mercoledì 3 luglio 2013

-

La Stampa 3.7.13
Il dramma femminicidio continua
Una donna uccisa ogni tre giorni
I sei mesi di sangue dell’Italia
qui

l’Unità 3.7.13
L’appello. Rodotà, Zagrebelsky e altri:
«Nessuna riservatezza sul lavoro dei saggi»

No, non è la Rete a dover controllare i saggi, ma certo il loro lavoro di proposta di modifiche costituzionali deve essere reso pubblico e quindi condiviso. È questo l’assunto di base dell’appello che ieri è stato lanciato da insigni costituzionalisti e intellettuali tra i quali Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. «I lavori della Commissione per le riforme costituzionali proseguono senza che l’opinione pubblica venga in alcun modo informata delle sue discussioni», inizia così, in forma decisa, secca, l’appello che si legge sul sito dell’associazione Libertà e Giustizia. Il metodo finora adottato per procedere alle riforme istituzionali viene, senza mezzi termini, «inammissibile». «In materie come questasi spiega che riguardano il destino della Repubblica, la pretesa dell’assoluta riservatezza confligge con l’esigenza democratica di una apertura che renda possibile un’attenzione vigile e un contributo da parte di tutti i cittadini interessati».
A suffragio di questa tesi si ricorda la scelta opposta alla riservatezza adottata dall’Unione europea per la redazione della Carta dei diritti fondamentali e del Trattato costituzionale. In più, si aggiunge, «l’attuale opacità diventa ancora più inaccettabile viste le notizie riguardanti
un’ambigua consultazione in Rete alla quale il testo delle riforme dovrebbe poi essere sottoposto che, riserve a parte sulla sua opportunità e le sue modalità, esigerebbe proprio un’ampia, diffusa e continua discussione sul testo sul quale dovrebbe esprimersi i cittadini». I primi firmatari dell’appello Rodotà e Gaetano Azzariti per la Convenzione per la Democrazia costituzionale, Zagrebelsky e Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, il sociologo Luigi Ferrajoli e il costituzionalista Umberto Allegretti per i Comitati Dossetti chiedono che si ripristini immediatamente «il rispetto dei principi della democrazia».

Repubblica 3.7.13
Da Zagrebelsky a Rodotà, protesta contro la riservatezza dei lavori“Dal Comitato dei 40 silenzi e metodi opachi”
di F. Bei.

ROMA — Si incontrano tutti i lunedì a palazzo della Stamperia, sotto la regia del ministro delle riforme Gaetano Quagliariello, che se li coccola con lo sguardo. Sono i 40 “saggi” scelti dal governo per scrivere la nuova Costituzione che ad ottobre sarà trasmessa al Parlamento. Riunioni a porte chiuse di cui sommariamente il ministro stesso riferisce ai cronisti in un veloce briefing nell’androne del palazzo. Niente streaming per intenderci. Nessuna intervista o pubblicità a questi lavori. «Un metodo inammissibile » secondo le associazioni (dai Comitati Dossetti a Libertà e Giustizia) che si oppongono al tentativo di riforma costituzionale della maggioranza. «I lavori della commissione per le riforme — si legge nell’appello firmato da Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Luigi Ferrajoli, Sandra Bonsanti, Gaetano Azzariti e Umberto Allegretti — proseguono senza che l’opinione pubblica venga in alcun modo informata delle sue discussioni. È un metodo inammissibile. In materie come questa, che riguardano il destino della Repubblica, la pretesa dell’assoluta riservatezza confligge con l’esigenza democratica di un’apertura che renda possibile un’attenzione vigile eun contributo da parte di tutti i cittadini interessati».
I firmatari dell’appello citano l’esempio di quanto avvenne con le convenzioni che scrissero la carta dei diritti fondamentali dell’Ue o il Trattato europeo. La critica riguarda anche la consultazione via Web annunciata (al termine del lavoro dei saggi) da palazzo Chigi. Un questionario con domande a risposta multipla su bicameralismo paritario, numero dei parlamentari, forma di Stato e di governo e legge elettorale. «L’attuale opacità — proseguono — diventa ancora più inaccettabile viste le notizie riguardanti un’ambigua consultazione in Rete alla quale il testo delle riforme dovrebbe poi essere sottoposto che, riserve a parte sulla sua opportunità e le sue modalità, esigerebbe proprio un’ampia, diffusa e continua discussione sul testo sul quale dovrebbe esprimersi i cittadini». Dai Comitati Dossetti, LeG e la Convenzione per la democrazia costituzionale arriva infine la richiesta che «si provveda immediatamente a restaurare anche in questa materia il rispetto dei principi della democrazia».

il Fatto 3.7.13
Onda su onda
Che ci frega delle notizie c’è il consenso da creare
di Loris Mazzetti

Agli italiani interessano: il racconto della Santanchè che non si sente né falco né colomba ma pitonessa, chi si è tolto le mutandine tra la giovane attrice e l’onorevole Ravetto, che Berlusconi, ormai alla frutta, frulli per l’ennesima volta il centrodestra? Gli interventi del comico Crozza a “Ballarò” sono più informativi di certi programmi giornalistici. Come prima di lui fecero Daniele Luttazzi e Sabina Guzzanti, poi editti e censure ebbero la meglio: i due sparirono dalla Rai.
I tg servono esclusivamente a creare consenso. Per la “macchina delle bugie”, che preferisce seguire in Africa un insignificante Obama invece di approfondire Riina: “É lo Stato che ha cercato la mafia”, esiste solo la politica e la cronaca, tanta cronaca, soprattutto quella violenta. Parlare di Cogne, Perugia, Garlasco, porta ascolto e tiene lontano il telespettatore dai problemi del paese. La guerra, che da oltre due anni ha invaso le strade della Siria, è sparita dai media nonostante le denunce delle associazioni umanitarie: 100 mila morti, la maggior parte civili (tanti bambini), vittime di attacchi indiscriminati dell’esercito del presidente Bashar al-Assad; 2 milioni di sfollati all’interno e quasi 1 milione oltre confine a cui si aggiungono 4 milioni di persone allo stremo, bisognose di aiuti a cominciare da quello sanitario.
In questi giorni se ne è parlato un po’ per il tiramolla, partito da Internet, sui 3 decapitati se erano o no frati francescani. Il popolo siriano che si ribella ad un dittatore, la cui famiglia è al potere da oltre quarant’anni, non merita attenzione mediatica perché l’America e l’Unione europea hanno nascosto la testa nella sabbia come gli struzzi, consentendo a Russia, Cina e Iran di mandare aiuti (tante armi) al regime, rendendo vano il loro stesso embargo.
POI CI SONO i così detti giornalisti diventati famosi perché un giorno sì e uno sì sono in tv. Pigi. Battista del Corriere della Sera ne è un esempio. Lunedì è riuscito in due articoli diversi a beatificare contemporaneamente Cossiga e Miccoli. Nel primo articolo i “misteri d’Italia” e la trattativa tra Stato e mafia dovrebbero rimanere negli armadi della vergogna perché nelle inchieste dei magistrati vi sono persone morte che non possono replicare. Nel secondo, per il bravo calciatore (solo un gradasso per Battista), che ha avuto frequentazioni mafiose e che per telefono ha insultato la memoria di Falcone, non avendo commesso reato penale, dovrebbe finire tutto a tarallucci e vino. La morale? Interessante lezione di giornalismo.

il Fatto 3.7.13
Larghe intese: la tassa sui poveri
risponde Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, da ogni titolo di giornale e da ogni grido di telegiornale mi viene un brivido: o colpiscono me o gli statali o gli operai, o i pensionati. E il gioco ricomincia continuamente da capo.
Silvano

IL FENOMENO va studiato con cura. Dunque: il compito per Letta e il suo governo è abolire l'Imu e il punto di aumento dell'Iva perché così ha deciso Berlusconi. Abolire quelle due misure comporta una certa spesa. Incrociando conferenze stampa, titoli di giornali e infinite interviste, l'impressione, purtroppo non infondata, è questa: se io devo per forza comprare tutti gli F-35, mantenere intatte le Province, e non toccare l'apprezzatissima legge Fornero sulle pensioni (secondo cui la vita comincia a 67 anni) mi restano le seguenti opzioni, con cui cambiare l'Italia, riformare il lavoro e "far ripartire il Paese". 1) La "staffetta generazionale". Non è ancora chiaro se si tratterà di "oro alla patria", nel senso che i pensionati saranno chiamati a sfilare davanti all'Altare della Patria per dare l'obolo, oppure se rinunceranno direttamente alle pensioni. con cui adesso mantengono i giovani di famiglia. Per chiarire il concetto, entrano in ballo le "pensioni d'oro". Sono poche, maledizione, e allora bisogna allargare il criterio e scendere un po’, poi di più, poi ancora, fino alle pensioni appena sopra il minimo, perché bisogna pur trovare i soldi che mancano per l'abolizione dell'Imu. Un'altra idea, buttando il cuore oltre l'ostacolo, è toccare addirittura la legge Fornero. Nel senso che, dopo averti pensionato più tardi di quanto avevi creduto per tutta la vita, ti pensionano prima, ma a basso costo, per fare entrare il giovane. È illogico, perché le mansioni non corrispondono, ma pazienza. Chi è Letta (persino Letta) per discutere gli ordini di Berlusconi? 2) Ti aumento l'Irpef. Naturalmente dobbiamo fare un ritocco abbondante, in modo da garantire lo spirito giusto per la "crescita". E provocare un "hurrà" dalle piccole imprese. 3) Introduco nuovi ticket sanitari. Questa sì che è una trovata, perché vai veramente a pescare la ricchezza nascosta nelle tasche dei poveri che attendono in piedi, da mesi, con le caviglie gonfie, la risonanza magnetica. Io non mi meraviglierei di una “tassa sui muratori” visto che si costruisce poco e chi lavora è un vero privilegiato, e di una tassa sui mendicanti che, avrete notato, aumentano. E forse è il momento di fargli i conti in tasca. Intanto continua la corsa a chi offre di più per il controllo della Rcs, ma questa è una storia che non riguarda i poveri, dunque non riguarda il presente governo, nato “da una idea di Silvio Berlusconi”.

il Fatto 3.7.13
Il sindaco
Ponte Vecchio? “L’ho chiuso per i disabili”
di Tomaso Montanari

L’idea di Renzi di trasformare Ponte Vecchio in un privé per gli amici “carini” del suo amico Luca di Montezemolo ha turbato la pancia profonda della città.
Renzi, poco abituato a gestire il dissenso, l'ha presa malissimo e ha perso il controllo: nel consiglio comunale di lunedi è arrivato ad aggredire l'arcivescovo di Firenze, reo di aver criticato il tono morale della città dello scandalo delle escort.
Ma ieri ha fatto qualcosa di peggio. Nella newsletter irradiata via email da Palazzo Vecchio ha strumentalizzato addirittura i bambini disabili: “En passant, abbiamo anche recuperato circa 120mila euro, l'equivalente del taglio che abbiamo ricevuto sul capitolo delle vacanze per i bambini disabili. Io credo che chiudere tre ore Ponte Vecchio per questi motivi sia doveroso per un Sindaco. Lo rifarei, nonostante le polemiche. Voi che ne pensate? ”.
Nessuno ha ancora avuto il piacere di vedere il bilancio preventivo del Comune: ma anche ammesso che il taglio ci sia, Renzi aveva ben altri modi per recuperare quella cifra. Mettere in connessione le Ferrari e i bambini disabili è una bassezza propagandistica fuori scala anche per la penosa comunicazione politica italiana.
Camillo Langone ha scritto sul Foglio che Matteo Renzi è “Un pallonaro stratosferico, un cinico da primato, una monumentale faccia di bronzo, un uomo per il quale non esiste nulla di sacro”. Nulla, davvero nulla.

Corriere 3.7.13
Nasce la grande alleanza contro il sindaco
Patto tra bersaniani, dalemiani e giovani turchi per fare fronte comune
di Maria Teresa Meli

ROMA — È un finale di battaglia: da una parte, bersaniani, dalemiani e giovani turchi che siglano la pace e fanno fronte comune contro Renzi, dall’altra il sindaco, le cui truppe si muovono ormai per la sua candidatura, a caccia di sottoscrizioni eccellenti, perché, come dice uno di loro, «adesso è il tempo che ognuno scopra il proprio gioco».
E poco importa se il suo, di gioco, Renzi non lo abbia ancora svelato: i movimenti strategici li ha già definiti, anche se continua a ripetere: «Non me l’ha ordinato il medico di fare il segretario». Ma i suoi veri intendimenti li ha spiegati ai fedelissimi: «Calma e gesso, sono tutti contro di me. D’Alema e Bersani hanno fatto la pace nel nome di Epifani di cui si fidano e usano la storia della stabilità di governo per darmi addosso. Ma io sostengo Letta, ci mancherebbe altro, penso solo che non si può congelare il Pd per le esigenze delle larghe intese, quasi fossero queste la proposta politica del nostro partito».
Insomma, Renzi sa bene che lo slittamento dei tempi del congresso e il mantenimento dello status quo, con Epifani alla guida del Pd, sono le armi che vogliono usare i suoi avversari interni. Come osserva Giorgio Tonini: «Adesso basta. Quando è troppo è troppo. Ma che vogliono ancora, dal Pd, questi mezzi capicorrente, vecchi-vecchi, giovani-vecchi? Adesso basta, lasciateci fare un congresso nei tempi e nei modi previsti dallo Statuto».
La macchina renziana è dunque partita, perché il sindaco sa che se si muove sarà difficile opporgli lo slittamento delle assise. È pronto a tutto, il primo cittadino di Firenze, persino a mediare sulla richiesta di far coincidere segretario e candidato premier, tanto, spiega ai suoi, «la leadership non si conquista per Statuto ma sul campo». Su un punto, però, Renzi non transige: l’elettorato delle primarie non si tocca. Già, perché un leader incoronato da milioni di elettori sarà inevitabilmente il candidato alla premiership. I suoi uomini stanno già preparando le firme per la candidatura. E chiederanno di schierarsi anche a chi renziano non è. Cinque nomi per tutti: Serracchiani, il presidente della provincia di Pesaro Matteo Ricci, Zingaretti, Fassino e il segretario regionale dell’Emilia Stefano Bonaccini.
Dall’altra parte della barricata si sta costituendo un’Union Sacrée contro il sindaco, anche se D’Alema la nega con uno sprezzante «è una cavolata». La grande alleanza anti-Renzi debutterà dopodomani nella riunione promossa dai bersaniani e allargata a dalemiani, giovani turchi e a quanti ci vorranno stare. Sarà presente anche Epifani, che dice: «Io sono un uomo di pace e raccomanderò l’unità». E il segretario con gli emissari del sindaco è stato più chiaro: «Spiegate a Matteo che può stare tranquillo, garantirò io che sia lui il nostro candidato premier». Ma Renzi non si fida: le assicurazioni se le prende da solo, ben sapendo che due ex margheritini come Franceschini e Letta potrebbero trovarsi in imbarazzo a sostenere un ex ds contro di lui.
D’Alema, che tramite Epifani, con cui ha colloqui frequenti, è tornato a ragionare con i bersaniani, ha capito che sarà difficile convincere il sindaco a rinunciare. E, da politico navigato qual è, si rende anche conto che lo slittamento del congresso rischia di diventare un boomerang.
Quindi è un’altra la strada da prendere. Perciò c’è un tentativo di far convergere i bersaniani, o almeno una parte di loro, su Cuperlo. Chiacchiere? No: lo rivela il vicedirettore di Europa Mario Lavia. Ma il problema è Bersani. Una fetta dei suoi ci starebbe, lui, però, fa ancora resistenza. Dunque, potrebbe essere un’altra la soluzione per stoppare Renzi. Quella di moltiplicare le candidature: Cuperlo, Fassina, Pittella, Civati, avanti tutti, per evitare che alle primarie per la segreteria il sindaco superi la soglia del 50 per cento. Meglio un segretario dimezzato che un segretario intero, se si chiama Renzi. E così il sindaco rischia di dover giocare la partita che non voleva, quella «io contro tutti», quella che gli ha fatto perdere le primarie la volta scorsa.

Repubblica 3.7.13
Il partito si ribella: troppi attacchi anche Matteo ha il suo apparato
Il sindaco: io outsider, non mi faccio incoronare dai burocrati
di Goffredo de Marchis

«Questo bombardamento dall’esterno è inaccettabile. Renzi sta tenendo un partito inchiodato intorno alla sua figura». Raccontano che Guglielmo Epifani non abbia preso bene la nuova uscita del sindaco di Firenze. Ma anche che non sia sorpreso. A Largo del Nazareno sottolineano che parlare con disprezzo di «capicorrente romani» suoni un po’ strano da parte di chi «ha la corrente più strutturata del Pd, viene spessissimo a Roma, chiede ai suoi parlamentari un contributo di 1000 euro mensili per la fondazione, ha ottenuto deputati e senatori nel listino bloccato». Così fan tutti, del resto. Ma perché poi attaccare l’apparato? «Renzi dice che dovremmo discutere ditemi concreti, non di regole. Poi è lui a concentrare l’attenzione della gente sulle regole. Il suo terreno rimane quello di chi sta con un piede fuori». Gianni Cuperlo, sfidante ufficiale per la segreteria, ha il tono scocciato di chi non ne può più: «Decidano le regole che vogliono. Quelle che vanno bene a Matteo? Ok, vanno bene anche a me. Io mi preoccupo di cosa è bene dire ai nostri elettori e al Paese».
Certo, il sindaco non può essere impazzito all’improvviso. In realtà su di lui il pressing non si esercita sui cavilli, ma su una richiesta esplicita di lasciar perdere, di abbandonare la competizione. Sono messaggiche arrivano a Palazzo Vecchio filtrati da un buon numero di mediatori. Ma arrivano. E dicono, di fronte al numero spropositato di concorrenti e alla posta in gioco che coinvolge il governo Letta, «Matteo, fai un passo indietro, poi toccherà a te quando si sceglierà il candidato per la guida dell’esecutivo. Adesso è meglio lasciare Epifani». Epifani, è lui la chiave. Prima traghettatore poi grande mediatore tra le correnti del Partito democratico.
Questo è l’obiettivo di una buona parte dei bersaniani e soprattutto di Dario Franceschini. Quindi, è la convinzione diffusa, di Letta.
Dietro l’offensiva di Renzi, ci sono anche i suoi ripensamenti. Il sindaco continua a essere «indeciso». Continua a pensare all’alternativa di ripresentarsi a Firenze la prossima primavera, «ai tempi del governo. Se sono lunghi, ho paura di logorarmi alla segreteria. E non mi fido delle promesse sul dopo, sulla mia corsa per Palazzo Chigi». Come dargli torto? Ma il succo del messaggio, spiega, è l’attacco ai capicorrente: «Perché io devo rimanere l’outsider, non mi faccio incoronare dai burocrati di Roma. Semmai cerco il sostegno dei sindaci, degli amministratori. Preferisco l’appoggio di Pisapia alle rassicurazioni dei vecchi dirigenti».
In questo caos, l’attuale segretario è la zattera a cui i “nemici” di Renzi si aggrappano. Franceschini è stato il king maker dell’elezione di Epifani. Molti lo ricordano come l’unico in grado di tenere i fili all’indomani delle dimissioni di Bersani. Arrivare a Largo del Nazareno, piazzarsi al telefono e tessere la tela con i «capicorrente ». Oggi il ministro dei Rapporti con il Parlamento lo vede come l’unica garanzia per l’esecutivo delle larghe intese. Il suo nome dovrebbe essere in grado di fermare o di attenuare un dibattito che rischia di farsi troppo acceso. Con le inevitabili conseguenze sull’esecutivo.
La dead line è il 17 luglio, giorno in cui la commissione congressuale finirà i suoi lavori. Le assise cominceranno in quella data. Ma le grandi manovre sono in corso e domani si avrà un assaggio di quale grado di conflittualità porterà il congresso. Il gruppo di “Fare il Pd”, animato dal bersaniano Alfredo D’Attorre, riunisce a Roma tutte le anime del partito. «In quella sede non si parlerà di regole e non si parlerà di chi è il candidato», spiega D’Attorre. E’ molto atteso però l’intervento di Epifani. Qualche carta sarà scoperta, al di là dei codicilli. «Mi sono stufato anch’io di parlare di regole — dice Renzi — . E’ una cosa che non capisce nessuno».

