venerdì 28 giugno 2013

il Fatto 28.6.13
Scandali vaticani
Preti pedofili, le trame in vista del dopo-Bertone
di Valeria Pacelli


Ci sono intrecci di potere e il districarsi di lotte interne dietro la vicenda che da settimane scuote il Vaticano. Quella rivelata da don Patrizio Poggi che l’8 marzo scorso ha denunciato un giro di prostituzione minorile di cui avrebbe approfittato anche qualche monsignore. Per capire cosa si nasconde dietro la volontà di un parroco, con gravi precedenti, di consegnare segreti del genere alla giustizia, è interessante capire il profilo di alcuni personaggi. In primis monsignor Luca Lorusso, che ha accompagnato don Poggi a sporgere denuncia davanti agli agenti del Noe e ne ha assicurato la serietà. Monsignor Lorusso ricopre una carica prestigiosa, e secondo fonti vaticane, anche in odor di nomina: potrebbe diventare in questi mesi nunzio apostolico. Per adesso è consigliere del nunzio apostolico Adriano Bernardini, che a sua volta è tra i papabili per la successione alla segreteria di Stato, tenuta od oggi da Tarcisio Bertone. Adriano Bernardini è un uomo vicino a papa Bergoglio, in quanto è stato nunzio in Argentina dal 2003 al 2011, anno in cui è tornato a Roma per rappresentare la Santa Sede in Italia e San Marino.
MONSIGNOR Luca Lorusso però è anche un personaggio non estraneo ad alcune decisioni importanti prese nella Chiesa cattolica. Risulta essere, ad esempio, il destinatario di una lettera, datata 31 ottobre 2011 e pubblicata dal Fatto, in cui Angelo Scola suggeriva il suo successore a Venezia. Scola scrive a Lorusso, che gli aveva chiesto di indicare un nome per la sua vecchia diocesi. Il consigliere però è anche l’avvocato che difende nel processo canonico don Patrizio Poggi, condannato nel 2002, a cinque anni di reclusione per violenze sessuali su minori. Don Poggi dopo la condanna è stato sospeso “a divinis” con provvedimento canonico del 13 gennaio 2010. Poi, dopo aver fatto appello, viene “perdonato” da Benedetto XVI. Papa Ratzinger infatti aveva accolto il ricorso presentato dal prete contro il provvedimento che lo sospendeva e gli aveva accordato la “Restitutio ad integrum”, ossia la possibilità di tornare a esercitare. Per l’esecuzione della decisione papale, però, aveva rinviato alla Congregazione per la Dottrina della Fede, dove è ancora in corso il processo. E per capire bene queste vicende si potrebbe analizzare anche un ulteriore elemento: il susseguirsi degli eventi. L’11 febbraio, papa Ratzinger dà la notizia delle sue dimissioni. Una decisione che arriva in un momento storico in cui la chiesa cattolica è tormentata dalla diffusione della corrispondenza segreta del papa, come il documento confidenziale pubblicato da Il Fatto che annunciava la sua morte entro 12 mesi, o anche il carteggio pubblicato nel libro di Gianluigi Nuzzi. Don Poggi, consigliato probabilmente da chi gli è vicino, decide di sporgere la sua denuncia in un momento di dissoluzione del papato. Dopo l’8 marzo gli eventi si susseguono rapidamente. Cinque giorni dopo, su piazza San Pietro, si affaccia Bergoglio, da quel momento papa Francesco. Ancora tre mesi e il 12 giugno, il nuovo papa annuncia, per la prima volta, l’esistenza di una lobby gay in Vaticano.
ALTRETTANTO strana in questa storia sembra essere la reazione della Chiesa. Il portavoce del Vaticano, padre Federico Lombardi, non ha diffuso alcuna nota di commento alla denuncia di don Poggi. Raggiunto ieri telefonicamente ha continuato a non voler commentare e ha affidato l’unica posizione presa dalla chiesa sulla faccenda alle dichiarazioni fatte due giorni fa dal cardinale vicario Agostino Vallini. Il Cardinale ha preso le distanze da chi fa la denuncia e ha parlato di “disinformazione calunniosa”, e ha espresso “profonda amarezza per la diffusione di simili notizie calunniose che sparano nel mucchio in materia generalizzata senza distinguere tra chi ha sbagliato, chi deve pagare e chi è calunniato”.
E il cardinale Vallini infine si domanda: “A chi giova creare un nuovo caso scandalistico e infangare le persone e il ministero di sacerdoti? È questo il modo di fare informazione? È un modo per screditare la Chiesa e i suoi ministri. Ognuno darà conto a Dio del suo operato”.

il Fatto 28.6.13
Napolitano incontra B. ma è tutto sulla fiducia
di Paolo Ojetti


Nessuno saprà mai – e se anche qualcuno lo sapesse, verrebbe smentito a raffica – se l’ordine è partito dal Quirinale. Oppure (meno probabile) da Palazzo Grazioli. Oppure se c’è stata una indipendente congiura mediatica di giornalisti televisivi esperti in censura chirurgica. Fatto sta che dell’incontro fra il condannato Silvio Berlusconi e il rieletto Napolitano non esiste nemmeno un’immagine, nemmeno un fotogramma, nemmeno una mini sequenza, nemmeno un’istantanea. Nulla sulle televisioni, pubbliche-private-locali, nulla su Youtube. È tutto sulla fiducia. Solo il servizio di Gaia Tortora su La7 ha fatto uno scoop: ha inquadrato la nuova Audi del Cavaliere (vetri neri, forse vuota), che entrava al Quirinale, seguita dal solito furgone blindato, con a bordo una brigata di guardaspalle e fucilieri. Il Tg5 non aveva nemmeno quella e ha riproposto l’Audi vecchia, circondata da passanti e poliziotti con il cappottone, tripla sciarpa e bonnet di lana siberiana, dunque una salita al Colle del-l’inverno scorso. Poi ha aggravato la truffa riciclando uno struscio fra Napolitano e Berlusconi del 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Stessa vecchia Audi per il Tg1, con Simona Sala tutta in tiro: “L’incontro è servito a spazzare le nubi dopo la sentenza di Milano”.
SPAZZARE LE NUBI: ecco, al Colle si rappresentava Mary Poppins nel ballo degli spazzacamini. In compenso, si sono sprecate le riprese delle strette di mano fra Napolitano e Letta, Napolitano e Alfano, Napolitano e Cancellieri, Napolitano e Giovannini, Napolitano e Moavero, Napolitano e Saccomanni, Napolitano e un corazziere impalato. Certo, sarebbe stato imbarazzante immortalare una vigorosa stretta fra la mano di Napolitano e quella del pregiudicato Berlusconi, ancora sudaticcia dopo “la sentenza di Milano” su concussione per costrizione e prostituzione minorile, un reato che per tutti – cavalieri soprattutto – viene ritenuto davvero infamante. Anche se – il Tg2 in particolare ha enfatizzato – la parola d’ordine del giorno puntava a trasformare il Cavaliere in un personaggio eroico: “Ha avuto il coraggio di tenere distinta la sua vicenda giudiziaria dalla sorte del governo”. Di questo passo, la fragile opinione pubblica sarà stata convinta (sempre che la Santanchè smetta con gli “stili di vita”) che esistono due Berlusconi: quello buono, il politico e l’altro, il torbido utilizzatore finale di minorenni. Poiché è certo che i due non si frequentano e nemmeno si conoscono.

Corriere 28.6.13
Il fuoco concentrico e le metamorfosi del centrodestra
di Massimo Franco


Non si può dire che Enrico Letta sia stato aiutato dal Pdl al suo arrivo al vertice di Bruxelles. Le tensioni che ruotano intorno ai processi di Silvio Berlusconi e il conflitto che si riaffaccia sulla futura leadership e sul ritorno a Forza Italia sono stati scaricati rapidamente sul premier e sul governo. Così, mentre il presidente del Consiglio alzava ottimisticamente il pollice, augurandosi un esito positivo, da Roma arrivavano segnali diversi. Il capogruppo berlusconiano alla Camera, Renato Brunetta, tacciava il governo di «inadeguatezza». E sulla prima pagina del «Financial Times» campeggiava una sua dichiarazione devastante su una presunta opacità dei conti pubblici italiani.
Non ci sono rischi di crisi. E il Cavaliere è il primo a ribadirlo. L’ombra di precarietà e divisione che si proietta a intermittenza sulla maggioranza, però, è preoccupante. Il sospetto che il Pdl sia tentato di trattare l’attuale coalizione come fece col governo tecnico di Mario Monti alla fine del 2012, togliendogli la fiducia, esiste. Basta mettere in fila gli attacchi di un centrodestra «di governo e di opposizione contro Letta; ma implicitamente anche contro il vicepremier e ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Per paradosso, oggi il meno disposto a far saltare questi equilibri sembra lo stesso Berlusconi, convinto che il dopo-Letta gli sia più ostile.
Ma le pressioni dall’interno del Pdl crescono. L’annuncio di una resurrezione di Forza Italia, il «marchio» del 1994, confermato ieri da Daniela Santanchè, prefigura un ritorno all’antico che sa di nostalgia e di tentativo di rivincita; e segna il fallimento dell’operazione Pdl. Bisognerà vedere che cosa significa non solo in termini di classe dirigente ma di linea politica. L’aggressività nei confronti di Palazzo Chigi comporta in prospettiva un pericolo concreto di destabilizzazione. L’operazione incrocia infatti l’ostilità dei non governativi nei confronti di Alfano, considerato troppo moderato per le esigenze di autodifesa del Cavaliere.
L’esaltazione di una successione dinastica va letta più come attacco al vicepremier e segretario del Pdl, che come investitura della figlia Marina nelle vesti erede politica di Berlusconi. E il martellamento su Letta affinché «batta i pugni» a Bruxelles e sfondi i parametri finanziari imposti dalle istituzioni europee, promette altri attacchi se il premier dovesse tornare dal vertice senza risultati vistosi: eventualità più che possibile, vista la crisi economica nel Vecchio Continente. «Quando ho invitato il premier a fare un braccio di ferro con la signora Merkel per correggere le storture più evidenti della politica europea e della moneta unica», assicura Berlusconi, «non intendevo sminuire il ruolo del nostro capo del governo, ma rafforzarlo».
Tesi opinabile, anche perché viene accreditata nel giorno in cui il suo partito decide di forzare la mano sulla riforma della giustizia, inserendola a forza tra le riforme costituzionali: un contraccolpo dei processi. Oltre tutto, i malumori si saldano con quelli di una parte della sinistra, incalzata dai militanti che soffrono ancora di più l’alleanza tra Pd e Berlusconi dopo l’ultima condanna del tribunale di Milano; e da un Beppe Grillo che attacca il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, perfino per il solo fatto di avere ricevuto in udienza l’altro ieri l’ex premier: un incontro organizzato per capire le intenzioni berlusconiane nei confronti di Palazzo Chigi; e per verificare se fosse vera l’irritazione del fondatore del Pdl, che si era sentito non difeso a sufficienza. Si va avanti, ma il nervosismo rischia di consumare qualunque prospettiva.

