domenica 30 giugno 2013

il Fatto 30.6.13
Larghe intese
Pacificatevi e governate con il condannato
Pacificazione nazionale per salvare il Caimano
Alle elezioni al Pdl verrà riconosciuto il merito di aver consentito di governare per il bene del Paese
Il Pd invece verrà ricordato per il silenzio e il subordine
di Furio Colombo


Forse anche Berlusconi si meraviglia e dice ai suoi: visto? non succede niente. Non solo, ma tutti ti onorano, tutti ti ricevono, presidente qui, presidente là, carabinieri e prefetti, scorte di grandiosità teatrale in modo da far capire il senso e il valore della persona. Entra ed esce dal Parlamento e dal Quirinale l’uomo interdetto a vita dai pubblici uffici a causa della natura particolarmente squallida dei reati per i quali è stato condannato.
Quanto ai suoi seguaci si dividono in tre grandi gruppi. Uno va in piazza a dire, con una certa autorità, che c’è poco da condannare, siamo tutti come lui, senza legge e libertini e non è il caso di fare tante storie per le minorenni. Un altro dei gruppi forma “l’esercito di Silvio”, ovvero è pronto a combattere. Si può anche prenderla a ridere, ma senza dimenticare che Berlusconi ha tanti difetti ma i suoi impegni li mantiene. Con il terzo gruppo andiamo al governo insieme. Questa è e resterà la vicenda più strana nella tormentata storia della nostra Repubblica: l’opposizione al completo che va al governo, e anzi presta la faccia numero uno del governo, per associarsi a un condannato a sette anni di reclusione, appena interdetto dai pubblici uffici. Lo ripeto perché non ci credo. Infatti, se mi dite che è necessario per il bene del Paese in un momento difficile, posso dire che anche il 1944 era un momento difficile e infatti l’idea di certi servizi segreti anglo-americani era che fascisti e partigiani dovevano governare insieme invece di combattersi (però, in quel caso, senza Mussolini).
E ANCHE IL 1990 era un anno difficile. Tanto che qualcuno aveva pensato che una trattativa con la mafia avrebbe potuto evitare le stragi e diminuire lo scontro. Della mafia e dello Stato forse sapremo dai tribunali e sapremo da processi in corso. Ciò che accadde in Italia nel 1944 lo documentano gli archivi storici americani: Roosevelt si oppose risolutamente ordinando sostegno ai partigiani italiani che avevano annunciato: continueremo a combattere.
Ciò che accade adesso ha qualcosa di incomprensibile. Infatti se il governo così come festosamente ce lo raccontano (ogni giorno una trovata priva di conseguenze) continua, non può che svuotare il Pd di ogni valore residuo e possibilità di distinguerlo dalla sua parte avversa (o almeno ritenuta tale fino a un momento fa). Se si spezza prima cade nel vuoto. Ti portano statistiche che annunciano “una rimonta” del Pd. Ricorderete che ne abbiamo viste tante di queste rimonte, quando le elezioni sono lontane. Le risposte infatti hanno a che fare con la visibilità televisiva dei partecipanti al sondaggio, e adesso tocca a Letta, che annuncia, purtroppo a vuoto, una cosa buona al giorno. L’annuncio – lo avrete notato – è sempre seguito, nei migliori Tg di Stato, dalla frase, redazionale o attribuita, “siamo sulla strada giusta”. Ma, intanto, l’uomo che possiede il controllo di tutta l’informazione italiana, pubblica e privata, non sarà accompagnato fuori da nessun pubblico ufficio, ritornerà indisturbato in tutte le televisioni, quando vuole e come vuole. E andrà subito in onda, anche tre volte al giorno, contando le radio. Sa come riprendersi i voti, con la collaborazione dei migliori conduttori di talk show.
Avrete notato dal linguaggio, privo di riferimenti alla realtà, ma molto insultante, violento, volgare, efficace, la capacità rapidissima di trasformazione del mite alleato Pdl in feroce animale da combattimento. Avete visto nulla di simile dentro o intorno a Pd? Nel Pd vi diranno: ma noi siamo diversi. Mettiamo che sia vero. Proprio quella diversità fa da coperta e da alibi agli attuali compagni di governo. Quando torneranno al loro “mode” di attacco lo faranno con in più il prestigio di chi ha governato insieme, con chi tenterà di accusarli. Di che cosa, se erano insieme? Non dimenticate che, nel teatro elettorale, a loro tocca la marcia trionfale di chi ha benevolmente consentito di governare per il bene del Paese mentre il Pd “non aveva i numeri”. Il Pd invece verrà ricordato per il silenzio, e per la collaborazione stretta, dunque per il subordine.
DIRETE che poi verrà Renzi e scardinerà tutto. Ma Renzi è in favore di ciò che sta accadendo, “pacificazione” inclusa. Allora direte che Renzi si prepara a fare un Letta bis.
Essendo Renzi, sarà due volte più bravo. Ma la strada è quella. Pacificazione. Il contrario del voto popolare. E qui, francamente, diventa difficile immaginare, persino per Renzi, un senso che non sia grottesco nel rinnovato impegno a governare insieme. Si tratta di “pacificazione” con chi ha detto (e pensa e crede) ciò che è stato detto (adesso, tre giorni fa) in piazza Farnese, dei tre giudici donne e di tutti coloro che non sono frequentatori di eleganti orge con minorenni. Ed è stato detto dopo, non prima, lo sbandieramento della pacificazione. Il tema è, e resta, che Berlusconi, anche se si impossessa di aziende non sue corrompendo i giudici, anche se falsifica i bilanci e scansa milioni e milioni di tasse, anche se fa da padrone su un circo di giovani donne come vuole e quando vuole, deve continuare a restare la guida e – fatalmente – il simbolo del Paese.
La ritirata di ciò che una volta è stata una modesta e incoerente opposizione, è stata grande e totale. Ed è stata cancellata ogni linea di divisione, con chi ha voluto (e vorrà ancora) cancellare la Costituzione. Dunque “pacificazione” e governo insieme, benché non vi siano (o non dovrebbero esserci) valori condivisi, non uno. Vi sembra che tutto ciò corrisponda a una normale evoluzione del processo detto “democrazia” o vi ricorda un tipo di emergenza politica che non abbiamo sperimentato prima?

il Fatto 30.6.13
Blitz estivo sulla Costituzione Vogliono le mani libere
La maggioranza: Ddl su deroga all’Art. 138 in aula a luglio
di Luca De Carolis


Prove tecniche di colpo di mano, sulla Costituzione. Da piazzare nel cuore dell’estate, quando le spiagge sono piene e l’attenzione sul Palazzo crolla. La strana maggioranza del governo Letta ha fretta, tanta fretta di approvare il disegno di legge che prevede una deroga all’articolo 138 della Carta: la norma che pone precisi paletti temporali e di metodo alle leggi di revisione costituzionale. E allora, l’obiettivo è quello di approvare entro la prima settimana di agosto il ddl che abbatte i tempi del 138. “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi” recita l’articolo. Il disegno di legge vuole ridurre l’intervallo a un mese, ma solo per questa volta, senza modificare l’articolo.
UNA DEROGA, insomma, con cui spianare la strada al comitato per le riforme costituzionali di 40 parlamentari, che dovrebbe riscrivere un bel pezzo di Costituzione nello spazio di soli 18 mesi. Il comitato non è stato ancora composto, e sui titoli da modificare è ancora lite. Ma la certezza è che Pdl, Pd e Scelta Civica corrono. Tanto da voler ridurre al minimo anche i tempi di approvazione del ddl. Ce la dovrebbero fare al Senato, dove hanno già applicato la procedura d’urgenza. E così il via libera al testo a Palazzo Madama potrebbe arrivare già entro il 15 luglio. Ma il regolamento della Camera non prevede la procedura d’urgenza per un ddl che incide su una norma costituzionale. Come rimediare? “Forzando” sui tempi nella conferenza dei capigruppo, come è accaduto giovedì scorso. L’esito lo racconta Riccardo Nuti, capogruppo di 5 Stelle a Montecitorio: “Hanno calendarizzato la discussione del testo in aula a partire dal 29 pomeriggio. Ma sanno che non ce la faremo mai entro fine mese. Il loro vero obiettivo è far slittare tutto ad agosto, ottenendo così il contingentamento dei tempi, per approvare il testo prima della chiusura estiva della Camera. Una vergogna”. Venerdì scorso, con un post sul blog di Grillo, il gruppo alla Camera di M5S aveva già parlato di “colpo di mano del governo, con l’assist della presidente della Boldrini”. Nuti aggiunge: “Daremo battaglia in commissione, anche se gli strumenti a disposizione non sono tanti. Io e Luigi Di Maio (vicepresidente della Camera, ndr) abbiamo mosso tutta una serie di obiezioni nella capigruppo, mettendo in luce come non si possa andare di corsa su un tema così importante. Nessuno, a cominciare dalla presidente Boldrini, ha replicato nulla: sanno che non possono farlo. Solo Renato Brunetta si è impegnato a non applicare il contingentamento dei tempi: ma come possiamo credergli? ”. Dallo staff della Boldrini, replicano: “Nessun assist, la presidente non può certo decidere quando va calendarizzato l’esame di un ddl: spetta alla capigruppo”. Resta il fatto che la fretta della maggioranza non piace neanche a Sel. “Su un argomento così delicato non si possono bruciare i tempi” sostiene Gennaro Migliore, capogruppo del partito alla Camera. Che spiega: “Nella capigruppo ho fatto notare che sarebbe stato più urgente mettere in calendario la riforma della legge elettorale. Il ministro Franceschini mi ha risposto che il governo era anche disposto a farlo. Ma Brunetta è andato nel senso opposto: a suo dire viene prima il ddl costituzionale”.
IL PROBLEMA principale per Migliore però non sono i tempi: “Il vero tema è che la maggioranza vuole stravolgere la Costituzione, quando il 138 non dà questo mandato. E più d’uno pensa anche di toccare la parte sulla Giustizia, cosa inammissibile. Noi risponderemo con i nostri emendamenti. Vorremmo la riduzione dei parlamentari e un bicameralismo diverso, con un Senato delle autonomie”. Fuori del Parlamento, a opporsi alla riforma c’è Azione Civile di Antonio Ingroia. L’ex pm annuncia: “Tra domani e martedì manderò una lettera a Epifani, Vendola e Grillo, in cui chiederò loro di organizzare assieme primarie per consultare l’elettorato su questo tema. Non si può cambiare la Costituzione senza ascoltare prima il parere dei cittadini: i partiti che vogliono il cambiamento devono bloccare il ddl con una moratoria”. Sulla riforma, Ingroia ha opinioni chiare: “Il Pdl vuole il presidenzialismo, con lo stravolgimento di tutti gli equilibri tra i poteri, e sogna di subordinare la magistratura al governo. Vedo riapparire la maschera golpista della P2, dietro questo progetto. E purtroppo nel Pd sono in pochi quelli che dissentono”.

il Fatto 30.6.13
La fine del “premier” L’alba del lettismo
di Paolo Ojetti


Qualcosa – bisogna ammetterlo – sta cambiando. Forse volutamente, forse per coincidenza. Fatto sta che il basso profilo sta sommergendo tutta la produzione tele-giornalistica. E, finalmente, sembra al suo tramonto irreversibile l’epoca dei “premier”. Epoca che ha rievocato echi mussoliniani e seminato mostruose gaffe: come dimenticare passaggi del tipo “il premier non ha mai partecipato a festini erotici, ma solo a cene eleganti”? E come cancellare dalla memoria l’editoriale di Augusto Minzolini (oggi senatore per aver ben meritato) che all’alba del caso Ruby si presentò dicendo che il suo Tg1 non si sarebbe mai “occupato di gossip”? Morto il premierato, allo stremo il berlusconismo, evaporato il “montismo”, è alle viste il “lettismo”? Vediamo. Tanto per cominciare, Enrico Letta non parla mai di se stesso come “premier”, ha il senso dell’humour. Tutt’al più compone: “Chi pensa che io abbandoni il rigore sui conti pubblici, ha sbagliato primo ministro”. Ecco, l’azzardo massimo è “primo ministro” e usato solo come complemento oggetto. L’altroieri ha esordito in Europa. Parla le lingue. Riesce a farsi guardare da sotto in su e con interesse dalla signora Merkel. Ha compiuto 47 anni, 23 meno di Mario Monti e 30 meno di Berlusconi e chissà non sia questa la ragione dello stupore della cancelliera tedesca. Si è sposato due volte, legge Dylan Dog, tifa Milan come Napolitano e Berlusconi (che in gioventù era però interista), gioca a Subbuteo, i ritagli di tempo li dedica alla famiglia, pratica il calcetto amatoriale scapoli-ammogliati, sente musica, gli piace Irene Grandi.
INSOMMA, ha la agiografia perfetta del bravo ragazzo, cosa gli manca per essere promosso “premier”? In questo, le circostanze non lo aiutano. Mario Orfeo ha cambiato cavalli: a Roma c’è Giorgio Balzoni, a Bruxelles tocca a Giuseppina Paterniti. Tutti e due – meno male – lo chiamano “presidente del Consiglio” o, al massimo, Enrico Letta. Un giorno a Balzoni è scappato un piccolo “premier”, ma solo perché aveva esaurito i sinonimi. Sembrava persino pentito. In questa prospettiva, il “lettismo” esiste. È l’esatto contrario del berlusconismo egocentrico, trionfante e omaggiato da tribù di giornalisti corifei. Ma anche con il pur breve “montismo” non ha nulla a che vedere: l’incedere di Letta è falsamente curiale (il che è una tautologia), non professorale. Ma per affermarsi, il “lettismo” avrebbe bisogno di tempo. E questo è l’elemento alchemico mancante.

l’Unità 30.6.13
Le politiche di austerità aumentano le diseguaglianze
La penalizzazione dei salari è un fattore costante che aggrava la situazione sociale
Una ricerca del Fmi rileva che le strette fiscali pesano molto di più sui ceti deboli e hanno ripercussioni nel lungo periodo, mentre si salvano i benestanti
di Ronny Mazzocchi


Sembra passato un secolo da quando il primo ministro inglese David Cameron, in occasione del World Economic Forum del gennaio 2011, dichiarò che le misure di austerità fiscale e la ripresa della produzione non erano affatto alternative e che, anzi, le prime avrebbero incentivato la seconda. Si trattava di una convinzione allora largamente diffusa anche nelle classi dirigenti del nostro Paese e supportata da alcuni studi per la verità già molto contestati da una larga fetta di economisti sui cosiddetti effetti espansivi delle politiche fiscali restrittive.
Oggi, alla luce della gravissima recessione in cui siamo ripiombati proprio a causa dell’austerity, non c’è praticamente più nessuno disposto a difendere le posizioni politiche che andavano tanto di moda solo due anni fa. Sebbene rimanga ancora estremamente vasto l’insieme di coloro che credono che non vi siano alternative praticabili alle politiche di bilancio restrittive, tutti ormai concordano che quest’ultime, lungi dall’essere la medicina per rilanciare la crescita, costituiscono un’ingombrante zavorra da portarsi dietro sulla strada dell’uscita dalla crisi. Tuttavia gli effetti negativi delle politiche di austerità non si limitano soltanto alla contrazione di Pil e occupazione.
Troppo spesso vengono dimenticate le conseguenze che tali politiche tendono ad avere sulla distribuzione del reddito e della ricchezza fra i cittadini. Si tratta di effetti che dovrebbero riportarci alla memoria l’esperienza che il nostro Paese provò sulla propria pelle vent’anni fa, quando l’uscita della lira dallo SME e la crisi valutaria che ne seguì, costrinsero l’allora governo ad approvare una durissima manovra di rientro. Quel pacchetto di misure permise all’Italia di uscire dall’emergenza, ma ebbe tremendi effetti redistributivi, facendo aumentare bruscamente la diseguaglianza fra ricchi e poveri con una rapidità mai registrata prima nei paesi occidentali. Parlare di effetti distributivi dell’austerità non è quindi solo una disquisizione teorica per economisti, ma è una necessità per la politica.
Una recente ricerca del Fondo Monetario Internazionale permette di mettere a fuoco meglio il problema. Lo studio passa in rassegna 173 episodi di consolidamento fiscale che hanno caratterizzato 17 paesi OCSE negli ultimi 35 anni. Tre sono gli insegnamenti più interessanti che se ne possono trarre.
Il primo è che, in media, le misure di austerità aumentano la diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia nel breve che nel medio-lungo periodo. In altre parole, una fase di stretta fiscale colpisce in modo assai differenziato ricchi e poveri, gravando soprattutto su questi ultimi, con effetti persistenti nel tempo.
Il secondo insegnamento è che le manovre di risanamento del bilancio pubblico tendono sempre a far peggiorare la quota salari, ovvero quella fetta di reddito nazionale che va ai lavoratori a reddito fisso. La ragione risiede non solo nelle varie forme di tagli, de-indicizzazioni e riorganizzazioni che colpiscono quasi sempre il settore pubblico nei periodi di crisi, ma anche nel generalizzato aumento del tasso di disoccupazione che come abbiamo purtroppo imparato negli ultimi mesi è un risultato quasi naturale delle politiche di austerità.
Il terzo insegnamento è che i programmi di risanamento basati sulle riduzioni di spesa tendono ad aumentare la diseguaglianza molto più di quanto non facciano programmi basati sull’aumento delle tasse. Proprio quest’ultimo elemento è quello su cui sarebbe bene focalizzare l’attenzione, soprattutto in questa fase politica. La scelta delle misure restrittive da adottare per tenere il bilancio pubblico in ordine non è ininfluente dal punto di vista distributivo. Misure di valore contabile analogo come togliere una tassa o tagliare una spesa possono produrre non solo risultati diversi su produzione e occupazione, ma anche sulla distribuzione dei redditi.
Contrariamente alla retorica in voga negli ultimi tempi, la ricerca del FMI suggerisce infine che anche l’orizzonte temporale su cui vengono distribuiti i sacrifici può avere effetti sperequativi anche molto accentuati: concentrare le misure di austerità in un breve periodo di tempo tende a far aumentare la diseguaglianza molto più di quanto non facciano i programmi di risanamento spalmati su più anni. Si tratta di un monito importante da tenere presente quando si andrà a disegnare la politica macroeconomica per i prossimi mesi.

