martedì 2 luglio 2013

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il Fatto 2.7.13
Inciucio a intermittenza
Il Pd: Berlusconi è ok ma la Santanchè no
I democratici non intendono votare l’esponente del Pdl come vicepresidente della Camera 


l’Unità 2.7.13
Matteo Orfini
«Non possiamo eleggere la “pitonessa” Basta con i compromessi al ribasso»
intervista di Vladimiro Frulletti


«Sarebbe incomprensibile per i nostri elettori veder eleggere Santanchè alla vicepresidenza della Camera. È una cosa che il Pd non può né accettare né votare». Matteo Orfini non usa perifrasi per spiegare il suo no incondizionato all’ipotesi che il Pd possa, oggi, contribuire a far salire Daniela Santanché ai vertici di Montecitorio. Anzi porta proprio questo caso come un esempio di quello che il Pd non deve fare. Cioè di quel «compromesso al ribasso» che rischierebbe alla fine di rendere il governo Letta e la strana alleanza che lo sostiene non solo inutile, ma anche pericoloso per la sopravvivenza stessa del Pd. Quanto al congresso del suo partito, spiega che lo Statuto non va modificato, ma ribadisce l’esigenza di tener separate le figure di segretario e candidato premier, tanto da invitare Renzi a sostenere la corsa di Cuperlo. Onorevole, per il sindaco di Firenze la figura del segretario del Pd deve rimanere coincidente con quella di candidato-premier. Lei che ne pensa?
«Su Facebook è stata lanciata la mozione “poi vediamo”, sottoscrivo questa proposta».
Perché?
«Perché la discussione sulla coincidenza fra candidato premier e segretario la trovo assurda, come la trovavo assurda quando c’era chi sosteneva che Bersani doveva essere candidato in base a una norma dello Statuto. Sono decisioni cioè che vanno prese al momento in cui ci saranno le elezioni. Non sappiamo nemmeno quando si vota. E poi c’è da ricostruire il Pd e non vorrei che questo sia un modo per non discutere dei veri problemi che abbiamo. O peggio che qualcuno pensi al Pd come a un tram su cui salire per arrivare a qualcosa d’altro. Chi si candidata a segretario del Pd oggi deve avere voglia prima di tutto di ricostruire il partito. Anche perché se questo lavoro non si fa poi chiunque sia il candidato premier corre il rischio di non vincere le elezioni».
Ma togliere questa coincidenza non significa cambiare la natura del Pd come partito a vocazione maggioritaria, che si pone l’obiettivo di governare il Pese e quindi il cui leader è automaticamente anche candidato premier?
«Ma prima degli automatismi c’è la politica. Se noi oggi stabiliamo che il segretario è anche candidato premier e poi si vota tra tre anni e c’è uno più forte di quello che abbiamo eletto segretario che facciamo? Dovremo avere la possibilità di rivedere quella scelta come è avvenuto per le primarie fra Bersani e Renzi. La natura del Pd non sta nella sua vocazione maggioritaria, ma nelle risposte che da ai problemi del Paese. Su questo dovremo fare il congresso». Con quali regole?
«Non dobbiamo cambiare lo Statuto e quindi dobbiamo eleggere il segretario con primarie aperte. Se fossimo in una situazione normale sarei per far decidere agli iscritti, ma il Pd versa in una condizione drammatica e quindi abbiamo bisogno di una mano da parte di tutti. Però cercherei di dare maggior rilievo alla discussione nei circoli perché se il Pd ha retto alle amministrative lo si deve proprio a chi sta sul territorio».
Lei vuole un segretario che si occupi del Pd. È per questo che lei ha già scelto Cuperlo? E Renzi che dovrebbe fare?
«Mi sembra che pur nello sconcerto dei renziani che sostenevano che il liberalismo è di sinistra, Renzi stia cambiando linea. Le sue proposte economiche oggi sono più simili a quelle delle sinistra europee dove è centrale la lotta alla disuguaglianza, il welfare è un valore, il lavoro non si crea con la deregulation e l’austerità non è la via per uscire dalla crisi. Tutte cose che noi sostenevamo e che Renzi contestava. Per questo se Renzi s’è convinto che sulle questioni economiche e sociali avevamo ragione noi è un fatto positivo per il Pd e credo che lo possa convincere a sostenere fra i candidati in campo quello che da più tempo dice queste cose, cioè Cuperlo. Anche perché Renzi stesso ha più volte detto che quello di segretario del partito non è il mestiere a lui più adatto. Mentre per me è il mestiere più adatto a Cuperlo».
A ognuno il suo mestiere. Cuperlo al Pd e Renzi a Palazzo Chigi?
«Quando dovremo decidere il candidato premier lo decideremo. Si vedrà». Una candidatura di Fassina come la vede?
«Sarebbe incomprensibile. Ha lavorato a costruire la candidatura di Cuperlo, si è espresso pubblicamente per Cuperlo spiegando che il congresso deve partire dalle idee. E quindi non capirei una scelta in antitesi a Cuperlo. Sarebbe quasi un assecondare un capriccio di corrente. Non sarebbe una scelta da Fassina». Lei dice che il Pd va ricostruito, ma su che basi?
«Le elezioni politiche le abbiamo perse fra i ceti popolari e fra i giovani. Cioè fra chi soffre di più la crisi. Un partito di sinistra da qui deve ricominciare. La sinistra ha senso se è strumento di cambiamento, altrimenti non serve».
Il governo Letta in quest’ottica può essere un’occasione o è un pericolo?
«È un governo difficilissimo da sostenere per il Pd. Letta sta anche provando a dare delle risposte anche se non sempre sono perfette. Una delle debolezze di questo governo però è proprio la debolezza del Pd. Dobbiamo scuoterci, riprendere l’iniziativa politica, dettare l’agenda del governo. Siamo la forza maggiore in parlamento e quindi abbiamo l’onere e l’onore di far pesare la nostra forza. E invece sembriamo sempre a inseguire, alla ricerca di un compresso la ribasso. Dobbiamo avere più coraggio e evitare scelte incomprensibili ai nostri elettori».
Ad esempio?
«Non vedo come il Pd possa accettare o votare l’elezione dell’onorevole Santanchè alla vicepresidenza della Camera»

l’Unità 2.7.13
«Congresso Pd, non si sceglie il candidato premier»
Bersani e D’Alema provano a ricucire. Ma l’opinione condivisa è che sia dannoso usare l’appuntamento per determinare chi corre per Palazzo Chigi
di Simone Collini


La parola d’ordine è tenere il governo al riparo da possibili tensioni. Anche per questo sulle regole congressuali Matteo Renzi è sempre più isolato nel Pd. Il sindaco di Firenze insiste sul fatto che lo statuto attuale del partito prevede la coincidenza tra segretario e candidato premier. Ma da Guglielmo Epifani a Gianni Cuperlo, da Dario Franceschini a Fabrizio Barca, da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, è opinione condivisa che con Enrico Letta a Palazzo Chigi non è utile e anzi potrebbe anche essere dannoso utilizzare il congresso per scegliere il candidato del Pd per la presidenza del Consiglio. La commissione incaricata di mettere nero su bianco le regole torna a riunirsi la prossima settimana, ma un accordo politico andrà trovato prima, se si vuole evitare una spaccatura in quell’organismo e poi una conta dagli esiti incerti nell’Assemblea nazionale.
Renzi ricorda a uso e consumo di chi lo ha criticato per l’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung in cui ha detto che chi vince le primarie deve correre per la premiership che la coincidenza dei ruoli «è una norma statutaria attualmente prevista». E se a questa frase aggiunge sorridendo un «domani chi lo sa» è anche perché il sindaco di Firenze conta sul fatto che per modificare lo Statuto e cancellare l’automatismo serve il via libera da parte della maggioranza assoluta dei 950 delegati dell’Assemblea nazionale. Impresa tutt’altro che scontata, se si pensa che anche quando c’era un accordo politico sulla deroga allo Statuto per far correre Renzi alle primarie contro Bersani, si presentarono 612 delegati e i sì furono 575.
Ma è proprio questo precedente che ora viene utilizzato come argomento contro la posizione renziana. D’Alema, pur dicendosi convinto che il congresso Pd non creerà problemi al governo, sottolinea che l’appuntamento d’autunno serve a scegliere il segretario e sarebbe una «stravaganza assoluta fare le primarie per scegliere il candidato premier quando non ci sono le elezioni». E poi: «Lo Statuto del partito lo abbiamo derogato per Renzi: non vorrei che Renzi, quando bisogna derogare per Renzi bisogna derogare, quando non bisogna derogare per Renzi non bisogna derogare... mica possiamo sempre usare le regole per Renzi!».
Quel precedente, che ora viene richiamato da D’Alema per sostenere che la coincidenza leader-candidato premier di fatto è superata («dal momento in cui Bersani ha messo in palio la cosa, da quel momento in poi la regola è finita») era stato il primo punto d’attrito tra il presidente di Italianieuropei e l’allora segretario del Pd. Attrito aumentato in campagna elettorale e soprattutto nel post voto e nel passaggio per l’elezione del Presidente della Repubblica. La divisione tra D’Alema e Bersani non si è ricomposta e non a caso si è ragionato su una candidatura bersaniana (Stefano Fassina) contrapposta a quella di Gianni Cuperlo (che ora incontrerà i parlamentari Pd per spiegare le ragioni della sua corsa per la segreteria).
In vista del congresso i due fronti provano però a ricompattarsi. Giovedì pomeriggio si riuniscono al Nazareno i promotori del documento «Fare il Pd», ma al quartier generale del partito sono stati invitati, oltre al segretario Epifani e al suo predecessore Bersani, anche D’Alema. È vero che all’appuntamento è stato chiamato anche il renziano Dario Nardella, ma i bersaniani non si fanno illusioni sulla possibilità di trovare una convergenza con il sindaco su un documento che è contro la «deriva personalistica del Pd», mentre l’obiettivo è ricucire con dalemiani.
Le prossime ore saranno comunque decisive per capire quali potrebbero essere le regole del congresso, anche se un altro candidato come Gianni Pittella lancia una dura critica al gruppo dirigente («il Pd rischia di scomparire dal dibattito politico nazionale e internazionale, si continua a parlare solo di regole») e anche Barca lancia un monito netto: «Il nodo è discutere di contenuti e finora di contenuti si è discusso molto poco. Ai cittadini non interessano le questioni interne del Pd».

Repubblica 2.7.13
“Non facciamo le regole per lui” D’Alema, affondo contro Renzi
di Giovanna Casadio


Botta e risposta
Massimo D’Alema critica Renzi: “Chiede di derogare solo quando bisogna derogare per lui”. E il sindaco di Firenze ribatte: “Ho solo citato la norma dello statuto che vuole il segretario candidato premier. Oggi è così domani chissà”

ROMA — Il fuoco di sbarramento contro Renzi questa volta parte da D’Alema. È l’ex premier a ricordare al sindaco fiorentino che proprio lui ha approfittato della fine dell’automatismo per cui nel Pd il segretario è anche il candidato premier. «Lo Statuto del partito lo abbiamo derogato per Renzi, quando bisogna derogare perRenzi bisogna derogare, quando non bisogna derogare per Renzi non bisogna derogare, mica possiamo sempre usare le regole per Renzi...». Avverte D’Alema che non è tempo di eleggere il premier, mentre il partito avrà bisogno di un successore di Epifani alla segreteria. «Non conosco nessun partito - ironizza - che faccia le primarie per il candidato premier quando non ci sono le elezioni ».
E sulla questione, torna la sintonia tra D’Alema e Bersani. L’ex segretario bacchetta a sua volta il “rottamatore”: «Vuole la regola con cui non poteva concorrere». Renzi in realtà cercherà una mediazione. I renziani nella prossima riunione del comitato per le regole proporranno che lo Statuto resti invariato (il segretario quindi è il candidato premier)prevedendo però la deroga che sarà comunque il neo segretario a decidere, come già fece Bersani consentendo a Renzi di sfidarlo. Il sindaco “rottamatore” è in corsa di fatto per la segreteria, anche se non ha ancora sciolto la riserva. E a proposito della sua affermazione alla Faz precisa e minimizza: «Ho rilasciato un’intervista al quotidiano tedesco che parlava di Europa e di lavoro, e sui giornaliitaliani sono finite due righe sulle primarie italiane e sulla norma statutaria del Pd che dice che chi vince il congresso è il candidato leader. È una norma statutaria oggi prevista, domani chissà».
Giornata di tensione per Renzi. Che denuncia «il duro attacco politico avuto dal cardinale Betori ». Nell’omelia l’arcivescovo di Firenze aveva parlato della «voglia improvvida di trasgressione », a proposito dello scandalo escort a Palazzo Vecchio. Il sindaco se ne è risentito: «È giusto descrivere Firenze come una città in cui la mission è trasgredire, che vive in una sorta di squallore? ... io difendo la dignità di decine di migliaia di fiorentini perbene che non possono essere descritti come partecipanti a un’orgia». Se a Firenze il clima politico è rovente, non è da meno a Roma, nel Pd.Dai bersaniani a Cuperlo, candidato leader (che oggi presenta il suo manifesto) della sinistra del partito, al segretario Epifani, tutti puntano a distinguere leadership (del partito) da premiership.
I renziani cercheranno di evitare il muro contro muro nel “comitatone” per il congresso. Sono convinti d’altra parte che spetta poi all’Assemblea nazionale decidere, e si vedrà lì quale linea avrà la maggioranza. «No a un segretario- burocrate», afferma Lorenzo Guerini, renziano, nel comitato. «No a un segretario di serie B», rincara un altro renziano, Davide Faraone. Di certo una leadership (senza premiership) è meno insidiosa per il governo Letta. «Chi guida il partito deve farlo a tempo pieno», afferma Enrico Rossi, il “governatore” della Toscana, bersaniano. Uno stop al dibattito sulle regole viene da un altro candidato alla segreteria, Gianni Pittella, europarlamentare, che concorda con Renzi: «Non si capisce perché le regole debbano essere cambiate ogni sei mesi».

il Fatto 2.7.13
Azzerati i vertici dello ior
Dimessi il numero uno e il suo vice indagati da tre anni per riciclaggio
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