La Stampa 28.6.13
In autunno la resa dei conti
di Marcello Sorgi


Siglata tra Palazzo Chigi e il Quirinale dove il condannato Berlusconi era stato solennemente ricevuto all’indomani della pesante sentenza per il caso Ruby - e alla vigilia dell’udienza in Cassazione sul lodo Mondadori e della probabile incriminazione per la compravendita di senatori in epoca ultimo governo Prodi - è durata appena 24 ore la tregua che doveva consentire al governo di riprendere fiato e a Letta di presentarsi al vertice europeo senza tenere l’orecchio incollato al cellulare per ricevere cattive notizie dall’Italia. Il presidente del consiglio ha avuto appena il tempo di concentrarsi per qualche ora sui delicati dossier che sono al centro dell’incontro tra i leader, che subito la sua attenzione è stata richiamata in Italia dal nuovo scontro apertosi nella maggioranza sulla giustizia e sui provvedimenti per l’occupazione. Va detto che con la levata di scudi contro l’emendamento del Pdl, che punta a ridisegnare, in caso di riforme istituzionali, il ruolo del Consiglio superiore della magistratura, il Pd ha voluto mettere le mani avanti e far sentire il crepitio di un fuoco di avvertimento. Se davvero - e sarà da vedersi, in questo clima - il Parlamento dovesse mettere mano ai poteri della Camera e del Senato, come si propone di fare, e se un lavoro del genere, anche senza cambiare del tutto l’aspetto costituzionale del nostro sistema, comportasse un rafforzamento della figura del premier o addirittura l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, non si capisce come da una ristrutturazione del genere potrebbe restare escluso l’organo di autogoverno dei giudici. Ma tant’è: i rapporti tra i due principali partiti della maggioranza sono improntati a un tale clima di sospetto che al minimo stormir di fronde si incrociano raffiche di polemiche.
Non è stata da meno anche l’accoglienza che il Pdl, non tutto, ma a un certo livello, ha tributato ai provvedimenti usciti da Palazzo Chigi mercoledì. Il capogruppo dei deputati Brunetta ha sostenuto che la sospensione dell’aumento dell’Iva è stata adottata senza trasparenza sulle coperture (attacco al ministro dell’Economia Saccomanni), mentre la sua vice Gelmini spiegava che il decreto sul l’occupazione giovanile realizzava solo in parte una proposta lanciata durante la campagna elettorale dal centrodestra. Per evitare che il consiglio dei ministri preparato con tanta cura, e tenuto alla vigilia del vertice di Bruxelles anche per dimostrare la capacità riformatrice del proprio governo, apparisse come una specie di gioco delle tre carte, Letta è dovuto intervenire personalmente dall’estero per difendere Saccomanni e reagire alle accuse di Brunetta.
Ora, a parte i risultati che potrà conseguire con la sua missione europea (segnata, come sempre, da un avvio interlocutorio e da un veto del primo ministro inglese Cameron che non fa ben sperare), ci si chiede quanto potrà andare avanti ancora il governo su una strada così accidentata. Il problema non è la durata (sulla quale, in mancanza di alternative, sia Berlusconi sia Epifani si sono impegnati fino all’altro ieri), ma la possibilità e la capacità di realizzare il programma su cui era nato l’accordo delle larghe intese. Un elenco ambizioso di riforme improcrastinabili, dall’economia alle istituzioni, non prive di conseguenze sociali, che solo un accordo tra (ex?) avversari poteva consentire di varare, suddividendone i costi politici e preparandosi a incassarne i dividendi al momento dell’uscita dell’Italia dalla crisi. Invece, finora, s’è preferito procedere di rinvio in rinvio, dall’Imu all’Iva alla Grande Riforma, spostando all’autunno il momento della vera resa dei conti e dell’eventuale, in caso di rottura, ritorno alle urne.
Pressati in questa gimcana dai rispettivi partiti - uno, il Pd, in corsa verso il congresso, l’altro, il Pdl, precipitato verso una rifondazione del marchio e dello spirito «rivoluzionario» di Forza Italia - Letta e Alfano hanno dimostrato fin qui una personale e straordinaria abilità a districarsi tra i veti incrociati e a tenere in piedi un esecutivo, nato traballante, e alle prese con un’opposizione trasversale e strisciante che attraversa tutta la larga maggioranza di cui dispone. Ma alla vigilia della lunga estate in cui una volta e per tutte si giocherà la sopravvivenza, forse è lecito chiedersi se un governo come questo può accontentarsi di tirare a campare. E soprattutto di campare così.

Repubblica 28.6.13
Il Pdl tenta il blitz “Cambiamo anche la giustizia”
Matteo Orfini (Pd): “Il centrodestra deve dimostrare di avere a cuore gli interessi degli italiani e non dell’ex premier”
“Se ci provano, allora cade il governo”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA — «Le visioni antitetiche di Pd e Pdl e i problemi di Berlusconi. Per queste ragioni, sulla giustizia, non si può intervenire. Se qualcuno ci prova, il governo cade ». Il leader dei Giovani Turchi Matteo Orfini considera l’emendamento presentato dal centrodestra alle riforme istituzionali «un forzatura grave e irricevibile, una provocazione. Il governo deve concentrarsi sulle materie su cui si può trovare un compromesso. Non possiamo permetterci non dico interventi sulla giustizia ma nemmeno la sensazione di dare una risposta politica a questioni giudiziarie. Sarebbe la fine delle larghe intese».
Eppure il Pdl ci prova. Nonostantegli impegni presi con Lettae Napolitano.
«È un problema che riguarda Berlusconi. Noi abbiamo reagito in modo molto corretto alla sentenza di Milano su Ruby. Tenendo separate le due questioni: la maggioranza di governo e le vicende giudiziarie del Cavaliere. Adesso il Pdl deve dare prova di tenuta istituzionale e politica. Vediamo se dimostrerà di essere davvero un partito che ha a cuore gli interessi degli italiani evitando di strumentalizzare politicamente una questione giudiziaria. Se invececercheranno di infilare nell’agenda del governo misure che hanno solo l’obiettivo di salvare il loro capo, dimostreranno che non ci sono più le condizioni per andare avanti. Noi stiamo al governo per risolvere i problemi degli italiani,non quelli di Berlusconi».
Dal Pd non sono venute reazioni alla sentenza di Milano. Rischiate anche voi di essere prigionieri delle larghe intese?
«La distinzione dei piani, secondo me, è il modo più forte perdimostrare rispetto per la magistratura. Resta, è vero, il problema di fondo: per il Pd è molto complicato vivere una fase di collaborazione con il centrodestra. Per questo c’è bisogno di un salto di qualità da parte di Letta. Devedimostrare agli elettori la capacità di risolvere i loro problemi. E non basta Letta».
Cos’altro serve?
«Che il Partito democratico si svegli un po’. Siamo ancora sotto choc per quello che è successo dalle elezioni in poi. Ma dobbiamo assumere con più decisione l’iniziativa, insistere con maggiore forza su alcuni punti dell’azione di governo. A cominciare, dall’inciampo del provvedimento sul lavoro. Quel testo presenta molti problemi. Nei prossimi giorni bisognerà intervenire».
Vi accuseranno di non volere il funzionamento della giustizia.
«Quale giustizia? Quella che crea problemi ai cittadini comuni? O quella che indaga sui reati di Berlusconi? Quando mai il Pdl si è occupato del malfunzionamento della giustizia per i cittadini normali. Non è questo l’interesse del centrodestra. Pensano solo al Cavaliere. Nel momento in cui sono nate le larghe intese si sapeva che Pd e Pdl hanno visioni antitetiche su questo tema. L’atteggiamento del Pdl quindi è solo strumentale. Poi, si può criticare la richiesta di un pm, ma una sentenza non si contesta».

Repubblica 28.3.13
Il Cavaliere pronto a giocare l’ultima carta “Enrico non può fare finta di niente”
La mediazione dei ministri. Vertice di maggioranza la prossima settimana
di Francesco Bei e Liana Milella


ROMA — «Letta non può fare finta di niente». Nella storia di un emendamento contano sempre i tempi. Il momento in cui è stato presentato. Cosa è avvenuto immediatamente prima. E cosa dopo. Silvio Berlusconi lo sa e il suo messaggio infatti era indirizzato direttamente al presidente del consiglio. Nella delicata e difficile battaglia processuale, il Cavaliere vuole mettere sul tavolo della “strana maggioranza” più strumenti di trattativa. Un modo per dire: «Se mi bocciate questa proposta, allora dovete accogliere quest’altra». Un pò come ha fatto nei giorni scorsi nel corso dei contatti e poi nel colloquio con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che però non ha accolto le sue richieste.
Di questa tattica si è subito accorto il democratico Felice Casson che la battezzava come una «bella pugnalata» del Pdl sulle riforme. Elementi da un lato rivelatori e che dall’altro ne confermano l’obiettivo politicamente devastante. Un fatto è certo. L’emendamento 2.12, con sole due righe, è riuscito a far perdere le staffe ad Anna Finocchiaro, la presidente Pd della commissione Affari costituzionali del Senato, che in un attimo ha visto crollare il suo lavorio alla Napolitano per riforme condivise. Quando, scorrendo il malloppo delle modifiche, se l’è trovato davanti, quasi automaticamente ha vergato un no in vista della discussione, salvo rendersi conto solo dopo della portata distruttiva del nostro 2.12.
E dunque raccontiamo come e quando è spuntato il 2.12. A svelare i dettagli sono gli stessi berlusconiani, mentre cercano, non si sa bene se con ingenuità vera o malcelata malizia, di convincere tutti che dietro «non c’è niente di male, solo normale amministrazione». Eppure la prossima settimana, proprio per evitare fratture maggiori si terrà a Palazzo Chigi con il premier un vertice di maggioranza.
L’emendamento che riapre lo scontro sulla giustizia e che fa subito tremare i giudici nasce giovedì 20 giugno. Al Senato si riunisce il gruppo Pdl - Bruno, Bonaiuti, Bernini, Casellati e altri e discute l’idea. La approva. Deposita il testo. Il giorno prima la Consulta ha bocciato il legittimo impedimento per Mediaset e ha fatto cadere le ultime speranze di Berlusconi che quella sentenza (quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici) possa cadere per un vizio di forma. I suoi sono furibondi. Meditano sfracelli. Sanno bene che la tempesta è solo all’inizio. Pochi giorni e arriva un’altra sentenza, quella di Ruby.
Come chiosa adesso un uomo del Cavaliere «questo emendamento si può definire di profilassi ». Proprio così, è una pillola d’avvertimento, durante il governo di Silvio si sarebbe detto una pistola fumante sul tavolo. Un berlusconiano lo dice in malo modo a un collega del Pd impegnato nella battaglia sulle riforme: «Non dovete sempre ostacolarci. Noi sosteniamo il governo, noi subiamo i colpi dei magistrati, ma voi dovete lasciarci lo spazio per fare la nostra politica, per discutere in Parlamento quello che sta scritto nel nostro programma elettorale. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei giudici, un diverso Csm. Perché non dovremmo parlarne adesso, e nell’ambito delle riforme? Lasciateci almeno discutere».
Francesco Paolo Sisto, il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, non si meraviglia affatto. Sottoscrive l’emendamento. «Non ne ho discusso. Lo leggo adesso. Ma posso ben dichiarare che non è affatto un salva-Berlusconi». Nel Pd la pensano all’opposto, al Senato la tensione nel gruppo si taglia a fette, come dimostra l’allarme di Casson. Quell’emendamento è valutato come la risposta, alcuni dicono «la ritorsione », allo scontro che si è appena aperto sull’ineleggibilità. Anche questa, di certo, non una casuale coincidenza.
Da Berlusconi in persona e dal suo entourage più stretto non viene affatto disconosciuto il progetto di mettere mano al titolo quarto della Costituzione. Era il tema della «grande grande grande riforma della giustizia» firmata dall’ex Guardasigilli Angelino Alfano prima che cadesse il governo Berlusconi. Fa molto gioco adesso che il Cavaliere è alle prese, furente come sempre, con l’ultima giornata di pressing per via dei processi, Napoli con la compravendita dei senatori e Roma con il lodo Mondadori. Due avvocati che lo chiamano di continuo, Ghedini da Napoli e Vaccarella dalla Cassazione. Ovunque cattive notizie. Almeno il blitz del 2.12 riesce a strappargli qualche risata di soddisfazione.

il Fatto 28.6.13
Walter Verini. Questione morale nel Pd
“In tutta Italia guerre solo per le poltrone”
intervista di Wanda Marra


Spesso nella vita quotidiana del Pd in giro per l'Italia prevalgono logiche che somigliano più a una guerra tra bande che a un dibattito politico ideale”. Dopo la durissima critica di Marianna Madia al Fatto Quotidiano (un partito di “piccole e mediocri filiere di potere”) e poi di altri come Roberto Morassut e Paolo Gentiloni, la denuncia arriva da Walter Verini. Ex capo della segreteria di Veltroni, deputato di lungo corso e uomo dai giudizi cauti e ponderati.
Onorevole Verini, è come dice D’Alema: nel Pd non ci sono correnti, ma solo caos?
D'Alema ha ragione. Le aree politico culturale sono un fatto importante se sono tali. Nel codice etico del Pd, oltre a una serie di precetti morali, c’è anche una norma che dice che sono vietate forme di cristallizzazioni in cui non si dà spazio alle tante energie positive esistenti. Ma nel Pd oggi conta più la fedeltà che il merito.
Ora c’è un congresso: il Pd non fa altro che contarsi.
Il congresso deve discutere cosa significa essere un partito oggi. Serve un bombardamento, una destrutturazione di queste forme che gestiscono il potere. Lo stesso Epifani ha parlato di opacità nel tesseramento.
Cosa significa secondo la sua esperienza?
Spesso accade che le tessere crescano tantissimo in pochissimo tempo: e allora non è partecipazione, spontaneità, ma vengono usate per pesare di più.
Quando parla di guerra tra bande a cosa si riferisce?
Il Pd è l’unico partito che c'è nel paese, e questo è importante. Ma se prendi 1000 titoli di giornali locali, dalla Val d'Aosta alla Sicilia, 800 parlano di risse, divisioni, lacerazioni, scontri, che non avvengono sulla linea del Pd, ma su chi fa l’Assessore o il presidente di una municipalizzata. È una concezione del potere come fine non mezzo.
C’è una vera questione morale?
La questione morale, nell’accezione di Berlinguer, che molti esibiscono come un santino, non era solo non rubare, ma mantenere una netta separazione tra la politica e certe ingerenze nella vita delle istituzioni. La politica fissa degli obiettivi, la gestione non può essere fatta dai partiti.
Nella sua regione, l’Umbria, quali sono gli effetti tangibili delle guerre tra bande?
In 2 anni il sindaco di Terni è stato costretto a una pre-crisi perché le tensioni tra correnti si ripercuotono sulla vita dell’amministrazione. A Gubbio recentemente è dovuto arrivare un commissario, perché il sindaco era paralizzato dalle lotte tra correnti. A Città di Castello ci sono voluti nove mesi perché il Pd scegliesse il sostituto di un assessore prematuramente deceduto, per giochi di correnti. Queste Dinamiche rischiano di fagocitare i tanti elementi positivi.
E nel caso delle primarie? Il segretario dell’Umbria Bottini arrivò a dimettersi.
Si era candidato e ha perso. Ma queste logiche hanno pesato anche sulle primarie dei parlamentari. In tre giorni in alcuni casi sono state le correnti a organizzare militarmente pacchetti di preferenze. Viceversa ci sono molti che hanno lavorato bene.
Anche lei fa parte di una corrente, i veltroniani.
Siamo gli unici che non hanno una corrente organizzata. Mo-Dem nacque per evitare la deriva verso un partito chiuso, ma durò pochi mesi. I veltroniani possono essere persone che si ritrovano nello spirito originario del Pd.
Non crede che ogni appartenente a qualsiasi corrente la definirebbe così, come un progetto?
Noi non abbiamo mai fatto pressioni di sorta. Le battaglie di idee invece sono giuste.
Alla luce di questo ragionamento, Bersani ha fatto bene a dimettersi?
Le vicende quirinalizie sono state l’ effetto di un clima di anni, non di lealtà ma di lotte correntizio. Bersani ha preso atto non solo di quello, ma di una grave sconfitta elettorale.
Lei con chi sta al congresso?
Vorrei si parlasse di idee. Sono per il ritorno alla “vocazione maggioritaria”. Per un partito che sta con l’imprenditore e il lavoratore, il giovane e l’anziano, il Nord e il Sud. Insomma, voglio rivalutare il ma anche.