il Fatto 30.6.13
Scarano, rogatoria sui conti dello Ior. Palla al Vaticano
Con papa Francesco sul trono la Santa Sede aprirà i forzieri allo Stato italiano?
di Marco Lillo


Tra pochi giorni la rogatoria su Nunzio Scarano sarà sul tavolo del ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri. La Procura di Salerno sta preparando una richiesta ufficiale di informazioni sui conti correnti del monsignore. Il pm Elena Guarino vuole capire da dove provenissero i 580 mila euro giacenti sul conto dello Ior del monsignore e poi trasformati in assegni circolari nel 2009 per pagare il rientro di un mutuo senza scoprire la fonte dei fondi. In passato le risposte date Oltretevere sono state vaghe e reticenti, chissà se questa volta dopo l’arrivo di papa Francesco la banca del Vaticano aprirà davvero i suoi forzieri segreti allo Stato italiano. Il dubbio non turba i giornali italiani. Per loro, il Vaticano è ormai diventato uno Stato manettaro deciso a fare della trasparenza bancaria il suo Vangelo. “Papa Francesco fa arrestare i furfanti vaticani”, titola in prima pagina il Giornale, trasformando monsignor Scarano nella prima vittima della Santa Inquisizione bancaria del papa argentino, senza tenere conto che la richiesta di arresto risale ad alcuni mesi fa. Mentre il Corriere della Sera lascia a Massimo Franco il compito arduo di giustificare il titolone: “Perché Bergoglio ha deciso una riforma radicale”. Il vaticanista di via Solferino lancia il sasso vagheggiando un “via libera in codice di Bergoglio alla magistratura italiana”. Salvo poi ritirare la mano perché “è un’esagerazione”.
IL FATTO è però che, nonostante i peana della stampa nazionale, in Vaticano le cose vanno in tutt’altra direzione. Il Vaticano non ha ancora predisposto per esempio la legge che dovrebbe restituire alla sua autorità anti-riciclaggio, Aif, i poteri che le furono scippati da un decreto del gennaio 2012. Anche il rapporto sui progressi promessi in sede di anti-riciclaggio europea, che gli ispettori di Moneyval aspettavano a luglio, è stato rinviato a dicembre. A seguire il dossier sono sempre gli stessi uomini, a partire da Jeffrey Lena, un avvocato americano vicino allo Studio Grande Stevens che non è mai stato un alfiere della trasparenza verso lo Stato italiano. Papa Bergoglio ha istituito una commissione di inchiesta sullo Ior ma il suo segretario è monsignor Peter Bryan Wells, assessore per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, che è sempre stato un fautore della linea del cardinale Tarcisio Bertone, poco collaborazionista con le autorità italiane. Dopo le prime notizie sull’indagine di Salerno che coinvolgeva monsignor Nunzio Scarano, il contabile dell’Apsa è stato sospeso dall’incarico e l’Autorità di informazione finanziaria ha chiesto informazioni allo Ior. Ebbene, al Fatto risulta che le informazioni giunte finora al-l’autorità anti-riciclaggio sono incomplete e poco soddisfacenti. Sono poche le cose cambiate davvero nella finanza vaticana. A capo dello Ior e della stessa Aif ci sono due stranieri, il tedesco Ernst Von Freyberg e lo svizzero René Brulhart, che guadagnano moltissimo, 35 mila euro al mese Brulhart, ma sono a Roma solo un paio di giorni a settimana. Forse per questo non hanno ancora messo insieme un dossier completo nemmeno su un caso scandaloso come quello del monsignore salernitano. La rogatoria, o meglio la risposta che lo Stato Vaticano darà alle richieste che saranno inviate nelle prossime settimane dal nostro ministero degli esteri, sarà il vero banco di prova dell’era Bergoglio. Se lo Ior e la Segreteria di Stato consegneranno davvero alle autorità italiane la contabilità completa dei due conti di Scarano, quello personale e quel “Fondo Anziani”, allora si potrà davvero dire che la Santa Sede ha voltato pagina. Altrimenti è l’ennesima cortina fumogena per coprire quello che accade davvero nei forzieri della Città del Vaticano. Bisognerebbe rileggere oggi i titoli del Corriere della Sera nel 1993-1994 per capire che è bene non fidarsi. Il Corriere allora parlava di “Insperato miracolo” e di “glasnost” quando lo Ior rispondeva alle rogatorie del pool di Milano sulla mazzetta Enimont. Si è scoperto solo nel 2009 grazie al libro “Vaticano Spa” di Gianluigi Nuzzi che la Santa Sede forniva informazioni monche e bugiarde con la consapevole collaborazione dello studio legale Grande Stevens, lo stesso che tuttora segue la Segreteria di Stato.
A CAPO dello Ior oggi ci sono il direttore generale Paolo Cipriani e il vicedirettore Massimo Tulli. Il numero uno e il numero due della banca del Vaticano restano al loro posto nonostante siano indagati della Procura di Roma dal 2010 per violazione delle norme anti-riciclaggio. Né il vecchio né il nuovo pontefice hanno pensato di rimuoverli. Ora si scopre che monsignor Nunzio Scarano parlava spesso con Tulli, anzi Massimo, come lo chiamava dandogli del tu. Scarano vanta entrature nella direzione generale e al telefono con il broker Giovanni Carenzio spiega come farà a spostare 30 mila euro velocemente: “Te li faccio partire dal Vaticano, perché è l’unico modo celere che ho. Faccio la firma, dal direttore generale, mi porta questa persona che gentilmente si presta, e basta”. I finanzieri del Nucleo di Polizia Valutaria comandato dal generale Giuseppe Bottillo hanno intercettato molte telefonate che sono riportate nel-l’ordinanza di arresto con molti omissis. Chissà se la Procura si interesserà anche di qualche funzionario dello Ior. Al Fatto risulta che lo Ior non ha effettuato nessuna segnalazione di operazione sospetta sul conto di Scarano. La Procura di Roma non ha chiesto l’arresto di Scarano per riciclaggio ma per corruzione dell’agente dei servizi segreti Giovanni Zito, pagato perché riportasse i 20 milioni in Italia dalla Svizzera con un aereo privato. Solo se anche la Procura di Roma contestasse il riciclaggio, come quella di Salerno, si aprirebbe un nuovo scenario investigativo anche sugli eventuali complici del riciclaggio dentro le mura leonine.

La Stampa 30.6.13
Ior, cadono le prime teste. In bilico il direttore generale
L’avvocato del prelato arrestato: “Non ha agito per interesse personale”
di Giacomo Galeazzi


Una fondazione per lo Ior. Mentre Francesco ribadisce il suo no alla «logica di potere che ci rende pietra d’inciampo», l’arresto di monsignor Nunzio Scarano accelera la trasformazione dell’Istituto Opere di Religione in banca etica o fondazione esterna alla Santa Sede. Vengono consultati vari esperti per riformare gli statuti e garantire una gestione trasparente dei depositi e degli investimenti dei singoli e degli enti: niente più «zona grigia» al Torrione di Niccolò. L’ex prelato di Curia, detenuto a Regina Coeli con l’accusa di corruzione e calunnia, sarà interrogato domani e la sua linea difensiva sarà quella di negare interessi personali. Il confronto con i magistrati è fissato alle 10 e i contraccolpi sullo Ior si prospettano pesanti. Da una parte il gip Barbara Callari ed i pm Stefano Rocco Fava e Stefano Pesci, dall’altra l’ex responsabile del servizio di contabilità analitica dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), l’organismo che gestisce i beni della Santa Sede. I magistrati contesteranno le accuse di corruzione e di calunnia legate al tentativo, naufragato, di far rientrare in Italia 20 milioni di euro, sospettati di essere frutto di un’evasione fiscale, degli armatori d’Amico. Il prelato dovrà difendersi e, come ribadito ieri dal suo legale Silverio Sica, «chiarirà il suo ruolo e, soprattutto, la sua mancanza di un interesse personale nella vicenda».
Scarano, in particolare, dovrà rispondere a domande su quella che, per gli inquirenti, è una disinvolta ed anche spregiudicata movimentazione di danaro. Un’attività che ha indotto gli inquirenti ad aprire un altro fronte di indagini: quello dell’origine delle ingenti disponibilità finanziarie ed immobiliari del prelato, il quale risulta titolare di due conti correnti allo Ior, uno personale e l’altro, denominato «fondo anziani», per la raccolta di donazioni. All’interrogatorio di garanzia di Scarano faranno seguito quelli dei suoi due complici: il broker finanziario Giovanni Carenzio, detenuto a Napoli, e dell’ex sottufficiale dei carabinieri Giovanni Maria Zito, all’epoca dei fatti, luglio 2012, distaccato agli 007 dell’Aisi ed ora recluso nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Questi ultimi due atti istruttori saranno tenuti per rogatoria da gip delle città in cui sono detenuti i due indagati. Per tutti e tre i protagonisti della vicenda l’accusa è di concorso in corruzione. Per Scarano l’ulteriore imputazione di calunnia si riferisce ad una falsa denuncia di smarrimento di un assegno da 200mila euro consegnato, in realtà, a Carenzio come saldo del compenso per il suo ruolo svolto. Ci sono poi le posizioni degli armatori d’Amico: alcuni di loro sarebbero indagati per evasione fiscale e nei prossimi giorni dovrebbero ricevere l’avviso di garanzia per essere interrogati. A commento della vicenda, si sono dichiarati estranei e pronti a fornire ogni chiarimento all’autorità giudiziaria. E sugli affari che toccano lo Ior torna il Codacons con l’annuncio di un esposto alla Procura di Roma in cui si chiede di indagare per frode fiscale e riciclaggio «in relazione ad alcune compravendite sospette di immobili in capo alla banca vaticana». Nel mirino dell’associazione gli immobili appartenuti ad una famiglia romana e donati alla banca vaticana.
Intanto negli organismi finanziari della Santa Sede (Apsa, Governatorato, Prefettura degli affari economici, Ior) le grandi manovre sono iniziate. Sono in uscita il direttore generale della banca vaticana Paolo Cipriani e il suo vice Massimo Tulli. Ieri nel rito in cui ha imposto il pallio a 34 arcivescovi metropoliti, le parole di Francesco sul ruolo del Papa, la necessità di spendersi senza barriere e di superare una logica mondana e di potere, di edificare la Chiesa sulla comunione e non sul conflitto evocano suoi precedenti interventi contro la mondanizzazione e le divisioni. Occorre «superare sempre ogni conflitto che ferisce il corpo della Chiesa». E «quando lasciamo prevalere la logica del potere umano e non ci lasciamo istruire e guidare dalla fede, da Dio, pietra di inciampo». Caffarra è stato prorogato per due anni a Bologna e Sciacca lascerà il Governatorato per la Segnatura Apostolica. I cinque commissari daranno conto a Bergoglio della loro indagine sullo Ior. E a quel punto nulla resterà più com’è sempre stato.

Corriere 30.6.13
I conti segreti del Vaticano
«Soldi nascosti in Svizzera»
L'inchiesta dopo l'arresto di monsignor Nunzio Scarano
di Fiorenza Sarzanini

qui

Corriere 30.6
L’arcivescovo di Milano
«È tempo di un nuovo illuminismo»
di Giangiacomo Schiavi

qui

Corriere 30.6.13
Una scultura a grandezza naturale raffigurante papa Francesco con la mano levata è stata installata nella cattedrale di Buenos Aires. La statua, in vetro e resina, opera dell'artista Fernando Pugliese, si trova vicino a quella della Madonna di Lujan, patrona dell'Argentina. Bergoglio, prima di venire eletto pontefice, è stato arcivescovo della capitale argentina (Afp)


il Fatto 30.6.13
La Renzi-verità: il Pd? Mi serve solo per fare il premier
L’ex rottamatore in una intervista alla “Faz” mette un’altra mina sotto al governo Letta
I bersaniani: “Non porti l’Italia a elezioni anticipate”
di Wanda Marra


Chi vince le primarie dovrebbe essere il candidato a guidare il Governo. Certo, non vorrei diventare capo del Pd per cambiare il partito, ma per cambiare l'Italia”. Perché “sono disponibile a lasciare Firenze solo per questo”. Sabato pomeriggio, calma piatta. La dichiarazione di Matteo Renzi al quotidiano tedesco Faz ha ancora una volta l’effetto di agitare le acque del Pd, che in questa fase assomiglia a uno specie di stagno impazzito, una superficie ristagnante in cui a turno tutti continuano a gettare pietre. Renzi però dice con forza due cose. La prima: vuole candidarsi a segretario non perché è davvero interessato alla guida del Pd, ma perché vuole fare il premier. La seconda: si smetta di parlare di separazione tra leader del partito e candidato alla premiership perché le due figure devono coincidere. Che il sindaco di Firenze la vedesse così non era un mistero per nessuno. Ma che abbia scelto di mettere questa posizione sul piatto con forza crea più di una preoccupazione. Soprattutto nei confronti del governo. Dice ancora Renzi: “'Enrico Letta è un amico, solido, abile, competente ed è un grande europeista”. Ma “tutto quello che fa è pragmatico e non rivoluzionario. Piccoli passi non bastano”. Anche questa è una critica che va facendo praticamente da subito. Ma il sospetto che si prepari a qualche sgambetto, magari in autunno, quando i nodi verranno al pettine, è alimentato dalle stesse parole dell’ex Rottamatore. Il quale qualche tempo fa ragionava: “Come faccio a candidarmi segretario? A quel punto dovrei far cadere Enrico, come fece Veltroni con Prodi, nel 2008, diventando segretario”. Sulla leadership del Pd, evidentemente ha cambiato idea. Anche se aspetta le regole per sciogliere la riserva. Dal suo entourage gettano acqua sul fuoco su questo tipo di propositi. Ma dal fronte opposto, quello bersaniano, il messaggio viene percepito forte e chiaro.
“SE RENZI vuole candidarsi alla segreteria del Pd, ha i titoli per farlo ma è chiaro che si candida a guidare il partito. Se invece vuole candidarsi a premier del centrosinistra dovrà aspettare le primarie di coalizione che si terranno prima delle prossime elezioni politiche, esattamente come avvenuto l’ultima volta”, chiarisce Alfredo D’Attorre responsabile Riforme Istituzionali del Pd. “Quello che non si può fare è candidarsi alla segreteria del Pd non per dirigere il partito ma per interrompere il lavoro del governo Letta e precipitare il Paese verso elezioni anticipate”. Immediata la reazione del renziano Ernesto Carbone: “False accuse”. Nel frattempo, Enrico Letta “non commenta”. Ieri è stato tutto il giorno a studiare i dossier dei prossimi provvedimenti col ministro Saccomanni e non ha avuto né il tempo, né la testa per occuparsi delle dichiarazioni di Renzi, raccontano dal suo staff. Al di là della questione governo, l’altoldà del Sindaco è anche sulle tentazioni da parte dei bersaniani e della segreteria Epifani di far slittare il congresso e di cambiare le regole a proprio vantaggio. I renziani continuano a dire che premier e segretario devono coincidere e che l’Assemblea non avrebbe i due terzi necessari per cambiare (la norma che ha permesso a Renzi di correre contro Bersani era transitoria). Ma gli ipotetici avversari in campo sono su altre posizioni. Stefano Fassina, che ha espresso la sua “disponibilità” a mettersi a servizio del partito, e che sarebbe il candidato voluto da Bersani affonda: “Basta vittimismi. Le regole sono state cambiate per permettere la partecipazione anche a Renzi”. I guai nella metà campo più di sinistra del partito non mancano. Perché Gianni Cuperlo (mentre diceva a “Matteo” di non usare il partito come “trampolino”) ha dichiarato: “Resto in campo anche se c’è Fassina”. In origine era il “cavallo” di D’Alema. I due pescano più o meno nella stessa area. E infatti lo stesso Fassina spera di arrivare a “una soluzione unitaria”. Viste le abitudini dei big del Pd non c’è da aspettarselo.

La Stampa 30.6.13
Serracchiani: “Io voglio costruire l’alternativa con Matteo, non contro”
“Serve un gruppo per disegnare un’altra Italia. Lui è quello che può farlo meglio”
“Mi impegnerò, ma dico basta a mille candidature”
intervista di Jacopo Iacoboni


Hanno infine capito anche le pietre, comunque la si pensi, che figura chiave per un futuro per il Pd è Matteo Renzi. E ieri Renzi, annusando l’aria dell’ennesima trappola che nel partito gli potrebbero tendere, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha chiarito che lui correrà da segretario solo se il segretario e il candidato premier saranno la stessa persona (quella persona ovviamente dovrà esser scelta da primarie il più possibile aperte). Nelle stesse ore c’è stato chi sondava Debora Serracchiani per una sua possibile discesa in campo per la segreteria. È noto che Dario Franceschini la stima molto, e fu il primo a volerla in segreteria. Ma non è il solo. E però tra Matteo e Debora mai come in questa stagione s’è creato un feeling. Per capirci, lei volle solo lui come testimonial durante la campagna per le regionali in Friuli. I due apparvero in una foto che fece il giro della Regione, ne nacque un incredibile successo del Pd, in condizioni molto difficili. Toh, si pensò, quel partito poteva persino vincere, se sbaraccava i burocrati.
Serracchiani, l’idea di fare una corsa alternativa a Renzi la potrebbe mai vedere impegnata?
«Guardi, lo voglio chiarire subito. Più che costruire un’altra alternativa a Renzi, io intendo impegnarmi a costruire una nuova idea di Italia, con Renzi. Credo che esistano le condizioni perché ci siano persone diverse che possano, e debbano intestarsi più battaglie».
Da questo punto di vista immaginarla in una corsa antagonistica a Renzi, magari per la segreteria, è fantascienza?
«Io voglio lavorare a un’idea di Italia per la quale sicuramente servono più persone, un gruppo di persone. E in quel gruppo credo che io a Matteo stiamo dalla stessa parte».
Questo sgombra parecchie voci e ipotesi delle ultime ore.
«Le dico di più: siccome il tentativo di costruire un’altra idea di Italia è un processo ambizioso, che deve ripartite dalle fondamenta di questo paese, nel welfare, nelle opportunità, nel merito, nel ricambio delle generazioni, penso che richieda più voci e anche più braccia. Da questo punto di vista Matteo può fare questa operazione meglio di chiunque altro, in questo momento».
Il suo riferimento alla parola “gruppo” è chiarissimo. Lei non si farà usare da logiche correntizie, se questo è il fine, vero?
«Noi siamo arrivati a un punto in cui è necessario questo, fare gruppo, fare squadra. Senza una squadra, pensando di ostacolare Matteo, non andiamo avanti».
E per se stessa quale ruolo immagina, in questa logica di «gruppo»?
«Voglio essere chiara, io mi voglio impegnare in prima persona, in questa sfida, voglio dare un contributo forte, non solo un segno di presenza, contare e pesare per quello che ho conquistato sul campo, perché è così, non perché qualcuno me lo regala. Ma so bene che non c’è uno spazio infinito per candidature. Basta col vizio, molto diffuso nel Pd, di avere più candidature che elettori, una cosa di cui siamo stati specialisti».
Chiarissima. E Se Renzi rilanciasse e la volesse in squadra?
Debora ride, e è troppo astuta per rispondere a questa domanda. «Cerchiamo di evitare solo una inutile frammentazione di nomi. Poi io ricordo che sono stata da poco eletta presidente del Friuli, posso fare moltissimo, da qui, se c’è un governo di cui io sono una forza... ».