Il vento nuovo di papa Francesco finalmente si abbatte sullo Ior e spalanca le porte della banca vaticana. Ne escono il numero uno e il numero due dell’Istituto, indagati per violazione delle norme antiriciclaggio da tre anni dai pm romani Nello Rossi e Stefano Fava, senza che il segretario di Stato Tarcisio Bertone muovesse un dito. Da ieri le funzioni di direttore del-l’Istituto sono state assunte ad interim dal presidente dello Ior, il tedesco Ernst von Freyberg, che sarà coadiuvato da Rolando Marranci in qualità di vice direttore e da Antonio Montaresi nella nuova posizione di chief risk officer. Si cercano due sostituti. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il coinvolgimento dello Ior nell’indagine su Nunzio Scarano. Il monsignore salernitano è stato arrestato venerdì scorso con l’accusa di avere corrotto l’agente dei servizi segreti italiani Giovanni Zito perché riportasse in Italia 20 milioni di euro giacenti sul conto del broker Giovanni Carenzio in Svizzera, anche lui arrestato. Nel corso dell’indagine la Guardia di Finanza intercetta Scarano mentre parla con il vicedirettore Massimo Tulli. Si danno del tu e Scarano gli chiede di mettere a disposizione somme in contante disponibili sul suo conto Ior. Anche Paolo Cipriani è citato in alcune conversazioni indirette. Attività bancarie, certo, magari ordinarie, ma che imbarazzano la Santa Sede. Così le dimissioni dei due manager ieri sono state accettate dalla commissione dei cardinali e dal board di sovrintendenza. Per capire quanto sia vasta e preoccupante per lo Ior l’indagine bisogna leggere l’informativa depositata nel febbraio scorso dalla Guardia di Finanza.
Vi si legge che la somma depositata all’estero sui conti del broker amico di Nunzio Scarano sarebbe di 400 milioni di euro. “Le altre conversazioni telefoniche captate – scrivono le Fiamme Gialle – in tale direzione hanno consentito di chiarire che le disponibilità riconducibili a Giovanni Carenzio – poi quantificate dagli interlocutori in circa 400 milioni di euro – risultavano allocate presso una banca svizzera”. Il Nucleo di Polizia Tributaria guidato dal generale Giuseppe Bottillo ha denunciato ai pm romani, oltre ai tre arrestati (Nunzio Scarano, Giovanni Carenzio e l’ex agente dei servizi segreti italiani, Giovanni Zito) altre sei persone, tra i quali non ci sono i due armatori Paolo e Cesare D’Amico, titolari presunti dei 20 milioni che dovevano rimpatriare, perché sono indagati per dichiarazione dei redditi infedele separatamente. Tra i denunciati c’è anche il dentista Roberto Letta (gli indagati lo definiscono cugino di Gianni Letta, ma il dentista al Fatto smentisce) che ha incassato 190 mila euro dai libici esuli per cure dentistiche; poi c’è Massimiliano Marcianò che architetta un giro di assegni con la complicità di Scarano per far passare i guadagni di Letta come donazioni esentasse a un sacerdote amico di Scarano, don Luigi Noli, anche lui denunciato. Poi c’è il direttore dell’agenzia di Unicredit del centro commerciale “I Granai”, Sergio de Felicis, sospettato di essere troppo compiacente con gli amici di Scarano e che forse anche per questo doveva essere raccomandato addirittura al-l’amministratore di Unicredit Federico Ghizzoni per un posto migliore. Poi altri piccoli e grandi comparse delle spericolate attività di Scarano come il pilota dell’aereo, Gianni Vettorazzi, che doveva riportare i 20 milioni di euro dalla Svizzera. O piccoli presunti evasori, come Giorgio Genovese, il venditore di un box auto a monsignor Scarano in quel di Salerno.
I personaggi più importanti però non sono i denunciati ma quelli che sono presenti - come protagonisti o solo citati - nelle intercettazioni telefoniche del-l’indagine. A partire dal direttore della gendarmeria vaticana Domenico Giani e il suo braccio destro, il colonnello Costanzo Alessandrini. I due, inconsapevoli dei reati del monsignore, nelle telefonate intercettate si mettono a disposizione di Scarano. E anche la loro posizione potrebbe traballare. La vicenda riserverà altre sorprese. Scarano dice a Marcianò, che ha conosciuto almeno otto persone che hanno consegnato denaro a scopo d’investimento a Giovanni Carenzio per una “somma che complessivamente si aggirerebbe intorno ai 70-80 milioni di euro”.
Nunzio Scarano parla spesso con l’ex numero due dello Ior. A Massimo Tulli dice con tono amicale: “Avrei bisogno, perché l’ho chiesto a Roberto ma evidentemente Roberto non aveva inteso, di due cose importanti... e magari vengo a prenderlo quando tu mi dici... un estratto conto di tutto l’anno, dall’inizio dell’anno, del fondo anziani, con tutti i movimenti e poi invece la mia posizione attuale, cioè il mio totale di tutto quello che io ho, con i vari investimenti! ”. E Tulli risponde: “Va bene! Lo faccio preparare, adesso glielo dico a Roberto perchè non stò al posto mio... due minuti che lo contatto e lo faccio preparare”.
In un’altra intercettazione, Scarano e l’amico Massimiliano Marcianò dicono che Tulli ha paura.
Scarano: Sei stato da Tulli, no? Come è stato? Gentile? Sì? Vabbè.
Marcianò: Sì... solo che tiene una fifa... quello tiene proprio... tiene u' peperoncino tiene.. c'ha il tremolio c'ha...
Scarano: ah sì? E va be'.... (incomprensibile) devo vedere... vabbe', mo' quando vieni ne parliamo.
Il 5 settembre del 2012, Tulli viene citato anche nell’operazione relativa ai soldi incassati dai libici e sui quali, secondo la Guardia di Finanza (ma lui nega) il dentista Roberto Letta non voleva pagare le tasse. Secondo la Finanza: “Inequivocabilmente la provvista di denaro contante complessivamente procurata dai sacerdoti Nunzio Scarano e Luigi Noli è stata destinata proprio al dentista Roberto Letta; di tale importo fanno parte anche 10 mila euro prelevati direttamente allo Ior da Massimiliano Marcianò, previi accordi diretti con Massimo Tulli”.

il Fatto 2.7.13
Romanzo santo
Da Gotti Tedeschi a oggi, bufera continua


Le dimissioni di Cipriani e Tulli sono l’ultimo atto di una vicenda che inizia nel settembre del 2010 quando i vertici della banca Vaticana, insieme al presidente di allora Ettore Gotti Tedeschi, sono indagati dalla Procura di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007, la normativa di attuazione della direttiva Ue sulla prevenzione del riciclaggio.
IL PRESIDENTE Gotti Tedeschi assume un atteggiamento più collaborativo e nel suo interrogatorio, con i pm Stefano Fava e Nello Rossi, sostiene di essere un fautore della chiusura dei conti cifrati che indicano personaggi laici. Ben diversa la linea di Paolo Cipriani che, anche davanti ai pm, sembra molto più legato alle gerarchie vaticane che interessato alle esigenze della giustizia. Gotti Tedeschi vuol fare fuori Cipriani e al consiglio dello Ior del 24 maggio 2012 vuole chiederne la rimozione. Però il segretario di Stato Tarcisio Bertone non segue la sua linea. I consiglieri dello Ior lo anticipano e lo sfiduciano. Intanto i pm romani avevano sequestrato 23 milioni di euro dello Ior nel settembre del 2010. Per dare un segnale positivo, il 30 dicembre 2010 il papa in persona vara la normativa “per la prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario”. Quella legge istituiva in Vaticano l’Autorità di informazione finanziaria (Aif), per il contrasto del riciclaggio e prevedeva per questa autorità la possibilità di effettuare ispezioni sui conti Ior e di comunicare i risultato all’Uif stessa, che poi li avrebbe girati ai magistrati. Sembra una rivoluzione. Ma è solo una finta. Quando la Procura dissequestra i 23 milioni nel maggio 2011 perché “l’Aif ha già iniziato una collaborazione con l’Uif fornendo informazioni adeguate su di un’operazione intercorsa tra Ior e istituti italiani”, la Segreteria di Stato ingrana la retromarcia. Il 25 gennaio 2012 è stata approvata una nuova direttiva che cancella i poteri di ispezione dell’Aif e li subordina a un nulla osta della Segreteria di Stato ai regolamenti (mai emanati) della Commissione Pontificia e a un protocollo di intesa Uif-Aif che non è mai stato siglato.
COSÌ la Procura continua a lavorare e scopre altri casi di utilizzo dei conti dello Ior per schermare operazioni illecite. Si va dai soldi delle truffe di un avvocato romano legato a un imprenditore di spicco vicino alla banda della Magliana, ai fondi della legge 488 per le aree depresse ottenuti illecitamente da una famiglia catanese vicina alla mafia. In tutti questi casi c’è un sacerdote titolare di un conto in Vaticano sul quale girano i soldi per poi tornare in Italia ripuliti dallo Ior. L’ultimo caso è monsignor Scarano che organizza insieme a un agente dei servizi segreti il rientro di 20 milioni giacenti su un conto in Svizzera gestito dal broker Giovanni Carenzio. Lo Ior non aveva segnalato alcuna operazione sospetta. Il vicedirettore Massimo Tulli gli dava del tu e parlava al telefono con il monsignore delle operazioni bancarie di prelievo in contanti. Quando escono le prime notizie dopo l’arresto di Scarano, suona l’ora delle dimissioni.

il Fatto 2.7.13
Soldi e potere
Gendarmeria, 007 e Criminalpol: tutti con “don 500 euro”
Il prelato incontra il capo dei servizi vaticani e telefona ak prefetto Chiusolo
di M. L. e V. P.


Monsignor Nunzio Scarano, finito in cella per corruzione quattro giorni fa, aveva contatti di altissimo profilo. E li usava per farsi restituire i 400 mila euro pagati al suo complice dei servizi segreti, Giovanni Zito, con il quale aveva litigato. Nelle intercettazioni che Il Fatto ha visionato ci sono conversazioni con il capo della gendarmeria vaticana, Domenico Giani e persino con il direttore della Direzione centrale anticrimine italiana (Dca), il prefetto Gaetano Chiusolo. Tutti rapporti finiti nell’informativa del Nucleo di Polizia Valutaria della Guardia di Finanzaguidatodal generale Giuseppe Bottillo e depositata in Procura di Roma a febbraio.
Scarano aveva dovuto pagare 400 mila euro a Zito perché questi aveva noleggiato un aereo ed era andato in Svizzera ad aspettare invano i 20 milioni di euro da rimpatriare. Dopo avere sganciato gli assegni, però Scarano vuole i soldi indietro e cerca di accreditarsi come vittima. In questo quadro si inseriscono i contatti con i vertici delle forze di sicurezza del Vaticano e dell’Italia, che lo stanno ad ascoltare. A raccontare dell’interferenza del capo della gendarmeria vaticana Giani, l’uomo che ha arrestato Paolo Gabriele, è lo stesso Scarano al telefono con Massimiliano Marcianò il 12 novembre scorso.
Marcianò: che impressione ha avuto? Lui [Giani, ndr] già conosceva Zito [l’agente dei servizi segreti]?
Scarano: No! [Giani] mi ha detto: non lo conosco proprio! Io ho detto: l’unica cosa che ti posso dire, perché è stato veramente gentile [Giani], ha detto: che cosa lei vuole che io faccia, perché per me innanzitutto è un onore riceverla, noi ci siamo sempre guardati a distanza; [Giani] ha detto: questo è molto grave, va licenziato! Ho detto: non voglio fargli del male, voglio soltanto che viene messo nella condizione di restituirmi quello che mi deve! Vorrei che [Zito] fosse messo fuori dal Vaticano e dalla realtà degli ordini equestri, ho detto: altrimenti sarò io a dare le dimissioni dagli ordini equestri, perché dico: se c’è questo tipo di persone e considerando che lei [Giani] è il capo io ho ritenuto opportuno farle presente di questa realtà perché è un inconveniente in meno, hai capito? Poi gli ho detto della tua presenza, [Giani] ha detto: ma non c’è bisogno, mi è tutto chiaro; poi chi è uscito da lì [intende dall’ufficio di Giani]? Salvatore Festa, suo grande amico [di Giani]! Quando io ho fatto l’elenco dei nomi [degli alti funzionari dei Servizi], dice: no, Motta è molto amico mio, La Motta (il prefetto arrestato Ndr), dice: quest’altro, De Gennaro, per carità, siamo intimi, e poi il direttore generale; dice: non c’è nessun problema per lui; [Giani] ha detto: io provengo da quella realtà [intendendo evidentemente dai Servizi segreti italiani]! ma quel tipo di persone lì non deve esserci! Ho detto: non voglio in questo momento, voglio prima uscire fuori poi dopo nel tempo deciderete, lo metterete sotto controllo, farete quello che volete, dico: però al momento il mio obiettivo è solo questo! Ho detto: sono stato troppo buono, anche forse stupido, ma mai all’idea di avere a che fare con un lestofante e si è negato sia alle mie telefonate sia a quelle dell’amico comunque presente alla situazione. [Giani] Ha detto: ma poi non c’è bisogno adesso, anche perché ha detto: non ha firmato nessuna testimonianza, lui si è reso... si è dato la zappa sui piedi perché l’assegno è firmato a lui, quindi è lui che l’ha incassato e non un altro! Ho fatto la copia dei documenti in modo tale che tiene tutto! Ha voluto la fotocopia soltanto dell’attestato del certificato di nascita [di Zito], perché ha detto: così ho notizie. E poi gli ho detto anche di tutte le bugie che mi ha detto [Zito], che lui era nobile, che poi era andato a vedere, era addirittura informato sull’albero araldico della mia famiglia, e poi il fatto di vedere il mio conto corrente, e poi di vedere le ultime tre operazioni [bancarie] per far vedere che lui era informato, che lui aveva condizione di prendere un aereo privato del Sisde e fare quello che voleva, insomma ho detto: io credo che lui [Zito] si sia ingarbugliato in diversi mali affari, motivo per il quale non era persona degna di entrare in Vaticano. Gliel’ho buttata così, hai capito? Aerei eccetera eccetera, e poi qualunque cosa: ci penso io, ci penso io, sempre il risolutore di tutti i problemi tant’è vero che quando ha promesso a questo dentista [Letta] di fare questo e quello ci siamo resi conto che è un conto era normale, e in più 250 più 1500 il prezzo dell’ovetto eccetera, hai capito? Ho detto: a quel punto mi sono reso conto effettivamente che [Zito] era un imbroglione!
Scarano (continua): Dice [Giani]: monsignore, se si tratta di un generale e allora la cosa la dovevamo prendere con le pinze. Poi gli ho detto dell’associazione [Cattolici in Movimento], ho detto: io lì, tranne una persona per il resto non ho incontrato una persona per bene e tutto l’entourage del generale Speciale è un entourage squallido.
Tutto sommato devo dire che adesso io in questo momento ho giocato tutte le mie carte, tutto quello che potevo, gliel’ho detto anche a Maurizio [Romeo] il quale avrebbe telefonato a Gaetano [Chiusolo, capo della Criminalpol] per riferire, poi magari stasera o domani lo chiamo pure io per ringraziarlo, perché in realtà i cinque nomi che [Gaetano] mi ha dato, io ho detto[a Giani]: dottore, guardi, io mi sono incontrato con un alto funzionario dello Stato [il citato Gaetano] al quale ho chiesto eccetera, i nomi... allora [Giani] dice: il primo, dice no, no, questo è un mio caro e grande amico, quest’altro: dice si lo conosco benissimo, quest’altro è gentiluomo del papa e poi l’altro è andato via adesso che abbiamo fatto una riunione molto riservata io e lui, hai capito? quindi... io poi credo che [Giani] sceglierà un nome abbastanza impegnativo per poter... poterlo fare mandare qui, secondo me, e mi auguro anche che se viene sia l’ultima volta che [Zito] mette piede in Vaticano, eh!
MAURIZIO ROMEO è un imprenditore che definisce Scarano la propria guida spirituale. Sarebbe stato lui a metterlo in contatto con Gaetano Chiusolo, direttore della Direzione centrale anticrimine della Polizia. Il 14 settembre Scarano parla proprio con il prefetto Chiusolo. “Nel corso dell’intercettazione – è scritto nell’informativa – il sacerdote, nel ringraziarlo per l’interessamento alla sua vicenda, gli ha riferito sommariamente del suo incontro con Giani; Chiusolo gli ha chiesto, in ultimo, di essere informato in presenza di significativi sviluppi della sua vicenda”.
Dopo il prefetto, Scarano punta soprattutto alla gendarmeria Vaticana. Deve incontrarsi il 17 novembre 2012 con Domenico Giani, ma l’incontro salta perchè questi è impegnato in una visita del papa in Libano e delega il suo braccio destro Alessandrini che ha diversi contatti, intercettati dalla procura, con Scarano. Costanzo Alessandrini rassicura il monsignore: “Non si preoccupi, monsignore, stia alla larga da tutti. Lasci fare a noi”, gli dice al telefono. P oi in una seconda intercettazione gli chiede un resoconto. A questo punto Scarano racconta anche dei dettagli sugli incontri avuti con il broker Giovanni Carenzio, anche lui finito poi in carcere: “Ho conosciuto Carenzio, tramite un Vescovo defunto, nel 1998, poi ancora tramite monsignor Gianfranco Piovano in piazza San Damaso, amico del vescovo di Pompei Toppi, presentatomi come persona di tutto riguardo, l’ho poi incontrato all’Ambasciata di Spagna, e in un ristorante romano con nomi autorevoli della politica, quando erano uomini potenti, (Mastella, Casini, Di Pietro, principe Ruspoli, la marchesa Marconi, la principessa Boncompagni) e poi ad altri ricevimenti addirittura alla destra della regina Sofia di Spagna ed a passeggio a Piazza Navona con l’infanta di Spagna e con tanto di guardie del corpo, ed ancora con personalità al Circola La Caccia di Palazzo Borghese”.
Poi ci sono ancotra altre intercettazioni tra Scarano e Alessandrini. Finché il 16 ottobre a chiamare è direttamente Giani.
Giani: Le volevo dire che io proprio in questi giorni avevo parlato con la direzione di questo signore no [con i dirigenti di Zito]? Avevo chiesto loro di dirmi cosa loro preferivano fare. Ma evidentemente ancora non mi hanno risposto quindi io direi che a questo punto io non credo che dobbiamo avere riguardo... Scarano: vada avanti, faccia quello che vuole! Liberamente e lo chiami!
Giani: No, io l’unica cosa però pensavo, se lui [Zito] venisse in Vaticano per qualche motivo... sarebbe molto... cioè se viene e conosce qualcun’altro che frequenta, oppure se lui in questo periodo si tiene alla larga... non le saprei dire perchè io non ho avuto più notizie.
Giani: Però il problema qual è? Che i fatti si sono verificati in Italia!
Scarano: E vabbè, poterlo invitare e incontrarlo fuori!
Giani: No, bisogna stare attenti qui, sa monsignore, bisogna stare molto attenti a tutto: lei i soldi glieli ha dati in Italia o glieli ha dati qui?
Scarano: Allora io i soldi glieli ho dati a casa mia che è zona extraterritoriale, alle quattro del mattino!
Giani: Perché lei dove abita?
Scarano: Santa Sede, mmm... la zona... palazzo... è zona extraterritoriale! Quindi può benissimo dire che è lì e basta! alle quattro del mattino alla presenza del dottore Marcianò perchè io ho avuto paura quella notte, lui era pazzo eh!