il Fatto 28.6.13
Flavia Barca “La mia famiglia? Io sono io”
di Sandra Amurri


Di Flavia Barca, nominata assessore alla cultura al Comune di Roma il Giornale ha scritto che è stata la ricompensa del Pd al fratello Fabrizio per aver abbandonato la corsa alla leadership. Fabrizio Barca nei weekend fino a dicembre girerà l'Italia per raccogliere la solitudine dei circoli dove “il partito (si è tesserato ad aprile) è assente, per restituire voce ai territori attraverso il confronto”. Ma la neo assessore alla cultura in Campidoglio è anche una “figlia di”. Suo padre, Luciano Barca, scomparso quest'anno, è stato dirigente storico del Pci di Enrico Berlinguer di cui era uno dei più stretti collaboratori. Senatore, direttore de L'Unitàe di Rinascita, si oppose alla svolta della Bolognina. La mamma di Flavia, Gloria Campos Venuti, era fisica nucleare. “Sono sbalordita e non certo perchè non sia fiera, bene inteso, di mio padre e di mio fratello, ma io sono Flavia con la mia storia e il mio curriculum. E pensare che Fabrizio non sapeva nulla, gliel'ho detto io al telefono. Siamo alle solite, tutto perchè sono donna!” conclude con un sorriso. “E nessuno scrive che sono anche sorella di Federico”. Il l più piccolo dei Barca è commerciante di giochi con negozio alla Balduina. Ironica, aria da sbarazzina che cela il traguardo dei 50 il prossimo 24 luglio, Flavia rivendica con orgoglio il merito conquistato sul campo. Nata a Roma dove vive con i due figli, laurea in Lettere con 110 e lode, direttore dell’Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli, fino a due mesi fa si è dedicata all’attività di ricerca e consulenza nel campo della comunicazione. Ha diretto molti progetti di ricerca, è stata docente presso Università` ed enti di formazione pubblici. A fare il suo nome, dicono che sia stato Matteo Orfini. “Matteo conosce il mio impegno, ma da qui a dire che sono stata imposta dal Pd ce ne passa. Non ho mai avuto una tessera di partito in tasca”. Il suo cuore batte a sinistra. Dice di aver incontrato Marino per la prima volta ieri alla riunione di giunta. Niente anticipazioni: “Mi sembrerebbe irrispettoso, faccio parte di una squadra, ogni cosa a tempo debito”. Per farsi un'idea basta leggere il profilo Twitter: “Non c'è sviluppo senza cultura” Quella cultura che, come spiega in un articolo su Limes “è l'elemento chiave dello sviluppo economico e fondamento della coesione sociale” concludendo: “Cultura che in Italia, a differenza di altri Paesi europei, non e` mai stata tra le priorità` dell’agenda politica di nessun governo, a prescindere dal colore politico”.

Corriere 28.6.13
Congresso Pd, giallo sui tempi Epifani assicura: «Nessun rinvio»
Il timore dei renziani: procedura «allungata» fino al 2014
di Tommaso Labate


ROMA — Lo ripete in via riservata anche ieri mattina, Guglielmo Epifani. Quando si premura di far sapere al fronte che sostiene Matteo Renzi che «il rinvio del congresso» del Pd non è contemplato. Ma visto che il tema non è lo spostamento della competizione bensì l’allungamento dei tempi — che spingerebbero la scelta del segretario all’anno nuovo — ecco che il leader del Pd decide di proporre una moratoria sul dossier. E infatti, ai cronisti che lo incrociano dopo la segreteria, risponde con un sorriso: «Rinvio? Se ne dicono tante. Si dice anche di peggio... ».
Per tutta la mattinata, il tema dei tempi tiene banco in casa Pd. «Rinviare il congresso non è una strada percorribile», incalza il vicepresidente del Parlamento europeo Gianni Pittella. Che, oltre a dirsi pronto «a confrontarmi con Renzi», rincara la dose: «Il congresso è la medicina per l’endemica malattia di cui soffre il Pd. E cioè il correntismo».
Da quel momento in poi, è un fuoco di sbarramento. «Non è opportuno cambiare le regole prima dell’appuntamento congressuale», scrivono in una nota i Liberal del Pd capitanati dal sindaco di Catania Enzo Bianco. Quanto all’ipotesi del rinvio, il fronte dei renziani — attraverso il neo-responsabile Cultura del partito Antonio Funiciello — archivia il tutto alla voce «opzione ridicola». Una girandola in cui fa sentire la sua voce anche il responsabile Organizzazione Davide Zoggia: «Mi attengo alle parole che il segretario ha sempre pronunciato. Le valutazioni verranno fatte insieme. E comunque noi ci atteniamo al rispetto delle cose dette».
Ma che il tema dei tempi non sia destinato a essere archiviato in fretta lo dimostra il dibattito che va in scena nel tardo pomeriggio, nel chiuso della riunione della commissione per il congresso. Sulla prima ipotesi all’ordine del giorno, e cioè che a essere eletti per primi siano i segretari di circolo e quelli provinciali, sono tutti d’accordo. Anche se si tratta di una novità.
Ma quando la discussione si sposta sulla tempistica di presentazione delle candidature a segretario nazionale — va collegata all’elezione dei leader locali, oppure posticipata? — ecco che la discussione torna ad accendersi. Con l’esponente dell’area Renzi, Lorenzo Guerini, che fiuta la possibile trappola e lancia un avviso ai naviganti: «Il congresso deve tenersi entro il 2013». E la rimarca, la parola «entro».
Sembrano tecnicismi. Ma il tema principale rimane sempre quello. Come evitare che lo scontro congressuale del Pd e la madre di tutte le battaglie, cioè le primarie per il segretario(saranno aperte a tutti), evitino di provocare scosse tali da creare crepe nell’esecutivo.
Intanto, la corsa alle iscrizioni si avvicina. Gianni Cuperlo presenterà l’embrione della sua mozione (è probabile che contempli anche un sì alle nozze gay) a inizio settimana. Mentre Massimo D’Alema, che ha pronto il restyling dell’associazione ItalianiEuropei (con tutte le correnti rappresentate), si comporta da arbitro: «Sono un simpatizzante del Pd con la tessera, non un dirigente. Quindi del congresso non mi occupo perché non è materia mia».

il Fatto 28.6.13
Bersaniani-renziani , trattativa sui tempi del congresso
I bersaniani: «Prima si eleggano i dirigenti locali con voto solo agli iscritti» I renziani non ci stanno
di wa.ma.


LE RIUNIONI si fanno per convocarne altre”, dice un autorevole membro della Commissione che ieri si è riunita per stabilire regole e tempi del congresso del Pd. Tradotto: 4 ore e mezza di trattativa al Nazareno, che non hanno praticamente portato a nulla. Se non che si partirà dai congressi locali. I bersaniani (o epifaniani, in questa fase) vogliono fare prima i congressi locali e far votare per i segretari regionali e provinciali solo ai tesserati (e infatti la raccontano come una regola “quasi” stabilita ieri), i renziani sono per le primarie anche in questo caso. Sullo slittamento del congresso a febbraio Epifani per ora getta acqua sul fuoco, ma in realtà i tempi sono tutt’altro che certi. Perché se si fanno prima i congressi locali, le primarie potrebbero automaticamente slittare. Se ieri la discussione si è mantenuta su toni tranquilli, prima i renziani avevano caricato l’artiglieria: “Se cominciano a parlare di ritardare i tempi, noi semplicemente lasciamo la Commissione e rimandiamo tutto all’Assemblea, dove i due terzi necessari non ce li hanno”, il ragionamento di Lorenzo Guerini. Renzi - che ormai viene a Roma almeno per un giorno la settimana - a ottobre vuol essere in campo.

La Stampa 28.6.13
Pd, il congresso non slitterà. Stallo sulle regole
Il nodo riguarda l’elezione dei segretari regionali
di Francesca Schianchi


Alle nove di sera, dopo una riunione fiume di quattro ore, i renziani appaiono rassicurati. «È stato chiarito che il congresso si terrà entro le date previste», dichiara l’ex sindaco di Lodi, Lorenzo Guerini, deputato in quota sindaco di Firenze nella Commissione che si deve occupare delle regole del congresso Pd, scelto per un compito così delicato per aver contribuito già un paio d’anni fa, da coordinatore della campagna elettorale, a portare alla presidenza dell’Anci l’outsider Delrio contro Emiliano. Ma il problema vero, quello che potrebbe fare esplodere la polemica tra le anime del partito, cioè se restringere o meno ai soli iscritti l’elezione dei segretari regionali, ancora non viene risolto: se ne riparla giovedì prossimo.
Si sono riuniti ieri i 19 democratici capitanati dal segretario Epifani, per la seconda volta, la prima in realtà a entrare nel vivo dei problemi. All’ordine del giorno era l’inversione nei tempi di celebrazione dei congressi (con la proposta di fare prima quelli locali e poi quello nazionale) e la proposta di snellire gli organismi come l’Assemblea nazionale, «perché quelli che abbiamo sono troppo pletorici», ha spiegato il segretario. E se su questo secondo punto c’è convergenza, quello che più fa discutere è la scelta di come gestire i congressi locali. «I bersaniani propongono che i segretari regionali vengano eletti prima di quello nazionale, e solo dagli iscritti: noi siamo contrari alla chiusura ai soli iscritti, e per quanto riguarda l’inversione dei tempi, è importante la tempistica», spiega Guerini all’entrata della riunione. Un altro renziano, non presente in Commissione, è chiaro a illustrare il loro timore: «Se si votano prima i segretari regionali, e vanno al voto solo gli iscritti, i bersaniani se li accaparrano tutti. Così, Renzi diventi pure segretario nazionale, in realtà è un generale senza esercito: hanno in mano loro il partito».
Per ora, la questione viene rinviata. Tutti sono d’accordo con l’idea di partire coi congressi dal territorio, ma il punto delicato, quello dei segretari regionali, resta ancora da discutere. Alla fine – confidano dalle parti di Renzi – i segretari regionali continueranno a essere eletti insieme a quello nazionale con primarie aperte, perché cambiare la procedura sarebbe laborioso (occorre portare la modifica dello Statuto in Assemblea nazionale) e i bersaniani non sono apparsi ieri sera irremovibili su questa proposta.
Di certo, la buona notizia per i renziani è che i tempi del congresso - assicura Guerini sono stati confermati. Nessun slittamento delle primarie al 2014, è stato garantito ieri, come invece voleva una voce insistente dalle parti di Sant’Andrea delle Fratte, una soluzione per garantire ossigeno al governo, visto che sanguinosi scontri congressuali difficilmente non avrebbero ripercussioni sull’esecutivo di Letta. Un’ipotesi nemmeno troppo smentita dal segretario Epifani parlando con i giornalisti: «Se ne dicono tante… Non posso inseguire tutte le voci, ne dicono anche di peggio…», si limita a dire. «Stiamo lavorando per il rispetto dei tempi», assicura il responsabile organizzazione, il bersaniano Davide Zoggia. Per un congresso, dunque, da svolgere entro novembre. Entro un mese arriveranno le regole. Ma i punti dolenti devono ancora essere affrontati.