Corriere 30.6.13
«Per Bobo meglio Cuperlo. Matteo è solo un Prozac»
Staino: il sindaco? Faccia carina e aria furbetta
Ti fa sentire contento senza che ci sia motivo
intervista di Fabrizio Roncone

qui

l’Unità 30.6.13
Controllo Fiat in Rcs
Le nozze Corriere-Stampa e l’ombra di Murdoch
di Massimo Mucchetti


La Fiat torna ad avere oltre il 20% di Rcs Mediagroup, la società che edita il Corriere della Sera. Più o meno si tratta della stessa partecipazione che detenne fino al 1998, quando ne cedette una quota a Cesare Romiti a titolo di parziale liquidazione dei suoi 24 anni alla guida del gruppo torinese.
La storia si ripete, dunque? Probabilmente no. E non perché, quando si ripete, la storia lo fa in forma di farsa. È difficile che, questa volta, la storia si ripeta perché tutto è cambiato rispetto al 1984 allorché la Fiat divenne l’azionista di riferimento dell’ex gruppo Rizzoli-Corriere della Sera con l’aiuto di Mediobanca e l’avallo della Banca d’Italia. Il governatore Carlo Azeglio Ciampi, non dimentichiamolo, era fedele alla legge bancaria del 1936, che non ammetteva le banche nell’azionariato dei giornali e al tempo stesso non se la sentiva di favorire una proprietà diffusa in capo al Corriere come suggeriva Cesare Merzagora per il timore che i residui della loggia massonica deviata P2 potessero tentare di riprendersi il giornale con occulte scalate.
Nel 1984 l’Italia stava andando bene. La sua editoria si apriva a una stagione felice, inondata di pubblicità. La sfida della tv commerciale era agli albori. Internet interessava solo le università americane. Oggi l’editoria è al tracollo. E non ha un’idea chiara su che cosa fare per conquistarsi un nuovo destino in un mondo dove Google ha cambiato tutto: la comunicazione, la pubblicità e, attenzione, anche la politica come dimostra l’uso del microtargeting nella campagna elettorale di Obama.
NIENTE PIÙ FUNZIONE NAZIONALE
Allora la Fiat era l’Italia, grondava profitti e controllava il 60% del mercato dell’auto. Oggi è una multinazionale che insegue gli aiuti di Stato in giro per il mondo. Non ha più una funzione nazionale. Né la potrebbe avere nel momento in cui non chiude una o due delle sue fabbriche italiane solo perché, come ha scritto Andrea Malan sul 24 Ore, è al momento più conveniente approfittare della cassa integrazione. E se i numeri hanno ancora un senso, non saranno i 90 milioni investiti in via Solferino, anziché in ricerca e sviluppo nell’auto, a restituire il rango di un tempo.
La storia della presenza Fiat in Rcs Mediagroup, d’altra parte, non è priva di lati oscuri: l’avventura disastrosa nel cinema affidata a Montezemolo, protetto di Gianni Agnelli; la cessione ad alto prezzo del disastrato Gruppo editoriale Fabbri a Rcs da parte dell’Ifi o, per venire a tempi più recenti, il tentativo di affidare la direzione del Corriere a Carlo Rossella, allora presidente della berlusconiana Medusa, da parte dello stesso Montezemolo. Ciò detto, il raddoppio della Fiat sulla ruota del Corriere non può essere liquidato con i paragoni storici. Basterebbe, ad allontanarne l’ombra, che John Elkann dimostrasse nei fatti di essere diverso dal nonno e dallo «zio»... In ogni caso, non si comprende la questione Rcs restando, nel 2013, dentro i recinti del passato.
La soluzione ideale era e resta quella di costruire un veicolo finanziario che traghetti la Rcs, o almeno il Corriere, verso una proprietà diffusa protetta da una golden share in mano a un comitato di garanti sul modello dell’Economist e della Reuters. Ma la cultura politica e imprenditoriale italiana resta padronale sempre e comunque, la qual cosa non è un male nelle multinazionali tascabili del Quarto capitalismo, ma lo diventa nella grande editoria qualora questa sia strutturalmente priva, come accade in Italia, di editori puri.
Alla soluzione ideale si preferisce una soluzione realista. Senonché il realismo si rivela prezioso solo quando costruisce un ponte verso le soluzioni migliori. Viceversa, se diventa fine a se stesso, finisce con il lasciare incancrenire i problemi. E la storia di via Solferino lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio.
CON IL SOLO 20 % NON SI COMANDA
Stiamo dunque fuori dai recinti del passato, ma dentro quelli del realismo. Che cosa vediamo, per cominciare? Vediamo una Fiat che in prima battuta non sarà sola. Con il 20%, in presenza di altri azionisti rotondi, non si comanda. Si presiede. A meno che gli altri soci eccellenti non abdichino alle loro responsabilità, paghi di potersi nascondere dietro la figura di Elkann.
Tra questi soci eccellenti risaltano Mediobanca e Intesa Sanpaolo, ma anche Della Valle, Unipol, il Banco Popolare. Tranne che per il signor Tod’s, cito le ragioni sociali e non le persone deliberatamente: le responsabilità durano oltre i responsabili manageriali che cambiano. Quando si sarà consumata l’asta dei diritti post aumento di capitale, vedremo le diverse consistenze dei soci. Chi sta con chi e come. Ma è chiaro fin d’ora che le tre banche azioniste avranno una speciale responsabilità. Non foss’altro perché, specialmente Intesa, sono anche i soggetti creditori di una società sull’orlo dell’abisso.
In prospettiva è bene che le banche non abbiano azioni dei giornali. Questo, sia detto di passata, esige il Fondo monetario internazionale dalla Grecia. Ma noi non siamo greci e taluni industriali non tutti hanno dato prove al Corriere peggiori di quelle di taluni banchieri non tutti. Dunque, le banche devono fare adesso la loro parte, senza fuggire.
Alla Fiat viene attribuito un piano industriale che prevede lo spezzatino del gruppo Rcs. Niente di male, in teoria. In pratica, il diavolo si nasconde nei dettagli. E non basterà agitare il fantasma di Berlusconi per assolvere tutti i peccati della finanza, dell’imprenditoria e della politica sul fronte dell’informazione.
Anche perché il fantasma di Berlusconi non può onestamente fare paura a chi osservi i conti del Giornale e della Mondadori e pure quelli di Mediaset. Nell’anno di grazia 2013, l’ex premier non sarebbe tecnicamente in grado di accollarsi il rischio Rcs. I principali dettagli su cui si gioca il futuro del primo giornale italiano sono due: a) il destino aziendale del Corriere; b) la sua governance.
Il progetto più gettonato al momento prevede lo scorporo del quotidiano di via Solferino e il suo accoppiamento con la Stampa: una nuova società alla quale parteciperebbe, al 29%, la Newscorp di Rupert Murdoch. Potrebbe funzionare sul piano industriale o forse no. La Stampa si ridurrebbe a mero quotidiano regionale? A quali prezzi avverrebbe il conferimento, dopo l’amara esperienza del Gruppo editoriale Fabbri?
DICHIARAZIONE DI IMPOTENZA
Certo, Murdoch ha forse le spalle abbastanza larghe per contrastare il predominio di Google. Ma il grande imprenditore Murdoch è anche un signore che esercita il potere in modi assai discutibili, e fa accordi sopra e sotto il banco con la politica. In ogni caso, per l’establishment italiano, sarebbe una dichiarazione di impotenza, un esito triste. Il cedimento a una concentrazione di potere editoriale analoga, se non superiore, a quella che esiste in capo a Berlusconi e per giunta in capo a un signore straniero che fa la “sua” politica estera. Ma forse, di fronte al microtargeting di Google, i criteri antitrust tradizionali e pure i confini storici delle diplomazie rivelano l’usura del tempo. Quando Eric Schmidt dà a Barack Obama l’organizzazione manageriale e le risorse informative di Google che consentono di raggiungere - a lui che è amico di Schimdtenon al rivale tutte le persone con messaggi mirati perforandone la privacy, non c’è più nemmeno un Murdoch che tenga. E allora la seconda questione la governance del Corriere, ma questo vale in generale per tutti i media che hanno una capacita di influenza sull’opinione pubblica diventa centrale.
Chi detterà la linea del Corriere sul ruolo dell’Italia nelle battaglie della pace e della guerra? Murdoch? I suoi amici cinesi o americani o inglesi? O si faranno sentire i Bazoli, gli Elkann, i Nagel, i Della Valle? E come?
Il Corriere ha oggi un direttore che, da figlio della tradizione migliore (c’è anche una tradizione scadente in certe stanze), ha saputo in diverse occasioni tenere la schiena diritta, ma che da parecchi mesi è sottoposto a un’azione di logoramento proprio dalla Fiat.
Fatto l’aumento di capitale, sta oggi a chi ha preso l'iniziativa sciogliere le incertezze: dica se intende procedere da solo o con altri e a quali condizioni e poi confermi, se crede, la fiducia a Ferruccio de Bortoli, ovvero indichi un nuovo timoniere che sia garante del nuovo corso e con ciò inizi a farsi misurare. Non vorremmo che il conferimento della Stampa al Corriere fosse come quello delle centrali elettriche Fiat alla Montedison, che fu il pesante pedaggio pagato dall’Electricité de France per potersi mangiare per intero Foro Bonaparte.

il Fatto 30.6.13
Giornali, la Fiat brucia 120 milioni di euro
La conquista del Corriere costa almeno 90 milioni
La Stampa ne ha appena richisti altri 35
di Gaia Scacciavillani


Milano Bella domanda”, aveva risposto a denti stretti l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, il 9 aprile al giornalista del Fatto Quotidiano che gli chiedeva se in Italia convenga investire sull’editoria, piuttosto che sull’automobile. Il tema era, allora come oggi, la partecipazione del Lingotto all'aumento di capitale di Rcs, il gruppo che edita il Corriere della Sera. Dopo meno di tre mesi la posizione della Fiat sull'auto è cambiata poco, anche perché c'è ancora pendente la trattativa oltreoceanica sul prezzo da pagare per rilevare la quota di Chrysler ancora in mano al fondo del sindacato dei metalmeccanici Usa. Il cui esito, viste le cifre in gioco, avrà ripercussioni sui piani di tutto il gruppo.
Sul fronte dell'editoria, invece, le cose stanno cambiando rapidamente per il Lingotto che venerdì scorso, proprio mentre la Fiom di Maurizio Landini tornava ad attaccare la progressiva “scomparsa” del gruppo dalla Penisola, annunciava la scalata al Corriere della Sera con un consistente rilancio degli investimenti sulla carta stampata. Un settore tanto amato, quanto caro, visto che sta già costando parecchio al gruppo torinese. Tra Corsera e Stampa, infatti, il conto pagato negli ultimi 12 mesi è già salito ben oltre quota 120 milioni di euro, mentre l'ultimo bilancio della casa, quello del primo trimestre 2013, ha evidenziato un crollo degli utili a 31 milioni di euro - cioè 231 milioni in meno del 2012 - e un debito che in soli tre mesi è lievitato di oltre 800 milioni a quota 10,412 miliardi di euro. Naturale, quindi, lo stupore suscitato dall'ultima mossa dell'erede di Gianni Agnelli, lo stesso che nel 1984 aveva partecipato da protagonista a quello che avrebbe dovuto essere il salvataggio del primo quotidiano italiano dopo lo scandalo del Banco Ambrosiano giustificando l'ingresso in via Solferino con il fatto che gliel'avevano chiesto, quindi quasi per rendere un servizio al Paese.
Giorgio Airaudo, che da ex numero uno dei metalmeccanici auto della Fiom conosce bene sia la Fiat che gli Agnelli e Sergio Marchionne dice: “Mi sembra che voglia coprirsi la ritirata. Mentre la politica l'ha in un modo o nell'altro assecondata, la Fiat in questi anni ha patito molto l'opinione pubblica italiana che non è riuscita a convincere”. Airaudo, oggi parlamentare di Sel, aggiunge: “Che si preoccupi della stampa, quindi, non mi stupisce affatto. Tanto più se si tratta del Corriere della Sera che le ha dato non pochi problemi. E poco conta che la penna più critica, Massimo Mucchetti, si sia data proprio alla politica, i principali detrattori anche in via Solferino, restano”. Come Diego Della Valle che negli ultimi tempi non ha fatto mancare i suoi strali anche alle scelte industriali dell'erede dell'Avvocato e del suo manager di fiducia. Ed è per giunta lo stesso Della Valle a sostenere che l'operazione Rcs è destinata ad ben più costosa di quanto non sembri se l'editrice perseguirà la strada tracciata dal tandem Fiat-Mediobanca supportato da Intesa. “Gli obiettivi del piano Rcs pudicamente chiamato di sviluppo oltre ad essere già difficilmente raggiungibili risultano chiaramente irrealizzabili alla luce dei risultati del primo trimestre”, aveva chiaramente dichiarato il 30 maggio scorso ai soci Rcs in assemblea il rappresentante dell'imprenditore marchigiano, Sergio Erede, facendo chiaramente intendere che così facendo secondo i suoi consulenti si arriverà a breve a nuovi esborsi da parte dei soci per evitare di arrivare in Tribunale. Allungando così il potenziale conto di soci come la Fiat che sul quotidiano sta puntando 93 milioni di euro che si aggiungono ai 35 milioni appena versati nell'Editoriale La Stampa in conto capitale. Senza quel versamento che è stato quasi tutto mangiato dalle perdite 2012 (circa 27 milioni), del resto, l'editrice del quotidiano di Torino che in cinque anni ha perso 45,8 milioni di euro, difficilmente avrebbe potuto garantirsi la continuità aziendale nonostante la fusione tra Itedi e l'Editoriale La Stampa abbia portato un benificio finanziario di 13 milioni.

il Fatto 30.6.13
“Cossiga in via Caetani prima della telefonata”
Gli artificeri sarebbero stati sul posto già alle 11
i terroristi annunciarono l’omicidio soltanto alle 12:30
di Rita Di Giovacchino


Quella mattina Moro, poteva essere liberato, invece fu ucciso. Il capo dello Stato Giovanni Leone doveva firmare la grazia per un’unica brigatista, Paola Besuschio, Fanfani era favorevole e con lui Craxi, ma non ce ne fu il tempo. Sono passati 35 anni dal 9 maggio 1978, ai misteri che hanno segnato il rapimento e la prigionia del presidente Dc, se ne aggiunge ora un altro che riguarda l’ora in cui Moro fu ucciso, ma soprattutto quella in cui Cossiga, allora ministro dell’Interno, lo ha appreso da una fonte che non era il professor Tritto, informato alle 12,30 da Valerio Morucci, il telefonista delle Br, che annunciava “l’avvenuta esecuzione”. Proprio nei giorni in cui la procura di Roma ha deciso di riaprire l’inchiesta sul delitto Moro, spuntano nuove testimonianze che lasciano intravedere un buco di due ore, o forse più, tra quando l’allora ministro degli Interni Cossiga apprese la notizia a quando fu ufficialmente diffusa dal Viminale. Uno degli artificieri intervenuti in via Caetani, Vitantonio Raso, che apparteneva al reparto anti-sabotatori, nel libro “La bomba umana” afferma di essere intervenuto prima delle 11 di mattina, si temeva che la R4 fosse minata, non dopo le 13 come si è sempre saputo. A confermarlo all’agenzia Ansa, non soltanto Raso ma anche il collega Giovanni Circhetta. Raso fu il primo ad aprire il bagagliaio dell’auto, a sollevare la coperta e a riconoscere il corpo di Moro. Un’operazione che è poi stata ripetuta dopo le 14, alla presenza di Cossiga, quando un fotografo dell’Ansa scattò la famosa foto di Moro all’interno della R4, l’unica di cui disponiamo. Cossiga andò due volte in via Caetani? Non ebbe alcuna reazione e neppure i funzionari che erano con lui, conferma Raso: “Sembrava che sapessero già tutto”, ha spiegato. Il maresciallo Circhetta aggiunge di aver visto una lettera anteriore. Che fine ha fatto? Scomparsa come la borsa in via Fani. Le affermazioni dei due artificieri non stupiscono l’ex ministro dei Trasporti Claudio Signorile che quella mattina andò a trovare Cossiga. Racconta all’Ansa di aver sentito “l’altoparlante in presa diretta che annunciava un’auto in via Caetani, parlava di nota personalità...”. L’orario? A microfoni spenti Signorile indica tra le 10 e le 11: “Ero lì per un caffè non per un aperitivo. Lo vidi sbiancare. Mi dimetto, esclamò e io: ‘Fai bene, è un dovere morale”. Il primo giornalista ad arrivare fu Franco Alfano del Gr1: “Con la troupe salii al primo piano di Palazzo Caetani e da lì riprendemmo la R4”. Che ora era? “Attorno alle 14”. Nel suo libro: “Tutto sia calmo”, Alfano riporta la testimonianza di Clelio Darida, sottosegretario all’Interno: “Cossiga spalancò la porta senza bussare. ‘Lo hanno uccisò, gridò”. Ma l’ora non viene indicata. Questo il passaggio più choccante della testimonianza di Raso: “Il sangue sulle ferite di Moro era fresco. Più fresco di quello che vidi sui corpi in Via Fani, dove giunsi mezz’ora dopo la sparatoria”. Che le cose non siano andate come è stato ricostruito nell’arco di tre processi, sono in molti a pensarlo. Raso e Circhetti non sono mai stati interrogati ma quanto affermano potrebbero confermare l’ipotesi del maggiore del Ros Giraudo, emersa dalle perizie svolte per la commissione Stragi. Moro potrebbe essere stato ucciso nei sotterranei dell’insula Mattei. Sulle ruote, sui sedili, sugli stessi abiti di Moro erano presenti sottilissimi filamenti colorati, gli stessi presenti nei depositi dei tessuti. I filamenti, la sabbia di Focene, il sangue non rappreso. C’è ancora molto da scoprire sul delitto Moro.

