lunedì 8 luglio 2013

Continua il "mistero" sul vergognoso caso della madre e del la bimba di sei anni consegnate al dittatore kazako
Per non imbarazzare il governo, Corriere e Unità non ne hanno mai parlato fino ad oggi neanche in un solo rigo 
Dopo che Financial Times, Stampa e Fatto ne hanno parlato, anche Repubblica aggiorna sulla faccenda
Per sapere tutto (quel che fin qui è possibile sapere) si può leggere qui di seguito "Segnalazioni" alle date di venerdì sabato e domenica.
Repubblica 8.7.13
Alfano nega di essere coinvolto. “Perché la moglie del dissidente kazako non ha chiesto subito asilo?”
Caso Ablyazov, “espulsione illegale” il governo chiamato a rispondere
di Alberto Custodero

ROMA — E ora il governo sarà chiamato a rispondere in Parlamento sulla controversa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Il capogruppo democratico in commissione Affari Costituzionali della Camera, Emanuele Fiano, presenterà oggi un question time chiedendo che l’Esecutivo risponda giovedì prossimo. Il punto da chiarire di questo giallo internazionale che imbarazza il nostro Paese al punto che lo stesso premier, Enrico Letta, ha avviato una propria indagine interna è sostanzialmente uno: chi ha “venduto” Alma Shalabayeva al governo del Kazakhstan?
L’operazione di espulsione di moglie e figlia del discusso dissidente (raggiunto da un ordine di cattura internazionale per un furto di centinaia di milioni di euro), è stata gestita dalla Squadra Mobile di Roma, in collaborazione con l’Ufficio Immigrazione e con la Digos. Il passaporto di tipo diplomatico trovato in possesso della donna è stato giudicato falso da tre livelli di magistratura: il giudice di pace, il tribunale ordinario e quello per i minorenni. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, al quale il premier ha chiesto spiegazioni, ha fatto sapere di non essere stato chiamato o coinvolto nella procedura di espulsione.
Ma c’è imbarazzo, al Viminale, per l’esito di questa vicenda, sorprende la velocità con la quale è stata compiuta tutta l’operazione, senza attendere la conclusione di un successivo pronunciamento della magistratura che, a donna e ragazzina espulse, ha poi valutato “legale” il passaporto.
Al ministero dell’Interno resta un punto da chiarire: perché la moglie del dissidente-latitante kazako non ha presentato domanda di asilo politico non appena entrata nel nostro Paese lo scorso settembre? Se l’avesse fatto, la procedura di espulsione, così com’è previsto dalla legge, non sarebbe stata avviata. Eppure Alma Shalabayeva — sottolineano ancora al Viminale — è stata trattenuta quasi tre giorni, s’è confrontata in Tribunale con i propri legali: perché né i suoi avvocati, né lei, hanno chiesto asilo politico nei nove mesi in cui è stata in Italia e nei tre giorni della procedura d’espulsione?

Corriere 8.7.13
Civati si candida alla segreteria del Pd
«Noi l'alternativa al governo di larghe intese»
Dal Politicamp di Reggio Emilia il deputato annuncia la candidatura: «Vendicheremo Prodi e Rodotà»
qui

Repubblica 8.7.13
Civati: voglio portare a casa i voti grillini
“Le larghe intese non fanno per noi usciamone presto”
“Mi candido per ridare un’identità al partito Non possiamo arrivare al 2015”
di G. D. M.

ROMA — «Mi candido alla segreteria per uscire dalle larghe intese. Non possiamo stare in eterno con il Pdl». Pippo Civati correrà per la guida del Pd. Lo ha annunciato in maniera solenne alla fine del «Politicamp », la riunione organizzata a Reggio Emilia cui ha partecipato anche Fabrizio Barca. «D’Alema dice che questa esperienza di governo finisce nel 2015. Ecco, io sono per anticipare i tempi».
Anche se Letta è un dirigente del Pd e il lettiano Boccia chiede ai candidati di inserire nelle loro mozioni una clausola di fedeltà all’esecutivo?
«La mia risposta a Boccia è: anche no. Non si pongono condizioni in un dibattito che dev’essere aperto, libero. E il congresso del partito è utile a capire come usciamo da questa situazione. Io capisco bene che non è facile staccare la spina. Questo è anche il nostro governo. Ma prima o poi dobbiamo metterci nelle condizioni di salutare la compagnia. Penso prima del 2015».
Ha lo stesso obiettivo di Renzi, dunque.
«Matteo vuole forzare, ha un traguardo personale da raggiungere. Io invece non cerco forzature e non affronto il tema a cuor leggero. Ma che si debba ritrovare una nostra identità, beh su questo non ho dubbi ».
Un’identità di sinistra secondo lei.
«Al Politicamp c’era Sandra Zampa, la portavoce di Prodi, e non credo si possaascrivere alla sinistra. Io ho ottimi rapporti con Prodi e con Rodotà, anche se non gli tiro certo la giacca per portarli dalla mia parte. Sono in campo con alcune posizioni di partenza e l’alleanza con Sel è una di quelle, ma ho un atteggiamento laico: sono pronto a cambiare in corsa idee e obiettivi».
Con Grillo invece la rottura è definitiva?
«Mi sono affezionato alla metafora del «cane da riporto» evocata da Grillo. Voglio riportare nell’alveo del centrosinistra i tanti elettori che hanno votato 5stelle per darci un segnale. Se invece parliamo del lavoro in Parlamento come si fa a non cercare un confronto. Grillo definisce Letta capitan Findus. Ma il vero capitan Findus è lui: ha congelato i suoi eletti».
Non c’è niente di buono che questo esecutivo possa fare per il Pd?
«Una nuova legge elettorale per esempio. Però non accetto di sentirmi dire che non si può immaginare un dopo, che in caso di crisi non si va nemmeno a votare. Quello che voglio fare è cominciare un percorso. Riportare le truppe a casa, anche gradualmente come si fa nelle missioni di pace. Ma quando dico casa non penso alla Grande coalizione».

Corriere 8.7.13
Epifani accelera sul congresso Ipotesi primarie il 15 dicembre
E Renzi: candidatura, deciderò dopo l’estate
di Tommaso Labate

ROMA — Adesso sul taccuino di Guglielmo Epifani è stata impressa anche una data. Il «15 dicembre», l’ultima domenica prima delle vacanze di Natale. Certo, in campo resistono anche le opzioni del primo e del 5 dicembre, che i renziani ovviamente preferirebbero perché più lontane dal «rompete le righe» di fine anno. Ma la data del 15 dicembre potrebbe essere, per le primarie della scelta del prossimo segretario del Pd, quella giusta. Non foss’altro perché il segretario, così facendo, manterrebbe la promessa fatta a Matteo Renzi di celebrare il congresso «entro la fine dell’anno» e, contemporaneamente, accontenterebbe il più possibile tutti quelli che premono per un allungamento dei tempi.
Adesso si tratterà soltanto di capire se il segretario calerà il jolly della data alla riunione della commissione per il congresso in programma questa mattina al Nazareno. Oppure se la terrà ancora nel mazzo in vista del successivo appuntamento che i commissari che lavorano alle regole si sono già dati giovedì mattina. Di certo c’è soltanto che Epifani vuole chiudere i lavori per la riscrittura dello statuto «in modo unitario». E che, per raggiungere l’obiettivo, sta resistendo al pressing dei tanti dirigenti romani che gli chiedono di dribblare l’indicazione di «una data precisa».
Eppure, nonostante la data impressa sul suo taccuino, Epifani sa che la questione regole non è ancora chiusa. Anche perché, se da un lato ha tutta l’intenzione di mantenere le promesse sia sull’apertura dei gazebo (voteranno tutti) sia sulla conclusione delle assise, il segretario spinge perché la prima fase congressuale sia completamente svincolata delle candidature per la segreteria. «Prima discutiamo di politica poi di nomi», è l’adagio che ripete in continuazione l’ex leader della Cgil.
Soluzione, questa, che continua a non piacere ai renziani. Che continuano a insistere, come spiega il componente della commissione congresso Lorenzo Guerini, sul fatto che «le candidature nazionali arrivino prima dei congressi dei circoli».
Ma se la matassa sulla coincidenza tra ruolo di segretario e candidato premier può essere ancora sbrogliata col «lodo D’Alema» - evitando qualsiasi riferimento e lasciando aperte tutte le strade - lo slittamento della presentazione delle candidature è un ostacolo grosso. Non foss’altro perché, in linea di principio, il fronte che si oppone al sindaco avrebbe più tempo per trovare uno sfidante. Sfidante che, nell’ottica di alcuni popolari come Beppe Fioroni, dovrebbe essere Enrico Letta in persona.
Renzi, nel frattempo, dice al Corriere Fiorentino che sulla candidatura «deciderò a settembre». Anzi, precisa, «decideremo insieme. Io e molti altri sindaci di tutta Italia». La rete del sindaco di Firenze sul territorio, soprattutto dopo il round di campagna elettorale per le amministrative, è già molto forte. Tanto per citare i neo-eletti, stanno con lui il primo cittadino di Treviso Giovanni Manildo, quello di Siena Bruno Valentini e anche il vincitore della disfida di Brescia Emilio Del Bono. Senza dimenticare i big che potrebbero presto avvicinarsi all’esercito renziano: dal primo cittadino di Bari Michele Emiliano al sindaco di Bologna Virginio Merola, passando probabilmente per il neo-presidente dell’Anci Piero Fassino e per l’«appoggio esterno» di Giuliano Pisapia, che comunque non è del Pd.
Intanto, i candidati già iscritti alla competizione scaldano i motori. Pippo Civati annuncia una candidatura per ricompattarsi a Sel e al popolo delle primarie e «vendicare i casi Prodi e Rodotà». il vicepresidente del Parlamento europeo Gianni Pittella, in un’intervista al manifesto, annuncia che nella sua mozione ci sarà «l’ingresso» del Pd «nel Pse». Primi colpi di una battaglia ancora lunga. Che tra oggi e giovedì potrebbe avere i primi due punti fermi. Le primarie aperte, certo. E anche quella data, che per ora rimane impressa nel taccuino di Epifani.

Repubblica 8.7.13
Primarie del Pd a dicembre, aperte ai non iscritti
Separati i ruoli di segretario e candidato. Renzi: decido a settembre con i miei sindaci
di Goffredo De Marchis

Sarà Epifani a gestire in prima persona questi ultimi passaggi prima della direzione che approverà le date ufficiali. Sia oggi sia giovedì guiderà lui i lavori della commissione. In quella sede saranno fissati i tempi generali della fase congressuale. Verosimilmente, si partirà il 10 ottobre con icongressi di circolo e provinciali per arrivare all’inizio della campagna per le primarie a novembre. Per il lettiano Francesco Boccia «una delle precondizioni della mozione congressuale dovrà essere il sostegno al governo». Le candidature per la segreteria si presenteranno quindi a settembre. Se qualcuno voleva allungare i tempi, si è convinto di non avere chance dopo le nette segnalazioni in arrivo dai territori. Nel 2014 si torna alle urne per le amministrative e il Pd sarà impegnato nelle primarie per le amministrazioni locali. Gli appuntamenti non si potevano accavallare, questo il messaggio inviato dai dirigenti regionali.
Dopo l’ufficialità delle candidature di Pippo Civati e Gianni Cuperlo, la possibile corsa di Stefano Fassina, si attende solo la scelta di Renzi. Il sindaco di Firenze, in un’intervista alCorriere Fiorentino nella quale annuncia una via da dedicare a Oriana Fallaci, parla anche del suo percorso. «Deciderò se candidarmi a settembre. Lo farò insieme ai sindaci. Mi prenderò quest’estate un po’ di giorni per pensare». Certo, se la decisione è affidata agli amministratori locali della sua corrente, i dubbi possono essere spazzati via in un attimo. Tutti gli chiedono di correre, di non fidarsi delle promesse del «partito romano ». Ma è anche vero che una piccola tentazione di ricandidarsi a Firenze esiste. Per giocarsi le suecarte più avanti. Con una paura: e se il governo va in crisi mentre corre per Palazzo Vecchio, come farebbe Renzi a cambiare i suoi piani? Il rinvio a settembre serve quindi a verificare una serie di variabili.
Innanzitutto, la mobilitazione intorno al suo nome, una volta chesarà scritto nero su bianco il percorso del congresso. La tenuta del governo Letta. E gli indispensabili sondaggi che oggi danno un sostanziale testa a testa tra il premier e il sindaco nell’indice di popolarità. Epifani ha quindi colto i pericoli insiti negli slittamenti e nei rinvii. Quello indicato da DarioFranceschini, ossia la scissione. Un’accelerazione consente a tutti di mettere le carte in tavola e di impegnare il partito in una battaglia aperta. Anche il governo, a questo punto, preferisce non avere un Pd impegnato in liti personali. Meglio il confronto a viso aperto.
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ROMA — Adesso il Pd accelera sul congresso. O meglio sui tempi della decisione. Non vi sono più ragioni per rinviare. Esiste un accordo di massima sulle regole e c’è anche una data indicativa per le primarie: il 15 dicembre. Perciò Guglielmo Epifani questa settimana ha convocato due riunioni della commissione congressuale: una oggi e l’altra, l’ultima, giovedì. Anticipando di una settimana la fine dei lavori.
Le primarie saranno aperte a tutti i cittadini e non limitate solo agli iscritti. È una delle condizioni poste da Matteo Renzi, ma da subito è stata condivisa dalle altre anime del partito. Verrà invece stabilita la separazione dei ruoli tra segretario e candidato premier. Più precisamente, il segretario non è automaticamente il concorrente per Palazzo Chigi, ma può essere uno degli sfidanti. È una regola indigesta per il sindaco di Firenze, ma sicuramente quella su cui sono minori i margini di protesta: fu modificata proprio per far correre Renzi la volta scorsa, difficile disconoscere questo dettaglio.