Repubblica 28.6.13
“Il congresso non può slittare al 2014”
Pd, Renzi stoppa i “ritardatari”. Lite nel comitato per le regole. Epifani: solo voci
di Giovanna Casadio


ROMA — Guglielmo Epifani getta acqua sul fuoco: «Sarà rinviato il congresso? Non posso inseguire tutte le voci... ne dicono anche di peggio». Ha introdotto i lavori del “comitatone” per le regole, il segretario del Pd, sostenendo che «i tempi per l’elezione del nuovo segretario saranno quelli che abbiamo detto, entro fine anno...». Ma Matteo Renzi non ci sta. Non si fidano i renziani e danno l’altolà al rinvio del congresso. Accadrebbe uno slittamento di fatto, se l’elezione del nuovo segretario la si prende da lontano. Non sono i soli a opporsi.
Margherita Miotto, bindiana, a sorpresa dà manforte ai dissensi: «Questa idea di partire dai circoli per votare solo in seguito per il candidato nazionale, come se fosse indifferente, è una bufala colossale: bisogna sapere subito chi si candida segretario, è questo il punto». Lorenzo Guerini, per conto del sindaco fiorentino, attacca e per due ragioni: «No a un leader nazionale senza truppe (come sarebbe se il voto nei circoli avvenisse prima e solo da parte degli iscritti); no ad allungamenti inevitabili se si segue questa procedura». Stessa opinione dei “giovani turchi”, Francesco Verducci e Roberto Gualtieri.
Si evita la conta ieri sera nel “comitatone” per il congresso, rinviato a lunedì. Giuseppe Lupo, il segretario regionale siciliano, tenterà una mediazione. I bersaniani ed Epifani non intendono però mollare. Tanto che Davide Zoggia, il responsabile dell’organizzazione, conclude annunciando che il dado è tratto: «I congressi partiranno dal basso ». Si continuerà a discutere? Sì - assicura - si discuterà, «ma c’è una sostanziale condivisione». Tuttavia la volontà dei “ritardatari”, i lettiani, Areadem di Franceschini, i bersaniani di mandare per le lunghe la resa dei conti nel Pd, evitando così scossoni al governo, è risaputa. Meglio che la grande sfida del Pd si tenga nel 2014: è la speranza. «È chiaro che si rallenta se si comincia dai circoli e via via, si arriva a novembre, e poi si devono presentare le candidature a leader, infine qualcosa accadrà sempre e bisognerà riconvocare tutto...», ragiona Miotto.
Renzi si mostra ancora incerto se scendere in campo per la segreteria o stare acquattato, soprattutto se la vita del governo Letta continua a essere appesa al filo delle condanne di Berlusconi e la politica del fare si arena sugli scogli dei rinvii. Allora - pensa il sindaco “rottamatore”- gli converrebbe puntare direttamente alla sfida per la premiership, dal momento che il governo non reggerebbe i 18 mesi. Molti renziani pressano. «Renzi decida di candidarsi e cominci a costruire una mozione», insiste Enrico Morando. La mozione già c’è. È quel documento sul “nuovo Pd” che è una tela di Penelope apertaai contributi delle associazioni. Ovviamente, spiegano i renziani, «se si procede per espedienti che sono un modo per boicottare Matteo, è meglio lasciare perdere ». Il timing dell’elezione delnuovo segretario è strettamente intrecciato con la vita del governo Letta. Pronto a scendere nella gara è Gianni Cuperlo, con un suo documento che sta limando e che illustrerà martedì a parlamentari e amministratori locali. Cuperlo è appoggiato dai “giovani turchi”, la sinistra del partito, e da D’Alema.
Discussione anche sul dimezzamento dei delegati nell’Assemblea e nella Direzione: da mille si passerà a 500, da 200 a 100. Verducci non condivide soprattutto se, oltre al dimezzamento, è previsto una forte rappresentanza locale. E poi, quali iscritti dovrebbero votare nelle federazioni locali? Quelli registrati solo fino al 2012, o sulla base di elenchi aggiornati? Si è parlato anche di questo.

La Stampa 28.6.13
Civati corre da segretario “Renzi? Lo vedo un po’ spento”
Ora è ufficiale: “Ecco i 101 motivi che mi hanno spinto alla candidatura”
I 101: «Hanno affossato Prodi, perché non si dichiarano?»
L’obiettivo: raccogliere i delusi dell’«area Rodotà» dentro e fuori il partito
di Francesco Moscatelli


L’ex «rottamatore» Giuseppe «Pippo» Civati, 37 anni, è di Monza. È stato eletto alla Camera dei deputati dopo anni di impegno nel Pd lombardo, prima in Comune nella sua città e poi come consigliere al Pirellone. Fino al 2011 è stato fra i «rottamatori» con Renzi
«Non mi adeguo» Il nuovo libro di Pippo Civati è pubblicato da «Add»

Interpretare la parte dell’anti-Renzi. Il ruolo scelto da Pippo Civati è impegnativo. Però, scegliendo di candidarsi alla segreteria del Pd, il deputato lombardo che con il sindaco di Firenze condivide, oltre che l’anno di nascita (il 1975), anche una parte del percorso da «rottamatore» (le loro strade si sono separate alla vigilia della «Leopolda 2011») se l’è proprio andata a cercare. «I giornalisti danno per certo che Matteo correrà – spiega Civati al telefono –. Io non ne sono così sicuro, aspetterei l’ufficialità. Ultimamente però lo vedo un po’ spento: non ha detto nulla né sulla condanna di Berlusconi né sugli F-35. Se rompesse gli indugi in ogni caso sarebbe un bel segnale: per la prima volta mostrerebbe un po’ di attenzione per il partito invece del suo solito fastidio. Credo che gli spazi non manchino: lui parla all’esterno del Pd, io sono più introverso».
Civati sta affilando i coltelli. Punta a rappresentare «l’area Rodotà», quel mondo a metà strada fra delusi del Pd, Sel e Movimento 5 Stelle. Ha scritto un libro – «Non mi adeguo: 101 punti per cambiare», in uscita lunedì per Add Editore –, ha creato un sito web (www.ufficiodelusi.it) e tra il 5 e il 7 luglio riunirà i suoi a Reggio Emilia per la kermesse «Viva la libertà», dall’omonima pellicola di Roberto Andò. Oltre ai «Civati boys» ci saranno l’ex governatore sardo Renato Soru e l’ex ministro Fabrizio Barca. «Stimo molto Fabrizio e spero che la cosa sia reciproca – precisa Civati –. Io vorrei che diventasse il presidente della Fondazione del Pd, un luogo indipendente e autonomo che realizzi quell’idea di un partito organizzato e in dialogo con la società civile a cui entrambi stiamo lavorando».
Il progetto di Civati c’è già. Basta sfogliare il suo nuovo libro per fa rs e n e un’idea. Si parte da una citazione di Sandro Pertini sul «dovere di non adeguarsi di fronte alla cattiva politica e alla corruzione» e si arriva alle proposte concrete su legge elettorale «da fare subito in vista del ritorno alle urne nel 2014», abolizione dell’Imu «prima di togliere una sola tassa sul patrimonio bisogna abbassare quelle sul lavoro e sulla produzione», taglio degli stipendi ai papaveri della Pubblica amministrazione e varo di una convenzione con la Svizzera sui capitali esportati illegalmente. Prima, però, c’è spazio anche per un’analisi di quanto è successo dopo la clamorosa sconfitta del Pd alle politiche di febbraio. Per Civati il governo delle «male intese» non è nato per caso, ma è il frutto di un disegno politico portato avanti con coscienza, anche se nell’ombra, da quei 101 franchi tiratori (a cui allude il titolo) che hanno affossato la candidatura di Prodi al Quirinale. Il deputato lombardo attacca le dinamiche correntizie e, in vista del congresso, lancia una sfida: perché chi ha votato contro il fondatore del Pd non si dichiara? Civati concede una pax estiva al governo Letta, poi però «non bisogna più perdere tempo». Le tappe sono chiare: un congresso «subito e che sia il più aperto possibile», resuscitare l’alleanza con Sel e poi andare alle urne. Ma il segretario sarà anche il candidato premier? «Mi sembra una discussione surreale. Il Pd ha bisogno innanzitutto di una nuova elaborazione politica e di nuova classe. Poi discuteremo della leadership…». Chissà cosa ne pensa Renzi.

Corriere 28.6.13
E per la segreteria il fronte anti sindaco pensa a Fassina: può sfidare Matteo
di Maria Teresa Meli


Primarie, il duello sarà Renzi-Fassina
Matteo Renzi si prepara alla battaglia delle primarie, quella vera. Il dado è tratto.
Se il sindaco di Firenze, come è probabile, scenderà in campo, il suo vero avversario sarà Stefano Fassina.

ROMA — « Se fossero primarie solo per gli iscritti al partito io non concorrerei, ma se fossero primarie vere, come sono state finora, tra gli elettori, io non potrei sottrarmi»: Matteo Renzi approda a Roma e si prepara alla battaglia, quella vera. Che non riguarda le date, le regole e i cavilli. Il dado è tratto. Da una parte e dall’altra. Se il sindaco di Firenze, come è probabile, scenderà in campo, il suo vero avversario sarà Stefano Fassina.
Non Guglielmo Epifani, non Roberto Speranza, non Gianni Cuperlo, non Gianni Pittella e neanche Nicola Zingaretti, che proprio ieri a pranzo si è visto con il sindaco di Firenze. Renzi ha voluto saggiare di persona le reali intenzioni del governatore laziale, ha voluto capire quanto egli sia disposto a spendersi per Fassina.
L’ultima, decisiva spinta in direzione di Fassina è venuta dalla riunione dei bersaniani dell’altro giorno, dove sono stati presi in considerazione due scenari: il primo è di insistere con la storia del congresso fatto prima sui documenti e sui contenuti e poi sui nomi, che nel frattempo elegge i segretari locali demandando la battaglia sul leader a un secondo tempo, un congresso in due tappe che può far dire alla ex maggioranza che «non esiste alcuna ipotesi di rinvio», visto che in effetti le operazioni rispetterebbero la data prevista, salvo concludersi nel 2014. Ma la vecchia maggioranza bersaniana ha già pronto il suo, di documento, anticipato da un lungo articolo di Alfredo Reichlin sull’Unità, dove si spiega che il problema di fondo è «ripartire dal lavoro», che bisogna guardarsi bene dal sostituire «il partito di militanti con quello degli elettori», e che l’obiettivo è costruire «un nuovo blocco storico contro la rendita». È un’ipotesi, però, che si scontra con la necessità di dover modificare in più punti lo statuto, oltre che con varie obiezioni politiche («basta che qualcuno dica “ma perché volete cambiare le regole proprio ora che si candida Renzi” e il giocattolo si sfascia», argomenta un renziano di prima fascia), sicché in parallelo si è cominciato a mettere sul tappeto il «che fare» se il sindaco si candida sul serio. E si approda al piano Fassina: si è convenuto che l’anti Renzi potrà essere solo lui, l’attuale vice ministro dell’Economia, l’unico in grado di tenere in qualche modo testa al sindaco; quanto agli altri, Cuperlo è stato definito «candidato divisivo», effetto della non ricomposta frattura tra dalemiani e bersaniani, mentre per Epifani si è preso atto che il suo dire e ripetere «non mi candido» è intenzione reale e non pretattica. Per quanto riguarda per il capogruppo Speranza, l’idea è di lasciarlo lì visto che sta già operando bene e in maniera unitaria; rimane Pittella, che punta solo a contarsi, in particolare al Sud, non si sa con quali risultati.
Tra tutti, è Cuperlo quello che non intende darsi per vinto. Sceso in campo Fassina, la candidatura dell’ex segretario dei giovani del Pds sarebbe come quella di un Civati rispetto a Renzi, sovrapponibile ma non vincente, fatto sta che Cuperlo si muove come uno già in corsa, per martedì ha chiesto un incontro con tutti i parlamentari del Partito democratico tramite apposita lettera, il tutto inframmezzato da presenze in tv e dibattiti. Senza contare il fatto che, ufficialmente, Fassina lo sponsorizza.
Ma sul fronte renziano si lavora. Eccome se si lavora. Anche al documento congressuale, il «Manifesto per il nuovo Pd», che è quasi pronto. Tant’è che sono in via di accentuazione le critiche del sindaco versus il governo. Il deputato renziano, Davide Faraone, su diretta ispirazione del sindaco, ha definito «una beffa per le nuove generazioni» il piano per il lavoro varato dal governo. «È diseducativo e inconcludente», ha sparato Faraone, e non lo ha fatto senza interpellare il sindaco rottamatore.

