giovedì 11 luglio 2013

il Fatto 11.7.13
Il governo kazako: “Italia a caccia del dissidente”
Letta ammette le “ombre” sul governo, Alfano scompare
Il ruolo dei servizi nel “rapimento di Stato” di Alma
di Davide Vecchi


“Non saranno tollerate ombre o dubbi”. Enrico Letta promette “una indagine approfondita” per sciogliere “tutti i crescenti interrogativi” che si addensano sul rimpatrio forzato in Kazakhstan di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov, e della figlia di 6 anni. Ma il premier, rispondendo in aula al question time, si mostra in “evidente imbarazzo”, sottolinea Nicola Molteni, esponente del Carroccio che ha chiesto, con altri deputati leghisti, di fare luce su quanto accaduto. Imbarazzo in cui si trova il Governo perché mano a mano che emergono nuovi particolari l’operazione prende la forma sempre più nitida di una “extrordinary rendition”, un rapimento di Stato. Che coinvolge direttamente il ministro dell’Interno e vicepremier, Angelino Alfano, che avrebbe ricevuto richiesta di far rimpatriare la donna direttamente dal governo Kazako; gli uomini dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma, che hanno espulso come clandestina Alma senza attendere la verifica dei passaporti della donna; e, infine, i servizi segreti, quell’Aisi guidata dal generale Arturo Esposito, che si sarebbe mosso per soddisfare una richiesta avanzata da un Paese straniero. Non a caso della vicenda si occupa anche il Copasir. Già martedì il presidente, Giacomo Stucchi, ha incontrato, in una riunione informale, Alfano in vista del question time di ieri a cui il vicepremier avrebbe dovuto partecipare. E Claudio Fava, membro del Copasir, ieri ha sottolineato come “l’irritualità, l’urgenza e la forzatura delle procedure con cui si è svolta questa espulsione ricordano la meccanica malata che si trovava dietro le extraordinary rendition della Cia” nel caso Abu Omar. Mentre alcuni del Pdl mostrano preoccupazione in Transatlantico: “Peggio del caso Ruby e il problema è che c’è di mezzo Alfano, mica Berlusconi; e come lo difendi? ”.
L’ELENCO degli attori coinvolti è destinato ad allungarsi. La procura ha aperto un fascicolo e sta valutando se inoltrare al ministero della Giustizia una rogatoria internazionale per verificare l’autenticità di alcuni documenti, tra cui il passaporto di Alma ritenuto erroneamente falso nonostante due atti emessi dai consolati della Repubblica Centrafricana di Ginevra e di Bruxelles esibiti dalla donna agli investigatori. A quanto pare inutilmente.
I nodi da sciogliere sono ancora molti. Sia sul blitz nella villa a Casal Palocco, sia sul rimpatrio avvenuto a bordo di un jet privato. A cominciare dalla presenza di militari israeliani all’esterno dell’abitazione da cui è stata prelevata la donna la notte tra del 29. A quanto si è appreso gli uomini erano dei contractor a protezione della famiglia e sarebbero stati fatti allontanare poche ore prima che scattasse il blitz. I vicini di casa delle due ville confinanti hanno raccontato di un presidio costante di militari in borghese anche dopo la notte del blitz e almeno fino al 16 giugno, giorno in cui anche la cognata del dissidente ha lasciato la casa e si è nascosta in Svizzera, dove si trova tutt’ora. I legali della famiglia, Federico Olivo ed Ernesto Gregory Valenti, stanno tentando di proteggere i parenti di Alma. Già Alma e sua figlia sono state mandate “in un Paese dove i diritti umani non sono garantiti e dove saranno probabilmente ostaggio del regime in attesa di presentare il conto al marito”, ha detto Fava. C'è stata “una certa opacità nella catena di comando che ha portato a consegnare madre e figlia ad un aereo affittato dal console dopo averle prelevate da casa con un’operazione di stampo militare come se si dovesse catturare Matteo Messina Denaro”. Il Governo kazako già il 3 giugno, appena due giorni dopo il rimpatrio, ha emesso una nota ufficiale sulla vicenda sfruttando l’aiuto ricevuto dal nostro Paese. “La Procura italiana ha dichiarato che le azioni della polizia e l’atto giudiziario sulla espulsione sono legittimi e fondate. Di conseguenza tutte le dichiarazioni di Ablyasov sulla violazione dei diritti e delle libertà da parte dei servizi competenti dell’Italia verso Shalabayeva e della loro figlia sono infondate”. Il governo dittatoriale guidato da Nursultan Nazarbayev, inoltre garantisce “che le forze dell’ordine italiane continuano i lavori sull’identificazione e l’arresto di Ablyazov”. Chi del governo Letta ha garantito un simile impegno al regime kazako? Alfano?

La Stampa 11.7.13
Spuntano nuove incongruenze nel caso della moglie del dissidente kazako espulsa dall’Italia
Caso Ablyazov, il mistero del passaporto fantasma
La Procura pensa a una rogatoria verso il Centrafrica per chiarire il giallo
di Francesco Grignetti


