giovedì 27 giugno 2013

il Fatto 27.6.13
Preti pedofili, la rabbia del Vaticano
Il vicario: “Solo calunnie”
Il racconto di un testimone: “Così adescavano i minori”
di Valeria Pacelli


La notizia dell’inchiesta romana su un presunto giro di prostituzione minorile di cui avrebbero approfittato anche parroci e monsignori, ha scosso il Vaticano. È stata dura infatti la reazione del cardinale vicario Agostino Vallini che ieri, in una nota, ha affermato: “Sono pienamente convinto che sarà smantellato il piano calunnioso, dimostrando non veritiere le affermazioni dell’ex prete Patrizio Poggi. La diffusione di parte del verbale di denuncia contenente i nomi di sacerdoti da lui accusati, ha suscitato sconcerto e indignazione in Vicariato”. Ma se da una parte il cardinale Vallini non crede alle accuse, dall’altra bisogna ricordare che ad accompagnare don Poggi a sporgere denuncia presso il comando dei carabinieri per la tutela ambientale, lo scorso 8 marzo, c’è Luca Lorusso. Si tratta di un consigliere del nunzio apostolico Adriano Bernardini, uno dei più quotati per la carica di segretario di Stato, ora detenuta da Tarcisio Bertone. Papa Bergoglio conoscerebbe bene il romano Adriano Bernardini, che è stato nunzio in Argentina dal 2003 al 2011, anno in cui è tornato a Roma per rappresentare la Santa Sede in Italia e San Marino. Il suo consigliere, Monsignor Lorusso è anche l’avvocato che difende Don Poggi nel processo canonico di riabilitazione dopo l’arresto del 1999 per abusi sessuali, e davanti ai carabinieri nel Noe, assicura la serietà del denunciante.
COSÌ DON POGGI racconta chi adesca i minori. Si tratta, sempre secondo la denuncia, dell’ex carabiniere Giuseppe Buonviso e di altre due persone. Buonviso non è nuovo alle cronache: già nel 2001 è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta su un banda di pedofili, di cui faceva parte anche un medico milionario. Per quella, come per questa nuova accusa, l’ex carabiniere nega il proprio coinvolgimento. “Non vedo Don Poggi –spiega raggiunto da Il Fatto- da 12 anni. Non c’è nulla di vero. Lui accusa anche Giancarlo Aleandri che è un mio amico da tempo, lavora presso una televisione romana ed è anche lui un frequentatore della Chiesa. Non lo vedo da qualche mese visto che gira questa area particolare: ossia dopo il suo interrogatorio in procura”. E sull’arresto avvenuto dieci anni fa aggiunge: “È vero, sono stato condannato, ma anche in quella occasione non c’era reato. Inoltre dicono che vivo nella cappella di San Lauro, in via della Pisana. Lì c’era un ufficio del servizio di ambulanza che svolgevo. Ma non era la mia abitazione”. La chiesa di cui si parla è la stessa in cui, sempre secondo la denuncia, l’ex carabiniere sarebbe entrato con un minore. “Ho visto il Buonviso – racconta Don Poggi – giungere con un ragazzo che ritenevo essere di 16 o 17 anni ed entrare nel cancelletto verde della chiesa dove era affisso un foglio stampato con impresso il civico”.
Il cancelletto verde esiste davvero, la chiesa pure anche se in totale stato di abbandono. Della stessa parrocchia parla anche un altro testimone. Si chiama Marius ed è un romeno di 24 anni che trascorreva le notti nei pressi della stazione Termini dove era stato posizionato dalle forze dell’ordine romane per svolgere il lavoro di informatore della polizia. Al Fatto il giovane racconta che la presunta banda avrebbe provato ad ingaggiare anche lui, che non ha mai ceduto a quelle avances. ”Ho visto la prima volta Buon-viso – racconta Marius – davanti ad una discoteca vicino Termini. Stava tutte le sere lì. Con Aleandri li vedevo anche a piazza della Repubblica, mentre lasciavano bigliettini da visita ai ragazzi che passano, gli davano un appuntamento e li portavano non so dove. Anche a me Buonviso ha lasciato lo stesso bigliettino. Poi mi sono informato con altri del giro e mi hanno detto che di mestiere lui prende i minori. Mi hanno detto: stai attento a questo”. Anche Marius sarà sentito in procura, insieme ad altri testimoni, che secondo i denuncianti, conoscevano i presunti procacciatori di minori.

il Fatto 27.6.13
Speciale Servizio Pubblico. In diretta “Giallo Vaticano” e “Una vera bufala”

Questa sera gli speciali Servizio Pubblico Più. Alle 21.10 “Giallo Vaticano”, da Vatileaks alle lobby gay
“Nella Curia ci sono persone sante, davvero, ma c’è anche una corrente di corruzione. Si parla di una ‘lobby gay’, ed è vero, esiste, e noi dobbiamo valutare cosa si può fare”, parola di Papa Francesco. La Chiesa devastata dagli scandali, tra sesso, soldi e potere, è al centro di “Giallo Vaticano”
LO SPECIALE IN DIRETTA INIZIERA’ ALLE 21

il Fatto 27.6.13
Inciucio. Prosegue il tour istituzionale dopo i 7 anni di carcere per concussione e prostituzione e dopo l’incontro “riservato” con Enrica Letta
Il condannato ricevuto al Colle
L’altra sera Berlusconi si era lamentato con Letta per il silenzio di Napolitano
Detto, fatto. Il capo dello Stato si affretta a convocarlo al Quirinale per ascoltare le sue lagnanze sui giudici
Il cavaliere detta le condizioni al premier e al Cole
E spunta Gianni Letta senatore a vita
di Fabrizio d’Esposito


Ci sono due Silvio Berlusconi. Uno raccontato dai filogovernativi del Pdl. L’altro dagli agguerriti falchi che vorrebbero “scassare” tutto e andare al voto. Quale dei due B., allora, è andato a cena da Enrico Letta martedì sera, a Palazzo Chigi, e da Giorgio Napolitano, al Quirinale, ieri pomeriggio? La velina delle colombe ha toni rassicuranti: pur furioso per la sentenza su Ruby, il Cavaliere ha garantito il sostegno al governo per almeno altri tre mesi. Una tregua che ufficialmente coincide con il rinvio dell’aumento dell’Iva a dopo l’estate.
ALL’OPPOSTO la versione di questi colloqui accreditata dal-l’ala dura dei berlusconiani: “Gli stanno facendo credere di tutto, che Napolitano farà questo e quello, ma Berlusconi non ha capito che lo stanno accompagnando alla porta per liberarsene una volta per tutte. E in prima fila c’è Alfano, che sta preparando il partito di centro con Letta”. La prova del tradimento finale, secondo i falchi? Questa: la sempre più probabile nomina a senatore a vita di Gianni Letta, amico di cricche e faccendieri, nonché zio del premier, al posto dello stesso Cavaliere.
Suggestioni e veleni che si mischiano con gli sfoghi che Berlusconi ha avuto sia con il premier sia con il capo dello Stato. Per la serie: “Io continuo a essere responsabile ma la persecuzione giudiziaria nei miei confronti non si ferma”. Ed è qui che la scontata lamentazione incrocia l’indicibile e presunto scambio sulla giustizia. Certo, un salvacondotto generale, a meno che non sia un provvedimento di grazia (ipotesi che qualcuno pure fa), non è possibile. Ma singole operazioni mirate non sono fuori dalla realtà. Innanzitutto, l’altra sera, il premier Letta ha assicurato a B. che sulla questione dell’ineleggibilità al Senato il Pd non giocherà brutti scherzi. I democratici hanno già trovato il modo per cavarsi dal-l’impiccio con il pretesto di un nuovo ddl sul conflitto d’interessi, destinato a rimanere nel cassetto. Ma quello che sta più a cuore, in questo momento, al Cavaliere è l’atteso verdetto della Cassazione sui diritti tv Mediaset, dove teme l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Il nodo è delicatissimo e si mormora di pressioni sulla Cassazione ad altissimo livello e di “promesse” fatte a B. anche sul prosieguo dei gradi di Ruby. Berlusconi, però, a sua volta va dicendo che non si fida più di nessuno. La verità è che la strategia berlusconiana è obbligata e non presenta alternative all’ennesima tregua. Far saltare tutto è la minaccia che si ripresenterà ancora, ma Napolitano su questo, ieri pomeriggio, è stato chiaro: “Senatore si ricordi che il potere di scioglimento è mio e prima ho il dovere di verificare se c’è un’altra maggioranza”. Una maggioranza diversa dal-l’attuale che potrebbe anche fare soltanto la legge elettorale. A decidere tempi e modi del colloquio di ieri è stato il Quirinale, che all’ora di pranzo ha anche riunito il governo a tavola in vista del consiglio europeo. Napolitano ha accolto la richiesta di B. avanzata il giorno stesso della sentenza della Consulta contro il legittimo impedimento, mercoledì 19 giugno. Le “fibrillazioni” dopo il processo Ruby hanno fatto il resto e convinto il capo dello Stato a vedere Berlusconi per capire le sue intenzioni. Un pareggio, il risultato finale. Da un lato il realismo di Napolitano, dall’altro le rivendicazioni di B. sulla giustizia. Nel Pdl, lato falchi, il presidente della Repubblica viene indicato come “il principale colpevole” di questa situazione. È la teoria del presunto patto alla base del governo Letta. E c’è da giurare che le fibrillazioni, come le chiama Napolitano, proseguiranno anche durante la tregua. Nel Pdl il caos è all’ordine del giorno. Angelino Alfano ha annunciato come “irreversibile” il ritorno a Forza Italia. L’addio al Pdl sarà ufficiale a settembre, in concomitanza con la fine della tregua stipulata ieri. Un nuovo partito per una nuova campagna elettorale. Questa la speranza dei falchi. Ma accetteranno di continuare a stare con Alfano e le colombe?

Repubblica 27.6.13
E il Cavaliere al Colle va all’attacco dei giudici
Silvio chiede l’aiuto del Quirinale “La neutralità non vale con questi pm”
Sfogo dell’ex premier: se mi salvano non mi ricandido
di Francesco Bei e Umberto Rosso


ALLA fine si sono parlati. E Berlusconi ha tirato fuori tutto quello che teneva in gola e che aveva riservato finora agli sfoghi con i fedelissimi. Invettive contro i magistrati, contro la «tenaglia giudiziaria». Quel sentirsi «sotto assediocontinuo».
«MESSO all’angolo», con l’intenzione di «espellermi dal consesso civile e mandare ai domiciliari uno che è stato quattro volte presidente del Consiglio». Napolitano lo ha lasciato parlare e il Cavaliere è andato avanti: «Di fronte a questo trattamento dei pm come si fa a restare neutrali? ». Un interrogativo lasciato sospeso. Ma con un senso implicito ben chiaro all’inquilino del Quirinale. Il Cavaliere vuolenegoziare politicamente i suoi processi. Pretende un “cappello politico”. La sua richiesta, pronunciata in maniera vaga e lasciata sospesa a mezz’aria, ha come perno principale quello di una garanzia istituzionale per il futuro. «Perché non è possibile - ripete da giorni il diretto interessato - che la Cassazione, dove siede quel gentiluomo di Giorgio Santacroce, avalli questo massacro». Ma si tratta di una pretesa che sul Colle non può ottenere alcuna adesione.
Anche per questo Berlusconi ha evitato di reclamare da Napolitano un salvacondotto preventivo. «Non credo che Berlu-sconi abbia chiesto nulla a Giorgio Napolitano», ha infatti detto in serata Angelino Alfano. Ma è quella l’ossessione del capo del Pdl, convinto che solo una parola del Quirinale lo potrà mettere al riparo dalla condanna definitiva. E per ottenere questo obiettivo, che passa sotto il titolo di «pacificazione», il Cavaliere è disposto a offrire tutto, anche un patto di governo che traguardi Enrico Letta fino alla presidenza italiana del semestre europeo, luglio 2014: «Il mio appoggio e quello del Pdl resta pieno e totale, nonostante l’ingiusta condanna che ho subito».
Anche se la vera “carta segreta” che il capo del centrodestra vuole mettere sul tavolo è un’altra: «Alle prossime elezioni sono pronto a fare un passo indietro ». Tutte questioni, però, che per il capo dello Stato non possono essere oggetto di trattativa. «Le sentenze - è il messaggioche in questi giorni ha sempre rivolto il presidente della Repubblica - si possono criticare, ma restando sempre nei limiti del rispetto istituzionale». Un monito riecheggiato, con parole quasi identiche, anche nella nota diramata dal Consiglio superiore della magistratura, di cui Napolitano è presidente: «È auspicabile ripristinare un clima di serenità e di rispetto nei rapporti tra le istituzioni ad evitare che i cittadini traggano da eccessi polemici ragioni di ulteriore sfiducia verso lo Stato».
Alla base della svolta moderata del Cavaliere, che ieri hagettato nello sconforto i falchi del Pdl, c’è anche il timore o forse la certezza, che il capo dello Stato non si piegherà facilmente a uno scioglimento anticipato della legislatura se il Pdl dovesse provocare la crisi di governo. Un esponente della maggioranza sceso di recente dal Colle ne ha tratto la medesima impressione: «Prima di aprile non si torna a votare». Anche perché Napolitano, come ha preso a ripetere nelle sue conversazioni private in questi giorni di fibrillazioni sul governo, non intende assolutamente sciogliere le Camere senza che il Parlamento abbia prima riformato la legge elettorale. Insomma, la sensazione dell’ala dura del Pdl è che il Cavaliere sia tornato dal Quirinale «ingabbiato », paralizzato nel sostegno al governo senza potersi divincolare in alcun modo. Napolitano ha usato vari argomenti per ar-rivare all’obiettivo. Il primo e più importante è stato l’Europa, oggetto del pranzo con Enrico Letta, Alfano, Bonino e gli altri ministri interessati. «Non possiamo fallire questo appuntamento del Consiglio europeo ha spiegato Napolitano guardando negli occhi il segretario del Pdl -, dobbiamo presentarci senza smagliature». Un discorso ripetuto anche al Cavaliere. E Berlusconi, come filtra dagli ambienti del Quirinale, ha manifestato il suo «netto orientamento a confermare il sostegno suo e del Pdl al governo e all'azione che è impegnato a svolgere ». Sottolineando, dunque, anche le garanzie offerte dal leader a nome di tutto il partito, in preda ad uno scontro acceso fra colombe e falchi, che hanno gridato al golpe per la condanna a Milano e spingono ancora il Cavaliere a staccare prima possibile la spina di Palazzo Chigi. Per questo Napolitano ha deciso di vederci chiaro e sondare di persona intenzioni e umori dell’ex premier. Proprio il capo dello Stato ha voluto prendere l’iniziativa di ricevere il presidente del Pdl, con il quale spiega la nota ufficiale «ha proceduto a un ampio scambio di opinioni sul momento politico e istituzionale ». Sia l’invito al Colle che il confronto politico a tutto campo sono, nel linguaggio del Colle, segnali lanciati all’esterno per far intendere che il capo dello Stato riconosce sempre a Berlusconi il ruolo di leader e di interlocutore politico. La condanna di Milano non li ha messi in discussione.

il Fatto 27.6.13
Il ministro Cancellieri invoca l’amnistia che potrebbe aiutare il Cavaliere
B, spera. “L’amnistia è necessaria”
Dopo la denuncia del Fatto sono spariti dal decreto svuota carceri i salvacondotti per l’ex premier e per i mafiosi
di Beatrice Borromeo