La Stampa 2.7.13
Scandalo pedofilia nella Chiesa
Nuovi file accusano l'arcivescovo Dolan
Il prelato voleva spostare 57 milioni di dollari in un fondo per non pagare i risarcimenti alle vittime di abusi

qui

Corriere 2.7.13
Non dimenticare le stragi naziste
di Carlo Smuraglia

Presidente nazionale dell'Anpi

Caro direttore, la vicenda delle stragi nazifasciste del 1943-45, che riguarda circa 15.000 vittime, è spesso oggetto di trattazioni prive di completezza d'informazione.
Finora non c'è stata una vera assunzione di responsabilità da parte del Governo italiano circa la vicenda dei fascicoli «occultati», che tanto danno hanno provocato, ai fini delle indagini. È vero, anche, che dal 2006, quando cioè ha terminato i suoi lavori (ed è finita la legislatura) la Commissione di inchiesta parlamentare, istituita proprio per scoprire le cause del mancato utilizzo e dell'occultamento di quasi mille fascicoli, non si è riuscito a ottenere che il Parlamento discutesse sulle relazioni conclusive della Commissione stessa.
Mi permetto però di segnalare alcune iniziative che costituiscono a mio parere dei significativi passi in avanti per mantenere viva l'attenzione su questi tragici fatti e per ottenere finalmente verità e giustizia.
Un libro recente di Buzzelli, De Paolis, Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia (ed. Giappichelli - 2012), non solo contiene una completa ed esauriente ricostruzione dei fatti e delle vicende connesse alle stragi suddette, ma riporta, alla fine, un'ampia bibliografia di ben tredici pagine.
E tra breve, uscirà, per le edizioni Carocci, un volumetto curato dall'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia) intitolato: Le stragi nazifasciste del 1943-1945 tra memoria, responsabilità e riparazione, che prende spunto dal Convegno che l'Associazione ha tenuto, in una sala del Senato, il 29 gennaio 2013, con relatori illustri, foltissimo pubblico e particolare attenzione, anche della stampa.
L'Anpi (che Franco Giustolisi continua a ritenere parte di una presunta «congiura del silenzio») ha avviato una petizione popolare per chiedere, appunto, che si discuta finalmente la vicenda in Parlamento e ha svolto la sua Festa nazionale, a Marzabotto, nel giugno 2012, dedicandola a tutte le vittime delle stragi e tenendo, in quella sede, un forum sul tema, molto partecipato da studiosi ed esperti e anche da rappresentanti di Associazioni delle vittime delle stragi.
Per non parlare dei ripetuti e molteplici incontri che si sono svolti al ministero degli Esteri, con diverse Associazioni e con l'Anpi in prima persona, per discutere sul come ottenere giustizia, risarcimenti, riparazioni. In una di queste riunioni, recentissima, erano presenti anche rappresentanti della Germania; e con loro e con i dirigenti italiani si è discusso di un progetto dell'Anpi stessa e del Insmli (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) per la redazione di un completo Atlante delle stragi, di cui si chiede alla Germania il finanziamento. Il sottoscritto ha quindi consegnato al ministero degli Esteri, così formalizzandola, una serie di richieste da far valere presso il corrispondente ministero tedesco, tra cui anche l'esecuzione, in Germania, delle sentenze italiane.
L'Anpi, inoltre, ha contribuito alla presentazione di un ampio documento, sottoscritto da un intero gruppo parlamentare, su tutta la vicenda, per ottenere che si discutesse in Aula, si accertassero finalmente le responsabilità e si contribuisse anche a «riparare», ove possibile. Purtroppo quell'interpellanza è decaduta per fine legislatura e ora se ne sta predisponendo un'altra, cercando di raccogliere molte firme e di esercitare una seria pressione perché finalmente si discuta tutto a viso aperto.
Certo, ci sono ancora molti vuoti, quello del dibattito parlamentare mancato, quello di una chiara assunzione di responsabilità «italiana» per la vicenda dei fascicoli occultati, quello dei ministeri competenti che non si sono adoperati perché le sentenze emesse dai Tribunali militari italiani fossero eseguite ovunque, e dunque anche in Germania, quello di coloro che (penso al Tribunale di Stoccarda che archivia vicende per le quali, in Italia, sono stati irrogati otto ergastoli, con sentenze definitive) preferiscono rimuovere una pagina storica veramente terribile. Sono vuoti che stiamo cercando di colmare, con fatica e con impegno (non da soli: penso ai commossi interventi, a Marzabotto e a Sant'Anna di Stazzema, dei Presidenti della Repubblica dell'Italia e della Germania), talora cercando accordi conclusivi con la Germania (ricordo la relazione del gruppo di storici italo-tedesco, che è stata presentata nel novembre scorso e che, pur con qualche parte discutibile, rappresenta una fase saliente del cammino che si sta cercando di percorrere). E da una più ampia informazione, ripeto, non potrà che derivare un vantaggio non solo per il nostro lavoro, ma per l'attesa e l'ansia di verità e giustizia che anima ancora coloro che hanno vissuto, direttamente o indirettamente, gli effetti di questa enorme tragedia.

l’Unità 2.7.13
Roma, caricato il corteo per la casa
Ferita una ragazza
di Jolanda Bufalini


ROMA Stefania, 22 anni, ferita al volto da una manganellata durante il corteo dei movimenti per la casa, indetto ieri in contemporanea con la prima riunione del nuovo consiglio comunale e della giunta capitolina. Una ferita molto brutta e difficile da suturare perché Stefania, che era in testa al corteo, porta gli occhiali, i medici del Fatebenefratelli dove è stata portata in ambulanza hanno ipotizzato un intervento di plastica facciale. Il sindaco, ieri sera, è andato a trovare la ferita. «Condanno con fermezza gli episodi di violenza di oggi, sui quali va fatta piena luce, per questo chiederò immediatamente al Prefetto di accertare le responsabilità dell’ accaduto», ha detto Ignazio Marino che ha aggiunto: «Mi sono voluto sincerare personalmente delle condizioni di Stefania». Poi si è rivolto ai manifestanti: «La porta del Campidoglio è sempre aperta per chi vuole dialogare e trovare soluzioni ai problemi della città».
Il corteo autorizzato era all’incrocio fra i Fori Imperiali e piazza Venezia, quando è salita la tensione. Ai manifestanti, infatti, era stata vietata la piazza del Campidoglio, inagibile per l’allestimento di un concerto. Ma c’è stato un blitz della Destra, una contro-manifestazione non autorizzata che, invece, ha raggiunto il palazzo senatorio. A quel punto anche il corteo per la casa voleva salire sul colle. In testa al corteo, che ha provato a sfondare i cordoni, c’erano donne e ragazze. È scattata le carica che aveva un intento di alleggerimento e, invece, ha avuto un risultato drammatico. Oltre alla ragazza ferita, ci sono cinque contusi. Anche un funzionario della Digos è stato colpito al volto da una bottiglia d’acqua e portato al pronto soccorso. Le versioni di manifestanti e polizia divergono ma ci sono immagini eloquenti che mostrano il momento in cui il manganello colpisce il volto di Stefania.
Quando la notizia dei tafferugli ha raggiunto il Campidoglio, dall’Aula Giulio Cesare, dove si era appena conclusa l’elezione di presidente e vicepresidenti del consiglio, si sono precipitati fuori il vicesindaco Luigi Nieri, l’assessore all’emergenza abitativa Daniele Ozzimo, Gianluca Peciola (Sel), Enzo Foschi, capo segreteria del sindaco. «Gravissimo che sia stata ferita una ragazza», ha detto Luigi Nieri, «le cariche vanno evitate, non si può trasformare un problema sociale in un problema di ordine pubblico». Anche dalla Cgil è venuta una condanna: «Intollerabile l'uso della forza nei confronti di chi manifesta per un giusto diritto». Nieri ha sottolienato che il corteo era autorizzato ma «c'è stata la provocazione degli esponenti de La destra, che sono saliti con le bandiere in Campidoglio, dove non doveva salire nessuno».
Dal corteo si è formata una delegazione di una ventina di persone che è stata ricevuta in Campidoglio, fra loro Paolo Di Vetta e Andrea Alzetta, che aveva la camicia sporca di sangue. Alzetta, detto Tarzan, dovrebbe sedere nell’Aula Giulio Cesare, eletto proprio dal mondo dei movimenti. Ma è stato escluso (al suo posto la prima dei non eletti, Imma Battaglia) in base alla legge anticorruzione, a causa di una condanna a due anni e tre mesi del 1996, per scontri di piazza del 1991 (quando, per intenderci, esisteva ancora l’Urss e lui era uno studente della “Pantera”). Alzetta è stato consigliere già nella scorsa consiliatura. Il paradosso è che Tarzan potrebbe essere eletto in Parlamento ma non al consiglio comunale.
Al termine dell’incontro con la delegazione, l’assessore Daniele Ozzimo ha annunciato un incontro fra comune e regione Lazio e poi «un confronto con i movimenti insieme al sindaco Marino». «Il problema della casa è complicatissimo, c'è tutta la partita delle case degli enti. Chiederemo l'aiuto del governo», ha confermato Nieri che è anche assessore al Patrimonio.

il Fatto 2.7.13
Da Ponte Vecchio al Colosseo Italia (s)vendesi ai privati
Feste, cena e gran galà: i gioielli artistici affittati per fare cassa
Una strategia che esclude, però, turisti e cittadini
di Tomaso Montanari


Matteo Renzi sequestra Ponte Vecchio e lo trasforma in location per una festa della Ferrari. Ecco il progetto politico del futuro leader della Sinistra italiana: un piccolo gruppo di super-ricchi che si appropria dei beni comuni mentre i buttafuori tengono alla larga i cittadini.
NON È UN EPISODIO, è la strategia del sindaco commensale di Briatore. L'assessore al Turismo di Renzi, Sara Biagiotti, ha convocato per giovedì prossimo una riunione che inaugura il “percorso di realizzazione di un brand della città, in prospettiva di una politica di sfruttamento commerciale del brand stesso”. Firenze non come comunità civile e politica, né tantomeno come città di cultura, ma come brand, marchio, griffe da sfruttare a fini esplicitamente commerciali. Lo scorso novembre Renzi dichiarò solennemente: “Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto”. Ma gli Uffizi sono – per ora – statali, e Renzi si deve accontentare di sfruttare il “suo” Palazzo Vecchio e le piazze della città. Così a gennaio il Salone dei Cinquecento è diventato la location di una sfilata di moda di Ermanno Scervino, lo stilista che veste il sindaco e la moglie. E, in aprile, Piazza Ognissanti e Piazza Pitti sono state chiuse ai fiorentini per la celebrazione del matrimonio bolliwodiano di un magnate indiano.
Ma, come sempre, Renzi non si inventa nulla: si limita a estremizzare il modello corrente. Nella stessa Firenze, la Soprintendenza riserva gli Uffizi a Madonna per una visita privata (inclusa la guida della soprintendente Cristina Acidini, in veste di personal shopper 'culturale'), e poco dopo affitta sempre gli Uffizi allo stilista Stefano Ricci per una sfilata di moda “neocoloniale” aperta da una tribù di Masai, che corrono brandendo scudi e lance di fronte al Laocoonte di Baccio Bandinelli, sotto lo sguardo incredulo dei ritratti cinquecenteschi della Gioviana. Per la gioia di un Occidente narcisista che balla sul-l’abisso, tutto è merce, tutto è in vendita: gli abiti griffati, il museo e perfino i Masai, portati a Firenze come bestie da serraglio e numero da circo. Segue una cena stile "cafonal" sul terrazzo degli Uffizi: con gli invitati che arrivano sui jet privati e con Matteo Renzi ospite d'onore.
Ma anche la Curia arcivescovile non è da meno. La sfilata inaugurale di Pitti 2011, per esempio, si è tenuta nella chiesa di Santo Stefano al Ponte: una chiesa sconsacrata, ma perfettamente leggibile come luogo sacro e appartenente alla Curia stessa. Le modelle si sono spogliate nella cripta, hanno sfilato nella navata dove un tempo spirava l’eterea spiritualità di una pala del Beato Angelico, e hanno posato – seminude – per i fotografi su un altare dove per secoli si è celebrato il sacrificio eucaristico. E non è stato un incidente. Il sito www. santostefa  noal-ponte.com   definisce la chiesa “una location elegante e singolare, ideale per organizzare eventi esclusivi nel cuore di Firenze”, “mentre la cripta sottostante, ideale per gli eventi più ristretti, ha una capacità massima di novanta persone”. Amen. Ma lo stesso vento spira in tutta Italia. A Venezia la Punta della Dogana è da tempo trasformata nella showroom personale di François Pinault, e l'anno scorso i veneziani non hanno potuto guardarvi i fuochi d'artificio per la Festa del Redentore, perché il milardario francese, proprietario di Christie's, dava una cena-privata-in-spazio-pubblico. A Roma il Colosseo, anch’esso ridotto a un brand, è al centro di una privatizzazione targata Della Valle. Sempre a Roma don Alessio Geretti, sacerdote organizzatore di mostre assai vicino al cardinal Bertone, celebra numerose serate mondane a pagamento alla Galleria Borghese. A Napoli, invece, la stessa cosa avviene in salsa nazional-popolare: Piazza Plebiscito viene recintata e resa accessibile solo a pagamento per il concerto di Bruce Springsteen, tra roventissime polemiche.
MA LA PRIVATIZZAZIONE non riguarda solo gli spazi pubblici. Il governo Letta ha appena presentato un disegno di legge che permetterebbe di noleggiare a pagamento i quadri contenuti nei depositi dei musei italiani (un'idea di Domenico Scilipoti), e la sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni (eletta in Parlamento come capolista lombarda di Lista Civica, cui aveva donato ben 710.000 euro) continua a ripetere che siccome lo Stato non funziona bisogna lasciargli solo la tutela, e affidare la gestione ai privati (come il Fai, di cui la Borletti era fino a ieri presidente). Il crimine più grande del corrottissimo Verre, scrisse Cicerone nel 70 avanti Cristo, non era stato l'aver saccheggiato il patrimonio artistico delle città siciliane, ma quello di aver fatto mettere agli atti che i siciliani l'avessero “privatizzato” spontaneamente: e per di più che lo avessero fatto parvo pretio, cioè per una somma irrisoria.
Ed è quel che accade anche oggi: affittare Piazza del Plebiscito per un evento commerciale costa meno di 5000 euro; per visitare gli Uffizi come ha fatto Madonna ce ne vogliono meno di 10.000; per farci correre i Ma-sai, 30.000. Ma anche privatizzare Ponte Vecchio non è carissimo: 100.000 euro e sei granduca per una notte (cultura e buon gusto esclusi, ovvio).
Ma il punto non è questo: il punto è che la missione che la Costituzione assegna al patrimonio è essere inclusivo, non esclusivo; è costruire l'eguaglianza, non celebrare il lusso di pochi; è renderci tutti più civili, non umiliare chi non arriva alla fine del mese. In nuovo, feroce feudalesimo gli spazi pubblici delle città italiani che ci hanno fatto, per secoli, cittadini tornano oggi a farci sudditi, anzi schiavi: del mercato, del denaro, di una politica senza progetto.

il Fatto 2.7.13
Amico Montezemolo
Rabbia a Firenze. Il sindaco: un buon affare
di Sara Frangini


Firenze Galà lussuosi, cene di miliardari, nozze vip. Firenze ne ha viste di ogni tipo. A partire dalla sfilata sul Ponte Vecchio di Roberto Cavalli nel 2006, fino al matrimonio di una coppia di indiani costato 8 milioni di euro. Festa in piazza Ognissanti compresa. Per arrivare a sabato sera, all’inattesa – e per questo discussa – cena di gala firmata Luca Cordero di Montezemolo. Il fondatore di Italia Futura, infatti, è riuscito ad affittare dal suo amico Matteo Renzi l’intero Ponte Vecchio. Il neo sostenitore del sindaco (che lo aveva lodato: “Il primo politico a dire in termini chiari quello che va detto” ) ha “blindato” il monumento per sei ore filate all’insaputa dei fiorentini e dei turisti. Per “noleggiarlo” dalle 17 alle 23 di sabato la Ferrari Cavalca-de 2013 avrebbe sborsato 100 mila euro (per occupazione del suolo pubblico e straordinari per la municipale) più 13 mila per il restauro di un monumento nel chiostro di Santa Maria Novella. Questo stando alle cifre indicate dal sindaco che però non risultano dalla delibera di giunta che parla solo di 13 mila euro. Cifre che però non sono bastate a placare la rabbia dei residenti, costretti fare lunghi giri per rientrare a casa. Al loro disagio si è aggiunto quello dei turisti che non hanno potuto visitare il simbolo della città. Accesso off-limits per tutti, quindi, eccetto gli invitati che hanno banchettato attorno all’orchestra, al centro del ponte, con vista mozzafiato sulla città e sull’Arno. E mentre la città manifesta perplessità e critica il suo sindaco, gli orafi si dividono. “Il Comune ci aveva avvisato – ha spiegato la titolare di una gioielleria – è stata una bellissima iniziativa e abbiamo aderito”. “È successo un macello – dice invece un’altra orafa – i fiorentini non potevano passare, noi non si lavorava: dovevano mettere dei cartelli per avvisare”. “Ho dovuto fare un giro lunghissimo per rincasare – dice un residente – E non è la prima volta che fanno cene e non avvisano”.
   GLI STESSI ferraristi, infatti, secondo la delibera della Giunta di martedì scorso, avevano ottenuto altri spazi e “l’apertura straordinaria di Santa Maria Novella per il o 27 giugno” usufruendo del Chiostro Grande “per lo svolgimento della cena di gala”. Il tutto all’interno di un tour fiorentino che la Giunta Renzi si è “dimenticata” di annunciare. Finché parla della sua leadership politica, infatti, il sindaco non si tira indietro. Incontra imprenditori, rimbalza da una tv all’altra. Ma quando c’è di mezzo l’Amministrazione la comunicazione lascia a desiderare. Per questo ieri il caso Ponte Vecchio è arrivato in Consiglio comunale, dove il primo cittadino è stato chiamato a rispondere della scelta. Renzi si è limitato a citare i precedenti (Cavalli in testa) e ha glissato sull’argomento, ma a margine ha ribadito: “Lo abbiamo fatto, lo rifarei, lo rifaremo: si tratta di un’iniziativa che ha portato un milione di indotto alla città”. “Abbiamo chiesto 120 mila euro” e “in più porti la top clientela di Ferrari a Firenze per fare delle iniziative. In un mondo dove le città fanno a gara per accaparrarsi chi ha potere di spesa, anche Firenze è importante lavori in questa direzione”.
DURO l’attacco della consigliera Ornella De Zordo: “L'idea che il patrimonio artistico serva per far cassa sottraendolo alla collettività è l'esatto contrario del concetto di città-bene comune”. Stesso tono il consigliere della Lista Galli Massimo Sabatini: “Resta il dubbio sulla correttezza procedurale della concessione – ha detto -. Sulla base di quale Regolamento la Giunta ha approvato l’affitto di Ponte Vecchio con la delibera emessa in fretta il 25 giugno? Siamo casualmente a soli tre giorni prima dell’evento. E poi chi ha stabilito il costo? Il suolo pubblico ha un prezzo diverso, questa è una contrattazione privata”.