Repubblica 8.7.13
Soldi ai partiti, Renzi difende i tagli di Letta
Ma si apre la sfida nel Pd. Il tesoriere: testo da cambiare. Pdl: no all’abrogazione dei fondi
di Carmelo Lopapa

ROMA — Il governo alza le barricate in difesa della legge che cancella il finanziamento ai partiti. Perché «o il sistema viene riformato o andiamo verso il collasso », sostiene il premier Enrico Letta, mettendo in guardia da qualsiasi manovra di alleggerimento messa a punto per attenuare i rigori della norma. Trova man forte questa volta in Matteo Renzi, pronto a sparare a pallettoni contro le eventuali retromarce. Soprattutto quelle che qualcuno sta ipotizzando dentro il Pd.
I suoi parlamentari di riferimento sono sul piede di guerra. «Su questo punto il Pd deve essere limpido e lineare, troppe ambiguità finora» attacca ad esempio il deputato Dario Nardella: «Il governo Letta si gioca la credibi-lità, ora si tratta di capire se tutti nel nostro partito credono in questa battaglia o meno, se la linea sia quella di Sposetti o quella del premier: diciamo no al 2 permille ma anche ai finanziamenti a progetto». Il monito di Letta nei colloqui privati — tanto più dopo prese di posizioni come quella dell’ex tesoriere Ds e senatore Pd, Ugo Sposetti, nell’intervista di ieri aRepubblica («Senza soldi ai partiti la democrazia è morta») — si spinge fino al punto di minacciare l’intervento drastico di Palazzo Chigi con un decreto, alla ripresa d’autunno. Avvertimento che conta poco o nulla sulla sponda Pdl, dato che Cicchitto e altri sono contrari all’azzeramento di ogni forma di finanziamento e lo dichiarano fin d’ora.
Il ddl governativo a stento concluderà il suo iter in commissione Affari costituzionali della Camera a fine luglio. Tutta la partita in aula poi sarà rinviata alla ripresa. Lo scontro è aperto proprio dentro il Partito democratico. Col tesoriere Antonio Misiani chiamato in causa quale big sponsor del contestato rimborso «a progetto». Il deputato, che ha anche studiato in Canada le forme di finanziamento alternative ai partiti, nega qualsiasi intenzione di sabotare il ddl Letta in combutta coi colleghi del Pdl. Spiega che «se c’è un modello Ottawa da guardare con attenzione riguarda il tetto massimo alle singole donazioni private, forti agevolazioni fiscali per le piccole donazioni, l’organizzazione della raccolta fondi dei partiti canadesi ». Del resto, aggiunge, il provvedimento adottato dal governo «ha significativi margini di miglioramento ». Cicchitto su questo punto dà ragione a Sposetti, dissentendo dalle ipotesi di abrogazione tout court del finanziamento dei partiti, «perché in questo contesto porterebbe anche alla loro di abrogazione: su tale punto andrebbe aperta una riflessione senza demogogia». Elena Centemero, anche lei Pdl, mette in guardia dall’articolo 13 del testo che conterrebbe interventi «salva fondazioni» e avverte: «Se il provvedimento resta tale, non lo voterò». I Radicali invitano Renzi e il M5s a sostenere il loro referendum (uno dei 12) anti finanziamento. Ma i parlamentari grillini, in una nota, chiamano in causa su questa vicenda il presidente del Consiglio Letta: vuole approvare la riforma del finanziamento, «peccato però che non dica una parola sui 91 milioni di euro che entro il 31 Luglio lo Stato verserà nelle casse dei partiti ». Hanno depositato una mozione che sarà discussa il 15 luglio alla Camera con cui chiedono «al governo di sospendere il pagamento dei rimborsi di luglio in attesa che il Parlamento abbia approvato la riforma». Difficile, dato che è stato già approvato lo scorso anno il dimezzamento del budget, che ha già dimezzato la cifra erogata dallo Stato alle formazioni politiche, dai quasi 180 milioni a 91 milioni di euro. Intanto, se e quando il ddl Letta verrà approvato, l’abolizione del finanziamento sarà graduale. Per entrare a regime solo nel 2016.

Repubblica 8.7.13
Nelle motivazioni dei giudici di Milano si afferma che Berlusconi guidava l’azienda anche senza avere cariche
Ineleggibilità, democratici e M5S all’attacco “Si tenga conto della sentenza Mediaset”
di Luana Milella

ROMA — Berlusconi eleggibile o ineleggibile? La battaglia più attesa della legislatura parte giovedì al Senato, alle 14, nella giunta per le autorizzazioni, presieduta dal vendoliano Dario Stefàno. E sin dalle prime battute esploderà il nodo politico, l’alleanza sul campo tra una parte del Pd e l’M5S, che potrà creare qualche malumore anche nel governo. Per certo non sarà graditaal Cavaliere che ne detiene la determinante golden share. L’ex pm ed esponente di punta dei Demoratici Felice Casson e l’ex capogruppo grillino Vito Crimi, con formule diverse, chiederanno che la sentenza del processo Mediaset entri a pieno titolo nella discussione sul ruolo dell’ex premier. Quella sentenza d’appello — 4 anni per frode fiscale e 5 d’interdizione dai pubblici uffici — contiene “la novità” che potrebbe cambiare il corso del dibattito. Lì è scritto che Berlusconi è l’effettivo dominus delle sue aziende. Questo lo metterebbe in conflitto con la legge 361 del ‘57 sul conflitto d’interesse.
Ma vediamo che succede giovedì. Il caso Molise, dove il capo del Pdl ha optato per l’elezione, arriva in giunta. Sul tavolo una dozzina di ricorsi. Il relatore è Andrea Augello, esponente Pdl, ex An, vice in giunta nella scorsa legislatura, noto per la sua intransigenza sul caso Di Girolamo poi salvato dall’assemblea. Ata scrivendo la relazione. Nessuna anticipazione. Ma il quadro è chiaro. Le precedenti pronunce della Camera sono a favore di Berlusconi. Se le pezze d’appoggio restano le stesse la pronuncia potrebbe essere identica. La suspense è per le nuove “carte”. Pd e M5S sono pronti. Casson lo conferma: «L’ho sempre detto. Chiederò che venga acquisita la sentenza Mediaset, perché lì ci sono i fatti nuovi che la giunta deve valutare». Come conferma Vito Crimi, M5S ha già pronto il suo dossier, «in cui c’è anche la sentenza Mediaset», con materiale che «chiarisce il ruolo di Berlusconi, il suo essere tuttora l’effettivo titolare e proprietario delle sue aziende». M5S sfida il Pd: «Sigiocano tutto e devono rispondere politicamente delle loro scelte, dovranno dire se sono pro o contro Berlusconi, se sono succubi o no». Casson ha già fatto il suo passo, ma molti Pd in giunta si sono espressi per Berlusconi.
Toccherà ad Augello analizzare i nuovi documenti. L’ex premier non ha presentato una memoria difensiva, ma potrebbe farlo, così come potrà chiedere d’essere ascoltato. Giacomo Caliendo, vice presidente Pdl, lascia intendere che la decisione sia senza storia, ma dalle sue parole si capisce che i berlusconiani vogliono prendere tempo. Nessuna decisione prima dell’estate, tentativo di agganciare la Cassazione per Mediaset, ma valutare anche le altre due sentenze su Mediatrade, quella di Roma chiusa nel marzo 2013 con un “il fatto non sussiste” e quella di Milano dell’ottobre 2011 con un “assolto per non aver commesso il fatto”.
Berlusconi padrone effettivo? Il nodo è qui. Conviene citare una lettera di Ettore Gallo, famoso ex presidente della Consulta, che il 24 giugno del ‘96, in occasione di un niet della Camera, scriveva a Vittorio Cimiotta, da sempre impegnato nella battaglia per l’ineleggibilità: «Affidare a una persona di fiducia la posizione giuridica da cui deriva l’ineleggibilità per regolarizzare la situazione sul piano formale è un’autentica fraus legis che lo spirito sostanziale della legge non consente».

Repubblica 8.7.13
Parla Sbalchiero, il capo degli artigiani veneti. Oggi Casaleggio torna nel Nord est
“Il voto ai 5Stelle è stato inutile sbagliato rifiutare il dialogo”
di Matteo Pucciarelli

MILANO — Il co-leader del Movimento Cinque Stelle Gianroberto Casaleggio torna in Veneto per incontrare gli imprenditori, così come fece insieme a Beppe Grillo durante la campagna elettorale. Riuscendo a raccogliere numerosi consensi ed adesioni. Oggi sarà a Castelbrando, a pochi chilometri da Treviso, ospite della Confapri, associazione di piccoli e medi imprenditori con la quale il legame è ormai solido. Non sarà solo: con lui, tra gli altri, i sindaci Federico Pizzarotti, Flavio Tosi e Giovanni Manildo. Il tema, ovviamente, è l’economia: come farla ripartire? Ma l’aria intorno al M5S, da queste parti, è un po’ cambiata. Sensazione confermata dall’esito delle scorse amministrative: a Treviso, per dire, i Cinque Stelle sono passati dal 24 per cento di febbraio al 6,8 del giugno scorso.
Il vicentino Giuseppe Sbalchiero da due anni è a capo della Confartigianato Veneto, che conta 60mila associati. Come molti dei suoi colleghi aveva votato il M5S alle politiche.
E oggi rifarebbe quella scelta?
«Innanzitutto bisogna dire perché in tantissimi, tra i nostri associati e non, diedero il loro voto a Beppe Grillo. Cioè per dare un segnale forte a centrodestra e centrosinistra, per dirgli “guardate che lanostra pazienza sta finendo, datevi una mossa”. Dopo anni in cui il 70-80 per cento della nostra categoria aveva premiato Pdl e Lega».
Il risultato qual è stato?
«Che il M5S ha scelto la via del rifiutare tutto e tutti. Le riforme non si stanno facendo anche per colpa di questo atteggiamento. Il voto di protesta si è rivelato fine a se stesso, quindi inutile».
Quindi la fiducia in Grillo è già finita? Il vostro non era un voto di adesione ma solo un segnale?
«In alcuni casi c’è ancora chi crede in lui. Ma tutti i voti presi a febbraio oggi come oggi sono una chimera. Il fenomeno si è ridotto di molto. E sa chi se ne avvantaggerà? L’astensionismo. La totale sfiducia ».
Padroncini e operai, nelle vostre fabbriche, si erano ritrovati a votare M5S. I lavoratori la pensano come voi su Grillo? Stessa delusione?
«A dire il vero erano anni che accadeva la stessa cosa, questa comunanza tra piccoli imprenditori e collaboratori, magari votando Lega. La quale doveva portare il federalismo, e invece niente. Ora è toccato a Grillo, e ancora niente. C’è una sensazione di rifiuto molto diffusa».
Domani (oggi, ndr) sarà all’incontro con Casaleggio?
«Ho altri impegni. La dialettica resta comunque utile, ci mancherebbe.Il fatto è che si parla troppo,magari».
E il governo di larghe intese come vi sembra?
«Stiamo ancora aspettando che cominci a governare. Che si tagli la spesa pubblica inutile e la burocrazia. E si dia il via alle riforme. Altrimenti succede che si tornerà a votare con questa stessa legge. Metà cittadini non ci andranno nemmeno. E l’altra metà decreterà ancora una volta il totale immobilismo».