Non resta che l'amnistia. “Sarebbe un grosso aiuto”, ribadisce il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri: sarebbe “la via maestra, ma decide il Parlamento”, ha ripetuto nei giorni. Le ha dato man forte il ministro della Difesa Mario Mauro: “Per fare la riforma della giustizia ci vuole un provvedimento di amnistia”, ha detto al Corriere della Sera, auspicando (anche lui) una stagione di pacificazione e una via di fuga per il condannato Berlusconi. Quel che è certo è che il decreto svuota carceri non servirà più a salvare i soliti noti: dopo che alcuni deputati Cinque Stelle hanno denunciato sul Fatto Quotidiano salvacondotti per il Cavaliere e benefici per i mafiosi nella bozza del decreto, il testo - approvato ieri in Consiglio dei ministri - e' infatti radicalmente cambiato .
Ecco come: sono sparite alcune delle norme piu' discutibili, a partire dalla salva-mafiosi. Indipendentemente dall’età, i padrini avrebbero potuto scontare gli ultimi due anni di pena agli arresti domiciliari. Regalino scomparso. E infatti il Guardasigilli, ieri, ha potuto dichiarare che non si tratta di “mettere in libertà i mafiosi come ho letto su alcuni giornali”. Peccato che “nella bozza del dl il tentativo c'era eccome, e consideriamo una grande vittoria che i benefici per i mafiosi siano evaporati”, dice Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle. Si sono perse per strada anche la salva-Silvio e la salva-Fede: la prima prevedeva (per chi ha piu' di 70 anni o piu' di 60 se parzialmente inabilitato) la sospensione della pena a chi doveva scontare quattro anni di carcere (invece che tre). Dicono i maligni che questa norma sarebbe servita se Silvio Berlusconi fosse stato condannato, appunto, a quattro anni (o meno) nel processo Ruby. Ma vista la condanna a 7 anni, “oltre che imbarazzante, il salvacondotto sarebbe stato pure inutile”, nota la deputata Giulia Sarti, anche lei, come la collega Businarolo, al lavoro nella commissione giustizia.
LA SALVA-FEDE prevedeva invece che potessero godere dei domiciliari tutti gli ultrasettantenni (tranne che i mafiosi), pure quelli condannati per reati connessi alla prostituzione minorile. Addio anche a questo passaggio: “E per fortuna. Si tratta di delitti talmente eclatanti che non si può stravolgere ancora una volta le leggi per salvare una persona sola. O due”, dicono soddisfatte le parlamentari pentastellate. Qualche modifica curiosa, nel decreto Cancellieri, è però rimasta: per esempio la norma drogatevi-tutti, quella secondo cui chi assume sostanze stupefacenti o psicotrope, anziché in carcere andrà a svolgere lavori di pubblica utilità. E poco importa se la droga viene presa dopo la condanna: serve comunque a evitare la galera. Ha resistito anche un invito indiretto all'evasione: “Quella dai domiciliari, anche reiterata, non basterà più per tornare in carcere, proprio come previsto nella bozza del decreto”, spiega la Sarti. Una modifica che farà piacere alle vittime di abusi vari è però stata inserita: stando alla bozza, certe categorie di delinquenti (per esempio il marito violento) avrebbero potuto scontare la pena agli arresti domiciliari, continuando dunque a perpetrare le molestie. Non e' più così: adesso sarà il giudice a stabilire in che luogo assegnare i domiciliari per assicurare la tutela della persona offesa. Tra la bozza e il decreto approvato ieri, insomma, le differenze sono sostanziali. E le retromarce molto apprezzate, soprattutto dalle vere vittime.

La Stampa 27.6.13
Ma la tregua è meno solida di come viene venduta
di Marcello Sorgi


La tregua siglata da Letta con Berlusconi martedì sera ha portato ieri a un consiglio dei ministri finalmente produttivo, con la sospensione dell’aumento Iva che doveva scattare lunedì fino a ottobre, e il varo del pacchetto occupazione che dovrebbe, almeno nelle attese, portare duecentomila nuovi posti di lavoro per giovani, ma non solo, visto che si pensa anche ad interventi a favore dei cinquantenni che hanno perso il posto.
Soddisfazione, pranzo al Quirinale con il presidente Napolitano di una folta delegazione governativa, alla vigilia del vertice europeo che comincia oggi, e dopo giorni in cui la tensione all’interno della maggioranza aveva superato il limite, dopo la sentenza di condanna di Berlusconi nel processo Ruby per concussione e prostituzione minorile, sorrisi distesi dei ministri e del Capo dello Stato per la crisi scongiurata. In serata al Colle è salito anche il Cavaliere in persona, per confermare che non vuol far cadere il governo e per comunicare la sua amarezza per la piega che hanno preso i suoi guai giudiziari, e per l’atteggiamento, che considera persecutorio, dei magistrati nei suoi confronti.
La tregua salutata da tutti con piena soddisfazione è tuttavia meno solida di quel che ieri s’è cercato di far apparire, per varie ragioni. A cominciare, ovviamente, dalle traversie dell’imputato Berlusconi, in attesa oggi della sentenza civile sul lodo Mondadori, per la quale ha già dovuto versare al suo avversario De Benedetti oltre cinquecento milioni di euro, e del probabile rinvio a giudizio nell’inchiesta napoletana per la compravendita dei senatori. C’è n’è abbastanza per rimettere in fibrillazione il Cavaliere, e per aumentare il carico di processi che potrebbe portarlo, in autunno, se la Cassazione dovesse confermare la sentenza d’appello dei giudici di Milano sui fondi neri Fininvest, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sua uscita dalla vita parlamentare.
Anche il Pd continua a restare in ebollizione in attesa del congresso. La questione degli F35 che aveva diviso il partito alla vigilia del dibattito parlamentare è stata risolta con un sostanziale commissariamento del ministro della Difesa Mario Mauro, che d’ora in poi dovrà presentarsi in Parlamento e chiedere l’autorizzazione volta per volta per le spese militari. Ma anche in questo caso si tratta di una toppa sul buco, che stava per aprirsi, della parte del Pd più insofferente al sostegno al governo delle larghe intese e tentata da un’alleanza con i grillini. Un’uscita allo scoperto rinviata, anche questa, ma non per molto.

il Fatto 27.6.13
F35, il Pd si piega alla maggioranza
Alla Camera “nì” delle larghe intese
Passa la mozione votata anche da Pdl e Scelta civica: non si annullano commesse (già un miliardo per i primi 6 aerei), ma si discuterà in Parlamento di ulteriori acquisizioni. M5S e Sel dicono no
di Sandra Amurri


Come temevano le opposizioni e le associazioni pacifiste il testo appoggiato da Partito democratico, Popolo delle libertà e Scelta civica è una versione annacquata di quella concordata in mattinata dai deputati democratici e che aveva portato Sel e Cinque Stelle a valutare un sostegno indiretto con l’astensione. Non c'è nessuno stop al programma di acquisto, nessun annullamento delle commesse. Semplicemente si introduce l'obbligo di un passaggio parlamentare per dare l'ok a nuovi ordinativi

La maggioranza sugli F-35 ha partorito una mozione unitaria, che è stata approvata dalla Camera con 381 sì 149 no dopo che era stata bocciata la mozione di Sel (contraria all’acquisto degli aerei), con 378 voti contrari e 136 favorevoli. Nessun no chiaro e netto al-l’acquisto dei cacciabombardieri, ma la tenuta del governo è salva. Il capogruppo di Scelta Civica, Lorenzo Dellai, spiega che la mozione salva “le decisioni assunte, che sono irreversibili, e non pone l’obiettivo di uscire dal progetto, ma apre una fase di verifica e impegna il governo a 'non procedere a ulteriori fasi operative' se non dopo essere tornato in Parlamento a riferire”. Cosa voglia dire “ulteriori fasi operative”, solo Dio lo sa. La certezza è che ci sarà un’indagine conoscitiva di sei mesi. In casa Pd c’è grande soddisfazione come rivela il sottosegretario alla Difesa Roberta Pi-notti, che auspica: “Le istituzioni lavorino nel rispetto del dettato costituzionale e delle normative vigenti con lo stesso impegno di oggi, in settori così necessari per il nostro Paese, come quello della Difesa”. A lei si aggiunge Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria del Pd: “Da qui in avanti sarà il Parlamento a stabilire se e in quale misura proseguire nell’acquisto degli F-35. Esistono le condizioni per valutare una riduzione dei costi e del-l’impegno italiano in un progetto velleitario all’origine e non privo di criticità e controindicazioni”.
A SPEGNERE l’illusione del superamento dell’esame “tenuta di governo” arriva l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi: “La prova non è stata superata ma rinviata. La mozione ha evitato una spaccatura nella maggioranza e nel Pd”. Per Sel, che promette battaglia, si tratta di “un’arma spuntata" perché sottintende che “bisognerà continuare nel percorso intrapreso sull’acquisto dei cacciabombardieri”. Tutto rimandato a gennaio quando sarà il Parlamento a decidere se acquistare sistemi d’arma, e non il governo. "Il Pd, coerentemente con la Costituzione, ha proposto di avviare una commissione di indagine che metta il Parlamento in condizione di decidere sul complesso dei sistemi d’arma e di difesa e soprattutto di determinare quante risorse mettere a disposizione” spiega il democratico Umberto D’Ottavio. In aula i deputati del M5S hanno mostrato foto di bambini vittime di bombardamenti e case ridotte in macerie, invitando i “dissidenti” democratici “a tirare fuori il coraggio” e a “non nascondere la testa sotto la sabbia, da pavidi e collusi con il governo dell’inciucio perenne”. I 5 Stelle attaccano anche “l’ipocrisia del Pd, che aveva detto di essere contro gli F-35 per prendere voti”.
Di fatto, con questa mozione è stato pronunciato un “nì”, quella via di mezzo tra sì e no che il Vangelo definisce peccato, ma che in politica vale oro, perché permette a tutte le parti in commedia di utilizzarlo a proprio favore. La prima dimostrazione arriva dal capogruppo Pdl alla Camera Re-nato Brunetta, un attimo prima di entrare in aula: “La maggioranza è unita e questa mozione lo prova”. Quando chi scrive lo informa che Civati, uno dei “dissidenti”, aveva mostrato un certo imbarazzo nel confermare che l’avrebbe votata, risponde: “Scusi chi è Civati? Lei sta parlando con il capogruppo del Pdl: potrei capire se mi riferisse l'imbarazzo del capogruppo del Pd”. Poi passa all’esempio pratico e rivolgendosi alla deputata Brambilla al suo fianco dice: “È come se lei mi dicesse la Brambilla non è d'accordo” La deputata sorride e lui rincara la dose: “Pensi, è anche una pacifista eppure... ”. Come dire: si adegua. E lei conferma allargando le braccia.
A stretto giro di posta arriva la giustificazione di Civati, che sul suo blog scrive: “Il vostro affezionatissimo ha votato a favore della mozione del Pd... il bicchiere poteva essere più pieno: non siamo riusciti a orientare il Pd come avremmo voluto... È un rinvio, insomma, potrebbe essere utile a fare meglio... ”. La perla di saggezza la dispensa il ministro della Difesa: “Per amare la pace, armare la pace: F-35 risponde a questa esigenza”. Parla anche l’Aeronautica: “Riconoscenti al Parlamento, che ha sostenuto il programma degli F-35 in un momento economico così difficile per il Paese”.

il Fatto 27.6.13
F-35, che il cielo ci salvi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, perché il governo Letta non riesce a trovare i soldi per evitare l’aumento dell’Iva, ma li troverà per comprare altri 41 F-35 oltre ai 90 già previsti?
Ivo

SI TRATTA ovviamente di una decisione insensata, non dal punto di vista pace-guerra. Ma per ragioni logiche difficili da confutare. Proverò a dimostrarlo. 1) Facciamo l’ipotesi che le condizioni di attacco e difesa nel mondo non siano cambiate dai tempi della guerra nel Vietnam, ovvero che una crisi si risolve alla vecchia maniera, più minaccia, più armi, più uso delle armi. Persino in questo caso la sola politica di difesa sensata per il nostro Paese come per tutti i Paesi dell’Unione, è una forza militare europea. Come si è visto in Libia, o così o niente. Soldi buttati, non dal punto di vista della pace, ma dal punto di vista militare. Ormai nessuno può fare nulla da solo. 2) Ma le cose sono radicalmente cambiate. Non arrivano armate che si possano tenere a bada con gli F-35 od ogni altro nuovo tipo di aerei militari. Arrivano (speriamo di no, ma sappiamo che è possibile) bande, terroristi, attentatori con o senza bandiera, locali e internazionali. L’America di Bush è stata costretta (da Bush) a fare due guerre a vuoto per colpire nemici che aveva in casa, spendendo somme immense, esportando morte, risentimento e nessuna vittoria. 3) Come dimostrano i casi Assange e Snowden, i pericoli si annidano e si affrontano nei due difficili campi dell’Intelligence e della rete, e inoltre allargando di molto l’intelligence umana. Dove va un costosissimo aereo a decollo verticale, su quale territorio, contro quale Paese? Tutti i conflitti in corso nel mondo sono o equivoci senza fine e senza soluzione possibile come l’Iraq e l’Afghanistan, o guerre interne (la Siria) in cui l’uso di aerei sulle popolazioni è una tortura spaventosa in più, a danno dei civili, senza alcun senso militare e alcuna via d’uscita. 4) Prima di dividersi in bellicisti e pacifisti, le zone avanzate del mondo si dividono in coscienti e incoscienti. Gli incoscienti adorano le vecchie costosissime armi che non servono e che recano beneficio solo a chi le produce. I coscienti sanno che d’ora in poi tutti gli strumenti sono diversi e che appesantirsi di armi tradizionali aumenta il pericolo e non salva nessuno. A meno di usare armi troppo potenti, come gli immensi depositi di testate atomiche che paralizzano sia Stati Uniti che Russia. Ma ognuno sa che in quel caso se ne va il pianeta. E siccome un F-35, se non porta un ordigno nucleare non serve a nulla e non ha mai vinto neppure sui pastori col fucile, sarebbe bene studiare meglio le indicazioni che possono venire da intelligence e web. Tutto il gioco consiste nell’arrivare primi non in cielo, ma nell’unico piccolo punto della terra in cui potrebbe nascondersi il prossimo pericolo . Che di sicuro non è un esercito. Meglio, naturalmente, se prima dell’intelligence e del web, arriva una visione politica.

il Fatto 27.6.13
Dopo la denuncia della Madia
Comitati d’affari nel Pd? “Guerra per bande sicuramente”
di Wanda Marra


Non è certo una cosa sulla quale si può passare così. Marianna Madia dovrebbe circostanziare meglio quel che voleva dire quando ha parlato di piccole associazioni a delinquere sul territorio nel Pd. E il partito dovrebbe andare a fondo”. Il punto lo coglie Sandro Gozi. Sì, perché il 17 giugno, intervenendo a un’iniziativa con Fabrizio Barca, Marianna Madia ha lanciato accuse pesanti: “Nel partito ho visto un sistema di piccole e mediocri filiere di potere che sono così attaccate al potere e non vogliono cedere di un millimetro”. Nelle diramazioni locali romane, però, è ancora peggio: la Madia fa un riferimento esplicito alle “associazioni a delinquere”. Il Fatto quotidiano riprende il video, fa un pezzo, che esce martedì. Poi ci torna il Corriere della Sera in un’intervista alla stessa deputata, voluta in Parlamento da Veltroni, ora molto legata a D’Alema. La quale conferma tutto a livello di critica politica, anche se dice di aver esagerato nel lessico. Al Fatto ci tiene a precisare che il riferimento alle “associazioni a delinquere” era un paragone: “Se no andrei in Procura”. Ma l’attacco della Madia è pesantissimo. La parola “delinquenti” viene presa con circospezione dai suoi colleghi di partito, ma l’analisi per molti non fa una piega. “Le correnti sono fondamentalmente gruppi di potere organizzati - conferma Paolo Gentiloni - e negli ultimi anni soprattutto a Roma il partito è stato un’accozzaglia di tensioni. Chi, come me, si è candidato alle primarie, non ha trovato un’organizzazione costruita in base a dei contenuti, se l’è dovuta dare”. Anche Lorenza Bonaccorsi, renziana, che ha appena rifiutato un posto in Giunta affonda: “Nel Pd quel che prevale sono gli accordi tra correnti”. “La parola delinquente presuppone una forma di reato. E per questo non la userei - dice Roberto Morassut, veltroniano, che del Lazio è stato anche segretario - ma io dico da tempo, è che la vita del Pd è fortemente condizionata non tanto da correnti, il che sarebbe anche normale, ma da cordate di potere”. Spiega anche come succede: “Il tesseramento avviene con alcuni potenti che comprano pacchetti di tessere e in quel modo influenzano la vita del partito”. Sulla stessa linea, pure Angelo Rughetti , romano e renziano, che la mette su un piano “alto”: “Non c’è più la politica”. Insomma, non ci sono battaglie ideali o ideologiche, ma semplicemente una guerra tra bande. L’aveva detto Massimo D’Alema qualche giorno fa: “Correnti nel Pd? Magari, c’è solo il caos”. C’è anche chi s’irrigidisce. Matteo Orfini, selezionato dalle primarie a Roma: “Le primarie sono state gestite da giochi di potere? Anche la Madia le ha vinte a Roma: le telefonate che la Cgil ha fatto per lei come le chiamiamo? Non si può dire che le preferenze sono cattive e le primarie sono buone: il sistema è lo stesso”. Pippo Civati per una volta elude la polemica: “La Madia? Lei dice quello che vuole D’Alema...”