La procedura di espulsione della signora Alma Salabayeva, restituita con la figlioletta di 6 anni al Kazakhstan nonostante fosse la moglie del principale oppositore politico, e nonostante lei abbia implorato asilo politico, è stata possibile grazie ad alcuni documenti che ora sono all’esame degli avvocati difensori della signora e che sono anche al centro degli accertamenti ordinati da palazzo Chigi. Atti che potrebbero essere altrettanti problemi per il ministero dell’Interno.
Il primo è un documento della polizia di frontiera che ipotizza il passaggio della signora Alma Ayan nel 2004 dal valico del Brennero. Ora, il nome Alma Ayan è quello che compare sul passaporto diplomatico emesso dalla Repubblica del Centroafrica, con il cognome da nubile della signora. Secondo la polizia si trattava di un passaporto taroccato. Il tribunale del Riesame ha deciso l'opposto. Potrebbe non finire qui: la procura di Roma sta pensando a una rogatoria internazionale verso il Centroafrica per venire a capo definitivamente del problema. Ma qui interessa poco. Il punto è che nel 2004 questo passaporto non esisteva, essendo stato emesso nel 2010, e che la signora Alma Shalabayeva viveva ancora in Kazakhstan con il suo vero nome.
Al prefetto di Roma, per convincerlo a firmare un ordine di trattenimento e di espulsione, comunque è stata consegnata quella nota risalente al 2004 che implicitamente dimostrava che la signora è un’inveterata immigrata clandestina.
Il secondo atto risale al 30 maggio scorso. La signora Alma è trattenuta al Cie di Ponte Galeria da 24 ore. La questura di Roma ottiene dall’ambasciata del Kazakhstan l’indispensabile «riconoscimento» che la sedicente Alma Ayan è in realtà Alma Shalabayeva, con cittadinanza kazaka, e che quindi si può procedere all’espulsione forzata verso quel Paese. Ebbene, il giorno dopo, il 31 maggio, questo documento cruciale non sembra comparire all’udienza di convalida per il trattenimento davanti al giudice di pace. Mancando il riconoscimento ufficiale di chi fosse in realtà la signora, il giudice di pace ha potuto legittimamente procedere contro una sedicente Alma Ayan, di cui sapeva soltanto che era stata trovata in possesso di un passaporto taroccato della Repubblica del Centroafrica e che era transitata nel lontano 2004 dal valico del Brennero.
Non è un caso, infatti, che l’intero fascicolo del giudice di pace sia intestato alla sedicente Alma Ayan. E quando gli avvocati, nel corso dell’udienza, hanno fatto presente che la signora era disposta a lasciare volontariamente l’Italia, che il passaporto era valido e che godeva di status diplomatico, il giudice di pace ha ovviamente obiettato che ciò sarebbe stato impossibile dato che non aveva documenti in regola.
«Si osservi - sostiene l’avvocato Riccardo Olivo - che la legge prevede in prima istanza l’allontanamento volontario e solo in subordine l’espulsione forzata».
In questa fase, gli avvocati forse non hanno avuto la prontezza di tirare fuori il passaporto kazako e di dimostrare che la signora avrebbe potuto raggiungere il marito a Londra dove entrambi godono di asilo politico. Ma qui pare aver giocato un clamoroso errore di valutazione del marito, l’ex oligarca nonché esule dal 2009 Mukhtar Ablyazov, che ha imposto fino all’ultimo di tenere in vita la finzione del passaporto diplomatico e del nome Alma Ayan. Pare che l’abbia fatto per paura, terrorizzato dall’idea che il Kazakhstan li individuasse. Non si era reso conto che l’ambasciata ormai già sapeva tutto di loro.
Tornando al giudice di pace, «se il documento ufficiale dell’ambasciata del 30 maggio fosse finito sul suo tavolo - dice ancora il legale - la storia avrebbe necessariamente preso un’altra piega. A quel punto non sarebbe stato più necessario e forse nemmeno più legittimo il trattenimento nel Cie, figurarsi l’espulsione forzata».
Lo stesso giorno, alle ore 19, la polizia di frontiera di Ciampino certifica che la signora Alma Ayan e sua figlia Alua Ayan, di 6 anni, lasciano l’Italia in esecuzione di un ordine di espulsione a bordo di un jet privato dopo essere stata affidata al console del Kazakhstan. «Al pilota del jet, invece, la questura di Roma a quel punto consegna correttamente la certificazione che trattasi della signora Alma Shalabayeva».

Corriere 11.7.13
Polizia italiana e pasticcio kazako
Ora vanno individuati i responsabili
di Giuseppe Sarcina

qui

Repubblica 11.7.13
Caso Ablyazov, Letta chiede indagini
Il premier: “Troppe ricostruzioni contrastanti”. Barroso: l’Italia deve spiegazioni
di Alberto Custodero e Vincenzo Nigro


ROMA — Sull’espulsione della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov «gli interrogativi ci sono». Le ricostruzioni sono «in contrasto fra loro», «gli
approfondimenti ineludibili, è legittimo che vengano trovate le risposte dovute». Il premier Enrico Letta risponde così, prendendo tempo, al question time alla Camera sull’allontanamento dall’Italia di Alma Shalabayeva e della figlia avvenuto a velocità
record, quasi senza dare agli avvocati dello studio “Vassalli& Olivo” la possibilità di preparare la difesa. Prende tempo, Letta, ma anche le distanze dal ministro dell’Interno Alfano che, martedì, in una nota, aveva difeso la Questura di Roma sostenendo
che «aveva agito correttamente ». Non deve essere stato troppo corretto l’intervento della Polizia se lo stesso premier ha deciso di ordinare una inchiesta interna che «non tollererà ombre». Se sul caso si sono alzate le proteste di Pd, Sel, M5S e Lega.
Il giallo per il governo Letta diventa sempre più delicato anche per le ripercussioni internazionali: il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso ha chiesto informazioni. Mentre lo stesso esecutivo italiano ha deciso di sospendere una visita in Kazakhstan, domani, del sottosegretario alla Difesa Roberta Pinotti. Molti elementi iniziano a emergere: sia Palazzo Chigi che il ministero degli Esteri che i nostri 007 confermano di non aver dato alcun via libera all’espulsione di Alma Shalabayeva e figlia. Quello che è chiaro è che il dirigente dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, Maurizio Improta, ha gestito l’operazione di espulsione, presentando al Tribunale di Roma e alla Procura della Repubblica tutta la documentazione necessaria a farsi autorizzare nel giro di 48 ore l’allontanamento coatto delle due donne. Quell’ufficio ha taciuto a Giudice di pace, Tribunale ordinario e per i minorenni, e alla Procura che la donna aveva due passaporti rilasciati dal suo Paese. Circostanza, questa, appresa il 30 maggio dall’ambasciatore kazako in Italia che, rivolgendo a Improta i «complimenti » per l’operazione, lo informava che Alma Shalabayeva ha «i passaporti numero 0816235 e 5347890». Lo stesso ambasciatore che aveva arruolato degli 007 privati di Tel Aviv per spiare la donna a Roma. Perché quei passaporti kazaki, che avrebbero consentito alla donna di rimanere regolarmente in Italia, non sono stati presi in considerazione? Bastava un banale accertamento da parte degli uomini di Improta per scoprire che la donna era dovuta fuggire precipitosamente da Londra dopo che i poliziotti inglesi — che le avevano rilasciato lo status di rifugiata — l’avevano informata di essere in pericolo di vita. Avrebbero scoperto, i poliziotti dell’Immigrazione, che la moglie del dissidente kazako, prima di nascondersi a Roma, era riparata a Riga, in Lettonia, dov’era stata pedinata e fotografata da investigatori privati assoldati dalla Jsc Bta Bank, la banca kazaka che aveva denunciato Mukhtar Ablyazov. Perché Alma Shalabayeva è stata espulsa?