Corriere 8.7.13
Per le dichiarazioni c'è tempo fino al 28 luglio. Poi le sanzioni
I redditi online agitano i ministri
Rischiano multe fino a 10 mila euro
D'Alia: «Trasparenza totale». Le amministrazioni obbligate
a informare i cittadini su ogni passaggio di denaro
di Monica Guerzoni
qui

La Stampa 8.7.13
“Dietro Stamina una multinazionale della cosmetica”
I soldi e gli interessi internazionali sul metodo Vannoni
Non è una cura Se passasse questa tesi non sarebbe necessaria la sperimentazione in quanto si tratterebbe di trapianto
di Valentina Arcovio

Mister Stamina non è solo. D i e t ro le quinte della battaglia intrapresa da Davide Vannoni e la sua Stamina Foundation si celano strutture e persone che nelle cellule mesenchimali hanno visto un proficuo business, prima di una potenziale terapia salva-vita ancora da accertare. Il primo tassello di questa intricata tela si chiama Medestea, una multinazionale farmaceutica che commercializza, tra le altre cose, prodotti cosmetici e integratori. Il collegamento tra Medestea e Stamina è ormai pacifico. Lo stesso Vannoni, infatti, ha ammesso che la multinazionale farmaceutica si è impegnata a finanziare le attività della Fondazione Stamina. «Medestea doveva finanziare parte della nostra attività con due milioni di euro – dichiara Vannoni - ma è in crisi di liquidità, per cui ce ne ha dati solo 450mila. Speriamo che ci siano altri versamenti». Medestea, il cui presidente è l’industriale Gianfranco Merizzi, è una società che in passato ha già avuto a che fare con le autorità. Precisamente 14 anni fa, quando il pm torinese Raffaele Guariniello, ora impegnato a indagare su Stamina, ha messo sotto inchiesta il Cellulase, un prodotto anti-cellulite commercializzato da Medestea. «Il coinvolgimento di una multinazionale con Stamina dimostra quindi che c’è un evidente interesse economico sul metodo di Vannoni», dice Elena Cattaneo docente all’Università di Milano e direttrice del centro di ricerca sulle cellule staminali UniStem. Interesse che avrebbe lo scopo di arrivare ad una vera e propria deregulation dell’uso delle cellule mesenchimali facendone passare l’utilizzo non come un farmaco, ma come un trapianto, come espressamente auspicato da Stamina e Medestea. In questo modo infatti l’uso delle staminali seguirebbe iter meno rigidi, eliminando alcune delle fasi della sperimentazione che sono invece necessarie per approvare un farmaco e per definirne la sicurezza ed efficacia. Anche il dibattito svolto in Parlamento per la conversione in legge del decreto Balduzzi che avvia la sperimentazione a spese del pubblico (3 milioni di euro) ha risentito di questa azione. Nel tavolo tecnico organizzato da Balduzzi, la stragrande maggioranza dei rappresentanti scientifici non ha nascosto le profonde perplessità verso Vannoni e il metodo Stamina. L’unica voce fuori dal coro, secondo chi ha partecipato ai lavori, sarebbe stata quella di Camillo Ricordi, docente all’Università di Miami, Florida, dove dirige il celebre Diabetes Research Institute (Dri) e la divisione del Centro Trapianti. «Nel suo intervento - riferisce Michele De Luca, direttore del Centro di Medicina Rigenerativa Stefano Ferrari dell’Università di Modena e Reggio Emilia - Ricordi ha spiegato perché a suo avviso le terapie a base di cellule staminali, quindi anche quelle di Vannoni, dovessero essere regolate come i trapianti e quindi non sottoposte alle fasi II e III della sperimentazione prima del loro ufficiale impiego. Inoltre ha sottoposto alla nostra attenzione un documento che, secondo lui, avrebbe dimostrato che la politica di Usa e Giappone sulle staminali stesse andando verso una deregolamentazione. In realtà, in quei documenti abbiamo letto solo una proposta che un certo Arnold Caplan voleva fare agli enti regolatori americani».
Arnold Caplan è presidente della Osiris Therapeutics, società americana che come Medestea è interessata alle staminali. Ricordi e Caplan avrebbero avuto rapporti, almeno stando a un post pubblicato su Facebook da Merizzi, in cui viene annunciata l’uscita di un articolo su Cell R4, in cui Caplan e Ricordi avrebbero sostenuto la deregulation delle terapie rigenerative. L’articolo è stato pubblicato, ma con la sola firma Ricordi, che qualche settimana prima aveva dichiarato di esser disponibile a testare le cellule di Stamina negli Usa. Solo due giorni fa la marcia indietro di Ricordi, che precisa: «non sono un collaboratore di Davide Vannoni, né un suo sostenitore». Al di là dei rapporti dei vari attori, c’è un dato di fatto che ha lasciato perplessa la comunità scientifica italiana. Una volta passato al Senato, nel decreto Balduzzi è apparso un emendamento in cui in pratica si stabiliva che le colture di cellule mesenchimali sarebbero state regolate dalla legge i trapianti. «Un emendamento che per fortuna è stato cancellato dalla legge approvata», dice De Luca. Ora però gli scienziati chiedono al governo di bloccare la sperimentazione. «Il caso Stamina – dice Paolo Bianco dell’Università Sapienza di Roma - è un problema di ordine pubblico, nel quale la politica ha avuto le sue responsabilità ed è venuto il momento che la politica se le assuma seriamente». (3- fine)

Repubblica 8.7.13
“Acqua, così è stato aggirato il referendum”
Due anni dopo, l’accusa dei comitati. “Cambiata la voce in bolletta”. E in 15mila si autoriducono
di Matteo Pucciarelli

MILANO — Cosa resta, due anni dopo, dei 26 milioni di “sì” per l’acqua pubblica? Al di là della vittoria politica e simbolica di un movimento larghissimo (sostenuto dal Pd, passando per sinistra radicale e M5S) l’applicazione pratica è ancora lontana. Il tentativo di sabotarne l’esito partì esattamente due mesi dopo il voto con un decreto legge del governo Berlusconi; si aggiunse il “Salva Italia” del governo Monti, che trasferì all’Autorità per l’Energia e il Gas (Aeeg) le «funzioni di regolazione e di controllo dei servizi idrici». La quale nel dicembre scorso, molto pragmaticamente, cambiò la voce in bolletta: la “rimunerazione del capitale” pari al 7 per cento del capitale investito che doveva sparire (e in bolletta pesava, anzi pesa, dal 10 al 25 per cento) si è trasformata in “rimborso degli oneri finanziari”. «Il secondo quesito referendario aggirato con un gioco di prestigio, insomma», dice Paolo Carsetti del Forum per l’Acqua Bene Comune. Fortuna vuole che alla fine pochi Ato (7 su 92) abbiano recepito la nuova tariffa, anche perché in autunno il Tar della Lombardia potrebbe bocciare il piano dell’Aeeg.
Pure sul primo quesito, quello che caldeggiava la trasformazione delle aziende che gestiscono il business dell’acqua da private a pubbliche, si è fatto poco. Le giunte più sensibili all’argomento si sono adeguate (la prima fu Napoli, poi Reggio Emilia, Palermo e Vicenza), le altre traccheggiano. «Quasi che il rispetto del voto fosse una gentile concessione», commenta amaro Marco Bersani di Attac Italia. Allora si va avanti a suon di petizioni, ricorsi al Tar, al Consiglio di Stato e a battaglie di disobbedienza civile. O meglio, di “obbedienza civile”. Come? Autoriducendosi le bollette. Lo hanno fatto, finora, quasi 15mila cittadini. «La campagna — spiega Carsetti — consiste nell’applicare una riduzione pari alla componente della “remunerazione del capitale investito”. Non si tratta di disubbidire ad una legge ingiusta, ma di obbedire alle leggi in vigore, così come modificate dagli esiti referendari ». I primi a farlo furono quelli del comitato di Arezzo, poi presi ad esempio un po’ in tuttaItalia, 15mila utenze in tutto. «All’inizio i gestori ci mandarono le diffide, a qualcuno minacciarono di staccare l’acqua. Ora hanno smesso. Sanno che se dovessero farci causa, la perderebbero subito», racconta Lucio Beloni.
La questione sembra tecnica — ok, ma alla fine chi paga i costi della gestione delle reti idriche? — e infatti l’Aeeg ha sempre risposto che «se vogliamo far rimanere l’acqua pubblica i costi devono essere coperti». Dal pubblico però, mentre la gestione resta di fatto privata. «È evidente che il reale proprietario del bene — ragionano i comitati — è chi lo gestisce e non colui che ne mantiene la proprietà formale. La gestione dell’acqua non conosce crisi economica, nel senso che la sua essenzialità per la vita la rende immune dall’andamento generale dei consumi. Gestire il servizio idrico è monopolio».
E poi ci sono i numeri di uno studio del ministero dello Sviluppo Economico che sovvertono il mantra “privato uguale investimenti”: dal 1990 al 2000, decennio in cui si privatizzavano le aziende municipali dell’acqua, gli investimenti nel settore idrico sono diminuiti di oltre il 70 per cento, passando da circa due miliardi di euro l’anno a 600 milioni; mentre le bollette nel periodo ‘97-2006 sono aumentate del 61,4 per cento, a fronte di un’inflazione del 25 per cento.
Intanto in Parlamento qualcosa comincia a muoversi, con la costituzione di un gruppo interparlamentare composto da 200 deputati di Pd, Sel e M5S. Obiettivo: riproporre la legge di iniziativa popolare del 2007 presentata dai comitati e rimasta chiusa in un cassetto. Che prevede la pubblicizzazione completa di tutte le aziende idriche. E solo allora un piano di investimento (pubblico naturalmente) per il rifacimento della rete idrica. Finanziato attraverso la Cassa depositi e prestiti.

Repubblica 8.7.13
L’intervista
Stefano Rodotà, tra i promotori della consultazione del 2011: “Dietro al pubblico ci sono i diritti fondamentali delle persone”
“La politica deve rispettare quella scelta altrimenti i cittadini non si fideranno più”
di M. P.

MILANO — «Sapevamo che ci sarebbe stata una forte resistenza nel rendere fattuale l’esito del referendum», spiega Stefano Rodotà, che fu tra gli estensori dei quesiti sull’acqua.
Quindi l’esito di quella consultazione è stato tradito?
«È evidente come si sia cercato di sabotare quel voto. Ma quei tentativi sono stati bloccati da sentenze importanti. In più la linea della ripubblicizzazione sta andando avanti anche in città dove non ci sono giunte della sinistra radicale, come a Torino con Fassino. Questo è un buon segnale che mi fa essere positivo».
E sul fronte delle tariffe?
«Ci sono 35 ricorsi aperti presentatidai comitati. Si sta cercando di far passare il referendum come un “consiglio”, ma è stato una piena espressione della volontà popolare».
Prima Berlusconi, poi Monti, hanno provato a depotenziare il voto di due anni fa. Il governo Letta come le sembra?
«È presto per dirlo. Sappiamo che le pressioni delle multinazionali sono forti, il Pdl vuole un piano di privatizzazioni e anche le direttive economiche di Ue e Fmi sembrano chiedere la stessa cosa. Eppure l’iniziativa dei cittadini europei per l’acqua come diritto umano in pochi mesi ha superato il milione e mezzo di firme ed è riuscita a fare breccia. Il Commissario al Mercato Interno, Michel Barnier, ha preso atto della grande mobilitazione sul tema dichiarando che il servizio idrico verrà stralciato dalla direttiva concessioni, un provvedimento che rischia di accelerare ulteriormente le privatizzazioni dei servizi pubblici. E su questo aggiungo: non dimentichiamo che dietro al pubblico ci sono i diritti fondamentali delle persone».
La creazione del gruppo interparlamentare sull’acqua sortirà qualche effetto?
«Credo sia stata un’ottima cosa. Non sono mai stato per la contrapposizione tra movimenti e istituzioni. Finora il centrosinistra aveva un po’ trascurato i comitati, quando invece l’intelligenza politicaavrebbe voluto che si facesse il contrario. Ma meglio tardi che mai».
In 27 milioni votano per una cosa, poi chi governa prova a farne un’altra. Sembra che recarsi alle urne serva a poco...
«È un grande rischio che la politica “ufficiale” si assume. Quando quella che chiamo “altra politica” si manifesta come nel voto referendario e poi non viene ascoltata, ecco che prende piede l’antipolitica di chi dice “non cambia nulla, è tutto inutile”. Per questo mi appello a chi di dovere: il referendum va rispettato nelle forme e nella sostanza».