Corriere 27.6.13
Epifani blinda il governo: almeno 2 anni E le primarie potrebbero slittare al 2014
Mossa per evitare scosse sull’esecutivo. Ma c’è l’incognita Renzi
di Tommaso Labate


ROMA — Non c’è soltanto l’ennesima secchiata d’acqua sull’incendio del post-Ruby, con quel richiamo al «clima da stemperare» rivolto tanto al Pdl quanto ai Democratici tentati dal ritorno alle urne. C’è anche una durata minima. «Almeno due anni». Che arriva persino a superare i «diciotto mesi» che Enrico Letta s’era posto come obiettivo.
A Bruxelles, dove partecipa a un incontro con i rappresentanti dei partiti socialisti europei, Guglielmo Epifani prova a blindare il governo. E ad arginare i movimenti di chi, dentro il suo Pd, si muove come se aspettasse la resa dei conti.
Ventiquattr’ore dopo gli interrogativi di Rosy Bindi («Il Pd può stare in maggioranza con uno che ha accumulato diverse gravissime condanne? ») e le punture di spillo del vicepresidente del Parlamento europeo Gianni Pittella («Il silenzio del Pd sulle esternazioni di Berlusconi sui magistrati è imbarazzante»), il segretario intima l’altolà. E parla alla suocera del Pdl perché le nuore del suo stesso partito intendano un messaggio chiaro: il governo Letta non si tocca.
«Il clima si può stemperare. Ma il Pdl deve decidere se il governo va sostenuto per dare una mano al Paese. Oppure chiarire che ci sono altre questioni attinenti ai problemi del processo di Berlusconi», ha sottolineato Epifani. Martedì, ha aggiunto, «ci sono state delle rassicurazioni» che però non bastano. Perché, e qui si torna al punto di partenza, «c’è bisogno di stabilità per almeno due anni».
Col discorso di Bruxelles si materializza, per la prima volta plasticamente, il solido asse che c’è tra il segretario del Pd e il presidente del Consiglio. Anni fa pare che i due, quando il primo era leader della Cgil e il secondo a capo di un’area molto critica nei confronti del sindacato di Corso d’Italia, si guardassero con reciproca indifferenza, quando non con freddezza. Adesso la situazione è cambiata, e non poco. Tanto che più d’uno, di recente, ha sentito Letta confessare che «un uomo col carattere di Guglielmo è il miglior alleato, in una fase come questa».
E così, incontro dopo incontro, messaggino dopo messaggino, tra Letta ed Epifani è nata sottotraccia una solida alleanza. Martedì, incontrandosi a Palazzo Chigi mentre fuori infuriava la tempesta berlusconiana, i due si erano divisi i compiti. Il premier aveva garantito sul fatto che non avrebbe mai ceduto a eventuali richieste di Berlusconi sulla giustizia. E il segretario, di contro, gli aveva promesso di tenere a bada il Pd. Un accordo che ha retto bene alle prime prove. Tanto è vero che da Bruxelles Epifani s’è prodigato di rassicurare persino la Cgil, garantendo che «le cifre impegnate dal governo sul lavoro sono più alte di quelle attese».
Incassata la non belligeranza momentanea di Berlusconi, però, a Letta rimane il problema del Pd. Come evitare che le tensioni congressuali si scarichino sull’esecutivo? Anche su questo dossier Epifani ha un piano. Che proverà a mettere a punto già oggi, quando riunirà la commissione per le regole. All’ordine del giorno ci sono la scelta di celebrare prima i congressi locali e il dimezzamento dei componenti dell’Assemblea nazionale. Sul secondo sono tutti d’accordo. Ma è il primo punto quello su cui il segretario del Pd proverà a innestare la sua personalissima road map. La promessa a Renzi di non rinviare le assise sarà mantenuta. Ma, ed è questa la missione che s’è dato il leader dei Democratici, il punto finale del percorso congressuale, e cioè le primarie per il nuovo leader, potrebbero essere rinviate all’inizio del 2014. Per preservare l’esecutivo dalla disfida finale per la guida del Pd.
Per capire se è una mission impossible bisognerà aspettare le reazione di Matteo Renzi. Ma l’allungamento dei tempi del congresso è già tra i desiderata dell’asse Letta-Epifani. A cui adesso guarda con attenzione anche Massimo D’Alema, che ieri ha risposto alle domande su una sua possibile candidatura alle Europee. «Non ci ho pensato, ma l’Europa mi interessa». E comunque, «deve chiedermelo il partito».

Corriere 27.6.13
Gassmann scopre la politica Fan di Civati su Twitter
di Renato Benedetto


MILANO —Il Pd dovrebbe «dire qualcosa di sinistra». Il motto coniato da Nanni Moretti è stato fatto proprio da Alessandro Gassmann. Ma — i tempi cambiano — mentre il regista di Aprile parlava, via tv, con Massimo D’Alema, l’attore e direttore del Teatro stabile del Veneto si è rivolto, via Twitter, a Pippo Civati. Due giorni fa, con dei tweet di supporto («solo una classe dirigente giovane e forte, quale lei rappresenta, può essere la spinta risolutiva»). Ieri con uno sprone: «Sono spesso d’accordo con lei, ma credo che sugli F35 il Pd debba dire un no secco e definitivo, spero davvero che arrivi! ». «Fosse per me — la risposta di Civati —, diciamo che stiamo cercando di dare un po’ di coraggio al Pd».
Il «coraggio» si è attestato su una mozione per sottoporre al Parlamento l’acquisto di «ulteriori» caccia. E mentre l’Aula discuteva, anche su Twitter Gassmann continuava a dire la sua: «L’Italia ripudia la guerra», citando la Costituzione e allegando la foto di un’esecuzione in Vietnam del 1968. E ancora «gli F35 sono aerei d’attacco non da difesa».
Ma cosa ha spinto Gassmann sulla via dell’impegno? «Sono arrabbiato. I caccia sono un costo inutile, mentre le nostre forze armate vivono una situazione critica. Non penso solo a chi rischia la vita in Afghanistan, ma anche ai carabinieri con le volanti senza benzina. L’altro giorno ho fatto una denuncia: non avevano la carta per le fotocopie. E poi da direttore di un teatro stabile io devo tagliare su tutto... ». Perché l’appoggio a Civati? «Ultimamente le cose più interessanti arrivano dai più giovani. Mi trovo spesso d’accordo con Civati e Renzi. Mi fa piacere che nella giunta Marino ci siano tanti giovani e donne». Già per il sindaco di Roma, Gassmann si era speso in campagna elettorale. Ma ad avvicinarlo alla politica «attiva» è stata fondamentale la scoperta del microblogging: «Da un mese ho cominciato a twittare, per prendere contatti con le persone che stimo. E con quelle che non stimo. Seguo assiduamente Scilipoti, per esempio». In un altro tweet ha citato sempre Moretti: «Facciamoci del male», con tanto di foto con barattolone di Nutella.

l’Unità 27.6.13
La rabbia dei grillini romani: «Finita la democrazia del web»
Il sì all’accordo con Marino aveva preso il 79%
Panorama: a Grillo vacanze Valtur a prezzi stracciati
di Andrea Carugati


Sono ore pesanti per i quattro consiglieri a 5 stelle del Comune di Roma. E pensare che la pattuglia capitanata dal candidato sindaco Marcello De Vito si era mossa secondo i canoni previsti dal movimento: ricevuta da Ignazio Marino la proposta di indicare un assessore donna alla Sicurezza, i grillini si erano rivolti alla mitica Rete con un sondaggio on line dal titolo «La parola ai cittadini!».
E il sondaggio, riservato ai soli iscritti, ha pure funzionato: su un migliaio di partecipanti, il 79% aveva detto sì alla proposta di indicare un assessore tecnico. Peccato che Grillo li abbia scomunicati dal blog, «Non si fanno alleanze, neppure mascherate». Dalla sera di martedì i consiglieri grillini di Roma sono nel panico. Cellulari staccati, nessuna comunicazione con l’esterno.
De Vito è furioso, così come i suoi tre colleghi Daniele Frongia, Virginia Raggi ed Enrico Stefano. Per tutta la giornata di ieri sono stati tentati dal prendere una posizione pubblica, poi hanno ripiegato sul silenzio. Come il giorno prima, quando l’imbarazzo aveva consigliato di annullare la conferenza stampa prevista per illustrare i numeri del sondaggio sul web. I quattro si sono limitati a chiamare al telefono Marino, pochi minuti cordiali, in cui hanno ribadito il «no grazie» imposto da Beppe e da Casaleggio, mascherando il niet con la indisponibilità delle persone che erano uscite dal sondaggio in Rete.
Resta il dato politico del sì dei militanti in contrasto con la linea ufficiale, ed è la prima volta da quando esiste il movimento. Soprattutto se si guarda alla percentuale che sfiora l’80%. Stefano Zaghis, portavoce di De Vito durante la campagna elettorale, non nasconde la sua rabbia su Facebook: «Evviva la democrazia dei cittadini che non contano nulla! Fine del gioco!». Un commento a titolo personale, che però la dice lunga sugli umori che circolano tra i grillini romani dopo l’entrata a gamba tesa del leader, che doveva essere portavoce e invece si è dimostrato un capo partito di quelli vecchio stile. «Non ci serve la poltroncina per far valere le nostre idee», taglia corto Vito Crimi. A lenire le ferite ci pensa Marino: «Col M5S ci sono molti punti in comune, sono sicuro che collaboreremo, ho anche rubato il loro slogan “l’onestà tornerà di moda”...».
L’ex comico si trova intanto oggi sulla prima pagina di Panorama, tra i nomi dei vip e dei politici che avrebbero ricevuto un trattamento di favore per i soggiorni nei villaggi Valtur offerti dalla società guidata a lungo dall’imprenditore trapanese Carmelo Patti e che oggi si trova in amministrazione straordinaria, mentre Patti è sotto inchiesta a Trapani con l’accusa di essere un prestanome del boss mafioso Messina Danaro. Secondo Panorama, Grillo dal 2002 al 2007, con i suoi familiari e amici (formando un gruppo anche di dieci persone) avrebbe soggiornato nei villaggi Valtur di Baia di Conte in Sardegna e del Sestriere usufruendo di sconti fino al 70 per cento. In un’occasione, a Sestriere nel 2002, Grillo non avrebbe pagato i 12mila euro del conto per un «cambio merci», probabilmente per uno spettacolo agli ospiti del villaggio.
Si tratta di vacanze in periodi in cui Grillo non era ancora impegnato in politica, e il suo nome viene citato accanto a quello di altri vip e sportivi. Ma anche a quello di politici come Renato Schifani e Totò Cuffaro, i più assidui, e beneficiari di sconti amplissimi, se non proprio di soggiorni regalati come quello del 2009 a Favignana. Più defilata la posizione di Angelino Alfano, che ha ricevuto sconti più contenuti «previsti da catalogo o normalmente praticati per politica commerciale a personaggi pubblici (e, dunque, anche a giornalisti e comici)», ha spiegato il suo legale Fabio Roscioli. Tra i comici appunto c’era anche Grillo. Che, come ovvio, non ha commesso alcun illecito ma si ritrova ora in una curiosa lista di ospiti vip insieme a Schifani e Cuffaro. Anche se i tempi in cui le 5 stelle erano solo quelle del resort.
Sul fronte parlamentare, in attesa del «Restitution Day» di lunedì prossimo (i grillini consegneranno a Banca d’Italia un simbolico mega assegno di cartone dal valore superiore a un milione e ci dovrebbe essere anche Grillo), si avvicina l’ennesimo addio. Il deputato eletto all’estero Alessio Tacconi ha chiesto al capogruppo Nuti una deroga visto l’alto costo della vita di Zurigo, dove vive con la famiglia. E pretende che la questione venga discussa in una assemblea per capire «se nel M5s c’è discriminazione». Insomma, vuole fare della sua vicenda personale un caso politico, tentando di ribaltare la regola imposta da Grillo secondo cui la diaria va rendicontata e la parte eccedente deve essere restituita.
Nuti ieri gli ha risposto: «Non ci sarà nessuna assemblea, gli ho detto di rendicontare quanto ritiene giusto. Se non lo farà ne parleremo...». Difficile che la vicenda si concluda con un gentlemen agreement. E i falchi si dicono certi: «Lascerà per i soldi».

l’Unità 27.6.13
La filosofia di Grillo: quando uno vale zero
Dietro il no a Marino una strategia che punta alla sovranità assoluta del capo sul Movimento
di Michele Di Salvo


LA LINEA DI BEPPE GRILLO NON CAMBIA: QUALSIASI ACCORDO TRA PARTITI È UN INCIUCIO. Del resto, tutto ciò è anche semanticamente coerente con l’idea che si possa fare politica solo dopo aver ottenuto il 51% oppure che sia immaginabile un Parlamento 100% monocolore.
L’idea del «lavorare insieme», per il governo nazionale o per quello di un Comune, è il seme della democraticità, e presuppone un’umiltà di fondo: nessuno può pensare di aver ragione da solo e non è bene rifiutare a priori le proposte altrui. Ignazio Marino, appena eletto sindaco di Roma, come aveva annunciato in campagna elettorale, sta cercando di mettere insieme la migliore squadra possibile, e in generale di aprire ed allargare alle forze politiche e sociali che ritiene possano offrire qualcosa di buono alla città. Per questo ha «aperto» ad una collaborazione che neppure significa alleanza politica con il Movimento Cinque stelle, che si è presentato come forza di innovazione, offrendogli peraltro un’indicazione proprio sulla trasparenza e legalità. Quale migliore occasione per mettere alla prova sobrietà, trasparenza e concretezza?
«In merito ad alcune iniziative dei consiglieri comunali di Roma si ribadisce che: il MoVimento 5 Stelle non fa alleanze, né palesi né tantomeno mascherate, con alcun partito, ma vota le proposte presenti nel suo programma. L’unica base dati certificata coincidente con gli attivisti M5S e con potere deliberativo è quella nazionale che si è espressa durante le Parlamentarie e le Quirinalie e quindi il voto chiesto da De Vito (il candidato sindaco M5S a Roma, ndr) online non ha alcun valore». Così parlò Beppe Grillo, liquidando il M5S romano e negandogli la possibilità di pesare nel nuovo corso post Alemanno. E così Grillo ha anche liquidato qualsiasi proposta di confronto e sondaggio con la base locale, quella che ha fatto la campagna elettorale, ha chiesto e ricevuto i voti reali, ha creduto di poter davvero fare qualcosa di buono per la propria comunità.
E invece no, Grillo getta la maschera, lo fa sulla linea-Travaglio «collaborare = inciucio», e ferma qualsiasi reale ipotesi di confronto dal basso, negando anche l’idea (cui ormai nessuno crede più) che uno vale uno: da oggi è evidente che vale solo lui.
Per il M5S, nella consueta logica manichea tra buoni e cattivi, che riguarda ormai tutta la vita del Movimento, a partire dai gruppi parlamentari, è il momento di fare chiarezza: essere il braccio di Grillo, i suoi meri esecutori, oppure no? L’occasione magistrale sarà il Restitution-Day, creatura perfetta, datata anche al momento giusto per non accavallarsi con eventi mediatici «altrui». Mossa semplice di Grillo per mettere a tacere ogni polemica interna e ogni dissenso, e unire la base: i parlamentari che dissentono sono quelli attaccati a soldi e poltrone. E viene così cancellata ogni polemica. Da un lato i buoni, dall’altro i cattivi. Nessun distinguo e nessuna via di fuga.
Tutto questo però non serve all’Italia, non serve alle persone normali, a quelle che non arrivano a fine mese, a quelle che non hanno un lavoro né una speranza di averlo, non serve ai ragazzi che devono scegliere se restare qui o andare all’estero, non serve alle imprese, non aiuta i terremotati, non risolve alcun problema sociale.
Prima smetteremo di farci prendere in giro da queste retoriche, meglio sarà per tutti noi. Perché da questo comportamento di Grillo, l’unico che ci guadagna è Berlusconi, il quale, in uno scenario senza alternative, anche se decotto come leader di una qualsiasi destra liberale acquisisce, grazie alla linea Grillo-Travaglio non solo maggiore legittimazione, ma soprattutto potere di condizionamento politico in virtù dello stato di necessità.
P.S. Un tempo Grillo sbandierava che «uno vale uno» e lui era un semplice megafono. Bene, gli attivisti 5 Stelle romani hanno scelto di dare un nome a Marino. Lui, da megafono e portavoce, dovrebbe supportare questa scelta. Invece... l’unica base che lui riconosce sono gli iscritti al suo sito. Tradotto, vuol dire che anche a Roma gli attivisti non contano nulla. Questi i fatti, il resto è noia.