Repubblica 3.7.13
L’intervista
Stefano Fassina: decidiamo come eleggere il segretario, alla premiership penseremo poi
“La sua ossessione ha stufato abbiamo passato due mesi a parlare solo delle regole”
intervista di G. C.

ROMA — «Matteo, sulle regole scialla! Ci ha appallato...». Stefano Fassina ha preparato (con D’Attorre e Martina) il manifesto della convention che si tiene domani, “Fare il Pd”, e che raccoglie il fronte alternativo a Renzi.
Fassina, ogni giorno uno scontro sulle regole in vista del congresso. Il Pd non rischia di rendersi incomprensibile?
«Si, dovremmo parlare di lavoro invece sono due mesi che Renzi ci appalla con le regole. Se uno è convinto di stravincere contro una banda di burocrati sbandati, non ha l’ossessione delle regole».
Ma lei che congresso vorrebbe?
«Le regole devono garantire la massima apertura in un quadro in cui scindiamo, come abbiamo fatto l’autunno scorso con Bersani, la figura del segretario da quella del premier».
Fatto apposta per ostacolare Renzi, che si sente preso di mira, come quando si fa il tiro al piccione?
«No, non costruiamo ostacoli nei confronti di nessuno. Sono regole pensate per eleggere il segretario del Pd visto che non vi sono elezioni in vista. Quando vi saranno, faremo le primarie per eleggere il candidato premier».
Ma il congresso quando si tiene?
«Il segretario Epifani ha ribadito l’impegno preso nell’Assemblea nazionale di tenere il congresso entro l’anno. Suggerirei di discutere dell’Italia e dell’Europa, del nostro futuro; di come intervenire su Iva e Imu in modo da aumentare il potere d’acquisto delle famiglie più in difficoltà; di come fare arrivare il credito alle imprese ».
E lei è candidato alla segreteria?
«Non sono candidato anche perché non mi piacciono le auto candidature, e tutte le candidature in campo sono sostanzialmente autocandidature. Voglio dare un contributo per unire, per questo al convegno “Fare il Pd” abbiamo invitato tutti, anche i renziani ».
Il fronte anti Renzi non ha una leadership, è questo il vostro problema?
«Il problema è forse il contrario, ne abbiamo tanti di leader, certamente Cuperlo è tra questi. Penso a un Pd come una squadra di calcio, in cui ci sia un capitano, ma non un uomo solo al comando. Finora, in questi primi sei anni di vita, il partito non è stato una comunità ».
Il Pd è balcanizzato in correnti?
«Balcanizzato è troppo... ma le correnti hanno un primato negativo ».
Ma insomma se glielo chiedessero, lei si candiderebbe?
«Le figure che possono unire sono diverse, la candidatura del sottoscritto togliamola di mezzo... ».
Renzi è adatto a fare il segretario o il premier?
«Matteo stesso ha indicato uno scarso interesse per la costruzione del Pd. E molto interesse per la premiership».
Con un segretario del Pd forte come potrebbe essere Renzi, il governo Letta rischia?
«Con un segretario del Pd forte, il governo si rafforza se nell’agenda di quel segretario c’è il rafforzamento dell’esecutivo Letta che è nato per rispondere alle emergenze e avrà vita finché riuscirà a farlo ».

Corriere 3.7.13
Solo segretario o anche leader alle elezioni

Renzi vorrebbe che la figura del segretario coincidesse con quella del candidato premier alle prossime elezioni. Ma non tutti nel partito sono d’accordo. C’è chi vorrebbe modificare lo statuto, dove i due ruoli coincidono (soprattutto i bersaniani: lo stesso ex segretario, nel 2012, «accettò» le primarie). C’è chi teme che l’automatismo indebolisca il governo Letta

Primarie aperte ai non iscritti o voto di partito
I sostenitori del sindaco di Firenze, ma non solo, sostengono che il segretario debba essere scelto con primarie aperte a tutti. Pesa a Renzi il ricordo delle consultazioni del 2012 prima delle Politiche. Ma altre correnti vorrebbero lasciare la scelta del leader del partito ai soli iscritti o consentire il voto solo a chi si registra, anche solo via web, a un albo degli elettori

La richiesta di tempi certi per l’assemblea
Epifani ha assicurato che il congresso «rifondativo» dei democratici si svolgerà entro l’anno. A incalzarlo sono soprattutto i renziani. E c’è chi teme, nel partito, che troppa pressione possa costituire una minaccia per la tenuta del governo Letta. Nel partito ci sono segni di insofferenza verso le larghe intese. Ma il segretario: «Non ci sono alternative a Letta»

I nomi in corsa per guidare i democratici
Matteo Renzi ha annunciato di essere pronto a scendere in campo dopo alcune garanzie su regole e tempi: ma ancora non ha sciolto le riserve. Come hanno fatto, invece, i deputati Giuseppe Civati e Gianni Cuperlo e il parlamentare Ue Gianni Pittella. C’è chi vorrebbe opporre a Renzi il viceministro Stefano Fassina. E si parla anche di Epifani, anche se lui finora ha smentito

Corriere 3.7.13
La linea di Orfini sulla premiership: sottoscrivo la mozione “Poi vediamo”

MILANO — Perché decidere adesso se il segretario del Pd debba essere automaticamente, oppure no, il prossimo candidato premier? «Su Facebook è stata lanciata la mozione “poi vediamo”, sottoscrivo questa proposta», ha risposto Matteo Orfini, intervistato dall’Unità. Il giovane turco (anche se nella stessa corrente questo appellativo è ormai rinnegato) fa riferimento alla pagina nata sabato sul social, «Mozione “Poi vediamo”», dove campeggiano (foto) i volti dei nomi tirati in ballo per la corsa alla segreteria del partito intorno a quello dell’attore Amedeo Nazzari (citazione di un vecchio sketch di Corrado Guzzanti). Perché, con le parole di Orfini, «è assurdo scegliere il candidato senza sapere quando si vota». E allora «poi vediamo»: chissà se diventerà un tormentone al pari del veltroniano «ma anche».

il Fatto 3.7.13
Massimo Cacciari. Non è in grado di uscirne
“Pd: partito inutile, dibattito misero”
di Wanda Marra

Il Pd? Col cazzo che è nato. E allora, il dibattito che è in corso è assurdo? Certo, ma non può che essere così. Non ne escono, non ne possono uscire”. Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia, tradizionalmente non ha peli sulla lingua. E il suo abbandono della politica è stato dovuto anche alla delusione nei confronti del Pd. Ma di fronte allo spettacolo quotidiano offerto dai Democratici (candidati che entrano ed escono, riunioni più o meno carbonare, documenti sul futuro del partito, dichiarazioni durissime su cavilli regolamentari), più che ironico diventa tragico. Addirittura apocalittico. La cronaca giornaliera fa registrare un Renzi furioso contro i capi corrente Democrat (tant’è vero che i suoi diserteranno la riunione di domani con tutte le componenti organizzata dai bersaniani): “Signori, conosco il giochino e non ho voglia di fare il piccione”. Ancora: “I dirigenti Pd invece di aspettare me si diano una mossa”. Più che mai il Sindaco sta pensando di mandare tutti a quel paese e di rinunciare a una candidatura alla segreteria che il suo partito sta ostacolando in tutti i modi. Ieri Massimo D’Alema gliel’ha detto chiaro e tondo: “Se vuole fare il leader aspetti le primarie per eleggere il candidato del centrosinistra e ci consenta di eleggere il segretario del Pd. Altrimenti rischiamo di eleggere un cattivo segretario”. Il Lìder Maximo ha il suo schema che prevede Cuperlo (che ieri ha riunito i parlamentari per illustrare il suo documento) segretario e Renzi leader e non ci rinuncia. Barca intanto dice: “Nel partito ci sono giovani cadaveri”.
Cacciari, ieri abbiamo assistito all’ennesima puntata della quotidiana guerra di posizionamento nel Pd: non le sembra una dinamica assurda?
C’è in atto una guerra politica molto chiara nel suo significato. Bisogna capire se si sfasciano prima o dopo. Nel Pd ci sono culture - anche antropologicamente parlando - che non possono convivere, come i Renzi e gli Epifani, gli ex Dc e gli ex Pci. Non è solo lotta per il potere, ma anche una battaglia di prospettiva.
Ma in un momento in cui la crisi economica continua a essere gravissima, questo non contribuisce a distruggere il paese?
Mah... Tutti stanno distruggendo il paese. Non c’è una forza politica in grado di fare da argine istituzionale. Ognuno tira acqua al suo mulino. Ognuno gioca un ruolo, ognuno si è specializzato. C’è chi fa il giustizialista, chi l’antigiustizialista, chi difende la casta, chi attacca la casta, chi fa il nuovista. Ognuno si specializza. Ma questo non è fare politica. Ognuno cerca di salvare il culo a se stesso.
Ma tutto questo non annoia anche l’elettorato?
Non è detto. Anche se durante le primarie Renzi-Bersani non s’è parlato di niente, queste hanno portato voti, che poi Bersani ha dilapidato.
Non le sembra che la battaglia congressuale di adesso sia molto meno appassionante della sfida d’autunno?
È ripetitiva. E non c’è dubbio che scassi le palle. Ma è inevitabile.
Qual è ora la partita?
Evitare che Renzi diventi segretario con la consacrazione delle primarie. Perché un momento dopo farebbe cadere il governo Letta. E il Partito democratico non vuole.
Anche le quotidiane uscite di Renzi non sono diventate trite e ritrite?
Renzi è in una situazione difficilissima. Non può fare diversamente. Deve porsi come premier ma questo nello stesso tempo lo espone a un conflitto drammatico: perciò tira il sasso e ritira il braccio. È ovvio che lo paga in termini di logoramento dell’immagine. E così il rischio è che si arrivi alle elezioni con un leader decotto.
Cuperlo o Fassina, sono degli avversari competitivi?
No, nel modo più assoluto.
Ma insomma, perché il Pd non può uscire da questa dinamica?
Perché non è nato. È un dramma politico: non è in grado di esprimere un gruppo dirigente. La leadership è necessaria. E dunque, il Pd invece di parlare di qualcosa, parla di come de-v’essere formato tale gruppo. È un partito senza basi, fondato sul nulla. L’unica cosa che ancora resiste sono dei rimasugli del Pci. Certo, ci sono anche persone in gamba. Per esempio Barca è uno che ha delle cose da dire, che ha delle idee. Ma resta stritolato in questa dinamica. È ovvio che è un dibattito misero.
Se il Pd non è nelle condizioni di formare un gruppo dirigente come può pensare di governare il paese?
Questo è tautologico. Ha dimostrato ampiamente di non essere in grado di formare un governo. Tant’è vero che alla fine sono stati costretti a farlo a calci in culo da Napolitano. É lui che governa per interposta persona.

BARCA A IN ONDA

il Fatto 3.7.13
Marino, su due ruote ma è sempre una scorta
Il sindaco ciclista ottiene agenti della municipale che lo accompagnano pedalando anche loro
di L. D. C.

La scorta è sicuramente su due ruote, e dell’autoblu di prassi, con agenti annessi, non c’è traccia. Ma è sul numero degli angeli custodi di Ignazio Marino, sindaco di Roma che si sposta solo in bicicletta, che qualcuno ha instillato il dubbio. Nel dettaglio Dagospia, che ieri l’ha buttata lì con un virgolettato secco come un tweet: “Sapete quanti sono i vigili urbani che accompagnano Marino nella pedalata assistita? Diciotto. Non sarebbe meglio una Panda di servizio? ”. A corredo, una foto del sindaco in grisaglia sopra la sua bicicletta, con dietro due agenti della Municipale: anche loro su bici (elettrica), vestiti con maglietta e pantaloncini del corpo. Sono solo e sempre i vigili urbani su due ruote a occuparsi della sicurezza del primo cittadino, nei suoi spostamenti per Roma. Gli hanno pedalato dietro anche ieri, quando Marino è andato a far visita alla presidente della Camera Boldrini. Dagospia ne fa una questione di numero: sarebbero troppi. Ma dallo staff del sindaco smentiscono: “Ci siamo informati, gli agenti in tutto sono sei, tre per ciascun turno. Marino sta sicuramente facendo risparmiare i cittadini, anche se non sappiamo ancora quanto. Di certo i vigili per la scorta non sono 18”. Una fonte dal Campidoglio ricorda che il precedente sindaco Alemanno aveva a disposizione anche un’auto con due agenti di polizia di scorta. “Cosa perfettamente legittima” precisa un funzionario, che di raffronti non ha grande voglia. La certezza è che Marino ritiene un punto d’onore spostarsi sulla sua bici. Il giorno dell’insediamento, quando apparve dalla salita per il Campidoglio, era privo di casco. Qualcuno gliel’avrà fatto notare, e ora ce l’ha perennemente sul capo. Proprio ieri, Marino si è fatto sentire via tweet sul tema della mobilità su due ruote: “Un ciclista ha perso la vita a causa di un tragico incidente stradale; sono sempre più convinto della necessità di un piano per la mobilità che tuteli la salute e la sicurezza dei cittadini”. Per inciso: una bici del sindaco è stata venduta all’asta per 1.700 euro: l’incasso è stato devoluto a Libera.
Sempre in tema di sicurezza e affini, Marino è stato attaccato dell’Ugl, sindacato orientato a destra. Gli rimproverano di aver espresso solidarietà “solo ai feriti tra i manifestanti” del corteo per il diritto alla casa di due giorni fa in pieno centro, in cui è rimasta ferita una ragazza. A dire della vittima, per una manganellata di un agente. “Le dichiarazioni rilasciate dal sindaco di Roma sugli scontri avvenuti ieri in strada nella Capitale rappresentano l’ennesimo attacco gratuito nei confronti delle forze di Polizia” sostiene l’Ugl. Nessuna replica dal Campidoglio, dove si lavora ai primi provvedimenti. Sulla chiusura dei Fori Imperiali da agosto in poi, che sta dividendo la città in favorevoli e contrari, l’assessore alla Mobilità Improta prende tempo: “Il progetto è ancora allo studio, qualsiasi notizia sui dettagli per ora è priva di fondamento”. Ovvero: il tema è delicato come una mina, e bisogna muoversi con tanta cautela. Da ciclisti esperti.

Corriere 3.7.13
Gli avversari nervosi confermano la tenuta della maggioranza
di Massimo Franco
qui

Corriere 3.7.13
Si allontana l'ipotesi del voto
Il nodo della sentenza sul Cavaliere
L'unico (vero) rischio potrebbe venire dalla decisione su Mediaset
di Francesco Verderami
qui

il Fatto 3.7.13
Il “sistema” Scarano-Ior tra denaro e agenti segreti
La Banca del Fucino chiede spiegazioni all’istituto vaticano per bonifici da 100mila euro. La risposta: proventi personali
di Marco Lillo e Valeria Pacelli

L’operazione fallita dei 20 milioni di euro da far rientrare in Italia non era la prima che veniva messa a segno da monsignor Nunzio Scarano e dallo 007 Giovanni Maria Zito. Nell’informativa rivelata ieri dal Fatto, in cui emergono anche i rapporti del prelato col capo della gendarmeria vaticana Dome-nico Giani e con il direttore della Direzione centrale anticrimine, Gaetano Chiusolo, c’è anche un altro episodio che spiega la politica applicata in questi anni dallo Ior per tutelare i propri correntisti. Scarano, nel maggio 2012, sposta 100 mila euro dalla banca vaticana alla filiale della banca del Fucino. Per farlo disponeduebonificida50milaeuro ognuno.
“I due (Scarano e Zito Ndr) – si legge nell’informativa – sono risultati impegnati nell’organizzazione di una imprecisata operazione finanziaria, da realizzare nell’interesse di Giovanni Zito, per la quale Nunzio Scarano si sarebbe adoperato per renderla ‘non tracciabile’ utilizzando a tale scopo il canale bancario vaticano”. Ma è leggendo le intercettazioni che si comprende come viene gestito dall’interno l’Istituto delle Opere Religiose, l’unica banca che cela il nome dei correntisti dietro dei numeri progressivi. Quando la Procura di Roma ha iniziato a indagare su quei conti si è sempre scontrata contro un muro: oltre il confine delle mura leonine non sono mai stati rivelati né i nomi degli intestatari tanto meno gli importi. A raccontare questo sistema è lo stesso monsignor Scarano che l’11 maggio del 2012 parla al telefono con lo 007 Zito di questa ulteriore operazione. Scarano dice: “Ti volevo dire che ho avuto il permesso dalla direzione (dello Ior, ndr), per cui quando tu vuoi ti faccio sapere per quella cosa, quella girata! ”. Tuttavia Scarano è preoccupato anche per eventuali segnalazioni bancarie perché era venuto a sapere di una richiesta di informazioni nei suoi confronti inoltrata dalla Banca del Fucino, volta a chiarire le motivazioni sottostanti l’emissione dei due assegni da 50 mila euro. Monsignor Scarano a questo punto contatta i vertici dello Ior, che lo rassicurano sul fatto che nei suoi confronti, come fanno sempre, applicheranno la solita politica. E Scarano la spiega al telefono a Giovanni Zito in un’altra intercettazione, quella del 24 maggio 2012.
L’INTERCETTAZIONE
Scarano: “Hanno mandato la Banca del Fucino a chiedere un’informazione... da che cosa provengono [i soldi, ndr]. Loro [lo Ior] adesso rispondevano, dice che già ne hanno avuto tantissime altre segnalazioni di altri clienti, dicendo che questi sono proventi personali... e quindi hanno risposto proventi personali anche per l’acquisto di un bene immobile in Italia, punto e basta. Loro (lo Ior) dice: Nunzio in genere noi diamo la risposta anche perché a noi non ci possono chiedere l’importo del tuo conto corrente... è chiaro che noi tutto questo non lo andremo mai a dire. Loro [lo Ior] hanno detto che io sono un dirigente del Vaticano, che quelli sono fondi miei personali che dipendono dal mio lavoro e poi che sono anche donazioni. Poi ho domandato al direttore [dello Ior] e dice: Nunzio, no guarda... noi di queste lettere ne abbiamo avute già centinaia e a tutte abbiamo dato risposta, e la tua sarà una risposta più o meno come le altre, è normale che noi non andiamo a dire quello che è l’importo sul conto corrente”.
Poche parole, insomma, per raccontare come opera la banca vaticana sul mercato italiano. Nessuno può sapere chi si nasconda dietro il conto corrente dello Ior. Solo il Vaticano sa di chi sono i sottoconti nei quali è suddiviso il saldo enorme presente su ciascun rapporto bancario. Con una legge del dicembre 2010 Papa Benedetto XVI aveva tentato un cambiamento. Era stata istituita l’Autorità di informazione finanziaria (Aif) con la finalità di contrastare il riciclaggio e consentire le ispezioni sui conti Ior per poi comunicare i risultati all’Uif, l’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia. Era solo un’illusione. Il 25 gennaio 2012, infatti, viene approvata una direttiva che cancella i poteri di ispezione dell’Aif.
FILONE ROMA-LONDRA
Dopo le indagini che hanno portato ad iscrivere nel registro degli indagati l’ex direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli, entrambi appena dimessi, adesso si apre anche un fronte investigativo nuovo. Ossia quello dell’Apsa, l’amministrazione patrimonio sede apostolica, diretta dal cardinale Domenico Calcagno. Nell’arco di tre soli anni l’Apsa ha effettuato bonifici per ben 229 milioni di euro da Roma a Londra. Adesso si scopre anche l’esistenza di altri conti all’estero. Ne parla al telefono lo stesso Scarano, ex funzionario e responsabile della contabilità analitica dell’Apsa. Intercettato il 18 maggio 2012, con Maria Cristina D’Amico – della famiglia di armatori salernitani ma non indagata – Scarano racconta di essere in contatto con il direttore della Suisse Bank perché, dice, “noi [l’Apsa] siamo eccellentissimi clienti... il nostro conto più piccolo lì è di un miliardo e mezzo”.

il Fatto 3.7.13
Pedofilia, il fondo segreto per non risarcire le vittime
Scandalo sull’asse Milwaukee-Oltretevere
Il cardinale Dolan chiese alla Santa Sede di “coprire” 57 milioni di dollari
di Angela Vitaliano

