ideologie, sembra più interessante vedere come le ideologie opposte, il capitalismo imperialista con i suoi errori in Afghanistan e in Iraq e il fondamentalismo che vive tutto questo come una aggressione, si rinforzino a vicenda, parlando lo stesso linguaggio dell’esclusione e dell’odio».
Cosa dovrebbe fare l’Occidente?
«Evitare interventi e uccisioni su vasta scala come in Pakistan,Afghanistan e Iraq, non supportare regimi oppressivi come ha fatto per anni, magari chiudere Guantanamo come Obama aveva promesso».
Lei è stato tra i primi a immaginare soprattutto il multiculturalismo come lo strumento per mescolarele diversità...
«Il multiculturalismo non è una ideologia o una chiesa, ha a che fare con le libertà individuali, sessuali, di comportamento. Non è un caso che a Parigi come negli Usa oggi ci siano manifestazioni contro i matrimoni gay, che oggi sono importanti perché sono un marcatore dei diritti civili. Sarei stupito che non succedesse. Ho spesso definito il multiculturalismo un lungo confronto tra concezioni e convinzioni radicalmente diverse, e non un allegro pranzo colorato».
Ma che cosa può attrarre un giovane immigrato, e magari oggi un inglese, un italiano, un americano, ad andare a combattere per la jihad in un altro paese?

Corriere 26.6.13
Bellocchio , crisi e orgoglio: non mi piego alle commedie
«Difficile fare anche un piccolo film, resta il teatro»
intervista di Giuseppina Manin


«Amo i segreti così tanto che me li tengo tutti per me». Schivo e riservato, Marco Bellocchio li racchiude da sempre nei cassetti dell’anima, alcuni a doppia mandata, altri da socchiudere ogni tanto, sottovoce, solo per orecchie fidate. E così loda la scelta di Elisabetta Sgarbi, ideatrice e direttrice della Milanesiana, di dedicare questa edizione a «Il segreto».
«Tema interessante, in via di sparizione — sostiene il regista, domani sera ospite della rassegna —. Viviamo in un’epoca di barbarie, in cui tutto viene spiattellato nelle piazze virtuali e tutti trovano naturale parlare dei fatti loro e altrui con perfetti sconosciuti. Una volta certe cose si tenevano per sé, una volta esisteva il pudore... Anche delle proprie idee. Adesso invece tutti si sentono autorizzati a dire quel che pensano e la rete è invasa di imbecillità e cattiverie. Si animano dicerie, spuntano rivelazioni allucinanti anche sul privato... La filosofia è: infangate, qualcosa resterà. Come dice don Basilio nel Barbiere di Siviglia: “La calunnia è un venticello, che alla fin trabocca e scoppia... ”. Ma neanche Rossini avrebbe immaginato tanto. Tanta zavorra, spazzatura. A questo punto il segreto diventa un valore preziosissimo. Andiamo controcorrente, torniamo ai segreti».
Non è un segreto invece che il cinema in Italia stia attraversando un momento oscuro. «Non siamo ancora al livello della Grecia, dove si chiude la tv di Stato, ma anche qui assistiamo a una progressiva riduzione dell’impegno pubblico. Le uniche sovvenzioni per chi tenta di fare film di qualità restano quelle della Rai. Che da brava mamma distribuisce poco a tutti. Così bisogna adeguarsi, pensare a film sempre più piccoli. Ma persino quello piccolissimo che volevo girare quest’estate al mio paese, La prigione di Bobbio, causa ritardo fondi promessi, sarà rinviato. Certo, proponessi una commedia, avrei qualche chance in più. Nei momenti più duri la gente vuole solo ridere. Nel dopoguerra mica andavano a vedere Roma città aperta o Umberto D. Le sale si riempivano con le commediole... Posso capirlo, ma non è il mio genere». In attesa di tempi migliori, il teatro può essere un gran rifugio. E difatti Bellocchio progetta un ritorno sulle scene. «La mia prima volta fu nel ’71 al Piccolo di Milano con Timone d’Atene con Randone e Franco Parenti, e nel 2000 un altro Shakespeare, Macbeth, con Michele Placido. Poi, di recente, la versione teatrale di I pugni in tasca e l’Oreste da Euripide. Stavolta tocca a Cechov, Zio Vanja. Le prove a settembre al Quirino di Roma. Protagonista Sergio Rubini, nel cast anche mio figlio Piergiorgio, Anna Della Rosa e di nuovo Placido, nel ruolo del professore trombone. Cechov è il mio preferito. Anni fa avevo girato un film da Il Gabbiano... E chissà che anche stavolta, dopo lo spettacolo, riesca a realizzare una versione cinematografica. A bassissimo costo, s’intende. Basterebbe una vecchia casa di campagna un po’ délabré... ».
Domani sera intanto alla Milanesiana Bellocchio ripartirà da Bella addormentata, film scandalo della scorsa Mostra di Venezia, ispirato al caso di Eluana Englaro. «Sono passati tre anni da quando ho iniziato a lavorarci. E nel frattempo tutto è cambiato. Il fine vita resta un problema apertissimo ma l’aspro dibattito di allora sembra esaurito. L’urgenza oggi è un’altra, la crisi, i milioni di italiani senza lavoro. Quelli di 20 anni, con ancora delle energie per sperare, e quelli di 50 che non sperano più. Mai vista una situazione così devastante. Oggi in Italia la priorità è la sopravvivenza, non il fine vita». Bella addormentata resta però un film civile, coraggioso, visionario. Sarà interessante rivederlo all’Auditorium HQ Pirelli introdotto da Massimo Donà ed Enrico Ghezzi. Sarà interessante seguire l’incontro dove Bellocchio si confronterà su «Il segreto della vita e delle cose» affiancato da Umberto Veronesi, Mina Welby, Giuseppe Englaro, Giovanni Reale, Pierangelo Buttafuoco, Luca Doninelli.
«La presenza di Beppino Englaro, cui sono legato da amicizia sincera, riporta sempre e giustamente alla ribalta il discorso dell’eutanasia e del testamento biologico. Se è vero che oggi le priorità sono altre, è vero anche che in molti si è fatta strada una mentalità diversa: che sia giusto e doveroso alleviare la sofferenza, accettare di vivere la morte con libertà e dignità. Da noi tutto arriva sempre in ritardo, la presenza della Chiesa continua a contare. Ma dei passi avanti sono stati fatti».
Anche nel cinema. Bella addormentata ha aperto la strada e di recente è arrivato Miele di Valeria Golino. «Un bel film. Che affronta il problema su due versanti: quello dei malati terminali, ma anche quello più complesso del diritto di andarsene comunque. Il caso di Lucio Magri, che per chiudere la vita ha dovuto rivolgersi a un’organizzazione svizzera, ha riaperto mille domande. Si può uscire di scena, pur se il corpo è sano, se la vita ci risulta insopportabile? E non solo per depressione. La storia ci insegna: di fronte a un tiranno o a situazioni sociali insostenibili, esiste anche il suicidio etico».