il Fatto 30.6.13
Emergency per dare “senso al tempo”
Medici, infermieri, insegnanti: 4000 volontari dai 16 agli 80 anni di tutta Italia
di Sandra Amurri


Emergency è un mondo di storie che si intrecciano per raccontare una sola storia. Fernanda, 62 anni, divorziata, un figlio di 23, di cognome fa Roveta. Una vita da infermiera alla Asl di Reggio Emilia nel reparto di psichiatria. Poi la pensione e la scelta di entrare in Emergency. Anche lei a Livorno dove si sta svolgendo il dodicesimo incontro della Ong fondata da Gino Strada e dalla moglie Teresa Sacchi (dal titolo “Diritti e privilegi”). “Sono diventata volontaria non certo perché non sapevo come trascorrere il tempo, ma perché volevo dare senso al tempo mettendo a disposizione la mia professionalità, convinta di poter contribuire alle carenze del sistema sanitario nazionale”. Fernanda è sugli ambulatori mobili. Autobus riadattati che contengono due ambulatori di medicina di base, uno per il mediatore culturale, la sala d'aspetto e un bagno. “Usciamo ogni giorno alle 17 e rientriamo alle 22. Andiamo nelle periferie, nelle campagne dove c'è la maggiore concentrazione di migranti, ma da tempo arrivano anche italiani, anziani, disoccupati”. I nuovi poveri che non riescono più a pagare i farmaci, che non possono permettersi il ticket per gli esami diagnostici, per le visite specialistiche. “Che Dio vi benedica! ”, esclama Fernanda abbracciando un ragazzo e una ragazza. Omar, 29 anni impiegato alle Poste e Ivana che di anni ne ha 26 e fa la maitre in un american bar. Arrivano da Napoli. Con Fernanda si sono conosciuti a Castel Volturno in un ambulatorio mobile. “La botta del polibus è stata forte! ” esclama Ivana. “Tornata al lavoro l'indomani mentre sgridavo i camerieri per come avevano preparato i tavoli me ne sono uscita con: ’Ragazzi sapete cosa ho fatto ieri? Ho visto che è vero che si può fare qualcosa, non ho ascoltato un'idea ma l'ho toccata! ’ Mi hanno guardata come si guarda una folle. Ma io non sono matta, lì in quel polibus ho capito che l'esperienza di Emergency ti entra dentro e hai bisogno di condividerla di contaminare chi ti sta vicino. C'era anche chi passava solo per salutare, per regalarti e portarsi a casa un sorriso”. L'ambulatorio sulle ruote che dispensa diritti divenuti privilegi. “Emergency non è una setta ma un luogo dove le parole si traducono in concretezza di vita” aggiunge Paolo. Giovani, donne, uomini, pensionanti, medici come Daniela De Serio, calabrese che ha scelto di fare la specializzazione in cardiologia nell'ospedale di Emergency in Sudan. Volontari in missione come Paolo Piagneri, 33 anni fisioterapista di Livorno ha lavorato 6 mesi nell'ospedale di Lashkargah in Afghanistan: “È stata una palestra di vita che mi ha insegnato a cogliere il vero significato della professionalità. In Sudan ho capito che se il progetto funziona in luoghi così ostili vuol dire che la serietà è grande. Emergency non è un miracolo è la forza della volontà, la passione”.
QUATTROMILA volontari di ogni parte d'Italia, di età che va dai 16 agli 80 anni. Yertha Patron, 65 anni insegnante di lettere viene da Forlì, è coordinatrice dei gruppi della Romagna. Si occupa di progetti nelle scuole dove va a parlare di guerra e pace, della diversità. C'è anche Paolo Busoni 49 anni bibliotecario all'Università Statale di Pisa, sposato con Patrizia Lorenzi, anche lei volontaria di Emergency: “Ci sono entrato nel 1996 durante la campagna contro le mine perchè io sono uno storico militare e c'era bisogno di chi avesse conoscenza delle armi e da allora non ne sono più uscito”. Due missioni in Cambogia e cinque in Sudan come logista. Per essere inviati in missione bisogna superare una selezione. I titoli necessari sono diversi a seconda delle mansioni. E si percepisce un compenso necessario per continuare a pagare le rate del mutuo della casa, le bollette. Ogni anno partono circa 200 medici, infermieri, logisti, che vanno ad aggiungersi ai 2200 dipendenti locali. Francesca di Napoli 26 anni impiegata, occhi neri come la pece che si illuminano quando dice: “Esco dal lavoro alle 18 e fino a sera sono tutta per Emergency. È un luogo dove nasce l'amore quello vero che ha radici nella condivisione di un'idea di mondo, di convivenza civile”.

Corriere 30.6.13
Il modello Usa contro i faccendieri, così cambia il nostro export militare
di Michele Nones


Fra le novità del Decreto legge «del fare» vi è la possibilità che il ministero della Difesa svolga attività di supporto contrattuale a favore di Paesi terzi che acquisiscano equipaggiamenti militari italiani (nuovi o già in servizio presso le nostre Forze armate). Potranno, quindi, essere siglati contratti di fornitura e di sostegno logistico con i Paesi firmatari di accordi di cooperazione o assistenza tecnico-militare (la maggior parte di quelli alleati o amici, fra cui i principali Paesi emergenti). Ovviamente questo avverrà nel rispetto della normativa italiana sul controllo delle esportazioni militari.
Questo consentirà di sostenere meglio l'industria italiana sul mercato internazionale in un momento di particolare difficoltà sia per i tagli alla nostra spesa per la difesa, sia per la maggiore competizione a causa degli analoghi tagli in Europa e negli Stati Uniti (che spingono tutte le imprese a cercare nuovi sbocchi esteri) e per lo sviluppo di maggiori capacità industriali nei nuovi Paesi produttori di armamenti. Si potranno, inoltre, gestire meglio le dismissioni di equipaggiamenti militari in servizio (ma non più necessari o sostenibili), senza doverli svendere o senza dover necessariamente passare tramite il loro ritiro da parte dell'industria e successiva rivendita (rendendo, quindi, in futuro più flessibile il nostro procurement, o fornitura).
Vi è poi, un secondo non meno rilevante aspetto: gli accordi governo-governo consentiranno di far rientrare le esportazioni militari nel quadro della nostra politica internazionale, valorizzandone il ruolo politico rispetto a quello commerciale. Sarà, quindi, la Difesa, in partnership con le imprese interessate, a scegliere quali mercati privilegiare nella promozione dei nostri prodotti, limitando i rischi associati alle trattative «private» industrie-governi (faccendieri, intermediari, rischi di corruzione). L'esempio viene proprio dal Paese più «liberista»: da più di cinquanta anni il Dipartimento della difesa americano gestisce una parte significativa e crescente dell'export con il programma Foreign Military Sales. Seppure in ritardo ci proviamo anche noi.

Corriere 30.6.13
Il Mediterraneo dimenticato
di Sergio Romano


I «bollettini di guerra» che occupano gran parte della nostra attenzione sono quelli che provengono dal fronte elettorale di Berlino, dal tribunale costituzionale di Karlsruhe, dal numero 10 di Downing Street, dall'ultima conferenza stampa di Mario Draghi, dal palazzo dell'Eliseo, dai mercati finanziari. È normale. Il nostro futuro dipende dalle sorti dell'euro, dall'accordo sull'Unione bancaria, dalla ricerca di un punto di equilibrio fra il rigore e la crescita e, in ultima analisi, dalle elezioni tedesche. Ma non possiamo ignorare il Mediterraneo o trattare le sue vicende come questioni esotiche a cui dedicare un'attenzione saltuaria e qualche velleitaria iniziativa di pace.
Per una serie di circostanze, che lascio volentieri agli storici e ai sociologi, quello a cui stiamo assistendo, dopo la rivolta tunisina del dicembre 2010, è il fallimento dello Stato arabo-musulmano. È fallito lo Stato dei nuovi sultani: l'Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Zine El Abidine Ben Ali, la Libia del colonnello Gheddafi. È fallito il nazionalsocialismo iracheno di Saddam Hussein e quello siriano della famiglia Assad. È fallita la democrazia multireligiosa e multiculturale del Libano. È fallita la Lega Araba. E potrebbero fallire, prima o dopo, gli Stati patrimoniali del Golfo. Sopravvivono paradossalmente le monarchie, da quella di Mohammed VI in Marocco a quella di Abdullah II in Giordania, ma il rischio del contagio, soprattutto nella seconda, è altissimo. In alcuni casi, Siria e Libia, la crisi è diventata rapidamente guerra civile. In altri casi, Egitto e Libano, la guerra civile potrebbe scoppiare da un momento all'altro.
Se l'Europa crede che lo scontro sarà fra il partito dei tiranni e quello dei democratici, s'inganna. In molti Paesi vi saranno almeno tre conflitti: fra laici e islamisti, fra musulmani moderati e musulmani fanatici, fra sunniti e sciiti. E vi sarà spesso, pronta a rimestare nel torbido, la mano lunga della Russia, dell'Iran e della Cina. Non è tutto. Che cosa accadrebbe se Israele, preoccupato dall'instabilità della regione, credesse di potere meglio garantire la propria sicurezza con una prova di forza?
Non è facile suggerire all'Europa ciò che potrebbe fare di fronte a fenomeni che si concluderanno sperabilmente (ma dopo una lunga gestazione) con la nascita di nuovi Stati. Dovrebbe almeno astenersi, tuttavia, dal trattare le crisi dei suoi dirimpettai come un semplice problema di democrazia e soprattutto evitare i tic nazionalistici e post coloniali di quelle potenze che hanno già preso iniziative avventate e velleitarie. Non possiamo risolvere i problemi degli Stati arabi, ma possiamo almeno cercare di non aggravarli giocando inutili partite individuali. Se Lady Ashton è davvero l'Alto rappresentante dell'Unione Europea per la politica estera, batta un colpo e richiami i suoi colleghi alla necessità di una politica concordata. Non cureremo tutti i mali della regione ma saremo più rispettati e più efficaci del coro di voci stonate che abbiamo ascoltato negli scorsi mesi. L'Italia nonostante i suoi guai ha ancora un capitale mediorientale che può essere utilmente impiegato e ha anche, per di più, un ministro degli Esteri che conosce bene la regione per lunga esperienza personale. Anche l'Italia, se c'è, batta un colpo.

Corriere 30.6.13
Ventidue milioni di firme contro Morsi
Oggi la grande manifestazione per rovesciare il presidente islamico
di C. Zec.


IL CAIRO — L’inno nazionale egiziano, vari slogan anti-presidente, e poi l’annuncio tra applausi e grida di gioia: «Abbiamo raccolto 22.134.465 firme, ben oltre l’obiettivo fissato di 15 milioni, ancora più dei 13,23 milioni di voti con cui Mohammad Morsi è stato eletto». Mohammad Badr, portavoce della campagna Tamarrod, la Ribellione che vuol essere l’atto secondo della Rivoluzione, rompe la lunga attesa alla conferenza finale del movimento nel centro del Cairo. Insiste: «Gli egiziani non vogliono più questo raìs, comunque già privo di legittimità per non aver rispettato la Costituzione e aver preferito gli interessi del suo gruppo, i Fratelli Musulmani, a quelli del popolo». E ancora: «Domani cambierà tutto».
Domani, ovvero oggi, è il limite fissato dai «ribelli» perché Morsi se ne vada proprio nell’anniversario della sua nomina. In poche settimane un gruppo di giovani sostenitori della Rivoluzione del 2011 delusi dai suoi risultati hanno ridato fiato all’opposizione. La loro petizione, scritta in dialetto ovvero «nella lingua del popolo», è stata diffusa soprattutto a mano, fotocopiata e distribuita fino nelle campagne. Qualcuno si è spinto a portarla di persona agli egiziani residenti in vari Paesi stranieri, con metodi ben diversi dai «rivoluzionari di Facebook» di due anni fa. I milioni di fogli sono stati raccolti in un appartamentino vicino a Tahrir, in scatoloni che oggi verranno consegnati alla Corte Costituzionale, dopo essere stati copiati su cd per prudenza. Un gesto a cui si accompagneranno decine di cortei in tutto il Paese. Solo al Cairo saranno sei, che confluiranno verso il palazzo presidenziale di Ittihadiya a Heliopolis, anche se Morsi da tre giorni è rifugiato nel quartiere generale della Guardia repubblicana. Ma il «suo» palazzo è comunque protetto da barriere in cemento e schieramenti di forze dell’ordine. Davanti, da ieri, gli oppositori hanno montato alcune tende e eretto un palco.
«Paura di un bagno di sangue? Non scherziamo, tutto l’Egitto sarà in piazza compatto, e chiunque osi mostrare un’arma, una molotov o altro sarà isolato, vogliamo marce pacifiche», sostiene Mohammad Nabawi, che nonostante la barba è uno dei leader di Tamarrod. Come altre proteste, dal Brasile alla Turchia, il movimento non ha veri capi, ma «organizzatori». Snobbati all’inizio dall’opposizione politica riunita più di nome che di fatto nel Fronte nazionale di salvezza (Fns), poi si sono rivelati la forza trainante dell’iniziativa che potrebbe, di nuovo, cambiare la Storia egiziana. «Ci aspettiamo numeri enormi ai cortei perché questa non è una battaglia religiosa tra credenti e non, ma politica per la democrazia», dice Khaled Dawoud, portavoce del Fns. «E vigileremo su ogni violenza, ma se quella gente ci attaccherà confidiamo nell’esercito, anche se non vorremmo un ritorno dei generali».
Tra le incognite, alla vigilia del Giorno X, c’è infatti la reazione dei Fratelli Musulmani e dei gruppi islamici, da due giorni in sit-in nella zona di Nasr City. Attaccheranno le marce anti Morsi? E l’esercito come si muoverà? Molti oppositori in fondo preferirebbero un ritorno temporaneo dei militari a un perdurare di Morsi, anche se il loro programma vede un governo tecnico in attesa di una Costituzione e di elezioni, convinti che le vincerebbero. Ma questo riguarda il «dopo». Per ora, in un Paese ancora una volta sotto assedio, tutti guardano all’oggi. Con la forte paura che lo scontro non si concluda né pacificamente né in poco tempo: l’aeroporto del Cairo ieri ha visto «un esodo senza precedenti», hanno segnalato le autorità. Tutti i voli per gli Usa, l’Europa e il Golfo erano strapieni. E chi resta incrocia le dita.