La Stampa 2.7.13
Trattativa Stato-mafia, Riina:
“Sono stati loro a venire da me”

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l’Unità 2.7.13
Anche l’esercito dà l’ultimatum a Morsi
Egitto, ultimatum a Morsi l’esercito torna in campo
Le forze politiche al governo hanno 48 ore per aprire il dialogo con la popolazione in piazza
I militari pronti a imporre una «road map»
di Umberto De Giovannangeli


Il giorno degli ultimatum. Dell’esercito che scende in campo. Il giorno dei ministri dimissionari. Il giorno più lungo per Mohamed Morsi. L’Egitto è una polveriera pronta ad esplodere con conseguenze devastanti per l’intero Medio Oriente. L’esercito egiziano ha dato 48 ore di tempo alle forze politiche per soddisfare le richieste della popolazione scesa in piazza contro il presidente Mohamed Morsi. Altrimenti, hanno spiegato le forze armate leggendo una nota in diretta televisiva, «saremo noi a proporre una road map per rispondere alle domande dei cittadini». per il governo morsi, hanno aggiunto i militari, questa è «l’ultima chance per assumersi la responsabilità del momento storico che il Paese sta attraversando». Quarantott’ore per dare risposte al popolo. Più che un invito, sembra l’avvisaglia di un golpe.
PIAZZA IN FESTA
«Le forze armate recita la dichiarazione tornano a chiedere che si risponda alle richieste del popolo e danno a ciascuna delle parti 48 ore come ultima possibilità per farsi carico di un momento storico per una nazione che non perdonerà o tollererà alcun partito che sia lento ad assumersi le sue responsabilità». L’esercito non ha specificato cosa intenda con «richieste del popolo», ma ha sottolineato che se queste non verranno realizzate, le forze armate saranno obbligate ad «annunciare una road map per il futuro e i passi per controllare la sua applicazione, con la partecipazione di tutti i partiti e movimenti patriottici e sinceri». Poco prima anche l’opposizione aveva dato un ultimatum al presidente Morsi: «Ha tempo fino a domani, martedì 2 luglio, alle 17, per lasciare il potere e consentire alle istituzioni di prepararsi per elezioni presidenziali anticipate». Altrimenti «inizieremo una campagna di assoluta disobbedienza civile».
Un immenso boato da piazza Tahrir ha accolto la lettura del comunicato diramato alla tv di Stato dopo la riunione del Consiglio supremo militare egiziano presieduto dal ministro della Difesa e comandate delle forze armate Abdel Fattah el Sissi. Una riunione a cui non era presente Morsi. «Il popolo vuole la caduta del regime», è il grido che si è levato nel luogo-simbolo della protesta. Mentre la folla esultava, cinque elicotteri militari con le bandiera egiziane sorvolavano Piazza Tahrir in festa. Anche per le strade della capitale egiziana la notizia è stata seguita da caroselli di auto, con i conducenti che pigiavano all’impazzata sui clacson, mentre dai finestrini sventolavano le bandiere con il tricolore nazionale. «Vieni, Sissi, Morsi non è il mio presidente!», cantava in coro la folla, alludendo al portavoce delle Forze Armate che ha letto alla televisione di Stato il comunicato. E festa grande è anche davanti al palazzo presidenziale di Ittahadeya dove gli avversari di Morsi manifestano dall’altro ieri per chiederne le dimissioni, dopo l’annuncio che le forze armate danno 48 ore di tempo alla politica per uscire dalla crisi. Vuvuzelas e cori accolgono la notizia.
ALTA TENSIONE
Silenzio, invece, nella piazza rivale, quella dove sono riuniti i sostenitori del presidente. «Tutti respingono la dichiarazione delle forze armate. La soluzione alla crisi sarà trovata nella cornice della Costituzione», dichiara Yasser Hamza, componente dei Fratelli Musulmani, concludendo che «l’epoca dei colpi di Stato è finita». Ma altre fonti interne al movimento, fanno sapere che i vertici della Fratellanza stanno esaminando il comunicato dell’esercito. Ma la crisi è ormai penetrata anche nei palazzi del potere. Cinque ministri del governo di Morsi hanno annunciato le loro dimissioni: i titolari del turismo, dei rapporti col Parlamento, delle telecomunicazioni, dell’ambiente e delle risorse idriche hanno presentato una lettera di dimissioni congiunta spiegando di volersi unire i manifestanti e di essere contrari alla politica del governo. Lo riferiscono fonti del governo egiziano.
Nelle ultime ore sono almeno dodici le persone rimaste uccise in Egitto: tre decedute per le gravi ferite riportate negli scontri tra contestatori e sostenitori di Morsi davanti al quartier generale al Cairo dei Fratelli Musulmani, e cinque ad Asyut, nell’omonima provincia dell’Alto Egitto, a causa di analoghi disordini avvenuti nei pressi della locale sede del Partito per la Libertà e la Giustizia, braccio politico degli stessi Fratelli Musulmani. Il totale dei morti accertati dalla notte scorsa in tutto il Paese è salito così a non meno di venti, mentre fonti ospedaliere hanno precisato che i feriti ammontano a 713.
La tensione è altissima. L’esercito egiziano ha arrestato 15 guardie del corpo del leader dei Fratelli Musulmani Khairat al-Shater. A riferirlo è una fonte della sicurezza. In precedenza la famiglia di Shater aveva denunciato spari della polizia contro la sua casa.
Sulla crisi in Egitto è intervenuto anche Barack Obama, in visita in Tanzania. Il monito degli Stati Uniti al Cairo è molto chiaro: gli aiuti arriveranno solo e soltanto se «sarà rispettata la legge», «se il governo ascolterà l’opposizione e se non sarà usata la violenza», afferma il presidente Usa. Dopo l’ultimatum di 48 ore dato dai militari ai Fratelli Musulmani e al governo per risolvere la crisi, Morsi ha incontrato in serata il ministro della Difesa e capo delle forze armate, il generale Abdel Fattah el-Sissi e il premier Hisham Qandil. Lo rendo noto la pagina Facebook della presidenza. Si cerca di evitare il peggio. Ma forse è troppo tardi.

La Stampa 2.7.13
I 370 giorni del Faraone “Alla guida senza patente ha sepolto l’Islam politico”
La rabbia della gente: i Fratelli hanno rubato più di Mubarak
di Francesca Paci


L’attivista Tamarod: «È la fine del sogno salafita Libereremo il mondo dal pericolo terrorista»
Il suo stesso partito parla di «dimissioni e voto anticipato come soluzioni»

Verso «l’espulsione» Giovani del movimento «Tamarod» in piazza contro il presidente Morsi con le bandiere dell’Egitto e i cartelli rossi con la scritta «Vattene» Domenica sono scese in strada in tutto l’Egitto 17 milioni di persone
Le transenne intorno alla sede bruciata dei Fratelli Musulmani al Muqattam, la montagna a ridosso del centro del Cairo, raccontano meglio di mille analisi quella che oggi sembra a tutti gli effetti la parabola discendente del primo presidente islamista democraticamente eletto nel mondo arabo nonché della sua potente casa madre, l’ottuagenaria organizzazione fondata da Hasan al Banna proprio qui in Egitto.
«Abbiamo dato a Morsi la patente ma lui non sa guidare» ripete da giorni il leader dell’opposizione Mohammed el Baradei. Dopo l’ultimatum dell’esercito, il suo ex sfidante Ahmed Shafik gli concede al massimo «una settimana di vita politica» mentre i ragazzi di Tamarod, anima e corpo della oceanica manifestazione di domenica, prevedono uno scenario ancora più clamoroso, «la scomparsa dei Fratelli Musulmani». Siamo a fine corsa?
Eppure solo un anno fa Mohammed Morsi, non brillantissimo ma certamente uno dei più disciplinati membri della Fratellanza, veniva acclamato dagli egiziani come il presidente della rivoluzione, prima di essere nominato uomo dell’anno dalla rivista «Time» (che poi ci avrebbe ripensato). Allora anche molti liberal si schierarono con lui contro il candidato dell’ex regime Shafik, portando vittoriosamente a tredici (il 51%) i sei milioni di voti irriducibili su cui poteva contare. In realtà, dopo aver conquistato il 47% dei seggi in Parlamento, i Fratelli Musulmani avevano già iniziato a perdere terreno bruciando parecchi milioni di consensi sull’altare del potere.
Com’è accaduto che l’astro del professor Morsi, formatosi in una università americana ma fiero della velatissima consorte Najila, si smorzasse tanto velocemente?
I primi passi erano apparsi promettenti a quella piazza Tahrir che oggi brandisce la sua foto bannata da una X rossa, con il programma di cento giorni per rilanciare l’economia e restituire all’Egitto un posto sul palcoscenico internazionale. Ma già dopo il fortunato ruolo di mediatore nella crisi di Gaza, a novembre 2012, Morsi aveva incrociato violentemente le armi con l’opposizione forzando la mano sul referendum per la Costituzione scritta dagli islamisti e insinuando il dubbio di voler mascherare con la diplomazia estera la propria incapacità in politica interna e l’avidità di potere dei Fratelli Musulmani. Anche perché, nel frattempo, la disoccupazione balzava al 13%, la crescita si fermava al 2,2%, il prestito del Fondo Monetario Internazionale si arenava in un infinito rinvio e l’Egitto, a corto di benzina e di elettricità, guadagnava il 34° posto nella nefasta classifica dei paesi guidata dalla Somalia.
«Morsi è una marionetta, un utile incapace messo lì dai boss della Fratellanza, pare che da anni prenda antidepressivi in seguito a un’operazione alla testa» rivela un ex collega fuoriuscito dall’organizzazione nei mesi scorsi. Alle sue spalle ci sarebbe tra gli altri il potente businessman Khairat al Shater, l’originario candidato della Fratellanza escluso dalla corsa presidenziale all’ultimo minuto, le cui guardie del corpo sono state arrestate ieri dall’esercito egiziano dopo uno scontro a fuoco. I militari hanno sempre evitato lo scontro con gli islamisti dotati di addestrate milizie ma ora l’equilibrio del potere è mutato.
La sede del partito Libertà e Giustizia, alle spalle del Parlamento, è un fortino inaccessibile presidiato da tredici blindati della polizia antisommossa. Nessuno risponde al citofono e i telefoni squillano a vuoto.
«Credo che le dimissioni e il voto anticipato siano la soluzione» ammette Kamel Helbawy, ex Fratello Musulmano e membro importante del ramo dell’organizzazione dove in queste ore la preoccupazione per le sorti del gruppo egiziano sarebbe fortissima. «Tutti i partiti islamisti della regione sono in allarme» osserva Shadi Hamid del Brooking Center di Doha. Il fallimento della presidenza Morsi che l’operaio Sallah accampato da due giorni in piazza Tahrir considera «un tradimento del Corano per bramosia di potere», metterebbe in discussione la capacità gestionale dell’intero progetto «islam politico».
«Sono gli ultimi giorni dei Fratelli Musulmani, libereremo il mondo dal terrorismo come gli americani con tutte le loro guerre non hanno saputo fare», dichiara Mohammed Khamis, uno dei fondatori di Tamarod, fumando una sigaretta dietro l’altra nella sede del movimento assai meno lussuosa di quelle degli ex alleati nella rivoluzione contro Mubarak e oggi nemici giurati. Mohammed ha perso degli amici nella guerriglia scoppiata nei pressi del palazzo presidenziale Ittahadiya lo scorso dicembre e non perdona quella che considera «l’occupazione» dei governatorati, dei ministeri, deivertici delle istituzioni da parte dei Fratelli Musulmani. «Morsi e i suoi compari si sono comportati come quei nuovi ricchi che vengono invitati a una festa elegante per la prima volta e si abbuffano oltre misura» chiosa l’ingegnere Ahmed Mhamoud seduto al Beladi, il caffè dei rivoluzionari in piazza Tahrir. Fuori una folla eterogenea a cui si mescolano anche i proletari di Matareyah, Imbaba, Shubra e Ain Shams, storiche roccaforti islamiste, inneggia all’esercito, l’altra faccia della parabola discendente di Morsi.

Corriere 2.7.13
In Egitto
Poeti, artisti e registi uniti contro la cultura «velata»
di C. Zec.


IL CAIRO — Poeti, scrittori, registi e pittori, scultori e tanti musicisti di tutte le età, tutti egiziani: nella palazzina bianca del ministero della Cultura a Zamalek, l’isola nel Nilo nel centro del Cairo, decine di artisti e di intellettuali sono incollati alle tv e ai cellulari, discutono, entrano e escono, qualcuno si abbraccia. Da pochi minuti l’esercito ha dato l’ultimatum finale al raìs islamico Mohammad Morsi, o almeno di questo sono tutti convinti, anche se il futuro non è certo chiaro.
«Siamo stati tra i primi a dire che si può cambiare, ci si può opporre a questo governo disastroso per l’arte, la cultura e l’intero Paese», ci dice Mohammad Abla, uno dei più quotati pittori egiziani, famoso per i suoi quadri sociali e recentemente per quelli in onore della Rivoluzione. «Il 5 giugno, in una trentina abbiamo preso possesso discretamente di questo edificio in protesta contro il ministro islamico della Cultura, Alaa Abdel Aziz, che aveva licenziato i responsabili più attivi delle istituzioni statali, come i direttori dell’Opera e della Biblioteca nazionali, delle Belle Arti, del settore Libri. E contro la deriva islamica dell’Egitto, volevano perfino proibire il balletto perché anti-religioso». Poi, con il tacito appoggio della polizia ostile al governo e dei dipendenti del ministero che hanno continuato a lavorarvi (qualcuno è stato licenziato in tronco), la palazzina è diventata un centro chiave della ribellione.
«I giovani di Tamarrod all’inizio portavano qui le petizioni firmate dalla gente, li aiutavamo a contarle — continua Abla, membro del “comitato direttivo” della protesta —. Adesso che sarà? Fino a quando non avremo un ministro che approviamo non ce ne andremo. E vogliamo proporre di reggere noi il dicastero, collettivamente, durante la transizione».
«Il nostro è un sit-in permanente, non ci piace parlare di occupazione, l’arte e la cultura libere sono un nostro diritto che non ci riconoscevano e che ci siamo presi pacificamente», continua Ahmed Nabil, giovane ma già noto cantante di musica araba classica, indicando lo striscione sopra al cancello con scritto «L’arte è resistenza». Da quasi un mese dorme nel ministero, e la sera partecipa agli spettacoli offerti regolarmente, due o tre ogni giorno, accanto alle mostre e altre attività.
Spesso arrivano politici della opposizione, da Mohammad ElBaradei a Hamdeen Sabbahi, si tengono incontri e assemblee. E domenica, giorno della Grande Protesta, tutti gli «occupanti» insieme a centinaia di altri artisti hanno sfilato in corteo battendo tra loro zoccoli di legno, gli stessi con i quali nel XIII secolo un gruppo di schiavi ribelli uccise il governatore egiziano Shagarat Al Dor. Non a caso: la via dove sorge il ministero porta il suo nome.
«Ci hanno attaccato in tutti i modi, una trentina di noi sono stati denunciati ma non ci siamo presentati in tribunale, e poi pubbliche accuse, proclami, calunnie ma tranne pochi incidenti nessuna violenza», spiega il poeta in lingua egiziana Zein Abdeldin Fouad, interrompendo una discussione con una veterana della protesta, la regista di documentari Nabiha Lotfi.
«Sono nata nel 1937, fate voi i conti della mia età, e ho visto passare molti raìs – dice la signora Lotfi –. L’unico che si preoccupava davvero del popolo è stato Nasser, anche se certo non era perfetto e per alcune cose era forse un dittatore. Sadat e Mubarak non erano molto meglio di Morsi ma quest’ultimo ha aggiunto la censura religiosa a quella sociale e politica. Per questo, nonostante i miei anni sono qui ogni giorno. Adesso stiamo a vedere. Il mio sogno è che l’Egitto torni ad essere rispettato dal mondo, che sia finalmente libero e in pace».