New York Per l’arcidiocesi di Milwaukee non sembra esserci nessuna possibilità di lasciarsi alle spalle i decenni di abusi sessuali verso i minori, i cui dettagli continuano ad emergere in maniera sempre più inquietante. E al centro di tutto, sempre lui, Timothy Dolan, all’epoca dei fatti arcivescovo della diocesi, adesso cardinale e capo dell’arcidiocesi di New York, presente all’ultimo Conclave. Il suo nome emerge ancora, a proposito di somme di denaro versate ai preti responsabili degli atti di pedofilia e di altre, ingenti, messe in “salvo” per essere sottratte alle richieste di risarcimento da parte delle vittime.
DA QUANTO emerso nelle centinaia di documenti relativi a quegli anni, ora resi pubblici da una decisione del tribunale, Timothy Dolan avrebbe chiesto un’autorizzazione al Vaticano per stornare una cifra, pari a 57 milioni di dollari, in un fondo fiduciario blindato, così da sottrarre quei soldi all’eventuale confisca, per far fronte ai pagamenti dei risarcimenti per le vittime. La richiesta di Dolan, che emerge da una serie di lettere e di deposizioni, è una delle tante che caratterizzarono il settennato del cardinale, dal 2002 al 2009, a capo della chiesa di Milwaukee. Il suo intento, da quanto emerge, è sempre stato evitare le conseguenze di quello scandalo sempre più difficile da tenere segreto. Nelle circa seimila pagine, relative nello specifico alla diocesi di Milwaukee, è chiara l’azione di Dolan che operava costantemente per proteggere i preti coinvolti in atti di pedofilia, spostandoli da una parrocchia all’altra. Già nei giorni scorsi, peraltro, era emerso un altro dettaglio inquietante relativo alle somme pagate, a molti di questi preti, per convincerli ad abbandonare l’abito talare. Un filone di documenti, infatti, relativo alla bancarotta dichiarata dall’arcidiocesi, proprio a seguito delle spese legali che si trovò ad affrontare in virtù dello scandalo, evidenzia che, in più casi, furono pagate cifre pari a 20 mila dollari a preti che le accettarono in cambio di un “ritorno volontario alla laicità”. “Non si danno bonus in premio a degli uomini che violentano i bambini”, sottolinea Peter Isely, responsabile del Survivors Network of Those Abused by Priest, rifiutando categoricamente la difesa dell’arcidiocesi secondo cui quello era il metodo “più semplice e veloce” per allontanare dei preti senza, soprattutto, dover ricorrere al Vaticano. Quest’ultimo, tuttavia, il 18 luglio del 2007, non oppose obiezioni alla richiesta scritta il 4 giugno dello stesso anno da Dolan a proposito del fondo fiduciario che fu immediatamente creato e tenuto ben segreto. “Ci vollero invece sette anni da quando vennero fatte le accuse – ha commentato Jeff Anderson, uno degli avvocati che rappresenta le circa cinquecento vittime di abusi sessuali – prima che padre John Wagner, reo confesso di avere abusato di 10 minori, venisse estromesso dalla Chiesa”.
ANCHE l’ex sacredote John O’Brien restò prete per cinque anni, anche se era già stato condannato per lo stupro di un teenager e aveva chiesto lui stesso di essere spretato: a un certo punto un funzionario vaticano scrisse a Dolan che non avrebbe potuto girare il dossier a Papa Benedetto XVI senza “una ammissione di colpa e una sincera espressione di rimorso”. “Quei soldi – continua Anderson – devono essere sbloccati ed utilizzati per pagare alle vittime almeno parte delle somme che gli spettano come risarcimento”. Dolan, intanto, continua a negare le accuse definendole “attacchi tesi a screditare la sua immagine”. O quel che ne resta.

il Fatto 3.7.13
Più profano che sacro
Anti-crimine e gendarmeria a disposizione
di M. L. e V. P.

Il capo dei servizi vaticani intervenne per far “cacciare” lo 007 Zito della Santa Sede dopo la lite col prelato
L’agente segreto ha atteso per quattro giorni le borse con le banconote da 500 euro per complessivi 20 milioni: mai arrivate
Il direttore della Dca (Direzione centrale anticrimine) ha incontrato monsignor “500 euro” il 10 settembre 2012

Non era certamente un monsignore qualsiasi, Nunzio Scarano. Non solo perché organizzava con un agente dei servizi segreti, Giovanni Maria Zito, un ponte arero per fare rientrare 20 milioni di euro detenuti all’estero dagli armatori, suoi amici, Paolo e Cesare D’Amico. Ma anche perchè, come svelato ieri dal Fatto, che ha pubblicato le intercettazioni dell’informativa della Guardia di Finanza del febbraio scorso, Scarano era riuscito a smuovere per aiutarlo a riavere 400 mila euro persi in quell’affare niente meno che le massime autorità di polizia italiane e vaticane. Scarano ha incontrato il 10 settembre 2012, secondo la ricostruzione del Nucelo Valutario della Guardia di Finanza guidato dal generale Giuseppe Bottillo, un prefetto. Si tratta di Gateano Chiusolo, capo della Direzione Anticrimine della Polizia italiana. Al Fatto, che lo ha contattato, Chiusolo non ha voluto rispondere sui contenuti dell’incontro. Il monsignore voleva una mano per essere difeso in una contesa privata con l’ex complice nell’operazione di rientro dei 20 milioni, quel Giovanni Zito che aveva preteso comunque di essere pagato per il servizio.
Tutto inizia a luglio quando lo 007 rientra infuriato dalla Svizzera e pretende un pagamento di 400 mila euro. Scarano paga ma poi denuncia lo smarrimento degli assegni. Il 15 settembre fa scrivere a Zito una lettera dal suo avvocato nella quale sostiene falsamente di avere fatto un prestito a Zito e chiede i soldi indietro. Intanto mette in moto tutte le sue conoscenze per convincere l’agente segreto, con le buone o con le cattive, a farsi ridare indietro i soldi. Il monsignore vuole fare pressioni tramite i suoi superiori nei servizi e tramite l’Ordine militare dei cavalieri costantiniani di San Giorgio, del quale fanno parte Scarano e Zito (ora sono stati sospesi) ma anche – con il grado di “commendatore con placca” – il capo dalla gendarmeria del Vaticano, Domenico Giani.
Qualche mese fa Zito è stato sospeso dal servizio segreto Aisi per le indagini che lo hanno coinvolto. Scarano alla fine riesce a incontrare il capo della gendarmeria vaticana, il generale Domenico Giani, il suo braccio destro, il colonnello Costanzo Alessandrini, e il capo della Direzione Anticrimine della Polizia. E ottiene che la gendarmeria vaticana intervenga in sua difesa sui vertici dei servizi italiani. Il 10 settembre a Roma, grazie a un amico imprenditore del settore costruzioni che gli fissa l’incontro, Scarano incontra il prefetto Gaetano Chiusolo.
Il giorno dopo Scarano confida a un amico di avere incontrato il prefetto e che ora incontrerà una persona amica del capo dei servizi segreti italiani. Si tratta di Domenico Giani, capo della gendarmeria e dei servizi segreti del Vaticano. Lo incontra il 12 settembre e, secondo il racconto di Scarano, Giani gli avrebbe promesso di fare convocare Zito in Vaticano. L’agente dei servizi italiani sarebbe stato invitato da un’alta carica istituzionale della sicurezza italiana, un prefetto da scegliere tra cinque nomi che secondo Scarano sarebbero stati indicati da Chiusolo. Insomma una proposta Italia-Vaticano che l’agente Zito non poteva rifiutare. A quel punto Zito sarebbe stato spazzolato ben benino da Giani e sarebbe stato costretto a restituire i 400 mila euro a Scarano.
Scarano invia una lunga ricostruzione dei fatti, omettendo le circostanze imbarazzanti per lui. Quindi Giani e Chiusolo non conoscono i suoi reati. Resta il fatto che il Vaticano riesce a influenzare decisioni di uno Stato sovrano, l’Italia, su un agente dei suoi servizi segreti, grazie a un reticolo di conoscenze che passano anche attraverso ordini cavallereschi. Il 14 settembre, dopo l’incontro con Giani, c’è una conversazione telefonica così sintetizzata dalla Guardia di Finanza: “Telefonata intercorsa tra Nunzio Scarano ed il Prefetto Chiusolo, nel corso della quale il sacerdote, nel ringraziarlo per l’interessamento alla sua vicenda, gli ha riferito sommariamente del suo incontro con Giani; Chiusolo gli ha chiesto, in ultimo, di essere informato in presenza di significativi sviluppi della sua vicenda”. Alla fine, il colonnello Costanzo Alessandrini, braccio destro di Giani, conferma di avere fatto le pressioni contro il rivale di Scarano. “Il 2 novembre 2012 è stata intercettata sulla casella di posta elettronica di Nunzio Scarano – scrive la Guardia di Finanza – una e-mail proveniente dal colonnello Alessandrini con la quale il predetto ufficiale ha fornito conferma del-l’avvenuto interessamento (a cura di Giani, ndr) dei vertici dei servizi segreti italiani circa la posizione di Giovanni Maria Zito e nel confermare che sarà tenuto costantemente aggiornato”.

il Fatto 3.7.13
Trasparenza. Dove sono le dichiarazioni dei redditi dei ministri?
di Stefano Feltri

PER CANCELLARE le cattive abitudini ci vogliono anni e molto impegno. Per quelle buone basta poco. Il governo Letta non ha ancora dato cenno di voler pubblicare on line la situazione reddituale e patrimoniale di ministri, dei loro vice e dei sottosegretari. La lodevole prassi introdotta dal governo Monti pare già dimenticata. Il professore della Bocconi ha tanti difetti, ma fin da subito annunciò un’apertura alla trasparenza che, dopo tre mesi, portò alla pubblicazione, sui siti dei ministeri, di redditi e beni dei membri del governo. Alcuni ministri – come Vittorio Grilli – interpretarono in modo riduttivo l’impegno, divulgando una sorta di autocertificazione che poi si è rivelata parziale. In tanti scelsero di indicare il reddito da ministro – già noto – anziché quello di cui disponevano nella vita civile. Altri ancora, come Corrado Passera, sono stati tenuti sotto pressione perché particolarmente esposti a conflitti di interesse e qualcosa hanno fatto (l’ex ministro dello Sviluppo ha dovuto vendere le sue azioni nella banca che aveva guidato, Intesa San Paolo). Poi è arrivato il governo Letta. E nessuno ha mai parlato di seguire l’esempio montiano, magari correggendone le fragilità. La dichiarazione dei redditi del premier è già disponibile (nel 2011 aveva un totale imponibile di 142.696 euro). Ma a parte i membri dell’esecutivo già tenuti a una qualche forma di pubblicità, degli altri non si conosce nulla. Vedere il rendiconto patrimoniale di chi prende decisioni sensibili è un’informazione utile. È bene sapere se chi regola il settore dell’energia ha i suoi risparmi investiti in azioni di quel tipo, o se qualche professionista ha dichiarato redditi enormi che potrebbero implicare rapporti di riconoscenza o condizionamento verso qualche società o ente pubblico. Visto che, a parte la macroscopica eccezione di Silvio Berlusconi, pare si stia affermando un minimo di sensibilità tra i titolari di cariche istituzionali (si sono dimessi negli ultimi anni i sottosegretari Zoppini e Malinconico, c’erano tutte le condizioni perché lo facesse Grilli, ha lasciato Josefa Idem), sarebbe opportuno aumentare, invece che diminuire, la trasparenza. Soprattutto per quanto riguarda i conflitti di interesse. Invece le dichiarazioni patrimoniali spariscono e si discute di modificare perfino la ridicola legge Frattini per consentire a membri del governo Monti di assumere cariche di vertice in Finmeccanica, Cassa depositi e prestiti o Eni. Senza trasparenza dentro il governo diventa più difficile credere alle promesse di Tesoro e Palazzo Chigi di meritocrazia nella scelta dei manager pubblici.

il Fatto 3.7.13
Oggi interrogati gli armatori D’Amico (evasione fiscale)

GLI ARMATORI Paolo, Cesare e Maurizio D’Amico saranno sentiti oggi dai pm romani Nello Rossi, Stefano Fava e Stefano Pesci. I cugini Paolo e Cesare D’Amico infatti sono indagati per infedele dichiarazione nell’ambito dell’ultimo scandalo sullo Ior. Domani cercheranno di difendersi presentando ai magistrati i loro quadri Rw, con le dichiarazioni dei redditi all’estero. A coinvolgerli nel-l’inchiesta è anche monsignor Scarano che, durante l’interrogatorio di garanzia, ha dichiarato che quell’o p e ra - zione fallita di riportare 20 milioni di euro in Italia, era stata ideata per favorire proprio i D’Amico. Scarano e i D’Amico hanno rapporti da tempo. Tra i diversi contatti finiti agli atti del-l’inchiesta, secondo la Gdf, è di particolare interesse la telefonata intercettata tra Cesare D’Amico e Scarnano in cui si parla di 20 milioni di euro che i D’Amico avrebbero disposto da Montecarlo in favore del sacerdote. L’intercettazione è del 9 marzo scorso. C. D’Amico: “Sono stato a Montecarlo ed è tutto a posto. Dovrebbero arrivare i primi venti. A inizio mese te li mandano”. Scarano: “Va benissimo. Ok. Allora do istruzioni… lì allo Ior. Ti ringrazio.“

Corriere 3.7.13
Finiscono sotto inchiesta altre 13 operazioni fatte sui conti dell'Istituto opere religiose
di Fiorenza Sarzanini
qui

il Fatto 3.7.13
Elkann, cuor di Agnelli stregato dal Corriere
La riconquista del Sacro Graal
Il rampollo è sicuro di conoscere la ricetta per il rilancio di Rcs Ma forse è solo la rivincita dinastica su Della Valle
di Giorgio Meletti

Gli appassionati del risiko degli (ex) poteri forti all’italiana si dividono in due categorie. La prima giudica ironicamente il blitz di John Philip Jacob Elkann, detto Yaki, sul Corriere della Sera. Attribuiscono l’impegno finanziario su un business maturo a mero puntiglio dinastico, l’agognata riconquista del Sacro Graal del capitalismo italiano, preannunciata negli anni scorsi dai ripetuti scontri con il direttore Ferruccio de Bortoli per il trattamento giudicato ostile che il giornale riservava alla Fiat. Da 40 anni la famiglia Agnelli comanda sul Corriere, e Diego Della Valle stava per sfilarglielo. A fine 2002 Gianni Agnelli, sentendo la fine vicina, raccomandò al presidente di Banca Intesa, Giovanni Bazoli, il futuro di via Solferino. Adesso che Bazoli è in declino, Yaki subentra. Come se il 37enne nipote dell’avvocato Agnelli – immaginano gli ironici – avesse compulsato i rovinosi bilanci della Rcs sul lettino di uno psicanalista che lo interrogava paziente: “E dimmi, Jaki, che cosa pensi che avrebbe fatto tuo nonno? ”. La telefonata al presidente Napolitano, per informarlo sul colpo piazzato anche per “senso del dovere”, conferma la valenza simbolica della vicenda.
La seconda categoria rifiuta la leggenda freudiana del giovane schiacciato dalla precoce responsabilità di perpetuare l’impero di famiglia. Elkann ha dimostrato di saper fare molto bene gli interessi suoi e della famiglia, notano gli estimatori. La finanziaria Exor, negli ultimi anni, è stata una macchina da soldi. Affidata a Sergio Marchionne la gestione della principale controllata (la Fiat), Elkann ha proseguito la strategia degli investimenti diversificati inaugurata da Umberto Agnelli. In questo modo all’accomandita Giovanni Agnelli, che custodisce il controllo di Exor e i delicati equilibri della ramificata famiglia, vengono garantiti ogni anno dividendi attorno ai 40 milioni di euro, sostegno per il tenore di vita di decine di parenti. La mossa sul CorrieredellaSera è dunque oculata o istintiva? Vediamo i dati. La Rcs Mediagroup, che oltre al Corriere contiene numerosi periodici e il vasto ramo dei libri, vale in Borsa circa 200 milioni di euro. Dopo l’aumento di capitale da 400 milioni, in sottoscrizione fino a venerdì, varrà, si spera, 600 milioni. La Fiat ha speso circa 90 milioni per portarsi dal 10,5 per cento a poco più del 20 per cento, diventando il primo azionista.
Il duello rusticano con Diego Della Valle
Elkann ha voluto sbarrare la strada a Diego Della Valle. L’industriale marchigiano ha ambito per anni a sostituirsi ai soliti noti dei salotti buoni alla guida dell’ammiraglia del-l’editoria. Tra i due vige un’avversione personale celebrata dallo “scarparo”, come lo definì sprezzante Cesare Romiti, con pubblici insulti di cui citiamo a mero titolo esemplificativo: ragazzino che ancora non sa lavarsi i denti, maldestro, furbetto cosmopolita, stratega di cose più grandi di lui, si dedichi a sci, vela e golf. Elkann solo una volta si è lasciato andare a chiamare Della Valle “irresponsabile”. Un accordo tra i due – del tipo che mister Tod’s investe 100-200 milioni di euro in Rcs per far comandare il ragazzino maldestro, oppure Elkann accetta di discutere con lo scarparo il nome del prossimo direttore del Corriere – è impensabile.
Se Bazoli insiste su un accordo con Della Valle è perché Rcs ha bisogno di capitali, e se non li mettono i soci litiganti devono scucirli le banche. Per ora Elkann è convinto di poter contare sulla fedeltà di soci come Unipol, Pesenti e Pirelli, oltre alle banche. È convinto di farli contenti passando dalla fase del condominio litigioso alla guida forte che riporta la Rcs a utili e dividendi. Però il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, ha appena annunciato con squilli di trombe che è finito il tempo delle “partecipazioni strategiche” e dei patti di sindacato, insomma dei salotti dove ci si spartisce il potere con i soldi degli altri. Corollario della doverosa presa d’atto: neppure Mediobanca vuol più saperne di svenarsi per via Solferino. Elkann per ora esclude la prospettiva di diventare non il primo azionista di Rcs ma pressoché l’unico. Ma deve pensarci. Benché secondo Elkann stia molto meglio di un anno fa, Rcs è in condizioni precarie. L’aumento di capitale da 400 milioni fa seguito a una perdita cumulata di 907 milioni (circa due terzi del fatturato), che ha visto in due anni quasi azzerato il miliardo di patrimonio netto, cioè capitale sociale e riserve. Per darle un futuro serviranno altri soldi e, se non ci saranno soci disposti a investire lasciando comandare la Fiat, dovrà pensarci la cassa Exor. A forza di mettere soldi, Elkann salirebbe al 30 per cento, e scatterebbe l’obbligo di Opa (offerta di acquisto) su tutto il capitale. Ai valori attuali questo significa aggiungere ai 90 milioni iniziali altri 3-400 milioni per l’Opa, più gli investimenti sul futuro. Parte dei 2 miliardi di liquidità di cui oggi dispone Exor troverebbe così destinazione. L’ipotesi è esclusa seccamente da Elkann, però il mercato ci crede, e il titolo Rcs vola.
Escluso che un giorno, come suo nonno, diventi capo dell’auto, Elkann ha nell’editoria la sua cifra identitaria. Da studente dirigeva il giornale del Politecnico di Torino, per il quale riusciva a strappare interviste a personaggi del calibro di Marco Tronchetti Provera e Luca di Montezemolo. Nel 1999, a 23 anni, guidò l’avventura di Ciaoweb, il portale con cui la Fiat bruciò almeno 200 miliardi di lire sull’altare della prima bolla internet. Poi si è occupato de La Stampa, che oggi non se la passa benissimo. È nei consigli dell’Economist e della News Corp di Rupert Murdoch. Ed è sicuro di conoscere la terapia giusta per il Corriere: l’editoria digitale. Anche per questo ha voluto alla Rcs Pietro Jovane, proveniente dalla Microsoft. Recentemente, alla domanda se non ritenesse opportuno ridurre la foliazione dei giornali togliendo le notizie già note su web e tv, ha risposto di fronte all’attonito De Bortoli: “Sarei felice di parlarne con i direttori, ma è molto difficile convincerli”. Lui quindi sa come si fa. Auguri.