l’Unità 30.6.13
Mohamed El Baradei
Il Nobel per la pace: «Giustizia sociale e Stato di diritto sono due facce della stessa battaglia di libertà che stiamo conducendo»
«Un anno dopo, siamo meno liberi e più poveri»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Morsi deve prendere atto del suo fallimento. Aveva promesso benessere e giustizia sociale. Un anno dopo la sua elezione, l’Egitto si scopre più povero e ingiusto verso i più deboli e i giovani. Aveva sostenuto di voler essere il presidente che univa la nazione. Alla prova dei fatti, si è rivelato un uomo di parte. Per il bene dell’Egitto chiedo al presidente Mohamed Morsi di dimettersi, per darci la possibilità di entrare in una nuova fase basata sui principi della libertà e della giustizia, i principi che sono stati alla base della rivoluzione che ha spazzato via il regime di Hosni Mubarak».
Il Nobel per la pace contro il «Presidente-fratello» (musulmano). La parola a Mohamed El Baradei. A poche ore dalla grande manifestazione di Piazza Tahrir, l’uomo simbolo dell’Egitto laico, rilancia la sua sfida democratica: «Siamo convinti dice a l’Unità che milioni di persone scenderanno in strada per chiedere le dimissioni di Morsi». E dopo il discorso in diretta televisiva del Presidente, l’ex direttore dell’Aiea si dice convinto che «l’opposizione sarà ancora più decisa». A un patto, però: quello di non cadere nelle provocazioni, rifiutando ogni confronto violento: «Più pacifici saremo, più forti diventeremo», afferma il leader del Fronte di salvezza nazionale egiziano.
Predica la non violenza, El Baradei. Ma i segnali che giungono dalle piazze raccontano del rischio di un precipitare della situazione nel caos. Un caos armato. «Gli egiziani rimarca il Nobel per la pace hanno sacrificato le loro vite per la libertà e la dignità, non per l’autoritarismo militare o religioso, non per la tirannia di una maggioranza. Quando questa rivoluzione è iniziata, non avremmo mai immaginato la situazione in cui ci troviamo oggi e la drammatica transizione che stiamo vivendo. È giunto il momento di dare inizio a un processo politico globale per raggiungere gli obiettivi della rivoluzione: una rivoluzione su cui la maggioranza del popolo egiziano ha iniziato a lavorare, per vivere in libertà in questo Paese, in modo indipendente e con dignità».
Il compito che l’opposizione deve porsi, l’obiettivo strategico, è quello di unire l’Egitto laddove il fronte islamista ha portato divisione. È un tasto su cui El Baradei batte più volte e con forza. Assieme al dato, «incontestabile», rimarca, del fallimento di Morsi sul piano delle politiche sociali e del lavoro. A darne conto sono alcune cifre, che il leader del Fsn mette alla base del suo j’accuse contro Morsi: la crescita del Prodotto interno lordo precipitata in due anni dal 7 all’1%; il deficit di bilancio schizzato al 13%; un’inflazione a doppia cifra; 4500 fabbriche chiuse nell’ultimo anno; tre quarti dei lavoratori occupati che ricevono uno stipendio che si aggira attorno ai 3 euro al giorno (poco al di sopra della soglia di povertà); la disoccupazione giovanile che ha sfondato il tetto-record del 40%. «Meno liberi e più poveri. È questo il lascito di un anno di potere dei Fratelli Musulmani«, sintetizza El Baradei. Giustizia sociale e Stato di diritto sono le due facce della stessa battaglia di libertà», si dice convinto il premio Nobel per la pace.
Nel suo discorso alla nazione, Morsi aveva invitato l’opposizione al dialogo. «Non è la prima volta che lo fa annota El Baradei ma ogni volta i fatti smentiscono le sue dichiarazioni d’intenti. Ricordo che l’opposizione, unita, aveva chiesto a Morsi di elaborare insieme la nuova Carta costituzionale, una Carta in cui poteva e doveva riconoscersi l’intera nazione. La risposta è stata la prova di forza istituzionale. In quell’occasione, come in altre ancora, Morsi si è rivelato un presidente di parte».
Guardando al futuro, El Baradei avverte importanti segnali di cambiamento: «Vedo crescere di giorno in giorno una opposizione più forte, più radicata, più consapevole dei compiti a cui far fronte. Quando si è presentata divisa, l’opposizione ha favorito la vittoria dei Fratelli Musulmani. È quello che è accaduto un anno fa, con l’elezione di Morsi alla presidenza. Credo che quella lezione sia stata compresa. E la manifestazione di domani (oggi, ndr) ne sarà la dimostrazione».

il Fatto 30.6.13
La domenica bestiale di Morsi, Raìs in bilico
Oggi la manifestazione per chiedere la cacciata del leader islamico e presidente egiziano dopo un anno di regno
di Francesca Cicardi


Il Cairo È iniziato come un movimento spontaneo e disorganizzato meno di due mesi fa. È la “ribellione” contro il presidente egiziano Mohamed Morsi: perché non esiste ancora dignità per gli egiziani, perché non è stata fatta giustizia per i martiri della rivoluzione, perché i poveri non vengono ancora ascoltati, perché l’economia e la sicurezza sono solo peggiorate.
Così il gruppo “Tamarrud” (ribellione) ha raccolto oltre 22 milioni di firme in tutto l’Egitto per chiedere le dimissioni di Mursi, da un anno al potere: in questi 12 mesi il popolo ha sofferto più che mai, e la situazione è degenerata rapidamente, a causa di vecchi e nuovi problemi, gestiti in modo inefficiente e improvvisato dai Fratelli Musulmani. L’aumento dell’inflazione, la svalutazione della lira egiziana, la mancanza di petrolio, i tagli dell’energia elettrica per diverse ore al giorno, l’aumento della criminalità sono i record di Mursi.
Tamarrud ha radunato e canalizzato la rabbia, la frustrazione e le preoccupazioni quotidiane di moltissimi egiziani, dai cristiani ai musulmani, dai più poveri ai più ricchi, dai giovani rivoluzionari ai nostalgici dell’ex presidente Mubarak: tutti contro Morsi, che in un anno è riuscito a farsi odiare quasi più del raìs durante i suoi 30 anni di dittatura. “Alla gestione catastrofica della Fratellanza, bisogna aggiungere il tentativo di imporre una ideologia ed il tentativo di impossessarsi di tutte le istituzioni dello Stato”, spiega al Fatto Quotidiano Ibrahim Awad, sociologo dell’Università americana al Cairo.
Esiste una percezione sempre più diffusa che Morsi stia governando per i suoi, al servizio di interessi di un gruppo che da molti egiziani è ancora considerato illegale, segreto e una sorta di governo parallelo. Appoggiato dagli islamisti radicali – i salafiti – la Fratellanza si mostra sicura, forte e mantiene un atteggiamento da molti considerato pericoloso e divisivo.
L’Egitto è sempre più spaccato in due: da una parte, i seguaci dei Fratelli Musulmani – che gli avversari definiscono in modo dispregiativo “pecore” –, e dal-l’altra, i critici del governo, che non sono solo l’opposizione liberale, ma anche molti gruppi di giovani rivoluzionari e cittadini comuni che un anno fa vollero credere alle promesse di Morsi. Ai “traditi” si sommano i “fulul”, i fedeli del vecchio regime, che allora portarono quasi alla sconfitta di Mursi di fronte a Ahmed Shafiq, uomo di Mubarak.
L’ODIO E IL RANCORE tra i “fratelli” e il resto della popolazione stanno provocando violenti scontri tra gruppi pro e anti governo: questa settimana 7 persone sono morte, più di 600 sono rimaste ferite. C’è chi già parla di guerra civile, allarme lanciato persino dalla massima autorità religiosa dell’Islam sunnita Al Azhar. La violenza tra civili nelle strade egiziane, dove la Polizia e lo Stato sono assenti, fa temere il peggio. L’Esercito, guardiano del paese, ma soprattutto dei suoi enormi interessi, si mantiene in disparte, disposto a intervenire nel caso la situazione diventi ancora più caotica e sanguinosa.
Non si prevede un colpo di Stato classico, ma un altro “salvataggio” in extremis dei generali, di fronte alle inaffidabili forze di sicurezza egiziane e all’irresponsabilità del partito al potere.
Oggi Tamarrud, accompagnato da tutta l’opposizione e da molti altri gruppi e cittadini qualsiasi, scenderà in strada con l’obiettivo dichiarato di far “cadere” il regime dei Fratelli, mentre gli islamisti assicurano che difenderanno la “legittimità” democratica del presidente.

La Stampa 30.6.13
Egitto, la spinta per la rivoluzione arriva anche dai “nonni americani”
Emigrati in Usa negli Anni ’50 combattono il “fascismo islamico” a distanza
«Per i nostri nipoti questa è un’occasione unica»
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 30.6.13
I Marines in allerta a Sigonella e in Spagna
di Guido Olimpio


WASHINGTON - Barack Obama si dice preoccupato e invita le parti in Egitto al dialogo. Con poca speranza. Infatti il Pentagono non esclude che la protesta di oggi al Cairo possa richiedere azioni di emergenza.
A partire da venerdì sono stati posti in stato d’allarme circa 200 marines schierati nelle basi di Sigonella (Sicilia) e Moron, Spagna. Dispongono di aerei e velivoli da trasporto a decollo verticale Osprey, l’ideale per un’eventuale operazione di soccorso al Cairo. Inoltre l’ambasciata Usa consigliato a parte dello staff di lasciare il paese insieme ai propri familiari.
Gli Stati Uniti temono che le dimostrazioni - dove ha già perso la vita uno studente statunitense - possono coinvolgere la sede diplomatica. Una ripetizione di quanto avvenne l’11 settembre di un anno fa con l’assalto al Consolato di Bengasi, in Libia.
Con il ripetersi di violenze e episodi terroristici nel Nord Africa, Washington ha distaccato, da mesi, nelle due basi in sud Europa un reparto speciale dei marines che ha seguito un addestramento ad hoc. Inoltre, se le cose dovessero mettersi male, può contare su altri 2200 soldati, imbarcati su una task force aeronavale che attualmente incrocia nel Mar Rosso. Anche queste unità sono in stato di allerta ed è probabile che resteranno in zona per diverso tempo.
Fonti di intelligence non nascondono l’inquietudine per il deteriorarsi del quadro sicurezza. E non solo in Egitto, dove alle proteste di piazza si somma l’attività di nuclei jihadisti nel Sinai. A Washington seguono gli eventi in Tunisia e Libia, due paesi minacciati da gruppi armati di orientamento islamista e da milizie che sfuggono a qualsiasi controllo.

l’Unità 30.6.13
Sirri Surreyya Onder
Cineasta, parlamentare del partito curdo Bdp, si è schierato con Gezi Park «Ci siamo ancorati al modello economico neo-liberista»
«In Turchia anche la sinistra ha sbagliato strategia»
di Emanuela Irace


ISTANBUL «In Turchia la sinistra potrà solo produrre un’alternativa di destra. Io sono socialista, e in questo momento mi sento molto triste». Sirri Surreyya Onder non ha dubbi. Più che un vaticinio la sua è un’ammissione di responsabilità. Cinquanta anni, cineasta, parlamentare del partito Kurdo Bdp, si è schierato da subito con il movimento ecologista di Gezi Park. Bloccando le ruspe e fermando i lavori. Ferito dalla polizia durante gli scontri del 28 maggio, ha pagato la disubbidienza civile anche in termini politici.
Membro del terzetto per la mediazione tra lo Stato turco e il leader Kurdo Ocalan, Sirri Surreyya proprio in questi giorni si è visto revocare l’incarico. Un passo indietro per il regista-deputato che ha appena finito di girare un episodio di: «Effe», film corale sulla condizione delle carceri turche. «Effe», come il nome della detenzione più dura, quella di isolamento. La stessa che da dieci anni sta scontando Ocalan nell’isola di Imrali. E un passo indietro anche per la difficile tessitura diplomatica che ruota intorno alla road map varata il 21 marzo scorso. Un processo di pacificazione interna iniziato nel 2009. Trattativa arrivata oggi a un punto di stallo. Complice la protesta di Piazza Taksim. Una spirale di violenza che ha compattato le opposizioni mettendo in seria difficoltà il Governo turco. Un’arma di ricatto nelle mani di un Premier che «vuole durare», come in tutte le oligarchie che si rispettano, anche per interposta persona: «vuole durare», come in tutte le oligarchie che si rispettano, anche per interposta persona: «Erdogan andrà via ma troveranno un uomo d’affari più laico che ne prenderà il posto. Piazza Taksim rappresenta il primo atto di dissoluzione di questo governo. L’erosione vera e propria avverrà nel 2014 con le elezioni locali. La campagna elettorale è già iniziata. Erdogan è riuscito dove la sinistra aveva fallito, unire le opposizioni».
Qual è stato ruolo della sinistra?
«Dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980 la sinistra non si è mai confrontata. Non ha fatto autocritica. E non si è rinnovata. Si è ancorata al modello economico neo-liberista che ha svenduto pezzi di Stato agli investitori esteri, producendo ricchezza per pochi. Sono le grandi famiglie e le lobby finanziarie, i paesi del Golfo, che ci hanno guadagnato. Io penso che finché la sinistra non troverà un modello economico e sociale alternativo potrà solo produrre una alternativa di destra».
L’Akp, il partito di Erdogan, ha puntato su crescita e sviluppo.
«Si. La propaganda è questa. Ma non possiamo parlare di sviluppo. La Turchia cresce, fa grandi opere, costruisce il terzo ponte sul Bosforo e vuole un altro mega aeroporto. Ha un Pil al 5% che fa invidia all’Europa ma le recenti privatizzazioni e liberalizzazioni sono andate a scapito della classe lavoratrice che si è vista diminuire salari e tutele. E aumentare ore di lavoro e morti sul lavoro».
E continua la violazione dei diritti umani. Sindaci e avvocati arrestati. Deputati dell’opposizione in prigione.
«Da tre anni la situazione è precipitata. Con il consolidamento del potere nelle mani di Erdogan gli spazi di democrazia si sono assottigliati. Il movimento spontaneo partito da Piazza Taksim ha espresso le contraddizioni del regime e il malessere della popolazione. Il punto di vista ufficiale dell’oligarchia che governa si basa su due paradigmi: curdo-fobia e fobia dei socialisti. Quando uno di questi gruppi avanza una proposta il Governo si oppone e partono le persecuzioni e gli arresti di massa». Un’impasse anche nella trattativa per la soluzione della questione curda?
«La questione curda coincide con la richiesta di democrazia gridata a Piazza Taksim e in tutta la Turchia. Dieci milioni di curdi chiedono di poter vivere nel paese in cui sono nati in condizioni di parità con gli altri cittadini dello Stato, senza essere perseguitati. Il Governo invece considera la protesta di piazza Taksim un sabotaggio al processo di pace voluto da Ocalan nella road map del 21 marzo scorso».
Road map che prevede tre fasi . A che punto siamo?
«Abbiamo realizzato la prima fase. Il ritiro del Pkk dai confini dello stato turco è iniziato l’8 maggio e si è completato in questi giorni. Il secondo punto è sulle riforme democratiche e sul varo di una nuova costituzione. Il terzo riguarda la deposizione delle armi dei guerriglieri».
Cosa si aspetta per il futuro?
«Penso che il ventunesimo secolo sarà il secolo dei curdi. Se realizzeremo l’autonomia. tutti i confini fatti tra i paesi del Medio Oriente verranno cancellati. E il futuro sarà finalmente all’insegna della pace e della democrazia».

il Fatto 30.6.13
Obama, il nero che non piace al Sudafrica
Il presidente afroamericano contestato nella città-simbolo della lotta all’Apartheid
di Angela Vitaliano


New York Ho espresso la mia speranza che Madiba attinga pace e conforto dal tempo che sta trascorrendo con i suoi cari e ho anche espresso il mio più sentito sostegno all’intera famiglia”. Parole formali, ma affettuose, quelle di Obama per sintetizzare il senso del suo incontro con i familiari dell’ex presidente avvenuto presso il Nelson Mandela Centre of Memory di Johannesburg.
Il presidente, che ha sottolineato ancora una volta l’importanza della figura di leader di Madiba (come Mandela è chiamato affettuosamente) nel mondo intero, ha aggiunto di aver anche parlato al telefono con sua moglie Graca Machel che non si è allontanata dal suo fianco, dal-l’ospedale di Pretoria. Quest’ultima, poi, ha riferito di aver passato a suo marito il messaggio del presidente e ha ringraziato l’intera famiglia Obama per il “loro tocco caloroso”.
Prima dei familiari di Mandela, Obama aveva incontrato il presidente sud africano, Jacob Zuma, che, in conferenza stampa, aveva confermato, che le condizioni di salute di Madiba sono “critiche ma stazionarie”. Zuma, inoltre, aveva evidenziato la profonda “similitudine” fra Mandela e Obama dicendo “voi siete storicamente legati dal fatto di esser i primi presidenti di colore dei vostri paesi”.
LA GIORNATA, tuttavia, era stata turbata da una serie di proteste, culminate anche con il lancio di granate da parte della polizia, contro la politica estera americana “aggressiva e arrogante ” e l’utilizzo dei droni. Diverse centinaia di persone, infatti, si erano date appuntamento nel pomeriggio all’esterno del campus universitario di Johannesburg, dove Obama stava tenendo un incontro con gli studenti. Le proteste, tuttavia, non hanno determinato alcun cambiamento nell’agenda del presidente che resterà in Sud Africa fino a lunedì quando, invece, si sposterà, per l’ultima tappa del suo viaggio africano, in Tanzania. E proprio a Dar es Salaam, si incontreranno, insieme con le First Lady di molti altri paesi, Michelle Obama e Laura Bush, in occasione dell’African First Lady Summit. Obiettivo principale quello di discutere delle iniziative necessarie per promuovere l’educazione delle donne, la loro salute e il loro potere economico. Il Summit, giunto al suo terzo anno, si svolge in contemporanea con “The Smart Partnership International Dialogue”, evento che vedrà la partecipazione di dieci capi di Stato, per lo più africani. A incontrarsi, tuttavia, solo le due First Lady. George W e Barack, ancora una volta, manterranno le distanze.

Corriere 30.6.13
I caschi blu cinesi in Mali per la pace ma anche per calcolo geopolitico
di Guido Santevecchi


Mobilitare 500 soldati, per la Cina che spende 116 miliardi di dollari l'anno per le forze armate e ha un esercito di 2,3 milioni di uomini e donne, non è un'impresa complicata. Ma questa volta il battaglione dell'Esercito popolare che si prepara ad andare in Mali con la forza di pace delle Nazioni Unite segna la fine di un tabù. Per la prima volta si tratta di caschi blu cinesi con ruolo combattente. Finora Pechino aveva concesso all'Onu solo personale medico e del genio (ce ne sono 1.900 all'estero), in base al principio della non interferenza negli affari interni di un altro Stato e del rifiuto di impegno armato all'estero.
E questo atteggiamento è stato molto criticato in Occidente. In Consiglio di sicurezza il diritto di veto cinese all'intervento armato in aree di crisi del mondo è sempre un'incognita e un ostacolo potenziale. Così la Cina entra davvero nel peacekeeping Onu.
Certo, ci sono calcoli geopolitici (ad alta densità economica) nella decisione: la Cina ha in Africa duemila imprese impegnate con un paio di milioni di suoi cittadini tra manager, tecnici e lavoratori. Ha sorpassato Usa ed Europa come primo partner commerciale del continente (155 miliardi di euro nel 2012). Si calcola che abbia investito 113 miliardi nel continente negli ultimi cinque anni: più degli Stati Uniti. In Africa, la seconda potenza economica del mondo cerca petrolio, gas, minerali, prodotti agricoli, terra da sfruttare. Dal Mali arrivano prodotti utili all'industria tessile cinese. E quando la Francia a gennaio ha mandato i suoi reparti speciali a combattere contro i jihadisti islamici che stavano conquistando il Mali, Pechino è stata gelida: ha temuto il ritorno della vecchia potenza coloniale.
Ora il governo di Pechino offre di mandare i suoi caschi blu per la stabilizzazione del Paese africano, sicuramente anche per tenere d'occhio i concorrenti occidentali. E il compito principale sarà quello di proteggere il suo personale medico (una linea già tenuta nella missione in Sudan). Ma è comunque una buona notizia. Non esiste intervento «umanitario» disinteressato, da qualunque parte provenga.