Repubblica 8.7.13
L’archeologia a Roma motore di rinnovamento
di Mario Pirani

Una sfida non da poco quella che inaugura il ritorno della sinistra in Campidoglio, la pedonalizzazione dei Fori Imperiali. O, meglio, la chiusura al traffico privato – non ai mezzi pubblici e ai taxi – dell’ultima parte dell’arteria che, dal bivio con via Cavour e largo Corrado Ricci, sbocca sul Colosseo e raggiunge il suo apogeo nella grande area, già libera, dominata dall’arco di Costantino. È bene che i limiti almeno iniziali del progetto siano stati indicati da subito, così da zittire le voci tendenti a sabotarlo presentandolo come la creazione di una unica area impercorribile dai veicoli da piazza Venezia fino alle ultime pendici del Colle Oppio. Pur nelle dimensioni ridotte annunciate, la decisione di Ignazio Marino segna una netta cesura con la decadenza e la rinuncia a una politica di rilancio culturale che la Capitale ha subìto sotto il governo della destra. L’idea di riportare all’appeal di un grande parco archeologico fruibile dai cittadini e libero dall’inquinamento, l’area Fori- Colosseo-Arco di Costantino, ha un valore che senza tema di retorica si può definire di carattere mondiale. Eppure ci par di sentire fin d’ora il brontolio di chi vorrebbe chiudere ogni accesso ai Fori e aprire ogni varco possibile agli automezzi. “Andiamoci piano” è la parola d’ordine lanciata dal partito che non aveva nulla da ridire quando a maggior lustro dell’Urbe sono tornati i gladiatori e gli archi e le colonne sono state trasformate in quinte pericolanti per i mega concerti rock. Ora, in un paese come l’Italia, dominato da una lentocrazia che blocca per decenni anche il restauro di un casello ferroviario, si ha l’improntitudine di appellarsi, non alla indispensabile accuratezza nelle scelte ma al toccasana dei “tempi lunghi”. A dare il la ai passaggi dal “lento” al “lentissimo”, come in una sinfonia di Bruckner, è la pagina cheIl Messagero,capofila dei patiti del no, dedica all’evento. Ecco l’incipit della cronaca: “Tempo per studiare il piano. Nessuna fretta, nessuna accelerazione, ma la pazienza necessaria per verificare il senso dell’operazione. Sui Fori pedonali il ministro per i Beni culturali Massimo Bray sceglie la strada del lavoro con lentezza”. Un modo come un altro per non arrivare mai al compimento, ignorando volutamente che il piano di pedonalizzazione risale a ben 35 anni orsono e che l’iniziale insabbiamento coincise con la morte di Luigi Petroselli, il grande sindaco che per primo lo aveva promosso. Eppure alcuni risultati esemplari dovrebbero aver convinto anche quella parte timorosa ma pur riflessiva dei perplessi che le innovazioni sono indispensabili per lo sviluppo di una metropoli mondiale come Roma. Faccio due esempi: il primo è l’Auditorium- Parco della Musica che fino alla vigilia dell’inaugurazione fu bollato come una mostruosità fuori scala, destinato a vivacchiare mezzo vuoto e si è rivelato, invece, uno dei centri culturali più vivaci e vissuti della Capitale; il secondo è l’Ara Pacis. Altro oggetto di stupidi insulti che prima del restauro dell’architetto americano Richard Meier nessuno visitava, e che in poco tempo si è trasformato in uno spazio culturale e museale di maggior richiamo della città. Insomma l’innovazione urbana non è solo la moltiplicazione dei computer ma l’intelligente incrocio tra valorizzazione degli antichi reperti e architettura moderna. Certo, pericoli ve ne sono e vanno individuati in tempo. Il primo implica una maggiore ed efficiente opera di vigilanza e sicurezza, per far sì che quello che aspira ad essere il più grande parco archeologico del mondo non si trasformi in una mostruosa discarica a cielo aperto e in un rifugio per vagabondi, coatti e pericolosi frequentatori di spazi abbandonati. Come anche deve essere spietatamente impedita la proliferazione di rivendite, tipo suk. Altrimenti tanto valeva lasciarci i gladiatori in costume. La vigilanza municipale deve sposarsi, a questo e ad altri fini, con la partecipazione organizzata della cittadinanza alla gestione democratica del Parco. Per una Roma sempre più bella.

Repubblica 8.7.13
Abolite e province, ma non la mia
di Ilvo Diamanti

È SINGOLARE, ma anche significativa, la vicenda delle Province. Da oltre trent’anni si parla di cancellarle o, comunque, di ridurle sensibilmente. Con effetti del tutto opposti. Erano, infatti, 95 negli anni Settanta. E già si parlava di “abolirle”. Rimpiazzarle con altri enti intermedi. Negli anni Novanta sono salite a 103. E oggi sono divenute 110. Il problema è che le Province non sono solamente ambiti amministrativi e di governo locale, ma rappresentano, da sempre, un riferimento dell’appartenenza territorialeper le persone.
Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, su Limes). Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.
Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate –le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale. Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare. Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.
Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili ascomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.
C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo. Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.
Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali. Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro. Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.
Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.
Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.

il Fatto 8.7.13
Egitto, rischio di guerra civile

La Siria è già preda di una guerra civile e purtroppo l’Egitto si dirige nella stessa direzione. Vladimir Putin, ieri in Kazakistan, ha detto chiaramente quello che tutti temono: dopo il golpe dei militari e il (momentaneo?) fallimento del tentativo di affidare il governo ad interim a Mohamed El Baradei la situazione rischia di diventare ingestibile. Ieri mattina, ad esempio, un attentato ha colpito il gasdotto che dal Sinai - dove nei giorni scorsi sono stati uccisi un prete copto e almeno cinque soldati - raggiunge la Giordania: azioni simili erano state attribuite, negli anni scorsi, a gruppi religiosi estremisti, ma l’ultimo risaliva ad un anno fa. Anche le manifestazioni dei gruppi pro e contro Mohammed Morsi, il premier islamista deposto nei giorni scorsi, sono continuate. Tanto i gruppi che contestano le azioni dell’esercito, riuniti nella cosiddetta “Alleanza nazionale a sostegno della legittimità”, quanto il movimento popolare Tamarod (Rivolta, ndr), che ha animato la rivolta di piazza Tahrir, hanno manifestato a Il Cairo: i primi si sono recati davanti al palazzo in cui l’ex premier sarebbe tenuto agli arresti e sostengono che non se ne andranno fino alla liberazione del loro leader (le vie d’accesso alla zona, comunque, sono presidiate dall’esercito), i secondi sono tornati in decine di migliaia nel loro luogo d’elezione. La città, intanto, continua ad apparire spettrale: le strade della metropoli sul Nilo restano deserte, e i negozi chiusi, nel timore di nuovi scontri o violenze.
ANCHE AL JAZEERA, la tv satellitare all news con sede in Qatar, ha fatto le spese del caos e della guerra tra fazioni contrapposte che sta incendiando il Paese: ieri il procuratore generale egiziano, vicino all’ex premier Morsi, ha ordinato una perquisizione nella sede della tv al Cairo e il fermo del direttore Abdel Fattah Fayed e di altre 28 persone dello staff. L’accusa è aver trasmesso materiale che incitava alla violenza in occasione della decisione dei militari di deporre il precedente governo. Anche numerosi canali tv filo-Morsi, comunque, sono stati chiusi: è il caso, ad esempio, di Misr 25 dei Fratelli Musulmani (che potrebbero anche vedere arrestati due loro dirigenti).
Situazione tesa, come si vede, anche se ieri senza notizie di scontri o vittime (almeno al momento in cui andiamo in stampa). L’unica soluzione, come sostenuto anche dal governo italiano per bocca di Emma Bonino, sarebbe trovare un accordo sul nuovo premier che soddisfi tutti i movimenti politici in campo: “L’Egitto ha urgente bisogno di ritornare alla normalità evitando arresti arbitrari e assicurando un regolare processo alle persone arrestate”, ha detto il nostro ministro dopo una serie di incontri in Kuwait. La situazione, però, non sembra sbloccarsi visti i veti contrapposti delle varie fazioni. Anche Barak Obama, che sembrava aver appoggiato la soluzione El Baradei, ieri ha dovuto fare un deciso passo indietro: “Gli Stati Uniti respingono categoricamente le false affermazioni diffuse da alcuni in Egitto, secondo cui stiamo lavorando con specifici partiti politici o movimenti per dettare come dovrebbe procedere la transizione dell’Egitto”, ha specificato la Casa Bianca.

La Stampa 8.7.13
Egitto, la piazza con El Baradei “E’ lui il leader”
Ma spunta un outsider socialdemocratico Il premio Nobel bloccato dai salafiti
di Francesca Paci

Se non fosse per i cartelli che a Rabaah al Adawiya inneggiano al presidente deposto Morsi e a Tahrir al ministro della difesa el Sisi, le piazze rivali protagoniste della seconda rivoluzione egiziana sarebbero speculari. Lo stesso servizio d’ordine che controlla le borse dei manifestanti. La stessa capacità di mobilitare le masse che ieri, di nuovo, con buona pace del lavoro, hanno risposto ai reciproci tam tam gonfiando strade, sopraelevate, ponti. Gli stessi slogan contro il regime (militare o islamico) e per la Costituzione (scritta o da scrivere). La stessa pretesa di rappresentare gli ideali del 2011.
L’Egitto resta spaccato e se gli elicotteri militari sopra Tahrir rassicurano il fronte avverso ai Fratelli Musulmani, mettono però un’ipoteca pesante sulla tanto menzionata «riconciliazione nazionale». Dopo gli scontri degli ultimi giorni costati almeno 37 morti e 1400 feriti (un altro militare sarebbe stato ucciso ieri in Sinai), il muro contro muro, almeno al Cairo, è politico. La partita si gioca sul premier che gli attivisti di Tahrir insistono sia il leader dell’opposizione el Baradei anche a costo di rompere con al Nour, il partito salafita balzato una settimana fa sul carro del vincitore scaricando gli ex alleati Fratelli Musulmani ma responsabile del siluramento di sabato notte del
«troppo liberale» ex capo dell’Aiea. In serata, l’ennesimo colpo di scena porta alla ribalta l’avvocato Ziad Bahaa El-Din, un socialdemocratico meno controverso di el Baradei che, nel caso diventasse premier, potrebbe lasciare el Baradei la vicepresidente o la guida della commissione costituente.
«I salafiti non hanno partecipato né alla prima né alla seconda rivoluzione, se vogliono collaborare sono benvenuti ma non accettiamo veti da loro» afferma Emad Rauf, 30, membro del partito Free Egyptians, una delle 17 sigle antiislamiste riunite sotto il cartello «30 giugno». Ieri mattina si sono riuniti nel quartiere alla moda di Zamalek per rifiutare qualsiasi alternativa a el Baradei, che adesso si dice malato di laringite e dispensa no comment. Al Nour, già protagonista due anni fa di una campagna contro il bikini succinto della figlia del Nobel, argomenta che sarebbe un candidato divisivo non solo tra gli islamisti, per cui è un «amico degli Usa», ma anche tra gli egiziani, a stento informati del suo nome. Toccherà a Ziad Bahaa El-Din? I salafiti, rivela l’insider Abdullah Badran, avrebbero chiesto 48 ore di tempo.
«Noi non arretriamo, ho portato con me abiti e cibo per rimanere in piazza fino alla fine del Ramadan (che inizia tra pochi giorni, ndr) » afferma Ahmad Shafay, 26, insegnante d’inglese, costruendosi un giaciglio nella piazza pro Morsi di Rabaah al Adawiya. Il veterinario 29enne Mohammed el Ashab dice di essere meno religiosamente motivato («bevo e fumo»), ma di aver preso le ferie per difendere il voto democratico. Le parole d’ordine qui sono «legittimità» e «dignità», ma gli uomini che pattugliano con il casco e la mazza suggeriscono di essere pronti a una resistenza non esattamente gandhiana.
L’esercito sorveglia a distanza (non troppa). Se i Fratelli Musulmani ostentano il volto pacifico hanno però già incassato il sostegno della Gamaa al Islamya (i terroristi di Luxor) e di Al Qaeda, che per bocca di al Zawahiri ha invitato i mujaheddin ad arruolarsi in Egitto contro il golpe.
Pur consapevoli di rischiare un conflitto civile, le due metà dell’Egitto avanzano senza esclusione di colpi. Ieri la polizia ha fatto ancora irruzione negli uffici cairoti della tv nemica giurata di Tahrir al Jazeera, chiusi tre giorni fa. «Questione di sicurezza nazionale» ripete l’esercito parlando di «misure eccezionali e temporanee» come per gli arresti dei leader della Fratellanza (solo alcuni dei quali però sono stati rilasciati). L’America protesta debolmente e la Russia si scalda a bordo campo: la nuova guerra fredda? L’Egitto oggi è il campo di battaglia ideale.

La Stampa 8.7.13
“L’Occidente ci ha tradito finiremo in braccio ai russi”
Fra i Tamarod che non vogliono né islam né militari
di Franc. Pac.