il Fatto 11.7.13
Tutte le domande dell’Onu al Vaticano sugli abusi sessuali
A gennaio, a Ginevra, la Commissione sui Diritti dei Bambini convocherà in audizione i prelati per avere dettagli sulle centinaia di casi di pedofilia da parte dei preti cattolici
di Andrea Valdambrini


La Commissione per i Diritti dei Bambini dell’Onu ha chiesto alla Santa Sede di fornire dettagli riguardo alle centinaia di casi di pedofilia e abusi sessuali da parte del clero. La richiesta arriva all’indomani della decisione di stabilire una data per la audizione di rappresentati vaticani presso la stessa Commissione. La data stabilita è gennaio 2014, il luogo è la città svizzera di Ginevra, una delle sedi principali della stessa Onu.
La notizia è stata diffusa martedì sera dal sito web del Guardian. Gli anglosassoni sottolineano come si tratti della prima volta che una richiesta così ampia e circostanziata viene formulata da un dipartimento dell’Onu. E si tratta anche della prima volta che il problema si presenta in questi termini da quando papa Francesco è stato eletto. Promettendo, in continuità con Ratzinger, linea dura sugli scandali sessuali nella Chiesa.
In un passaggio del documento disponibile online si legge: “Alla luce del riconoscimento da parte della Santa Sede della violenza sessuale contro bambini commessa da membri del clero… e considerata la scala degli abusi, chiediamo di fornire dettagli di tutti i casi… di cui la Santa Sede sia venuta a conoscenza”. Le richieste di fare chiarezza riguardano casi specifici: dalle omissioni e coperture delle gerarchie ecclesiastiche circa le violenze alle intimidazioni subìte dalle vittime. La Commissione chiede inoltre ai rappresentati vaticani di specificare come la Chiesa ha condotto le indagini sui casi di pedofilia e perfino se le vittime degli abusi abbiano ricevuto la dovuta assistenza legale o la giusta compensazione economica.
“La Sante Sede aderisce alla convenzione internazionale sulla protezione dell’infanzia, dunque risponderà”, dice al Fatto il direttore della sala stampa vaticana padre Lombardi. “Devo anche dire - minimizza il gesuita - che non vedo la notizia: siamo a luglio, l’audizione è convocata tra 6 mesi. Ho l’impressione che qualche volta la stampa abbia interesse a creare più clamore del dovuto su certi temi”. Da parte sua, l’incaricato diplomatico a Ginevra monsignor Massimo De Gregori in una dichiarazione rilasciata al sito Vaticaninsider mette in guardia da “possibili strumentalizzazioni”. A esser convocato in audizione potrebbe essere il nunzio apostolico in Svizzera. L’iniziativa Onu segue le recenti audizioni di familiari delle vittime di abusi. Tra queste l’associazione Usa Survivor’s Network of those Abused by Priests, che il 19 giugno manifestò davanti la sede Onu a Ginevra “dalla parte delle donne irlandesi e le vittime delle Case Magdalene”.

Corriere 11.7.13
Scelse il suicidio assistito. L’autopsia: non era malato
Il legale dell'ex magistrato Pietro D'Amico, morto ad aprile in Svizzera:
«Nessuna incurabile patologia»
di Andrea Pasqualetto

qui

Repubblica 11.7.13
Non era malato l'ex pm che scelse il suicido assistito
L'autopsia sul magistrato D'Amico: nessun male incurabile. Giallo sulla diagnosi: o sbagliarono i medici o i certificati che presentò in Svizzera erano falsi
di Giuseppe Baldessarro

qui

l’Unità 11.7.13
Berlusconi blocca il Parlamento. Scontro nel Pd dopo il voto. Governo a rischio
Epifani: «Smettano o non si va avanti»
«Se arriva una sentenza di condanna nei confronti di Berlusconi, il Pd voterà perché venga applicata»
Il voto del Pd apre una frattura. Renziani all’attacco


il Fatto 11.7.13
B. blocca il Parlamento, il Pd vota sì
B. ordina: bloccare il Parlamento contro la Cassazione
Il Pd si cala le brache “ma solo per un giorno”
Bagarre in aula con i 5 Stelle, che gridano “venduti” ed escono a manifestare in piazza
di Fabrizio d’Esposito


I democratici si accodano al diktat del Pdl, riunito in seduta di guerra contro la Corte del processo Mediaset Polemici i renziani e la Bindi (“eversione”), ma poi nessuno vota no.