La Stampa 3.7.13
“Metodo Stamina, plagio con errori”
Sotto accusa la presunta tecnica che riuscirebbe a trasformare le cellule mesenchimali in neuroni
La bocciatura degli esperti di “Nature”: dati non validi e immagini copiate da uno studio russo
di Paolo Russo
qui

La Stampa 3.7.13
Gli studiosi di staminali: “Ecco le prove della grande truffa”
“E ora fermiamo questa follia medica”
di Valentina Arcovio

Dati non validi e immagini copiate. Sono gravissime le nuove accuse di «Nature». E gravissime sono le prove che inchioderebbero, una volta per tutte, Davide Vannoni e la bontà del trattamento.
«Nature» pubblica, infatti, la motivazione che ha spinto l’ufficio brevetti degli Usa a rifiutare la domanda di Vannoni, inoltrata nel 2010 con lo scopo di tutelare il suo metodo. Un rigetto secco e severo che, pur ammettendo per regolamento un appello, lo stesso Vannoni avrebbe accettato senza ribattere. L’ufficio brevetti americano, secondo «Nature», avrebbe rigettato la richiesta della Stamina Foundation perché non includeva sufficienti dettagli sulla metodologia. Non solo. Gli esperti americani hanno espresso fortissimi dubbi sulla capacità del metodo di trasformare le cellule mesenchimali in neuroni e hanno concluso che, al massimo, la procedura portasse a cambiamenti citotossici delle cellule trattate. «Il testo del brevetto sembra ridicolo, grossolano e pieno di errori scientifici», rincara Michele De Luca, ordinario di Biochimica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia ed esperto nel campo della biologia delle cellule staminali mirata alla medicina rigenerativa. «In sintesi, l’ufficio brevetti americano dice che il metodo Stamina non ha alcuna sussistenza e che i prodotti finali sono solo un’alterazione della tossicità delle cellule e non neuroni», aggiunge. «Ad oggi non è infatti possibile riuscire a trasformare cellule mesenchimali, che in genere possono dare origine a tessuto osseo, cartilagineo e adiposo, in neuroni», spiega Elena Cattaneo, docente all’Università di Milano e direttrice del centro di ricerca sulle staminali UniStem.
Ma le accuse di «Nature» non si fermano al solo parere dell’ufficio brevetti americano. La rivista rivela che nella richiesta di brevetto di Vannoni è stata riportata una figura copiata da un’altra ricerca pubblicata precedentemente e che non ha avuto alcun seguito. «La figura in questione - riferisce Cattaneo - sarebbe quella più importante, che avrebbe dovuto dimostrare che il metodo Stamina era in grado di trasformare le cellule in neuroni in sole due ore. In realtà, quella immagine è stata copiata da un paper russo, in cui si sostiene che per ottenere neuroni servirebbero tre giorni e una diversa concentrazione delle sostanze utilizzate da Stamina. E in entrambi i metodi si parla di neuroni che non sono neuroni».
La ricetta di Stamina a base di acido retinoico, sciolto in etanolo ad una concentrazione di 20 micromolare, produrrebbe solo cellule indefinite e verosimilmente non vitali. «Vannoni ha copiato pezzi di una ricerca, su cui ci sono grosse perplessità», precisa Cattaneo. A confermare il plagio è stata Elena Schegelskaya, biologa alla Kharkiv National Medical University che ha coordinato il team che ha riconosciuto subito anche altre figure. «E’ una truffa vera e propria - sottolinea De Luca - che dimostra l’inconsistenza del metodo Stamina». Secondo gli scienziati, in gioco non c’è solo la reputazione di un Paese, ma la salute di alcuni cittadini. «Ora ci sono medici - dice De Luca che stanno iniettando qualcosa di oscuro, forse cellule moribonde, che possono danneggiare ulteriormente la loro salute. Bisogna fermare questa follia».

La Stampa 3.7.13
“Stamina, plagio e dati falsi”
di Piero Bianucci

Un plagio e un falso. Questo è secondo «Nature» il «metodo Stamina» che promette di curare gravissime malattie neurologiche. «Nature» va all’attacco della controversa terapia propugnata da Davide Vannoni. Una terapia fin dall’inizio contestata dalla comunità scientifica, perseguita penalmente dal magistrato Raffaele Guariniello, disperatamente reclamata dalle famiglie di bambini malati.
Epoi concessa in via compassionevole dall’Ospedale di Brescia e infine, a furor di popolo, ammessa alla sperimentazione dal ministro Balduzzi del governo Monti. Decisione pochi giorni fa confermata dal ministro Lorenzin del governo Letta. Tre milioni di euro che i ricercatori ritengono gettati dalla finestra.
E’ la seconda volta in tre mesi che «Nature» va all’attacco del metodo Stamina. La prima risale alla fine di marzo. Allora si trattò di un articolo di Alison Abbott che dava la rappresentazione di una Italia con poca cultura scientifica e molta demagogia. Era quasi giornalismo di costume. Campeggiava la foto di una ragazza bionda a seno nudo con la scritta «Sì alla vita». Adesso è arrivato l’affondo. La documentazione scientifica presentata da Davide Vannoni per ottenere negli Stati Uniti il brevetto (negato) della cura sarebbe stata costruita con una fotografia rubata da un articolo pubblicato nel 2003 da una ricercatrice russa. Mostra neuroni che sarebbero derivati dalla trasformazione di staminali del midollo osseo. Altro falso. Non è così. Finora nella letteratura scientifica internazionale questa trasformazione non è mai stata provata, mentre è vero che dal midollo osseo sono state ottenute cellule di ossa, cartilagine e pelle. Parola di Elena Cattaneo, ricercatrice di fama internazionale, pioniera degli studi sulle staminali.
Chi ha qualche anno e buona memoria prova un’impressione di déjà-vu. Nel 1997 scoppiava il caso Di Bella: una cura per il cancro che sembrava fare miracoli proposta da un oscuro professore dell’Università di Modena. Non aveva alcun fondamento scientifico. Ma anche allora finì in demagogia. E in talk show condotti da Bruno Vespa e Maurizio Costanzo, con Di Bella nella parte dell’eroe solitario, vittima di una «oncologia ufficiale» interessata e oscurantista. Finché, anche allora, il ministro della Sanità (all’epoca era Rosy Bindi) cedette sotto la pressione delle piazze e partì una sperimentazione, che ovviamente diede risultati negativi. Ma intanto si erano sprecati soldi pubblici e, soprattutto, furono curati con acqua fresca malati che forse sarebbero guariti grazie a farmaci già ben validati.
Di Bella era in buona fede, cosa che forse non si può dire di chi lo circondava. Ho conosciuto Vannoni ben prima del caso stamina, e so che tutto nasce da una sua esperienza personale. Non è medico, è psicologo con interessi sociologici. Anche qui, buona fede, almeno come punto di partenza. Ma i cittadini si domandano perché nel nostro Paese questioni che dovrebbero essere risolte su base razionale debbano diventare psicodrammi collettivi.
Il problema è forse nel meccanismo stesso della comunicazione. Troppo spesso in Italia invece di far parlare dati scientifici condivisi dalla comunità scientifica si imbocca la strada sdrucciolevole dei sentimenti, delle opinioni e infine della demagogia. Quale argomento razionale è sostenibile di fronte a una bella ragazza a seno nudo con la scritta «Sì alla vita? ».
Il fatto è che non bisognerebbe arrivare lì. In un Paese con una cultura scientifica un po’ migliore di quella che abbiamo in Italia, non ci si arriverebbe. I medici saprebbero parlare all’intelligenza dei malati e dei loro pazienti prima e meglio dei profittatori. I giornalisti non farebbero spettacolo di drammi umani. Cervello e pancia non si mescolerebbero. Certo è difficile rivolgersi a genitori di bambini condannati a una fine terribile dalla malattia di Niemann-Pick. La disperazione non ragiona. Ma chi specula su quella disperazione dovrebbe trovarsi isolato. Invece c’è chi è pronto a mettere in scena l’eterno canovaccio: buoni e deboli contro cattivi e potenti, il genio incompreso contro l’ottusità del potere medico. Tre milioni di euro sprecati nella sperimentazione sono il prezzo di qualche sciagurato risparmio nell’istruzione pubblica.

Corriere 3.7.13
Che cosa non funziona in quella cura
di Giuseppe Remuzzi

Dove eravamo rimasti? A pochi punti fermi: 1) per la malattia di Sofia — i medici la chiamano leucodistrofia metacromatica — non ci sono cure e nulla di quello che è stato fatto finora ha mai dato nessun risultato; 2) il trapianto di midollo qualche volta aiuta ma solo se lo si fa nelle primissime fasi della malattia; 3) sulle cellule staminali mesenchimali ci sono diversi studi pubblicati ma nessuno è mai stato capace di dimostrare che questa cura portasse qualche vantaggio agli ammalati; 4) Luigi Naldini sta provando a correggere il difetto del gene malato; qualcosa si vede, vale la pena di andare avanti. E il metodo Stamina? Non c'è nulla di nuovo in quello che propongono di fare e quel poco che si sa dimostra che questo metodo potrebbe persino essere pericoloso. Per differenziare le cellule si impiega l'acido retinoico, cosa che si è sempre fatta, ma quelli di Stamina utilizzano concentrazioni e tempi di incubazione incompatibili con il benessere delle cellule. Dicono che la novità sta nel fatto che l'acido retinoico è sciolto in etanolo ma questo lo si fa dagli anni 90 e ci sono persino delle preparazioni commerciali. Quelli che hanno analizzato i preparati di Stamina per conto dell'Istituto Superiore di Sanità ci hanno trovato ben poche cellule rispetto a quelle che si dovrebbero usare per curare le malattie e hanno visto che quelle poche perdono attività nel giro di poche ore. E poi ci sono contaminanti ambientali (sporcizia insomma) e persino sangue in quelle preparazioni e il sangue trasmette infezioni.
Ma i giudici vanno avanti, impongono all'Ospedale di Brescia di trattare altri ammalati con malattie neurologiche anche diverse perché gli hanno fatto credere che col metodo Stamina si cura di tutto, dal Parkinson alla malattia del motoneurone, al coma. A questo punto il Parlamento decide di autorizzare una sperimentazione purché le cellule siano preparate con le regole della scienza e in laboratori autorizzati. Lo studio durerà 18 mesi e costerà allo Stato, cioè a tutti noi, 3 milioni di Euro. È stata una decisione giusta? Io penso di sì. Di fronte alla pressione dell'opinione pubblica, al desiderio degli ammalati di essere curati, ai giudici che ti impongono di farlo, il Parlamento non aveva scelta. Imporre a Stamina le regole della scienza e farlo in laboratori che rispettino quelle che ormai tutti chiamano buone pratiche di laboratorio era un modo per proteggere gli ammalati. Stamina naturalmente protesta. Fanno riferimento a un brevetto depositato negli Stati Uniti e poi all'autorizzazione dell'Aifa. Le cose non stanno proprio così. Il brevetto è stato depositato ma non è mai stato approvato e l'Aifa non ha mai rilasciata una autorizzazione formale. Ha solo preso atto di un'autocertificazione dell'Ospedale di Brescia: poche righe scritte male e che forzano i termini della normativa. Nature scopre tutto. Il metodo non c'è, ci sono invece una serie di imbrogli, secondo la rivista scientifica. Le fotografie allegate alla richiesta di brevetto non sono originali e non sono nemmeno di Stamina. Le hanno prese da due lavori pubblicati da ricercatori russi, le hanno copiate insomma, proprio come fanno a scuola i bambini poco studiosi.
C'è lo zampino di tre grandi studiosi nell'aver scoperto questa truffa: Paolo Bianco, dell'Università di Roma, Michele De Luca, che lavora da anni per riparare le cornee con le cellule, e Elena Cattaneo dell'Università di Milano, che studia le cellule per curare certe malattie neurologiche rare e gravissime. Loro hanno lavorato giorno e notte alla ricerca della verità e per fare in modo che chi ha la responsabilità della nostra salute lo possa fare partendo dai fatti. Tutti noi, e quelli si occupano di medicina e ricerca con rigore e onestà, e ancora di più gli ammalati, dovremmo essere grati per sempre a questi tre dottori.
Il commento più bello a questa povera storia l'ha fatto in Parlamento Giulia Di Vita, del Movimento 5 Stelle: «Da giovane ingenua, onesta, condizionabile, faccio un ragionamento molto semplice e terra terra, se io fossi uno scienziato che ha scoperto una cura e se avessi davvero come unico scopo salvare le vite di bambini e adulti senza speranza di cura la renderei subito pubblica, documenterei per filo e per segno tutto quello che faccio a chi di competenza in modo che si possa sviluppare e diffondere il più presto possibile anche al di fuori del mio Paese e cambiare davvero la storia. Ma forse sono davvero troppo ingenua».

l’Unità 3.7.13
Morsi resiste
Egitto verso il golpe militare
Dal movimento islamico del presidente appello contro il «colpo di Stato dell’esercito»
L’esecutivo rimette il mandato. Senza accordo, le forze armate scioglieranno il Parlamento
di Umberto De Giovannangeli

L’Egitto è sull’orlo del baratro. Sospeso tra golpe e martirio. Mentre il tempo corre verso la scadenza delle 48 ore imposte dall’esercito al presidente Morsi per trovare un accordo con l’opposizione, ultimatum respinto dalla presidenza, da fonti militari trapelano dettagli sulla bozza di road map tracciata dall’esercito per la transizione che seguirebbe la deposizione di Morsi. In particolare, sarebbe previsto lo scioglimento del Parlamento e la sospensione della Costituzione. Il progetto prevede anche modifiche alla Carta entro pochi mesi, seguite da elezioni presidenziali anticipate.
CAOS TOTALE
I Fratelli musulmani, il movimento del presidente Morsi, hanno lanciato un appello al «martirio» per fermare quello che denunciano essere un tentativo di colpo di Stato dei militari. «Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione», ha esortato Mohamed al-Beltagui, segretario generale del partito Libertà e Giustizia.
Il riferimento è all’ultimatum di 48 ore posto l’altro ieri dal ministro della Difesa e capo delle forze armate, il generale Abdel Fattah al Sisi. Intanto il premier Hisham Qandil ha messo a disposizione il suo mandato nella mani del presidente Mohamed Morsi. La mossa arriva dopo che lo stesso Morsi, l’altra notte, ha respinto l’ultimatum delle forze armate. «Proseguirò nella mia azione di
riconciliazione nazionale. I militari devono farsi da parte e non interferire con la vita civile del Paese. Le loro richieste non possono essere prese in considerazione», è stata la secca risposta del presidente all’aut aut dei militari. Morsi, inoltre, ha rilevato nelle parole usate dal capo delle Forze Armate «alcune frasi contenute nell’ultimatum stesso che potrebbero creare confusione».
Per sgombrare il campo da ogni illazione, l’Fsn, principale coalizione dell’opposizione egiziana, ha affermato in un comunicato di non sostenere l’idea di un colpo di Stato militare, sottolineando che l’ultimatum lanciato dall’esercito al presidente islamista «per soddisfare le rivendicazioni del popolo» non equivale a dire che l’esercito intenda giocare un ruolo politico nella vicenda, come dichiarato dagli stessi vertici militari.
VUOTO POLITICO
Assieme al premier Qandil, il presidente egiziano, scrive l’agenzia Mena, ha ricevuto il ministro della Difesa e capo delle forze armate Abdel Fattah el Sissi, che a sua volta ha presieduto la riunione del consiglio militare. Secondo fonti militari, le truppe sarebbero pronte a schierarsi nelle strade del Cairo e delle altre città egiziane per prevenire scontri tra i sostenitori di Morsi e quelli dell’opposizione. Il bilancio della nuova ondata di protesta in Egitto al momento è di 16 morti e 781 feriti.
Il fortino del presidente egiziano continua a scricchiolare. Al di là delle dichiarazioni, lo testimoniano le defezioni in poche ore di sei ministri, tra i quali il titolare degli Esteri, i due portavoce della presidenza, Omar Amer e Ihab Fahmy, che hanno presentato le loro dimissioni facendo richiesta di rientrare proprio al ministero degli Esteri. Dimissionario anche il portavoce del governo, Alaa el Hadidi.
MESSAGGI USA
Su Morsi ha cominciato a fare pressioni anche Barack Obama, che lo ha chiamato esprimendogli preoccupazione per l’escalation della crisi e chiedendogli di rispettare le richieste della piazza. Washington sta «facendo pressioni» sul presidente egiziano affinché convochi le elezioni e contemporaneamente ha avvertito l’esercito del rischio di un golpe militare: lo hanno riferito funzionari dell’amministrazione alla Cnn. «Stiamo discendo (a Morsi) che trovi un modo per andare a nuove elezioni: questa può essere l’unica maniera perché il braccio di ferro si risolva», ha spiegato un alto funzionario di governo. Secondo la fonte, l’amministrazione Usa sta anche cercando di convincere Morsi a «nominare un nuovo premier e un nuovo governo» per «dimostrare all’opposizione che sta governando per tutti gli egiziani». Gli Usa hanno anche avvertito le forze armate che un golpe militare farebbe tagliare gli aiuti che Washington fornisce alll’Egitto, pari a 1,5 miliardi di dollari all’anno.
Dopo aver accolto con un boato di giubilo la notizia del aut-aut dei militari a Morsi, il movimento dell’opposizione ha sollecitato i manifestanti a rimanere in piazza Tahrir fino alle dimissioni del presidente. E torna d’attualità il nome di Mohamed el-Baradei. L’ex capo dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), premio Nobel per la pace nel 2005, che si era presentato alle prime elezioni presidenziali post-Mubarak e poi si era ritirato, è stato individuato dai vari gruppi della coalizione dell’opposizione egiziana per rappresentarli nei negoziati sul futuro del Paese. Con l’avvicinarsi della scadenza dell’ultimatum dei militari, l’aria che si respira al Cairo si fa sempre più pesante. Il ministro della Difesa e capo delle forze armate egiziane, il generale el Sissi, avrebbe chiesto esplicitamente a Morsi di cedere il potere per salvare quelle vite che andrebbero perse negli scontri tra l’opposizione e i suoi sostenitori nell’eventualità di una sua resistenza ad oltranza. Lo riferisce la rete panaraba Al Arabiya. Per l’Egitto sono ore drammatiche. Avvisaglia di una giornata destinata a segnare il futuro del Paese. Con o senza Morsi.

il Fatto 3.7.13
Morsi sotto assedio resiste ai militari e spera nei Fratelli
Oggi scade l’ultimatum delle forze armate, il movimento musulmano unico sostegno
di Francesca Cicardi

Il Cairo Il presidente egiziano Mohamed Morsi e i Fratelli Musulmani non sembrano disposti a lasciare il potere, che hanno conquistato con sangue e sudore dopo oltre 80 anni di vita politica in clandestinità. La presidenza ha respinto in un comunicato l'ultimatum di 48 ore lanciato dall’Esercito il giorno prima, interpretato da molti come un colpo di stato contro l’islamista, che ieri ha incontrato il ministro della Difesa e leader dei generali “golpisti”.
Non sembra vi siano progressi per un eventuale accordo per risolvere la crisi entro questo pomeriggio, quando scadrà l’ultimatum. I militari hanno già pronta una “road map” – che prevede scioglimento delle Camere e annullamento della Costituzione - ma la presidenza ha insistito a continuare il “dialogo nazionale”, lanciato mesi fa e mai accettato dall’opposizione, che ora ha rapidamente assecondato l’iniziativa dei militari, anche se ufficialmente è contraria al ritorno dei generali.
Il movimento di protesta ha designato l’ex candidato presidenziale e Premio Nobel della Pace el Baradei portavoce del fronte anti Morsi, e interlocutore di un eventuale negoziato. Ma le forze rivoluzionarie si preparano già al post-Morsi, e la loro road map non dista molto da quella ideata dai militari.
A piazza Tahrir, dove sono arrivate le rumorosissime vuvuzuelas e l’ambiente è sempre più di festa, assicurano che il presidente sarà fuori dal palazzo oggi stesso, e quasi nessuno teme che si terrà un golpe violento o un conflitto sanguinoso.
Intanto, gli islamisti hanno detto che resisteranno a qualsiasi “tentativo di colpo” contro il presidente eletto democraticamente e hanno chiesto ai fedeli di scendere nelle strade e le piazze del paese per rivendicare la legittimità di Morsi. Uno dei leader storici della Fratellanza ha persino dichiarato che la resistenza contro un “golpe” potrebbe implicare il “martirio”. Nel grande accampamento di Rabaa al Adawiya, alla periferia del Cairo, i sostenitori di Morsi si preparano per lottare, cantando strofe per il presidente e la sharia (legge islamica). “Il presidente non è solo, moltissime persone sono con lui, in tutto il paese, e siamo disposti a sacrificare anche la vita”, assicurava Atif, un manifestante arrivato dal Delta del Nilo. Opinioni divise sull’ultimatum dell’esercito, che non spaventa e non preoccupa più di tanto, mentre gli elicotteri che sorvolano la capitale ininterrottamente vengono accolti con fischi dai “barbuti”. Gruppetti di giovani Fratelli si allenavano ieri, con fasce in testa, bastoni e altre armi. La Fratellanza è compatta e unita, e soprattutto gerarchica: l’obbedienza cieca potrebbe avere dei risultati drammatici per l’Egitto, che sogna ancora di poter risolvere l’impasse solo con la pressione della piazza. Anche quella internazionale potrebbe avere la sua importanza e, ancora una volta, sia l’Esercito che Morsi, aspettano un cenno degli Usa per la prossima mossa.