l’Unità 28.6.13
Femminicidio, adesso si muove il Parlamento
di Valeria Fedeli


DAL 2002, NEL MONDO, SECONDO DATI OMS, LA PRIMA CAUSA DI UCCISIONE DI DONNE TRA I 16 E I 44 ANNI È L’OMICIDIO DA PARTE DI PERSONE CONOSCIUTE. E il 35% delle donne subisce nel corso della vita qualche forma di violenza.
Mentre gli omicidi di uomini sono di solito commessi da sconosciuti, durante atti di criminalità, quando ad essere uccisa è una donna è spesso per mano di persone vicine, in particolare partner o ex partner. È un dato consolidato nella storia, ma di recente consapevolezza.
Solo dagli anni ’90 si è iniziato a parlare di «femmicidio», per definire l’omicidio volontario di donne «perché donne», e poi di «femminicidio», per indicare ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna, al di là dell’omicidio.
Come accade sempre con il linguaggio, nominare femmicidio e femminicidio ha permesso di renderli evidenti, riconosciuti, esistenti. Di svelare il rapporto tra violenza e stereotipi, tra violenza e mentalità maschiliste che hanno da sempre governato il mondo
È nei modelli di famiglia, in concezioni del rapporto di coppia fondati sulla gerarchia, in un’idea dell’amore come possesso che si nascondono le ragioni culturali che portano alle violenze verso le donne, spesso proprio verso le donne «amate».
In Italia la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché perpetrate in un contesto culturale maschilista, dove la violenza domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza, dove persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate.
Quando uno Stato fallisce nel perseguire femmicidio e violenze, l’impunità non solo umilia ancor più chi la vittima, ma manda un messaggio alla società, lascia intendere che la violenza nei confronti delle donne è accettabile, inevitabile.
La ratifica della Convenzione di Istanbul, appena completata, è un primo passo per invertire la rotta: riconosce la violenza sulle donne e domestica come violazione dei diritti umani, sancisce il principio secondo cui ogni persona ha il diritto di vivere libera dalla violenza e pone agli Stati il vincolo concreto del raggiungimento dell’uguaglianza tra i sessi de jure e de facto.
Occorre ora implementare il corpus normativo. Per questo con molte altre senatrici e molti senatori, di tutti i gruppi parlamentari, abbiamo proposto l’istituzione di una Commissione bicamerale sui fenomeni di femmicidio e femminicidio, che risponda al dovere istituzionale, oltre che morale, di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla violenza verso le donne.
La Commissione lavorerà per rilevare le dimensioni del fenomeno, individuare le misure necessarie, monitorare l’efficacia dell’azione istituzionale. Serve poi modificare la cultura del Paese, superare la resistenza di un potere maschile e maschilista, prevenire discriminazioni e sessismi prima che degenerino in meccanismi patologici, intervenire con l’educazione.
La scuola e i libri di testo, spesso in modo inconsapevole, sono sessisti: trasmettono stereotipi e comportamenti che favoriscono le gabbie comportamentali di genere. Occorre invece incoraggiare, proprio a partire dalla scuola, la cultura del rispetto delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti. E adottare il codice «Polite» che prescrive per un linguaggio rispettoso delle differenze di genere per i libri di testo.
Serve insomma un’azione di sistema, che unisca misure immediate come il sostegno ai centri antiviolenza e un cambiamento culturale e normativo più profondo e lungo, per sradicare ogni forma di discriminazione e violenza di genere e garantire l’uguaglianza sostanziale delle donne come prevista dall’articolo 3 della Costituzione.
Abbiamo una responsabilità enorme, che guarda al presente, a chi oggi subisce o rischia di subire violenze, e guarda al futuro, alle bambine e ai bambini cui lasciare un Paese in cui crescere liberi dalla violenza.

l’Unità 28.6.13
Protesta dei beni culturali Ora bisogna cambiare rotta
di Vittorio Emiliani


IL CASO DEL COLOSSEO TOTEM DELLA ROMANITÀ E DEL TURISMO PLANETARIO (I SUOI INCASSI FORMANO CIRCA UN TERZO DEGLI INTROITI DI TUTTI I MUSEI STATALI) PRECLUSO AI TURISTI PER LE «ASSEMBLEE» sindacali dei custodi ha riportato in primo piano lo stato comatoso del ministero per i Beni e le Attività Culturali salassato e snervato da Tremonti con l’assenso dei ministri Bondi e Galan e col «tecnico» Ornaghi che non ha certo fatto di meglio. I custodi, ridotti di numero e non pagati secondo gli accordi sindacali, hanno colpito il totem (oltre che la gallinona dalle uova d’oro) del Colosseo facendo infuriare i turisti in coda sotto il sole e rilanciando nel mondo l’idea (fondata) che il Bel Paese non sappia tenersi caro il colossale patrimonio ereditato dai propri avi. I sindacati programmano una giornata generale di protesta sui Beni Culturali per oggi. Sacrosanta. Oltre tutto per la vertenza-Colosseo sono stati convocati al Collegio Romano soltanto per il 4 luglio. Caos calmo. Il ministro attuale, Massimo Bray assicura che cercherà di recuperare un po’ dei troppi fondi sottratti da macellai incompetenti e di avviare i lavori finanziati (vedi Pompei) coi fondi Ue. Oltre ad istituire una nuova commissione di tecnici (di giuristi? dio ne scampi) per ristrutturare il MiBAC. Dove non si sa più chi comandi, specie dopo lo sciagurato Titolo V della Costituzione che ha messo sullo stesso piano lo Stato e il Comune di Roccacannuccia. Ma come sta il ministero? Di recente lo si è presentato come un «corpaccione». Il povero MiBAC ora unito al Turismo dopo avergli accorpato, discutibilmente, lo Spettacolo esibisce semmai un gran testone e un corpo con articolazioni sempre più gracili.
Il testone è formato da 23-24 direttori generali, fra centrali e regionali, con stipendi cospicui (166.688 euro lordi l’anno). Tutti alti specialisti? Fate voi: alla direzione generale per la Valorizzazione creata per Mario Resca, ex McDonald’s e Casinò di Campione, che, uscito lui, si poteva benissimo abolire, è stata messa una laureata in pedagogia; alla direzione per la Valutazione delle performances (Oiv) c’è una dirigente esterna proveniente dalla Sanità. Poi ci sono 162 dirigenti di seconda fascia, fra cui i soprintendenti territoriali, che guadagnano meno della metà, cioè 78.900 euro lordi, e i funzionari di terza area, dove ricadono i direttori dei più grandi musei, che si fermano a 35.000 euro l’anno, cioè a 1.700-1900 euro netti al mese, con responsabilità da far tremare. Poi viene la fascia dei tecnici: archeologi, architetti, archivisti, bibliotecari, storici dell’arte, collaboratori scientifici, ecc. Anche questi con stipendi indecorosi. Anche questi in numero decrescente. Per cui, ad esempio, gli architetti delle Soprintendenze territoriali dovrebbero, come minimo, affrontare il disbrigo di 5-6 pratiche edilizie/urbanistiche ciascuno per giorno lavorativo, col record milanese di 78,9 pratiche al giorno. Con ingorghi pazzeschi, ovviamente, e buchi vistosi nella tutela.
Ministero e Regioni, in base al Codice Urbani/Rutelli, dovrebbero co-pianificare e in tal modo difendere il paesaggio, ridurre drasticamente il consumo (pazzesco) di suolo e altro. Ma molte Regioni riluttano, come già fecero con la legge Galasso. Ed il fresco (o frescone?) Ddl governativo sul consumo di suolo prevede che questa materia venga sottratta al MiBAC e trasferita alle Politiche Agricole, anzi ad un Comitato agro-alimentare. «La Valle d’Itria insieme alle orecchiette», ha commentato l’urbanista Vezio De Lucia.
Gli archeologi in organico sono 343 per oltre 700 siti archeologici e monumenti dello Stato, spesso di dimensioni imponenti, e magari in località decentrate. Più altri 1300 siti su cui vigilare. Non va meglio con gli storici dell’arte scesi a 453 per altrettanti Musei dello Stato, più altri tremila circa su cui vigilare, centomila fra chiese e cappelle (nel Sud veri e propri musei), 734 musei ecclesiastici, ecc. Con fondi drenati spesso dalla «mostromania» dei Poli museali e con opere che vanno e vengono per il mondo. Magari per farsi pagare il restauro. Come uno dei Raffaello (la Muta di Urbino) spediti a Tokio. Una sorta di «accattonaggio di Stato». Analogo a quello ipotizzato nel decreto sulla Semplificazione che consente di «affittare», dietro compenso, all’estero reperti, quadri, oggetti oggi nei depositi. I quali, o valgono poco (e incassi meno), oppure ti guardi bene dall’esportarli. Del resto, secondo i dati del MiBAC, dal 2001 al 2011, i fondi disponibili sono precipitati dallo 0,39 % allo 0,20 % del bilancio dello Stato. Dimezzati. Fondi che arrivano agli organismi di tutela soltanto in ottobre, e volete che non si formino residui passivi?
Gli amministrativi del MiBAC risultano 4.407; custodi e ausiliari meno di 9.000. Tutti in costante calo, ovviamente. Funzionari e dipendenti dei 100 archivi di Stato sono per di più investiti da una «riforma» che sta suscitando proteste a non finire. Gli archivi nazionali si ridurrebbero infatti a 9 in tutto sopprimendo sedi come Genova che un bel po’ di storia ce l’ha alle spalle e che registra oltre seimila utenti all’anno. Follie burocratiche. Come l’accorpamento di tanti archivi locali (per esempio Fano, enclave malatestiana, accorpata a Pesaro, due storie diversissime, con maggiori anziché minori spese). Né stanno meglio le biblioteche, tanto ricche di materiali unici al mondo quanto povere di risorse. Al punto di doversi affidare ai volontari per non chiudere.
La prima cosa che dovrebbe fare il nuovo ministro? Probabilmente raspare un po’ di fondi per indire al più presto concorsi rigorosi. Prima che al MiBAC mettano il cartello «chiuso per vecchiaia». Tombaroli, mercanti, ladri d’arte, speculatori, saccheggiatori del paesaggio, fate pure.

Corriere 28.6.13
Immigrazione clandestina: perché non è un reato
risponde Sergio Romano


Mi permetta una replica, dissentendo, alla sua risposta a un lettore che chiedeva il perché non si debbano fare rispettare le leggi in vigore in Italia sui clandestini, leggi peraltro che se da un lato tendono a reprimere tale reato dall'altro sono anche garantiste nei confronti di chi invece fugge da Paesi in guerra. Ritengo che l'immigrazione sia un fenomeno molto complesso da non trattare con sentimentalismi del tipo “anche noi italiani eravamo immigrati un tempo o sfollati” ma da regolare con leggi giuste, umane ed adeguate, non dimenticando che vi sono continenti con milioni di abitanti che premono ai confini dell'Europa. Non dimentichiamo che i nostri italiani, quando emigravano, venivano messi in quarantena nel Paese di arrivo. Questo oltre un secolo fa.
Giorgio Gemelli

Caro Gemelli,
Per la verità il lettore da lei citato proponeva che l'immigrazione clandestina venisse considerata reato. Non ho cambiato opinione. Se è reato occorre necessariamente un processo, vale a dire nuovi impegni per una magistratura particolarmente lenta e afflitta da un colossale arretrato. Non credo d'altro canto che l'immigrato clandestino possa essere trattato alla stregua di un criminale. E non è vero d'altro canto che le autorità italiane siano totalmente prive di strumenti con cui fronteggiare il problema. Per le persone che vengono colte sul territorio nazionale senza permesso di residenza e di lavoro o con documenti scaduti, esistono 11 campi d'internamento dove erano trattenute, nel 2012, 7.994 persone. Gli «ospiti» dei campi sono soggetti a un ordine di estradizione, ma hanno spesso distrutto i loro documenti; e i consolati dei Paesi da cui verosimilmente provengono sono generalmente poco inclini ad assicurare la loro collaborazione.
Aggiungo che molti chiedono asilo e che le autorità italiane, in questo caso, sono tenute a valutare la domanda. Può darsi che dietro la richiesta vi sia soltanto la ricerca di un lavoro. Ma a sud della penisola italiana sono numerosi i Paesi dell'Africa e del Levante che soffrono di colpi di Stato, guerre civili, conflitti tribali. Secondo dati raccolti da Elisabetta Povoledo per un articolo apparso sull'International Herald Tribune del 5 giugno, i clandestini giunti in Italia dopo le rivolte arabe sarebbero 62.000 di cui 13.000 nel 2012 e 1.500 nei primi tre mesi del 2013. Secondo dati della Commissione di Bruxelles, gli immigrati irregolari nei Paesi dell'Unione Europea sarebbero più di mezzo milione.
Il miglior modo per affrontare il problema è quello di concludere accordi con i Paesi di provenienza: un compito che spetta oggi prevalentemente alla Commissione. Ma non è immaginabile, nel frattempo, che l'Italia tratti queste persone alla stregua di potenziali criminali. Il maggior problema italiano, se mai, è quello di migliorare le condizioni dei campi d'internamento e accorciare i tempi della detenzione (ora 18 mesi). Nel suo articolo Elisabetta Povoledo scrive che i campi sono gestiti da società private (vale a dire da quelli che nei Paesi occupati dalle forze armate americane vengono definiti «contractors») e che in questi ultimi tempi le condizioni di vita sono state duramente criticate da alcune associazioni umanitarie.