Il senso più feroce, ma vero, verissimo, del-l’incredibile giornata di ieri è nell’autocritica di un candidato alla segreteria democrat, Gianni Pittella: “Il Pd si è inginocchiato al diktat di Berlusconi”. Punto. Tutto il resto è caos, generato da un’estenuante trattativa andata avanti per tutta la notte e proseguita nella mattinata. Un lavorìo incessante che inchioda le larghe intese ai guai di Silvio Berlusconi. Per il Pdl il Trenta Luglio è la possibile nuova Apocalisse e i berlusconiani vogliono solo pensare a questo. Un ricatto che è partito alla mezzanotte di lunedì, quando è terminata l’assemblea dei deputati di B. L’Aventino totale per i prossimi venti giorni non passa. Ci si ferma a tre, in cui si chiede di bloccare i lavori di Camera e anche Senato. Un compromesso tra falchi e colombe e che Renato Brunetta, capogruppo a Montecitorio, annuncia ieri mattina.
MA A QUELL’ORA gli sminatori di governo erano già all’opera. Uno in particolare: Dario Franceschini, ministro dei Rapporti con il Parlamento. Il barbuto democratico Franceschini è lo sminatore più fidato del premier. I due, “Enrico” e “Dario”, già calmarono Angelino Alfano e Maurizio Lupi nel viaggio in auto all’abbazia di Spineto, dopo il comizio di B. a Brescia contro i pm. Stavolta il compito è più arduo, si può solo giocare sul brevissimo periodo, in attesa della Cassazione. Franceschini fa la spola con il Senato. Ufficialmente falchi e colombe del Pdl marciano insieme con il Cavaliere quasi condannato incandidabile e prossimo alla galera. Ma le colombe restano tali nel-l’anima. Il ministro di Letta parla soprattutto con Renato Schifani, capogruppo del Pdl a Palazzo Madama e sodale di Alfano, capo dei filogovernativi. Il risultato arriva. I giorni scendono da tre a uno. Anzi, mezza giornata. Un blocco simbolico. Alla Camera, infatti, la seduta viene chiusa alle 16 e 10.
È due ore prima, però, che si scatena la rissa nell’aula di Montecitorio. Il Pd vota a favore della sospensione dei lavori chiesta dal Pdl. I deputati berlusconiani vogliono tornare a riunirsi in assemblea. La richiesta passa con 171 voti di scarto. I grillini sono i più infuriati. Scendono verso il centro dell’emiciclo e insultano i democratici: “Buffoni, servi, pecoroni”. A un paio di deputati del Pd saltano i nervi. Il più minaccioso è Piero Martino, ex portavoce dello sminatore Franceschini. Si avvicina muso a muso con grillino e poi gli tira addosso un fascicolo. Poi c’è il fatale Stumpo che di nome fa Nico. Il rotondo bersaniano risponde a tono agli insulti del Movimento 5 Stelle. I grillini vanno fuori, in piazza, e si siedono per terra. Al Senato la scena, antecedente a quella di Montecitorio, è diversa. Qui il protagonista è l’ex capogruppo del M5S Vito Crimi. La protesta è contro l’austero regolamento che impone non solo la giacca ma anche la cravatta. Crimi e gli altri maschi grillini presenti si spogliano.
Sostiene l’ex capogruppo: “Signor presidente, ci ritroviamo per l’ennesima volta a discutere di un’espropriazione del ruolo di questo Parlamento a causa, dobbiamo dirlo, di una persona, dell’eterno assente da questo Parlamento. Ci chiediamo cosa ci stia a fare un senatore della Repubblica se non è mai presente in aula. Già questo fatto dovrebbe essere considerato grave: un senatore che non è mai presente in aula e che influenza l’attività dell’aula”. È un’altra immagine, questa, della giornata. Dopo quella del Pd inginocchiato davanti all’Eterno Assente. Crimi e gli altri escono dall’aula. Il capogruppo del Pd, Luigi Zanda, se la prende con “il disprezzo” del M5S. Il berlusconiano Nitto Palma, ex guardasigilli e specialista delle leggi ad personam, grida: “È una pagliacciata”. Ma è “una pagliacciata” togliersi giacca e cravatta o sospendere la discussione sul ddl costituzionale per le riforme, che doveva cominciare proprio ieri a Palazzo Madama? Questione di punti di vista. Il terrore berlusconiano sconvolge tutta l’agenda politica. Alle due salta pure una riunione di maggioranza. La famigerata cabina di regia tra ministri e capigruppo delle larghe intese.
ALLE QUATTRO DEL POMERIGGIO la giornata si ammoscia d’improvviso. Deputati e senatori di B. si riuniscono. Comincia così la Grande Attesa per il Trenta Luglio. Da qui ai prossimi venti giorni si formerà una gigantesca bolla che conterrà tutto e il contrario di tutto. In serata salgono al Quirinale sia il premier sia Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme in quota Pdl ma soprattutto il più filo-Napolitano del centrodestra. Il capo dello Stato invoca come al solito “il senso di responsabilità”. Ma da ieri, anzi da lunedì, quando si è saputo dell’udienza del Trenta Luglio, è possibile solo il senso dell’attesa.

il Fatto 11.7.13
I soliti democratici si piegano ancora Ma si spezzano pure
Rosato in aula: “Fermi solo mezza giornata”. I renziani prima si adeguano e poi sparano
di Wanda Marra