Repubblica 27.6.13
La ricchezza della diversità
di Nadia Urbinati


La nostra democrazia sta attraversando una fase di tensioni e schizofrenie che non cessano di stupire. Il fondatore del blog antipartito Beppe Grillo transita il suo movimento dalla società al Parlamento, salvo poi lamentare il fatto che gli eletti del Movimento 5Stelle obbediscono al popolo italiano invece che a lui o al suo blog. Parlamentarista dichiarato quando in Parlamento i suoi non c’era ancora, sfodera ora una vocazione autoritaria e dispotica che col Parlamento va poco d’accordo. Il carattere deliberativo delle istituzioni democratiche impone un’attenzione alle differenze di vedute e una pratica della tolleranza che mal si adatta con i capipopolo. Non vi è dubbio che la strada del leader plebiscitario possa sembrare quella più semplice e naturale in tempi di crisi; quella che meglio pare adattarsi al maggioritarismo e che riesce a unire una massa larga nel nome di un capo rappresentativo. In questa impazienza con la democrazia deliberativa e parlamentare il leader del M5S si trova in sintonia con il leader del Pdl, il quale ha in questi anni portato parte dell’opinione di centrodestra (e non solo) a condividere vocazioni presidenzialiste.
Accanto a questi movimenti tendenti verso un apex verticale di leadership centralistica è in corso un fenomeno che va nella direzione opposta. In questi giorni la senatrice del Pd Laura Puppato e altri deputati e senatori del suo partito, di Sel e di Scelta Civica hanno messo in essere un concreto tentativo volto a contenere la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e nello stesso tempo a sfuggire al semplificazionismo plebiscitario. Hanno lanciato una piattaforma dal nome significativo “Tu Parlamento” e anticipato così gli attivisti del M5S che ne hanno parlato tanto senza però riuscire a concretizzare, silenziati dalla voce del loro leader extra-parlamentare. “Tu Parlamento” è il nome di un piano partecipativo promosso da rappresentanti di diverse formazioni politiche. Lo scopo è di permettere ai cittadini di avanzare proposte al Parlamento per affrontare con più efficacia le emergenze politiche, economiche e sociali del Paese. Le proposte vengono rivolte direttamente ai rappresentanti delle forze politiche presenti in Parlamento che si sentono impegnati a valorizzare l’ascolto democratico come fattore di rinnovamento del Paese e della politica.
La partecipazione alla deliberazione è in sintonia con il piano di coinvolgimento democratico offerto dalle nuove tecnologie e previsto dall’Action Plan 2011-2015 dell’Agenda Digitale Europea. Infine, “Tu Parlamento” porta al cuore dello Stato un’attività deliberativa maturata nel nostro Paese già da alcuni anni e in corso in diverse regioni, dalla Lombardia al Lazio, dall’Emilia-Romagna alla Toscana. Sbarca a Roma con un importante messaggio: stabilire un canale di comunicazione tra il dentro e il fuori del Parlamento contribuendo a realizzare non tanto la democrazia partecipativa, ma quella rappresentativa vera e propria. E infatti uno degli aspetti di quest’ultima è la circolazione di informazioni e di idee tra eletti ed elettori per realizzare al meglio il controllo e l’autogoverno democratico, bloccando la trasformazione oligarchica che le elezioni possono facilitare.
Bisogna dare atto al gruppo di parlamentari che hanno istituito “Tu Parlamento” di aver avuto l’intelligenza di mettere in cantiere un modello di democrazia alternativo a quello plebiscitario. Un modello che riconosce l’esigenza di aprire al pluralismo e alla collegialità invece che affidarsi all’agglomerato di masse di cittadini identificati passivamente con un leader carismatico. La piattaforma partecipativa, ma meglio sarebbe dire comunicativa, propone una forma di azione democratica che è attenta alle opinione dei singoli e delle comunità locali, alla raccolta di informazioni da tutti i punti del Paese, all’apporto delle più diverse competenze; che infine impegna i parlamentari a porgere attenzione, ad ascoltare e soprattutto apprendere e decidere con più competenza. Invertendo l’abitudine a essere autoreferenziali e lontani dalla vita ordinaria delle persone.
Il dar vita a un’attività congiunta parlamento-cittadini fa pensare all’azione politica come a un agire collettivo che sia in grado di cogliere e capire la complessità, che non l’azzeri per coltivare il sogno di facili semplificazioni. La democrazia non è fatta di una massa di eguali che prende forma e voce grazie a un leader. È al contrario cooperazione anche conflittuale di diversi, perché liberi e uguali nei diritti; diversi che si accordano per cercare insieme la soluzione ai problemi che essi stessi sollevano e vogliono risolvere. Le società complesse hanno bisogno di democrazia perché devono poter fare affidamento sulla diversità delle opinioni e delle competenze, sullo scambio orizzontale invece che sul comando monocratico. Si tratta di uno stile di azione pubblica che diffida naturalmente dell’ideologia semplificatrice, un vangelo che dalle scienze economiche si vuole trasportare come su carta carbone alla politica. A dire il vero con poca saggezza, poiché anche chi un po’ mastica di teoria della scelta razionale sa che la diversità e la cooperazione sono un bene e un arricchimento, non un disturbo o un intoppo da superare. La democrazia è deliberazione tra diversi non semplicedecisionismo per una massa di identici.

La Stampa 27.6.13
Parigi: l’orrore della guerra in Siria raccontato da una delegazione della città assediata
“Io, chirurgo sotto il fuoco ad Aleppo”
Un medico in prima linea: “Operano anche i dentisti, guidati via Skype dall’estero”
di Alberto Mattioli


Il mondo non può far finta di non sapere.
"Ci sono dottori che lavorano 48 ore di fila poi crollano e vengono sostituiti dagli studenti"

Storie di dentisti che operano guidati in diretta su Skype da specialisti stranieri, perché non ci sono più chirurghi o quelli che restano sono troppo esausti per tenere ancora il bisturi in mano. Di bambini amputati delle gambe che chiedono se potranno andare ancora a scuola. Di ospedali bombardati dove scarseggiano perfino i guanti di plastica, figuriamoci gli anestetici.
C’è un curioso contrasto fra la bella sala rococò del Consiglio regionale dell’Îlede-France, in una Parigi inondata di sole e di turisti, e questo gruppetto di coraggiosi che arriva da Aleppo, la seconda città siriana, due milioni di abitanti, controllata al 70 per cento dagli insorti. «Per questo ci bombardano. Da un anno, tutti i giorni».
I siriani sono quattro, gli equivalenti del nostro sindaco, presidente della provincia, provveditore agli studi e chirurgo capo dell’ospedale. Indossano delle sciarpe con i colori nazionali, come dei tifosi di calcio, e sono in Francia per firmare un gemellaggio con Metz. Ma soprattutto per incontrare il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, e far sapere al mondo quel che succede ad Aleppo assediata, nel giorno in cui, secondo le Ong, la guerra civile siriana ha fatto la vittima numero 100 mila.
Il professor Abdul Aziz, 47 anni, in realtà non si chiama affatto così. E chiede alle tivù di non riprendere il suo viso e ai giornali di non pubblicare le sue foto. Ad Aleppo, è troppo conosciuto: studi in Inghilterra (parla un inglese perfetto), cattedra all’Università, da quando è iniziato l’inferno è l’anima dell’ospedale. «La famiglia è al sicuro in Turchia, ma mamma e papà, 75 e 80 anni, sono ancora in Siria, in una zona controllata dal regime. Se mi scoprono, loro sono morti. L’altro giorno, sono venuti a bussare a casa mia: “Dov’è il medico che cura i terroristi? ”. Ma io ero all’ospedale. Sulla sua pagina Facebook, mio figlio scrive: “Dio, proteggi mio padre, please”». Avrebbe potuto scappare anche lui, non l’ha fatto. «Questa è la mia città e questo è il mio popolo».
Gli restano quattro ambulanze in tutto, che escono solo mimetizzate perché gli elicotteri di Assad ci sparano sopra. Ci sono chirurghi che operano per 48 ore di fila, poi crollano e vengono sostituiti dai loro studenti: «Spero che, quando sarà finita, potranno laurearsi. La pratica l’hanno già fatta». L’ospedale è stato bombardato sette volte ed evacuato due. Manca tutto.
Aleppo era il centro dell’industria farmaceutica siriana: dopo sei mesi di guerra, era ancora aperto il 30 per cento degli stabilimenti; adesso, nessuno. «La settimana scorsa - racconta il dottore -, dopo lunghe trattative, è passato un convoglio della Mezzaluna rossa. Per la prossima, ne aspettiamo uno dell’Organizzazione internazionale per i rifugiati». Dei famosi aiuti umanitari dei governi occidentali, finora, nessuna traccia.
«Il 50 per cento dei feriti dice lui - ha meno di 18 anni, il 75 per cento sono civili, donne e bambini. Quanti sono? Dati complessivi non ne ho. Posso dirle che nel mio ospedale, uno dei quattro della città, dall’inizio dell’anno ho avuto 3.750 ricoverati. Solo in aprile, 93 morti. La settimana scorsa hanno bombardato il palazzo davanti all’ospedale. Fra le macerie abbiamo trovato una madre che copriva con il suo corpo i tre figli».

La Stampa 27.6.13
Asfalto e case tutte uguali così il Tibet diventa cinese
Rapporto di Hrw: villaggi cancellati, milioni di abitanti spostati, spie in ogni quartiere
Entro il 2014 altre 900.000 persone saranno trasferite nelle «Nuove città socialiste»
di Ilaria Maria Sala


Più di due milioni di tibetani spostati contro la loro volontà verso nuove case di cemento. Centinaia di migliaia di nomadi tolti dalle praterie, e persuasi a vivere in casette a schiera lungo nuove strade asfaltate, dove abitano anche quadri di Partito, preposti a controllare che non nascano nuove insurrezioni anti-cinesi.
Questa la situazione, dettagliata con dovizia di particolari da Human Rights Watch in un rapporto pubblicato oggi dal titolo «They say we should be grateful» («Dicono che dovremmo essere grati»), in cui è illustrato il modo capillare in cui l’intervento statale sull’altipiano tibetano sta modificando per sempre uno stile di vita secolare, senza che i diretti interessati abbiano modo di mettere parola sulla direzione che prende il loro presente e il loro futuro.
Dal 2006, dice Nicholas Bequelin di Human Rights Watch, «il governo cinese sta portando avanti una campagna chiamata di “costruzione dei nuovi villaggi socialisti” che prevede lo spostamento forzoso di centinaia di migliaia di tibetani, in villaggi costruiti secondo standard governativi dai quali non è previsto sgarro. I villaggi tibetani, abitati da secoli, sono stati distrutti e rasi al suolo, costringendo la popolazione a spostarsi poche centinaia di metri più in là nelle case di nuova costruzione». Non tutti i tibetani sono necessariamente contrari alla modernizzazione del loro stile di vita, precisa Bequelin: «Come tutti, trovano vantaggioso avere acqua corrente ed elettricità in casa, ma quello che è intollerabile è che ciò debba essere loro accessibile solo al costo del loro stile di vita e della loro cultura».
Le nuove case - simili a quelle che vengono costruite ai quattro angoli della Cina - sono «localizzate» solo da tetti dipinti alla tibetana, con strisce amaranto e qualche cerchio bianco lungo il cornicione, sono costruite secondo una versione standardizzata che non fa nessuno sconto alle condizioni climatiche locali, spesso estreme. Così, alle case dai muri spessi che mantenevano i locali freschi in estate e caldi in inverno, sono ora sostituiti muri sottili tutti uguali. «Il governo cinese ignora del tutto quell’autonomia che promise sulla carta ai tibetani», dice Bequelin, enfatizzando il punto più tragico della situazione: «La totale impotenza tibetana davanti a un cambiamento sul quale non hanno alcun potere, per quanto il governo cinese continui a sostenere che le re-localizzazioni siano volontarie».
Il governo cinese ha infatti deciso di procedere a un’eliminazione quasi totale del nomadismo in Cina di qui al 2015. Ed entro il 2014, altre 900 mila persone saranno sradicate dai loro villaggi e spostate nei «Nuovi villaggi socialisti», mentre nella regione del Qinghai, parte dell’altipiano tibetano, entro la fine dell’anno il totale di tibetani sedentarizzati arriverà a 413.000, secondo quanto stabilito dal rapporto di Hrw.
«In un contesto già altamente repressivo, i tibetani non hanno modo di esprimere alcuna opposizione al progetto che ha portato a un impoverimento significativo delle popolazioni coinvolte: per quanto il governo cinese dica che le nuove case sono statali, abbiamo verificato che la maggior parte dei costi di costruzione sono imposti ai tibetani stessi, che non avevano mai chiesto di cambiare casa o di veder distrutta quella nella quale abitavano. Ora devono ora pagare le nuove abitazioni fino al 75%», commenta Bequelin.
E davanti al crescente inasprirsi delle relazioni fra tibetani e cinesi dal 2008 – quando ci fu una sanguinosa insurrezione anti-cinese a Lhasa e in alcune altre regioni tibetane – ecco che è stato deciso di inviare in ognuno dei 5400 villaggi tibetani delle squadre di funzionari di Partito che dovranno «vivere, lavorare e mangiare insieme» agli abitanti locali, applicando politiche che, secondo Hrw, «stabiliscono un sistema di sorveglianza politica costante e violano i diritti civili, culturali, politici e religiosi dei tibetani».
Una politica che non sembra essere stata in grado finora di portare a maggiore serenità il Tibet: dallo scorso anno, infatti, è salito a 119 il numero di tibetani che si sono dati alle fiamme, nel tentativo disperato di attirare l’attenzione del mondo sulle loro condizioni di vita sotto un sistema politico che preclude ogni forma di dialogo.

l’Unità 27.6.13
Nozze gay, la Corte suprema dice sì
Obama: «Oggi siamo più liberi»
Per i nove giudici il matrimonio non è solo tra un uomo e una donna
Estesi ai coniugi omosessuali gli stessi diritti
Lacrime di gioia ed esultanza in piazza
I vescovi: «Giorno tragico per la nazione»
di Roberto Arduini