Corriere 3.7.13
Mahmoud, leader gentile. E la rivolta nata in un caffè
di Cecilia Zecchinelli

IL CAIRO — Fino a qualche settimana fa nessuno lo conosceva, era solo uno dei tantissimi giovani del Nuovo Egitto scontenti del governo islamico. Adesso è diventato «il volto della Ribellione», portavoce del movimento nato tre mesi fa quasi per caso, rivelatosi la forza trainante dell’opposizione laica che ha ritrascinato in piazza il Paese. Mahmoud Badr ora è anzi una star, e dai media ai diplomatici stranieri tutti vogliono incontrarlo. «Ma parlargli è diventato impossibile, è troppo impegnato tra le proteste e le riunioni politiche ad alto livello, perfino con i generali», dice un suo amico. Che spiega come quel 28enne «piccolino e dall’aria gentile» abbia però «una forza incredibile». Tanto da aver trasformato il progetto di raccogliere «qualche migliaio di petizioni contro Morsi», nato con quattro amici in un caffè del Cairo in aprile, in una valanga di 22 milioni di schede.
Nato a Shibin, 34 chilometri a Nord del Cairo, Badr ha respirato politica fin da piccolo. L’area è una roccaforte di nasseriani, ospita l’unica statua rimasta del solo raìs davvero amato dal popolo, Gamal Abdel Nasser appunto. Il padre Ismail, avvocato e attivista, ha passato al figlio maggiore la passione politica e la linea (nasseriana ovviamente). «Già nel 2004 Mahmoud usava i soldi delle ripetizioni per scappare al Cairo e protestare con Kifaya!, il primo movimento anti-Mubarak», ricorda l’amico. E trasferitosi nella capitale, dove si è laureato in informatica e ha lavorato come giornalista, Badr è rimasto in quel movimento. Fino a tempi recenti, quando i giovani di Kifaya! hanno contestato i vecchi leader ma hanno perso e se ne sono andati. Problemi sono sorti anche nel quotidiano Tahrir, dove Badr ha lavorato per un anno per poi guidare la protesta di un gruppo di colleghi contro il direttore. Anche qui i ribelli hanno perso e si sono dimessi. Ma da quelle due sconfitte Badr, con i quattro amici, ha trovato la forza di creare Tamarrod. In un paio di mesi il movimento aveva già una sede in centro (prestata dall’attrice Sharihan), un sito web, 200 mila volontari per raccogliere le famose firme. E aveva guadagnato il sostegno dell’intera opposizione che ha visto in Tamarrod una nuova chance, anche se è evidente la rivalità con il 6 Aprile, il più importante movimento di giovani di Tahrir del 2011, della «rivoluzione di Facebook». Badr, che due anni fa era in piazza come oggi, e i suoi non disdegnano social network e Internet, ma hanno privilegiato il porta a porta, il volantinaggio nelle strade, come una volta. E la lingua della petizione è il dialetto, che capiscono tutti.
Adesso, mentre il Paese si avvia a una nuova svolta, sono molti che vorrebbero Mahmoud Badr tra i leader politici dell’Egitto. Lui pare d’accordo. Anzi, dieci giorni fa, ha detto alla Reuters che potrebbe perfino candidarsi da presidente. «Per le legge dovrò aspettare fino ai miei 40 anni – ha aggiunto – ma perché no? ».

Repubblica 3.7.13
L’intervista allo scrittore Khaled Al-Berry
“È un regime fascista, lo spazzeremo via”
di Enrico Franceschini

Non è questo il Paese che avevamo in mente quando, con la Primavera, abbiamo fatto cadere Mubarak
Khaled Al-Berry, ex fondamentalista islamico, oggi scrittore di successo: “Il governo ha fallito”

LONDRA — «La città deve vincere sulla campagna, l’istruzione sull’ignoranza e sull’estremismo religioso ». Di estremismo Khaled Al-Berry ne sa qualcosa: prima di diventare uno degli scrittori egiziani più apprezzati della sua generazione, è stato da ragazzo un militante della Gamaat al-Islamiyya, il movimento radicale islamico accusato di attività terroristica. Una scelta che Al-Berry ha presto rinnegato: il suo saggio La terra è meglio del paradisoè un j’accuse contro il terrorismo, e il suo romanzo Danza orientale (un best-seller in Inghilterra, in Italia lo pubblica ora Mondadori) è ambientato nella Londra del 2005, teatro dell’attentato suicida di Al Qaeda nellametro della capitale britannica, dove ha vissuto a lungo. Ma ora è tornato al Cairo.
Come giudica quello che sta accadendo nel suo paese?
«E’ un altro passo avanti nel lungo cammino che il popolo egiziano deve compiere per diventare uno stato moderno. Ma resta molta strada da fare».
La pur legittima conquista del potere da parte di un partito islamico si è rivelata un fallimento?
«E’ la conferma di una lunga scia di fallimenti. L’Egitto dovrebbe saperlo: ha vissuto per 1200 anni sotto un regime religioso. Per noi è stata un’era simile a quella dei secoli bui in Europa, ma molti egiziani non lo sanno, perché la censura ha impedito di raccontarlo».
I milioni di persone che protestano contro Morsi significano che le forze secolariste stanno riprendendo in mano la rivoluzione iniziata con il rovesciamentodi Mubarak?
«In piazza vi è un ampio raggio di forze diverse. Quello che le tiene insieme è l’aver compreso che un regime fascistoide non è quello che avevamo in mente quando abbiamo rovesciato Mubarak. Quando le elezioni hanno dato il potere agli islamici, lo abbiamo tutti accettato in nome della democrazia: ma Morsi ha messo la retromarcia, cambiato le regole, le stesse che lo hanno portato al potere».
Esiste il rischio di una guerra civile?
«Non penso che si arriverà a tanto. C’è il rischio di episodi di terrore, ma non di un conflitto intestinotra egiziani».
E’ possibile separare “stato” e “moschea” nel mondo islamico?
«L’Egitto ci ha provato. Non ci è riuscito a causa dell’ignoranza che pervade le campagne e dell’influenza che l’Islam ha su masse povere e poco istruite. La modernizzazione vincerà in Egitto quando la città vincerà sulla campagna. La conoscenza e la cultura devono prevalere sull’oscurantismo».
Resta ottimista sull’esito della “primavera araba”?
«La primavera araba è la cosa migliore che è avvenuta nel corso della mia vita. E, sì, rimango ottimista sui suoi esiti, certamente in Egitto, e in generale anche nel resto della regione, vista l’influenza che il mio paese esercita sul resto del Medio Oriente».

Repubblica 3.7.13
La Sharia non dà da mangiare
Il Paese è vicino al baratro, ora ci serve un governo vero
di Mohammed El Baradei

IL CAIRO APPENA due anni dopo la rivoluzione che ha rovesciato un dittatore, l’Egitto è già uno Stato fallito.
STANDO all’Indice degli Stati falliti, nell’anno che precedette la rivolta occupavamo la quarantacinquesima posizione. Dopo la caduta di Hosni Mubarak la situazione è peggiorata, e oggi ci troviamo al trentunesimo posto. Di recente non ho controllato la classifica – non voglio deprimermi ulteriormente – ma le prove del fallimento sono sotto i nostri occhi.
Oggi in Egitto assistiamo all’erosione dell’autorità statale. Lo Stato dovrebbe fornire sicurezza e giustizia: la forma più basilare dei suoi doveri. L’ordine pubblico invece si sta disintegrando. Stando al ministero dell’Interno, nel 2012 gli omicidi sono aumentati del 130 per cento, le rapine del 350 per cento, e i sequestri di persona del 145 per cento. Si vedono personeche vengono linciate in pubblico mentre altre fotografano la scena. Vi ricordo che siamo nel XXI secolo, e non all’epoca della Rivoluzione francese!
Si ha la sensazione che non vi sia un’autorità statale in grado di far rispettare l’ordine pubblico, e di conseguenza tutti pensano che tutto sia possibile. Naturalmente ciò genera molta paura e molta ansia.
Viste le circostanze, non ci si può aspettare che la vita economica proceda come se nulla fosse. La gente è molto preoccupata. Chi ha denaro – che si tratti di egiziani o stranieri – non lo investe. In un contesto dove l’ordine pubblico è sporadico, le istituzioni non svolgono i compiti che spettano loro e non si sa cosa accadrà l’indomani, è naturale che non si voglia investire. Di conseguenza, le riserve estere dell’Egitto sono state esaurite. Il deficit di bilancio quest’anno toccherà il dodici percento e la sterlina egiziana è svalutata. Ogni giorno, al risveglio, circa un quarto dei nostri giovani al non ha un lavoro da svolgere. In ogni settore, i fondamentali dell’economia appaionosballati. Nei prossimi mesi l’Egitto potrebbe rischiare il default del proprio debito estero, e il governo sta disperatamente cercando di ottenere da diverse fonti una linea di credito. Ma non è così che si rimette in moto l’economia. Occorrono investimenti stranieri, occorrono delle solide politiche economiche, occorrono delle istituzioni che funzionano e occorre una forza-lavoro qualificata.
Sino ad ora, tuttavia, il governo egiziano si è limitato ad offrire una visione raffazzonata e qualche politica economica mirata, senza assumere con decisione il timone dello Stato. Lo scorso dicembre il governo ha adottato delle misure di austerità per soddisfare alcuni requisiti del Fmi – salvo poi revocarle l’indomani. Nel frattempo i prezzi hanno subito un’impennata e la situazione sta diventando insostenibile, in particolare per la quasi metà della popolazione che sopravvive con meno di due dollari al giorno.
Il ramo esecutivo non ha idea di come guidare l’Egitto. Non si tratta di appartenere ai Fratelli musulmani o di essere liberal: il fatto è che si tratta di persone prive di una visione e di esperienza, che non sanno diagnosticare il problema né implementare una soluzione. Semplicemente, non sono qualificate per governare.
Da mesi noi dell’opposizione cerchiamo di fare presente al presidente Mohammed Morsi e compagnia bella che l’Egitto ha bisogno di un governo competente e imparziale, per lo meno sino alle prossime elezioni parlamentari. Abbiamo bisogno di un comitato di ampi consensi per emendare la Costituzione egiziana, la quale secondo un’opinione pressoché unanime non assicura un adeguato equilibrio di poteri né garantisce diritti e libertà fondamentali. Abbiamo inoltre bisogno che si crei un’alleanza politica tra i Fratelli musulmani, i quali probabilmente rappresentano meno del venti percento della popolazione, e gli altri partiti – compresi quelli di orientamento islamico. Purtroppo tutte queste raccomandazioni sono cadute nel vuoto.
Anche i Fratelli stanno perdendo molti voti, perché malgrado tutti i loro slogan altisonanti non sono stati in grado di tenere fede alle promesse. La gente vuole poter mettere in tavola del cibo, vuole assistenza sanitaria, vuole istruzione e tutto il resto – e il governo non è riuscito a soddisfare le aspettative. La Fratellanza non si avvale di individui qualificati, che invece appartengono ai partiti liberal e alla sinistra. Occorre formare una grande coalizione, mettere da parte le differenze ideologiche e lavorare insieme concentrandosi sulle esigenze fondamentali del popolo. Lasha’ria non dà da mangiare.
Stiamo pagando il prezzo di anni e anni di repressione e di governo dittatoriale. Per molti era una situazione comoda, che non li obbligava a prendere delle decisioni in maniera indipendente. Adesso, dopo la rivolta, tutti sono liberi ma si respira una forte sensazione di disagio. È il dilemma esistenziale tra il desiderio di essere liberi e la gruccia che ci viene fornita quando qualcuno ci dice cosa fare. La libertà è ancora un concetto nuovo.
Gli ostacoli che ci troviamo di fronte derivano nella maggior parte dei casi dalla vecchia dittatura. La ferita è ancora aperta e il pus deve fuoriuscire completamente. Dobbiamo pulire quella ferita – non possiamo limitarci a coprirla con un cerotto. Come invece facciamo quando ci affidiamo alle solite idee, ormai superate. La rivolta non mirava a cambiare le persone, ma a cambiare il nostro modo di pensare. Oggi vediamo dei volti nuovi che però pensano come si pensava prima, all’epoca di Mubarak. Anche se questa volta sono ammantati di una patina di religiosità.
Sino a che punto può peggiorare la situazione? Se l’ordine pubblico continuerà a deteriorare ci si presenteranno naturalmente diverse opzioni. Adesso la gente dice ciò che tempo fa sarebbe sembrato impossibile: vogliono il ritorno dell’esercito affinché stabilizzi la situazione. In alternativa, potremmo assistere a una rivolta dei poveri, che sarebbe furiosa e violenta. Il fallimento di uno Stato non è la cosa peggiore che possa capitare, ma ho paura che l’Egitto si trovi sull’orlo del precipizio.
©Foreign Policy La Repubblica (Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 3.7.13
Il faraone è rimasto solo
di Bernardo Valli

QUEL che accade in Egitto in queste ore è un disastro e una grande lezione. Da un lato c’è il rischio di un dissenso prolungato.
Con un aggravamento della crisi economica e sociale; e dall’altro si è arrivati a una tappa inevitabile, a un appuntamento previsto, nel processo avviato dalla primavera araba. Il fallimento degli islamisti, usciti vittoriosi dalle urne ma rivelatisi incapaci di gestire la cosa pubblica, è infatti la scontata dimostrazione che lo zelo religioso non abilita a governare. L’illusione su un possibile passaggio dalla moschea al potere non è svanito del tutto, ma è senz’altro appassita. I Fratelli musulmani non sono stati capaci di rispondere alle aspirazioni di piazza Tahrir, che si è riempita di nuovo per recuperare la rivoluzione tradita. Dopo avere votato lo scorso anno per Mohammed Morsi molti egiziani chiedono adesso le sue dimissioni, la formazione di un governo provvisorio e nuove elezioni. Più che un presidente dimezzato Morsi è un presidente via via spennato. Perde un ministro dopo l’altro. Il quinto ad abbandonarlo è stato quello degli esteri, Mohammed Kamel Amr. Persino il procuratore generale Talaat Abdallah, appena nominato, è stato rimosso dall’Alta Corte, che ha ridato l’incarico al predecessore. E per Morsi è stato uno schiaffo. Come non è stato piacevole ricevere le brutali dimissioni di Alaa el-Hadidi, il suo portavoce, passato all’opposizione.
Il dramma investe il palazzo presidenziale, dove si moltiplicano le diserzioni. Il ministero degli interni non è neppure in grado di fornire uomini per difendere i luoghi pubblici perché i poliziotti non ubbidiscono agli ordini. In quanto all’esercito non sembra ansioso di ritornare al governo, dopo la pessima prova che ha dato di sé nell’anno successivo alla destituzione di Hosni Mubarak. Vuole esercitare il potere ma stando tra le quinte. Un privilegio non facile da imporre. Il quiz politico egiziano, così come si presenta in questi giorni, non è di facile soluzione.
Per ora non è tanto evidente la lezione di realismo, sull’impossibilità di governare col Corano, quanto il disastro politico, sociale ed economico. Con l’annesso rischio di uno scontro frontale tra le forze in campo. Entro oggi Mohammed Morsi, stando all’ultimatum delle Forze armate, dovrebbe allacciare un dialogo, se non proprio raggiungere un’intesa, con l’opposizione, raccolta sotto il nome di “tamarod”, la ribellione. Ma quest’ultima rifiuta. Dice: né fratelli musulmani, né ritorno al vecchio regime, né esercito. In realtà le forze laiche non sono insensibili all’atteggiamento dei militari giudicato favorevole a una rapida rinuncia di Mohammed Morsi alla presidenza. Dopo avere denunciato a lungo il potere dei generali, l’opposizione applaude gli elicotteri militari che sventolano la bandiera egiziana. Il generale Abdul Fattah el-Sisi, capo del Consiglio supremo delle Forze Armate, si è lanciato in dichiarazioni che hanno suscitato l’approvazione di piazza Tahrir. Ma in queste ore egli deve comportarsi più da diplomatico che da militare.
I generali, che gestiscono direttamente più di un terzo dell’economia nazionale (dal turismo al petrolio), sono coscienti dell’incapacità di governare degli islamisti. Ma scartando dal potere i Fratelli musulmani rischiano di far precipitare la situazione. Per quanto spennato, con le dimissioni che gli piovono addosso da tutte le parti, Mohammed Morsi resta il leader, sia pur provvisorio della confraternita, la quale continua a rappresentare la più importante forza politica dell’Egitto. I comizi dei partigiani di Morsi si moltiplicano. Mohammed Baltagy, un esponente di rango, ha difeso davanti a un pubblico armato di bastoni e spranghe di ferro, la legittimità del presidente eletto e ha detto che gli oppositori dovranno passare sui corpi dei suoi sostenitori. I Fratelli musulmani non possono rinunciare a un potere conquistato dopo ottant’anni di lotta. Guardano con diffidenza le incerte, ambigue prese di posizione dei generali e denunciano il “colpo militare”. Si sentono assediati anche dagli islamisti radicali del partito Nur, unitisi ai laici nel chiedere le elezioni anticipate. L’impressione è che il fronte religioso stia franando.
I militari sono la sola forza stabile, da cui dipende l’immediato futuro del paese. Ma essi si trovano davanti a un’equazione in apparenza insolubile: salvare la legittimità rappresentativa, di cui Morsi è l’espressione, e rispondere al tempo stesso alle richieste di un’opposizione imponente, le cui radici affondano nella rivoluzione del 2011, che ne chiede le dimissioni. È l’impossibile formula evocata anche da Barack Obama, trasformatosi in una Sfinge americana. Come salvare il risultato del suffragio universale, quindi Morsi, e soddisfare i manifestanti che non lo vogliono? Se la situazione dovesse precipitare, e gli scontri si trasformassero in qualcosa di simile a una guerra civile, l’esercito dovrà assumersi, sia pur riluttante, le responsabilità di governo, imponendo l’ordine. Un’uscita di scena di Morsi, con il consenso degli stessi responsabili dei Fratelli musulmani, potrebbe essere una soluzione provvisoria. La più opportuna ma non la più facile. Il generale Abdul Fattah el – Sisi punta probabilmente su questo. Spetta a lui trovare il compromesso per far ripartireuna primavera araba bloccata.