È stato uno spettacolo terribile”. Il primo democratico a uscire dall’Aula dopo il voto che dà il via alla sospensione dei lavori è il più giovane deputato eletto dal partito, Enzo Lattuca. Viso scuro, commento a mezza bocca. Poi sparisce. Facce stralunate, sguardi persi, dichiarazioni balbettanti e contraddittorie. Il Pd ancora una volta si trova impreparato a spiegare e a spiegarsi che cosa è successo. Come è stato possibile concedere la sospensione della seduta chiesta dal Pdl dopo che la Cassazione ha fissato al 30 luglio l’udienza del processo Mediaset? La cronaca è quella di un’ennesima giornata di caos collettivo. Che alla fine sancisce il cedimento del Pd all’alleato di governo.
SONO LE 7 E 30, partono le telefonate dei capigruppo. Brunetta chiama Speranza, Schifani Zanda: il Pdl vuole l’Aventino, chiede di fermare l’attività parlamentare per tre giorni. In solidarietà con Berlusconi. Pena la crisi di governo. Nel Pd cominciano le consultazioni. Il segretario Epifani, Zanda e Speranza sembrano su una posizione netta: non è possibile. Ma la cabina di regia, quella dei momenti di crisi, è al lavoro: i due capigruppo insieme a Letta e a Franceschini (il “tessitore”, quello che si trova a dover gestire nel prossimo futuro centinaia di nomine) cercano una soluzione. Un accrocco. Qualcosa che possa essere indicizzato come prassi parlamentare. E non metta a rischio l’esecutivo. Per esempio, sospendere i lavori per una mezza giornata, per “consentire al Pdl di svolgere l’assemblea dei gruppi” (dall’intervento di Ettore Rosato in Aula). Speranza alla Camera convoca un ufficio di presidenza. La renziana Fregolent e la giovane turca Velo esprimono qualche perplessità. Tutto va molto velocemente. Alle 13 e 16 i deputati Pd ricevono un sms in cui si richiede la loro “presenza obbligatoria” in Aula alle 13 e 30 per “un voto procedurale sull’ordine dei lavori”. L’intervento è affidato a Ettore Rosato (franceschiniano). Inizia prendendosela con i grillini: “Dopo un giorno di ostruzionismo, che ieri abbiamo subito da parte del MoVimento 5 Stelle oggi ci troviamo in una situazione diversa da quella che è stata descritta”. Poi, l’excusatio non petita: “Siamo contrari a qualsiasi tentativo di blocco delle istituzioni”. Però: “Vogliamo consentire che ci sia una riunione di gruppo congiunta del Pdl. Ricordo semplicemente che poche settimane fa ad analoga richiesta che è stata presentata dal nostro gruppo tutta l'Aula ha acconsentito”. Dietro di lui la lettiana Paola De Micheli si mangia le unghie, Guglielmo Epifani è una sfinge. Il precedente è la direzione del Pd dello scorso 20 giugno, quando la chiusura dei lavori fu anticipata. Nessun voto in Aula, nessuna valenza politica o simbolica. Mentre la Boldrini comunica che la Camera approva “con 171 voti di scarto” dal banco dell’ M5S partono le urla “venduti”: Un drappello di democratici, Emanuele Fiano, Nico Stumpo, Piero Martino scendono. “No, non li abbiamo menati perché i commessi ci hanno fermati”, ammette dopo lo stesso Fiano.
Fine della seduta, inizio dello psicodramma. Nel Pd mancano almeno 20 voti. “Sono uscita dall’Aula. Sostenere il governo non significa adeguarci a ogni atto di eversione istituzionale che pratica il Pdl”. Parole pesanti. Ma uscire o astenersi è abbastanza rispetto a un giudizio di questo genere? Il massimo dissenso del Pd si esprime anche questa volta con un mezzo diniego.
IL FIORENTINO Bonifazi esce per primo: “Abbiamo votato secondo le indicazioni del gruppo. Ma così non può andare”. Maria Elena Boschi del cerchio magico del Sindaco è stavolta: “Io non faccio il pierino. Ma questo modo distrugge il Pd”. Lei e Luca Lotti si consultano per ore. In effetti, qualcosa è andato storto. Per tutta la durata della seduta Renzi è al telefono con Lotti. Gli chiede di fare un intervento in cui si dica che la gestione del gruppo non ha funzionato. Sono momenti concitati. Non c’è il tempo di elaborare una strategia. Alla fine tranne qualcuno (Faraone si astiene, Gentiloni e Giachetti escono), i renziani dicono sì. L’ex Rottamatore pare non sia proprio soddisfatto: avrebbe voluto un no, per qualche motivo non è riuscito a imporlo. Tant’è vero che nel pomeriggio i renziani chiedono una riunione del gruppo ed è la Boschi a dare la versione finale: “Questa conduzione ci porta al suicidio politico e al blocco istituzionale. Chi spiega ai cittadini che abbiamo interrotto i lavori, anche se solo per tre ore, per consentire una riunione del Pdl? ”. Matteo Orfini è furibondo: “Chi si è astenuto o è uscito è uno sciacallo o un cretino. Sono sciacalli che lucrano uno 0,5ç in vista del congresso. Perchè non hanno chiesto che si riunisse il gruppo per discutere? ”. Alle 15 Epifani dirama una nota: “La richiesta di sospendere i lavori del Parlamento per tre giorni, a seguito delle decisioni della Corte di Cassazione, costituisce un atto irresponsabile e inaccettabile, che lega campi che vanno tenuti distinti, quello giudiziario e quello parlamentare”. Dopo i fatti, le parole. Ma dietro i dissensi ci sono le larghe intese che a molti continuano a non andare giù. Bersani, Zoggia e D’Attorre fanno un mini vertice in Transatlantico. “È chiaro che il sostegno al governo diventa un compito ancora più difficile e impegnativo per il Pd. Abbiamo bisogno di un Pd unito per tener fermo il punto che l’esecutivo Letta è un governo di servizio, e non invece alle vicende personali di Berlusconi. Non serve qualcuno che dica ‘bravo Enrico’, e poi attacchi”, dice d’Attorre. I vertici del gruppo stanno pensando a lettere di richiamo per gli astenuti. Quelle che non sono partite verso i 101 che non hanno votato Prodi al Quirinale. Il clima è un po’ lo stesso. Lo sconforto, la vergogna sono palpabili. “Se cade il governo, ci evitiamo le regole del congresso”, scherza Guerini l’uomo nel Comitato. I renziani cominciano a far filtrare la voce che magari si vota a ottobre. Al loro capo di certo piacerebbe.

il Fatto 11.7.13
Ecco i contrari (senza dire no)


UNA VENTINA di astenuti Orfini, un’altra decina tra usciti e assenti. Ieri non tutti nel Pd ce l’hanno fatta a dire sì alla richiesta del Pdl. Un dissenso misto, non organizzato. L’unico gruppo più compatto degli altri quello dei cosiddetti “civatiani” (una decina d’astenuti). Ma per il resto il malumore è stato diviso tra le varie componenti. È uscita la Bindi, sono usciti i renziani Gentiloni e Giachetti (scrive su Tweet: “Non sapendo più cosa rinviare abbiamo rinviato l'Aula!”).
Non ha votato la Zampa furibonda (“era inaccettabile”) e nemmeno Giampiero Galli. Non ha votato nemmeno Dario Ginefra. Pare sia uscito anche Gero Grassi. Lui non conferma. Perché i renziani chiedono che se è andata così, visto che si tratta di un vice capogruppo, che ha avuto i voti di tutti per l’incarico, servono provvedimenti. Si sono astenuti poi Pippo Civati, Michela Marzano (“un errore politico quello di dare la sensazione di cedere ai ricatti del Pdl”), Davide Mattiello, Marco Di Maio (“Sarebbe stato quasi come votare che Ruby era la nipote di Mubarak”), Luca Pastorino (“Ci sono motivazioni che attengono al buon senso oltre la soglia delle indicazioni del gruppo e del governo di servizio”), i renziani Davide Faraone e Giovanna Martelli, Eleonora Cimbro, Antonio De Caro, Maria Chiara Gadda. Dario Nardella (renziano) non ha mancato di far sapere a tutti che era fuori per un appuntamento a pranzo.

il Fatto 11.7.13
Reazioni sul web
“Basta tradimenti, c’è un limite”
di V.R.