Il vento è cambiato a Tahrir. Oggi che la piazza, icona della rivoluzione egiziana, ha abbracciato i carri armati, l’opinione pubblica occidentale gli ha voltato le spalle preferendogli la rivale Rabah Aladawya, dove gli islamisti un tempo minacciosi si sono riposizionati come vittime del colpo di stato militare. Questa almeno è l’impressione della piazza «golpista» che si sente fraintesa se non addirittura tradita dall’Europa e dagli Stati Uniti.
«A sei mesi dalla caduta di Mubarak ci accusavate di aver ceduto la Primavera araba all’inverno islamista e adesso che mettiamo fuori gioco i Fratelli musulmani non va bene lo stesso» osserva il medico 31enne Kamel Mones, bevendo Coca Cola al caffè Borsa, crocevia della protesta. Il problema non è se i media, a partire dalla Cnn ormai detestata quasi quanto al Jazeera, definiscano o meno «colpo di stato» quanto sta accadendo al Cairo, ma la percezione che continuino a giudicare il mondo arabo con il paternalismo descritto da Edward Said nel celebre saggio «Orientalismo».
«All’estero non si vede la differenza tra processo democratico e valori democratici, quelli che i Fratelli musulmani hanno maltrattato in ogni modo, dalla scrittura della propria Costituzione alla criminalizzazione delle Ong fino all’assedio alla Corte Costituzionale» ragiona Alfred Rauf, attivista del partito Dustur. Ha scritto un blog intitolato «l’impeachment democratico di un presidente democraticamente eletto» in cui replica alle critiche di Washington ricordando quando Nixon, dopo aver violato la legge, fu allontanato in nome della democrazia. L’amico Hassan mostra sul cellulare il video in cui una nota tv internazionale intervista il leader della Jama’a al Islamiya Assem Abdel Maged, «il bin Laden egiziano», nel ruolo dell’elettore scippato del voto.
«Tecnicamente parlando anche quello contro Mubarak è stato un golpe, ma all’epoca Tahrir era così seducente da ispirare Puerta del Sol a Madrid e Occupy Wall Street. Che differenza c’è con il Morsi di oggi che, senza l’intervento dell’esercito, sarebbe stato prelevato a forza dalla folla, esattamente come rischiava il Faraone? Allora aggiorniamo le categorie geopolitiche, si tratta di un colpo di stato civile» continua Alfred. A giorni volerà in Germania per incontrare politici e giornalisti e spiegare loro la democrazia autoritaria della seconda rivoluzione egiziana.
Il tradimento dell’occidente è pane quotidiano in piazza Tahrir, quasi più dello scontro con gli agguerriti sostenitori dei Fratelli musulmani, che difendono la loro posizione anche mediaticamente accogliendo i cronisti a Nasr City con cortesi spruzzi d’acqua fresca sul viso accaldato.
«È folle, gli islamisti vi considerano il diavolo e voi ne sostenete la legittimità» commenta l’avvocatessa Rajia Omran, attivista dei diritti umani più volte premiata anche negli States. Con lei a consumare un’insalata prima della decima riunione della serata c’è l’economista Ahmed Naguib. «L’equilibrio globale è cambiato, la Russia è tornata una superpotenza e non vede l’ora di sostituirsi all’America nel finanziare l’esercito egiziano e all’Europa negli scambi commerciali» nota Ahmed. E pazienza se Mosca non sia un modello di democrazia: i parametri, come i presidenti, cambiano.

Corriere 8.7.13
«Come nei Balcani, giusto l’intervento dei militari»
Moïsi: «Il golpe non è certo legale ma è legittimo»
di Stefano Montefiori

PARIGI — Dominique Moïsi, crede che l’Egitto stia per sprofondare in una guerra civile? E che possa ripetersi quel che sta accadendo in Siria?
«Il rischio c’è ma non mi pare lo scenario più probabile. L’Egitto è un Paese profondamente diviso tra islamisti e tutti gli altri. Ma non credo che finirà come in Siria».
Come mai?
«L’esempio stesso dei massacri in Siria è un monito per tutti a cercare di fermarsi prima. E poi le due situazioni sono molto diverse. Intanto l’Egitto ha un’altra tradizione di rispetto, tolleranza e diversità. Poi, a differenza della Siria, l’esercito è compatto: sta tutto dalla parte delle forze che hanno rovesciato Morsi qualche giorno fa».
Il braccio di ferro ora è incentrato su El Baradei. Crede che sia l’uomo giusto?
«Al contrario, ho subito pensato che dare l’incarico di premier a El Baradei fosse una pessima scelta. È l’egiziano che piace a noi occidentali, rassicurante e moderato, ma precisamente per questo motivo è rifiutato da una parte consistente della popolazione egiziana. In Egitto non gode della popolarità che ha all’estero, lo amano solo i circoli più moderni e liberali. È una personalità che divide molto».
Qual è il suo giudizio sull’imbarazzo dell’Occidente?
«La caduta di Morsi è stata accolta in modo positivo dalla maggioranza del mondo occidentale, ma allo stesso tempo il modo in cui è caduto, con un golpe militare, non può essere accettato apertamente. L’imbarazzo è inevitabile. Torna la distinzione, inaugurata una ventina d’anni fa con l’intervento nei Balcani, tra legalità e legittimità».
Ovvero?
«Nella ex Jugoslavia l’intervento della Nato era discutibile dal punto di vista legale perché mancava il via libera del Consiglio di Sicurezza, ma era legittimo perché permetteva di porre fine ai massacri dei civili. Quel che è accaduto in Egitto forse non è legale ma legittimo. Cioè il popolo è sceso in piazza per denunciare il mix di incompetenza e intolleranza del governo in carica. Quel che hanno fatto è illegale ma pensiamo sia legittimo e quindi fatichiamo a condannarlo. È una distinzione che io giudico accettabile e pericolosa allo stesso tempo. Se andiamo troppo lontano cadiamo vittime della soggettività. Però attenersi alla legalità comporta la paralisi: lo abbiamo visto con l’inefficienza dell’Onu e con l’inazione in Siria. Un intervento occidentale in Siria sarebbe più che legittimo, visto che Russia e Iran certo non si preoccupano della legalità».
Qual è il peso della questione religiosa in Egitto dopo i nuovi attacchi contro i copti?
«È un tema fondamentale perché riguarda l’identità stessa del Paese. La forza dell’Egitto non sta solo nella demografia (più di 80 milioni di abitanti) o nella centralità strategica, una sorta di Impero di Mezzo del Medio Oriente, ma anche nel fatto che la sua forte identità pre-islamica è ancora presente, incarnata in parte dai cristiani copti. Il fatto che gli egiziani possano con qualche ragione dirsi discendenti dei Faraoni dà al Cairo una sicurezza e un orgoglio che sono una risorsa di fronte alla crisi identitaria del mondo arabo-musulmano».
I militari difenderanno i copti?
«Quando era al potere, l’esercito si era già fatto garante della diversità dell’Egitto e potrebbe tornare a proteggere le minoranze. Nell’esitazione degli occidentali a condannare il golpe c’è anche la preoccupazione per la sorte dei cristiani d’Oriente. La stessa che ci fa esitare nel sostenere i ribelli siriani, perché lì i cristiani sono di solito dalla parte di Assad».
Che accadrà nei prossimi giorni?
«Non potrà andare peggio che sotto Morsi, io credo. La questione cruciale è la vita quotidiana degli egiziani. Né i militari saliti al potere subito dopo la fine di Mubarak né i Fratelli musulmani sono riusciti a far ripartire l’economia e a riportare in Egitto i turisti».
Che dovrebbe fare quindi l’Occidente?
«Aiutare massicciamente l’Egitto. La società egiziana è disfunzionale e sclerotizzata ma resta di grande civiltà. Se il caos in Siria è grave, in Egitto sarebbe catastrofico per tutti».

Corriere 8.7.13
Se il governo è ostaggio dei salafiti
di Cecilia Zecchinelli

Tutti impegnati a discutere se quello egiziano sia stato o meno un golpe, se a deporre Morsi sia stata la piazza o il generale Al Sisi, pochi stanno dando peso — in Occidente e in Egitto — al fatto forse più inquietante. Per cacciare la Fratellanza, il Fronte 30 giugno dell’opposizione non solo ha inglobato tutte le forze laiche. Ma ha accolto il partito islamico salafita Al Nour, già alleato della Fratellanza e ora suo primo rivale. Sabato sono stati loro a bocciare platealmente Mohammad El Baradei come premier ad interim dopo che la nomina era già stata annunciata. Lo stesso è avvenuto ieri con il socialdemocratico Ziad Bahaa El Din. Entrambi troppo liberal e difensori della separazione tra Stato e moschea, per quanto possibile almeno in Egitto. Ultraconservatori, fortemente radicati nelle classi urbane e rurali più povere, entrati in politica solo nel 2011, i salafiti sono gli unici che vogliono lo Stato islamico basato sulla sharia, le leggi contro le donne e i cristiani, contro il vino e il balletto. Insomma il cui obiettivo è replicare sul Nilo il sistema dell’Arabia Saudita a cui non a caso sono molto legati e che ha fatto di tutto per cacciare i Fratelli. I loro tentativi di convincere Morsi a muoversi in quella direzione sono falliti. Lo hanno abbandonato e tutti in Egitto hanno lodato la loro «lungimiranza politica», l’alleanza con il Fronte laico. Peccato che a fare due conti, sostiene l’analista Emad Mostaque, dal 27% dei voti alle ultime parlamentari Al Nour potrebbe arrivare la prossima volta a oltre il 40%, specie se la Fratellanza sarà in disparte per scelta o per forza. «È un rischio ma credo che i laici prevarranno tanto più che ora le forze legate all’ex partito di Mubarak sono tornate in campo», dice il noto politologo Hisham Qassem. Una bella consolazione per chi vede negli eventi di questi giorni la seconda rivoluzione. Una lotta tra mubarakiani e salafiti è l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Egitto. Ma non la meno improbabile.

Corriere 8.7.13
Mappa dei geni prima dell'impianto È nato il bimbo libero da malattie
Screening a tappeto sull'embrione, il piccolo ha già un mese
di Mario Pappagallo

Prima i genitori conoscevano il proprio figlio solo da nato. Con l'avvento dell'ecografia l'album di famiglia si è arricchito delle prime «foto» pre-nascita da ricordare. Poi si sono visti padri girare con la mappa dei cromosomi del futuro figlio. E ora un ulteriore salto in avanti: in teoria, e probabilmente qualcuno (all'estero) lo proporrà, il bebè potrà avere in «banca» tutta la sua mappa genetica. La foto del cuore delle sue cellule fissata quando era un abbozzo di embrione. Scatto e sviluppo in sole 16 ore.
È un nuovo metodo, presentato ieri a Londra durante il congresso della Società europea di riproduzione umana ed embriologia (Eshre). Sarà limitato a «vedere» in un solo esame tutto ciò che non va nei cromosomi e nei geni. Null'altro. L'annuncio scientifico parte da un lieto evento simbolico e beneaugurante: «È nato il primo bimbo in provetta il cui Dna è stato analizzato "a tappeto" prima dell'impianto nell'utero materno», dice ai colleghi il «padre» della tecnica. Chi parla è Dagan Wells, università di Oxford, uno dei pionieri della diagnosi preimpianto. Un maschietto, che gode di ottima salute, è il primo nato al mondo con la sua mappa genetica nel cassetto. A Dna «garantito».
Il metodo di Wells si chiama Next generation sequencing (Ngs): permette di ottenere in sole 16 ore un quadro completo di tutte le anomalie genetiche dell'embrione, sia quelle che interessano i singoli geni (fibrosi cistica, talassemia) sia quelle che riguardano le alterazioni del numero dei cromosomi (dagli eccessi, come le trisomie della sindrome di Down, ai difetti, come le monosomie della sindrome di Turner). Dopo aver verificato l'affidabilità di questa tecnica su cellule prelevate da 45 embrioni portatori di anomalie genetiche, i ricercatori britannici hanno decido si provarla sul campo usando gli embrioni al quinto giorno di sviluppo prodotti da due coppie ricorse alla fertilizzazione in vitro (Ivf). È stato così possibile selezionare (conoscendone la vitalità genetica e l'assenza di alterazioni) e impiantare un singolo embrione per coppia: in entrambi i casi ha attecchito dando il via ad una normale gravidanza. La prima si è felicemente conclusa a giugno ed è quella dell'annuncio al congresso. Anche la seconda gravidanza si è appena conclusa con successo, ma senza il primato da letteratura scientifica.
«Praticamente — spiega al Corriere Andrea Borini, a Londra in qualità di presidente della Società italiana di fertilità e sterilità (Sifes) — si è conclusa la fase di sperimentazione. Da oggi il metodo Wells può entrare in commercio». Borini continua: «La vera novità è l'essere riusciti ad unificare in una sola analisi i diversi metodi finora adottati per individuare le patologie di singoli geni, quelle del Dna mitocondriale e quelle dei cromosomi. Anche oggi possiamo arrivare alle stesse informazioni ma con tempi, per alcuni test, più lunghi. Per esempio per sapere se c'è una patologia di un singolo gene occorre prelevare il tessuto dall'abbozzo di cellule (blastocisti) in terza giornata, congelare l'embrione perché per i risultati si devono attendere minimo due giorni e poi impiantarlo se tutto risulta nella norma. Con il nuovo metodo messo a punto da Wells in 16 ore si sa tutto e si impianta l'embrione senza nemmeno doverlo congelare. E si può attendere la quinta giornata per fare il prelievo da analizzare. Potenzialmente, poi, c'è una riduzione dei costi (un solo esame) oltre che dei tempi». E in periodo di crisi economica anche questo gioca a favore.
In Italia, con le leggi in vigore, si potrà fare questa diagnosi preimpianto? Solo per le coppie sterili che chiedono di sapere se l'embrione è sano (se «malato» non si uccide ma si congela) e per le coppie sterili che sanno di essere portatrici di un gene «malato». Stop. All'estero lo potranno fare tutti quelli, anche i non sterili, che ricorrono alla fertilizzazione in vitro. Un domani forse proprio tutti. Fermo restando che, al momento, resta vincolato alla diagnosi di ciò che non va e non a sapere tutto il resto. Anche se possibile.