La Stampa 3.7.13
Nei supermarket militari dove nasce l’altro Egitto
I generali gestiscono catene di negozi e spa E li hanno aperti a tutti
L’opposizione è unita attorno a El Baradei «I Fratelli sono finiti»
L’esercito controlla anche l’economia, oggi scade l’ultimatum
di Francesca Paci

Se la prima rivoluzione egiziana era concentrata nella ormai celeberrima piazza del Cairo, la seconda invade ogni ponte, ogni strada, ogni viale che conduca a Tahrir ma anche ai palazzi presidenziali di Ittahadeya e Kobba e, soprattutto, a quel ministero della difesa imponente accanto alla tomba di Nasser da cui il generale el Sisi ha dato scacco matto ai Fratelli Musulmani recapitando al presidente Morsi un ultimatum senza appello.
«Comunque si muovano i Fratelli sono finiti, se ci attaccano mostrano il loro vero volto e devono vedersela con le forze dell’ordine nostre alleate, se fanno un passo indietro scompaiono comunque perché ormai è troppo tardi per dialogare» ragiona Moattamer Khalil, attivista del nasseriano «Hamdeen Sabahi», mentre centinaia di migliaia di persone avvolte nel tricolore affluiscono nello slargo antistante al palazzo della guardia presidenziale dietro le cui mura la famiglia Morsi, scollata dalla realtà, attende il suo destino.
A poche ore dall’aut aut dell’esercito l’orizzonte egiziano resta oscuro. Eppure la clessidra al galoppo dirada parzialmente la nebbia. I Fratelli Musulmani, in trincea, denunciano il golpe militare. L’opposizione, divisa praticamente fino a ieri, si stringe intorno ai giovanissimi del movimento Tamarod (gli ideatori della campagna da 22 milioni di firme contro Morsi) e nomina portavoce unico Mohammed el Baradei (sperando che si candidi alla presidenza). L’esercito, fingendo di essersi sottratto fino all’ultimo, prende le redini del paese e annuncia che oggi, all’ora X, sospenderà la Costituzione e dissolverà quel che resta del parlamento di fatto inesistente dall’intervento della Corte Costituzionale oltre un anno fa. Il paese, polarizzato più che mai, registra gli scontri ad Alessandria, Islaylia, Fayum, i morti e i feriti nei quartieri cairoti di Giza, Embaba, Abassya, ma guarda agli elicotteri Apache che volano a bassissima quota con la fiducia dovuta agli angeli custodi.
Per capire il potere reale prima ancora che simbolico dei generali egiziani, bisogna avventurarsi in uno dei tanti supermercati della catena «6 ottobre» che pur appartenendo all’esercito sono da qualche anno accessibili ai civili.
«Quella consistente fetta di economia controllata dai militari ha salvato il paese» sentenzia Bassant Fahmi, ex analista di quella Borsa che ieri ha reagito con un’impennata del 5% all’intervento del ministro della difesa.
Il «sun mall» di Nasr City, a pochi isolati dalla piazza Rabah Adaweya dove qualche decina di migliaia di islamisti invoca Allah per proteggere il proprio presidente «democraticamente eletto», è una specie di tempio bianco e imponente che fa il paio con il sontuoso club-spa al Masah, una delle mille dependance delle caserme immerse tra palme e bouganville. Dentro, tra gli scaffali di stile sovietico ma pieni come solo in occidente, la carne egiziana che costa almeno 85 sterline al chilo (8 euro) è prezzata 55 sterline. «Da mesi faccio la spesa solo qui perché pago il riso 4 sterline invece di 8» ammette la casalinga Mona sistemando le sporte nella macchina dove il marito Ahmed ascolta un cd con i discorsi di Sadat, l’ex presidente in uniforme tornato in auge in questi giorni come Nasser e lo stesso Mubarak, rinvigorito, pare, dal vicolo cieco in cui sono finiti i suoi storici avversari.
I carri armati sono tornati di moda in Egitto. Dopo essersi scontrato per una vita con i nemici islamisti, l’esercito gioca la partita finale sfruttando l’entusiasmo della piazza che gli ha perdonato gli abusi di potere dei mesi passati. Il vento è cambiato per i Fratelli Musulmani, che oltre all’ultimatum dell’esercito e di Tamarod incassano le dimissioni di una lunga lista di ministri in fuga e la bocciatura della Corte Costituzionale che restituisce al procuratore generale Mahmud il posto sottrattogli da Morsi un anno fa a favore di Talaat Abdallah.
«Morsi è al capolinea e con lui l’intera esperienza dell’islam politico» afferma l’insegnante Sharif Youssef raggiungendo in taxi la folla stipata in Tahrir. L’autista parcheggia la macchina scassatissima e si unisce alla protesta, «Erhal», vattene.
L’opposizione ha fatto orecchie da mercante all’invito al dialogo levatosi dagli Stati Uniti e anche, timidamente quanto tardivamente, dai Fratelli Musulmani. La presidenza, senza portavoce, ribadisce la propria legittimità e, seppur imbarazzata, la consulente comunicazione Sondos Asem insiste nel sottolineare il consenso popolare. Gli analisti scommettono sul tentativo dei Fratelli Musulmani di portare in piazza oggi quante più persone possibili per provare la divisione del paese in due metà simmetriche. Ma l’aggressività contenuta dei pur spaventati islamisti dimostra il contrario. E la scelta dei militari lo conferma.

il Fatto 3.7.13
Anche la Cina scopre la generazione “milleuro”
Orgoglio nerd (sfigati): il successo non è più il solo obiettivo dei giovani
Ma non sfuggono alle sirene della pubblicità
di Cecilia Attanasio Ghezzi

Pechino C’è un termine che sta diventando virale sull'internet cinese: diaosi. Ovvero nerd, sfigato. Era un insulto, ma oggi sono sempre di più quelli che tra i 20 e i 40 anni si definiscono così. È una presa di coscienza di chi vuole contrapporsi ai gaofushuai, i “belli, alti e ricchi” che a quell'età hanno già uno status che gli garantirà un futuro brillante.
Certo i diaosi passano gran parte della giornata di fronte a un computer, e proprio per questo non fa strano che il termine venga usato nelle pubblicità dei videogiochi. Ma se quelle pubblicità campeggiano sui mega-schermi newyorkesi di Times Square è legittimo farsi qualche domanda.
Così la sezione economica del portale di informazione Sohu ha messo in evidenza con una serie di infografiche come quella degli “sfigati” sia la fascia della popolazione cinese che – forse anche perché non ha spese legate a un appartamento, un’auto di proprietà o dei figli - spende di più in beni di consumo quotidiani.
Si stima che siano oltre 500 milioni di persone a identificarsi con questo termine nell'ex Impero di mezzo. Praticamente tutti quelli che navigano in internet, il 40% dello Stato più popoloso del mondo. Sono per lo più nati negli anni ‘80 o dopo. Sono studenti o lavorano nell'industria informatica o dei media. Quasi sicuramente non hanno l'impiego statale a cui puntavano i loro genitori quando li hanno fatti studiare. Nel tempo libero, quando non sono online, vedono gli amici. E siccome la maggior parte non ha né casa né auto di proprietà vanno in giro e spendono.
NON IN BENI di prima necessità come la generazione dei loro genitori, e neanche tanto in beni di lusso o in articoli di moda come la generazione che li ha preceduti. Quasi metà delle loro spese è destinato a prodotti di qualità. Perché c'è un'altra cosa che li accomuna. Sono informati. E stanno cambiando il mercato. Si può fare la controprova. Da quando nel 2012 la crescita del pil cinese è rallentata al 7,8%, il consumo di beni di lusso si è sostanzialmente arrestato. Se a questo si aggiunge la campagna contro la corruzione del nuovo governo guidato da Xi Jinping che ha costretto la maggior parte dei funzionari pubblici a fare a meno di regali e status simbol come Rolex e Lamborghini, il risultato per chi era abituato a fare affari nel “mercato più ambito del mondo” è disastroso.
Ci sono grafici che lo dimostrano più di mille parole. Nel 2012, l'esportazione degli orologi svizzeri che l'anno precedente era quasi per il 50% rivolta alla Cina, è crollata allo 0,6. E sempre l’anno scorso il marchio Burberry's (alta moda inglese) vendeva il 67% dei suoi prodotti in Cina. Quest'anno solo il 16. Crescono invece le spese in tecnologia, vestiti di marca sì, ma con prezzi accessibili, prodotti per la cura del corpo e cibo biologico o controllato. E in ogni caso crescono gli acquisti online e si moltiplicano le aziende di e-commerce. Insomma, se si guardano al microscopio, gli “sfigati d'Oriente” assomigliano molto alla nostra “generazione mille euro”.

il Fatto 3.7.13
Pechino: 46 milioni di petizioni in 2 ore

Esordio col botto per il sito web sul quale i cinesi possono, da lunedì, rivolgere le loro “petizioni” al governo centrale contro le ingiustizie subite localmente. Il sito è crollato a causa della valanga di traffico che ha ricevuto - 46 milioni di contatti in un paio d’ore. LaPresse

l’Unità 3.7.13
Razzismo
L’Europa revoca l’immunità a Marine Le Pen

Il Parlamento europeo ha revocato l’immunità da eurodeputata a Marine Le Pen, leader del Front National francese, come richiesto
da un procuratore del suo Paese.
La revoca era stata raccomandata dalla commissione degli Affari giudiziari dell’europarlamento. Le Pen sarà così processata per le accuse
di razzismo presentate da un’associazione, dopo che nel 2010 aveva paragonato le preghiere in strada dei musulmani a un’occupazione della Francia.
In seguito ha ribadito la propria posizione e ieri l’ha confermata di nuovo. «Sono assolutamente convinta che la corte si pronuncerà in mio favore e proteggerà il mio diritto di dire ai francesi la verità sulla situazione, in particolare sulle preghiere in strada», ha detto Le Pen.

Corriere 3.7.13
Cosa è cambiato dopo l’11 settembre
L'ossessione del controllo
di Sergio Romano
qui

l’Unità 3.7.13
Gramsci e Cantimori: c’è un abisso tra quei due
di Bruno Gravagnuolo

CANTIMORI E GRAMSCI NAUFRAGHI DELUSI? L’ACCOSTAMENTO NON REGGE Nessun destino parallelo «plutarcheo» tra i due. Né esistenziale, né politico. Perciò è stravagante l’accostamento che Luciano Canfora sul Corsera del 27-6, stabilisce tra le due figure, recensendo il carteggio tra Delio Cantimori e Gastone Manacorda a cura di Albertina Vittoria (Amici per la storia. Lettere 1942-1966. Carocci).
Dunque da un lato c’è il Gramsci del novembre 1931 e del 27 febbraio 1933, che in un appunto alla moglie (non inoltrato) e nella celebre lettera a Tatiana dichiara: di rifugiarsi nel «puro dominio dell’intelletto» e di non riuscire più a inserirsi «in nessuna corrente sentimentale» (1931). Nonché di avere l’impressione che la sua vita sia stata «un grande errore, un dirizzone» (1937). Dall’altro c’è Cantimori, ex fascista di sinistra, schiacciato dal XX Congresso, che in una nota autobiografica del 28 marzo 1956, si rimprovera l’iscrizione al Pci e l’addio agli studi per tradurre Marx. Ma Cantimori vive un tracollo e ripudia la sua opzione comunista (muore nel 1966). Gramsci invece, piegato dagli eventi e isolato dal partito, nella tenaglia Mussolini-Stalin, non mollerà mai. Continua a credere in una liberazione per via diplomatica. Mantiene per vie dirette e indirette un rapporto con il suo partito, e cerca sempre di influenzarlo. Dagli scontri nel carcere di Turi, contro il «social-fascismo». Alla strenua elaborazione teorica, dove c’è posto persino per una nota (1932-35) che critica Trotzsky come meccanicista e dogmatico, a petto di Stalin-Bessarione, internazionalista a radici nazionali! Fino all’ultimo biglietto del 1937 a Sraffa per Togliatti: il fronte popolare è la Costituente. E fino alla probabile, e ultima, intenzione di andare in Urss. Certo, Gramsci era eretico e isolato. Ma non molla mai e fa da spina nel fianco del suo mondo. Soffre, dubita, si chiude nel suo guscio e rilancia. «Eroico Gramsci», come diceva Della Volpe, significa questo. Il resto ci pare chiacchiera.

il Fatto 3.7.13
Il fumetto
Un puffo grigio di nome Karl Marx
di Stefano Feltri

Marx: una biografia a fumetti di Anne Simon e Corinne Maier (Panini 9L)

LE BIOGRAFIE a fumetti sono un genere rischioso: non possono avere il rigore e il dettaglio di quelle tradizionali, non c’è spazio per le note o per le citazioni, devono condensare in poche pagine lunghe vite e, se vogliono sperare di essere qualcosa di più di una opera divulgativa, inventarsi una chiave, un taglio nuovo. Corinne Maier e Anne Simon riescono a farlo, con un risultato convincente e, soprattutto, gradevole nella loro biografia di Karl Marx appena pubblicata da Panini nella linea 9L, quella dedicata ai romanzi a fumetti. La scelta è di procedere per episodi, in un flusso in cui la vita di Marx e il suo pensiero si sovrappongono e si intersecano (le parole delle sue opere compaiono ora sullo sfondo ora come nastri che pendono sulla vignetta, ora direttamente enunciati da Marx). Le tavole di Anne Simon, nel classico formato da cartonato francese, ricordano quelle dell’italiano Tuono Pettinato nel recente libro su Alan Turing: ma la Simon riesce a dosare meglio i toni narrativi, meno surreale e più funzionale alla storia. Il suo Marx è un buffo omino, quasi un puffo grigio, che parla rivolto al lettore, cercando di giustificare i suoi insuccessi e cedimenti alla vita borghese e proclamando rivoluzioni imminenti. I tempi comici di Corinne Maier, che nella vita fa la psicanalista a Bruxelles, trasformano la triste vita di Marx - tra lutti, mancati riconoscimenti, difficoltà economiche e incertezze esistenziali - in una sequenza di gag, sottolineate dall'espressività da film muto che la disegnatrice riesce ad attribuire a Marx, senza mai scadere (come invece è successo a Tuono Pettinato con Turing) nel-l’eccesso. Non è il primo esperimento, durante la crisi, di riproporre Marx spogliato dalla polvere ideologica e dalle conseguenze nefaste di certe sue applicazioni novecentesche, soprattutto in Francia sono diversi i tentativi di divulgarlo ex novo usando la leva dell'umorismo. Operazione che lascerà perplessi gli studiosi seri ma che, almeno nei fumetti, riesce a regalare una seconda vita al filosofo di Treviri.

Corriere 3.7.13
L'ultimo oltraggio del barbaro Alarico: è lite sul museo
«Saccheggiò Roma». «No, è storia». Cosenza divisa
di Gian Antonio Stella
 
«Raccolta, pertanto, una schiera di prigionieri in catene, scavano in mezzo all'alveo il luogo della sepoltura, tumulano Alarico nel centro della fossa con molte ricchezze, riportano il fiume nel suo alveo e, affinché il luogo non sia riconosciuto da alcuno, uccidono tutti gli scavatori». Così il De origine actibusque Getarum di Jordanes, scritto verso la metà del V secolo d.C., descrive la sepoltura nel letto del «Busento presso la città di Cosenza» del condottiero dei Visigoti che nel 410 aveva saccheggiato Roma. Uno degli eventi più traumatici del mondo antico.
Qualche tempo dopo, Paolo Diacono confermava: «I Goti, deviando il fiume Busento dal suo alveo con il lavoro dei prigionieri, seppelliscono Alarico con molte ricchezze nel mezzo dell'alveo e restituendo il fiume al proprio corso, uccidono i prigionieri che avevano partecipato, affinché nessuno potesse rilevare il luogo». Che senso ha che i nipoti di quei poveretti massacrati ricordino in pompa magna il massacratore?
La polemica, che va avanti da tempo, è stata riaccesa giorni fa da un annuncio del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto: recuperati 7 milioni di euro, il vecchio e brutto hotel Jolly sta per essere abbattuto. Dopo di che, risanata l'area, sarà costruito un museo in onore di quel barbaro nato nel delta del Danubio che dopo avere comandato per conto di Roma le truppe mercenarie in Pannonia, si rivoltò contro l'impero e finì per marciare sulla città eterna e devastarla per poi calare con le sue truppe verso la Sicilia. Fermato solo dalla morte causata, pare, dalla malaria.
Come ha visto riapparire «il fantasma di Alarico», che «sembrava fosse tornato a riposare per sempre» dopo le improvvide celebrazioni del 2010 in occasione del 16º centenario, lo storico Antonio Battista Sangineto, alla testa di altri concittadini perplessi, è saltato su indignato: «Perché festeggiare un invasore, saccheggiatore, violentatore, assassino, ma, soprattutto, perché celebrare, intitolando loro una piazza, persino quei Visigoti che trucidarono, 1600 anni or sono, centinaia di nostri progenitori?».
Che Alarico sia un mito per altri, per carità, è comprensibile. Si pensi alla poesia di August von Platen tradotta da Giosuè Carducci: «Cupi a notte canti suonano / Da Cosenza su 'l Busento, / Cupo il fiume gli rimormora / Dal suo gorgo sonnolento. // Su e giù pe 'l fiume passano / E ripassano ombre lente: / Alarico i Goti piangono / Il gran morto di lor gente».
Ma la fama mondiale di cui gode il barbaro Alarico, «in particolar modo fra quei suoi discendenti tedeschi che hanno ripreso a disprezzarci», accusa Sangineto, «non può costituire la spinta propulsiva, il riferimento culturale e identitario di un progetto museale che attragga turismo culturale». Non sarebbe il caso, piuttosto, di «risvegliare nell'anima dei calabresi la capacità di riconoscere la bellezza e l'armonia dei monumenti, delle città e dei paesaggi»?
Un'obiezione sacrosanta. Che già aveva spinto lo storico a scrivere Alarico e la piccola borghesia, un saggio contro l'appropriazione incolta di quel personaggio storico defunto per caso in Calabria: «Cosa spinge, oggi, un gruppo di cosentini a costituire un'associazione intitolata Circolo Alarico, un centro di analisi cliniche, un ristorante, una società di distribuzione dei farmaci e una pizzeria dedicati al condottiero goto, manco fossero tutti romantici prussiani, nostalgici di un rimpianto splendore barbarico?». E giù numeri, fatti, episodi, per ricordare come l'Europa, travolta la civiltà romana, fosse piombata nel buio (e qui qualche storico non sarà d'accordo) del medioevo. Al punto che perfino l'uso della scrittura, «diffusissimo in età romana», finì per perdersi tanto che «addirittura Carlo Magno, secondo il suo biografo Eginardo, teneva sotto il letto alcune tavolette per potersi esercitare a padroneggiare l'alfabeto, fra VIII e IX secolo d.C.»
Al di là del caso di Alarico, però, secondo lo storico, esisterebbe un problema di fondo: la «sindrome di Stoccolma collettiva» dovuta alla perdita della memoria storica. Marcata fisicamente anche dai disastri paesaggistici degli ultimi decenni: «L'abitudine alla bruttezza dei luoghi genera disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto».
Ed ecco, insieme con la rivendicazione dell'identità che «si traduce nelle sagre della polpetta o della patata, nei palii meta-medioevali o nelle fiere strapaesane» e mai nel rispetto e nel recupero dei propri tesori storici e culturali, l'esaltazione acritica di questo e quel personaggio del passato, dove l'uno vale l'altro. Come Dorghut Rais, noto ai calabresi come Dragut, che fu Viceré di Algeri e Signore di Tripoli e saccheggiò San Lucido e Paola. O il calabrese Giovanni Dionigi Galeni, nato a Isola Capo Rizzuto, che dopo essere stato rapito dai saraceni ed essersi convertito prendendo il nome di Ulug Alì Ucciali diventò generalissimo e governatore di Tripoli e Tunisi e partecipò, da nemico dell'Occidente, alla battaglia di Lepanto: due uomini che «parrebbero non avere alcuna relazione con Alarico se a Dragut non avessero intitolato un ristorante a San Lucido, il paese da lui devastato, e se a Uccialì non avessero eretto una statua nella piazza principale, a lui intitolata, di Isola Capo Rizzuto».
E torniamo al tema: «Perché Alarico e gli altri invasori hanno avuto tanta fortuna presso i discendenti di coloro che da essi sono stati invasi, tratti in catene, violentati, saccheggiati, derubati, orribilmente torturati, trucidati? Cosa spinge la psicologia collettiva di un popolo a identificarsi, pur se parzialmente, con i propri carnefici?». Se ne stupì, un secolo e mezzo fa, anche Alexandre Dumas. Meravigliato che l'unico albergo di Cosenza fosse stato chiamato «Al riposo di Alarico». Con il nome, annotò lo scrittore francese, «del depredatore del Pantheon e del distruttore di Roma».
L'unica spiegazione, nel caso del re dei visigoti, è forse nelle leggende intorno al favoloso tesoro che sarebbe stato con lui sepolto. Per secoli l'hanno cercato in tanti: archeologi, storici, cultori dei miti antichi, versioni varie di Indiana Jones e perfino Heinrich Himmler, di passaggio in Italia, volle spingersi fino a Cosenza (dove le cronache ricordano che salutò «romanamente» il fiume) per informarsi meglio sulle ricerche di una studiosa francese, Amélie Crevolin, convinta di aver individuato infine il luogo della misteriosa sepoltura. Una delusione. Così come restò deluso, nella primavera del 1965, il signor Adolfo Greco, di professione rabdomante. Che comunicò al mondo la sua scoperta: il tesoro l'aveva individuato lui. Col bastone biforcuto. Ma, ahimè, nessuno lo prese sul serio…

Corriere 3.7.13
Le Muse cantano ai ragazzi anche la didattica Invalsi
di Vivian Lamarque

I miti sono miti, sono grandiosi, non si possono sminuire. A scuola se ne fa gran consumo col rischio che tutto venga frullato, omogeneizzato, che i loro protagonisti diventino simil-superman, Achilli dai biondi capelli e gli occhi color del cielo.
Ma, d'altra parte, se raccontati senza crederci, i miti possono farsi macigni, possono come valanga seppellire in men che non si dica il libro che li contiene e il ragazzino che lo sta leggendo.
Con Il canto delle muse (Bruno Mondadori editore, pagine 352, € 9,10), Enrico Ernst (che ha nel suo curriculum una tesi di filosofia sul Prometeo incatenato di Eschilo e una lunga esperienza di insegnamento di scrittura creativa a ragazzi e adulti) sa invece trovare il tono giusto, sapientemente leggero, come già per la collana gli «Aspiranti Dei» (con Simona Pagano) e per i «Mythos» editi da De Agostini.
Anzi ora, qui, la sua voce pare risuonare come più libera, voce come di un Capitano o mio capitano che ti conquista e ti fa saltare in piedi sul banco.
A scuola si sono appena compilati gli elenchi per le letture delle vacanze, inseriamo allora senz'altro questo Canto delle Muse che con lievità, attraverso la voce di un pastore greco, conduce dal Caos originario alla fondazione di Roma, dalla Teogonia di Esiodo a Perseo ed Eracle (sotto, il dipinto del Pollaiolo conservato agli Uffizi di Firenze), da Omero a Virgilio, sino all'epilogo con la leggenda di Romolo e Remo: nella cesta trasportata dalle acque del Tevere i gemelli «strillano, hanno fame, chi li sente? Non una mamma. Una lupa arrivata fin lì dai monti per una terribile sete (...). E un picchio, uccello sacro a Marte, s'impegnerà a svezzare i due infanti, offrendo loro briciole e pezzetti di cibo».
Ma cibo sono anche queste pagine, per chi? Per giovani menti digiune di valori, idealità, principi, di generosità e bellezza, di eroiche imprese e visionarietà.
Non mancano in appendice le pagine di didattica Invalsi, ma l'autore buca le pagine, trascina i lettori ben oltre.