“Sono senza parole, altrimenti sarebbero solo bestemmie! ”. Firmato Mariangela Mori. È uno dei commenti delusi a Guglielmo Epifani, segretario del Pd, che, dopo la bagarre di ieri mattina alla Camera, compare sul suo facebook: “La richiesta di sospendere i lavori del Parlamento per tre giorni, (...) costituisce un atto inaccettabile”. Scrive lui: “La vicenda giudiziaria di Berlusconi e le attività di Governo e Parlamento sono sfere che vanno tenute distinte l’una dall’altra, perché altrimenti, a furia di tirare, la corda si può spezzare”. E la base, come invita a fare il social network, commenta:
“E ALLORA perché diavolo votate a favore della sospensione? Buffoni! ”
Alfredo Cassano
“MA SI RENDE CONTO di ciò che scrive? è inaccettabile e quindi lo voto? Davvero, siete oltre il ridicolo, siete nel patologico. Come qualcuno ha detto nei precedenti commenti, siete almeno bipolari. Io personalmente vi ritengo vergognosi”
Fabio Morgese
“ANCHE VOI avete contribuito a trasformare quell’aula sordida e grigia in un bivacco di manipoli berlusconiani. Fra voi e loro c’è solo una elle di troppo! Pavidi e vigliacchi, come potete ancora pretendere che la gente vi voti di nuovo?
Fernando Antonio
“LA CORDA LA STATE TIRANDO soprattutto voi (avete tradito milioni di elettori). Attenzione c’è un limite a tutto”
Enzo Rallo
“EPIFANI, NON PREOCCUPARTI per la corda. Al momento giusto. Utilizzeremo la ghigliottina”
Carmine Olmo
“SERVI DI BERLUSCONI... almeno vi passasse la gnoxxa.. ma lo sostenete gratis”
Arturo Presotto
“MA PENSATE CHE SIAMO TUTTI rincoxxxoniti? la verità è che dovete per forza votare a favore altrimenti il vostro amico Berlusconi vi tira via le poltroncine da sotto il cxxo..... questo vi interessa a voi, le poltrone e lo stipendio.. ” Cinzia Fiorini
“DIMETTITI ORA, ma subito, prima di stasera! Se non capisci o vuoi darci ad intendere che non è una questione politica ma di ore, allora non puoi guidare il Pd! Non importa se non avete accettato tre giorni, neanche tre minuti di tempo di lavori parlamentari andavano sprecati” Gessica Tempestini
“CI AVETE ROTTO. A casa, congresso e nuovo segretario scelto dalla base. Veramente basta. Basta con questo governicchio e questa dirigenza” Guido del Fante
“MI PARE CHE IL RAGIONAMENTO di Epifani sia correttissimo sotto il profilo istituzionale e politico. Non comprendo gli insulti, con i quali alcuni stanno commentando il post. Purtroppo questo modo di approcciare al dibattito sta creando solo gran confusione” Dino Falconio.

il Fatto 11.7.13
Il presidente e il verme nella mela
di Antonio Padellaro


La domanda è: possibile che Giorgio Napolitano non sapesse che il governo delle larghe intese, da lui fortemente voluto e imposto, contenesse in sé, come un verme nella mela, i problemi giudiziari di Silvio Berlusconi? Escludiamo che abbia potuto minimamente fidarsi della promessa del Caimano di tenere il governo Letta al riparo dalle conseguenze dei suoi molteplici reati. Chi può credere infatti che un personaggio navigato come il capo dello Stato, magistrale artefice della propria rielezione al Quirinale, abbia potuto dare retta all’uomo più bugiardo del pianeta? Resta la seconda risposta: che cioè Napolitano, purché si desse vita a quel mostro politico che è la maggioranza Pd-Pdl, non ha badato a spese, non prevedendo forse un prezzo così salato. Dopo aver tradito il mandato elettorale con gli elettori (“Mai con Berlusconi”), ora il Pd è costretto a vergognarsi di se stesso. Aver votato quell’indegna sospensione dei lavori parlamentari non solo equivale a una sottomissione ai voleri del Pdl, ma acquista un valore simbolico incancellabile nel momento in cui quella pausa istituzionale diventa omaggio penitenziale al miliardario plurinquisito, oltreché pressione inaudita sulla Corte di Cassazione. Il fatto è che il gruppo dirigente democratico, a furia di compromessi con la propria storia, ha perso completamente identità e orientamento, tanto che oggi, per dire, tra uno Speranza e un Alfano non si nota nessuna differenza. Ma forse era proprio questo che si voleva.
Il verme nella mela sta producendo un altro inevitabile effetto. I guai penali dell’affettuoso protettore di Ruby Rubacuori, da ossessione privata dell’imputato e problema esclusivo del Pdl, grazie alle improvvide intese allargate si è trasformato in un gigantesco affare di governo e di Stato. Addirittura una bomba termonucleare sul futuro dell’Italia, come vanno preconizzando i terrorizzati giornaloni. Poiché, se la Cassazione dovesse confermare la condanna di Berlusconi con le annesse pene accessorie, costui risulterebbe interdetto dai pubblici uffici. Compresi quelli che non esercita come senatore della Repubblica, visto che è risultato assente dall’aula nel 99,7 per cento delle sedute. Un’onta che, secondo i profeti di sventura, comporterebbe con la crisi di governo una serie di catastrofi a catena, comprese la peste bubbonica e le cavallette. Un trucco da imbroglioni che ha l’unico scopo di far ricadere sui giudici della sezione feriale della Cassazione una responsabilità enorme. Insomma, visto che il governo non decide un fico secco e che l’economia va di male in peggio, retrocessa dalle agenzie di rating, che fosse questo il vero scopo delle larghe intese, salvare il Cavaliere?

La Stampa 11.7.13
Le notti insonni del Cavaliere rimasto senza un “piano B”
L’accelerazione sulla sentenza ha minato il suo spirito combattivo
di Marcello Sorgi