l’Unità 28.6.13
Obama in Africa: «Mandela eroe per il mondo»
Dal Senegal ha ribadito l’impegno contro l’omofobia
Dopo la Tanzania sarà in Sudafrica
di Gabriel Bertinetto


L’agonia di Nelson Mandela stende un velo di tristezza sul viaggio in Africa di Barack Obama. Il presidente americano dovrebbe arrivare in Sudafrica nel fine settimana e visitare l’isola di Robben, dove il leader della lotta contro l’apartheid trascorse in una cella umida 18 dei suoi 27 anni. Lì contrasse la tubercolosi che lo sta irrimediabilmente logorando.
Il capo di Stato Jacob Zuma ieri pomeriggio affermava che le condizioni di «Madiba» nelle ultime ore erano lievemente migliorate. Ma mercoledì sera la figlia Makaziwe, dopo averlo visitato in ospedale, aveva detto che la fine poteva sopraggiungere da un momento all’altro.
In Senegal, prima tappa dell’itinerario africano, Obama ha definito Mandela «un eroe per il mondo intero», la cui eredita morale sopravviverà nei secoli. «Madiba mi ha dato il senso di ciò che si può fare nel mondo quando le persone giuste lavorano insieme», ha aggiunto Obama, nel cui programma figurava ieri una visita all’isola di Goree, avamposto per secoli del traffico atlantico di schiavi neri. Con Obama la moglie Michelle, i cui antenati furono deportati in America dall’Africa. La scelta di visitare il Senegal non è casuale, così come non lo è la decisione di non mettere piede questa volta, a differenza del precedente viaggio africano, in Kenya, che pure è la terra d’origine del padre di Obama. In Senegal l’attuale presidente Macky Sall è stato eletto democraticamente. «Il Senegal è una delle democrazie più stabili dell’Africa e uno dei partner più forti che abbiamo nella regione» ha dichiarato il presidente Obama. «Si sta muovendo nella giusta direzione con riforme per rafforzare le istituzioni democratiche» ha aggiunto. In Kenya viceversa il capo di Stato in carica è accusato di crimini di guerra. Obama va a Dar-es-Salaam ed evita Nairobi, per sottolineare come il rispetto della democrazia sia un fatto discriminante nei rapporti di Washington con i Paesi africani.
In margine ai colloqui ufficiali, affiorano altri temi di stringente attualità americana e internazionale: i diritti dei gay e la vicenda Snowden. Mercoledì la Corte suprema degli Stati Uniti ha emesso una storica sentenza che mette sullo stesso piano i matrimoni omo ed etero. Il capo della Casa Bianca, pur nel rispetto di ogni fede e tradizione locale, esorta i governi africani a decriminalizzare i comportamenti omosessuali, perché la legge dovrebbe trattare tutti gli individui allo stesso modo. Il presidente senegalese Macky Sall nega che il suo Paese sia «omofobico». Il Senegal è «molto tollerante», afferma, e tuttavia «non è pronto» per cambiare le norme esistenti.
Quanto a Snowden, il presidente Usa vuole evitare che «il caso di una persona di cui cerchiamo di ottenere l’estradizione diventi oggetto di baratti e scambi riguardanti un cumulo di altre questioni». L’ex-collaboratore informatico della Nsa (National security agency), dal punto di vista di Washington, è solo un funzionario accusato di spionaggio. «Continuo ad aspettarmi che la Russia e gli altri Paesi che hanno parlato della possibilità di concedergli asilo, riconoscano di essere parte di una comunità internazionale e di doversi adeguare al diritto internazionale». Snowden sino a ieri sera si trovava ancora all’aeroporto di Mosca, dove è arrivato proveniente da Hong Kong. Obama nega di avere trattato la questione direttamente con gli omologhi russo e cinese, Putin e Xi.
«Queste sono cose che vengono discusse a livello di ufficiali giudiziari», afferma. E per meglio fingere che il problema sia meno importante di quello che in realtà tutti sanno essere per gli Usa, aggiunge: «Non farò certo decollare i jet per prendere uno hacker di 29 anni».

Corriere 28.6.13
L'istruzione Usa al tempo della crisi
di Massimo Gaggi


A ttenti, le condizioni che hanno consentito all'istruzione universitaria americana di diventare un modello per il mondo sono venute meno: sono cambiate l'economia, la società, la composizione demografica e, soprattutto, la tecnologia. Con la diffusione di quelle digitali, all'istruzione sta succedendo quello che è già capitato al giornalismo, all'industria della musica, al cinema.
Appena pubblicato negli Usa, College (Un)bound, un saggio di Jeff Selingo, un giornalista che studia le problematiche del mondo della scuola, fa discutere non tanto per l'originalità delle sue tesi quanto perché contiene analisi e dà voce a domande sulle quali molti americani hanno cominciato da tempo a riflettere, anche se ne parlano poco in pubblico temendo di essere accusati di sacrilegio: il «pezzo di carta» serve ancora?
A parte le poche accademie dell'eccellenza, quelle che godono di un prestigio mondiale, ha ancora senso spendere decine o centinaia di migliaia di dollari per conseguire una laurea che non solo non garantisce un impiego, ma non procura nemmeno gli skill professionali richiesti da un mercato del lavoro in continua evoluzione?
Il libro alla fine dà una risposta positiva, ma tra mille riserve. Il dubbio rimane e non riguarda solo l'università «made in Usa», visto che l'esigenza di un aggiornamento post-universitario continuo è la stessa in tutto il mondo. Ma quello americano resta il laboratorio più interessante da osservare, e non solo per le dimensioni del suo sistema accademico: 7.000 college e università che ogni anno incassano 147 miliardi di quote d'iscrizione dagli studenti. Gli Stati Uniti sono la culla di Internet, con la sua capacità di rivoluzionare tutto, anche l'istruzione, e sono anche il Paese nel quale vengono tentate esperienze nuove come l'Institute di Peter Thiel. Il miliardario cofondatore di PayPal offre 100 mila dollari a ragazzi di talento che rinunciano ai classici 4 anni spesi in un campus universitario e accettano la sfida di un percorso a cavallo tra studio e apprendistato nel quale vengono incoraggiati a trasformare le loro idee in start up.
Un progetto audace, per pochi «eletti», che offre gli insegnamenti del «saper fare», la capacità di risolvere problemi, ma li priva di gran parte della formazione di base. E che dà loro la possibilità di fare una vera esperienza lavorativa di 1-2 anni in una grossa azienda in luogo del solito stage di tre o quattro mesi che finisce quando il giovane ha cominciato ad ambientarsi e l'azienda ha cominciato a fidarsi di lui.
Thiel è un pioniere, ma il suo non è un caso isolato: dalla Mycelium School all'UnCollege di Dale Stephens, alle «start up artigiane» della Saxifrage School di Pittsburgh, al «social network» Zero Tuition College di Blake Boles, sono molte le iniziative che stanno nascendo per bypassare con esperienze di vario tipo un'università percepita come troppo costosa e priva di senso pratico. Accettata fin quando garantiva comunque uno sbocco lavorativo e aveva costi sostenibili, viene messa in discussione ora che la disoccupazione è alta anche tra i laureati. Che, per di più, entrano nel mondo del lavoro con un debito di studio di 100-200 mila dollari da ripagare.

Repubblica 28.6.13
Le due anime
Turchia. Il velo e i blue jeans
di Bernardo Valli


La classe media di Istanbul è divisa tra miti e mode dell’Occidente e nuovi riti dell’Islam. Ma unita contro il pugno di ferro di Erdogan
Undici anni dopo l’avvento al potere del partito islamico-conservatore di Erdogan, a Istanbul si affiancano distinti modi di vita: quello della borghesia che ha radici nella repubblica laica di Ataturk e quello di chi ha tratto profitto dal miracolo economico targato Akp. Mondi spesso avversi che si sono ritrovati durante le proteste: insieme per dire no all’autoritarismo del primo ministro

Vado a Basaksehir, più di venti chilometri a Ovest dal centro della città, sulla sponda europea, per una visita che sta tra l’esplorazione e l’indagine. Sono all’ambiziosa ricerca di quel che ha provocato le manifestazioni di piazza Taksim. A malincuore mi lascio alle spalle il Bosforo, il Mar di Marmara, il Corno d’Oro, ed entro nei quartieri satelliti della metropoli di quindici milioni di abitanti. Dall’azzurro del mare al grigio del cemento; dai classici minareti di Sultanahmet agli sfacciati grattacieli del miracolo economico turco, in gara con il primato di quello cinese. Prendo l’autostrada per Edirne, l’antica Adrianopoli della Tracia orientale, e lungo il percorso vedo lo straordinario inurbamento di un paese un tempo contadino. Quasi l’ottanta cento della popolazione ha lasciato la campagna per le città. Istanbul non finisce mai. Neppure arrivato a Basaksehir ne vedo l’estrema periferia.