La Stampa TuttoScienze 3.7.13
La vera storia dell’Antropocene
di Gabriele Beccaria

Non siamo grandi distruttori solo da oggi. La storia del nostro impatto sulla Terra è probabilmente diversa da come ce la raccontiamo.
Se tra gli ultimi personaggi a preoccuparsi dello stato del Pianeta è stato il direttore del Fondo monetario, Christine Lagarde, che in un’intervista al «Wall Street Journal» si è detta terrorizzata dalle devastazioni ambientali che lasceremo in eredità a figli e nipoti, fa impressione l’ultima ricerca made in Usa sulla progressione dell’«impronta ecologica», vale a dire su quando tutto ha avuto inizio.
L’Antropocene - la prima era in cui l’uomo ha plasmato la forma e la sostanza degli habitat - non è in realtà cominciato con la rivoluzione industriale del Settecento. Secondo la ricerca diretta dal geografo della University of Maryland Erle Ellis, dev’essere retrodatato di molto, andando più indietro della più antica delle civiltà. Addirittura 60 mila anni fa. E’ infatti intorno a quell’epoca che nei sedimenti si legge un brusco aumento delle particelle di carbone nell’atmosfera. Il periodo corrisponde ai roghi appiccati per cacciare, mentre intorno a 9 mila anni fa, quando gli agricoltori si fanno strada, abbattendo boschi e foreste, crescono ulteriormente i livelli di CO2 (a 2030 parti per milione), sufficienti - secondo le stime - per innescare le prime ed evidenti modificazioni climatiche. E in una progressione implacabile si arriva a 5 mila anni fa, al momento in cui l’invasione della nostra specie - salita a una cinquantina di milioni di individui - si trasforma in occupazione e, Poli a parte, un quinto delle terre emerse viene manipolato e a volte perfino annichilito.
Le coltivazioni sono estensive, anziché intensive, e ancora per millenni ogni umano avrà bisogno di molta più terra di quanta ne sfrutti oggi: sei volte tanto. E 2500 anni fa, agli albori di Roma, ciascuno dei nostri antenati ha imparato a emettere, in media, una tonnellata di CO2, (oggi siamo saliti a tre volte tanto). Poi il corpo a corpo con il Pianeta si intensifica e l’esplosione di gas serra a partire da 250 anni fa segna il punto di non ritorno del fortunato (e sinistro) termine di Antropocene, popolarizzato dal Nobel Paul Crutzen.
Il monito a inquinare meno è evidente, ma c’è anche un ulteriore messaggio, secondo un altro degli autori dello studio, Dorian Fuller: se i luoghi davvero incontaminati sono in realtà pochissimi, perfino molti di quelli che ci appaiono tali hanno dovuto sopportare in passato la nostra impronta. La Natura sa reagire e non smette di reagire alle ferite di quella specie invasiva e intollerante chiamata Homo Sapiens.

La Stampa TuttoScienze 3.7.13
Com’era la Terra dei primordi? “Una risposta è su Titano”
Le indagini sulla luna di Saturno, un mondo gelido con il metano al posto dell’acqua
di Gabriella Bernardi

La sonda Cassini­ Huygens, «occhio» puntato su Titano
Nadia Balucani Chimica: È PROFESSORESSA DI CHIMICA ALL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA E MEMBRO DELL’«ITALIAN ASTROBIOLOGY SOCIETY»
RICERCHE : ASTROBIOLOGIA Il grande laboratorio
L’atmosfera di Titano è l’unica del Sistema solare oltre a quella terrestre a mostrare una grande preponderanza dell’azoto (98,4%). Il resto è composto da metano, idrocarburi, argon, monossido e diossido di carbonio, oltre che di elio

Cresce la ricerca di pianeti extrasolari con l’obiettivo di trovare quelli in grado di sostenere la vita. Può essere quindi sorprendente scoprire che ne abbiamo uno «dentro casa»: a studiarlo è Nadia Balucani, chimica all’Università di Perugia, specializzata in astrochimica e astrobiologia, impegnata nell’analisi dell’atmosfera Titano. Le sue indagini sembrano suggerire per questa luna di Saturno un’immagine da «gemello» della Terra primordiale. Questo mondo gelido, infatti, ha un’atmosfera, con condizioni che si modificano in base ai mutamenti della temperatura o della stagione, ed è segnato da dune, catene montuose, venti, nuvole e laghi di metano liquido. Gli studiosi dicono che i pia­ neti interni del Sistema So­ lare hanno atmosfere «se­ condarie»: che significa? «Mercurio, Venere, Terra e Marte si sono formati vicino al Sole: ciò ha fatto sì che il materiale gassoso o i liquidi volatili eventualmente presenti durante la formazione fossero spazzati via dai forti venti solari, quando il Sole era una stella giovane e instabile. Tra questi composti c’è l’acqua e, difatti, sono in molti a sostenere che l’acqua dei nostri oceani abbia un’origine extraterrestre».
In che senso? «Sarebbe stata portata sulla Terra da asteroidi e comete solo dopo che il Sole aveva superato quella prima fase di instabilità. Ma in generale, nello spazio, l’osservazione di composti allo stato liquido è rara, perché difficilmente si riscontrano le condizioni di temperatura e pressione favorevoli alla fase liquida. È per questo che, pur essendoci tanta acqua nell’Universo, quella nei suoi tre stati di aggregazione - ghiaccio, liquido e vapore - è presente solo nel nostro pianeta». Il fatto che ci sia vita sul no­ stro pianeta ha avuto un ruo­ lo nella differente evoluzione dell’atmosfera? «L’atmosfera terrestre ha una chiara impronta biologica: sono le forme di vita in grado di sostenersi con la fotosintesi clorofilliana (cianobatteri, alghe, piante) che hanno portato all’accumulo di ossigeno, un sottoprodotto della fotosintesi stessa. L’accumulo di ossigeno ha anche consentito la formazione dello strato di ozono che ci protegge dalla radiazione ultravioletta. Ma anche l’assenza di biossido di carbonio su Venere e su Marte è legata a meccanismi simili: pur essendo il responsabile dell’effetto serra, infatti, il biossido di carbonio è presente solo in tracce nell’atmosfera terrestre, perché nel passato è stato convertito in carbonato di calcio, il componente dei gusci e delle conchiglie di molluschi e coralli. I sedimenti prodotti dagli organismi marini sono poi entrati nella litosfera. Se il carbonato di calcio lì intrappolato fosse rilasciato come biossido di carbonio, l’atmosfera ne conterrebbe una quantità simile a quella di Venere! ». In che senso l’atmosfera di Ti­ tano è simile a quella della Terra primordiale? «Titano ha un’atmosfera più densa e l’azoto pone molti quesiti. Ci sono due teorie: il gas sarebbe stato presente fin dagli inizi sotto forma di azoto molecolare o sarebbe stato inizialmente presente sotto forma di un altro composto, l’ammoniaca, che per effetto della radiazione solare si sarebbe convertita nell’azoto stesso. Nessuna delle due ipotesi, però, è del tutto convincente. Ora un contributo al dibattito è venuto dall’osservazione della preponderanza dell’isotopo 40 dell’argon su Titano durante la missione Cassini-Huygens: la distribuzione di questi isotopi è connessa con l’origine dell’azoto e sulla Terra si assiste allo stesso fenomeno. C’è quindi da credere che il gas terrestre e quello di Titano abbiano davvero una storia comune». È possibile che in futuro Tita­ no possa sviluppare una qual­ che forma di vita? «C’è chi ha azzardato la possibilità di forme di vita basate sul metano liquido. C’è anche chi ha ipotizzato che eruzioni vulcaniche (di ghiaccio!) o impatti di comete e meteore possano riscaldare alcune zone di Titano, portando alla formazione di acqua liquida per un tempo sufficientemente lungo da permettere l’evoluzione della vita. Da ultimo c’è chi ha suggerito che, quando il Sole diventerà una gigante rossa e la Terra un pianeta sterile, su Titano ci sarebbero le condizioni per avere l’acqua liquida e quindi la vita. Trovo divertenti queste ipotesi, ma le ritengo solo ipotesi. La vita così come la conosciamo non può essere presente su un pianeta così freddo (a -179°). Ciononostante Titano resta affascinante».
Perché? «L’idea che sia simile alla Terra primordiale, che ne rappresenti una fase “congelata”, dà un’opportunità unica di studiare quell’ambiente antichissimo in cui si è sviluppata la vita. È un’ipotesi significativa, perché non esiste una testimonianza geologica di ciò che è avvenuto nel nostro pianeta nel primo mezzo miliardo di anni. Mancano i reperti geologici che, per esempio, confermano la teoria dell’evoluzione biologica».

La Stampa TuttoScienze 3.7.13
A 22 anni luce tre pianeti ideali per ospitare ET
Panorama inconsueto Il «rendering» della superficie dell’esopianeta Gliese 667C con la sua stella e gli altri pianeti «fratelli»

Si moltiplicano le scoperte dei pianeti extra­ solari: l’ultima notizia arriva dall’Eso ­ l’Osserva­ torio europeo australe ­ che nella costellazione dello Scorpione ha individuato un sistema solare ­ spiegano gli astronomi ­ «dotato di una zona abitabile» e di tre «super­Terre», dove le condizio­ ni sarebbero compatibili con l'esistenza di acqua allo stato liquido. È intorno alla stella Gliese 667C, che possiede una massa equivalente a un terzo di quella del nostro Sole, che gli studiosi hanno fatto la sensazionale osservazione, avva­ lendosi di «Harps», il telescopio di 3,6 metri alle­ stito in Cile. Il sistema solare a tre stelle, al quale appartiene proprio Gliese 667C, è ormai studiato da lungo tempo: non soltanto si trova nelle im­ mediate vicinanze del nostro sistema solare (22 anni­luce), ma è anche straordinariamente simile e rappresenta, quindi, un candidato privilegiato per la ricerca di luoghi che possano ospitare la vi­ ta e che, quindi, siano rocciosi. «Sapevamo da una serie di studi precedenti che quella stella era circondata da tre pianeti, ma volevamo verificare l’eventuale esistenza di altri ­ ha spiegato Mikko Tuomi dell’università britannica di Hertfordshire ­. Adesso, aggiungendo nuove osservazioni e combinando una serie di dati già disponibili, ab­ biamo confermato l’esistenza dei tre corpi celesti e ne abbiamo scoperti anche altri due».

La Stampa TuttoScienze 3.7.13
Venti minuti per la mente
Ricerca Usa: “I miracoli dello Hatha yoga sulla concentrazione”
«Frontiers in Psychiatry» ne ha dimostrato gli effetti benefici contro depressione, schizofrenia e sindrome da iperattività e deficit di attenzione, l’Adhd
di Stefano Massarelli

Neha Gothe Chinesiologa: È PROFESSORESSA DI CHINESIOLOGIA, SALUTE E SPORT ALLA WAYNE STATE UNIVERSITY DI DETROIT (USA)

La buona riuscita di un lavoro o di un impegno scolastico è legata alla capacità di mantenere la mente concentrata e di saper elaborare rapidamente le informazioni più rilevanti, lasciando da parte le altre. Queste due qualità possono essere coltivate in breve tempo con lo Hatha yoga, la variante yoga più indicata per i novizi e basata su una serie di posizioni («asana») e di esercizi di controllo della respirazione («pranayama»).
Secondo una ricerca sul «Journal of Physical Activity and Health», è sufficiente una seduta di 20 minuti di Hatha yoga per migliorare sensibilmente alcune funzioni cognitive, come la memoria di lavoro e il controllo inibitorio, due fattori legati all’abilità di mantenere la mente focalizzata su un obiettivo e di aggiornare continuamente le informazioni.
«Sembra che, seguendo la pratica dello yoga, i partecipanti siano più in grado di concentrare le risorse mentali, elaborare le informazioni rapidamente e con maggior precisione e anche di apprendere, trattenere e aggiornare frammenti di informazioni in modo più efficace rispetto a chi ha eseguito un esercizio aerobico», ha spiegato l’autrice della ricerca, Neha Gothe, docente di kinesiologia alla Wayne State University di Detroit. Il suo gruppo ha invitato un campione di giovani donne a sottoporsi a una seduta di 20 minuti di Hatha yoga con le posizioni tipiche, basate sulla contrazione isometrica e sul rilassamento di diversi gruppi muscolari, nonché sul controllo della respirazione. Le ragazze hanno poi completato un training di corsa o camminata di 20 minuti su un tapis roulant al 60%-70% della loro frequenza massima cardiaca. «Abbiamo scelto questo intervallo per replicare alcune precedenti ricerche che hanno dimostrato un miglioramento delle performance cognitive a questa intensità», ha detto Gothe. Come risultato, se sottoposte ad alcuni test cognitivi, le partecipanti mostravano un netto miglioramento dei tempi di reazione mentale e una miglior precisione nello svolgere alcuni compiti.
Secondo i ricercatori, alcuni fattori possono spiegare questo risultato. «La maggiore autoconsapevolezza che deriva dagli esercizi di meditazione è solo uno dei possibili meccanismi - afferma Neha Gothe -. La meditazione e gli esercizi di respirazione, inoltre, sono noti per ridurre l’ansia e lo stress, contribuendo a migliorare i punteggi in alcuni test cognitivi». Praticare lo yoga, quindi, è una valida soluzione per mantenere la mente lucida in vista di un impegno importante, ma può anche fare di più, contrastando alcuni disturbi della psiche come ansia e depressione. «È noto che lo yoga ha un’azione diretta su alcuni neurotrasmettitori cerebrali - sottolinea la psichiatra Alessandra Danese -. In primo luogo contribuisce ad aumentare i livelli di acido gammaaminobutirrico (Gaba), il neurotrasmettitore inibitorio più abbondante nel cervello e che rappresenta una sorta di sedativo naturale. In più lo yoga accresce i livelli del fattore neurotrofico cerebrale (Bdnf), che contribuisce alla plasticità sinaptica, oltre che alla differenziazione dei neuroni. Non a caso livelli ridotti di questi neurotrasmettitori sono associati ad ansia e depressione».
La prova dell’efficacia di questa pratica millenaria arriva anche da un recente revisione apparsa sulla rivista «Frontiers in Psychiatry», che ha dimostrato gli effetti benefici contro depressione, schizofrenia e sindrome da iperattività e deficit di attenzione, l’Adhd. Disturbi che hanno in comune l’incapacità di rimanere concentrati sul presente e che lo yoga può contribuire a curare in modo naturale.

La Stampa 3.7.13
Il sesso postmoderno: tanta fatica per non fare l’amore
Da Bauman a Byung-Chul Han fioriscono i saggi che analizzano il tramonto dell’eros e il trionfo del porno nella nostra società, preda dell’ansia da prestazione
di Marco Belpoliti
qui

La Stampa 3.7.13
Raoul Casadei
“Così è nato il liscio, il ballo socialista”
Il re della Romagna fa un bilancio “politico” della sua vita “Abbiamo inventato il tempo libero per le classi popolari”
di Franco Giubilei

Il fondatore della dinastia
Quando morì zio Secondo, i romagnoli venivano da me in delegazione per chiedermi di prendere il suo posto: non potevo proprio tirarmi indietro
La famiglia
Viviamo insieme: io, mia figlia Carolina che è la mia manager, mio figlio Mirko, che continua la mia opera, mia figlia Mirna: sa che presto sarò bisnonno?