Martedì mattina, quando Thanatos ha bussato alla sua spalla con la punta della falce che annuncia la fine, Silvio Berlusconi non era affatto di buon umore. Non lo era da giorni. Le due settimane trascorse ad Arcore, per sfuggire al tritatutto romano del suo partito, non erano riuscite a ritemprarlo. Quando il centralino gli ha annunciato Ghedini, tra i più assidui frequentatori dei giorni del ritiro a Villa San Martino, pensava a una delle tante telefonate di routine, dato che i guai giudiziari occupano ormai due terzi del suo tempo.
Ciò che non solo lui, ma anche i suoi avvocati non si aspettavano, era l’accelerata decisa dalla Cassazione per fissare al 30 luglio il giudizio definitivo sul processo Mediaset, per cui il Cavaliere è già stato condannato anche in appello a quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici, cioè alla conclusione per via giudiziaria della sua ventennale carriera politica. Tutt’insieme, l’anticipo della Suprema Corte veniva a sovvertire la strategia, chiamiamola così, abbozzata faticosamente dall’imputato e dal suo nutrito collegio di difesa, rafforzato di recente dall’ingresso del professor Franco Coppi, il penalista che assistette Andreotti nel processo palermitano per le accuse di mafia.
Era stato proprio Coppi, per dar subito un segnale di cambiamento - e chiudere con la strana commistione tra difesa nelle aule di giustizia e manifestazioni dei parlamentari Pdl sui gradini del Palazzo di giustizia di Milano -, a chiedere a Berlusconi di astenersi da qualsiasi dichiarazione o commento sulle sentenze e sulle iniziative della magistratura. Un sacrificio accettato a denti stretti dall’interessato, che aveva dovuto mordersi le labbra, la scorsa settimana, quando un gruppo di supporters s’era assiepato davanti al cancello di Arcore e aveva acconsentito a togliere le tende solo dopo la promessa, ottenuta da Daniela Santanchè, che Silvio, invocato nei cori della sua gente, si affacciasse almeno per un salutino.
Le immagini del Cavaliere sorridente, ma insolitamente e forzatamente muto, che stringeva le mani dei fedelissimi, avevano fatto subito il giro del mondo. Ed erano rimaste come uno dei pochi documenti di questo strano esilio tra i muri di casa, a cavallo tra la sconfitta alla Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sollevato contro i giudici di Milano e la pesante condanna subita nel processo per il «bunga-bunga» e il «caso Ruby». Chi è riuscito a superare quel cancello, in queste due settimane di silenzio, ha visto un Berlusconi stanco, provato, consapevole che la morsa dei processi ormai lo stia stringendo. S’infuriava, si sfogava come fa sempre, tirando fuori dalla montagna di carte giudiziarie che ha studiato a memoria quelle che gli sembrano le prove di una persecuzione ad personam. O ripetendo, con la precisione di un computer, le osservazioni dei suoi legali. Ma una via d’uscita, una ragionevole speranza, un verosimile calcolo delle probabilità, non sono usciti, né da questa lunga sessione di studio, né dalle notti in cui il Cavaliere ha cercato di tirar fuori un’idea di salvezza, uno di quei tipici lampi con cui ha contrassegnato la sua lunga vita di imprenditore e leader politico.
Se Berlusconi la soluzione non l’ha trovata quando l’appuntamento con la Cassazione era previsto per l’autunno, figurarsi adesso che neppure gli avvocati sono sicuri di fare in tempo a concludere le loro memorie in meno di quindici giorni. Il panico, l’agitazione e la confusione che hanno preso tutto intero il centrodestra, esplodendo ieri in Parlamento pubblicamente fin quasi alle soglie di una crisi, nascono essenzialmente di qui. Perchè il Cavaliere è sempre stato abituato ad avere, non uno, ma due piani per ogni evenienza delicata; non uno solo, ma almeno due responsabili operativi per ogni progetto; non una, madue (o anche più) trattative aperte contemporaneamente. È il suo caratteristico sistema binario, un metodo che la cerchia più ristretta di persone che lo frequentano conosce molto bene. Tanto per fare un esempio, è l’abitudine a sentire, prima di decidere, Gianni Letta e Fedele Confalonieri, sapendo che non la vedono sempre alla stessa maniera. È il raccontare a se stesso una cosa diversa da quella che farà. Spesso è anche il suo modo di tenersi un’idea di riserva e cambiarla all’ultimo minuto.
Stavolta invece tutto s’è consumato in un giorno e ora non c’è più tempo: sentirsi stretto e legato a una scadenza per cui è già partito il conto alla rovescia ha messo Berlusconi in uno stato d’angoscia. Nella sua mente, il piano originario doveva assomigliare a un missile a tre stadi. Il primo, ovviamente, rivolto verso la Cassazione: Berlusconi aveva accolto con soddisfazione (leggi: si era adoperato per) la scelta del nuovo presidente della Suprema Corte, Giorgio Santacroce, unanimemente considerato a lui non ostile. Si aspettava che il ricorso che può decidere l’intero suo destino fosse indirizzato verso la terza sezione, che in passato lo aveva già giudicato e assolto. Al contrario, l’approdo dei suoi dossier all’impenetrabile sezione feriale (in cui tuttavia, a giudizio degli esperti, non figura neppure una «toga rossa»), e motivata a emettere la sentenza nel più breve tempo possibile, rende ardua qualsiasi previsione, e fa propendere per il peggio. Berlusconi si sente davanti a un plotone d’esecuzione, come lo ha definito in uno dei suoi sfoghi privati davanti ai difensori.
Il secondo stadio del missile era puntato sul governo e sul Pd. Pur tenendoli a bada, il Cavaliere aveva fin qui incoraggiato i falchi del suo partito a proseguire la campagna quotidiana di attacchi all’esecutivo delle larghe intese perchè pensava, presto o tardi, di arrivare a un serio compromesso con l’alleatoavversario. La parola pacificazione, così come l’idea di un salvacondotto giudiziario che aveva fatto arrivare fino al Quirinale, prevedevano la disponibilità a farsi da parte in un ruolo notabilare (per esempio da senatore a vita) e la fine della guerra civile che ha avvelenato il ventennio della Seconda Repubblica. Berlusconi, va detto, non si era mai impressionato di fronte ai «no» o ai silenzi imbarazzati che aveva ricevuto, direttamente o per interposta persona. Ci vorrà tempo, ripeteva tra se e se, ma alla fine si convinceranno. Oggi piuttosto comincia a temere, non solo che il Pd non si convinca, ma che possa cercare di approfittare delle sue difficoltà per farlo fuori una volta e per tutte. Un segnale in questo senso era arrivato l’altro ieri, con il voto dei Democrat a favore di un’autorizzazione a procedere contro di lui chiesta per una querela di Di Pietro. E la disponibilità, in controtendenza, data ieri dal Pd alla sospensione dei lavori parlamentari decisa dalla Camera, non ha fugato i timori del Cavaliere. Il problema non è cosa faranno se noi ritiriamo l’appoggio al governo, ha spiegato ai suoi. Ma se la crisi la aprono loro, approfittando del nostro momento di debolezza.
Il terzo stadio riguarda le aziende di famiglia. Nel ritiro di Arcore, il problema s’è affacciato di frequente, ora con i volti preoccupati dei figli Marina e Piersilvio, tutelati dal fido Confalonieri, ora su iniziativa dello stesso Berlusconi, che non rinuncia a intromettersi su tutto e a dare consigli non richiesti appena accende un televisore. Ma anche in questo caso, la prospettiva di avere a disposizione ancora qualche mese, e magari, com’è successo altre volte, di cavarsela per il rotto della cuffia, lo aveva spinto a rinviare ogni decisione, anche perchè tra i processi aperti c’è anche quello civile intentato da Carlo De Benedetti per la Mondadori, e costato finora alle casse familiari più di cinquecento milioni di euro. In quindici giorni, una soluzione non s’improvvisa. E anche questo pesa sulla veglia insonne di Berlusconi.