Dopo un rinvio di 24 ore, la Corte Suprema Usa ha finalmente deciso che è incostituzionale la legge federale che definisce il matrimonio come «l’unione tra un uomo e una donna». La coppie gay legalmente sposate godranno così degli stessi benefici di quelle eterosessuali. I giudici della Corte hanno votato 5 contro 4 per respingere il provvedimento del Defense of Marriage Act (Doma) che privava le coppie gay sposate di una serie di benefici tributari, sanitari e pensionistici. «La vita delle coppie gay sposate era oppressa dal Defense of Marriage Act», ha spiegato Anthony Kennedy, uno dei giudici della Corte suprema che ha votato per bocciare il provvedimento, «in maniera visibile e pubblica». Il principale effetto del Doma, ha sottolineato, era quello di individuare un sotto-insieme dei matrimoni, quelli gay, e, anche se autorizzati dallo Stato, «renderli ineguali». Altri quattro giudici liberali hanno votato insieme a Kennedy contro il provvedimento, difeso invece dai giudici John Roberts, Samuel Alito, Clarence Thomas e Antonin Scalia.
«LEGGE DISCRIMINATORIA»
«L’amore è amore», ha commentato a caldo su Twitter il presidente Barack Obama, che ha chiamato l’avvocato per i diritti dei gay Chad Griffin, per congratularsi, mentre si trovava sull’aereo Air Force One, in volo per l’Africa. «Quando tutti gli americani sono trattati come uguali, indipendentemente da chi sono o chi amano, siamo tutti più liberi», ha fatto sapere il presidente Usa. «Quella legge era discriminatoria ha detto Obama in un comunicato trattava le coppie gay e lesbiche come cittadini diversi di serie B». «La sentenza rappresenta un vittoria ha aggiunto per le coppie che a lungo hanno lottato per un trattamento paritario di legge, per i bambini i cui genitori ora sono riconosciuti come legittimi, per le famiglie che avranno da oggi in poi il rispetto e la protezione che meritano». «È anche fondamentale mantenere l’impegno della nostra nazione per la libertà religiosa», ha sottolineato Obama. «Il modo in cui le istituzioni religiose definiscono e celebrano il matrimonio è stato sempre deciso da queste istituzioni. Niente in questa sentenza, che riguarda soltanto i matrimoni civili, cambierà questa situazione». Obama ha detto di aver chiesto al procuratore generale Eric Holder di lavorare per garantire che la legge federale rifletta la decisione dei giudici.
La Corte suprema ha anche aperto la strada per la ripresa dei matrimoni gay in California. Decidendo di non pronunciarsi sulla cosiddetta «Proposition 8», il referendum tenutosi nello Stato nel novembre 2008 che aveva sancito il divieto dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Di fatto la non-decisione lascia intatta quella di un tribunale federale di San Francisco che aveva annullato tale divieto. Secondo i giudici, i sostenitori del bando ai matrimoni gay non avevano il diritto legale di presentare un ricorso contro l’annullamento. Tra pochi giorni, quindi, gli uffici comunali di ogni città californiana torneranno ad accettare le richieste delle coppie omosessuali di unirsi in matrimonio.
Non appena la notizia delle due sentenze ha cominciato a diffondersi, migliaia di persone, in tutto il Paese, hanno festeggiato e brindato. Centinaia di attivisti si sono ritrovati per le strade di Los Angeles e di San Francisco, per celebrare una decisione attesa da anni. Brindisi e lacrime, bandiere arcobaleno anche davanti alla sede della Corte Suprema a Washington, dove la fila per entrare nell’aula del tribunale per ascoltare la sentenza si era formata già da martedì. In centinaia avevano dormito sul marciapiede, resistendo anche a un temporale. Solo un gruppo ristretto era riuscito a entrare in aula. Alla lettura delle sentenze, è scoppiato un boato di gioia tra coloro che erano sui gradini dell’edificio e nella piazza antistante. Tra di applausi, gli attivisti hanno cantato slogan «Doma is dead», («Il Doma è morto») e «Viva gli Stati Uniti». Un ragazzo del Wisconsin ha spiegato di essere a Washington per sperimentare «la storia, proprio come quando venne messa fine alla discriminazione per gli afro-americani».
Fuori dal coro, la reazione dei vescovi Usa: «È un giorno tragico per il matrimonio e per la nostra nazione», si legge nel comunicato della conferenza episcopale che porta la firma dell’arcivescovo di New York Timothy Dolan. Attualmente, gli Stati che consentono matrimoni gay sono 12: Washington, Iowa, Minnesota, Delaware, Maryland, Connecticut, Maine, Massachusetts, New Hampshire, New York, Rhode Island, Vermont. A questi si aggiunge la capitale del Paese, District of Columbia (Dc). Quelli che permettono le unioni civili sono California, Colorado, Hawaii, Nevada, Oregon, Illinois, Wisconsin e New Jersey.

l’Unità 27.6.13
Wendy, che salvò l’aborto in Texas
Per pochi secondi le nuove norme non sono state approvate: «È la democrazia»
La senatrice democratica ha parlato 10 ore e 45 minuti, per bloccare una legge che avrebbe chiuso 37 delle 42 cliniche dove si può abortire
di Marina Mastroluca


Tailleur bianco e scarpe da ginnastica rosa. Wendy Davis si è presentata così alla sua personale maratona contro la legge che avrebbe riportato le donne del Texas indietro nel tempo in fatto di aborto, secondo l’orologio ultra-conservatore e teo-con. Dalle 10 e tre minuti del mattino alle 11,18 di sera, in piedi davanti al Senato texano la democratica Davis ha spiegato perché sarebbe stato un errore. È stata interrotta come nelle favole una manciata di minuti prima che scoccasse la mezzanotte, perché il suo «filibustering» ostruzionista è stato giudicato ondivago e soprattutto per dare il tempo ai senatori di votare entro i termini legali le misure anti-abortiste. Diciannove voti a favore, dieci contrari. Il Senato del Texas ha approvato.
Sembrava una sconfitta, per quanto onorevole, per Wendy che si era battuta come un leone per portare i diritti delle donne alla sponda sicura del nuovo giorno. Ma, verso le due del mattino, il vice-governatore David Dewhurst ha dovuto ammettere che c’era stato un errore, dichiarando nulla la procedura di votazione: dai tabulati risultava chiaramente che il voto era avvenuto pochi secondi dopo la mezzanotte. «È la cosa più incredibile che abbia mai visto in tutta la mia vita», ha confessato Dewhurst.
GLI AUGURI DI OBAMA
«Stand for Wendy». Come per l’uomo in piedi di piazza Taksim, immobile davanti alle prepotenze del governo turco, anche la senatrice democratica ha avuto un suo hashtag e una folla che l’ha seguita via Twitter, virtualmente in piedi con lei. Il suo discorso in streaming ha collezionato 150.000 mi piace, il presidente Barack Obama le ha mandato parole di incoraggiamento. Perché Wendy, con i capelli biondi un po’ sciupati, la faccia stanca, il tailleur bianco e le scarpe da ginnastica era un pezzo d’America: in piedi, come impone il regolamento del Senato del Texas, per non tornare indietro nel tempo, dove sotto l’apparente tutela della salute delle donne si cercava di contrabbandare ben altro. Il progetto di legge, sostenuto dai repubblicani, oltre a vietare l’aborto dopo la ventesima settimana imponeva infatti l’obbligo di ricorrere a strutture dotate di reparti chirurgici per l’interruzione di gravidanza. Di fatto si sarebbe tradotto in un pesante ridimensionamento del diritto all’aborto, perché delle 42 cliniche texane che attualmente consentono l’interruzione di gravidanza, 37 non avrebbero avuto i requisiti necessari per operare.
RAGAZZA MADRE
Wendy non ha fatto tutto da sola. L’avevano scelta perché è una che sa il fatto suo, perché ha avuto un figlio quando era ancora una ragazzina ma è riuscita a laurearsi in legge ad Harvard, andando avanti a forza di testardaggine. A darle una mano c’è stata comunque una raffica di mozioni presentate dai colleghi democratici. E poi, quando è stata interrotta per essere andata fuori tema, è arrivata la cavalleria: 400 manifestanti che hanno fisicamente interrotto i lavori de Senato per 15 minuti, un altro scampolo di tempo strappato con i denti.
È alla confusione di quegli ultimi minuti prima della mezzanotte che il repubblicano Dan Patrick attribuisce la responsabilità di quel voto al foto-finish. Nel bailamme generale si sono bruciati istanti preziosi, che avrebbero potuto fare la differenza. E invece.
«Mi fa male la schiena e non ho più parole», ha detto lei quando tutto è finito e i sostenitori la circondavano congratulandosi. «Abbiamo mostrato la determinazione delle donne texane». Juan «Chuy» Hinojosa, senatore democratico, la mette così: «Questa è la democrazia».

Corriere 27.6.13
La società che cambia e il verdetto-sanatoria
di Paolo Valentino


Comunque la si voglia giudicare razionalmente ed emotivamente, ci sono pochi dubbi che la doppia decisione presa ieri dalla Corte Suprema degli Stati Uniti sulle coppie omosessuali rappresenti una svolta storica. Dichiarando incostituzionale, in quanto discrimina i conviventi gay negando il principio dell’eguale protezione, il Doma, il Defense Of Marriage Act approvato dall’Amministrazione Clinton nel 1996, la massima magistratura americana ha concesso di fatto una vendemmia di diritti legali e sociali (oggi garantiti solo alle coppie etero) anche ai gay che si sono sposati negli Stati (12 al momento, più il District of Columbia) dove il matrimonio tra persone dello stesso sesso è legale. Ancora, rifiutandosi di decidere sul ricorso di due coppie omosessuali contro la Proposition 8, la legge della California che ha messo al bando il matrimonio gay, la Corte ha aperto la strada alla sua legalizzazione nello Stato più popoloso dell’Unione.
Attenzione, i giudici non hanno smantellato le leggi che proibiscono l’unione civile tra omosessuali negli altri 37 Stati, né hanno detto che esiste un diritto costituzionale a sposare una persona del medesimo sesso. Ma questo nulla toglie al significato simbolico e pratico della decisione, salutata come una importante vittoria per il movimento dei diritti dei gay. Love is love, ha twittato il presidente Barack Obama, pronto a capitalizzare politicamente uno sviluppo che dà ragione a una delle componenti più fedeli della sua coalizione elettorale.
Anche se presa sul filo del rasoio dell’inconciliabile divisione tra progressisti e conservatori, con il giudice Anthony Kennedy questa volta a dare il voto decisivo del 5-4, la sentenza appare in realtà come una sanatoria. Nel senso che gran parte del Paese, piaccia o no, è già andata molto più avanti della Corte suprema. E una decisione che ancora poco tempo fa sarebbe stata lacerante e inconcepibile per la società americana, oggi suona come una specie di ratifica di cambiamenti già avvenuti al suo interno: come ha ricordato uno dei leader della Human Rights Campaign, quando la battaglia contro la Proposition 8 venne iniziata quasi cinque anni fa erano appena tre gli Stati americani che avevano legalizzato il matrimonio gay.
Di più, viene di aggiungere: a testimonianza di quanto il tema sia in verità trasversale e controverso, il solo leader repubblicano a difenderlo era nient’altri che il vicepresidente Dick Cheney, santo patrono dell’ultra destra repubblicana, ma padre felice di una figlia lesbica. Mentre, anche questo è utile ricordare, contrario si pronunciò all’inizio il candidato Barack Obama, che pure conquistò l’America con il suo messaggio di cambiamento e di speranza. Soltanto nella campagna per la rielezione, il presidente democratico si è pienamente convertito alla causa. Mentre Bill Clinton, che nel 1996 aveva firmato la legge ieri dichiarata incostituzionale, si è pubblicamente scusato, ammettendo di aver commesso allora un grave errore.
Certo l’opposizione ai matrimoni tra persone dello stesso sesso rimane vasta e radicata nell’America profonda, ancora legata a valori tradizionali e puritani. Certo lunghe e senza esclusioni di colpi saranno le battaglie legali e politiche negli anni a venire su questo tema. Ma da qualunque posizione lo si affronti, ieri gli Stati Uniti hanno voltato pagina. Verso una difficile modernità, come sono convinti i sostenitori del matrimonio gay. O verso una società che disconosce i suoi valori fondanti, come argomentano i «social conservative». Sullo sfondo, rimane l’eterno rovello dottrinale e politico sul ruolo della Corte suprema, plasticamente riassunto nell’opinione dissenziente del leader riconosciuto degli «originalist», il giudice Antonin Scalia, secondo il quale i nove magistrati non avevano alcuna autorità a pronunciarsi sul DOMA e pronto ad accusare Kennedy e i quattro colleghi progressisti di avere «una nozione esaltata del ruolo della Corte nella società americana». Per una volta, tuttavia, anche il combattivo «Nino» Scalia, è apparso molto sulla difensiva. Forse, è un segno dello Zeitgeist.

Corriere 27.6.13
In nome di Dio o della Nazione: il fronte del no giura battaglia
Vescovi, conservatori come McCain, radicali dei Tea Party come la Bachmann si preparano a lanciare la controffensiva
di A. Far.


NEW YORK — «Nessun uomo, neanche un giudice della Corte suprema, può disfare ciò che Dio ha istituito», ha affermato a caldo la congressman del Minnesota e paladina del Tea Party Michele Bachmann, «nella millenaria storia dell’umanità — ha precisato — nessuna società ha mai difeso il matrimonio come qualcosa al di fuori dell’unione tra un uomo e una donna».
La storica decisione della Corte suprema Usa che rende illegale il divieto delle nozze gay non ferma il partito degli irriducibili oppositori, che promettono già battaglia. «Non è ancora detta l’ultima parola», profetizza Brian Brown, capo della National Organization for Marriage, associazione non profit nata 6 anni fa con l’unico obiettivo di far approvare la Proposition 8, la legge del 2008 che, fino alla sentenza della Corte suprema, vietava il matrimonio gay in California. «Siamo pronti ad andare fino al Congresso per ottenere il divieto costituzionale alle nozze omosessuali», giura Brown.
Se gli attivisti gay esultano, il 42% degli americani che secondo l’ultimo sondaggio Pew Research si oppongono alle nozze tra persone dello stesso sesso, piangono. «È un giorno tragico per l’istituzione del matrimonio e per la nostra nazione», ha affermato l’arcivescovo di New York Timothy Dolan, presidente della Conferenza episcopale americana.
Dai vescovi cattolici della Conferenza episcopale statunitense ai fedeli della Chiesa mormone di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni agli evangelici della Southern Baptist Convention, i gruppi religiosi contrari al matrimonio gay non si danno per vinti. A dar retta al New York Times starebbero già organizzando «una controffensiva strategica sulla scia di quella degli antiabortisti», che negli ultimi tempi hanno messo a segno diverse importanti vittorie in numerosi Stati del sud.
Sono sette oggi gli Stati dell’Unione che proibiscono il matrimonio tra omosessuali nel loro statuto. Altri 30 — tra cui Alabama, Arkansas, Georgia, Idaho, Louisiana, Mississippi, North Dakota, Kansas, Tennessee, Texas, e Virginia — hanno inserito il divieto nella loro costituzione. Tra le motivazioni più citate nelle loro vittorie giudiziarie: lo scopo del matrimonio è la procreazione, le nozze gay sono contronatura, nonché dannose per la religione, la società e i figli.
«La legalizzazione dei matrimoni gay finirà per aprire la strada al riconoscimento della poligamia e dell’incesto», punta il dito Stanley Kurtz, giornalista del settimanale conservatore Weekly Standard. «È nell’interesse di ogni bambino crescere con un padre e una madre», gli fa eco un portavoce della Southern Baptist Convention, la più grande e potente congregazione evangelica d’America con ben 16 milioni di adepti.
Tra i più tenaci sostenitori del Doma (Defense Of Marriage Act) vi sono noti politici repubblicani quali l’ex candidato alla presidenza John McCain, che all’indomani dell’abrogazione della legge Don’t ask don’t tell parlò di «un giorno molto triste per l’America». Una posizione condivisa dall’ex frontrunner repubblicano alla Casa Bianca Mitt Romney che si è sempre schierato a fianco del «matrimonio tradizionale soprattutto per la crescita dei figli».
Il guru della destra Rush Limbaugh, durante il suo controverso show radiofonico, ha difeso la definizione del matrimonio come «l’unione tra un uomo e una donna». «Ogni altra crociata — teorizza — è un attacco contro questa sacra istituzione». E se le idee omofobe di Mel Gibson sono note a tutti, pochi ricordano le polemiche provocate da Donna Summer, icona della comunità gay, quando durante un concerto ad Atlantic City nel 1983 affermò che «In origine vi erano Adamo ed Eva, non certo Adamo e Stefano».