Repubblica 2.7.13
I generali e la piazza
di Renzo Guolo


LE FORZE armate egiziane danno le quarantott’ore a Morsi.
Non chiedono esplicitamente le dimissioni del presidente islamista. Ma gli intimano di trovare un accordo con l’opposizione.
Eche soddisfi le “richieste del popolo”. In caso contrario, le forze armate imporranno una road map finalizzata a trovare soluzione alla crisi, resa palese dalle imponenti mobilitazioni contro Morsi del 30 giugno.
Di fronte al precipitare degli eventi, la parola torna, dunque, ai militari che, solo un anno fa, sembravano essere stati sospinti nell’ombra dall’inarrestabile ascesa dei Fratelli Musulmani. Imponendo coercitivamente un percorso di unità nazionale, i militari non si propongono il ritorno ai tempi di Mubarak. Affermano di non voler essere coinvolti nella gestione politica e di rispettare le norme democratiche, ma rivendicano il ruolo di custodi degli interessi e della sicurezza della nazione, minacciati dalla crisi politica e economica. Del resto, la gestione diretta del potere sarebbe problematica sul piano interno e internazionale. Non avrebbe il consenso di Washington che,non a caso, di fronte agli ultimi sviluppi in riva al Nilo ha invocato “moderazione”. Per quanto le transizioni seguite alle primavere arabe si siano rivelate problematiche per gli Usa, Obama non potrebbe legittimare mutamenti che mettano a repentaglio i processi di democratizzazione seguiti alla caduta dei regimi autocratici. Anche se il pronunciamento del Consiglio supremo militare, presieduto dal ministro della Difesa Al Sissi, si manifesta palesemente come la voce del sovrano nello stato d’eccezione.
A piazza Tahrir l’opposizione ha gioito all’annuncio dei militari, anche se le sue richieste – dimissioni di Morsi, nomina di un capo del governo tecnico, presidenza della Repubblica provvisoria affidata al presidente della Corte costituzionale – , dovranno ora essere negoziate con il partito della Fratellanza, Libertàe Giustizia. La situazione resta critica. Quale sarà l’atteggiamento dei Fratelli Musulmani e di quel fronte salafita che ha dato vita a uno schieramento chiamato – significativamente per forze che, sino a qualche anno fa, consideravano la democrazia una forma di idolatria al cospetto della sovranità divina – Fronte per la difesa della legittimità democratica? La convulsa crisi egiziana mette in mostra un evidente paradosso: gli islamisti sono divenuti i cantori della democrazia in nome della legittimazione acquisita nelle urne; e i democratici, che invocano il primato della politica sull’esito del voto, non esitano a salutare con entusiasmo il pesante intervento nel gioco dei militari. Per gli islamisti i voti si contano e pesano più delle firme e delle piazze; mentre i liberali e democratici chiedono un ritorno alle urne ma solo dopo l’abrogazione di una costituzione ritenuta ilritornolegittima anche se confermata da un referendum popolare. Un rovesciamento di categorie politiche consolidate.
Da un simile scenario, che rivela innanzitutto l’incapacità delle forze di filiera dei Fratelli Musulmani davanti alla difficile prova del governo, potrebbero trovare alimento le correnti salafite che hanno sempre sostenuto che se l’andare al governo degli islamisti non si fosse tradotto nella costruzione dello Stato islamico, il rischio del ritorno del “potere empio” sarebbe diventato elevato. Una presa d’atto, nutrita dal fantasma della memoria del golpe bianco di Algeri nel 1991 che, negli ambienti più radicali, potrebbe preludere a un alla scelta del jihad nazionale. La crisi in riva al Nilo è destinata a riverberare le sue convulsioni dentroe fuori il paese.

Repubblica 2.7.13
Dopo l’onda che spazzò Mubarak l’Esercito adesso riprende il potere
Le forze armate controllano il 40% della ricchezza nazionale
di Alberto Stabile


BEIRUT — Neanche un anno dopo il loro forzato congedo dalla politica, i militari sono tornati ad occupare il centro della scena egiziana. Stavolta non con i carri armati circondati dalla folla plaudente dei manifestanti, che si videro durante la rivoluzione del gennaio-febbraio 2011, ma con gli elicotteri che volteggiano compiacenti sulla marea umana di Piazza Tahrir, ugualmente osannante al loro indirizzo. E’ una storia che si ripete, anzi, a ben guardare, è la storia del moderno Egitto, un grande paese che non riesce a camminare sulle proprie gambe senza appoggiarsi al bastone sul suo esercito, da alcuni invocato come l’unica salvezza, da altri odiato come un potere prevaricante ed al di sopra della legge.
Non è un caso che Mohammed Morsi sia il primo presidente non soltanto, come ama ripetere, “liberamente eletto” dal popolo egiziano, ma anche il primo non appartenente alla casta degli ufficiali dalle cui fila sono emersi tutti i raìs che lo hanno preceduto: Ghamal Abdel Nasser, Anwar Sadat ed Hosni Mubarak. E’ stata la Primavera araba a spezzare il cordone ombelicale che per 59 amni, dalla rivoluzione dei “Liberi Ufficiali” del 1952, ha legato l’esercito alle istituzioni politiche della Repubblica.
Buona parte di questi 59 anni, è vero, sono stati vissuti in clima di guerra e di tutte le guerre che l’Egitto ha dovuto combattere quella con Israele è durata oltre trent’anni. Un paese perennemente in guerra deve avere una lunga e solida tradizione democratica, e questo non è il caso del-l’Egitto, per non abbandonarsi nelle mani dei suoi militari. Ma non si può dire che la principale occupazione di Nasser, Sadat e Mubarak sia stata quella di costruire le basi di una vera democrazia. Perfezionarono delle procedure “democratiche” per garantirsi un consenso formale che permettesse loro di tenere in pugno il paese e d’imporre l’egemonia egiziana sul mondo arabo. Nient’altro.
Formalmente fu Nasser a teorizzare il “disimpegno” dell’esercito dalle istituzioni civili. In realtà, ne amplificò il ruolo, non soltanto di “protettore della nazione”, ma anche di protagonista della vita politica, economica e sociale. Ma è con Mubarak che l’esercito diventa unpotere prominente (e irre-sponsabile) non soltanto rispetto agli altripoteri dello Stato ma anche rispetto alle altre componenti della società civile. Non parliamo della forza militare in senso stretto (un milione e mezzo di soldati, compresi i riservisti) che ne fa tuttora il più grande esercito del mondo arabo, ma soprattutto dell’impero economico che gestiscono i militari.
Dalle industrie energetiche, alle aziende agricole, dalle costruzioni, alla distribuzione di beni di consumo, alla gestione di proprietà immobiliare e persino di strutture turistiche, l’esercito egiziano, i cui bilanci sono vincolati al segreto di stato, disporrebbe, secondo il giornalista e studioso americano, Joshua Hammer, del 40 per cento della ricchezza nazionale. In un Egitto afflitto daun disoccupazione endemica, l’Esercito è sicuramente il più grande datore di lavoro del paese, sia attraverso i suoi servizi istituzionali che attraverso il vastissimo indotto.
L’esercito istruisce, sfama, cura, promuove, assiste. Il gradimento popolare che solitamente lo accompagna deriva da questa sua capacità di supplire alle spaventose carenze dello stato. Ma non è un gradimento assoluto e per sempre.
Abili nel cercare la sintonia con gli umori della gente, quando è cominciato a soffiare il vento della rivoluzione gli ufficiali non hanno esitato a voltare le spalle a Mubarak. La vera svolta nella rivoluzione del 2011 non venne con la discesa in campo, tardiva, della Fratellanza Musulmana, ma con l’inatt e s a visita, di app o g gio, di solid a rietà con i rivoltosi, alla tendopoli di Piazza Tahir da parte del generale Mohammed Husein Tantawi, ministro della Difesa e Comandante in capo dell’Esercito.
Per 16 mesi, il Consiglio Supremo delle Forze Armate, la Giunta militare, come venne spregiativamente definita, cercò di incanalare il paese sui binari della democrazia. Senza riuscirci, perché i militari al potere non osarono abolire i Tribunali militari istituiti contro i civili dissidenti, né accettarono mai che la nuova costituzione prevedesse un qualche sindacato di controllo nei confronti dell’Esercito-imprenditore. Tantawi fece in tempo a vedere la sua effigie disprezzata dai nuovi occupanti di piazza Tahrir. Poi accetto l’invito di Morsi ad andare in pensione, con il titolo di “consigliere presidenziale”. Oggi sono tornati a rappresentare la speranza in tempi di grande confusione.

Repubblica 2.7.13
L’intervista
Lo scrittore: “Due rivoluzioni in tre anni dicono molto sulla nostra voglia di democrazia”
Al Aswani: “Abbiamo vinto per gli islamisti è finita Ora torniamo alla Primavera”
di F. S.


IL CAIRO — «È finita, stavolta è davvero finita con questo regime di golpisti islamici, questi fascisti religiosi. Siamo di fatto tornati da dove eravamo partiti il 12 febbraio del 2011 ed è da lì che dobbiamo ricominciare, evitando di commettere gli stessi errori ». Ala Al Aswani, lo scrittore che è stato prima il fustigatore del regime di Mubarak e poi di quello della Fratellanza musulmana, trova il tempo perRepubblicafraun’estrazione e un’altra nel suo studio dentistico a Garden City. Al Aswani, giudicato da Foreign Policyuna delle 100 personalità più influenti del mondo islamico che fu tra i protagonisti della rivoluzione del 2011, è entusiasta. L’eco della festa in corso a Piazza Tahrir, che è poco distante, sembra avvolgere questo malandatopalazzo dove al quarto piano lo scrittore più venduto del Medio Oriente moderno, esercita ancora la sua professione. Al Aswani stappa una “Pepsi” per celebrare la vittoria. «Ce l’abbiamo fatta, ma molto resta ancora da fare. Rimettere sui binari una rivoluzione deviata e poi rubata non è mai qualcosa di semplice. Oggi abbiamo fatto un primo passo».
Davvero crede che sia finita?
«Non c’era altra via d’uscita per evitare all’Egitto di ripiombare nel baratro di uno scontro dagli esiti imprevedibili, quello che abbiamo sopportato in questo anno è stato qualcosa di incredibile, in un crescendo che ci stava conducendo verso una dittatura religiosa».
Ma il presidente Morsi ancora non ha dato una risposta all’ultimatum dei militari...
«È troppo tardi per Morsi e per i suoi per dire se accettano o meno. Devono farlo. Per un anno hanno lasciato l’opposizione fuori dalla porta tradendo il loromandato, occupandosi solo dei loro interessi mentre il Paese andava allo sfascio. È troppo tardi anche perché il loro rifiuto faccia la differenza»
Cosa accadrà adesso?
«Le richieste di milioni di egiziani che sono scesi in piazza sono chiare: in 22 milioni abbiamo firmato la petizione di Tamarod che indica una piattaforma chiara: le dimissioni del presidente in carica, il passaggio dei poteri al presidente della Suprema Corte, la formazione di un governo diemergenza nazionale che si occupi di indire nuove elezioni per il Parlamento entro l’autunno. Sono punti semplici e chiari che sono stati ben compresi dall’intero popolo egiziano».
Molte ombre e altrettante incognite si allungano sul futuro del suo Paese...
«Guardi io invece sono ottimista, gli egiziani sono un popolo straordinario. Il mio non è un ottimismo di tipo romantico: due rivoluzioni in meno di tre anni dicono molto sulla nostra deter-minazione a marciare verso la democrazia».
Insomma questo è un caso in cui militari accorrono per salvare la democrazia?
«In parte è anche così, ma per dovere di sincerità dobbiamo dire che i militari accorrono per salvare lo Stato, quello stesso Stato che ha garantito e garantisce loro un sistema di privilegi. Accorrono per salvare anche questi».

Corriere 2.7.13
il Mondo islamico prende le distanze, Morsi perde tutti gli alleati
di Roberto Tottoli


L'ultimatum dell'esercito al presidente egiziano Morsi è l'ultimo passo verso l'isolamento politico completo del suo governo. Oltre al nuovo vigore delle forze laiche del Paese, unite come non mai nel loro «no», colpisce l'isolamento nei confronti delle altre forze islamiche. I pochi sostenitori della Fratellanza Musulmana che si erano dati appuntamento nei giorni scorsi presso la moschea di Rabaa al-Adawiyya non hanno potuto nulla contro i milioni nelle piazze di tutte le città. E poco possono davanti ai silenzi tattici dei salafiti e alle posizioni equidistanti e attendiste dell'Azhar, la più importante Università del mondo islamico, con sede al Cairo. Il largo fronte di forze religiose uscite dalle elezioni mostra ora più che mai la sua avversione verso le scelte di un presidente come Morsi che non ha voluto né saputo allargare il suo consenso. I salafiti da tempo lavorano a logorare il governo, ne contestano scelte egemoniche nelle nomine governative e ne minano a vari livelli la legittimità religiosa. Attaccano la costituzione proprio sul versante islamico, si proclamano da un lato neutrali nelle componenti che si riconoscono nel partito al-Nour, mentre attaccano e creano imbarazzi al governo con azioni isolate ma dirompenti. Il caso degli sciiti uccisi una settimana fa ha messo a nudo l'inazione governativa, anche davanti all'Iran che ha prontamente protestato, ma ha soprattutto mostrato ancora una volta le insidie delle predicazioni salafite.
E non solo: ha anche lasciato al-Azhar sola nella reazione di condanna. Blandita da un ruolo religioso mai così ufficializzato e in fondo forse neppure cercato nella nuova Costituzione, al-Azhar non ha mai mancato di marcare la propria indipendenza e comunque di non considerarsi alleata per forza della Fratellanza Musulmana. Sospetta il governo di essere accondiscendente con i salafiti, senza essere ricambiato, e denuncia una situazione sociale in deterioramento che non è per nulla garantita dalla Fratellanza Musulmana. E alla fine, la sensazione netta è che né al-Azhar né i salafiti sembrano più disposti a credere nel futuro di un governo Morsi e neppure che questa breve esperienza sia da difendere da un punto di vista islamico.