Corriere La Lettura 30.6.13
Il fascino indiscreto di Pechino
La Cina usa il soft power. E il suo modello (autoritario) piace più di quello indiano
Così i Brics affrontano l'ultima crisi
di Danilo Taino


Per quanto divertente — molto divertente — difficilmente sarà Bollywood il soft power del mondo futuro. Shahrukh Kahn è un divo globale, ma di sicuro non riuscirà a imporre uno stile come fece Cary Grant. Attenzione, però: un ruolo gli indiani lo hanno (speriamo). La questione è quella delle nuove potenze, dei cosiddetti Brics. Soprattutto della Cina che sfida gli Stati Uniti.
A inizio giugno, il presidente Xi Jinping è andato in California per dire a Barack Obama che d'ora in poi Pechino vuole sedersi su una sedia alta quanto quella americana, quando si viene agli affari internazionali. È una svolta: il padre del successo economico cinese, Deng Xiaoping, aveva raccomandato che i suoi successori tenessero un atteggiamento umile sul palcoscenico mondiale, che lavorassero sodo ma ricordassero sempre a tutti che la Cina è un Paese in via di sviluppo, non una grande potenza minacciosa. La nuova leadership di Pechino pare aver deciso che quella tattica è obsoleta, che serve un riconoscimento: entro fine decennio la Cina sarà la più grande economia del pianeta, non può sempre camminare rasente i muri, prima o poi deve prendere il centro della scena. C'è però un problema che i leader cinesi hanno ben presente: mancano di soft power.
Il presidente Xi e il primo ministro Li Keqiang hanno gli occhi puntati sull'America. Sanno che, oltre al potere militare ed economico, a fare la superpotenza che ha dominato il XX secolo sono stati una cultura e uno stile di vita che hanno conquistato gran parte del mondo, un soft power che ha avuto un ruolo enorme persino nella caduta del comunismo: Hollywood, la musica rock, la letteratura, la grande stampa, la libertà su un chopper, la democrazia, la ricerca della felicità e del successo, le grandi università, l'assenza di limiti alle ambizioni, la Coca-Cola e i jeans. L'American Dream. Infatti, Xi parla oggi di «Sogno cinese». E, già nel 2007, l'allora presidente Hu Jintao disse al XVII Congresso del Partito comunista che la Cina avrebbe dovuto incrementare il suo soft power.
Il politologo di Harvard Joseph Nye, che nel 1990 ha inventato il concetto che ha poi conquistato il dibattito delle relazioni internazionali, sostiene che nella politica mondiale il soft power — la capacità di convincere e portare sulle proprie posizioni gli altri senza misure coercitive, l'abilità di conquistarli per via morbida — è assolutamente necessario. Una forza che ogni Paese dovrebbe possedere, a maggior ragione se vuole essere una potenza. Messaggio chiaro per i Brics — Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica: hanno qualcosa capace di affascinare il mondo?
Fino a qualche anno fa, pochi sostenevano che la Cina avrebbe potuto mettere in campo una capacità di attrazione soft, una cultura che potesse fare egemonia e conquistare altri Paesi. Non che Pechino non ci provi. È che lo fa in modo burocratico. Ha aperto quasi trecento Istituti Confucio nel mondo, l'anno scorso ha fondato l'Associazione per la diplomazia pubblica, ha organizzato l'Olimpiade a Pechino nel 2008 e l'Expo a Shanghai nel 2010, crea in continuazione nuove borse di studio per attrarre studenti, organizza manifestazioni artistiche e spettacoli in Asia, Africa e America Latina. Denaro non sempre speso bene: in più di un Paese, anzi, la Cina spaventa più che ammaliare. Ciò nonostante, il modello cinese qualche radice fuori dall'Impero di mezzo inizia a metterlo.
Nel giugno 2011, l'allora segretario di Stato americano Hillary Clinton fece un discorso in Zambia nel quale sostenne che un «nuovo colonialismo» minacciava l'Africa, quello cinese. Da allora, molte voci africane si sono levate per negarlo. L'economista capo della African Development Bank, Mthuli Ncube, ha sostenuto durante un Forum di Davos che la Cina è in realtà diventata un partner benefico per l'Africa. Un'altra economista, Dambisa Moyo, ha spiegato che gli investimenti di Pechino nel continente, soprattutto alla ricerca di materie prime, hanno in realtà spezzato il ciclo di dipendenza di molte economie dagli aiuti internazionali: le entrate dei donatori occidentali deresponsabilizzavano le classi dominanti, le quali le preferivano a un reale sviluppo in quanto permettevano loro di non cambiare le cose, di conservare il potere e di intascare parte degli aiuti sotto forma di corruzione. Non a caso — a suo parere — una serie di economie africane ha iniziato a crescere solo dopo che sono arrivati gli investimenti cinesi.
Non è ancora soft power, ma potrebbe esserne la base. Tutti i Brics — i grandi emergenti — hanno bisogno di offrire al mondo una loro narrazione, un'idea di se stessi per cooperare con gli altri. Si tratta di modelli diversi tra loro, spesso in contrasto, ma è il modello di crescita cinese il più forte e di successo: grandi investimenti, business prima di ogni cosa, controllo stretto da parte dello Stato, molta crescita. E, come si sa, niente ha più successo del successo: non ci saranno star di Hollywood e libertà di stampa, ma per molti Paesi poveri dell'Africa e forse anche dell'America Latina un modello fondato sull'autoritarismo efficiente, che crea benessere, può diventare attraente, da copiare: soft power.
Uno dei punti chiave della spiegazione che il professor Nye dà del soft power, infatti, è che esso non è necessariamente benevolo e positivo, come potrebbe pensare chi si limitasse a contrapporlo a un cattivo hard power fatto di rumori di sciabole, di minacce, di Prodotti nazionali lordi. «Hitler, Stalin e Mao — ha sostenuto in un suo libro sul futuro del potere — possedevano tutti una gran quantità di soft power agli occhi dei loro seguaci, ma questo non lo rese buono». Si tratta semplicemente di una forma di potere diversa da quella che tradizionalmente si è considerata nelle relazioni tra Stati e nello stabilire i rapporti di forza. Ma è sempre potere. Vero che la rivista «Monocle» nel novembre 2012 ha stilato una classifica del soft power globale, basata su 50 indici, nella quale appaiono solo Paesi democratici: ai primi tre posti Regno Unito, Usa e Germania (Italia quattordicesima). Ma è anche vero che altri sondaggi in Africa mettono la Cina al primo posto, davanti anche agli Stati Uniti, in termini di influenza positiva sul continente. L'idea che la via autoritaria cinese possa essere più efficiente di quella proposta dai Paesi occidentali e dagli altri Brics ha dunque la potenzialità di prendere piede, se Pechino riuscirà ad affermarsi anche pubblicamente come superpotenza globale che ha un modello vincente, secondo le intenzioni di Xi e Li.
Qua arriva Shahrukh Kahn. L'India, infatti, tra i Brics è quella che rappresenta la via anticinese all'uscita dalla povertà. Finora, nel confronto con il vicino del Nord ha mangiato la polvere: il sistema indiano — dicono a Pechino — è inefficiente perché democratico, dà retta a milioni di istanze invece di imporre alla popolazione un bene superiore che il partito conosce. Se New Delhi non saprà smentire questa teoria, Pechino avrà la strada aperta per presentarsi come il modello giusto per i Paesi emergenti. Ma se, in questo confronto/scontro tra le potenze di domani, l'India farà il miracolo, potrebbe esserci anche Bollywood nel futuro dei Brics.

SCACCHI CROAZIA

il Fatto 30.6.13
Addio Margherita, il lato più a sinistra del firmamento
L’astrofisica è morta a 91 anni per arresto cardiaco
Aveva rinunciato all’intervento
di Antonio Armano


Margherita Hack si è spenta insieme alle stelle. Vale a dire verso l'alba di ieri all'ospedale di Cattinara, a Trieste, dove era ricoverata da una settimana per una crisi al cuore. I suoi necrologi gronderanno di metafore astrofisiche ma in fondo sono in linea col personaggio che si considerava "figlia delle stelle". Cioè fatta della stessa materia creata dalle Supernove, come tutto quello che c'è nell'universo del resto. E chissenefrega se per questo doveva dar ragione ad Alan Sorrenti e al suo album del '77. Rientrava nel ruolo di divulgatrice passionale. Sì, perché lei si rammaricava, con Seneca, che lo spettacolo della volta celeste fosse reso sterile e noioso dalla scuola mente se, per assurdo, lo si potesse vedere solo da un punto della Terra tutti accorrerebbero per ammirarlo.
MARGHERITA HACK sapeva benissimo che il cuore poteva smettere di pompare in qualsiasi momento. Eppure nel dicembre scorso ha rifiutato un intervento ritenendolo una forma di accanimento terapeutico. Pensava che a novant'anni il gioco non valeva la candela. Che non valesse la pena di farsi trinciare il petto per qualche mese di vita in più, affaticata attivista piegata in due com'era negli ultimi tempi. Lei infaticabile sostenitrice di mille cause perse o vinte non era proprio il tipo della rinunciataria anche se da qualche anno – e con grande rammarico - aveva appeso al chiodo l'amata bicicletta. Con la quale scorrazzava per il Carso nonostante tre bypass e le protesi di titanio ai ginocchi: "Se ne avessi avuti ottanta, bè, forse di quell’operazione sarebbe valsa la pena. Ma alla mia età...".
Una forma di coerenza filosofica prima di tutto. Quella per l'eutanasia e contro l'accanimento terapeutico era una delle sue battaglie insieme a quella per i diritti degli omosessuali, per la laicità dello stato, per il rispetto verso gli animali – era vegetariana e la mandava in bestia che ogni giorno milioni di animali vengano uccisi per finire sulle tavole -, e contro il divieto di ingresso dei cani negli alberghi e in spiaggia. Margherita Hack è nata al tempo della marcia su Roma, ha compiuto 91 anni martedì 12 giugno e ha fatto in tempo a dare del "grullo" a Grillo in un'intervista alla rivista ExtraTorino, l’ultima rilasciata. Grillo che pure, tra i vari papabili al seggio di senatore a vita, l'ha indicata come l'unica degna di nomina. Alle primarie del Pd la Hack ha votato per il conterraneo Renzi e contro Bersani. La dote che tutti le riconoscono
– al netto dell'aderenza a molte cause della sinistra e candidature comuniste – era l'indipendenza di pensiero e la schiettezza. Si è beccata pure della "astrologa" in un'intervista di Liberazione ma solo per errore del giornalista che il direttore Sandro Curzi ha costretto a un auto-da-fè terribile, il giorno successivo. Si poteva pensare a una gaffe peggiore? Astrologa la Hack ha finito per diventarla ma solo in un'imitazione della trasmissione Quelli che il calcio, condotta da Vittoria Ca-bello, che ne sfruttava l'accento toscano inconfondibile, e la corporatura carismatica, la sfrontatezza con cui portava un secolo sulle spalle curve.
La sua recente uscita più clamorosa è stata sotto forma di scherzo. Quelli della Zanzara, la trasmissione radiofonica su Radio24, si sono spacciati per l'astrofisica chiamando Valerio Onida. Il costituzionalista era appena stato nominato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano nella commissione di saggi che doveva - ufficialmente - formulare delle proposte di riforma e di fatto serviva prendere (o perdere) tempo durante il surreale limbo politico del dopo voto. "I saggi? Inutili – ha spiegato al telefono l'ex presidente della Cosulta -, servono a coprire questo periodo di stallo. Andremo a votare presto. Berlusconi vuole solo protezione, è anziano e speriamo decida di godersi la vecchiaia lasciando in pace gli italiani". Svelata la beffa Onida si è scusato con Napolitano e Berlusconi per avere espresso quel giudizio.
Figlia di iscritti alla Società teosofica italiana – quindi praticanti un culto esoterico e iniziatico - Margherita Hack ha conosciuto il marito Aldo De Rosa, di poco più anziano, ai giardinetti a Firenze. Il marito che è le è stato accanto tutta la vita e – contro ogni statistica vedovile – le è sopravvissuto. Si è iscritta a Lettere ma, nonostante la passione per la narrativa, ha rinunciato dopo la prima lezione, che verteva su un testo del '20 di Emilio Cecchi, Pesci rossi, e trovava - giustamente
- noiosissima. È così passata subito a Fisica. Dobbiamo quindi al critico conservatore che nel dopoguerra stroncherà Pasolini e altre avanguardie, se la Hack ha intrapreso la strada delle scienze esatte. Dopo avere insegnato in mezzo mondo, California compresa (Berkley), è diventata nel '64 – fino al '92 - docente di astronomia all'università di Trieste e prima donna a dirigere l'osservatorio astronomico di quella città che è diventata la sua città d'azione.
"QUANDO ci sono io non c’è la morte e quando c’e’ la morte non ci sarò io" ripeteva, secondo la nota formula dei filosofi epicurei. La spaventava più la sofferenza senza fine che la fine. Credeva a poco da giovane e più a niente da adulta. Considerava l'essere scettici un dono. Come molti scienziati veniva interpellata spesso sull'unica domanda a cui non poteva rispondere con certezza e cioè se esiste Dio. Lei lo escludeva e riteneva più probabile che esistessero gli extraterrestri vista la vastità dell'universo.

l’Unità 30.6.13
Margherita. Il volto dell’astrofisica
È morta Margherita Hack, aveva 91 anni
Studiosa di grande valore: è stata la prima donna a dirigere un osservatorio
di Cristiana Pulcinelli


26 febbraio 2013. «Margherita, hai sentito la storia della carne di cavallo trovata nei tortelli al manzo? Vuoi fare un commento?» «Mah, non saprei che dire. Per me, manzo o cavallo, sempre di cadaveri di bestie innocenti si tratta. Invece vorrei parlare delle elezioni». E giù a cascata: Grillo, il Cavaliere, la sinistra e un elenco puntuale di tutto quello che c’è da fare per il Paese. Ecco Margherita: franca, diretta. Se stavi zitto zitto sentivi, dietro la sua voce roca, anche il suo pensiero: «Te tu sei grulla a parlare di carne quando c’è da rimettere in piedi l’Italia». Naturalmente, aveva ragione lei.
Per quasi due anni ci siamo sentite, io e Margherita, ogni due settimane. Un appuntamento fisso per commentare i fatti degli ultimi giorni. La sua rubrica per l’Unità, “Pan di stelle”, nasceva così: Margherita di che parliamo oggi? E lei, pronta, aveva sempre un tema forte su cui intervenire. Solo una volta mi disse: «Oddio, mi ero dimenticata, ora ho una riunione e tra due ore parto». Silenzio. «Va bene, chiamami tra mezz’ora». A novant’anni le bastava mezz’ora per leggere i quotidiani, che lei comprava tutti i giorni, e farsi un’idea di come stavano le cose. Poi diceva la sua. Sempre. Con la forza dell’indignazione e la leggerezza di un linguaggio semplice. Erano, le sue, parole in cui molti si riconoscevano, tant’è vero che i suoi articoli pubblicati sul quotidiano on line erano tra i più commentati dai lettori.
Ora Margherita non c’è più: è morta nella notte tra venerdì e sabato nel polo cardiologico dell'ospedale di Cattinara a Trieste dove era ricoverata da una settimana. Dicono che con lei ci fosse Aldo, suo marito da settant’anni. Non si separavano mai, lei e Aldo. Anche ultimamente, quando già non stavano più bene, ma lei ancora girava per l’Italia per tenere conferenze, si presentavano insieme, ognuno sulla sua carrozzella. Così li abbiamo incontrati a fine marzo alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna. Margherita parlava ai ragazzi di stelle e galassie e Aldo in ultima fila ascoltava quello che chissà quante altre volte aveva sentito dalla sua Marga (così la chiamava). E quando Aldo dava qualche segno di impazienza perché l’incontro si dilungava troppo, Marga sorrideva e gli faceva segno: tranquillo, ora si va. Lei atea, lui cattolico. Lei scienziata, lui letterato. Marga e Aldo si completavano a vicenda. Lei il 12 giugno aveva compiuto novantuno anni. Lui, che ne ha due di più, ora sarà solo.
Anche noi saremo un po’ più soli. Ci mancherà la sua voce, il suo sguardo limpido, la sua simpatia. E quell’intreccio di qualità costruite in una lunga vita. Margherita Hack, infatti, era tante cose. Una sportiva, prima di tutto. Nell’atletica ebbe anche alcuni importanti riconoscimenti: quando aveva vent’anni vinse i campionati universitari nazionali per il salto in alto e il salto in lungo e in seguito arrivò terza in due campionati italiani assoluti. Ma anche con la bicicletta non se la cavava male. Raccontava che alla fine degli anni 30 per la tradizionale gita di ferragosto decise di andare e tornare da Viareggio in giornata su due ruote: circa cento chilometri di pedalate. E la bici l’avrebbe usata fino oltre gli ottant’anni. Amava anche la pallavolo che continuò a giocare fino a quando «le ginocchia di titanio» non le impedirono di saltare. Diceva che dallo sport aveva imparato molto: a essere più sicura di sé e ad affrontare la vita come si affronta una gara: «Con la voglia di vincere».
Naturalmente, era una scienziata. Astrofisica, per la precisione. Margherita Hack è stata la prima donna italiana a dirigere un osservatorio astronomico, quello di Trieste, alla cui testa è rimasta per 23 anni. Membro dell’Accademia dei Lincei e delle più prestigiose società astrofisiche. Ma era anche una divulgatrice. La ricordiamo spiegare con pazienza a un pubblico televisivo di qualche anno fa che «l’astronomia è una scienza, l’astrologia una superstizione», e raccontare a bambini di oggi che le stelle non sono niente di immaginifico e romantico, ma semplici palloni di gas che bruciano, come una centrale nucleare, a grande distanza da noi. Grazie alla sua capacità di raccontare, Margherita ha scritto moltissimi libri di divulgazione per adulti e per ragazzi.
Era vegetariana «senza merito», diceva, perché lo erano i suoi genitori. Ma poi l’amore per gli animali e la convinzione che si debba loro restituire il diritto a una vita libera e priva di sofferenze aveva rafforzato la sua scelta di non mangiare carne. Adorava i gatti, di cui si circondava, e i libri che riempivano tutti gli angoli della sua casa triestina.
Amava la politica. Apprezzava le battaglie a viso aperto e ne ha condotte molte contro la corruzione, contro lo spreco di denaro, contro i privilegi. Ma credeva nel dialogo. Da atea, dichiarava: «Ateo e credente possono anche dialogare, a patto che ambedue siano laici, nel senso che rispettino le credenze o le fedi dell’altro senza voler imporre le proprie». La ringraziamo anche per questo.