La Stampa 27.6.13
Mosca, adesso Stalin prende l’autobus
Si rispolvera l’iconografia classica del «genio di tutti i tempi»
Non solo souvenir o statuette, ma busti in piazza, serial televisivi, libri sul dittatore: dopo un oblio di 50 anni il revival alimentato dal Cremlino
di Anna Zafesova


Nato in Georgia nel 1878, Stalin (all’anagrafe Iosif Vissarionovic Diugašvili) è morto a Mosca il 5 marzo del 1953. L’anniversario è stata l’occasione per un revival del dittatore a lungo rimosso

Il padre dei popoli guarda un po’ accigliato ma fiero, e ne ha delle buone ragioni: un busto di bronzo non lo riceveva in regalo da anni. Per di più inaugurato in pompa magna, non in un villaggetto sperduto, ma nel piazzale di Yakutsk, gelida capitale dei diamanti russi. Un ritorno in grande stile, proprio mentre a Mosca, in un chioschetto di souvenir all’interno della Duma, si scoprivano in vendita statuette del dittatore, piccole a 6 mila rubli (circa 150 euro), grandi addirittura a 30 mila. Busti, santini, manifesti, libri, fiction: nei due mesi intercorsi tra il 60simo anniversario della morte, il 5 marzo, e le celebrazioni per il giorno della Vittoria sul nazismo, il 9 maggio, Stalin ha fatto un ritorno trionfale nella vita dei russi. Non più qualche nostalgico con le bandiere rosse, o bizzarri storici negazionisti, ma una riabilitazione nel mainstream della politica e della cultura. Da faraone onnipresente dal 1924 fino alla morte, a Innominabile della storia per mezzo secolo, dal XX congresso del 1956, l’uomo che sembrava il simbolo del male del 900 è tornato, con il suo famoso passo felpato. A Celiabinsk, negli Urali, circolano minibus con il ritratto di Stalin, a Volgograd – l’ex Stalingrado per la quale ogni anno riparte la campagna per restituirle il nome che portava durante la famosa battaglia – il volto baffuto del dittatore ha riempito pareti e mezzi pubblici. La rete televisiva Ntv ha trasmesso un documentario in sei puntate dal titolo Stalin è con noi, dove ha riproposto la versione più classica dell’iconografia del «genio di tutti i tempi»: grande lettore, fine intellettuale, eccezionale statista e condottiero, che ha portato la Russia «dalla zappa alla bomba atomica» (e a nulla valgono gli sforzi degli storici di ricordare che questa frase attribuita a Churchill non era mai stata pronunciata).
Stalin occhieggia bonario dai teleschermi, in fiction patinate che riportano ai fasti dell’Urss, da Chkalov dedicata al grande pilota a Smersh, che decanta i successi del micidiale controspionaggio sovietico, noto più per aver mandato in Siberia migliaia di soldati colpevoli solo di essere caduti prigionieri dei tedeschi. Il liberale Leonid Gozman ha osato paragonare lo Smersh alle SS, ed è stato apostrofato da un editoriale del popolarissimo Komsomolskaya Pravda che si rammaricava perché i nazisti non avevano «fatto paralumi dagli avi dei liberali». La pesantissima allusione al fatto che Gozman sia ebreo ha scandalizzato solo pochi intellettuali, mentre il partito del potere ne ha approfittato per aggiungere alla già lunga lista di leggi restrittive, che hanno colpito negli ultimi mesi Ong, oppositori e omosessuali, la proposta di punire con tre anni di carcere il «negazionismo sulla Grande guerra patriottica». In altre parole, discuterne le cause, come la spartizione dell’Europa nel patto Molotov-Ribbentrop, o sulle sue conseguenze come l’annessione dell’Europa dell’Est nel campo comunista, può costare la galera.
E qui la riemersione di Stalin passa dall’anedottica all’attualità. Matvey Evseev, il deputato di Russia Unita – il partito putiniano monopolista del parlamento – che ha promosso l’inaugurazione del busto di Stalin a Yakutsk, sostiene che «non possiamo dimenticare la nostra storia, gli attacchi contro Stalin continuano perché è in corso l’aggressione ideologica contro la Russia, Se rinunciamo a Stalin rinunciamo alla nostra grandezza». Il sindaco Aysen Nikolaev, visibilmente imbarazzato, ha promesso simmetricamente un monumento alle vittime delle purghe, in una sorta di tardiva par condicio. Ma la tragedia dei Gulag non è mai stata oggetto di un pentimento nazionale, e contemporaneamente il segretario del Pc Serghei Obukhov può dichiarare che «Stalin è il generalissimo della nostra vittoria», mentre in diverse università e licei arriva il discutissimo manuale di storia che, riducendo la portata dei crimini di Stalin, lo descrive come «un manager efficiente» del potere, in attesa della introduzione di un testo di storia «uniformato» auspicato recentemente da Vladimir Putin, per evitare la «distorsione del nostro passato».
Che la Russia rimanga, come diceva una vecchia battuta, «un Paese dal passato imprevedibile», lo dimostrano anche i sondaggi. Dopo il minimo storico del 12% negli anni ’90, il Levada Zentr in questi giorni ha confermato il dittatore al primo posto, insieme a Leonid Brezhnev, nella classifica dei più grandi personaggi della storia russa. Un risultato che secondo il direttore del centro demoscopico, Lev Gudkov, è indubbiamente legato alla propaganda putiniana. Putin ha respinto le critiche dei liberali: «Non penso che ci siano segni di stalinismo. La nostra società è cambiata e non permetterebbe una tale svolta». Ma, secondo un’inchiesta di un gruppo di giornalisti del sito Ura, la riapparizione di Stalin nell’immaginario russo non può essere addebitata soltanto alla nostalgia per l’ordine dopo decenni di caos post-sovietico. Alcune fonti del Cremlino infatti sostengono che l’ondata di fiction, documentari e libri sia un preciso progetto degli spin doctor putiniani, una «risposta alla protesta di quelli con l’iPho-
ne», ha commentato un anonimo funzionario, riferendosi alla protesta di piazza dell’anno scorso. Putin all’epoca si era riconquistando il terzo mandato scommettendo sui suoi elettori più fedeli: i dipendenti statali, i militari, i pensionati, gli operai delle grandi fabbriche ex sovietiche, la popolazione rurale, insomma, l’elettorato più nostalgico. E così, dopo una notevole esitazione, raccontano le fonti di Ura, avrebbe accettato di farsi cucire addosso il vestito di uno Stalin light, preferendolo ad alternative come Piotr Stolypin e Pietro il Grande. Ma Gudkov avverte anche che non potrà essere una risorsa politica infinita: tra i giovani un terzo non sa nemmeno chi sia Stalin, e un 59% considera la discussione su di lui «totalmente irrilevante».

La Stampa 27.6.13
Gli intellettuali di sinistra gli scrivono
di A. Zaf.


«Abbiamo abitato il tuo socialismo. Abbiamo fatto a pezzi il Paese che avevi costruito. Abbiamo guadagnato milioni con le fabbriche fatte dai tuoi schiavi e dai tuoi scienziati e ci siamo comprati all’estero palazzi come tu non avevi mai avuto. Ti dobbiamo tutto». La Lettera al compagno Stalin dello scrittore Zakhar Prilepin ha fatto esplodere un dibattito che dura ancora, mesi dopo la pubblicazione. Firmato dalla «opinione pubblica liberale», il pamphlet afferma: «Tu hai trasformato la Russia in qualcosa che non era mai stata: il più potente Paese del globo». E i colpevoli del declino sono indicati chiaramente: i «noi» a nome dei quali è scritto il manifesto, confessano che «senza di te i nostri nonni sarebbero finiti nelle camere a gas» e non vogliono ammettere che «tu hai immolato i russi per salvare il nostro seme». In altre parole, gli ebrei, nel classico accostamento «liberali-ebrei».
Un elogio che mostra quanto il problema Stalin sia tutt’altro che chiuso: a firmarlo è un 37enne incoronato come il Gorky o addirittura il Tolstoi del Duemila, autore di romanzi pieni di rabbia (pubblicati in Italia da Voland) e militante dell’estrema sinistra con Limonov. La lettera di Prilepin ha suscitato reazioni furiose, e spaccato l’intellighenzia, che sembrava essersi unita nell’opposizione, di nuovo nei due schieramenti storici: Occidente-Russia, libertà-autoritarismo, individuo-Stato, e, soprattutto, ha riesumato l’antisemitismo d’autore. Lo scrittore si è difeso dicendo che i liberali «in maggioranza sono russi, almeno di sangue» e che il suo manifesto era destinato soprattutto a Vladimir Putin, per ricordargli che «Stalin è il dio della vendetta».

Corriere 27.6.13
Popolazione sempre più in crescita ma i limiti della Terra vanno rispettati
di Fulco Pratesi


Il World Population Prospect per il 2012, rapporto Onu sugli andamenti della popolazione mondiale pubblicato il 13 giugno, raffredda gli ottimismi circa un rallentamento della crescita demografica. Invece dei 10,1 miliardi in arrivo per la fine del secolo del precedente rapporto, nel 2100 si arriverà agli 11 miliardi, pur con l'aleatorietà che previsioni a così lunga distanza possono presentare. La maggior parte dell'aumento si avrà, come previsto, nelle popolazioni in via di sviluppo, che passeranno dai 5,9 miliardi del 2013 agli 8,2 del 2050, mentre quelle delle regioni sviluppate rimarranno abbastanza stabili attorno a 1,3 miliardi. In Africa la popolazione salirà dagli 1,1 miliardi attuali ai 2,5 miliardi nel 2050. In questo continente nel 1950 vivevano 227 milioni di persone, nel 1975, 419 milioni e nel 2009 erano già più di un miliardo.
Nel recente libro di Lester Brown, presidente dell'Earth Policy Institute pubblicato in Italia col titolo 9 miliardi di posti a tavola a cura di Gianfranco Bologna, la veloce crescita demografica, accoppiata a uno sviluppo incontrollato dei consumi, colpisce tutte le basi della vita sulla Terra. Aumenta la richiesta di acqua per usi irrigui e già oggi gran parte delle acque dei grandi fiumi è oggetto di contese tra le nazioni rivierasche; il progressivo inurbamento in molte aree fa aumentare a dismisura le esigenze idriche; nel contempo la distruzione delle foreste per sopperire alla carenza di terre coltivabili e di pascoli per il bestiame (in Africa i capi di bestiame sono passati da 352 milioni nel 1961 agli 894 milioni attuali) aggrava lo stato di erosione e la perdita di suoli fertili con gravi conseguenze sul clima e sulle barriere coralline. Infine i prelievi di risorse ittiche per una popolazione in crescita sia nei numeri sia nelle esigenze alimentari, stanno mettendo a rischio per sovrasfruttamento l'80% delle riserve ittiche oceaniche in tutto il Pianeta. Questa situazione pone l'Umanità di fronte a un grave dilemma: o proseguire imperterriti nel consumo delle risorse e nella crescita demografica o imparare a vivere nei limiti di una sola Terra, l'unica che abbiamo.

l’Unità 27.6.13
L’anniversario
Il «cucciolo» geniale
Tutte le iniziative a cent’anni dalla nascita di Bruno Pontecorvo, fisico e intellettuale
Fu il maggior esperto del neutrino. Non vinse il Nobel esclusivamente per le sue idee politiche
l mondo della scienza celebra non solo lo studioso ma anche la caratura morale di un uomo (e una famiglia) che non si piegò alla dittatura
di Pietro Greco


IL 22 AGOSTO 1913, POCHI SPICCIOLI E FANNO CENT’ANNI, A MARINA DI PISA NASCEVA BRUNO PONTECORVO, IL «CUCCIOLO» CHE HA NAVIGATO IL «SECOLO BREVE» come su una nave in tempesta. Il fisico che ha attraversato la cortina di ferro nel senso oggi ritenuto sbagliato, da Ovest a Est. Forse il maggior esperto al mondo della particella più elusiva che, al momento, si conosca: il neutrino.
Manca meno di un mese al compleanno e sono in preparazione a Pisa, a Roma e a Dubna le meritate celebrazioni di questo scienziato che, a causa delle sue scelte politiche, «non poteva vincere il Nobel». La complessa vicenda umana di questo genio, talvolta ingenuo, nato in una famiglia di geni è stata raccontata da Miriam Mafai in un bel libro, intitolato Il lungo freddo. Ma sarebbe bello – sarebbe giusto non dimenticarsi dello scienziato straordinario. Sarebbe pertanto bello – sarebbe giusto – se, in occasione dei cent’anni dalla nascita, il più importante centro al mondo di fisica dei neutrini, il Laboratorio Nazionale del Gran Sasso, gioiello dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), gli fosse dedicato.
Ma intanto a Pisa sarà degnamente ricordato con una mostra e con un simposio, dal 18 al 20 settembre. E a Roma con un grande convegno internazionale in due giorni, dall’11 al 12 settembre. Il convegno romano sarà aperto da Carlo Bernardini e chiuso da Carlo Rubbia e vedrà la partecipazione di fisici delle alte energie ed esperti di fisica del neutrino provenienti da tutto il mondo. Tra loro il premio Nobel americano Jack Steinberger, il russo Samoil Bilenky, l’inglese Frank Close, il tedesco Till Kirsten, il giapponese Yoichiro Suzuki. Tra gli altri italiani: Luciano Maiani, Ettore Fiorini, Luigi Di Lella, Ugo Amaldi.
A coordinare il tutto sarà Carlo Dionisi, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e docente presso l’università La Sapienza di Roma. È lui a sottolineare i motivi, strettamente scientifici, che ci impongono di rinnovare la memoria di Bruno Pontecorvo. I motivi sono semplici quanto numerosi, spiega. «Bruno Pontecorvo è stato uno scienziato davvero geniale. La sua vita da fisico è stata caratterizzata dalla forza delle sue anticipazioni scientifiche: per primo ha capito l'uguaglianza dei comportamenti dei muoni rispetto agli elettroni aprendo la strada a quella che oggi è indicata come la universalità delle interazioni di Fermi».
Era il 1947. Tre italiani (Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni) avevano condotto un esperimento che è considerato l’atto di nascita della fisica delle particelle: avevano dimostrano che una particella presente nei raggi cosmici, il muone, si comporta come il «fratello più grasso» dell'elettrone. In altri termini, muone ed elettrone appartengono a una medesima famiglia di particelle. Pontecorvo dimostra che la cattura del muone da parte del nucleo atomico, proprio come la cattura dell'elettrone, produce neutrini. E, quindi, che l'interazione debole scoperta da Enrico Fermi ha una validità molto più generale di quello che lo stesso «papa della fisica» aveva ipotizzato.
Inoltre, spiega ancora Dionisi: «il nome di Pontecorvo è indissolubilmente legato alla fisica del neutrino: è lui che ha messo a punto il primo metodo radiochimico per la rivelazione dei neutrini solari; è lui che ha proposto di verificare se il neutrino del decadimento beta, legato all'elettrone fosse diverso da quello legato al muone ottenuto dal decadimento della particella nota come pai carico (neutrino e neutretto)». In pratica Pontecorvo ha dimostrato in via teorica che esistono diversi tipi di neutrino. E, infatti, sulla sua lapide al cimitero degli inglesi di Roma è scritto: «neutrino e diverso da neutrino mu», ovvero il neutrino elettronico è diverso dal neutrino muonico. Jack Steinberger ha vinto il premio Nobel, insieme a Leo Lederman e a Max Schwartz, proprio per aver mostrato per via sperimentale che i due neutrini sono diversi. Infine, ricorda ancora Carlo Dionisi, c’è: «l'anticipazione geniale del fenomeno della oscillazione dei neutrini tra diverse famiglie». Pontecorvo ha ipotizzato che i neutrini hanno capacità trasformistiche, che nessun’altra particella ha: possono trasformarsi l’uno nell’altro. Proprio al Gran Sasso l’esperimento Opera ha di recente dimostrato che, ancora una volta, che Bruno aveva ragione.
Da notare che fra i tre motivi principali che Carlo Dionisi ha indicato per testimoniare la genialità di Pontecorvo non c’è l’esperimento dei neutroni lenti condotto negli anni ’30 dai «ragazzi di via Panisperna» che ha fruttato al loro leader, Enrico fermi, il premio Nobel. Bruno, soprannominato «il cucciolo», era stato uno dei protagonisti di quel esperimento e apparteneva a pieno titolo al gruppo che, tra il 1934 e il 1938, fece di Roma la capitale mondiale della fisica nucleare. Continua Dionisi: «Voglio sottolineare che l’11 e il 12 settembre verranno percorse le tappe che hanno portato Bruno Pontecorvo a risultati scientifici di straordinaria importanza, presentando anche nuovi risultati di una ricerca storico scientifica che il Dipartimento di Fisica di Roma insieme a quello di Pisa ha intrapreso».
Il convegno sarà scientifico. Ma si chiuderà con un tributo alla famiglia Pontecorvo aperta al pubblico con una rappresentazione teatrale, le testimonianze di figli, parenti e amici di Bruno, la proiezione della Battaglia di Algeri del fratello cui Bruno era più legato, Gillo. «Sì, vogliamo sottolinearne l'enorme forza morale di una famiglia che ha saputo affrontare e superare le tragedie rappresentate dal regime nazifascista, dalla guerra e dalla emigrazione forzata. L’originalità e, appunto, la genialità di alcuni suoi membri. Ma anche la forza di coesione che ha mantenuto uniti questi geni nonostante la tempesta che li ha dispersi per il mondo».

l’Unità 27.6.13
Il pensiero politico di Machiavelli
Le conseguenze etiche e l’attualità de «Il Principe» a 500 anni di distanza
di Michele Ciliberto


Va riconsiderata la generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al Novecento
La relazione del professor Ciliberto ieri all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino Un dibattito sulla figura del pensatore fiorentino all’interno del ciclo di incontri «Tra Rinascimento e Riformazione»