Corriere 2.7.13
Proteste in Brasile e in Turchia, rivoluzioni di tipo nuovo
risponde Sergio Romano


Segnalo un elemento di grande novità nel movimento dei turchi, così anche come nei moti dei brasiliani: questi popoli stanno bene! Non si tratta di sanculotti o di mugiki: sanculotti e mugiki «volevano la pelle dei signori» perché i signori stavano troppo bene, mentre loro morivano di fame. La Turchia sta benissimo; e il Brasile è uno dei Paesi con le migliori prospettive. Ma in Turchia migliaia sono scesi in piazza per protestare contro il comportamento autoritario del governo; e in Brasile, anche se un primo movente è stato un fatto materiale (trasporto pubblico), l'obiettivo è la corruzione del governo. In entrambi i casi obiettivi di etica politica! Non si tratta di una novità epocale?
Luca Erizzo

Caro Erizzo,
Lei ha colto un aspetto interessante del problema, ma fra le due proteste esiste pur sempre una differenza. Nel corso degli ultimi anni il Brasile ha registrato straordinari tassi di crescita, ma il suo sviluppo è ancora drammaticamente ineguale. Il servizio sanitario è carente, i servizi pubblici sono insufficienti, il sistema educativo non ha tenuto il passo con le aspettative della società civile. Ed è generalmente diffusa la convinzione che una parte della ricchezza nazionale venga dispersa nei mille rivoli della corruzione. In un articolo recente (la Repubblica del 24 giugno) Moisés Naím, studioso di origine venezuelana, ha ricordato che il fenomeno era già stato studiato nel 1968 da Samuel Huntington, più noto al grande pubblico per un saggio dedicato allo «scontro di civiltà». In un libro sull'ordinamento politico e il mutamento sociale, Huntington è giunto alla conclusione che nelle società in cui si sperimentano trasformazioni rapide «la domanda di servizi pubblici cresce a velocità più sostenuta della capacità che hanno i governi di soddisfarla. È questo il divario che spinge la gente a scendere in piazza per protestare contro il governo».
In Turchia, invece, il fattore che ha acceso la miccia della protesta popolare è molto più etico che materiale. In un bollettino quindicinale dell'associazione che raggruppa molti ex ambasciatori (Lettera diplomatica del 20 giugno), Gianfranco Verderame cita e commenta le analisi di alcuni studiosi turchi. Secondo un politologo, «nell'ultimo decennio, le politiche economiche dell'Akp (il partito di Erdogan, ndr) hanno trasformato la Turchia in una società dove la classe media è diventata maggioranza. Si è alzato il tenore di vita, la povertà è stata arginata, c'è stata la crescita economica. Ma adesso tale classe media chiede il rispetto dei diritti individuali, pone al partito di governo la questione di come definire la democrazia». Per un studiosa citata dal settimanale britannico Observer, quello che è accaduto in piazza Taksim non è «uno scontro tra un partito islamista e il secolarismo, ma piuttosto una crisi postmoderna del sistema turco»; mentre, sempre sullo stesso giornale britannico, un'altra analista ha osservato che «quello che Erdogan non riesce a capire è che nella nuova società turca la gente ritiene di avere il diritto di fare le proprie scelte...».
Da queste analisi Verderame trae la conclusione che «il ritmo delle riforme in Turchia è stato direttamente proporzionale a quello del suo processo di avvicinamento all'Unione Europea, mentre il sostegno popolare alla prospettiva dell'adesione ha avuto un andamento inversamente proporzionale alle difficoltà che le sono state opposte». In altre parole, come in precedenti circostanze, l'Unione europea riesce a influire sull'evoluzione politica dei Paesi candidati per il solo fatto di essere desiderabile. È già accaduto per gli ex satelliti dell'Unione Sovietica e sta ora accadendo, per i Paesi della ex Jugoslavia. È una forma di politica estera di cui dovremmo andare orgogliosi.

il Fatto 2.7.13
Monumento a Gramsci nel Bronx
L’omaggio multimediale al filosofo nella periferia più difficile di New York
di Angela Vitaliano


New York È stato inaugurato ieri, a Morrisania, New York, il monumento ad Antonio Gramsci, realizzato dall’artista svizzero Thomas Hirschborn, alla sua prima esperienza di questo tipo negli Stati Uniti. L’artista, infatti, le cui opere avevano trovato già spazio qui, sebbene in luoghi chiusi come il Moma, realizza, con quello di Gramsci, il quarto ed ultimo di una serie di “monumenti” dedicati a scrittori e filosofi di grande rilievo. Il percorso di Hirschborn era iniziato con un’installazione dedicata ad uno dei suoi filosofi preferiti, Spinoza, realizzata ad Amsterdam nel 1999. Dopo Deleuze e Bataille, ecco, dunque, la “dedica” al filosofo italiano di cui, probabilmente ben pochi, in questo quartiere del Bronx, conoscono la vita e le opere. “La mia decisione di realizzare un monumento a Gramsci – spiega l’artista – non deriva dalla comprensione del filosofo Antonio Gramsci, quanto piuttosto dalla mia idea dell’arte e la mia convinzione che l’arte possa determinare trasformazioni”. Obiettivo delle creazioni di Hirschman è, infatti, quello di attirare non solo un pubblico “esclusivo” ma di suscitare l’attenzione e la curiosità di quelle persone che, probabilmente, hanno avuto pochissime possibilità di incontrare l’oggetto artistico, soprattutto nei luoghi a ciò deputati, come i musei. “Il monumento di Gramsci – continua l’artista – resterà l’affermazione di una creazione autonoma messa a punto come un atto d’amore. Il gesto non implica automaticamente una risposta in quanto è, contestualmente, utopico e concreto. Io intendo creare una nuova forma, basata sul mio amore per un pubblico non esclusivo”.
MESSO A PUNTO GRAZIE alla collaborazione con la Dia Art Foundation, il monumento a Gramsci è, infatti, allestito all’interno dello spazio verde di Forest Houses, uno nuclei abitativi realizzati dall’edilizia popolare che, a Morrisania, copre la gran parte della richiesta di alloggi. Il quartiere, infatti, è ancora oggi uno dei più pericolosi della città, con un tasso di crimini (e arresti) annuali fra i più alti di tutta New York; flagellato da una devastante povertà, il quartiere paga ancora lo scotto di un lunghissimo periodo in cui era stato trasformato in mercato per la produzione del crack e lo spaccio dell’eroina. L’artista, proprio per questo, ha voluto che il montaggio e lo smontaggio (previsto a partire dal 16 settembre) fossero affidati, sotto la supervisione dei responsabili della DIA Art Foundation, esclusivamente ad abitanti del quartiere che, inaspettatamente, si sono trovati di fronte alle frasi e al pensiero di un signore italiano, a loro del tutto sconosciuto. Il monumento, realizzato con materiali semplici, accessibili a tutti nella quotidianeità, come legno e plexiglas, ha la forma di un padiglione esterno che, contemporaneamente “narra” Antonio Gramsci, grazie a scritte e disegni, e accoglie il visitatore nella condivisione di momenti quali letture, momenti musicali e altre performance. Il monumento a Gramsci è la prima commissione pubblica realizzata dalla Dia dal lontano 1996 proprio grazie al grande interesse sucitato dalla filosofia dell’artista di voler mettere a punto un progetto ambizioso, impossibile da realizzare in uno spazio tradizionale.

Corriere 2.7.13
«Vietato trascurare i genitori». L’amore filiale è legge in Cina
Una norma per arginare la piaga dei vecchi abbandonati
di Guido Santevecchi


PECHINO — Si può imporre la «pietà filiale» per legge? Se si crede agli articoli della normativa cinese entrata in vigore ieri sì. Il titolo è «Protezione dei diritti e degli interessi degli anziani», che nella Repubblica popolare ora sono 185 milioni, il 13,7 per cento della popolazione.
Il nuovo pacchetto di norme introduce l’obbligo per i figli grandi di visitare il padre e la madre «più spesso» e addirittura concede ai lavoratori 20 giorni di permesso per andare a trovare i vecchi genitori che vivono molto lontani. Segue una serie di divieti, dall’abbandono agli insulti, fino agli atti di violenza domestica. Ma questo dovrebbe essere scontato e già previsto nel codice penale.
La presentazione della legge sui giornali ha aperto anche una discussione nell’immenso popolo della Rete (si calcola che Sina Weibo, il Twitter locale, abbia mezzo miliardo di utenti). «L’intenzione sembra buona, ma il metodo è sbagliato. Non si può regolare una questione morale per legge». Chiedersi fino a dove si può spingere lo Stato in questioni di famiglia sembra un dibattito da socialdemocrazia europea e già questo non è male.
Ma altri (molti altri) hanno fatto notare come negli articoli della legge manchino le sanzioni in caso di non rispetto degli obblighi da parte di figli e datori di lavoro. Che succede se il capoufficio boccia la richiesta di andare a casa per venti giorni a trovare i genitori ultrasessantenni? E poi che vuol dire «visitare più spesso»?
Uno degli estensori della legge per la protezione degli anziani genitori, il professor Xiao Jinming della Shandong University, si giustifica: «È soprattutto un modo per sottolineare il diritto dei nostri anziani a chiedere sostegno emotivo, noi vogliamo enfatizzare questa esigenza».
Un blogger riassume così i suoi dubbi: «La pietà filiale dovrebbe essere naturale. Questa legge svela la tragedia della nostra generazione».
Noi siamo abituati a pensare alla Cina come a una «società confuciana», nella quale il rispetto degli anziani fa parte della cultura popolare, da secoli. Com’è possibile che ci sia invece un disagio tale da spingere i legislatori ad intervenire? La crisi è un altro prodotto dell’industrializzazione accelerata: trent’anni di crescita e di «aperture al mercato» hanno minato la famiglia cinese. Si cambia città per lavorare in fabbriche e uffici, lasciandosi i «vecchi» indietro. Molti giovani, guardando a tutto quello che è stato costruito sotto i loro occhi nelle megalopoli non riconoscono più meriti a nonni e genitori. E poi, nella seconda economia del mondo, non esiste un sistema di welfare come in Occidente.
Questo problema di mancata assistenza sarà enorme in pochi decenni: gli ultrasessantenni, oggi 185 milioni, diventeranno 487 milioni nel 2053, il 35% della popolazione, secondo le proiezioni della Commissione governativa sull’invecchiamento.
Con saggezza, Wang Yi, 57 anni, che fa la donna delle pulizie in città e ha due figli a centinaia di chilometri, dice: «Questa legge? Meglio che niente. I ragazzi io li vedo una volta l’anno, due sarebbe meglio... noi cinesi alleviamo i figli perché si prendano cura di noi quando diventiamo vecchi».
Non c’è solo la nuova legge che cerca di arginare il disagio. L’Associazione nazionale per gli anziani, che dipende dal ministero Affari civili, ha diffuso 24 «consigli» tra i quali: portare anche moglie e figli a trovare suoceri e nonni; ricordarsi dei loro compleanni e festeggiarli; telefonare. Cose normalissime. Ma nell’elenco ci sono anche suggerimenti che fanno riflettere, come: ascoltare con attenzione i racconti dei genitori, insegnare loro l’uso di Internet, andare insieme al cinema. E ancora, appoggiarli se restano vedovi e decidono di risposarsi, parlare di cose profonde.
In mezzo ai 24 punti ce n’è uno per niente scontato (anche nella nostra società del welfare state): «Ricordatevi di dire loro che li amate».

La Stampa 2.7.13
La particella di Dio fa festa ora le manca solo il Nobel
Inseguita per quasi mezzo secolo, la conferma delle teorie di Higgs sul bosone è arrivata un anno fa. Due libri celebrano l’avvenimento
di Piero Bianucci


Da un anno viviamo con il bosone di Higgs, già «particella di Dio». Viviamo con lui nel senso che ora sappiamo che grazie al bosone di Higgs le altre particelle atomiche hanno una massa, e quindi esiste la materia così come la conosciamo, quella che sposta l’ago della bilancia quando esageriamo con dolci e patatine fritte.
L’annuncio della scoperta è del 4 luglio 2012. Una diretta mondiale in streaming dal Cern di Ginevra – sì, Grillo non ha inventato niente, il web è una creatura dei fisici – mentre dall’altra parte del mondo, a Melbourne, Australia, si apriva la trentaseiesima conferenza internazionale delle alte energie. Peter Higgs, in seconda fila nell’aula magna del Cern, dichiarò: «Non pensavo di arrivare vivo a questo momento».
L’hanno inseguito per 46 anni, il bosone di Higgs, ma la macchina vorace dell’informazione l’ha consumato in pochi mesi e già si guarda oltre. All’orizzonte c’è la prima settimana di ottobre, quando a Stoccolma verrà annunciato il Nobel per la Fisica 2013. Sarà la consacrazione della «particella di Dio»? E chi saranno gli eletti, considerando che questa particella ha parecchi padri tra i fisici teorici e migliaia di ostetrici tra i fisici sperimentali? Joe Incandela e Fabiola Gianotti, portavoce dei due esperimenti che hanno catturato la particella, protagonisti dello streaming del 4 luglio 2012, sono nella partita o a Stoccolma decideranno per un salomonico Nobel al Cern che accontenterebbe e insieme scontenterebbe tutti?
Vedremo. Un dato di fatto è che i premiati del Nobel non possono essere più di tre. Se «mater semper certa», per ciò che riguarda i padri le cose sono più complicate. Il meccanismo del campo di Higgs fu inventato nel 1964 dal fisico inglese e indipendentemente dai belgi François Englert e Robert Brout. Entrambi però avevano sviluppato un’idea di Philip Anderson, e a stabilire il meccanismo che genera il campo di Higgs contribuirono anche Gerald Guralnik, Carl Hagen e Tom Kibble. Questi nomi sono ricordati alla pari nei testi di Fisica e tutti insieme danno il nome al campo del più famoso dei bosoni, ma non sono mai arrivati al grande pubblico.
Brout se n’è andato il 3 maggio 2011, semplificando la vita alla giuria del Nobel. Englert, classe 1932, è sulla breccia, con il coetaneo Kibble. Così pure Carl Hagen, classe 1937. E’ vero però che soltanto la pubblicazione di Higgs citava esplicitamente, in una nota finale, la possibile esistenza di un nuovo bosone. Tuttavia è altrettanto vero che Higgs aggiunse quella nota dopo che una prima stesura del suo lavoro era stata rifiutata dalla rivista Physics Letters, e la aggiunse per proporre poi il lavoro stesso, opportunamente revisionato, alla rivista Physical Review Letters, che infine lo pubblicò. Tre anni dopo, nel 1967, la teoria del campo di Higgs fu integrata nel Modello Standard delle particelle elementari per completare l’interpretazione delle interazioni elettro-deboli, opera svolta indipendentemente da Abdus Salam e Steven Weinberg, premiati con il Nobel nel 1979.
Sull’identikit della particella di Higgs non tutto è chiaro. Gli scienziati più prudenti continuano a parlare di una particella «like Higgs», cioè che si comporta come ci si aspetterebbe da Higgs. Ma è lei? Per la statistica la probabilità di aver centrato il bersaglio è del 99,99 per cento. Tuttavia non mancano gli interrogativi. La particella individuata ha una massa di 125 GeV, cioè relativamente piccola, a portata di mano. È come se l’agente 007 andasse a caccia del killer più elusivo del mondo, e un appuntato dei carabinieri lo trovasse dietro la porta della caserma. Non si esclude, quindi, che esistano particelle di Higgs più pesanti. Un altro problema è che non si trova traccia di certe particelle supersimmetriche previste dai teorici. Ci si aspettava una nuova giungla, e invece sembra che ci sia un deserto immenso, fino a energie irraggiungibili per macchine umane. E i fisici si domandano: che fare, se la Fisica è finita?
Intanto si accumulano i libri che trasformano in Storia ciò che è ancora cronaca. Dopo quello di Luciano Maiani, ecco, puntuali per festeggiare l’anniversario, Higgs e il suo bosone di Ian Sample, giornalista del Guardian (il Saggiatore), e Il bosone di Higgs di Jim Baggott (Adelphi). Due tentativi riusciti di umanizzare con aneddoti e sentimenti una vicenda intellettuale così ardua da sfidare anche la più smaliziata divulgazione scientifica.
Baggott ha il merito di spiegare come funziona il chiavistello usato dai fisici per penetrare nel sancta sanctorum dell’estremamente piccolo: la simmetria. L’idea risale a una matematica tedesca di cui non si parla mai, Amalie Emmy Noether, nata in Baviera nel 1882. Fu lei a capire che in Fisica i principi fondamentali – come le leggi di conservazione dell’energia e della carica elettrica – corrispondono in matematica a trasformazioni continue di simmetria, sicché si può, con un capovolgimento del punto di vista, partire dalle simmetrie (e dalle loro violazioni) per scoprire come stanno concretamente le cose nella fisica. Gell-Mann, l’ideatore dei quark, enfant prodige ammesso a 15 anni all’Università di Yale, Higgs, Weinberg, Salam e compagni sono tutti «nipotini» della Noether.
Genio delle simmetrie violate, per decenni Higgs è rimasto in ombra. A molti il campo della sua particella ricordava l’etere, sembrava una fede metafisica, non qualcosa di afferrabile sperimentalmente. L’acceleratore LHC del Cern, un investimento di 8 miliardi di euro, è riuscito nell’impresa. Una particella cara. Ma anche preziosa.