Corriere 8.7.13
L'embrione garantito «geneticamente sano»
Un figlio sano o su misura?
di Edoardo Boncinelli

Molto probabilmente geneticamente sano. Così sarà il bimbo o, meglio, ciascuno dei due bimbi, nati da due coppie diverse, il mese scorso in Inghilterra, dopo che il complesso dei loro geni è stato scrutinato da cima a fondo con una nuova tecnica di sequenziamento veloce del Dna. Per quanto riguarda le sue predisposizioni genetiche questo ragazzo non dovrebbe avere quindi brutte sorprese. I più importanti dei suoi geni non nascondono nessuna insidia e così sarà per buona parte della sua vita. Per lui, per i genitori e per tutti i suoi parenti non è una sicurezza da poco. Con questo metodo non si possono prevedere, ovviamente, le malattie o gli incidenti che gli capiteranno, né le mutazioni geniche che potranno comparire in qualche parte del suo corpo a tarda età, ma per tutto il resto starà al sicuro. Non si potrà dire nemmeno se sarà molto intelligente o meno, bello o brutto, alto o basso, magro o grasso, né se studierà matematica o greco o si dedicherà all'elettronica o alla contabilità. Questo non è dato saperlo. Non è quindi un bimbo su misura, ma un bimbo geneticamente sano. Una cosa, questa, che qualche anno fa non sarebbe stata neppure pensabile. Come è potuto succedere tutto questo? Combinando due tecniche, in parte già sperimentate e in parte nuove di zecca. La parte sperimentata è prima di tutto la diagnosi genetica cosiddetta pre impianto. Si preleva da un abbozzo di embrione umano di cinque giorni, ottenuto tramite una fecondazione in vitro, una delle pochissime cellule che lo compongono. Ci si conduce sopra un'approfondita analisi genetica e, se tutto è a posto, si impianta il resto delle cellule dell'abbozzo in un utero e gli si lascia completare la sua gestazione. All'estero questo viene fatto ormai da qualche tempo, mentre in Italia è sostanzialmente proibito. L'analisi genetica consiste nell'esame per sommi capi di tutto il Dna contenuto nella cellula in questione. Questa analisi esclude le principali mutazioni possibili, ma non tutte. La parte nuova è invece rappresentata dalla tecnica usata per analizzare il suo Dna. Invece di studiarlo un po' qui e un po' là, questo Dna viene analizzato nella sua interezza in poche ore usando il cosiddetto sequenziamento di nuova generazione. Non possiamo nemmeno tentare di spiegare in cosa consiste, ma ci accontenteremo di dire che questo metodo si avvicina di molto al determinarne la sequenza completa, nucleotide per nucleotide. Un trionfo della scienza e della tecnica, quindi, con un paio di interrogativi etici. A parte la liceità di condurre una fecondazione in vitro, non vista da tutti di buon occhio, si pone il problema della diffusione e della potenza di tale tecnica. Questa dovrebbe essere messa a disposizione di tutti e non soltanto di qualche privilegiato, e resta da valutare se in futuro ci si accontenterà di avere figli sani o si pretenderà di avere figli su misura. Si tratta di problemi che la società deve analizzare e dibattere al più presto, ma sarebbe folle rinunciare a uno strumento di questo tipo: meglio sani per scelta che malati per caso.

Corriere 8.7.13
Come si insegna filosofia nelle scuole francesi
risponde Sergio Romano

Secondo J. E. Meade, premio Nobel per l'economia nel 1977, il problema del Liceo classico non erano il latino e il greco, ma la filosofia, che secondo lui doveva essere studiata solo all'Università e da studenti con spiccata propensione per la materia, mentre nelle menti dei liceali produceva solo confusione.
In effetti non mi sembra un gran vantaggio uscire dalle superiori con la convinzione che solo nella filosofia consista il vero sapere, come ritenevano Croce e Gentile, che del Classico sono i padri.
Giorgio Vergili

Caro Vergili,
Quando ho difeso il Liceo classico, qualche giorno fa, un lettore, Secondiano Zeroli da Bagnoregio, in provincia di Viterbo, mi ha rimproverato di avere dato giudizi che sarebbero stati validi cinquant'anni fa, e ha aggiunto che troppe cose sono cambiate da allora. Temo che oggi, difendendo l'insegnamento della filosofia, gli darò un'altra buona ragione per muovermi lo stesso rimprovero. Non siamo i soli, tuttavia, anche se il metodo può cambiare da un Paese all'altro. In Francia, ad esempio, lo scopo dell'insegnamento è quello di preparare l'alunno a un esercizio logico-letterario in cui l'eleganza, lo stile e la qualità della scrittura non sono meno importanti della riflessione filosofica.
Nell'ultimo baccalaureato, come i francesi chiamano la loro licenza liceale, gli alunni potevano commentare una lettera di Sigmund Freud ad Albert Einstein del 1932 sul tema: «C'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?», oppure scegliere fra due temi: «Bisogna preferire la verità alla felicità?» o «La tecnica è forse soltanto un'applicazione della scienza?». Ho dato un'occhiata al manuale di filosofia delle scuole francesi e l'indice contiene una elencazione di temi: la coscienza, la percezione, l'inconscio, il desiderio, l'esistenza, il tempo, la politica, gli scambi, la società, il diritto, la giustizia, il dovere, la felicità.
Vi è anche una seconda parte sulla storia del pensiero filosofico e, nella terza parte, una lunga serie di medaglioni dedicati non soltanto a filosofi in senso stretto, ma anche a sociologi, antropologi, teologi, politologi, fisici ed economisti fra cui gli italiani sono soltanto San Tommaso d'Aquino, Machiavelli, Galileo. In così larga e variegata compagnia mi sarei aspettato di trovare almeno i gesuiti spagnoli, Tommaso Campanella e Giordano Bruno, Giambattista Vico, Antonio Rosmini, Giuseppe Mazzini, Vilfredo Pareto, gli idealisti della Russia prerivoluzionaria, da Nikolaj Aleksandrovic Berdjaev a Sergej Nikolaevic Bulgakov, José Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ma la carta geografica della filosofia francese è prevalentemente franco-anglo-tedesca con brevi incursioni al di sotto delle Alpi e dei Pirenei.

Corriere 8.7.13
Burocrazia
La parola per metà greca che la polis non conosceva
di Luciano Canfora

La parola è un composto ibrido, metà francese (bureau) e metà greco (kratein = esercitare il comando). Si possono avere verso la burocrazia due atteggiamenti opposti: di disprezzo o di apprezzamento. Nel «Grand Dictionnaire Universel du XIX siècle» (tomo II), capolavoro di Pierre Larousse, la parola viene così definita e spiegata: «Influenza abusiva del personale degli uffici nella amministrazione». E il primo esempio addotto, tratto da uno scritto di De Gérando, è: «La burocrazia è il dispotismo dell'inerzia». Al contrario, Gaetano Mosca, negli Elementi di scienza politica (II ed. 1923), distingueva due modelli di organizzazione statale: da una parte lo Stato feudale composto di «piccoli aggregati sociali ognuno dei quali possiede tutti gli organi necessari per bastare a se stesso», dall'altro lo Stato burocratico nel quale «ad un avvenuto differenziamento di funzioni corrisponde il costituirsi di classi di funzionari distinte e specializzate».
La polis greca non ebbe quasi affatto funzionari: ad Atene vi erano di fatto soltanto gli «Undici», un corpo incaricato di eseguire le condanne a morte. È nella repubblica imperiale romana che, in conseguenza del costituirsi di una struttura imperiale-territoriale controllata da un apparato via via sempre più articolato, nasce la burocrazia. Essa raggiunge il vertice nell'età cosiddetta tardoantica, cioè da Diocleziano in poi. E, se fu travolta nel crollo dell'Occidente, vigoreggiò invece in Oriente, nell'Impero bizantino (la cui vita millenaria non di rado imbarazza lo schematismo periodizzante degli storici moderni).
Le monarchie assolute e il Primo impero francese furono daccapo il teatro di grandi e non inefficaci burocrazie. Nella riflessione di Max Weber, all'inizio del Novecento, la burocrazia è vista come un fondamentale principio strutturale delle società moderne. Il che è tuttora vero, nonostante ciclicamente ritornino le mode di tipo feudale che inneggiano alle autonomie e vagheggiano uno Stato «leggero».
Il problema infatti non è se la burocrazia sia in sé un bene o un male. Il problema è se sia stata adeguatamente educata all'onestà e alla competenza (come era nella Germania guglielmina e anche a lungo dopo) o se sia invece impreparata, arrogante, corrotta e invadente. Uno Stato incapace di reclutare con oculatezza i suoi funzionari è destinato a ripiombare nel modello feudale: per esempio, in Italia, a convivere con il para-Stato costituito dal pervasivo e concorrente potere delle mafie.

Corriere 8.7.13
I retroscena del 25 luglio: 70 anni fa la caduta del Duce
Il fatalismo di Mussolini, le gravi incertezze dei congiurati
di Paolo Mieli