l’Unità 30.6.13
Una scienziata militante che si batteva per i diritti
In prima linea, sempre, e non solo per la Ricerca
Animalista, ecologista, femminista. Le battaglie per la libertà di culto e l’impegno politico
di Pietro Greco


Si è spenta ieri a Trieste Margherita Hack, la «signora delle stelle». Forse il volto più noto della scienza italiana. Certo il più amato. Con lei il Paese perde una grande figura. Anzi, un modello. Uno dei pochi modelli popolari, ma non populisti, in cui gli italiani ancora si riconoscevano. E non solo d’istinto.
Margherita Hack aveva un’indubitabile capacità naturale di entrare in sintonia con le persone. Ma l’immediata simpatia che suscitava non era solo frutto della sua verve tipicamente fiorentina. Era anche e soprattutto il frutto di un «modo di vivere» il suo essere donna di scienza. Margherita era una «scienziata militante», con una fede illuministica nella forza della ragione – della ragione al servizio dell’umanità – che riusciva a trasmettere toccando la mente (e i cuori) di tutti grazie alla sua libertà di pensiero. E alla trasparente, intransigente, rigorosa, generosa, disinteressata coerenza con cui la rappresentava, la sua libertà di pensiero. Suscitando empatia anche quando navigava – e succedeva spesso – contro corrente. È con la sincerità senza calcoli che Margherita Hack, anche a novant’anni, riusciva a parlare ai giovani. A entrare in empatia coi giovani.
E stata una grande donna di scienza, Margherita Hack. Non solo perché è stata una delle prime a rompere «il tetto di cristallo» e la prima donna italiana in assoluto a dirigere un osservatorio astronomico, quello di Trieste. Ma anche e soprattutto perché, nel corso della sua direzione durata dal 1964 al 1987, lo ha trasformato da piccolo osservatorio di provincia in un centro di ricerca di valore internazionale. Lei stessa si è affermata come grande esperta di spettroscopia stellare. È stata una grande comunicatrice, Margherita Hack. Pochi, come lei, sapeva parlare di scienza catturando l’attenzione dei pubblici più differenti. Ha fondato e diretto per anni una rivista L’Astronomia. Ha scritto sui giornali (è stata una delle collaboratrici più entusiaste e seguire dell’Unità). Ha bucato il video come, forse, nessun altro scienziato italiano. Non mancava davvero occasione di parlare alla radio, con la sua inconfondibile cadenza. Ha scritto una quantità enorme di libri di successo. Ha fatto teatro. Ha tenuto conferenze, riempiendo sempre le sale. Ciascuna di queste attività – ciascuna di queste qualità – meriterebbe un approfondimento. Tuttavia la dimensione maggiore della sua figura è quella di «scienziata militante». Capace di uscire dalla «torre d’avorio» e di mettere il suo illuminismo convinto fino all’ingenuità a disposizione di tutte le cause, piccole e grandi, di progresso sociale e civile.
Animalista convinta, circondata da cani e soprattutto gatti, si è battuta per affermare uno stile alimentare rigorosamente vegetariano oltre che contro ogni sofferenza inutile inferta ai suoi amici semoventi. Atea convinta, si è battuta per il rispetto della libertà religiosa. Ecologista convinta, si è battuta per le centrali nucleari. Icona delle donne in bicicletta, si è battuta per il diritto a guidare l’auto anche in tarda età se in possesso dei giusti requisiti fisici. Femminista convinta, non si è mai pianto addosso. I diritti alla parità vanno conquistati con forza e determinazione quotidiana, diceva, da parte delle donne. Tra le cause per cui si è spesa di più c’è quella della ricerca scientifica. Ma la sua battaglia non è mai stata corporativa. Credeva che la scienza è fonte di progresso intellettuale e civile per tutti. E che i risultati della ricerca, se applicati a beneficio di tutti, sono fonte di progresso sociale ed economico generale. In questo senso intendeva anche il suo impegno nella comunicazione e a fianco dei comunicatori. Non c’è giornalista scientifico italiano che non ne abbia apprezzato l’impegno, la disponibilità e la modestia. Non c’è giornalista scientifico italiano che non l’abbia considerata un’amica.
Ma Margherita era una militante politica anche in senso tecnico. Ha dato la sua faccia e la sua voce a molti partiti, sempre di sinistra. Si è candidata a mille cariche, dal consigliere comunale e deputato nazionale. Non si è mai seduta su una sedia. Se non quella, forse, di consigliere comunale a Trieste. Molti, tra i suoi colleghi ricercatori, hanno mosso qualche critica a questa presenza continua di Margherita nella vita pubblica. Esponendoti troppo, non esponi solo te stessa – dicevano – ma anche la scienza. Ma lei alzava le spalle e tirava avanti diritto. Non ricordavano, i suoi colleghi, che quasi tutti i più grandi uomini di scienza – da Darwin a Einstein, da Russell e Bohr, da Maria a Elena Curie, da Maria Montessori a Rita Levi Montalcini – sono stati «scienziati militanti» e hanno prestato nome, volto e impegno a grandi cause sociali e anche politiche. Non si accorgevano, i suoi critici (pochi per la verità), che la fiorentina Margherita non faceva diversamente. Non si accorgevano i suoi colleghi che con la sua schietta passione a favore dei più deboli, Margherita ha contribuito a «umanizzare» la scienza. Ovvero, a creare una percezione diffusa che gli scienziati sono uomini. Come gli altri. Spesso migliori degli altri. Un’operazione preziosa, in un paese che non comprende la scienza. Grazie, Margherita.

l’Unità 30.6.13
Nell’articolo che scrisse il 12 giugno 2012 per l’Unità, in occasione
del suo 90° compleanno, l’invito ai giovani ad avere fiducia nel futuro
Ho attraversato un secolo con la voglia di vincere
di Margherita Hack


Oggi compio novant’anni. Si può dire che ho vissuto quasi un intero secolo. Anzi, se mi guardo indietro e torno con la memoria fino ai racconti che mi faceva il babbo quando ero piccolina, mi sembra di aver vissuto più d’un secolo.
Il babbo mi raccontava della miseria che c’era nel nostro Paese dopo la prima guerra mondiale, dei tanti disordini e degli scioperi continui che resero possibile l’avvento del fascismo. Tutta la mia infanzia l’ho vissuta sotto il fascismo, per la verità senza capire molto di quello che accadeva. Ricordo le ultime elezioni del ’29: un nostro conoscente ci raccontava che le schede erano semitrasparenti, quelle a favore del fascismo avevano un tricolore disegnato sopra, quelle contrarie erano bianche, cosicché anche quando erano chiuse si vedeva in trasparenza per chi avevi votato. Ricordo i quaderni di scuola con le frasi del duce: «È l’aratro che traccia il solco,ma è la spada che lo difende», «Credere, obbedire, combattere». E ricordo i temi che ci chiedevano di fare, quasi tutti improntati all’esaltazione della patria fascista. Il sabato si andava a scuola in divisa e si doveva marciare, per noi era un divertimento: meglio marciare che stare seduti sui banchi.
Cosa fosse il fascismo l’ho capito solo nel ’38 con la promulgazione delle Leggi Razziali. All’epoca andavo al liceo e avevo una professoressa di scienze che si chiamava Enrica Calabresi. La vidi sparire da un giorno all’altro, era stata cacciata dalla scuola perché ebrea. Chi fosse veramente la professoressa Calabresi e che fine avesse fatto l’ho capito solo molti anni dopo. Stavamo registrando una trasmissione tv assieme a Piero Angela alla Specola di Firenze e lì incontrai due studiose che avevano condotto una ricerca. Scoprii così che Enrica Calabresi era una brava ricercatrice che aveva pubblicato già all’epoca una cinquantina di lavori originali di entomologia e che aveva ottenuto il titolo di libero docente, equivalente all’attuale dottorato di ricerca. Poi la lettera in cui si diceva che l’incarico di docenza decadeva in quanto la professoressa era di razza ebraica. La professoressa Calabresi venne arrestata nel 1943 e si suicidò dopo 20 giorni di carcere.
Ricordo gli ultimi tempi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e la speranza che Mussolini ci ripensasse. Poi ricordo la guerra: l’oscuramento, i bombardamenti, le tessere per prendere qualsiasi cosa. Ricordo le grandi ristrettezze in cui vivevamo, si ascoltava Radio Londra per sapere davvero come stavano andando le cose e si tenevano sempre le finestre ben chiuse. Finalmente ho visto il dopoguerra. Il 1945 fu un periodo di grande entusiasmo e di curiosità. Ricordo i giorni del Referendum per scegliere tra repubblica e monarchia: andavamo a fare sondaggi nei seggi per capire come fosse andata. E ricordo quando arrivarono finalmente i risultati: la monarchia, complice del fascismo, se ne andava. Cominciava un periodo di grandi iniziative, di voglia di lavorare e ricostruire. Era un’Italia molto viva. Bisognerebbe ritrovare l’energia di allora per cavarcela anche oggi. Ho assistito a grandi cambiamenti di costume nel corso della mia vita. Quand’ero giovane c’era una grande differenza tra le classi sociali e si vedeva. Basti pensare che le signore borghesi, anche piccolo borghesi, non uscivano mai senza cappello. Senza cappello andavano le operaie e le donne di servizio.
Negli anni successivi, sotto l’azione di due grandi forze democratiche, il Pci e la Dc, l’Italia avanzò in molti campi. A cominciare dall’istruzione: la scuola media diventò uguale per tutti. Tutti avevano diritto all’istruzione fino a 13 anni e questo riduceva le differenze di classe. Anche il diritto di famiglia è cambiato radicalmente. Ricordo quando nel passato era il marito a scegliere la residenza e la moglie lo doveva seguire. Esisteva il delitto d’onore e la donna veniva punita diversamente dall’uomo e con maggiore severità in caso di adulterio. E poi in questi ultimi anni ho assistito a enormi cambiamenti tecnologici. Sembra poco tempo fa quando negli anni Settanta avevo una collaborazione con il dipartimento di astronomia di Princeton nel New Jersey e ci si scambiava per posta i nastri magnetici. Ci mettevano settimane per viaggiare sull’Oceano e ci dovevamo raccomandare che non venissero fatti passare nello scanner. Oggi si comunica in tempo reale con Internet, si parla e ci si vede in tempo reale. Le distanze sono state quasi eliminate.
Insomma, quello che ho visto è stato un secolo estremamente vivace, con cambiamenti più grandi di quelli avvenuti nei 2.000 anni precedenti. Ora guardo al futuro e sono ottimista. L’Italia ne ha viste tante e si è sempre tirata fuori.
Ai giovani vorrei dare un consiglio: scegliere la professione che interessa di più. Quando dovrete decidere cosa studiare, non pensate solo a cosa vi permette di trovare lavoro, ma a quello che vi piace veramente. Poi fatelo seriamente. Alle ragazze, in particolare, consiglio di avere più fiducia in se stesse e pretendere che i loro diritti vengano rispettati. E, da ex sportiva, voglio dare un ultimo consiglio a tutti: affrontate la vita come s’affronta una gara. Con la voglia di vincere.

l’Unità 30.6.13
La sua ricerca: la luce degli astri sulle bande ultraviolette
di Massimo Ramella


HO AVUTO IL PRIVILEGIO DI LAUREARMI IN FISICA CON MARGHERITA NELL’ORMAI LONTANO 1979.
È stata un’esperienza fondamentale per me, sia scientificamente che umanamente. Margherita mi ha insegnato come usare le righe spettrali che si formano negli strati superficiali delle stelle per sondarne la natura fisica.
Mi ha permesso di utilizzare gli allora recentissimi dati ottenuti da telescopi a bordo di satelliti che potevano registrare la radiazione ultravioletta delle stelle. Questa radiazione viene assorbita dall’atmosfera terrestre e, grazie alle osservazioni dallo spazio, stava rivelando proprio in quegli anni fenomeni ancora sconosciuti che si verificano negli strati gassosi più esterni delle stelle. Osservazioni che non avevano ancora trovato la via dei libri di testo e che quindi per me, laureando, avevano un fascino fortissimo, difficile da descrivere.
Margherita mi ha introdotto nella comunità scientifica internazionale, dove ho potuto verificare il prestigio e la considerazione di cui godeva. Anche se ero un novellino, il semplice fatto di essere suo allievo garantiva attenzione. Ma, soprattutto, Margherita è stata il mio punto di riferimento etico e umano per navigare nel mondo della ricerca, un mondo nel quale è facile fare passi sbagliati e perdersi. Io ho avuto la fortuna di esserle vicino anche in seguito, quando la mia ricerca si era ormai diretta in ambiti nei quali mi ero avventurato da solo, sebbene con il suo generoso incoraggiamento. Molti altri studenti, alcuni dei quali poi divenuti colleghi, devono molto a Margherita. Ricordo ancora le parole con cui il Presidente Napolitano le conferì la nomina a Cavaliere di Gran Croce in occasione della festa per i suoi novant’anni, il 12 giugno del 2012: «Per il costante impegno
profuso e quale esempio di straordinaria dedizione e coerenza per le giovani generazioni». Penso che non occorra aggiungere altro.
In questo momento triste, in cui ci pare ancora impossibile dover parlare di Margherita al passato, è importante raccontare anche la sua ricerca astrofisica. Una ricerca che forse non è tanto nota al pubblico più giovane che ha conosciuto Margherita più per la sua attività di divulgatrice e di campionessa di battaglie civili che per le sue ricerche. Margherita è stata un’astrofisica a tutto tondo, ma in particolare un’esperta nell’interpretazione delle caratteristiche degli spettri delle stelle, cioè della loro luce dispersa in un arcobaleno di colori da un prisma o un reticolo. Per avere un’idea di cosa sia uno spettro, osservate il riflesso della luce del sole, o di una lampada, prodotto dalla superficie di un Dvd: la luce colorata che vedrete è appunto uno spettro. Con la spettroscopia Margherita affrontò problemi come la composizione chimica delle stelle e la loro temperatura e gravità superficiale. L’opera «Stellar Spectroscopy», scritta a Berkeley assieme all’astrofisico Otto Struve, è ancora oggi un classico nello studio delle atmosfere stellari.
Quando mi assegnò la tesi, Margherita stava utilizzando osservazioni effettuate con il satellite chiamato Copernicus che aveva sondato il cielo nella banda ultravioletta, preclusa ai telescopi a terra dall’assorbimento dell’atmosfera terrestre. Le osservazioni ultraviolette sono molto interessanti per lo studio delle stelle perché rivelano fenomeni energetici che avvengono in una zona chiamata «atmosfera esterna» con cui la stella sfuma nello spazio interstellare. I gas dell’atmosfera esterna abbandonano la stella a migliaia di chilometri al secondo e costituiscono una importante perdita di massa di cui i modelli teorici di evoluzione stellare devono assolutamente tener conto.
La prima pubblicazione di Margherita con i dati di questo satellite è del 1974 e appare sulla prestigiosa rivista internazionale Nature.
Le osservazioni dello spazio mettono in luce un altro aspetto importante della ricerca di Margherita: lei spingeva sempre per progettare e costruire nuovi strumenti. Così, negli anni’80, a Copernicus seguì Iue, International Ultraviolet Explorer, un altro satellite che vide Margherita, e molti suoi collaboratori, nuovamente in prima fila e che produsse risultati che ancora oggi hanno un ruolo chiave nell’astrofisica moderna.
* Inaf-Osservatorio Astronomico di Trieste

l’Unità 30.6.13
Contro il denaro
La crisi del capitalismo: ne parla il tedesco Anselm Jappe
intervista di Flore Murard- Yovanovitch