Corriere 2.7.13
La particella che ha svelato la natura dell'Universo (ma il mistero non è finito)
La storia fantastica di Peter Higgs e del suo bosone
di Giovanni Caprara


Il 4 luglio 2012, un anno fa, l'auditorium del Cern, il Centro europeo di ricerche nucleari di Ginevra, era zeppo di scienziati di ogni nazionalità. In prima fila un signore anziano dallo sguardo segnato da un sorriso scambiava qualche parola con i vicini, anche loro con i capelli bianchi. Tutti li guardavano con curiosità. Il signore era Peter Higgs che a 83 anni aspettava di ascoltare la conferma di un'intuizione avuta 48 anni prima, nel 1964, passeggiando sulle colline scozzesi. I suoi vicini erano i fisici François Englert, Gerald Guralnik, C.R. Hagen e Tom Kibble che avevano contribuito all'idea assieme a Robert Brout da poco scomparso.
L'atmosfera era un miscuglio di tensione e soddisfazione che si manifestò compiutamente quando l'americano Joe Incandela e Fabiola Gianotti pronunciarono dopo lunghe spiegazioni costellate da coloratissimi grafici un numero e una parola, 5 sigma. Applausi quasi senza fine accompagnarono quella sorta di parola magica capace di confermare con la sicurezza del 99,9999 per cento la scoperta di una fantomatica particella nucleare tanto indispensabile quanto imprendibile. Era il bosone di Higgs di cui la scienza aveva bisogno per completare il disegno (la teoria del Modello Standard) capace di spiegare la natura dell'Universo. «È davvero incredibile che sia accaduto mentre sono ancora in vita» rispondeva sorpreso Peter Higgs ai giornalisti che lo avvicinavano.
E non era il solo ad averne dubitato fino all'ultimo perché la cattura della particella battezzata con il suo nome era stata una delle avventure più complicate scientificamente, tecnologicamente ed economicamente. Ma anche umanamente come si comprende leggendo il magnifico libro di Jim Baggot, Il bosone di Higgs (Adelphi, pagine 259, € 23) in cui ricostruisce l'evoluzione delle conoscenze che hanno portato all'ambitissimo risultato ma anche le vicende talvolta dominate più che dalle formule dall'umore degli scienziati.
«Di che cosa è fatto il mondo?» si chiedeva Empedocle, filosofo siciliano del quinto secolo avanti Cristo. E ipotizzava si potesse ridurre a quattro forme di base: terra, acqua, aria, fuoco. E quegli elementi oltre ad essere giudicati eterni e indistruttibili erano romanticamente tenuti insieme dalla forza dell'Amore e separati dalla forza dell'Odio. Da allora occorse un lungo balzo nel tempo e nel pensiero per arrivare agli anni Trenta del secolo scorso quando si spiegava che tutta la materia del mondo era composta da elementi chimici, che ciascun elemento era costituito di atomi, ognuno dei quali era formato da un nucleo con protoni e neutroni attorno al quale ruotavano elettroni.
Nei decenni seguenti il panorama si rivelò ben più complicato. Finché negli anni Settanta prese forma la teoria del Modello Standard che metteva ordine e dava un senso allo «zoo delle particelle» che i fisici trovavano sempre più numerose con i loro acceleratori. Alla fine ne mancava una, la più importante, perché dava la massa a tutte le altre. Le scoperte sull'unificazione delle forze elettromagnetiche e nucleari da parte di Glashow, Weinberg e Salam e delle particelle «doppia W e Zeta zero» di Carlo Rubbia consentivano, negli anni Novanta, di affrontare l'ardua questione del bosone di Higgs nel frattempo diventato famoso come «particella di Dio» garantendo una sicura diffusione mediatica.
Gli americani incominciarono a costruire un gigantesco acceleratore in Texas che poi venne abbandonato per i costi proibitivi. Al Cern, invece, i Paesi europei, sia pure con qualche incertezza sostennero il costo di sei miliardi di euro arrivando ad accendere nel settembre 2008 il Large Hadron Collider (Lhc), la più potente macchina mai realizzata, in grado di riprodurre le condizioni dell'Universo una frazione di secondo dopo la sua nascita. Così l'impresa scientifica e tecnologica in cui brillavano molti scienziati italiani, portava all'annuncio del 4 luglio: il bosone era catturato.
Con un acceso finale: gli americani tentavano di soffiare la scoperta col vecchio acceleratore Tevatron di Chicago mentre alcuni scienziati diramavano su Internet la notizia tanto attesa prima di averne certezza. Ma la conclusione della storia ne apriva un'altra, dando il via ad una nuova fisica. E al Cern cominciavano a chiedersi: è il bosone che cercavamo? Ne esiste davvero uno solo? La storia della scienza continua.

Corriere 2.7.13
Martin Bernal, una scossa al mito del «miracolo greco»
di Luciano Canfora


In una celebre scena del film The Train (1964) l'ufficiale nazista (Paul Scofield), proteso a portarsi via opere d'arte francesi, mentre la Wehrmacht è in rotta precipitosa, si rivolge al ferroviere francese Labiche (Burt Lancaster), abilissimo nel sabotaggio, e gli ingiunge: «Allarga i tuoi orizzonti, Labiche!». Allargare gli orizzonti molto spesso non piace: soprattutto quando sussiste una forte tradizione che è difesa da studiosi non inclini a modificare le loro categorie mentali, ed è sorretta dal «senso comune» e dalle conseguenti, robustissime, vulgate.
È il caso delle reazioni all'importante libro di Martin Bernal, Black Athena (Londra, 1987), tradotto opportunamente da Pratiche Editrice (Parma) nel 1991. Bernal ebbe il merito di dire con chiarezza e sorreggere con seria documentazione quello che alla cultura antica, da Erodoto a Diodoro Siculo, era ben noto: che cioè il cosiddetto «miracolo greco», lungi dall'essere un «miracolo», era in realtà un rilevante e originale tassello di un grande flusso di civiltà, sorto in Oriente e fervidamente operante sin dal III millennio in aree cruciali del mondo antico quali la Mesopotamia e l'Egitto.
Nel secondo libro delle Storie, Erodoto spiega distesamente la dipendenza del pantheon ellenico da quello egizio, e chiama in causa i semi-mitici Pelasgi come punto di partenza e intermediari di grandi fenomeni di trasmigrazione culturale. E ricorda anche l'imbarazzo del greco Ecateo di fronte all'antichissima realtà statale-religiosa dell'Egitto. Diodoro di Sicilia è molto più dettagliato e forse anche più divertente. Né si dimenticheranno il Crizia ed il Timeo di Platone. Attraverso la celebre metafora del «viaggio in Egitto» del legislatore ateniese Solone, Platone getta un ponte tra i Greci «fanciulli» ed il loro antefatto culturale: lì sono gli «antichissimi Egizi» ad aiutare i Greci a riscoprire un loro passato remoto e sepolto.
Come ogni «miracolo», anche il «miracolo» greco era una invenzione. Era una invenzione della cultura «ariana» sviluppatasi nell'Europa moderna del tardo XVIII secolo e affermatasi in modo sempre più fastidioso — e alla fine minaccioso — nei due secoli seguenti. Quando apparve in italiano il bel libro di Bernal, un coltissimo outsider quale fu Beniamino Placido ne scrisse nella rivista «Quaderni di storia» (1992). E osservò efficacemente — andando al cuore del libro di Bernal — che il «modello ariano» è stato messo a punto nel momento in cui l'Europa bianca si preparava a colonizzare l'Africa nera. «E l'America anglosassone si preparava a dire "fatti più in là", con le buone o con le cattive, ai suoi indigeni dalla pelle rossa. Faceva comodo pensare che noi — noi bianchi, noi greci — siamo radicalmente diversi e definitivamente migliori».
Bernal (1937-2013), nato a Londra, aveva conseguito all'Università di Pechino nel 1960 un diploma di lingua cinese. A Cambridge, nel 1966, un PhD in «Oriental Studies». Poi era passato negli Stati Uniti alla Cornell University. Suo nonno era stato un notevole egittologo. Quando il suo libro fece scandalo e lo si tacciò di essere anti-europeo, replicò: «My enemy is not Europe, it's purity»!

Corriere 2.7.13
Tolstoj, la fine della gioia. I racconti delle ossessioni
Depressioni e paure dopo «Guerra e pace»
«Dio è un'incognita, senza la quale nulla esiste»
di Pietro Citati


Quali impressioni sconvolgenti destano, in chi esca dalla lettura di Guerra e pace e di Anna Karenina, i racconti tolstojani degli anni ottanta! Là, anche dove il destino si accaniva con più ferocia sulle creature di luce, avevamo l'impressione della libertà, della ricchezza, della varietà, della molteplicità di connessioni della vita; e con quale gioia ne percorrevamo i labirinti. Le Memorie di un pazzo, la Morte di Ivan Il'ic, Il diavolo, La Sonata a Kreutzer sono invece storie di un'ossessione: ossessione di una malattia psicologica, della morte, dell'eros, dell'odio. Come se avesse dimenticato i colori della primavera e dell'estate, ora Tolstoj vive al chiuso, prigioniero del chiuso, tetramente trionfante nella propria claustromania. Non c'è libertà ma costrizione: non respiriamo ma soffochiamo. Se là Tolstoj intrecciava tutte le dimensioni e i toni diversi, facendoli echeggiare uno nell'altro, ora egli sceglie una sola dimensione, un solo tono, in capolavori di cupa monotonia. Kafka ha molto amato alcuni di questi racconti.
Le Memorie di un pazzo, scritte nel 1884, fingono di essere l'autobiografia di un proprietario di terra: mentre, in realtà, rivelano gli acutissimi punti di crisi nella tarda esistenza di Tolstoj. All'inizio siamo nel 1869, subito dopo il completamento di Guerra e Pace, «quest'orgia», come confessò più tardi alla cugina Aleksandra. Tolstoj si sentiva abbandonato dalla fantastica e lucidissima ebbrezza dove aveva abitato per qualche anno, e senza la quale «non è possibile vivere». Aveva vissuto immerso nella musica continua della vita: ora, all'improvviso, si sentiva gettato fuori dall'esistenza, che si arrestava davanti ai suoi occhi, fissa, immobile, sclerotica, funeraria. Se la vita si era arrestata così all'improvviso, come poteva non arrestarsi anche lui? Guardava tutte le cose come se fosse stato un morto tra i morti: non vedeva più quanto c'era da vedere: non sentiva più quanto gli altri sentivano; ogni piacere intellettuale e poetico era perduto. Non desiderava più nulla.
* * *
Il protagonista delle Memorie di un pazzo decise di lasciare la propria casa insieme al suo servo, per vedere un possedimento con un grande bosco, che desiderava acquistare. Quando scese la sera, viaggiava in carrozza, per metà assopito. All'improvviso si svegliò, perché l'aveva attraversato non so quale terrore. Gli balenò in mente che non avrebbe dovuto a nessun costo spingersi in queste contrade remote, che sarebbe morto quaggiù, lontano da casa. E gliene venne un brivido. Incominciò a provare una stanchezza, un desiderio di sosta. Aveva l'impressione che entrare in una casa, vedere gente, bere del tè e sopratutto dormire, l'avrebbe risollevato. Decise di pernottare nella città di Arzamàs. Arrivò alla casa di posta: era bianca, e gli sembrò tremendamente triste, tanto da dargli un nuovo senso di ribrezzo. Smontò a terra adagio adagio. Entrò. C'era un corridoietto. Un uomo sonnolento, con una macchia su una guancia (quella macchia gli sembrò orribile) gli indicò una stanza con la mano.
Era una cameretta tetra, quadrata, bianca di calce, con una sola finestra dalle tende rosse. Che la cameretta fosse quadrata, gli riuscì stranamente penoso. Così, per mezzo del suo protagonista, Tolstoj penetrò per la prima volta nel mondo quadrato: proprio lui che aveva rappresentato la vita come qualcosa di sinuoso, circolare, femminile. Una volta il quadrato era per lui il segno dell'intelligenza astratta, dei programmi e dei propositi: ora, nella casa di posta di Arzamàs, diventa l'incarnazione degli orrori che germogliano tra le pareti della nostra mente.
Mentre il servo metteva su il samovàr, il protagonista si allungò sul divano. Non dormiva. Gli faceva paura alzarsi, allontanando il sonno: perfino stare seduto in quella camera gli faceva paura. Cominciò ad assopirsi. E dovette prender sonno, giacché — quando riaprì gli occhi — nessuno c'era più nella stanza, ed era buio. Riaddormentarsi (lo sentiva) non era possibile. Perché era venuto quaggiù? Dove andava portando sé stesso? Da che, e dove fuggiva? «Io fuggo — si diceva — da qualcosa di tremendo, e non posso sfuggirne. Io sto sempre con me stesso, e sono proprio io che riesco tormentoso a me stesso. Eccolo, quest'io: sono tutto qui». Avrebbe voluto addormentarsi, perdere coscienza, ma non poteva. Non poteva allontanarsi da se stesso.
Le sensazioni che il protagonista provò — il terrore indeterminato, la camera bianca e quadrata, l'unica finestra rossa, la angoscia del sonno e dell'insonnia, l'orrore di sé stesso — sono le prime, acutissime sensazioni di un accesso di mania depressiva, che viene fisicizzato, trasformato in oggetti, e proiettato all'esterno. Quando il protagonista-Tolstoj uscì nel corridoio, credette di allontanarsi da ciò che lo faceva soffrire. Ma quello gli era uscito dietro, e spandeva su tutto la sua tetraggine: sempre a un modo. «Ma insomma — disse a sé stesso — di che cosa m'angoscio, di che cosa ho paura?». «Di me — rispose senza suono la voce della morte — Io sono qui». Un brivido gli fece aggricciare il corpo. «Sì, la morte. Verrà, quella, verrà: già eccola; eppure non deve esistere». Vedeva, sentiva che la morte incombeva sopra di lui e, nello stesso tempo, sentiva che essa non doveva esistere. Questa lacerazione interiore era spaventosa. Tentò di scrollarsi di dosso quell'orrore. Trovò un candelabro di bronzo, con la candela ridotta a un mozzicone, e l'accese. Il candelabro, la fiamma rossa della candela, tutto intorno a lui gli ripeteva la stessa cosa. «Non c'è nulla nella vita: c'è la morte. Eppure essa non deve esistere».
Il protagonista provò a pensare a ciò che di solito lo interessava: l'acquisto dei terreni, sua moglie. Ma tutto era sparito sotto lo spavento di questo disfarsi della propria vita. Bisognava dormire. Appena coricatosi, balzò su dal terrore. E un'angoscia, un'angoscia — un'angoscia nell'animo, identica a quella che precede il vomito: solo spirituale. Poteva sembrare un orrore della morte, ma se rifletteva, era il morire della vita che lo spaventava. La vita e la morte confluivano in una cosa sola. Ancora una volta provò a dormire: sempre quel medesimo orrore, rosso, bianco, quadrato. Dolore straziante, e senso straziante di aridità e di rancore: non una stilla di bontà, ma solo un eguale, calmo rancore contro sé stesso e contro ciò che o chi l'aveva creato.
Quando Tolstoj tornò a casa, riprese a vivere come prima. Bisognava che la sua vita si svolgesse senza mai sosta, e, sopratutto, senza mai uscire dalle condizioni abituali. Come uno scolaro recita senza pensarci una lezione imparata a memoria, allo stesso modo lui doveva vivere la vita, per non cadere di nuovo in balia di quella angoscia, che per la prima volta l'aveva assalito ad Arzamàs. L'acutissima mania depressiva diventò abitudine. Viveva apatico, indifferente a tutto e a tutti: triste, abbattuto, senza emozione e senza gioia, per giorni e settimane intere: ogni fiamma sembrava spenta nella sua anima: aveva voglia di piangere: temeva di essere malato; gli sembrava che tutto fosse finito per lui, e non gli restasse che morire.
* * *
Anni dopo, il protagonista di Memorie di un pazzo dovette andare a Mosca. Arrivò d'ottimo umore, e scese all'albergo. Entrò nella sua piccola camera. Il greve tanfo del corridoio gli stava nelle narici. La cameriera accese la candela. La fiamma calò, poi si ravvivò, illuminando il turchino strisciato di giallo delle pareti, il tramezzo, il tavolo logoro, il divanetto, lo specchio, la finestra e l'angustia di tutta la cameretta. E d'improvviso, il terrore di Arzamàs gli si commosse dentro: i piccoli oggetti quotidiani incarnavano l'orrore; ciò che era fisico suscitava uno spavento metafisico. «Dio mio! Come farò a pernottare qui dentro?» pensò. Per salvarsi, decise di andare a teatro con un amico: si infilò la rigida, gelida camicia inamidata, abbottonò i polsini, indossò la redingote, calzò le scarpe nuove. A teatro, mentre vedeva il Faust, e dopo teatro, al ristorante, il tempo passò piacevolmente: l'angoscia di Arzamàs sembrava dimenticata.
Passò una nottata terribile: peggiore di quella di Arzamàs. Soltanto la mattina si addormentò; e non sul letto, dove aveva provato invano a stendersi tante volte, ma sul divano. Tutta la notte aveva sofferto in maniera intollerabile: di nuovo, tormentosamente, si dilacerava l'anima dal corpo. «Io vivo — pensava — ho vissuto, vivrò ancora; e tutt'a un tratto, la morte, l'annientamento di ogni cosa. A che scopo, dunque, vivere? Morire? Uccidersi subito? Mi fa paura. Vivere, allora. Ma a che scopo? Per morire?». Non usciva da questo circolo. Pregava Dio: «Se tu esisti, rivelami dunque: a che scopo, cosa sono io?». Si curvava a terra, recitava quante preghiere sapeva, ne componeva di sue, e poi soggiungeva: «Rivelami dunque!». E restava in silenzio, in attesa d'una risposta. Ma risposta non c'era, come se non ci fosse, neppure, qualcuno che potesse rispondergli.
Nelle ultime pagine delle Memorie di un pazzo, qualcuno risponde al protagonista e a Tolstoj: ci sono le Scritture, le vite dei santi, il pane consacrato, i mendicanti. Finisce, o finisce per qualche tempo, l'angoscia e il timore. Da lontano, Dio invia la sua luce, e salva Tolstoj dalla disperazione e dalla morte. Così, diventa l'alfa e l'omega, il principio e la fine. Questo Dio è una X, un come se, un'incognita: «ma sebbene il significato di questa X ci sia sconosciuto — insiste Tolstoj — senza questa X non si può cercare di risolvere, ma neppure porre nessuna equazione».