Il primo ministro Erdogan, nostalgico dell’impero ottomano, personaggio invadente, sognatore e moralista, la vorrebbe austera e al tempo stesso ancora più grande, più nuova, alla pari o meglio delle principali capitali del mondo. Non era anch’essa una capitale quando ospitava il califfo? A Erdogan non mancano le idee: vuole un terzo aeroporto; un terzo ponte tra le due sponde del Bosforo; un tunnel sottomarino tra la riva asiatica e quella europea. Vorrebbe spendere quattrocento miliardi di dollari, più della metà del Pil, in opere da costruire prima del 2023, quando si celebrerà il centenario della Repubblica turca, fondata da Mustafa Kemal Ataturk. Le manifestazioni di piazza Taksim sono state anche una reazione, un segno di smarrimento, un capogiro, di fronte a questa valanga di progetti riversati sul Bosforo. Ma c’è qualcosa di più profondo.
A mandarmi a Basaksehir, uno dei trentanove distretti della Grande Istanbul, formato da una costellazione di quartieri con un totale di almeno un milione di abitanti, è stato un sociologo dell’Università Bahcesehir. Me l’ha quasi ordinato. Non sono le sue esatte parole, ma ha detto in sostanza: se ti lasci incantare dal Bosforo, come un turista davanti al Colosseo, non capirai nulla della Turchia d’oggi; se vuoi sapere cosa è accaduto in piazza Taksim devi inoltrarti nella metropoli; attraverso il paesaggio urbano scoprirai il significato degli avvenimenti che nelle prime due settimane di giugno hanno rivelato la nuova società turca. Per lui, per il professore della Bahcesehir, quegli avvenimenti sono stati qualcosa di simile a una tentata consacrazione della democrazia ancora incerta, interrotta dalla violenza e dal sangue, ma soltanto rinviata. Il primo ministro la pensa in un altro modo, per lui sono stati un attentato alla sicurezza nazionale ordito da forze straniere, e sventato dall’eroica polizia. E così ha cercato di risvegliare la “sindrome di Sèvres”, come i turchi chiamano il complesso d’accerchiamento, di persecuzione, riferendosi al trattato che nel 1920 smembrò l’impero ottomano sconfitto. Un’esagerazione.
In poco meno di vent’anni, in un’area un tempo riservata all’esercito, è stato costruito il distretto di Basaksehir, via via popolato con criteri ben precisi, al fine di garantire l’omogeneità religiosa e un’adeguata osservanza dei precetti annessi. Il tutto in una versione borghese. Insomma una città satellite fatta su misura per gli elettori dell’Akp, il partito islamo- conservatore di Erdogan, che prima di diventare primo ministro è stato sindaco di Istanbul. Basaksehir è uno dei laboratori in cui è stata concepita, realizzata la nuova classe media. Quella che le telenovela turche hanno pubblicizzato nel mondo musulmano, fino a farne un sospirato modello di Islam moderno, del Ventunesimo secolo, per le primavere arabe. Dal 1994 in poi si sono insediate in questo ampio spazio urbano famiglie in gran parte a basso e medio reddito, provenienti dai piccoli centri rurali dell’Anatolia e attirate dalla possibilità di diventare proprietarie, grazie ai crediti agevolati. E quindi candidate a una promozione sociale. Erano, lo sono ancora, i tempi gloriosi delle “tigri dell’Anatolia”, del veloce sviluppo economico che ricorda quello delle “tigri” del Sud Est asiatico. Il Pil cresceva e crescevano i redditi individuali.
La mia guida, una sociologa, ha seguito la nascita e lo sviluppo di Basaksehir e la formazione della neo borghesia musulmana che la popola. Dagli abiti delle passanti capisce il loro livello di imborghesimento. Le donne non ancora del tutto liberate dall’impronta contadina nascondono i capelli con foulard multicolori, vistosi. Le più ricche preferiscono copricapo sobri: neri, grigi o marrone. Prima di annodarli sotto il mento, molte ragazze li avvolgono attorno al collo. La loro disinvoltura sarebbe riconoscibile dal modo in cui esibiscono quello che noi chiamiamo impropriamente il “velo islamico”. E comunque lo accompagnano con blue jeans. Si differenziano per l’abbigliamento assai più spigliato, le numerose hostess che abitano a Basaksehir, non distante dall’aeroporto Ataturk di Istanbul. Si distinguono anche le trecento famiglie di ufficiali in pensione, o epurati in seguito al declassamento politico dell’esercito, rimasti nella zona come relitti kemalisti (laici), in un mare musulmano. Sono eccezioni che mettono in risalto l’omogeneità della neoborghesia religiosa. All’inizio la città satellite non è stata concepita come un insieme di comunità recintate, poi sono stati però innalzati muri di protezione per i quartieri e le case individuali, sono stati moltiplicati i cancelli e assoldati schiere di guardiani per sorvegliare gli ingressi. Crescevano i redditi e si accentuava l’autosegregazione di ispirazione americana. La quale si è sviluppata insieme al sentimento di vivere in una zona sempre più residenziale, con l’implicita promozione sociale degli abitanti. Così si è affermata la consapevolezza di appartenere ormai a una classe privilegiata e, quel che più conta, di avere raggiunto o di essersi avvicinati alla vecchia borghesia laica, insediata all’estremità nord- ovest di Istanbul.
Il risultato è che undici anni dopo l’avvento al potere del partito islamico-conservatore, nell’ex capitale imperiale si affiancano, sopravvivono o si sviluppano, due distinti modi di vita. I quali si imitano, si invidiano, si ghettizzano, si mischiano. Da un lato una borghesia con le radici nella repubblica laica di Ataturk, dall’altro una borghesia frutto del miracolo economico adesso gestito da un islamismo oscillante tra democrazia e autoritarismo.Benché estranei uno all’altro questi due universi si influenzano a vicenda. Nonostante le origini ben distinte cominciano a disegnarsi linee di convergenza: nel modo di pensare, nei comportamenti, nell’estetica.
A Piazza Taksim la convergenza ha prevalso sulla divisione. Il polarismo non è scomparso, sopravvive, ma le diverse entità hanno trovato punti in comune. Molte ragazze di Basaksehir hanno raggiunto il centro di Istanbul per partecipare alle manifestazioni. I loro foulard islamici si distinguevano tra le capigliature scoperte. E adesso parlano della loro esperienza con emozione. Gümüs, foulard islamico e jeans, e laurea in letteratura americana, si fa attenta quando le dico che le giornate di piazza Taksim mi ricordano, per certi aspetti, il maggio ’68. Le elenco i principali mutamenti provocati dalla rivolta giovanile europea e cito anche una certa liberazione sessuale. Reagisce subito, come se avessi infranto un tabù: «No, non c’è una somiglianza tra quel ’68 e le nostre manifestazioni». Un professore universitario, Cengiz Aktar, sostiene che piazza Taksim non è stata una reazione laica all’islamismo rampante, ma una generale ripulsa dell’autoritarismo di Erdogan. La sua megalomania sul piano urbanistico e la sua intrusione nella vita intima della gente avrebbero provocato un rigetto, sia tra i laici sia tra i religiosi. Gli uni e gli altri, insieme, hanno girato le spalle a un padre invadente.
Un tempo il primo ministro voleva persino che l’adulterio ritornasse ad essere considerato un reato. Fu dissuaso dalle reazioni europee. La limitazione nel consumo dell’alcol è apparsa a molti un inutile accanimento, poiché non c’è alcolismo in Turchia, e perché colpisce una vecchia tradizione militare kemalista. Negli anni ruggenti della repubblica di Ataturk un ufficiale che non beveva alcol era guardato con sospetto. Alcune idee sono state prese come violazioni della libertà individuale: quella di disciplinare l’aborto, quella di suggerire un uso più attento del taglio cesareo, quella di consigliare almeno tre figli ( o addirittura cinque).
Il 6 giugno scorso viene citato come esempio. Quel giorno ricorreva una festa musulmana e i manifestanti laici, moderati o di sinistra, hanno sospeso l’uso dell’alcol per rispettare i manifestanti religiosi che avevano abbozzato una piccola moschea. Così su piazza Taksim e nell’annesso parco Gezi si è creata un’imprevista unione, avvalorata dal fatto che gli slogan ostili erano soprattutto rivolti contro Erdogan e molto di rado contro l’AKP, il suo partito. Le giovani di Basaksehir (Gümüs compresa) unitesi alla protesta erano elettrici del partito, e penso lo resteranno. Ma non lo saranno più di Erdogan. Come se la caveranno resta un’incognita.

La Stampa 28.6.13
Israele alla guerra degli hamburger
McDonald’s non apre in Cisgiordania e i coloni minacciano il boicottaggio
Il patron della catena ha un passato da attivista in “Peace Now”: nessun punto dietro la Linea Verde

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La Stampa 28.6.13
Un mistero in Cina. I bancomat a secco
Da una settimana le banche non danno più soldi
di Ilaria Maria Sala


Liquidità sparita In questi giorni per fare acquisti in Cina bisogna usare per forza i mezzi di pagamento elettronici perché le banche non forniscono più denaro liquido

Che cosa sta succedendo al contante in Cina? Dalla settimana scorsa, tanto gli sportelli bancari che molti bancomat hanno smesso di fornire contante, e perfino le operazioni di online banking di alcuni istituti di credito sono affette da una mancanza di cash finora senza spiegazione ufficiale. E nessuno ha informazioni precise su fino a quando potrà durare quest’improvvisa assenza di contante.
La prima banca a bloccare gli sportelli è stata la Icbc, la più grossa banca commerciale statale cinese, e poi, in alcuni giorni, la stessa Bank of China.
Chan Weici, giovane impiegata di Shanghai, commenta che «neanche stamattina funzionavano… bisogna fare con le carte di credito», e sospira con rassegnazione. Da lontano si vede un bancomat che appare animato, ma avvicinandosi speranzosi si nota solo un corriere espresso e un’impiegata che firma un plico, e la porta resta chiusa davanti a chi sventola speranzoso la tessera. Però nessuno sembra farsi prendere dal panico. Le conversazioni intorno ai bancomat inutilizzabili sono pacate, e Zhou, un passante, dice solo che «si vede che stanno litigando», puntando un dito verso l’alto quando gli si chiede a chi si stia riferendo. Il governo e le banche commerciali arrivate ai ferri corti?
Alcuni comunicati bancari hanno cercato di dire agli utenti che le difficoltà di questi giorni provengono da un upgrade informatico, ma nessuno dà credito a questa spiegazione. Quello che appare evidente è che il «credit crunch» che colpisce le banche cinesi è la tappa più seria che si sia avuta finora in quella che era stata una scaramuccia solo verbale: il governo centrale – e in particolare in nuovo premier Li Keqiang – da mesi dice alle banche di restringere il credito, senza risultati. Così, ecco che il credito si sarebbe improvvisamente bloccato, e la decisione di alcune banche commerciali di non erogare più nemmeno contante è il gesto supremo con cui esprimono tutto il loro disappunto nei confronti della Banca centrale. Che continua invece a richiedere che cessino i prestiti pericolosi e che i conti siano rimessi in ordine.
Dopo giorni di silenzio, infatti, la Banca si è espressa lunedì scorso (giorno del maggior calo alla Borsa di Shanghai, che aveva perso il 5,3%) con un comunicato sul suo sito web: «Le banche commerciali devono prestare attenzione alla liquidità nei mercati e rafforzare le loro analisi e previsioni dei fattori che potrebbero avere un impatto sulla liquidità».
E le banche hanno sospeso i crediti interbancari, e secondo un operatore della Icbc interrogato dalla rivista di economia e finanza Caixin, «abbiamo sospeso i prestiti, potremmo ricominciare a erogare crediti nel mese di luglio» per quanto Caixin dica anche che la Banca dell’Agricoltura ha ancora liquidità, e che l’obiettivo della Banca centrale sono le banche semi-ufficiali e i trust cinesi, che hanno contribuito alla bolla finanziaria. Dopo anni di falsi allarmi, il governo centrale vorrebbe ora affrontarla con metodi forti.
Giovedì entrambi i listini cinesi hanno di nuovo chiuso in calo, portando Shanghai ai livelli più bassi dal 2009 (inizio della crisi finanziaria globale).
Hu Shuli, in un editoriale su Caixin, ricorda che l’economia cinese ha ormai raggiunto il punto in cui ristrutturare è vitale, ma che la stretta sui crediti «deve essere accompagnata dariforme».
Per chi come Chan o Zhou vorrebbe solo trovare con facilità il denaro a uno sportello bancomat, le riforme future tese a ridurre i rischi dell’economia cinese – la cui crescita rallenta, e che è piagata da inventari in eccedenza, da un enorme debito delle amministrazioni locali e dall’attuale bolla finanziaria – si stanno traducendo per ora in una situazione davvero inaspettata.

La Stampa 28.6.13
Il futuro sudcoreano della Cina
di Christopher R. Hill


I cosiddetti colloqui a sei - il meccanismo internazionale a intermittenza usato da Stati Uniti, Cina, Russia, Corea del Sud e Giappone per negoziare con la Corea del Nord le sue aspirazioni nucleari - sono spesso citati come esempio di diplomazia multilaterale. In realtà, i colloqui sono serviti come piattaforma per affrontare una serie di questioni che vanno ben di là dal problema nucleare del Nord Corea, favorendo allo stesso tempo i legami e le relazioni bilaterali nella regione.
Per i cinesi, in particolare, i colloqui sono stati l’occasione per conoscere meglio alcuni dei loro vicini di casa - e hanno certamente contribuito alle relazioni sino-americane. Ma forse la principale relazione bilaterale rafforzata dal meccanismo a sei è quella tra Cina e Corea del sud. Questo apparirà chiaro alla fine di giugno, quando il nuovo presidente della Corea del Sud, Park Geun-Hye, andrà in visita a Pechino per incontrare il nuovo presidente della Cina, Xi Jinping.
Cina e Corea del Sud non hanno bisogno di reciproche presentazioni, naturalmente - tale è il peso della storia della regione. Ma il loro rapporto è destinato a cambiare, grazie in parte ai modelli della cooperazione ufficiale che i colloqui a sei hanno creato.
Se i cinesi riescono ad abbandonare il Nord Corea devono trovare un altro punto di riferimento. E questo posto è Seul. Dopotutto, la Cina ha bisogno di un rapporto sostenibile con la vicina penisola coreana.
In questi ultimi decenni il rapporto bilaterale è diventato più stretto grazie all’attiva esplorazione del mercato cinese da parte di grandi gruppi industriali del Sud Corea. Oggi, il loro commercio bilaterale mette in ombra quello tra la Cina e la Corea del Nord. Eppure, il rapporto ha sempre avuto una dinamica politica limitata. Dati gli stretti legami della Cina con il Nord, i suoi leader non hanno mai avuto intese troppo cordiali con i governi democraticamente eletti della Corea del Sud, tanto di destra come di sinistra.
Ma la Cina sta per sperimentare qualcosa di nuovo: la diplomazia della Corea del Sud, impersonata da Park, che rappresenta una coalizione di centro-destra ma sfida le solite etichette politiche. In effetti è stata eletta con una curiosa miscela di sostenitori: quelli di destra del padre, Park Chung-hee, che ha governato il paese con il pugno di ferro dal 1961 al 1979, e molti altri coreani, tra cui alcuni esponenti della sinistra, che volevano qualcuno diverso dal solito politico coreano in giacca blu e camicia bianca.
Park è molto determinata per quanto riguarda la sicurezza nazionale, ma affronta nuove sfide e ordini del giorno con una rinfrescante combinazione di energia intellettuale e tranquillità personale. Ascolta attentamente e fa una pausa prima di rispondere. Inoltre, si dice che stia prendendo in considerazione la possibilità di pronunciare il suo discorso a Pechino in mandarino. Un gesto del genere sarebbe destinato a far colpo non solo sui leader cinesi, ma anche sui comuni cittadini.
L’influenza della Corea del Sud è ben meritata e si estende in tutta l’Asia. Le sue conquiste culturali e scientifiche sono sempre più note in tutto il mondo. Anche quando le relazioni con il Giappone sono difficili, i turisti giapponesi affollano Seul per fare shopping e visitare gli studi che producono le fiction televisive del Paese che godono di uno straordinario successo. La visita di Park in Cina darà a questa capacità di affascinare un volto umano.
Durante la sua visita non sono previsti nuovi accordi o altre novità diplomatiche. I cinesi la valuteranno con attenzione, e può ben essere che la vedano immediatamente come un alleato se la Corea del Nord dovesse perseverare nel suo attuale corso di isolamento e oblio.
I cinesi sanno che Park ha a cuore il rapporto con gli Stati Uniti ma capiscono anche che lei, come i più maturi tra i leader della Corea del Sud, desidera altresì un solido rapporto con la Cina, basato (a differenza dei secoli passati), sul rispetto reciproco. Ai leader cinesi interesserà anche sapere cosa pensa del Giappone, soprattutto in considerazione delle inclinazioni del padre, che servì come ufficiale dell’esercito imperiale giapponese durante la seconda guerra mondiale.
La visita di Park arriva in un momento in cui la nuova leadership cinese è alle prese con problemi vicini e lontani. Il riluttante allontanamento dalla Corea del Nord, per quanto evidente, non dev’essere considerato come un fatto compiuto, né dovrebbe essere spiegato come il risultato di un momento di frustrazione per il comportamento adolescenziale di Kim Jong-un, il ragazzo a capo della Corea del Nord.
Nel corso dei secoli, i cinesi hanno imparato un paio di cose sulle dinastie e capiscono quando hanno i giorni contati. Inoltre la Cina si sta sviluppando in un modo che sarà molto più facile valutare a posteriori di quanto non si possa fare oggi. E, se il recente passato della Corea del Sud può fare da guida, la trasformazione economica della Cina probabilmente sarà seguita da cambiamenti politici e sociali di proporzioni altrettanto drammatiche.
Così, il modo in cui i cinesi accoglieranno Park potrebbe rivelarsi non tanto come un riflesso del cambiamento in Corea del Sud quanto quello del cambiamento in atto nella Repubblica popolare - una questione che va al cuore dell’identità e della missione della Cina nel mondo moderno.