I n occasione dei settant'anni dalla caduta del fascismo (25 Luglio 1943), la casa editrice Le Lettere pubblica tre importanti libri di testimonianza incentrati sulle vicende che portarono alla defenestrazione di Benito Mussolini. Tutti e tre a cura di Francesco Perfetti, lo storico che li ha portati alla luce. I primi due, Gran consiglio, ultima seduta di Alberto De Stefani e Memorie di un condannato a morte di Luigi Federzoni, sono stati scritti da personaggi che erano stati al fianco del Duce fin dall'inizio dell'avventura fascista anche se poi, nel 1943, non ebbero dubbi a provocarne la caduta.
Alberto De Stefani era stato praticamente l'unico parlamentare eletto in una lista fascista alle elezioni del 1921 (gli altri seguaci di Mussolini erano stati portati in Parlamento dai Blocchi nazionali, insieme a liberali, nazionalisti, democratici, ex combattenti). «Il deputato d'assalto», lo definì Alberto Mario Perbellini sul «Resto del Carlino» e lui fece sua questa «qualifica». Ma De Stefani fu soprattutto un economista di grande spessore. All'indomani della marcia su Roma (ottobre 1922), Mussolini lo volle con sé al governo come ministro delle Finanze e del Tesoro. De Stefani, per non deludere colui che gli aveva dato una così grande prova di fiducia, da quella postazione mirò a quello che era stato l'obiettivo delle grandi personalità della Destra storica: il pareggio del bilancio. Pareggio che ottenne nell'estate del 1925, poco prima di essere estromesso dal ministero per divergenze con il capo del fascismo, dissensi che datavano dai tempi dell'uccisione di Giacomo Matteotti. De Stefani tornò allora all'insegnamento universitario e alla collaborazione con il «Corriere della Sera», salvo essere richiamato in servizio dallo stesso Mussolini alla guida di un comitato per la riforma burocratica. Quel comitato, però, ebbe vita breve (1928-1929). Dopodiché l'economista venne incluso, non senza problemi, nel Gran consiglio del fascismo (1930). Negli anni Trenta De Stefani fu contrario alla guerra d'Etiopia e, quando l'Italia strinse un'alleanza con Tokyo in vista di un nuovo conflitto, lui — in contrasto con l'opzione giapponese — accettò di diventare consulente del governo cinese. Non c'è da stupirsi, perciò, che nel luglio 1943 sia stato tra i firmatari dell'ordine del giorno di Dino Grandi, destinato a provocare il crollo del regime mussoliniano.
Diversa la biografia di Luigi Federzoni. Era stato, nel 1910, insieme a Enrico Corradini, uno dei fondatori dell'Associazione nazionalista italiana. In ottimi rapporti con Vittorio Emanuele III, nel 1922, al momento della marcia su Roma, Federzoni aveva avuto un ruolo importantissimo nel tenere Mussolini al corrente — quasi in tempo reale — delle decisioni del sovrano. Il Duce lo compensò affidandogli il ministero delle Colonie (ma lui avrebbe voluto gli Esteri) e poi, per premiarlo della fedeltà dimostrata ai tempi dell'affaire Matteotti, nel 1924 lo spostò agli Interni, dove rimase fino al 1926. Ma anche lui, come De Stefani, negli anni Trenta non fece nulla per nascondere il suo dissenso ed ebbe cariche sostanzialmente onorifiche: presidenza del Senato prima (1929-1939), poi dell'Accademia d'Italia (1938-1943). Fu tra i pochissimi che nel 1938 si opposero apertamente alle leggi razziali e probabilmente per questo perse la presidenza del Senato.
Anche in questo caso non è perciò una sorpresa trovare il suo nome tra quelli dei congiurati del luglio 1943. Pur se, a suo dire, non si dovrebbe assolutamente parlare di congiura. «Prima di tutto», scrive in Memorie di un condannato a morte, «niente "fellonia" né tampoco "agguato", "imboscata" ecc.: parole altrettanto gonfie di fragore quanto vuote di senso, con le quali ci si vorrebbe squalificare… Grandi preavvisò Mussolini fin dalla mattina del 22 circa la nostra iniziativa, e poi gli inviò, a mezzo di Scorza, il nostro ordine del giorno». Perciò, prosegue, non si può dire che ci fu colpo di Stato; si ebbe invece l'«esercizio legittimo di una potestà statutaria del sovrano, esercizio suffragato, sebbene non ce ne fosse bisogno, dal non meno legittimo voto del Gran consiglio».
De Stefani è di parere diverso. Il fatto che Mussolini non avesse sollevato un'eccezione di costituzionalità in merito all'ordine del giorno Grandi, «benché non potesse essergli sfuggito» che quell'iniziativa era «incostituzionale», aveva comportato che egli stesso avesse «legalizzato» in qualche modo «l'iniziativa rivoluzionaria e il colpo di Stato del Gran consiglio». Del resto Mussolini era da tempo «uscito dai propri limiti legali, avocando a se stesso con un atto rivoluzionario la rappresentanza del fascismo e il diritto di interessarsi, eccedendo i propri poteri, di questioni riguardanti i supremi interessi della patria». Questa lettura della seduta del Gran consiglio del 25 Luglio 1943, «che tende a sottolineare una dimensione rivoluzionaria e incostituzionale» e ad «avallare l'idea che in quella sede fosse stato realizzato un colpo di Stato», osserva Perfetti, «è in contrasto con le affermazioni fatte, in più sedi, da altri firmatari dell'ordine del giorno Grandi», i quali, al contrario, «hanno sempre rivendicato la correttezza giuridica dell'iniziativa e negato per essa ogni retropensiero di natura eversiva». Primo tra tutti Dino Grandi nel suo celeberrimo libro 25 Luglio, a cura di Renzo De Felice, edito dal Mulino.
D'altro canto, fa notare Perfetti, lo stesso De Stefani rigetta la categoria del «tradimento», richiamando l'attenzione sul fatto che l'ordine del giorno Grandi era un «documento tattico» che offriva a Mussolini un'opzione per il superamento della crisi. De Stefani mette poi in evidenza come le critiche alla degenerazione del fascismo fossero condivise anche da coloro che non avevano sottoscritto il documento. È significativo, prosegue Perfetti, l'accenno di De Stefani al fatto che Roberto Farinacci avesse svolto, in quella stessa seduta del Gran consiglio, una critica argomentata che «aveva investito tutta la politica del Duce assai più brutalmente dei commenti che Dino Grandi fece nel proprio ordine del giorno, dai quali esulava la critica della capacità politica del Duce, evidente invece nei discorsi di Farinacci». Altrettanto significativo è il riferimento al fatto che, a un certo punto, quasi tutti fossero preda di una sorta di «nostalgia del Capo», tanto che si ebbe la tentazione di «far confluire l'ordine del giorno Grandi in quello del segretario del partito», con una «decisione di compromesso che avrebbe lasciato le cose al punto in cui erano».
Secondo De Stefani, Mussolini aveva «già da quella notte sentito salire in se stesso la necessità storica della sua esclusione». E questo spiegherebbe perché sia stato così remissivo nel corso di quella lunghissima nottata: «L'ingresso del Duce nella sala del Gran consiglio», scrive De Stefani, «è stato silenzioso; un'accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l'impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi; la macchina era stata messa in moto e avrebbe continuato a muoversi; non era più in nostro potere di arrestarne la implacabilità; noi stessi ne eravamo lo strumento; della nostra libertà si era impadronita quella misteriosa macchina che gli uomini dicono fatalità; la sua logica ci dominava e noi avevamo perduto la nostra libertà». E ancora: «Il Duce è stanco: s'abbandona sul suo scranno per cercarvi un sostegno al suo abbandono; ordina al segretario del partito di fare l'appello; siamo tutti presenti, anche coloro che soggiornavano fuori di Roma e che non avevano ricevuto l'invito; anch'essi erano tornati per un misterioso richiamo interiore; molti di noi avrebbero potuto essere legittimamente assenti, ma ognuno aveva sentito qualche cosa in sé che lo aveva fatto tornare; le risposte all'appello sono monotone, impersonali, hanno un timbro unico e sono date a mezza voce… La nostra personalità sembrava scomparsa, eravamo tutti lì per adempiere lo stesso dovere; nessuno aveva qualche cosa da esprimere di suo, di particolare che non fosse comune anche agli altri, o che anche gli altri non avrebbero detto».
Il libro di De Stefani prova poi a spiegare perché Mussolini non fece in quell'occasione alcun «intervento apprezzabile», limitandosi a «qualche spunto difensivo, qualche punto di vista frammentario sull'origine confessionale dello Statuto, sull'esercizio effettivo del comando supremo, sull'impopolarità delle guerre». Con quell'«inerzia», secondo De Stefani, Mussolini avrebbe «dimostrato» la sua «lealtà monarchica», sacrificando ad essa «se stesso e il regime». Perfetti obietta essere molto più probabile che Mussolini ritenesse che il re non gli avrebbe tolto il sostegno. Proprio per le circostanze in cui vennero scritte (cioè a ridosso degli eventi), sostiene Perfetti, «queste pagine finiscono per assumere, ben più di quanto sarebbe potuto accadere con un testo elaborato a posteriori, un valore documentario e di testimonianza intima e individuale, che travalica la rivelazione di particolari inediti sullo svolgimento della seduta, i quali, pure, non mancano».
All'epoca in cui mise su carta queste notazioni, De Stefani era rifugiato in un monastero, dove sarebbe rimasto dall'ottobre del 1943 fino al luglio del 1947, per sottrarsi ai tempi di Salò alla condanna a morte in contumacia inflittagli nel processo di Verona per essere stato tra i firmatari dell'ordine del giorno Grandi. E per sfuggire, nel dopoguerra, alla detenzione nel corso dei mesi del processo intentato contro di lui presso la sezione speciale della Corte di Assise di Roma, con l'accusa di aver «concorso ad annullare le libertà costituzionali, distruggere le libertà popolari e di aver commesso altri reati connessi con l'instaurazione e il mantenimento del regime fascista». Procedimento che si concluse il 17 settembre del 1947 con un'assoluzione piena dell'illustre imputato. Il dispositivo con cui gli si rendeva la libertà conteneva addirittura un elogio: «Giova ripetere che l'opera sua fu oltremodo proficua alla patria e che meritò la stima e la considerazione dei suoi avversari politici, i quali tuttora lo tengono in gran conto, e pertanto non resta che proclamare l'innocenza di lui, assolvendolo con la formula più completa e restituendolo alla tranquillità della sua famiglia, di cui seppe conservare la nobile tradizione, e all'Italia che di uomini della sua statura morale e intellettuale ha assolutamente bisogno nel periodo della sua ricostruzione». Con il che De Stefani fu riammesso nella vita pubblica (anche se mai ne approfittò per tornare all'attività politica), in quella universitaria e alla scrittura, a cui si dedicò fino all'anno della sua morte, il 1969.
Il libro di Federzoni è più aggressivo. «Dettate, spesso, dall'indignazione e percorse da una vena di profonda amarezza», scrive Perfetti, le Memorie di un condannato a morte, «al di là del valore documentario su alcuni episodi e particolari della storia del ventennio, sono anche una sorta di esame di coscienza di una personalità rappresentativa, prima ancora che del movimento nazionalista del quale fu uno degli esponenti più significativi e autorevoli, di tutto un mondo cresciuto nel culto del Risorgimento e della tradizione incarnata dalla Destra storica».
Nelle Memorie l'autore accentua il «tema della contrapposizione tra il fascismo estremista, rivoluzionario, repubblicano e la Corona», rivelando che, quando era ministro dell'Interno, raccolse voci di un progettato tentativo di rapimento di Vittorio Emanuele III, presentato come «strumento del ventennale ricatto» di Mussolini nei confronti del sovrano. Quello del 1922, dopo la marcia su Roma, era stato un «falso compromesso» con il re, non si era trattato «di un atto di adesione sentita», bensì di «una transazione suggerita dall'opportunità per conquistare il potere». Federzoni sostiene che l'intervento dell'Italia nella Seconda guerra mondiale era stato frutto di un'«iniziativa personale di Mussolini». «Nelle stesse sfere direttive della politica del regime, soltanto qualcuno dei consueti fanatici di mestiere, privi di qualsiasi autorità morale, aveva auspicato con l'incoscienza bruta quell'avventura ancor più rischiosa delle precedenti».
Fra i vecchi componenti dell'organo supremo del regime «non pochi l'avevano francamente avversata (la guerra), e Mussolini, proprio perché sapeva come essi la pensavano, si era ben guardato dal riunire il Gran consiglio medesimo prima di prendere la fatale decisione». Per conoscere «tempestivamente, ad esempio, il mio sentimento in proposito», scrive Federzoni, «gli erano bastate l'insistenza certo stucchevole con cui gli avevo espresso, ufficialmente e privatamente, il mio plauso per la dichiarazione di non belligeranza, e le motivazioni da me addotte per deprecare l'intervento; come non aveva ignorato che ero stato uno di coloro che avevano maggiormente sostenuto Galeazzo Ciano nell'ultimo tentativo di stornare quel folle divisamento, e — fra gli uomini investiti di uffici pubblici importanti — uno dei pochissimi che avevano sistematicamente declinato, avanti e durante la guerra, i ripetuti inviti a recarsi in Germania per conferenze, congressi culturali e altre manifestazioni filonaziste».
Impietosi sono i giudizi sui suoi compagni d'avventura. Achille Starace è presentato come un «arcipotente e inconcludente fanciullone, con i suoi divieti capricciosi, con le sue futili imposizioni». Farinacci è «un can da pagliaio». Roberto Forges Davanzati, «un puro in ogni senso di questa parola». Alfredo Rocco, un «estremista del fascismo», «il più zelante e impaziente propugnatore» della fusione tra nazionalisti e fascisti (alla quale lui, Federzoni, dice di non essere stato favorevole… anche se ci sono prove del contrario). E che avrebbe ceduto «per il suo temperamento dialettico all'ambizione di conferire una sistemazione teoretica al caos empirico del pragmatismo mussoliniano e alle molteplici e contrastanti esigenze "storiche" del regime».
Tutto vero, ma anche Federzoni era poi rimasto al fianco di Mussolini… Certo, spiega l'autore di Memorie di un condannato a morte, «dopo che era stato incautamente impegnato l'onore dell'Italia nel malaugurato cimento, mi ero sentito vincolato anch'io al dovere della disciplina patriottica e avevo sperato sinceramente che al mio Paese potessero essere risparmiate l'onta e la sventura della disfatta». Ma Mussolini «non si era mai potuto ingannare circa il mio stato d'animo in quel tempo, sicché mi faceva spedire di quando in quando dal suo ministro della Cultura Popolare copie fotografiche di articoli e informazioni di giornali britannici, che mi indicavano come uno degli italiani profondamente contrari all'alleanza tedesca e alla guerra». Gli articoli della stampa inglese erano regolarmente accompagnati con una formula burocratica: «D'ordine superiore, si trasmette per notizia». Questa, scrive Federzoni, «era una cortesia che aveva sapore di monito». Perciò «se fra noi dissenzienti e lui ci fu tradimento, fu il suo; fu quello con cui egli premeditò di imbottigliare anche noi, a nostra insaputa e nostro malgrado, nella responsabilità della guerra».
E venne la seduta del Gran consiglio. «Quella notte non finiva mai», racconta sua figlia, Elena Federzoni Argentieri, «alle quattro di mattina si sentì il rumore delle chiavi ed era papà che tornava esausto. Raccontò alla mamma i fatti principali, le disse che Grandi era andato direttamente a riferire al ministro della Real Casa Acquarone, perché informasse il re, poi si addormentò tranquillamente, mentre la mamma poverina non riuscì a trovare sonno. Il giorno dopo, 25 Luglio, quasi tutti i firmatari dell'ordine del giorno Grandi vennero a casa nostra a Roma per stendere il verbale della seduta. Papà raccomandò la massima prudenza perché la vendetta di Hitler non si sarebbe fatta attendere; consigliò soprattutto coloro che avevano partecipato al Gran consiglio per la prima volta di non fidarsi di nessuno e di sparire. Quelli che gli dettero retta ebbero la vita salva, gli altri purtroppo no». Tra questi ultimi, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini.
Lui, Federzoni — aiutato dall'allora sostituto alla segreteria di Stato vaticana (nonché futuro papa Paolo VI) monsignor Montini —, trovò ospitalità nell'ambasciata del Portogallo. Successivamente si trasferì in Brasile, dove, sotto falso nome, rimase fino alle elezioni del 18 aprile 1948, che segnarono la definitiva vittoria del democristiano Alcide De Gasperi sui socialcomunisti guidati da Palmiro Togliatti e Pietro Nenni.
Il terzo personaggio — autore di La congiura del Quirinale — è Enzo Storoni, figlio di un importante deputato liberale ed esponente anch'egli del mondo che faceva riferimento a Luigi Einaudi e a Benedetto Croce. Fu legale di fiducia del duca Pietro d'Acquarone e tale rimase anche dopo che questi assunse l'incarico di ministro della Real Casa. Fu proprio dal duca d'Acquarone, ricostruisce Perfetti, che Storoni nella primavera del 1943 ricevette l'incarico di predisporre «un promemoria da far pervenire al re sulla situazione politica e sulle possibilità di uscire dal conflitto». A fine maggio, Storoni aveva assistito ad un colloquio tra Vittorio Emanuele e l'ex presidente del Consiglio d'epoca prefascista, Ivanoe Bonomi, cui «era stato sottoposto il promemoria e che sostenne la necessità dell'intervento della Corona, dell'arresto di Mussolini e di avviare segretamente trattative con gli anglo-americani per uscire dalla guerra». E fu sempre lui, Storoni, a consegnare il 20 luglio al duca d'Acquarone un secondo promemoria «destinato pur esso al re, ma elaborato insieme al conte Alessandro Casati sulla base di conversazioni con altri personaggi di rilievo del mondo liberale, dal giornalista e senatore Alberto Bergamini al marchese Pietro Tommasi Della Torretta, allo stesso Bonomi: un promemoria, questo, che illustrava le riserve dei liberali su una soluzione della crisi affidata, come sembrava propendesse il sovrano, a un "gabinetto d'affari" o apolitico». Una sorta di governo tecnico che, a parere di Storoni, dai fascisti sarebbe stato considerato «un intruso e un nemico» e, nello stesso tempo, «non avrebbe avuto una sicura capacità di udienza presso le potenze alleate».
Interessanti sono i giudizi di Storoni — un liberale intransigente al pari di Leone Cattani, Niccolò Carandini, Franco Libonati — sull'opera degli antifascisti, «coraggiosa ma forzatamente modesta». Fino a tutto il 1942, riferisce, non c'era stato «nemmeno il più esile collegamento tra monarchia e antifascismo». I nemici di Mussolini, tutti antipatizzanti nei confronti del re, sottovalutarono (anzi, non presero neanche in considerazione) l'avversione al regime che andava maturando in casa Savoia. Soprattutto dopo la caduta della Tunisia e lo sbarco alleato in Sicilia.
Questo spiega perché il sovrano e il suo entourage tenevano in scarsissimo conto l'opinione dei liberali con i quali avevano mantenuto un qualche contatto. Non furono dunque questi ultimi a spingere Vittorio Emanuele III all'azione. Anzi, si può affermare «senza tema di smentita» che «artefice unica del colpo di Stato sia stata la monarchia». Fu poi «la forza degli eventi, più che la capacità d'azione degli uomini» ad accelerare il processo che portò al 25 Luglio, e la riprova è nel fatto che in merito alla destituzione di Mussolini «il progetto e i modi dell'attuazione di esso furono frutto di affrettata improvvisazione».
Interessanti sono le pagine del Memoriale di Storoni dedicate alla formazione del governo Badoglio. I ministeri più importanti in quel momento erano tre: Esteri, Interni e Cultura popolare. Ma per quel che riguarda gli uomini ai quali questi dicasteri furono affidati, Raffaele Guariglia era lontano da Roma e, per arrivare da Ankara, «tardò cinque giorni, cinque giorni fatali»; Bruno Fornaciari, ex prefetto fascista, legato al regime da relazioni e amicizie, «aveva le mani legate, tanto che dopo poco si dovette sostituirlo»; Guido Rocco «dichiarava candidamente di non conoscere nulla della stampa italiana e sembrava persino ignorare l'esistenza della radio che ai nostri giorni è uno strumento essenziale per il governo», talché, «circondato da funzionari che lo avevano seguito dal ministero degli Esteri, si limitò a istituire la censura preventiva e a sopprimere praticamente ogni propaganda radiofonica». Non male per il primo governo postfascista.
Solo Leopoldo Piccardi, l'unico dei ministri ad aver avuto in tempi precedenti rapporti con gli uomini dell'opposizione, «cercava in tutti i modi, nonostante le tremende difficoltà del momento, di imprimere un indirizzo politico al suo ministero, mantenendo rapporti continui con i politici». Gli altri «oscillavano tra la preoccupazione di non mettersi in vista e lo zelo di farsi perdonare un passato troppo recente». Del resto quei nomi furono scelti a corte, su indicazioni estemporanee, da parte di persone che si sentivano domandare dal re: «Lei conosce il tale?» oppure «Qual è, secondo lei, il migliore funzionario del ministero talaltro?».
Dopo il 25 Luglio del 1943, Storoni fu commissario all'Alimentazione nel gabinetto Badoglio. Di quell'esperienza ricorda il grande caos. Ex ministri, piccoli e grandi personaggi del fascismo ancora in circolazione, anche se «gli inconvenienti che ne derivarono furono gravi ma non fatali». «Se molti prefetti fascisti tardarono a essere rimossi, se molte nomine furono sbagliate, se troppi fascisti furono lasciati in libertà, se la stampa fu soffocata e la radio totalmente ignorata, se molti altri inconvenienti si verificarono, tutto ciò non ebbe un'influenza decisiva sul corso degli eventi… Bisogna tener presente che non si trattava di un cambiamento di governo, ma della caduta di un regime che per vent'anni aveva intessuto una rete fittissima di interessi e di complicità, ed era ben difficile spezzarla d'un colpo». In seguito all'armistizio, Storoni si diede alla clandestinità, braccato dai nazisti. Per poi tornare al governo da sottosegretario all'Industria con delega al Commercio estero, nel gabinetto guidato da Ferruccio Parri (giugno-dicembre 1945) e sottosegretario al Commercio estero nel primo governo presieduto da Alcide De Gasperi (dicembre 1945-luglio 1946). Fu una personalità di spicco del Partito liberale, scrisse su «Risorgimento Liberale» e sul «Mondo» di Mario Pannunzio.
L'interesse del memoriale di Storoni, osserva Perfetti, non riguarda soltanto la genesi e lo svolgimento del colpo di Stato e il ruolo della monarchia in questa contingenza; esso ricostruisce bene «il clima di incertezza che travolse, all'indomani del 25 Luglio, "le nascenti classi politiche", preoccupate della volontà di far uscire il Paese dalla guerra, confuse dalle voci contraddittorie su trattative in corso con gli Alleati e spinte, quasi inconsapevolmente, ad attribuire a Badoglio le più varie responsabilità». Tutte negative, ovviamente. E ingiuste, come quella di voler «ingigantire di proposito l'inesistente pericolo dei tedeschi», così da poter «svolgere una politica reazionaria».
Il giudizio di Storoni su Badoglio è invece assai meno ostile perché, scrive Perfetti, l'autore fu ben consapevole delle difficoltà del compito affidato al maresciallo e del fatto che la principale preoccupazione del capo del governo, peraltro condivisa totalmente con il sovrano, riguardava, appunto, la reazione tedesca non solo al cospetto della liquidazione del fascismo, ma soprattutto di fronte all'armistizio. A proposito del quale nel libro vengono poste in evidenza «le difficoltà e le ambiguità» del contesto in cui si svolsero le trattative con gli Alleati. Pochi si resero conto del fatto che — come sostenevano Badoglio e Vittorio Emanuele III — «il pericolo di una reazione tedesca particolarmente efferata era reale». E che l'apprensione per quel pericolo accompagnò «lo svolgimento di trattative nel corso delle quali le due parti in causa, italiani e alleati, parlavano un linguaggio diverso». In altre parole, gli anglo-americani (e i partiti antifascisti) non valutarono che quel tipo di reazione da loro provocata avrebbe allungato anziché accorciare la guerra. Guerra che sarebbe durata per altri venti, terribili mesi.