C’è una piccola storia, fra le tante della vita di Raoul Casadei, che sintetizza bene lo spirito del liscio e la sua clamorosa affermazione negli Anni Settanta come genere nazionalpopolare per eccellenza: «Una volta si ballava nei night, ma ci ballavano solo i ricchi. Una sera ero con mio zio Secondo a suonare da Salvioli, a Riccione, uno dei locali migliori della Riviera, quando vidi un proprietario terriero della zona cacciare via un contadino che lavorava per lui, dicendogli: “Cosa fai qua, vai a casa! ”. È per questo che abbiamo creato il ballo liscio: eravamo socialisti, abbiamo inventato il tempo libero per le classi popolari».
Il re del liscio ha 75 anni e alcune passioni vere (per la caccia, la pipa e il buon Sangiovese) che l’età non ha annacquato, anche perché si fa 15 chilometri di marcia ogni giorno sulla spiaggia: è venuto il momento per lui di aprire il baule dei ricordi nel libro «Bastava un grillo (per farci sognare) », scritto con Paolo Gambi, che esce oggi edito da Piemme.
L’architettura della sua villa di Cesenatico, a 300 metri dal mare e dalla rotonda «Romagna mia», dove campeggia un monumento a Secondo Casadei, l’autore del brano-simbolo del liscio, racchiude in un cerchio la sua concezione della famiglia: «Questa è casa mia, al piano superiore vive mia figlia Carolina che è anche la mia manager, nella villetta di fianco vive con la famiglia mio figlio Mirko (che continua a suonare con l’orchestra Casadei, perpetuando la dinastia del liscio, ndr), nell’altra mia figlia Mirna con la sua. Sa che sto per diventare bisnonno? E qui c’è il mio orto: limoni, patate, zucchine, pomodori, melanzane, prugne, pesche, susine… Ci passo quattro, cinque ore al giorno».
Percorrere a ritroso i ricordi di Raoul, che del bisnonno in pensione non ha proprio l’aspetto, abbronzato ed energico com’è, significa tornare all’Italia spezzata dalla guerra: «Dove abitavo con la mia famiglia passava il fronte: di qua dal fiume Rigossa c’erano gli inglesi, di là i tedeschi, e noi eravamo in mezzo».
Il libro descrive gli orrori del conflitto agli occhi di un bambino, ma prima ancora il pestaggio dello zio Secondo a opera dei fascisti, per ragioni politico-musicali: il mandante era un violinista geloso dei successi di Casadei, che dagli Anni Venti suonava valzer, polke e mazurche riadattate secondo il gusto ruspante romagnolo. E poi non andavano giù le simpatie socialiste dei Casadei, ancor più quando il piccolo Raoul abbattè un busto in gesso del Duce col badile, fra gli applausi del resto della famiglia.
Finita la guerra, mentre studia alle magistrali, Casadei junior si avvicina al rock’n’roll e fonda un suo gruppo, la Little Band: «All’epoca non si sentivano che swing e boogie, noi facevamo pezzi come “Rock Around The Clock” di Bill Haley. Non è stato un momento facile per mio zio, è stato anche fischiato, ma ha insistito con la sua musica ed è diventato l’uomo che ha sconfitto il boogie. Era stato lui a regalarmi una chitarra acustica, ma più che suonare mi interessava il rapporto con la gente. Soprattutto, in vita mia ho sempre scritto canzoni».
La simpatia per il rock dura poco, l’anima folk trasmessa da Secondo ha il sopravvento e il ragazzo comincia ad accompagnarlo dal vivo, mentre l’esigenza di guadagnarsi da vivere lo porta lontano dalla Romagna: «Ho vinto un concorso in Puglia come maestro elementare, lavoro che si sarebbe rivelato una grandissima passione e che ho fatto per 17 anni». Intanto continua a suonare, soprattutto d’estate, fino all’investitura ufficiale dello zio, che durante un concerto lo indica al pubblico come futuro leader dell’orchestra. Alla morte di Secondo, nel 1971, Raoul soffre terribilmente ma capisce anche che è arrivato il suo momento: «Ricevevo delegazioni di romagnoli che mi chiedevano di continuare. Con mio zio erano già usciti diversi dischi, come “Io cerco la morosa”, che Arbore metteva su alla radio durante “Alto gradimento” per poi sollevare la puntina prima della strofa “La voglio verginella”».
Casadei scrive «Ciao Mare» («Nel ’72 sono andato da Vittorio Salvetti e gli ho proposto questo valzerino. Lui prima ha sorriso, poi l’ha accettata al Festivalbar e l’ha trasformata in un successo»), mette mano all’orchestra svecchiandola nel sound, e in Italia scoppia la liscio-mania. Agli show dell’Orchestra Spettacolo partecipano migliaia di persone: «Ricordo la Rotonda di Garlasco, vicino a Pavia, con due, tremila persone che ballavano. Siccome l’atmosfera era bellissima, dal palco ho detto: “Vai col liscio! ”. Andava tutto bene, era un momento di felicità. “Sorrisi e Canzoni” ci ha fatto la copertina e il fenomeno è stato battezzato». Nascono immense balere e le orchestre si moltiplicano: «Solo in Romagna erano centinaia, con 12-13 Casadei, a volte omonimi, a volte proprio finti, e tutti facevano le mie canzoni, e alcuni le incidevano pure! ».
Oggi Raoul Casadei ha un erede musicale, il figlio Mirko, e un sogno nel cassetto: «Mi piacerebbe che Pupi Avati traesse un film dal mio libro: potrebbe cominciare con la scena di due bambini, io e mio cugino, che giocano con le barchette di carta nei solchi lasciati dai carri armati tedeschi e riempiti dalle pozzanghere».

Repubblica 3.7.13
Un secolo dopo l’uscita, torna il celebre saggio di Colajanni sulla criminalità
E già allora si parlava di trattative fra lo Stato e i boss
Cent’anni di mafia
Affari, politica e banche all’alba del ‘900
di Attlio Bolzoni

Ogni volta che se ne parla ci sorprendiamo sempre, come se l’avessimo appena scoperta. Eppure la conosciamo da molto tempo. Noi italiani abbiamo poco più di centocinquant’anni e – ufficialmente – anche la mafia ha la nostra età. Siamo nati insieme, siamo cresciuti insieme. È vissuta con noi e fra noi, a volte abbiamo fatto finta di non vederla, altre volte non abbiamo potuto ignorarla. Ma è rimasta sempre lì, in mostra o mascherata, aggressiva o silenziosa.
La mafia - questa è ormai la parola italiana più conosciuta al mondo, più di pizza, più di spaghetti - in verità è sempre stata uguale a se stessa e sempre diversa. Si è semplicemente adattata ai cambiamenti della società, nascondendosi, mimetizzandosi. Era rurale ed è diventata urbana, si è trasformata in multinazionale, prima della droga e poi della finanza.
In un recentissimo passato c’è chi si è spinto ad affermare che la sua storia sia stata, né più né meno, la storia d’Italia. Un punto di vista un po’ azzardato che non ne facilita la sua comprensione, facendoci vedere la mafia anche dovenon c’è e – soprattutto - a non farcela vedere mai dove invece c’è. Allora, forse, sarebbe meglio riconoscere che dentro la storia della mafia c’è anche un pezzo importante della storia d’Italia. E che la storia della mafia ci aiuta a capirne alcuni passaggi fondamentali.
Un saggio di centotredici anni fa appena ristampato –Nel regno della Mafia (Bur Saggi Rizzoli, pagg. 162, euro 10,00) – ci ricorda come quel «dibattito» sul rapporto fra la mafia e lo Stato sia fatalmente senza fine. E «l’odore»che si respira fra le pagine di questo pamphlet ci trasferisce (ci scaraventa, forse sarebbe meglio dire) dall’Italia del 1900 all’Italia di oggi. Sembra scritto ai giorni nostri il libro di Napoleone Colajanni, cospiratore mazziniano, ex garibaldino di Castrogiovanni – l’attuale Enna, al centro della Sicilia - poi «agitatore » politico e poi ancora deputato repubblicano diventato famoso per avere scoperchiato con le sue denunce il primo grande scandalo nazionale, quello della Banca Romana.
La tentazione che viene leggendolo, è quella di mantenerne intatta la trama sostituendo qua e là i nomi citati da Colajanni con alcuni dei nostri ultimi illustri uomini politici, alcuni funzionari di alto rango, alcuni capi mafiosi.
Pensare però che in questi centotredici anni non sia cam-biato nulla – proprio nulla? - significherebbe fare un favore (un altro) alla mafia e non tenere ragionevolmente conto dei passi avanti fatti (per esempio la «rivoluzione giudiziaria» di Giovanni Falcone e quel capolavoro che èstato il suo maxi processo a Cosa Nostra) e della nascita e dell’evoluzione – pur con tutti i suoi limiti e le sue derive – di quel movimento che ha preso il nome di «antimafia».
È indubbio comunque che il racconto di Colajanni, e l’analisi che fa di quella società di fine Ottocento, ci ripropone storicamente sconvolgenti somiglianze con quella contemporanea.
Napoleone Colajanni scrive tanto di mafia ma anche tanto di corruzione. E di vergognose scorribande bancarie, di coinvolgimenti fra sicari e «galantuomini » del Parlamento, di complotti di giudici e complotti contro giudici, di depistaggi, di una sbirraglia al servizio dei potenti, di trattative fra Stato e crimine, di oppressione «legale e illegale », di voto di scambio, di grandi elettori briganti, di Destra e Sinistra che si confondono, di «anarchia di governo», di «ministri conniventi coi delinquenti».
La tentazione, pagina dopo pagina ritorna sempre: è stato davvero scritto più di un secolofaNel regno della Mafia? Sicuramente Colajanni si è rivelato uno straordinario «cronista», meridionalista schierato contro le perversioni dello Stato unitario, sempre al fianco del proletariato contadino delle Calabrie e delle Puglie – così venivano chiamate allora - schiacciato dalla sconsiderata e criminale decisione di dividere, «spaccare» l’Italia fra Nord e Sud.
La sua denuncia più clamorosa, come abbiamo già accennato, fu quella contro il «buco» della Banca Romana, che nel passato era stata la Banca dello Stato Pontificio. Con le sue interpellanze parlamentari (e grazie a un dossier ricevuto segretamente sulle manovre occulte nell’istituto di credito), Colajanni nel 1893 provocò con una coraggiosissima campagna politica la caduta del governo Giolitti. Un inizio di Tangentopoli dell’età umbertina. Un ammanco di 9 milioni di lire, l’immissione di banconote false (stampate in doppia serie) per arricchire senatori e ministri, concessioni disinvoltedi mutui a imprenditori legati alla prima grande speculazione edilizia di Roma. Ci furono arresti e indagati celebri, ci furono anche funzionari della banca che si suicidarono. A cosa ci riporta tutto questo, se non agli avvenimenti degli ultimi anni in un’Italia dove politica e banche e finanza si sono intrecciate, sostenute e spremute a vicenda?
Nel libro si rivela anche una delle tante trattative fra Stato e mafia. Parlarne, ancora oggi fa paura. Se ne discute con stupore. Prima o dopo quella parola trattativa – negli articoli di stampa o nelle dispute si colloca prudentemente sempre un aggettivo, presentandola come improbabile o addirittura inverosimile. Quindi, una volta diventa«presunta», un’altra volta «ipotetica ». È un’ipocrisia tutta italiana per non vedere quello che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi da centocinquanta anni.
La storia della mafia è una storia infinita di trattative con lo Stato: c’è un filo che - dall’Unità d’Italia allo sbarco degli alleati, passando per il fascismo – ci trascina fino alle stragi del 1992.
Nel Regno della Mafiasi ricordano «transazioni» fra boss e autorità di polizia, si citano «relazioni amichevoli fra delegati di sicurezza pubblica con noti ladri », si racconta di questori che occultavano prove per proteggere assassini. Intese. Sodalizi. Lo dicevamo all’inizio: la mafia cambia sempre ma è sempre la stessa. Qualcuno oggi sostiene che si arriverà – o ce l’abbiamo già? - ad una mafia senza mafiosi. Sempre meno caratterizzata con il territorio, meno «tipica», molto diversa da quella che abbiamo imparato fin qui a conoscere.
Cosa dire di più? Forse è Colajanni stesso che ci dice tutto, nelle ultime righe del suo libro: «Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il Re della Mafia».

IL LIBRO Nel regno della mafia di Napoleone Colajanni Bur pagg. 162 euro 10

Repubblica 3.7.13
Uscire dalla crisi con la filosofia
Una proposta originale nel saggio di Moreno Montanari
di Umberto Galimberti

Stiamo attraversando un periodo di crisi oggettiva e soggettiva. La crisi oggettiva è determinata dal fatto che le leggi del mercato confliggono con il mondo della vita: dai giovani che non trovano lavoro, agli occupati che lo perdono, dagli imprenditori che chiudono le loro imprese, all’aumento progressivo e generalizzato della soglia dalla povertà. E la domanda che spontanea e drammatica sorge è quella del filosofo Franco Totaro: «Ma i fini dell’economia sono anche i nostri fini?».
La crisi soggettiva è determinata dalla rassegnazione generalizzata, perché il conflitto non è più tra imprenditori e lavoratori, perché sia gli uni che gli altri si trovano dalla stessa parte e han-no come controparte il mercato. E come fai a prendertela con il mercato? Il mercato è nessuno, anche se il filosofo Romano Madera ci ricorda che, come leggiamo in Omero: «Nessuno è sempre il nome di Qualcuno», ma questo Qualcuno non è identificabile.
Da questa considerazione prende avvio il libro, di Moreno Montanari, Vivere la filosofia (Mursia, 2013, p. 154, 14 euro), la cui lettura consiglio a tutti, perché segnala come una possibile via d’uscita quella di tornare al messaggio che la filosofia, al suo nascere e prima di diventare disciplina di Accademie, ha consegnato all’uomo, invitandolo a rispettare la sua natura che, a differenza di quella animale, non si accontenta della realtà quale è data, ma la vuole trascendere, la vuole oltrepassare, rifiutando la rassegnazione, il cinismo, i vissuti di impotenza, gli atteggiamenti vittimistici e persino l’indignazione, se poiquesta lascia le cose così come sono.
La filosofia, infatti, non è nata come “teoria”, ma come “rifiuto a imprigionare la vita in ciò che è”, e quindi nell’accettazione rassegnata del dato, nell’inerzia che non promuove la problematizzazione dell’ovvio, dell’opinione diffusa e acriticamente accolta come inoltrepassabile, riducendo l’uomo, da attore della propria vita, a semplice spettatore e vittima di poteri che lo sovrastano e, soggiogandolo, ne decidono il destino. Si tratta della filosofia che si pone domande non tanto per trovare risposte teoriche, ma, come scrive María Zambrano, per indurre gli uomini ad «essere loro stessi risposte che mettono in moto la vita».
Per questo occorre superare lo sguardo individualistico che giudica lo stato delle cose dall’angolatura ristretta del proprio punto di vista, e guardarle nella prospettiva del Tutto, dove la scala dei valori subisce una radicale trasformazione. E allora diventeremo responsabili delle sorti dell’aria, dell’acqua, della biosfera, della vegetazione, della sorte degli animali, in una parola della Terra, nei confronti della quale non abbiamo ancora formulato alcuna etica, perché finora abbiamo limitato l’etica a regolare i conflitti tra gli uomini, ma non ancora a farsi carico degli enti di natura. E già la Terra non regge, se è vero, come ci informa il “Global Footprint Network”, che se tutti vivessimo con lo stile divita americano avremmo bisogno di cinque terre, e con lo stile italiano di 2,7. Quello di guardare le cose dall’alto e non dal nostro particolare punto di vista, quello di pensarci parte di un Tutto e non al vertice del creato è il primo esercizio filosofico trasmessoci dagli antichi Greci, e divenuto per la prima volta nella storia umana particolarmente concreto con la globalizzazione.
Un altro esercizio filosofico è quello indicato da Platone come “esercizio di morte” dove l’aver presente che si deve morire, si trasforma, come scrive Pierre Hadot, nell’invito a “ricordarsi di vivere”, e quindi a fare una nuova gerarchia dei nostri bisogni e desideri soprattutto in riferimento a quelli superflui, una diversa gradazione delle nostre urgenze e dei nostri valori, una più significativa valorizzazione delle nostre relazioni affettive, in una parola un modo nuovo di essere uomo, non appiattito sulle istanze del presente, ma prospettico e rivolto al futuro, non col tratto passivo di chi spera o attende, ma con quello attivo, conforme alla natura propria dell’uomo che non si consegna alla realtà di fatto, ma vuole oltrepassarla.
Questi sono alcuni degli esercizi filosofici ben illustrati ed esemplificati da Moreno Montanari. Altri se ne aggiungono come la scrittura meditativa che riflette sui testi che leggiamo, disposti a farci modificare da loro non solo in ordine alle nostre idee ma soprattutto in ordine alla nostra esperienza, accompagnati in questo da quell’atteggiamento che è l’amore, che per Platone è “filo-sofo”, perché non possiede l’altro, come la filosofia, che non possiede la verità, ma la cerca perché la ama.
Si dirà: con questi esercizi filosofici si trasforma se stessi, ma non il mondo. Non è vero perché, come ci ricorda Michel Foucault ne La cura di sé:«Il punto di Archimede sul quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me steso», perché «quando riusciamo a curare le ferite del nostro mal di vita – scrive Montanari – ne beneficiano tutte le persone che intrecciano la loro esistenza con la nostra, mentre quando ciò non riesce finiamo inevitabilmente per intossicarle». La lezione di “vivere la filosofia” è impartita, ora spetta a noi praticarla.

IL SAGGIO Vivere la filosofia di Moreno Montanari Mursia pagg. 314 euro 14

Repubblica 3.7.13
I demoni del Vaticano tra misteri e reliquie
“L’altare dell’ultimo sacrificio”, il nuovo thriller di Paolo Rodari
di Alessandra Rota

Quando al genere thriller si affianca la parola Vaticano è inevitabile pensare a Dan Brown e ai misteri delCodice da Vinci. Una visione all’americana della Curia, di grande successo e di colorita invenzione. Paolo Rodari invece ne L’altare dell’ultimo sacrificio (Piemme, pagg. 229, euro 12,90) mette tutta la sua esperienza di conoscitore della Santa Sede. E il suo romanzo ha due piani di lettura. Uno ha la tessitura classica della crime novel, l’altro è una specie di baedeker pieno di informazioni sullo Stato pontificio e i suoi protagonisti. E non è tutto perché, grazie alla sua esperienza di cronista e di esperto del mondo cattolico, Rodari riesce ad infilare nella narrazione una serie di curiosità, aneddoti, credenze, leggende, legati ai grandi luoghi di culto della Capitale. Un po’ come aveva fatto molti anni fa (era il ’55) Roger Peyrefitte nelle Chiavi di San Pietro.
C’è il dito “miscredente” di san Tommaso, svariati frammenti di Croce, ci sono chiodi e reliquie che servono per riportare alla memoria storie, cruente, di santi e martiri. Fin qui l’aspetto quasi souveniristico della vicenda, in realtà la trama è tutt’altro che leggera: minorenni, vestite soltanto con la tunica candida delle postulanti, violentate e uccise nelle basiliche romane, seguendo un macabro rituale (spine conficcate nella testa “in ricordo” della corona di stelle della Madonna, la graticola infuocata a immagine della morte di San Lorenzo, la ferula papale per trafiggere il cuore di una delle sventurate...) che si ripete secondo una numerologia che per la Chiesa ha una grande importanza. Nulla è lasciato al caso, non c’è misericordia né pietà. Accanto ad ogni vittima, un salmo, sul pube di ogni fanciulla, incisa nella carne, la data di nascita e di morte. Le chiavi del regno sono affidate a papa Michele, quelle della sicurezza ad un ex agente della Cia, padre John Harris e poi ci sono il capo della gendarmeria, il comandante delle guardie svizzere. Le gerarchie “militari” e “clericali” sono descritte con assoluta precisione, così come le abitudini e gli arredi dei Palazzi pontifici. Il Male si nasconde con facilità nei corridoi, nei sotterranei, nelle stanze dove vive il pontefice. Non ci si può fidare di nessuno, il complotto è dietro l’angolo, le intercettazioni sono all’ordine del giorno, i dossier spuntanocome funghi, e hanno titoli ambigui e pericolosi: la “Grande Mattanza”.
Mentre nelle logge il Maligno svolazza come le tuniche degli alti prelati, Lupo Pagani, vaticanista della Nuova Opinione è alla ricerca di scoop e del senso della vita. Una moto potente, l’iPod che rimanda le note diAlways on my minddi Willie Nelson (ma la vera colonna sonora del racconto è la marcia funebre di Chopin), un nonno molto amato che lo ha iniziato ai segreti della Città Eterna (il tunnel di Castel Sant’Angelo o la strana fessura nella tomba di San Paolo), un amore sfortunato e uno che rischia di esserlo: toccherà a lui lanciare l’allarme rompendo l’omertà che avvolge i delitti e sbrogliare la matassa di un sanguinoso gomitolo che ha come protagoniste fanciulle vergini peraltro sempre figlie di dipendenti del Vaticano.
Rivalità, omosessualità, potere, all’interno del colonnato del Bernini non c’è limite all’umana malvagità e a farne le spese, oltre alle vittime, c’è anche papa Michele che vede cadere ad una ad una le sue certezze; ad un certo punto perfino la fede traballa. Sotto la finestra del Santo Padre la gente, il popolo di Roma, rumoreggia. Grida: “Assassini”, vuole i colpevoli dello scempio. Sembra la fine del mondo. È la fine di un mondo.
Paolo Rodari ha scritto vari libri sull’esorcismo, anche con padre Amorth e l’ultimo La mia possessione con Francesco Vaiasuso. Che conosce bene la materia lo dimostra nell’epilogo dell’Altare dell’ultimo sacrificio. Dove è il lettore a non avere scampo: se vuole arrivare ad una soluzione deve superare il malessere, il disagio, perfino il ribrezzo che provocano le ultime pagine. Ma vale la pena.

IL LIBRO L’altare dell’ultimo sacrificiodi Paolo Rodari Piemme pagg. 229 euro 12,90