Corriere 28.6.13
Non trascurare i progressi della Cina
di Giuliano Noci


Obama e Xi si sono incontrati nella cornice di una Cina che sta cambiando profondamente. Xi Jinping e Li Keqiang conoscono molto bene il mondo occidentale. Di più, e assai prima, del milione e mezzo di connazionali che hanno visitato gli Usa nel 2012: una vera e propria esplosione turistica che porta gli Usa ad essere la principale destinazione del turismo cinese fuori dall'Asia, e i viaggiatori cinesi a detenere il primato di spesa pro capite tra tutti i viaggiatori stranieri (con una spesa per lo shopping del 70% superiore rispetto alla media). L'interesse cinese spazia ormai a 360 gradi e, complice la necessità dei governi di privatizzare asset e attirare capitali freschi, la nuova passione asiatica riguarda le infrastrutture: porti, aeroporti, telecomunicazioni e utility. Il boom conferma più di ogni altra cosa come la Cina guardi ormai fuori dai propri confini, in politica ed in economia. Dobbiamo dunque cambiare in fretta la nostra idea sull'ex Impero di Mezzo. Fin qui l'avevamo pensato come un Paese che, sul versante economico, esporta i propri prodotti in nome di un vantaggio di costo e, da un punto di vista politico, è fortemente ancorato a una dimensione interna, in conseguenza anche della sua complessità sociale e culturale.
Ma la sua crescita è stata così vorticosa — prendiamo le auto: 4 mln nel 2000; 19 nel 2005; 85 nel 2010; 200 milioni, la stima per il 2020! — che la macchina dell'economia ha bisogno di nuovi cavalli. Si tratta di una crescita che si accompagna con il soft power della cultura e dell'immaginario grazie al moltiplicarsi — 1780! — degli Istituti di Confucio e alla diffusione della Cctv (China Central Television) in lingua inglese e araba. La Cina punta inoltre con decisione sul talento e sul merito, tanto che nascono università cinesi fuori dai confini nazionali: a Londra, partono i corsi dell'Imperial College con l'Università dello Zhejiang. Incoraggia l'apertura di centri di ricerca, fuori dai confini, con l'obiettivo di sviluppare innovazione proprio là dove il mercato è più avanzato: come ha fatto Huawei con il primo laboratorio fuori dalla Cina, a Milano, nell'assunto che il mercato delle telecomunicazioni mobili in Italia sia particolarmente avanzato. Investe all'estero: negli Usa, ad esempio, con una crescita del 300% rispetto al 2007; tra gennaio e febbraio 2013, lo shopping cinese all'estero è addirittura aumentato del 147% rispetto allo stesso periodo del 2012, per un totale di 18,39 miliardi di dollari e il discorso riguarda proprio noi europei tanto che gli investimenti di Pechino in Europa, in costante aumento dal 2008, sono più che triplicati negli ultimi due anni (circa 7,6 miliardi nel solo 2012).
Sul fronte identitario, la Cina si è resa conto che non può più essere workshop a basso costo del mondo. Deve quindi affrontare il cambiamento gestendo la dicotomia tra continuità e cambiamento: non può, infatti, permettersi una discontinuità troppo forte. Alcuni investimenti diretti esteri (in Africa e in Asia) si spiegano nella logica della continuità (basso costo); altri sono da interpretarsi in chiave di acquisizione di know how/innovazione (Usa, Ue) e affermano un nuovo posizionamento, una nuova Cina: che non solo esporta ma crea posti di lavoro e rimpingua, attraverso le tasse pagate, le casse degli Stati ospitanti. Un processo di rafforzamento di immagine che è confermato, come si è visto, anche dagli investimenti televisivi e dalla creazione di università all'estero.
L'incontro al Ranch di Sunnylands ha dunque rappresentato un vero e proprio reset del dialogo strategico tra Usa e la «nuova Cina». Nascerà una nuova Chimerica, fondata su relazioni diplomatiche più forti, con non pochi riflessi sulle politiche comunitarie. La recente introduzione di dazi sui pannelli solari cinesi testimonia invece di quanto inadeguata sia questa nostra Europa: continua a vedere una Cina che non c'è più e non si accorge che, così facendo, tarpa le ali alle imprese europee lanciate alla conquista di un enorme mercato. La reazione di Pechino — l'avvio di una procedura tariffaria sull'export di vino dall'Europa — è la risposta a una vecchia agenda che dobbiamo assolutamente cambiare. E l'Italia? Sonnecchia. Soprattutto se vuole veramente raggiungere l'obiettivo di attrarre un milione di visitatori cinesi all'Expo del 2015. Una «fedeltà» asiatica al nostro Paese che deve essere conquistata solo attraverso la consapevolezza sulla «nuova Cina».
Ordinario di Marketing al Politecnico di Milano

Repubblica 28.6.13
La sindrome di Weimar
Il premio Nobel e il leader Spd Peer Steinbrück sulla sinistra e sui pericoli per la democrazia
Grass: “Il silenzio degli intellettuali rovina dell’Europa”
di Andrea Tarquini


BERLINO «La sinistra deve ritrovare il coraggio d’essere creativa come ai tempi di Willy Brandt e di Olof Palme, per affrontare le cupe sfide attuali alla democrazia. E gli intellettuali progressisti devono uscire dal loro assordante silenzio. Se altrimenti finirà male, non si potrà dire “non è stata colpa mia”». Il monito, facile indovinarlo, è di Günter Grass. In un dialogo-contraddittorio con il candidato Spd alla Cancelleria Peer Steinbrück nella sede del partito, a meno di tre mesi dalle elezioni, il Nobel è tornato in campo. Proponendosi come ispiratore e critico scomodo, dalla lingua spietata. Ecco il suo dialogo con Steinbrück, moderato dal più famoso leader Spd dell’Est tedesco, Wolfgang Thierse.
Thierse: Günter, oggi torni in campo. Quando e come decidesti negli anni Sessanta di schierarti con Brandt?
Grass:Quando lui, borgomastro di Berlino Ovest che lottava in piazza a fianco di Kennedy contro il Muro della vergogna costruito dall’Est, venne diffamato dal “cristiano” Adenauer come “figlio illegittimo” ed “esule”, perché Willy fu partigiano in Norvegia. Dovetti superare un duplice scoglio interno, per decidere di propormi a lui come intellettuale impegnato. Lo scoglio dell’ammirazione infinita che io – in gioventù stupidamente sedotto dal nazismo, militare nelle Ss, convinto fino all’ultimo nella vittoria finale del Reich – provavo per lui che in guerra, al contrario di me, aveva già capito come doversi schierare, e che cosa il conflitto in cui io credevo avrebbe provocato alla Germania e al mondo. Avevamo entrambi i media contro: lui per la coerenza di sinistra e la Ostpolitik, io perché considerato un anarchico: i miei punti di riferimento non erano i classici, bensì Albert Camus e Jean-Paul Sartre.
Thierse: Peer, quando iniziò la tua militanza?.
Steinbrück: Nel ’69, poco dopo che Grass aveva fondato l’iniziativa pro-Spd degli intellettuali in campagna elettorale. Fu un segnale grande. Gli intellettuali portarono al fianco della Spd lo Zeitgeist, lo spirito del tempo della società. Ci vorrebbe anche oggi, per la sinistra in Germania e in tutta Europa.
Thierse: Günter, come immaginavi e immagini il ruolo dell’intellettuale impegnato di sinistra?
Grass: Un ruolo di voce scomoda, sempre capace di dire le cose più spiacevoli. Una voce critica: allora saltando la siepe dell’ammirazione sconfinata per Brandt, e critica più che mai oggi contro i troppi silenzi e ritardi della sinistra democratica europea. Allora cercavo di star vicino a Brandt anche nei momenti di depressione. Ma lui aveva una statura che troppo spesso ai leader politici di oggi manca, anche a sinistra. Resisteva alle diffamazioni, ebbe l’idea geniale della Ostpolitik, mano tesa a Polonia e Urss restando fedele alleato degli Usa. Scrisse per l’Onu il profetico Rapporto Nord-Sud, che la sinistra dovrebbe ancora rileggersi oggi. Lui vedeva lontano, capì allora che il divario crescente ricchi-poveri avrebbe portato guerre e terrorismo. Ecco di quali visioni, di quali capacità di avvistare problemi in tempo, sento oggi la mancanza a sinistra. E al tempo stesso c’è bisogno del suo grande pragmatismo nell’azione quotidiana di governo. Ecco perché voglio essere una voce amica, ma molto scomoda per la sinistra europea.
Steinbrück: Ma non sempre Brandt seguì i suoi consigli. Che si aspetta dalla sinistra attuale?.
Grass:Insisto, non sono né hegeliano né un idealista tedesco, furono le polemiche tra Sartre e Camus a formarmi. Il tema sono le scelte necessarie: la sinistra come Sisifo, oggi al pari di allora.
Steinbrück: Insomma, Grass voleva e vuole essere consigliere,mentore, mugugnone, tutto insieme. Può e potrà essere molto irritante. Ma con Brandt mostrò come politici e intellettuali possono condurre un pas-de-deux. Quel tipo di pas-de-deux con gli intellettuali cambiò la Spd. Io mi auguro un nuovo impegno degli intellettuali nel dibattito politico, nella Germania d’oggi. Non lo vedo, purtroppo per la sinistra. L’ultimo grande impegno pubblico degli intellettuali tedeschi fu la querelle degli storici sulle tesi di Ernst Nolte sul nazismo. Oggi pesa il loro silenzio, anche su quel grande ideale di Brandt, una Germania buona amica di tutti i vicini, ideale oggi rovinato dall’inflessibile rigore che Angela Merkel cerca di imporre a tutti. In una Germania dove le disuguaglianze so-ciali si aggravano. Queste sfide, le carenze di noi politici di sinistra e i silenzi degli intellettuali possono minacciare di strappare alla sinistra la sua aspirazione originaria a essere la voce della modernità.
Grass: Ha ragione, i rapporti con i partner europei sono al peggio, la sinistra anche su questo dovrebbe dire di più. Merkel ha una doppia formazione: prima abituata ad adeguarsi per opportunità quando era nella Fdj, la gioventù comunista dell’est, poi alla scuola di tattica del potere ai tempi di Helmut Kohl. Anche il compito di ricostruire i rapporti in macerie con i partner è una sfida per la sinistra in un’Europa e in un mondo dove il rigore, lo strapotere delle lobbies sui Parlamenti, le nuove povertà, allontanano molti elettori e anche noi intellettuali. Weimar cadde perché solo due partiti, Spd e Centro, e troppi pochi cittadini vollero difenderla, non dimentichiamolo.
Steinbrück: Insisto, perché tanti intellettuali rifuggono dall’impegno?
Grass: La generazione mia e di Brandt fu scottata dal nazismo, dalla guerra, dai crimini tedeschi. Oggi s’allontana la memoria del terribile interrogativo di allora, perché una società civile come Weimar cadde sconfitta dal nazismo. Il motivo principale fu che, appunto, pochi la difesero. Anche pochi intellettuali, salvo Tucholsky e qualche altro. Scrittori e intellettuali di oggi sono cresciuti in tempo di pace, non hanno vissuto quelle memorie. Lo stesso vale per i politici. È necessario impegnarsi, ripeto. Per la giustizia sociale, contro lo scandalo della crescente povertà che colpisce anziani e tanti giovani, anche nella ricca Germania. Battersi per un’Europa che diventi politicamente legittimata, con poteri eletti e in equilibrio tra loro. Osare più democrazia, lo slogan con cui Brandt vinse, deve tornare valore centrale della sinistra in tutta Europa. Ripetere parole, frasi, concetti è letale per il letterato, ma indispensabile in politica. La crisi dell’Europa tra povertà e sfiducia nella politica non deve per forza far scoccare l’ora dei nazionalismi populisti, può far scoccare l’ora delle socialdemocrazie. Dobbiamo riuscirci.