Repubblica 8.7.13
Sicilia, luglio 1943. Lo sbarco segreto
Dossier e saggi sull’invasione degli Alleati di 70 anni fa
di Francesco Bei

«Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Il sergente Horace West, processato negli Stati Uniti per aver svuotato a sangue freddo i caricatori del suo Thompson su 37 prigionieri italiani, si giustificò così di fronte al tribunale militare.
Operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia il 9 e 10 luglio di 70 anni fa: imbottiti di benzedrina per resistere alla fatica, furiosi per l’accanita resistenza che avevano incontrato, nonostante la superiorità schiacciante di mezzi e uomini, in diverse occasioni i fanti e i parà americani si lasciarono andare a violenze ed eccidi contro i prigionieri o la popolazione civile. In questo il sergente West – condannato, graziato e tornato in servizio come soldato semplice – in fondo era sincero. Il mitico generale Patton, celebrato da Hollywood, rivolgendosi ai suoi ufficiali alla vigilia dello sbarco in Sicilia aveva usato la famosa formula: «Kill, kill and kill some». Quanto al nemico, le istruzioni del generale erano chiare: «Se si arrendono quando tu sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero».
È il lato oscuro dell’invasione alleata della Sicilia, quando la più grande forza di sbarco che mai si fosse vista in Europa travolse le abborracciate difese costiere italiane. Ora i fantasmi di quei caduti ritrovano vita in diversi saggi appena usciti. E si riaprono i dossier. Come quello della strage dei Carabinieri a Passo di Piazza, raccontato nel libroGela 1943 di Fabrizio Carloni (Mursia). Dopo essere stati circondati dagli uomini dell’82esima “Airborne”, i Carabinieri cessarono il fuoco e si fecero catturare. Erano 13 o 14. «Furono allineati con le spalle al muro a tre-quattro metri dal muro della palazzina, rivolti ai nemici che li fronteggiavano armati di mitra; gli statunitensi erano sei o sette e ingiungevano di tenere le mani ben alte («Hands up, hands up!»)». Poi iniziarono a sparare con i mitra. «Il nostro testimone sosteneva che la fila intera si abbatté al suolo; tre o quattro dei camerati gli sembrarono, nei momenti successivi, morti; Quattro gli parvero, nella concitazione, feriti gravemente, di cui uno di Salerno, che piangeva, gli sembrò morente con ferita a cratere sulla spalla sinistra che perdeva sangue a fiotti». Cianci, il testimone sopravvissuto, simulò di essere stato colpito al petto e si salvò.
Ancora più grave la strage dei prigionieri che Andrea Augello racconta in Uccidi gli italiani e Domenico Anfora e Stefano Pepi descrivono inObiettivo Biscari(Mursia). Gli avieri italiani, aiutati da qualche elemento della “Goering”, si trincerano all’aeroporto di Biscari e ingaggiano quella che viene ricordata come la più dura battaglia della campagna siciliana. Al termine il tenente li raduna nell’ultimo avamposto: «Avieri, vi siete battuti bene». Ne restano vivi meno di 40. Si arrendono e vengono consegnati al sergente Horace West, che li dispone in fila lungo un fossato. L’aviere Giuseppe Giannola viene ferito a un braccio e alla testa. Ma la sua giornata gli riserva un’altra tragica sorpresa. Medicato da un’ambulanza militare, aspetta la sorte sul ciglio della strada: «È arrivata una Jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la Jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato il Garand, ha mirato al cuore e ha sparato». Eppure, miracolosamente, Giannola “resuscita” una seconda volta perché il proiettile non colpisce organi vitali. La battaglia di Biscari va ricordata anche per la morte di Luz Long, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Berlino del 1936 nel salto in lungo, alle spalle del leggendario atleta di colore statunitense Jesse Owens. Long e Owens divennero grandi amici, benché la guerra avesse separato i loro destini e spedito l’atleta tedesco fin nella sperduta Biscari a difendere con la sua batteria contraerea una pista di terra in Sicilia. L’ultima lettera che Long scrisse dal fronte fu proprio all’amico (nero e americano!) Jesse Owens: «Dove mi trovo sembra che non ci sia altro che sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e per il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli anche che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Luz». Su un altro episodio raccontato da Pepi e Anfora inObiettivo Biscari,ovvero l’uccisione del podestà di Acate Giuseppe Mangano, del figlio Valerio e del fratello Ernesto, la Procura militare di Napoli ha deciso di aprire un fascicolo d’inchiesta. Gli invasori-liberatori sono anche offuscati da pregiudizi etnici, basta leggere i dispacci “top secret” che Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino hanno raccolto inOperazione Husky(Castelvecchi). «Gli italiani – scrive il servizio segreto britannico – sono dei gran chiacchieroni, si lagnano di tutto e non fanno che disperarsi. ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, spunta sempre un pretesto per non agire». Non fu così in Sicilia, quando un esercito di “straccioni”, abbandonato dai generali e da Mussolini, tenne testa per 38 giorni alla grande armata alleata.
Il maggiore Victor Joppolo entrando per primo a Licata-Adano nel romanzo Una campana per Adanodi John Hersey (Castelvecchi, premio Pulitzer 1945) nota una donna morta in un vicolo, mutilata dalle bombe che hanno distrutto la città. «Che orrore. È terribile pensare che abbiamo dovuto far questo ai nostri amici». «Amici», risponde il sergente Borth al suo fianco, «questa è bella».

I LIBRI Operazione Husky di Casarrubea-Cereghino (Castelvecchi pagg. 273 euro 19,50); Gela 1943 di Fabrizio Carloni (Mursia pagg. 182 euro 15)