MACHIAVELLI ELABORA UN SISTEMA TEORICO COMPATTO INCENTRATO SUL RAPPORTO ORGANICO TRA ANTROPOLOGIA E POLITICA; sul conflitto come principio dinamico, in questo contesto dell’agire politico; sulla funzione della legge; su una visione tragica, in ogni caso, dell’uomo, della natura e anche della politica.
Ho dunque voluto insistere sulla questione dei «limiti» attraverso cui si sviluppa la riflessione di Machiavelli per abbozzarne una interpretazione differente da quella consegnata in genere alle genealogie moderne; ma questo non toglie, ovviamente, che Machiavelli abbia una considerazione massima per la politica come forza e che se essa non si configura come tale è destinata all’insuccesso radicale. Per il Segretario fiorentino si può essere un politico di grande qualità ma essere travolti dagli avversari e dalla storia se non si dispone di una forza, cioè di armi adatte ai propri obiettivi. In questo senso è veramente esemplare la valutazione che Machiavelli da su Girolamo Savonarola, un grande personaggio ai suoi occhi, autore oltre che delle grandi prediche in San Marco anche di un testo fondamentale, ispirato a una polemica violentissima contro il tiranno, come il Trattato sul governo di Firenze.
I giudizi di Machiavelli su Savonarola sono una sorta di radiografia della sua concezione della politica, oltre che del rapporto tra politica e religione. I documenti su cui intendo concentrarmi sono essenzialmente tre: la lettera, famosa, a Ricciardo Becchi, del 1498; il giudizio su Savonarola nel I libro dei Discorsi; la valutazione sulla ragione della sconfitta del frate espressa nel III libro dello stesso testo. Tutte queste posizioni hanno in comune un punto: sono di carattere strettamente politico e riguardano il modo con cui il frate utilizza la sua forza in un momento a lui favorevole e la maniera con cui viene sconfitto in una situazione che invece gli è avversa secondo quella relazione tra virtù e fortuna alla quale si è sopra fatto riferimento. Nel primo caso Machiavelli dimostra come Savonarola utilizzando in modo spregiudicato il testo biblico, e paragonandosi implicitamente a Mosé, cerchi di guadagnarsi il popolo fiorentino quello colto e quello rozzo aizzandoli contro un nemico che sarebbe pronto, nelle sue parole, a farsi loro tiranno, ma mirando solamente a salvaguardare il proprio potere, e facendolo con successo «colorando» le proprie bugie come meglio gli conveniva.
Nel secondo caso si serve di Savonarola per mostrare la potenza della religione come forza – e sottolineo il termine: forza – genuinamente politica. Sarebbe interessante insistere su questo punto ma la stessa insistenza di Machiavelli poche pagine prima sulla figura di Numa come fondatore della potenza di Roma più dello stesso Romolo e proprio per il modo in cui aveva saputo usare la religione, è probabile che fosse stata generata proprio dal’aver visto all’opera Savonarola, concepito qui e sempre, anzitutto come grande politico.
LE QUALITÀ DI SAVONAROLA
Nel terzo caso invece Machiavelli si interroga sulle ragioni della fine di Savonarola pur continuando a riconoscergli, ed è questo l’importante, qualità di grande politico, privo però della forza necessaria per farsi valere. È spietato, ma paradigmatico e perfino didattico il paragone che in queste pagine Machiavelli stabilisce fra Savonarola e Pier Soderini: il primo grande politico privo di forza; il secondo pieno di forza ma incapace di usarla. Paragone che ci consente di scavare ulteriormente nell’argomento perché dimostra, anzi conferma, come per Machiavelli la forza a sé presa, cioè infondata, non sia in grado di conseguire successi se non è animata da una vigorosa azione politica la quale può essere tale solo quando sgorghi da una radice più profonda nella quale si intrecciano elementi civili, culturali ed anche religiosi.
Come è noto queste posizioni di Machiavelli hanno rappresentato nella cultura italiana, variamente articolate, un vero e proprio paradigma: sono state riprese, per fare qualche nome, da Giordano Bruno o da Pietro Giannone mentre sono state invece radicalmente rifiutate da Fra’ Paolo Sarpi che sostiene una concezione della politica, della religione e dei loro rapporto polarmente estranea a quella di Machiavelli.
C’è però un dato, che emerge invece in modo particolare dal rapporto con Bruno e che conferma la estraneità di Machiavelli alle tematiche ermetiche e magiche. Giordano Bruno nello Spaccio della bestia trionfante riprende molti temi di Machiavelli, come ormai è diventato ordinario sottolineare, ma li situa in un contesto in cui la magia ha un valore decisivo. Per Bruno il politico è un cacciatore d’anima, un vincolatore, un sapiente: appunto un mago; e così del resto Bruno interpretava sé stesso. Machiavelli invece espunge ogni considerazione di questo tipo dalla sua analisi della politica, della potenza, che invece è sviluppata secondo criteri rigorosamente naturalistici, di ascendenza sostanzialmente lucreziana.
A differenza di Bruno che pure riprende a larghe mani Lucrezio ma lo complica alla luce di problematiche neoplatoniche e neopitagoriche aprendosi la strada a una concezione della natura in cui la dimensione magica, sia pure concepita in termini naturali, assume valore centrale. Questa differenza non toglie, però anzi conferma la centralità del paradigma machiavelliano nella storia italiana che lo stesso Bruno svolga una concezione della religione in cui gli elementi civili di matrice machiavelliana hanno un valore essenziale.
Alla luce di quanto si è cercato finora di dire si vede come sia complessa la concezione machiavelliana della politica e come essa abbia connotati caratteristici della cultura rinascimentale, come del resto dimostra ampiamente il paradigma biologico-qualitativo che caratterizza la sua concezione del sorgere, dello svolgersi e del finire delle civiltà. Tanto più colpisce come lungo secoli moderni Machiavelli sia stato progressivamente espropriato dei suoi aspetti fondamentali e sia stato decifrato secondo criteri che appartengono al pensiero politico moderno di Bodin, di Hobbes, ma non a quello propriamente rinascimentale.
Per quanto possa apparire paradossale è stato proprio Antonio Gramsci a sottolineare con energia che l’effettivo fondatore della concezione moderna dello stato va individuato in Bodin e nei libri della repubblica, e non in Machiavelli. Osservazione ineccepibile; eppure lungo i secoli moderni la lezione di Machiavelli, confondendosi con l’esperienza della ragione di stato, è venuta diluendosi progressivamente nel machiavellismo con una perdita radicale della sua originalità e novità.
Fenomeni che si sono particolarmente accentuati soprattutto nei momenti di crisi politica e statuale quando la sua lezione è sembrata imporsi con imprevedibile forza ed attualità. Machiavelli non ha però niente in comune con il machiavellismo e neppure con l’ideologia della ragion di Stato. Quello che a noi tocca oggi fare è confrontarsi con la sua opera per quello che essa è stata ed ha voluto essere senza deformare i suoi lineamenti alla luce di vicende che con la sua esperienza umana e intellettuale hanno poco da spartire.
Ma per fare questo, ed è la mia ultima notazione, va riconsiderata la generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al Novecento e che ora va rimessa in discussione fin dalle fondamenta. Simul stabunt, simul cadent.

Corriere 27.6.13
Cantimori e la politica un naufragio in due atti
Fascismo e comunismo, delusioni annunciate
di Luciano Canfora


«Mi pare che se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi nel vasto mondo, non saprei più inserirmi in nessuna corrente sentimentale, ma continuerei a vivere col solo cervello e con la sola volontà, vedendo in tutti gli uomini (anche in quelli che dovrebbero essermi vicini) non degli esseri viventi ma dei problemi da risolvere. Io non voglio pretendere che la ragione di questo mio imbozzolamento sia da ricercare solo fuori di me, il fatto è che da me stesso non so superare questa condizione che in un solo modo, rifugiandomi nel puro dominio dell'intelletto astratto, facendo cioè del mio isolamento la esclusiva forma della mia esistenza. Non ho voluto più oltre tenerti celato questo aspetto della mia vita».
Questo abbozzo di lettera alla moglie, scritto da Antonio Gramsci con tutta probabilità nel novembre 1931 — edito già da Felice Platone su «Rinascita» (aprile 1946) e da ultimo da Gianni Francioni (2007) — può essere accostato alla lettera nella quale Gramsci, scrivendo a Tania, definisce «un grande errore, un dirizzone» l'intera propria vita (27 febbraio 1933). Entrambi i testi gramsciani, che sono palesemente in reciproca correlazione, trovano rispondenza in un altro appunto, inedito e autobiografico: quello di Delio Cantimori, datato 28 marzo 1956, intitolato «I miei grandi sbagli». Lo aveva pubblicato Luisa Mangoni, e ora lo ripubblica Albertina Vittoria nell'introduzione, assai ben fatta, al carteggio tra Cantimori e Gastone Manacorda (Amici per la storia, Carocci). In tale appunto, si affollano autocritiche di carattere privato e di carattere politico. Qui premono queste ultime, indicanti appunto i «grandi sbagli» che Cantimori si rimprovera: «1. Credere di capire qualcosa di politica»; «4. Saltare tra i comunisti. 5. Iscrivermi al Pci. 6. Lasciare i miei studi per tradurre Marx». E come rimedio indica: «Per il resto ritirarsi nei propri studi. L'unico rimedio».
L'abbozzo di Gramsci del novembre '31, vergato alla c. 23r-v del cosiddetto Quaderno B, rimase fuori dalla stesura definitiva della lettera cui inizialmente apparteneva (30 novembre 1931 a Giulia, Lettere dal carcere, edizione Fubini-Caprioglio, pp. 532-533). Pur avendo scritto «non ho voluto più oltre tenerti celato questo aspetto della mia vita», alla fine Gramsci decise di non scrivere a Giulia quelle parole pesantissime. Pesantissime anche sul piano politico, in quanto dichiarano comunque chiusa la sua vicenda politica, pur nell'eventualità che «dovessi ora uscire di carcere». Sarebbe un puerile autoinganno non leggere in termini politici la frase «non saprei più inserirmi in nessuna corrente sentimentale». (Libero, beninteso, chi lo vuole, di pensare che con quelle parole Gramsci si dichiarasse incerto se aderire, una volta fuori del carcere, al romanticismo alla Berchet o allo stilnovismo o alla scuola siciliana di Cielo d'Alcamo).
La politica intesa come culmine dell'azione morale (non come mestiere più o meno estemporaneo o, peggio, lucrativo) è esperienza totalizzante, coinvolge tutti gli aspetti dell'esistenza. Ciò si verifica tanto più quando si tratti di una politica sorretta da idee e concezioni grandi e impegnative: quelle che taluni da ultimo chiamano, con sussiegosa ignoranza, «le ideologie». In tali scelte, specie se attuate in momenti storici quali quelli vissuti da Gramsci (prima del carcere) e da Cantimori (dopo la Liberazione), si investono e si bruciano tutte le energie di un individuo, intellettuali e pratiche. È quasi immancabile la delusione soggettiva; e merita rispetto. Essa nasce dalla constatazione di non aver potuto comprendere appieno le ragioni profonde delle vicende pur così intensamente vissute e la vera natura delle forze agenti nei conflitti, nei quali ci si è tuffati a capofitto, seguendo un archetipo che fu già alla base del primo proselitismo cristiano («Lascia tutto e seguimi!»). Sono soprattutto i militanti dotati di grandi risorse intellettuali che alla fine non reggono; e solo alcuni di essi serbano in sé la convinzione che, pur non potendo andare le cose diversamente da come sono andate, ne valeva la pena. «Rifugiarsi nel puro dominio dell'intelletto astratto, facendo del mio isolamento la esclusiva forma della mia esistenza» è l'approdo di Gramsci nel novembre 1931. E non ridiremo qui le tempeste e le brucianti delusioni, provenienti dalla propria parte, che lo avevano indotto a tale dichiarazione programmatica. «Ritirarsi nei propri studi. L'unico rimedio» è l'approdo di Cantimori alla fine di marzo del 1956.
Chi — come Cantimori — aveva scelto il comunismo lasciandosi alle spalle l'esperienza, a lungo coltivata, di «fascista di sinistra di matrice mazziniana» (come il fantomatico signor Cappa della mirabile e autobiografica introduzione cantimoriana al primo tomo del Mussolini di Renzo De Felice); chi — come lui — passava al comunismo sul finire della guerra mondiale, cioè nel momento di massima identificazione del comunismo in Stalin; chi dunque «saltava tra i comunisti», come Cantimori si esprime in quel prezioso appunto, prendendo tardive distanze dalla rivoluzione «sbagliata» (quella fascista e anche quella nazionalsocialista) non poteva non rimanere travolto da quel terremoto, mai risarcito, del comunismo mondiale che fu il XX Congresso del Pcus, culminato nella demolizione — storiograficamente frettolosa, ma politicamente incalzante — della figura e dell'opera di Stalin (inclusa la gestione sua della «grande guerra patriottica»). Uno storicista integrale come Togliatti poté, non senza scricchiolii, reggere il colpo; un ex «fascista di sinistra» molto meno: soprattutto nella convinzione, facile da prodursi in quella circostanza, di aver commesso per la seconda volta lo stesso errore politico.
Il XX Congresso era già stato, nelle sue sedute pubbliche (febbraio 1956), una prova sconcertante (istruttivo il Diario del XX Congresso di Vittorio Vidali, Vangelista Editore, 1974), specie quel misterioso martellamento contro gli «errori» di «una certa personalità» (cioè Stalin, innominato). Ma il rapporto «segreto», nella sua sommaria e talora maldestra foga iconoclastica, era molto di più: scardinava fedi e certezze consolidate, fedi e certezze per le quali milioni di uomini erano andati incontro alla morte inneggiando a Stalin. La prima notizia del «rapporto segreto» la diede Harrison Salisbury sul «New York Times» il 16 marzo 1956; il suo articolo fu tradotto in Italia quasi immediatamente da «Relazioni internazionali» (autorevole settimanale dell'Ispi di Milano) in edicola il 24 marzo; e la sostanza del rapporto la diffuse poco dopo il quotidiano dei comunisti jugoslavi «Borba» a Belgrado, ripreso in tutto il mondo. L'appunto di Cantimori è del 28 marzo.
Cantimori aveva svolto un ruolo direttivo nella politica culturale ed editoriale del Pci nel decennio 1945-55. In quegli anni, disse Gastone Manacorda in un importante convegno su Cantimori svoltosi nella natia Russi nel 1978, i «classici del marxismo» da pubblicare, studiare e diffondere erano quattro: Marx, Engels, Lenin e Stalin. E tale era il convincimento di Cantimori (e dello stesso Manacorda, a quel tempo). Il tracollo di tutto ciò, implicito — per chi avesse la sensibilità di non autoingannarsi — nel «rapporto segreto», era troppo forte perché una scelta di vita non ne venisse messa in crisi in radice. È quello che accadde allora a Cantimori e che determinò le sue scelte intellettuali e pratiche successive, fino alla morte precoce nel 1966. Del che dà conto questo importante carteggio egregiamente curato da Albertina Vittoria, una delle migliori nostre studiose di quell'importante capitolo della storia culturale d'Italia che fu la politica culturale del Pci.