ANSELM JAPPE, È UN FILOSOFO DI ORIGINE TEDESCA, ALLIEVO DI MARIO PERNIOLA. Ha pubblicato nel 1993 la prima monografia su Guy Debord (ultima edizione Manifesto Libri 2013) e ha continuato ad occuparsi dei situazionisti, nonché dell’opera di Karl Marx soprattutto attraverso l’interpretazione della «critica del valore». Di recente in italiano, è stato pubblicato Contro il denaro (Mimesis 2013). Il convegno internazionale «I situazionisti: Teoria, Arte e politica» si è tenuto al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre, hanno partecipato tra gli altri: Mario Perniola, Toni Arno, Carsten Juhl, Giorgio de Vincenti e Anselm Jappe, che ho intervistato in una pausa del convegno, per poi proseguire la conversazione a distanza, mentre esplodevano le insurrezioni in Turchia e Brasile.
Oggi si sta dissolvendo il lavoro. Possiamo sperare di vivere una vita più autentica e creativa?
«Il paradosso risiede nel fatto che è proprio la società del lavoro ad abolire il lavoro...La sostituzione del lavoro con la tecnologia e la disoccupazione strutturale potrebbero in sé essere un fattore positivo: in una società razionale, le tecnologie permetterebbero a tutti di lavorare molto di meno, e ciò sarebbe un bene. Invece la società capitalista non si interessa all’utilità o meno, ma alla sola produzione del “valore”: chi non ha un lavoro viene tagliato fuori dalla società. Ma quando la crisi del capitalismo raggiungerà il suo apice, almeno la metà della popolazione globale diventerà un’umanità superflua. Quindi, quello che potrebbe rappresentare una chance, in realtà è una tragedia»
Quale sarebbe oggi la nuova base sulla quale rifondare l’organizzazione sociale?
«Potrebbe essere costituita da un accordo diretto tra individui sulle attività da svolgere per raggiungere determinati obiettivi produttivi fissati insieme, con un minimo di fatica. Il marxismo tradizionale ha evidenziato un opposizione tra quelli che lavorano e quelli che si appropriano del lavoro altrui, ma oggi questa distinzione non è più così centrale».
Cosa pensa della prassi dell’autogestione e delle forme di scambio che vanno sempre più emergendo nella società? E perché la sinistra non abbraccia ancora quest’«economia alternativa»?
«La sinistra non capisce che il capitalismo nuovo abolisce proprio le vecchie categorie. Alla sinistra è sfuggita l’evoluzione recente del capitale che abolisce il denaro, come ho cercato di dimostrare in Contro il denaro. L’“anticapitalismo” della sinistra è solo un “antiliberalismo”: non ha mai concepito una vera alternativa».
Come i movimenti Occupy e Indignados che si limitano ad una critica al sistema finanziario senza ancora aver pensato una alternativa vera?
«È certamente positivo che movimenti di massa rompano la passività e l’obbedienza. Ma come ho già scritto in vari articoli, in realtà, si limitano a colpire l’alta finanza, non criticano l’accumulazione del valore alla sua radice. Riprendono anche, normalmente senza accorgersene, i vecchi temi cari all’estrema destra – l’avidità di un pugno di banchieri “malvagi” versus l’onestà dei risparmiatori – rischiando di sfociare nel mero populismo, quando non nell’antisemitismo. Lo slogan “siamo il 99%” è rivelatore! Dove andrà a finire tutto questo scontento? Allo scenario italiano? Dove lo scontento non ha nemmeno portato agli Indignados, ma al Grillismo: in un populismo apparentemente di sinistra ma in realtà intrinsecamente di destra».
Le insurrezioni in corso in Brasile e in Turchia, invece, non sono di natura diversa e nuova?
«Pare proprio di sì. La loro apparizione assoltamente spontanea e inattesa e il fatto che si situano fuori dagli schemi della vecchia politica dimostrano che tutto può ancora succedere, anche e soprattutto dove il capitalismo è apparentemente “in buona salute”, nei cosiddetti paesi emergenti. L’aspetto più notevole di queste contestazioni è forse la critica implicita alle varianti locali dello “spettacolo”: in Turchia lo spettacolo religioso, cioè l’islamizzazione della società con un ritorno all’“ordine morale”, in Brasile lo spettacolo sportivo che ha svolto finora un ruolo così grande nella passivizzazione della popolazione. Sembra di percepire, insieme alla rabbia, una gioiosa autoaffermazione, un piacere di conquistare lo spazio pubblico e di stare insieme». Quale sarebbe una critica rivoluzionaria del capitalismo, che possa costituire una vera rottura definitiva e costruttiva?
«Al seguito della crisi del 2001, l’Argentina ha sperimentato diversi tentativi di riappropriazione dei mezzi di produzione. Molto positivo è il pensiero della “decrescita” che cerca di rompere con un stile di vita mettendo in primis in discussione il proprio comportamento. Una critica efficace all’insieme del sistema non deve solo chiedere una diversa redistribuzione ma mettere in campo una nuova civiltà».
In questa uscita dalla civilità attuale ci sarà posto per l’eredità del situazionismo?
«Diversi soggetti nella società attuale, dagli hacker agli agricoltori bio, vaste aree sovversive e artistiche, si rivendicano “situazionisti”. Esistono in realtà numerosissime persone aperte ad una ricerca nuova e pronte per un cambiamento radicale».

Corriere La Lettura 30.6.13
Torna “Gradiva”, un libro da spiaggia che offrì a Freud e Jung conferme alle loro teorie
Cari psicoanalisti leggete King

La scienza dell'anima oggi trascura la letteratura A Saramago e Ford preferisce biologia e statistica
di Emanuele Trevi


È abbastanza comune affermare che per amore si arriva a delirare, eppure il desiderio e il delirio, in quell'assurdo labirinto che è la mente umana, possono anche diventare feroci antagonisti. Chi nega o in qualunque modo scaccia dalla coscienza il proprio desiderio, sta già delirando. E non c'è energia mentale più potente, si direbbe, di quella dell'errore e dell'autoinganno. Per certi individui, rivelare a se stessi ciò che veramente amano è l'impresa più difficile. Tale è il loro orrore della verità, che sono capaci di costruire interi mondi fittizi per seppellirla più a fondo che possono. Ma più di tanto, per quanto si sforzino, non possono. Ed è qui che cominciano i guai. Tra i narratori più efficaci di questa ingegnosa trappola psicologica, il prolifico Wilhelm Jensen occupa un posto del tutto particolare. Da poco ristampata con le bellissime illustrazioni di Cecilia Capuana Gradiva (Donzelli) è l'unica sua opera, tra le decine che ne scrisse, ad essergli sopravvissuta. Lo scrittore tedesco pubblicò questa fantasia pompeiana, come la definì, nel 1903, quando era già avanti con gli anni e all'apice di una vasta ma effimera fama.
Sarebbe un vero peccato se anche Gradiva fosse scivolata nell'inesorabile gorgo dell'oblio. A rileggerlo oggi, questo breve romanzo sentimentale-archeologico, mascherato da storia di spettri, conserva una notevole forza di persuasione. Com'è noto, però, a garantire all'opera la sua durata nel tempo non furono né i lettori di narrativa né i critici letterari, ma l'interesse, quasi vampiresco, di Sigmund Freud. È questa circostanza a rendere del tutto eccezionale la fortuna dell'operetta di Jensen. Fu Carl Gustav Jung, nell'aprile del 1906, a mettere in mano a Freud Gradiva. Erano ancora lontani, Freud e Jung, dalla clamorosa rottura del 1912. Erano i tempi eroici della Società di Vienna, e quegli eccezionali speleologi procedevano solidali, come fossero legati in cordata, nei cunicoli e nelle voragini della coscienza umana. Le loro idee provocavano una generale diffidenza, che rafforzava la solidarietà fra gli iniziati. Ad ogni modo, il romanzo di Jensen, intessuto com'era di fantasie deliranti e sogni rivelatori, e pervaso da una potente corrente erotica, fece letteralmente balzare Freud sulla sedia. Durante le vacanze estive, trascorse come d'abitudine all'Hotel du Lac di Lavarone, Freud si mise all'opera componendo quello che sarebbe destinato a rimanere uno dei suoi saggi più limpidi e belli, intitolato Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di W. Jensen, pubblicato la prima volta nel 1907. Quando si dice (giustamente) che Freud è un grande scrittore, è a testi come questo che bisogna pensare. Dando fondo alle sue innate qualità di narratore Freud riscrisse Gradiva creando quello che Giorgio Manganelli avrebbe definito un «libro parallelo». Ci si può rendere conto del valore e dell'importanza dell'impresa servendosi di un vecchio ma utilissimo libro curato nel 1961 da Cesare Musatti, intitolato Gradiva, che ristampa insieme il romanzo di Jensen e il saggio di Freud, accompagnati da un intelligentissimo commento.
L'interesse dell'autore dell'Interpretazione dei sogni per le avventure italiane del giovane archeologo tedesco Norbert Hanold è più che giustificato. La sua è una vicenda che rende manifesto, in modo molto più efficace di qualunque trattazione scientifica, il funzionamento della rimozione, che dei meccanismi della psiche umana è il più pericoloso e gravido di conseguenze. L'eroe di Jensen ha consacrato l'esistenza alla sua unica passione, l'archeologia. Solo al mondo, le uniche figure femminili che ha considerato sono fatte di marmo e di bronzo. E di una di queste figure arriva addirittura a innamorarsi. O perlomeno, così lui stesso crede che vadano le cose. Si tratta, ad ogni modo, di un'opera d'arte realmente esistente, e conservata ai Musei Vaticani: il bassorilievo di una fanciulla velata che cammina, dirigendosi chissà dove, sollevando con la mano un lembo della veste. L'elemento più notevole della figura è la posizione del piede destro, sollevato in maniera quasi perpendicolare al suolo. È questo particolare che genera in Norbert una vera ossessione per l'opera così leggiadra di un ignoto artista greco, da lui ribattezzata Gradiva, «colei che avanza», versione femminile dell'epiteto che in latino accompagnava abitualmente Marte.
Un misterioso concatenarsi di sogni e premonizioni induce Norbert a partire da un giorno all'altro per l'Italia, finendo per cercare le tracce della Gradiva tra le rovine di Pompei. E in effetti, la incontrerà, ma in carne ed ossa. Ma non si tratta di uno spettro autorizzato a vagare nella luce del sole nell'ora meridiana, come crede il giovane archeologo, ma della ben concreta e viva Zoe Bertgang, vicina di casa di Norbert e sua amica d'infanzia, ben decisa a sposarlo. È questo personaggio femminile l'invenzione più riuscita di Jensen, e la sua strategia finisce per affascinare Freud molto più dei sintomi di Norbert. Zoe comprende al volo che il giovane non solo l'ha totalmente dimenticata, ma la crede un fantasma del passato, morta a Pompei nell'eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. Ma la peggiore strategia da usare con un delirante è quella di sbattergli in faccia la realtà, nuda e cruda. Per tirare a sé Norbert, serve una lenza più sottile. Sarà necessario accettare il particolare ordine di realtà in cui vive Norbert, e aspettando di scardinarlo, prestarsi al ruolo del fantasma della fanciulla pompeiana morta sotto le ceneri del vulcano.
È fin troppo ovvio osservare come questa tecnica di guarigione finisse per affascinare Freud molto più dei sintomi del delirio e dei sogni di Norbert. Si può dire, senza paura di esagerare, che quella di Gradiva agli occhi di Freud sia un'allegoria non meno importante di quella di Edipo. Se Edipo è l'immagine più universale dell'uomo afflitto dalla nevrosi e imprigionato dai suoi sintomi, ebbene Gradiva, in questo stupendo teatro di marionette preso a prestito dalla letteratura, rappresenta tutte le virtù di colui che, seduto all'altro capo del famoso divano, tiene fra le dita il filo, fragile e prezioso, della guarigione. Scaltra, seducente, dotata di empatia a capacità intuitive, Gradiva è la santa patrona di tutti gli strizzacervelli a venire. Con l'importante differenza, però, che sia Freud che Musatti tengono molto a segnalare, che se Zoe alla fine del romanzo convola a giuste nozze con il suo stordito Hanold, non altrettanto possono fare l'analista e il suo paziente, che dovrà scegliere un reale oggetto d'amore una volta emerso dalle ceneri pompeiane della rimozione.
Chiuse le due Gradive, quella di Jensen e quella di Freud, il lettore d'oggi potrà provare un senso di malinconia, considerando quanto sia ormai diventata profonda e irreversibile la separazione fra psicoanalisi e letteratura. È come se la prima, tutta affannata a conquistarsi i suoi galloni scientifici, abbia deciso di volgere le spalle, con una buona dose di ingratitudine, a quell'inaffidabile e ciarliera sorella. È vero che moltissimi libri contemporanei di psicologia sono letteralmente infarciti di citazioni letterarie e cinematografiche. Ma le citazioni, per loro natura, sono frammenti e relitti. Vengono facilmente piegate alle finalità del discorso che le ingloba. Lampeggiano nella loro bellezza e vengono rapidamente dimenticate. Non producono mai immagini totali, capaci di segnare le svolte della conoscenza. Lo psicoanalista, sbagliando, non si sogna più di andare in cerca di nuovi Edipi e di nuove Gradive nei libri di Stephen King, o di Richard Ford, o di José Saramago. E anche la letteratura ha una buona parte della colpa. Saccheggiando da un secolo la psicologia del profondo, ha perso ogni forma di innocenza. A uno psicologo di oggi, non può che fornire l'idea di una minestra riscaldata. Mentre l'entusiasmo di Jung e Freud per Gradiva dipendeva in buona parte dal fatto che Jensen, pur essendo arrivato così vicino alle loro scoperte, non avesse mai nemmeno sfogliato L'interpretazione dei sogni.
Per cercare le sue conferme più importanti, la scienza della psiche preferisce ormai battere i più severi sentieri della statistica, della biologia, delle scienze cognitive. Si potrebbe dire che, come il giovane Hanold di Jensen aveva rimosso la sua Zoe, illudendosi di amare una statua antica, così la psicoanalisi ha rimosso il potere simbolico, la forza di persuasione della grande letteratura. Ma tutte le rimozioni, lo insegna la scienza stessa, si trasformano in sintomi ben peggiori di ciò che si sotterra. Rischiano, insomma, di trasformare in deliri anche i saperi più complessi ed accademicamente corazzati.

Corriere La Lettura 30.6.13
Croce, quando la filosofia si fa carne
di Corrado Ocone


Nonostante il pensiero essenziale e la scrittura lineare, Benedetto Croce non è un autore facile. La sua cultura era «enciclopedica», tanto che in ogni argomento riecheggiava tutta intera la sua filosofia. Confrontarsi con temi anche particolari della sua riflessione significa pertanto fare i conti con il suo senso complessivo. Che è quanto fa Franco Crispini, docente all'Università della Calabria, offrendoci tre «ritagli» in Per una rivisitazione di Croce (Rubbettino). Crispini guarda Croce da tre angoli prospettici: l'interpretazione dell'età barocca; la sua «riscoperta» del pensiero del filosofo inglese Shaftesbury, vissuto a cavallo fra Sei e Settecento; la riflessione dell'ultimo periodo sul cristianesimo e sui rapporti fra ragione e fede. Egli riesce però ad andare oltre allo specifico con competenza e naturalezza. Ecco allora che, fatto salvo il giudizio crociano, che si può accettare o meno, sul Seicento italiano come età di decadenza, egli si chiede in cosa consista per il filosofo la positività di un'epoca storica. Nel rispondere, non può non far riferimento all'«entusiasmo morale» che Croce vedeva spento nell'età barocca. Esso era per il filosofo un esempio concreto del superamento di ogni astratto dualismo fra anima e corpo, fra passioni e ragione. L'entusiasmo, non a caso un termine ricorrente anche nell'amato Shaftesbury, è sì un sentimento che ci domina completamente, ma è anche un modo per incanalare la nostra azione in modo operoso, verso l'etica dell'attività nella storia o «dell'Opera» che è per lui la massima aspirazione umana. In Shaftesbury Croce ritrova, scrive in un discorso tenuto a Cambridge nel 1923, il carattere della filosofia che gli stava a cuore: l'«indifferenza e aborrimento per le insolubili questioni metafisiche che riempivano la filosofia delle scuole». La filosofia di Croce è a contatto diretto con le forze della vita, specie con la politica (intesa in senso lato) e la storia: una «filosofia incarnata». In quest'ottica è da intendersi il senso, che Crispini rende bene, del «recupero» che Croce fa nell'ultimo periodo del cristianesimo. Esso è possibile solo se si disgiunge lo spirito cristiano dal cattolicesimo e, più in generale, da ogni sua «naturalizzazione» o risoluzione in istituzioni e dogmi.

l’Unità 30.6.13
Archeologia/ 1
Scoperta in Perù una tomba reale

Sensazionale scoperta in Perù dove una missione archeologica congiunta peruviana e polacca ha rinvenuto un complesso mortuario reale con 60 mummie della cultura Wari, risalente al periodo Pre-Inca. Un ritrovamento «unico», come ha spiegato l'archeologo Giersz Milosz dell'Università di Varsavia, dal momento che è la prima scoperta di una tomba reale appartenente a questa cultura di cui si conosce poco e che ha avuto il suo picco tra il settimo e l'11esimo secolo. La tomba è stata individuata nell'area di El Castillo.

l’Unità 30.6.13
Archeologia/ 2
Pantelleria, ritrovati resti di una flotta punica

Trenta ancore di piombo, quattro anfore e quattro lingotti, anch'essi di piombo, di diverse dimensioni e tipologia, sono stati rinvenuti e documentati a 60 metri di profondità nelle acque di Pantelleria. Resti, si pensa, di un ormeggio di una flotta punica. Dopo la scoperta di 3500 monete puniche nel 2011, sta terminando infatti con successo anche la seconda fase del progetto valorizzazione e fruizione dei siti archeologici sommersi in prossimità delle infrastrutture di Cala Tramontana e di Cala Levante.

il Fatto 30.6.13
Unesco, ultimatum al governo sul degrado di Pompei


"IL GOVERNO italiano ha tempo fino al 31 dicembre 2013, per adottare le misure idonee relative alla situazione di Pompei e l’Unesco ha tempo fino al 1 febbraio 2014 per valutare ciò che farà il governo italiano e rinviare al prossimo Comitato Mondiale 2014 ogni decisione. Come al solito la fretta fa i gattini ciechi. Quindi l’iter è ben delineato". Lo dichiara in una nota Giovanni Puglisi, presidente della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco. "Una commissione Unesco ha presentato una relazione fatta in loco a Pompei nel gennaio scorso e che non e stata oggetto di discussione", dice Puglisi, precisando che “in questa relazione del gennaio 2013, si mettono in evidenza, in maniera molto documentata, le carenze strutturali (infiltrazioni d’acqua, mancanza di canaline di drenaggio) e i danni apportati dalla luce (ad esempio alcuni mosaici andavano preservati dalla luce)”. Entro il 1° febbraio del 2014 , secondo la relazione, bisogna delineare una nuova zona di rispetto poiché “sono state rilevate intorno ai siti di Pompei ed Ercolano delle costruzioni ulteriori, fatte dagli stessi operatori dei siti, in modo che si riparino i siti stessi dagli abusivismi e da cose improprie”.