Corriere 2.7.13
L’ossessione degli Stati per il controllo, dalla Londra vittoriana all’Ovra fascista
di Dino Messina


Henry John Temple, terzo visconte di Palmerston, primo ministro della regina Vittoria nei tempi in cui si concludeva l’unità d’Italia, amava dire che in diplomazia non esistono amicizie stabili, ma solo interessi stabili. E in base a questo principio uno Stato come il Regno delle due Sicilie poteva passare dal rango di alleato a quello di nemico quando in base alle informazioni inviate a Londra dalla rete di uomini d’affari e dall’ambasciatore a Napoli, sir Henry George Elliot, si scopriva che la fragile tenuta dei Borboni non giustificava la determinazione con cui Ferdinando II voleva continuare a fare di testa sua. A schierarsi per esempio con la Russia contro l’Inghilterra e la Francia nella guerra di Crimea.
Altro che Contessa di Castiglione e Mata Hari, personaggi di grande fascino, ma di consistenza storica sopravvalutata. L’ossessione del controllo fra gli Stati, antica quanto la storia, è un’arte da affidare più che a personaggi romantici a professionisti fidati, come quel Charles de Morny, fratellastro di Napoleone III, che dopo la guerra di Crimea venne incaricato di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Russia e nello stesso tempo di creare una rete di contatti per ottenere utili informazioni al gioco europeo. Eugenio Di Rienzo, biografo di Napoleone III (Salerno editrice), ricorda che proprio da Mosca giunse a Parigi la soffiata che la Prus-sia non avrebbe fatto alcun passo nel caso di un intervento francese in Italia .
Gli Stati moderni hanno sempre fatto grande investimenti per controllare il nemico storico, come ha insegnato tutta la letteratura sulla Guerra Fredda, o episodi meno conosciuti ma altrettanto importanti, come la lunga penetrazione dell’Afghanistan negli anni Venti e Trenta del Novecento da parte dei tedeschi. La Germania, ricorda Di Rienzo, investì milioni di marchi per costruire strade, aeroporti, organizzare missioni archeologiche e sanitarie, inviando sul posto professionisti che erano per metà spie. L’obiettivo era di colpire la Gran Bretagna al cuore del suo impero.
A volte le energie maggiori erano spese non per contenere il nemico, ma per controllare l’amico. Mauro Canali, autore del fondamentale «Le spie del regime» (il Mulino, 2004), racconta del continuo tentativo dell’Italia di ottenere informazioni sulla Germania attraverso cittadini tedeschi e dei tentativi di questi ultimi di controllare l’Italia, anche per vedere quale fine facevano gli aiuti mandati per sostenere la produzione industriale o per puntellare iniziative militari disastrose come l’attacco alla Grecia.
Succede così che proprio fra alleati si scateni la guerra di spie più feroce e in taluni casi imbarazzante. La polizia politica fascista reclutò per esempio con l’arma del ricatto un cittadino tedesco residente a Roma, accusato di pedofilia, che evitò il processo riferendo sui movimenti della comunità nazista a Roma.
Con lo stesso spirito di diffidente competizione Arturo Bocchini, capo dell’Ovra, la polizia politica, su consiglio di Antonino Pizzuto, rifiutò un collegamento di intelligence con i tedeschi in funzione anti-inglese e anticomunista. Il ragionamento era semplice: i fascisti in Italia avevano fatto terra bruciata e, dopo l’avvento del nazismo, i comunisti dalla Germania erano spariti. Perché investire in un gioco che non portava vantaggi? I tedeschi continuarono a insistere, tant’è che nel 1939 venne scoperta e disarticolata una rete di informatori nazisti a Roma per opera del futurista triestino Italo Tavolato, le cui vicende ispirarono nel 1986 un libro a Sebastiano Vassalli, «L’alcova elettrica».
Abituati al realismo dei fatti, gli storici sono la categoria che meno si può scandalizzare per la rete spionistica fra l’America e l’Europa. Ogni campo è utile per avere informazioni, come spiega Canali quando racconta della rete organizzata dagli Stati Uniti in Vaticano subito dopo la presa di Roma nel giugno 1944. Vennero ingaggiati due ex agenti dell’Ovra, Virginio Scattolini e Filippo Setaccioli, con il compito di avere informazioni sulla guerra nel Pacifico attraverso l’ambasciata giapponese nella Santa Sede. Alcuni faldoni finirono anche sul tavolo del presidente, ma presto si scoprì che le informazioni di Dusty e Vestel, questi gli pseudonimi dei due spioni italiani, contenevano al massimo il cinque per cento di verità.

Repubblica 2.7.13
Caccia all’ultimo neurone
Un cervello da 4 miliardi di dollari
di Elena Dusi


Il cervello è la frontiera che la conoscenza umana deve ancora abbattere. Ora Usa e Europa si sfidano anche su questo terreno. Ecco i progetti a confronto
Cento miliardi di neuroni, e le loro connessioni che formano i pensieri, saranno mappati per la prima volta da centinaia di ricercatori, grazie a due mega-investimenti e al contributo di decine di discipline, dall’ingegneria alle nanoscienze
Parte negli Usa e in Europa, con due progetti, la più grande sfida di sempre ai segreti di quella che è considerata ancora una “giungla impenetrabile”: la mente umana

Il luogo più complesso dell’universo? È racchiuso in poche decine di centimetri. Con più neuroni in testa che stelle in cielo, il cervello è una frontiera che ancora resiste all’esplorazione scientifica. Il muro non resterà in piedi per molto, sperano i ricercatori, pronti a partire per un viaggio al centro della mente umana, tappa estrema di un “conosci te stesso” per il quale a oggi non esistono che mappe sfocate.
L’impresa è affidata a due squadre, una in Europa e una negli Stati Uniti, con centinaia di scienziati ciascuna. Quello che il capo della Casa Bianca ha definito «il grande progetto del ventunesimo secolo» ha finanziamenti e aspettative paragonabili al sequenziamento del genoma umano degli anni 90 (3,8 miliardi di dollari tra 1988 e 2001). Con un miliardo di dollari (da Bruxelles) e una cifra compresa fra due e tre miliardi (da Washington) i due team disegneranno in dieci anni la mappa dei 100 miliardi di neuroni di un centinaio di forme diverse che compongono l’architettura del nostro cervello. La carta dovrà contenere anche i 100 trilioni di connessioni che i neuroni intessono tra loro, in quella rete di abbracci a 360 gradi che le cellule stringono, formando le autostrade su cui viaggiano gli impulsi nervosi. Sono questi i flussi di elettricità, i messaggeri chimici e le informazioni che — se organizzati in modo coerente e sincronizzato — vengono chiamati pensieri.
Il progetto europeo, rispetto a quello Usa, ambisce a fare un ulteriore scatto di reni. A trasferire cioè i dati sull’architettura e sulle regole di funzionamento del cervello umano in un computer. Un calcolatore così potente non è mai stato realizzato, ma fra dieci anni, ai ritmi di sviluppo attuale, la tecnologia informatica sarà forse riuscita a costruire una macchina da un trilione di operazioni al secondo.
Fra le scommesse del “Progetto Cervello Umano”, questa non sarebbe nemmeno la più azzardata. «Una giungla impenetrabile in cui molti ricercatori si sono persi» descriveva il cervello nel 1923 Ramon y Cajal, uno dei primi scienziati a cimentarsi con il mistero dell’universo che portiamo sulle spalle. «Anche oggi, con gli strumenti ottici, riusciamo a osservare solo lo strato esterno, fino a un millimetro e mezzo di profondità» spiega Rafael Yuste, codirettore del Kavli Institute for Brain Science alla Columbia University di New York. A rendere unico, inimitabile (e incomprensibile) l’organo del pensiero, secondo il neuroscienziato di Harvard Jeff Lichtman, è un aspetto quasi metafisico: «Il cervello non è solo il prodotto di un set di istruzioni genetiche, ma anche della nostra esperienza quotidiana. Ognuno dei nostri circuiti nervosi viene permanentemente modificato e personalizzato da ciò che viviamo giorno per giorno». Un bersaglio mobile, dunque, associato a una complessità incomparabilmente superiore agli altri tessuti delcorpo (la sola retina è composta da cinquanta tipi di cellule, contro i cinque del fegato) e a una scoraggiante impossibilità di legare le malattie a difetti osservabili. «La lista delle malattie mentali incurabili è lunghissima» spiega Lichtman. «E non solo non abbiamo trattamenti. In molti casi non abbiamo nemmeno idea di quale sia il problema».
Con quali strumenti gli scienziati partiranno alla scoperta del “continente oscuro” del corpo umano? «I mezzi tradizionali — spiega Yuste — ci permettono di registrare l’attività elettrica di un neurone alla volta. Ma ogni singola area cerebrale è composta da centinaia di neuroni. È come se cercassimo di seguire un film su uno schermo da un pixel. Abbiamo bisogno di inventare nuovi strumenti, sia ottici che elettronici. Dovranno venirci in aiuto nanoscienze, fisica, chimica e ingegneria. Solo così potremo allargare lo schermo e guardare il film per intero». Bill Newsome, neuroscienziato di Stanford, spiega che «uno dei metodi più usati prevede l’uso di minuscoli elettrodi inseriti nel cervello e capaci di registrare i segnali inviati da un neurone al suo vicino. Con questi strumenti possiamo seguire fino a cento cellule con la risoluzione di un millisecondo. Ma inserire un elettrodo nel cervello ha dei costi, e può causare reazioni immunitarie ». Negli uomini questi interventi vengono limitati ai casi gravi di epilessia che avrebbero bisogno comunque del chirurgo. «I metodi ottici — prosegue Newsome — sfruttano molecole fluorescenti che si “accendono” quando una cellula si attiva. Possiamo osservare in questo modo migliaia di neuroni contemporaneamente, ma solo in zone molto superficiali del cervello. La luce infatti penetra nel tessuto per poche centinaia di micrometri».
Ma non di soli micrometri (millesimi di millimetro) è fatto lo studio del cervello. Tecniche più “datate”, ma sempre molto usate come la risonanza magnetica, evidenziano quali aree si attivano mentre svolgiamo un certo compito. Sappiamo quali zone sono responsabili di vista, parola, locomozione, memoria e altre mille fantasiose attività. «Ma la risoluzione sia spaziale che temporale di questo strumento è davvero scarsa» nota Engert Florian, biologo cellulare di Harvard. Il “pixel” del nostro schermo in questo caso non ha più le dimensioni dei micrometri, ma dei centimetri. E a mancare è proprio la via di mezzo. È come se per studiare una foresta intricata potessimo solo osservarla da un aereo — cogliendo la macchia di colore — oppure studiarla dal terreno, con lo sguardo che può abbracciare pochi alberi insieme. Quel che manca nella cassetta degli attrezzi degli scienziati è uno strumento per osservare la “giungla dei neuroni” in modo dettagliato e complessivo allo stesso tempo.
L’inadeguatezza dei mezzi non spaventa gli esploratori. Né fa breccia chi ricorda che la missione Apollo fu lanciata con ingegneria e tecnologie già in partenza sufficienti a sostenerne l’ambizione. A chi li accusa di fare il passo più lungo della gamba, i pionieri del cervello citano l’esempio del Cern di Ginevra. L’acceleratore di particelle che ha svelato il bosone di Higgs e che in un anno accumula tanti dati da riempire una pila di cd alta 20 chilometri fu progettato negli anni 90, quando i computer funzionavano con i floppy disc. «Il Progetto Genoma Umano — ricorda George Church di Harvard, uno dei principali ideatori dell’impresa varata da Obama — sarà anche costato tanto. Ma ci ha permesso di fare passi avanti talmente grandi che oggi il costo del sequenziamento del Dna si è ridotto di un milione di volte. E poi già ora per tutti i loro progetti di neuroscienze gli Usa spendono 5 miliardi di dollari l’anno».
Quasi a rispondere agli scettici, intanto, negli ultimi mesi gli scienziati si sono presentati con metodi freschi per penetrare i misteri del cervello. Ricerche indipendenti, condotte in tutto il mondo: progressi ancora insufficienti a garantire il successo alle imprese americana ed europea, ma che dimostrano come il campo delle neuroscienze abbia inserito con decisione la marcia avanti. All’università di Dusseldorf e al Centro di ricerche tedesco di Julich, per esempio, hanno scannerizzato un cervello umano post mortem con la risoluzione di 20 micrometri. Il loro modello tridimensionale è 50 volte più preciso rispetto alla versione precedente. Qualche anno fa si è poi scoperto come tingere di 90 colori le diverse cellule del cervello di un topolino. Il metodo Brainbow consente di studiare la distribuzione dei vari tipi di neuroni. Poche settimane fa è stato annunciata la tecnica Clarity. Consiste nello sciogliere i lipidi lasciando intatta l’impalcatura dei neuroni, rendendo il cervello “miracolosamente” trasparente e penetrabile dalla luce del microscopio.
Al Politecnico di Losanna che è capofila del progetto europeo,intanto, quattro calcolatori grandi come distributori di merende già lavorano simulando il funzionamento di un milione di neuroni di topo. Secondo il padre dell’iniziativa, Henry Markram, realizzare con il silicio un modello del cervello umano permetterà di simulare il funzionamento dei farmaci e l’andamento delle malattie, accelerando i tempi della ricerca medica. L’argomento — che è poi il cuore dell’iniziativa di Bruxelles — convince assai poco molti colleghi di Markram. Come diceva il Nobel della fisica Philip Anderson per smentire le tesi del riduzionismo, «a ogni livello di complessità nuove proprietà emergono » ed «è impossibile dedurre il comportamento di sistemi complessi solo estrapolando i tratti degli elementi semplici».
Il tentativo del nostro cervello di comprendere se stesso non rischia allora di farci somigliare al Barone di Munchausen, che voleva uscire dalla palude tirandosi su per il codino? «Ma no, non c’è nulla di soprannaturale nel cervello» replica Yuste. «Ci sono dei neuroni che trasmettono impulsi, e a volte lo fanno in modo scorretto. Capire come questo avvenga e trovare delle cure è un dovere nei confronti di milioni di pazienti».

Repubblica 2.7.13
L’intervista
Giacomo Rizzolatti, lo studioso che ha scoperto i neuroni-specchio
“L’obiettivo più ambizioso? Svelare i misteri della coscienza”
intervista di E.D.


«Quanti passi avanti negli ultimi trent’anni» esclama Giacomo Rizzolatti. Lo scienziato dell’università di Parma iniziò a fare ricerca osservando il cervello delle scimmie. E fu proprio usando gli elettrodi per capire come si “accendevano” le singole cellule nervose che è arrivato a scoprire i “neuroni specchio”: i “neuroni dell’empatia” che permettono a uomini e animali di intuire intenzioni ed emozioni altrui. Uno dei progressi più importanti delle neuroscienze negli ultimi decenni.
Tanti altri passi avanti ci vengono promessi oggi. Che ne pensa?
«A essere sincero, il progetto americano mi sembra più concreto di quello europeo. Punta sulla creazione di nuove tecnologie. E la storia della scienza ci insegna che quando gli scienziati hanno strumenti freschi in mano, i passi avanti nelle conoscenze non tardano».
Però forse l’obiettivo degli americani è meno nitido rispetto a quello degli europei
«L’approccio americano è tecnologico e pratico. Non avrà una grande visione d’insieme, ma credo che qualche frutto lo darà. Con il progetto europeo invece sono molto in disaccordo».
Perché?
«Trovo assurda l’idea di ricostruire il funzionamento del cervello umano su chip di silicio. Che il computer sia un modello per il cervello è un’idea ormai superata. Poteva andare bene negli anni 80. Ma questo riduzionismo estremo oggi è stato smentito da tante scoperte. Il nostro cervello non è affatto un semplice insieme di neuroni. C’è ilruolo grandissimo giocato da esperienze, emozioni, relazioni con l’ambiente».
E poi c’è quell’obiettivo che sembra irraggiungibile con i mezzi attuali delle neuroscienze: definire cos’è la coscienza.
«Appunto. Così come una casa non è un insieme di mattoni, il cervello non è un ammasso di neuroni. Non si può pensare di analizzare tutte le cellule, una dopo l’altra, mettere le informazioni in fila e arrivare a capire qual è l’idea che sta alla base del cervello. C’è dell’altro».
Cosa?
«Troppo presto per rispondere. Nella nostra disciplina ci sono problemi risolvibili e problemi “hard”. Capire cos’è la coscienza è ilproblema “hard” per eccellenza. Ma in compenso abbiamo descritto bene tanti fenomeni, come il meccanismo della visione. Conosciamo molti dettagli su cosa avviene nel cervello durante l’apprendimento. Non si può proprio dire che siamo stati fermi in questi anni».
E quali sono gli strumenti del futuro?
«Gli elettrodi stanno diventando sempre più efficienti e meno invasivi. Quelli più moderni non hanno sensori solo all’estremità, ma in tutta la loro lunghezza. Permettono così di registrare a profondità diverse del cervello e moltiplicano le informazioni. Abbiamo un progetto di ricerca insieme alla neurochirurgia del Niguarda di Milano, che usa questi strumenti per i pazienti con l’epilessia. Se gli elettrodi ci permettono di registrare dati sull’attivazione dei neuroni, l’elettroencefalogramma ha raggiunto oggi un livello di dettaglio che all’epoca della sua invenzione, negli anni 30, era inimmaginabile. Quello che all’inizio della mia carriera era osservabile solo sulla scimmia, ora inizia a essere studiato anche sull’uomo in maniera poco invasiva. E questa è davvero una prospettiva entusiasmante».