Repubblica 27.6.13
La fine delle Lettere
Addio agli studi classici
di Maria Novella De Luca


Le facoltà umanistiche non hanno più appeal: immatricolazioni al minimo e cattedre ridotte all’osso. Non solo in Italia. Anche ad Harvard le aule si svuotano
Dagli Stati Uniti alla Francia, dall’Inghilterra all’Italia è in corso un esodo di massa.
La paura di non trovare lavoro spinge verso ambiti tecnici.
Negli ultimi dieci anni gli iscritti alle facoltà umanistiche sono diminuiti del 27 per cento.
E ora è emergenza

Più che una fuga, un esodo di massa. Anzi di generazione. Addio facoltà umanistiche, non servite più, i giovani disertano le aule di Storia, di Filosofia, di Lettere, per non parlare di Sociologia. Accade negli Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra, ma da noi, forse, è anche peggio. Immatricolazioni al minimo e cattedre ridotte all’osso: nella grande disaffezione italiana all’università, figlia dello sconforto e dello scoraggiamento, le facoltà umanistiche vivono la crisi più dura. In 10 anni gli studenti delle “aree umane” sono diminuiti del 26,8%, un abbandono diffuso e capillare, battuto di poco soltanto dalle materie di “area sociale”, dove l’emorragia nel 2013 è stata del 28,7%, nel 2003 gli iscritti erano 135mila, quest’anno soltanto 96mila. Cosa stiamo perdendo? Le nostre radici, il senso dell’esistere, l’identità, la storia, il ragionamento? Adesso sono le grandi università americane a dire che così non va, ad appellarsi agli studenti perché riscoprano i saperi classici.
Ementre in Italia l’unica voce è il silenzio, in Francia è stato lo stesso Hollande a lanciare un progetto governativo, perché i giovani riscoprano quelle facoltà, dalla storia dell’arte all’antropologia, dalla letteratura alle scienze sociali, abbandonate e considerate fabbriche di disoccupati.
Alberto Asor Rosa, critico famoso, ha a lungo insegnato Letteratura italiana all’università La Sapienza di Roma. Dice con amarezza: «Le facoltà umanistiche sono state lasciate in un tragico abbandono dai governi competenti, nel 2003 gli ordinari di Letteratura italiana alla Sapienza erano 12, oggi sono rimasti in due. Come si fa ad appassionare gli studenti verso questi corsi di studio se il messaggio che passa è che si tratta di studi residuali, di un mondo che non c’è più, sui quali non vale la pena di investire?». E la cronaca attuale, aggiunge Asor Rosa, non è altro che la conferma di questo (tragico) scenario. «Se il ministro dei Beni culturali ritiene che i direttori dei musei debbano ruotare ogni treanni, come professionisti di terz’ordine, perché ci stupiamo se i giovani disertano la storia dell’arte ridotta a puro fenomeno merceologico?». La paura di non trovare lavoro spinge verso ambiti tecnici, sanitari, o magari porta a non iscriversi proprio all’università, come sta progressivamente accadendo nel nostro paese, dove dal 2004 le immatricolazioni sono diminuite del 20,6%, all’appello mancano 70mila ragazzi, e non è un buon segnale. Ma oggi sono quelle aule vuote nelle aree umanistiche che cominciano a fare paura. Come se all’improvviso, dopo anni di messaggi contrari, ci fosse la consapevolezza che abbandonare all’oblio la storia dell’uomo, può minare le fondamenta di una società. Ed è quello che da tempo sostiene Martha Nussbaum, filosofa americana e studiosa di civiltà antiche, nel suo ultimo libro: “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”. Dove rilancia con forza l’idea di una formazione degli studenti non puramente “utilitaristica”, ma anche “disinteressata”.
Andrea Lenzi, ordinario di Endocrinologia, è presidente del Cun, il Consiglio universitario nazionale, che nel febbraio scorso con un drammatico documento sulle “emergenze” degli atenei, ha fotografato l’esodo italiano dall’università. «Che l’Italia abbandoni il suo primato nell’insegnamento delle Scienze umane è uno spreco immane. Un paradosso — spiega Lenzi — visto che siamo la culla del mondo antico. Se continua così avremo domani il problema di chi sa leggere un testo latino, o dirigere un archivio o un museo». E ci sono centinaia di manager laureati in filosofia, in psicologia o lettere moderne, aggiunge Lenzi, per cui la crisi delle facoltà umanistiche arriva da due fronti: uno globale, la mancanza di risorse, l’altro di “sistema”. «Bisognerebbe insegnare ai giovani che si possono fare start up o spin off, insomma si può fare impresa anche partendo da una laurea in Storia o in Antropologia culturale. E che i saperi umanistici e scientifici, lo dico da medico, non si escludono, anzi».
Forse. Ma è lo spettro delle lauree parcheggio a terrorizzare le famiglie con figli diciottenni, freschi di maturità. Fino a sacrificarne passioni e desideri. E non soltanto per le “aree umanistiche”. Sono anche “aree sociali”, la gloriosa Sociologia italiana, ad essere attaccate dalla desertificazione degli studenti, con un calo di immatricolazioni del 28,7% superiore a quello delle facoltà umanistiche.
Un processo ineluttabile, almeno per ora, profetizza il decano di tutti i sociologi italiani, Franco Ferrarotti, classe 1926. «Il pensiero tecnico sta vincendo sul pensiero introspettivo e involontario, sarà così per i prossimi 10 anni, fino a che durerà questa crisi. Ma a medio termine, e già se ne vedono i segnali, tornerà l’esigenza di un sapere globale accanto al sapere concreto, che invecchia e diventa obsoleto in fretta. E perdere il rapporto con le origini e la Storia è addirittura pericoloso per la democrazia, ma c’è bisogno di leggere Pericle per poter difendere tutto questo».
Non solo. Per Franco Ferrarotti anche la stessa Sociologia, oggi intesa in senso riduttivo e troppo “economico”, deve riscoprire, per sopravvivere, le proprie radici filosofiche. «Il direttore di una multinazionale con sedi in tutto il mondo, deve conoscere l’antropologia culturale e le origini dei paesi che compongono l’azienda in cui lavora. Altrimenti sarà un cattivo manager. E non basta sapere, soltanto,l’inglese». E si ricollega al pensiero di Marta Nussbaum, anche Andrea Cammelli, professore di Statistica a Bologna, ma soprattutto fondatore di “Almalaurea”, la più grande bancadati sull’università italiana. «Non solo abbiamo perso il primato nelle facoltà umanistiche, ma oggi, in quest’area, i laureati americani sono il 28%, i tedeschi il 31%, e gli italiani soltanto il 22,3%. Si è troppo insistito in questi anni sull’inutilità di certe lauree, con il terrore della disoccupazione. Ma oggi — dice Cammelli — ciò che si vede dai dati, è che vince chi l’università la fa bene, seriamente, qualunque facoltà scelga. Anzi le facoltà umanistiche preparano a quel long life learning,quell’imparare per tutta la vita, che caratterizzerà le professioni del futuro. E dell’umanesimo c’è bisogno, proprio per salvare le democrazie occidentali».
In realtà ciò che preoccupa è la disaffezione verso gli studi. Un rovinoso salto all’indietro, ammonisce Cammelli. «Dietro l’esodo dall’università ci sono i figli delle famiglie più povere, basti pensare che nel nostro paese il 75% dei giovani che conseguono una triennale, sono i primi a portare una laurea in famiglia». E Cammelli conclude con un ricordo. «Carlo Azeglio Ciampi era laureato in Lettere ed è stato presidente della Banca d’Italia». C’è dunque allora un sapere globale che supera, sembra, i corsi di laurea.

Repubblica 27.6.13
E persino ad Harvard sparisce la Storia
di Massimo Vincenzi


Prima i numeri, che pur parlando di studi classici, hanno (purtroppo) il loro peso. Nel 2012 ad Harvard solo il 20% degli studenti ha preso una laurea in materie umanistiche: rispetto al 1954 il calo è del 36%. La media nazionale segna un meno 7,6%. Il
i calcoli variano a seconda dei parametri, sostiene che la flessione è ancora più forte, dal 1966 si sono persi per strada quasi la metà degli iscritti. E poi ancora, in ordine sparso (che non ha il pregio della scienza statistica ma rende l’idea): al Pomona College l’anno scorso gli amanti delle lettere erano 16 su 1.560, una goccia nel mare. Nel 1991 a Yale erano 165, oggi 62, nella stessa facoltà inglese e storia in quel periodo guidavano la classifica degli indirizzi più richiesti, ora devono lasciare il passo a matematica ed economia. Un rogo di libri classici, un falò alimentato dalla benzina della crisi, destinato a mangiarsi sempre più pagine.
Tanto che adesso il problema arriva al Congresso degli Stati Uniti. Dopo due anni di ricerche, una commissione dell’American Academy of Arts and Sciences, formata da 54 membri tra docenti, scrittori, intellettuali, manager, ha prodotto un lungo documento per mettere sotto pressione i politici: “Servono provvedimenti e servono in fretta prima che sia troppo tardi”. Il titolo è chiaro The heart of the matter, il cuore del problema. La tesi lo è altrettanto: “Sarebbe un errore fatale per la nostra nazione pensare che gli studi umanistici sono un lusso che non ci possiamo più permettere”.
Ed è questo il cuore del problema, quello che non si può cambiare a colpidi legge perché è il frutto di una (contro) rivoluzione culturale, che in tempi di difficoltà economiche diventa ancora più evidente. Salgono le spese per l’università, servono dai 40mila ai 70mila dollari, diminuiscono borse di studio e finanziamenti statali. I dati sull’occupazione giovanile sono cupi, anche se molto migliori di quelli europei. In America, indovinare la laurea è ancora sinonimo di maggiori possibilità di trovare un buon lavoro. Da qui la pressione dei genitori sui figli. Statistiche alla mano, è più facile guadagnarsi uno stipendio buono con una laurea in medicina o in legge che filosofeggiando. «Ma si sbagliano», dice al New York Times Richard H. Brodhead, preside della Duke University, che ha co-guidato la commissione. «Si sbagliano e di molto. Non tengono conto che moltissime delle persone che guidano il Paese, sia in politica che nella finanza, hanno alla base una solida preparazione umanistica. A partire dal presidente Obama. Questo tipo di formazione permette di allenare il cervello alla creatività, e mai come in questo periodo ce ne sarebbe bisogno». Qualche giorno fa parlando ai laureandi della Bradey’s University l’intellettuale Leon Wieseltier ha quasi gridato dal palco: «Non c’è mai stato un momento così basso nella storia degli Stati Uniti per gli studi classici e non c’è mai stato un momento in cui sarebbero così necessari».
Ma è difficile risalire la corrente. L’anno scorso il governatore della Florida, Rick Scott propone ai college del suo Stato di alzare le tasse per gli indirizzi umanistici, da antropologia a inglese. L’accusa è palese: «Non portano lavoro e dunque se uno vuole scegliere quel percorso deve pagare di più chi gli fornisce il servizio, ovvero la comunità ». La polemica diventa nazionale lui fa marcia indietro, ma intervistato in questi giorni dalMiami Herald ribadisce il suo pensiero.
La relazione prova a sfatare il tabù: “Trovare lavoro è ovvio la prima missione di una buona università, ma è proprio questo quello che fanno gli studi classici. Offrono una completezza di analisi, che altrimenti scompare”, dice Eduardo J. Padrón del Miami-Dade College, un istituto dove la maggioranza degli iscritti viene dalle classi sociali più povere e dove il calo è ancora più marcato. Oltre alle belle teorie, che in un editoriale ilWashington Post definisce: “Utopie”,i professori provano a chiedere aiuto a quelli abituati a ragionare in dollari. John W. Rowe è stato presidente della società energetica Exelon, anche lui è tra i saggi e nella sua analisi il pragmatismo è la parola d’ordine. Un grafico nel report mette in evidenza un sondaggio dove si vede che il 51% dei manager considera l’educazione classica “molto importante”, quando deve scegliere un candidato per una postazione di prestigio. E il 74% di loro spinge i propri figli su questa strada.
Ma il declino non è frutto solo dei tempi cattivi. Le colpe sono anche delle università, che non sono più in grado di attirare come in passato i ragazzi. David Brooks è uno degli editorialisti più famosi del New York Times, scrittore, anche lui è tra i saggi, ma ha qualche dubbio in più rispetto ai colleghi: «È vero, il mercato del lavoro sempre più spietato ha messo all’angolo queste materie. Ma una nuova generazione di professori ha perso la capacità di affascinare con le loro materie. Per non dar fastidio a nessuno, si sono buttati sulla politica, tralasciando la morale e l’etica privata, che è più scomoda, richiede più fatica e un lavoro più profondo. E così il loro insegnamento ha smarrito il fascino che aveva invece negli anni Sessanta e Settanta».
Sotto accusa anche il sistema dei test, che omologa il pensiero. «I miei alunni sono in grado di superare con buoni risultati i vari esami, ma appena tento di fare connessioni un po’ più originali si smarriscono», osserva Verlyn Klinkeborg che insegna ad Harvard e Yale.
Sulle panchine di Washington Square i ragazzi della New York University leggono i libri al sole, le cuffie dell’i-Phone alle orecchie. Basta poco ad accendere la discussione. John, viene dal New Jersey, fa economia perché «già passerò molti anni a pagare i miei debiti scolastici, ci manca solo che finisco in qualche biblioteca sottopagato». Vicino a lui Kate, che è di New York canticchia tra le risate degli amici: «Che cosa fate con un laurea in inglese? Cosa ne sarà della mia vita? Quattro anni di college e un sacco di conoscenze, ecco cosa mi ha portato questa inutile laurea. Con quello che ho imparato non posso ancora pagare le bollette: non ho le competenze e là fuori c’è un mondo pauroso». Non è una rapper poetessa, quella che recita è una delle canzoni più famose di Avenue Q, il musical cult, che racconta le difficoltà di diventare adulti. La sfida è convincere John, Kate e gli altri che persino la filosofia può servire a pagare le bollette.

Repubblica 27.6.13
Al British la mostra vietata ai minori
L’arte erotica giapponese aprirà a Londra solo per i maggiori di 16 anni
di Enrico Franceschini


LONDRA Ci sono i film vietati ai minori, i videogiochi vietati ai minori, gli spettacoli, più o meno hard, vietati ai minori. E ai minori sono vietati, perlomeno in certi paesi, gli alcolici e il tabacco. Ma è forse la prima volta che una mostra viene espressamente proibita a chi non ha una certa età: chi ha meno di 16 anni non potrà entrare da solo all’esibizione di Shunga, una forma artistica giapponese traducibile come un eufemismo per “immagini di primavera”, le cui opere ritraggono cortigiane, concubine, geishe giapponesi, in tutte le posizioni e in tutte le situazioni. Il British Museum, che la ospiterà in ottobre nell’ambito di un più ampio programma sulla storia della sessualità umana, ha deciso di imporre la restrizione per non generare scandalo tra il pubblico che visiterà l’allestimento, in particolare per chi ha figli: l’ingresso sarà consentito ai minori di 16 anni solo se accompagnati da un adulto. E i genitori che si presenteranno alla porta con bambini al di sotto dei 14 anni sa-ranno avvertiti che la mostra contiene materiale “insolitamente esplicito” di natura sessuale. Ma ha senso, una preoccupazione simile, nell’era del porno che dilaga sul web, delle vallette seminude in tivù, della pubblicità sempre più a sfondo erotico?
Il Times di Londra ha anticipato ieri un paio delle immagini in questione. Come Tako to ama, dell’artista giapponese Hokusai, che ritrae una donna sottoposta all’attenzione erotica di un paio di piovre. O Courtesans of the Tamaya House, di Utagawa Toyoharu, che illustra i preparativi di un gruppo di geishe in una casa di piacere. «È una scuola per concubine», spiega il direttore del British, Neil MacGregor. «Si possono vedere tutte le qualità di cui deve essere dotata una cortigiana. È certamente un quadro che i bambini dovrebbero vedere accompagnati da un grande». L’intento del divieto, tuttavia, non è ripristinare un moralismo vittoriano, bensì evitare sorprese e proteste tra i visitatori. Lo stesso direttore del museo difende l’arte erotica: «È una delle forme artistiche primordiali più diffuse, insieme alla religione, non è giusto ignorarla, per questo faremo una serie di esibizioni su questo tema». Ma proprio per questo il British non vuole polemiche e mette in guardia il pubblico.
Non è la prima volta che questa venerabile istituzione della cultura affronta temi scabrosi: la mostra su Pompei, che sta riscuotendo grande successo (è avviata a diventare la terza più visitata nella storia del museo, dopo quelle su Tutankhamon e sui guerrieri di terracotta cinesi), includeva una statua di un dio dell’antica Roma che faceva sesso con una capra. E in passato c’erano state preoccupazioni analoghe per un vaso che raffigurava un amore omosessuale. «Non abbiamo mai avuto lamentele», sottolinea MacGregor, ma il British si limitò in quelle occasioni a dare delle raccomandazioni e dei moniti alla gente: questa è la prima volta, invece, che ha scelto di impartire un divieto vero e proprio. La storia dell’arte, naturalmente, abbonda di casi in cui un dipinto o una scultura apparivano scioccanti, per i contemporanei o anche nei secoli a venire, come nel caso delle foglie d’edera messe sulle parti sessuali delle statue di eroi greci e romani. «Mettere il sesso in mostra è importante », conclude il direttore del British. Ma un 15enne, secondo lui, non può vederlo dentro un museo senza mamma e papà, anche se ne è bombardato su Internet, in tivù, per la strada.