Repubblica 11.7.13
Salvare Silvio, il dilemma Pd
di Concetto Vecchio


L’altro giorno il ministro Dario Franceschini ha detto che il collante dell’antiberlusconismo è finito, e che il Pd avrebbe dovuto ritrovare le ragioni del suo stare insieme, quand’ecco che il fantasma di Berlusconi riappare, a porre a ciascuno dei senatori democratici la fatale domanda: tu con chi stai? Dopo il 30 luglio, in caso di condanna e d’interdizione dei pubblici uffici, il Senato dovrà decidere a voto segreto se confermare o negare la decadenza da parlamentare di Berlusconi. Se lo salvano, salta il Pd; se fanno la cosa più ovvia, fatta sin qui in sessantacinque anni di storia repubblicana – ovvero ottemperare a una sentenza definitiva letta dai giudici in nome del popolo italiano – allora si sfasciano le larghe intese. E’ subito partita la solita rumba dei falchi e dei falchetti di Silvio, che minacciano perfino l’Aventino pur di concedere un salvacondotto al Capo, e le cui grida echeggiano nel Paese  sfinito dalla crisi, dove ogni italiano si chiede con angoscia fino a quando ancora avrà il suo posto di lavoro, e chi non ce l’ha più non sa dove sbattere la testa. Il Pd, aggrumatosi nella strana maggioranza, pacificato, si era illuso di poter archiviare l’anti-berlusconismo; invece alla fine riemerge sempre con tutto il suo carico di anomalie, come succede ormai da vent’anni: a interrogarlo, a interrogarci tutti.

Repubblica 11.7.13
Le Larghe Intese contro la Cassazione
di Francesco Bei


IL CONGRESSO del Pd è iniziato ieri a Montecitorio. Quando una trentina di deputati si è rifiutata di votare, secondo le indicazioni del gruppo, a favore dello stop chiesto dal Pdl ai lavori parlamentari. Voti a favore, voti contro, astenuti, assenti. Un caos. Sono renziani, soprattutto, ma anche prodiani come Zampa e Gozi, oltre a qualche
outsider (Pippo Civati).

Il Pd si spacca sullo stop ai lavori no dei renziani: “Un suicidio” Epifani al Pdl: basta tirare la corda
Trenta dissidenti, il capogruppo Speranza sotto accusa

ROMA E ROMPONO la disciplina del gruppo, come è avvenuto in altre occasioni. Nel partito la tensione è alle stelle per quel voto che sembra schierare la maggioranza di larghe intese - Pd, Pdl e Scelta Civica - contro la corte di Cassazione. La maggioranza accusa invece i renziani di aver sfruttato una facile vetrina per lucrare consensi. Lo stesso segretario, Guglielmo Epifani, è costretto ad alzare la voce contro il Pdl, consapevole che il suo partito non può reggere a lungo la fibrillazione provocata dai berlusconiani: «A furia di tirare, la corda si può spezzare».
Intanto la rivolta nel gruppo democrat sfocia in dichiarazioni pubbliche. «Mi sono attenuta all’ordine di scuderia — dice ad esempio la renziana Simona Bonafè — ma il sì alla sospensione è stato un clamoroso autogol ». Khalid Chaouki, pur avendo votato, attacca: «È sembrato che ci prestassimo a una decisione che conviene a Berlusconi. Dovevamo gestirla meglio». Dario Nardella, renziano, si dice basito: «Ma che sospendiamo i lavori per una cosa del genere? Assurdo». Su Twitter confessa la sua disobbedienza Paolo Gentiloni: «La Camera sospende lavori fino per protesta contro la Cassazione. Un precedente grave. Io non ho capito e non ho votato ». Sempre con un tweet si sfoga Roberto Giachetti, un altro renziano: «Non sapendo più cosa rinviare abbiamo rinviato l’Aula». È un diluvio di parole che investe la dirigenza dei gruppi parlamentari, mentre il sindaco di Firenze resta in silenzio. Ma la regia della giornata non prevede assemblee che potrebbero trasformarsi in processi pubblici. Franceschini, Letta ed Epifani discutono a lungo della questione. Poi, insieme al capogruppo Speranza, si decide di non regalare una vetrina ai dissidenti. I renziani mettono sotto accusa proprio il capogruppo Speranza. Una nota firmata da una decina di deputati vicini al sindaco di Firenze critica «la gestione del voto» perché sarebbe stata «incomprensibile». «Nessuno», dicono, «è stato informato, nessuno ha capito cosa è successo. È urgente che il gruppo si riunisca per capire se ci sono responsabilità e se i meccanismi decisionali sono efficaci oppure vadano ridiscussi ». La prossima settimana l’assemblea si farà. «Ma non perché l’hanno chiesta loro — fanno presente dalla presidenza — era già stata convocata».
A spargere sale sulle ferite ci si mette anche il Movimento 5 Stelle che in aula si scaglia con violenza contro il Pd. Quando i grillini al grido di «buffoni! servi! schiavi!» si avvicinano ai banchi democratici, Piero Martino (secco ma alto) e Nico Stumpo (massiccio e minaccioso) scendono come delle furie per affrontarli. Solo l’intervento dei
commessi riesce a evitare il contatto fisico. Speranza difende la decisione del Pd. Sostiene che, a fronte della richiesta di uno stop di tre giorni, al Pdl è stata concesso solo il rinvio di un pomeriggio. Per questo, aggiunge il capogruppo, «la volgare strumentalizzazione seguita da parte del M5S è frutto di un nervosismo ormai fuori controllo, conseguenza di una inesorabile perdita di consensi e di credibilità nel Paese e nell’opinione pubblica. Non consentiremo a chi punta solo allo sfascio delle istituzioni di prevalere».

Repubblica 11.7.13
Rivolta tra i dem contro le larghe intese
Il segretario: “Meglio un altro governo”
Il sindaco apre il fronte, ma anche Bersani chiede la verifica
di Giovanna Casadio


ROMA — «Il Pd è nel tritacarne? È il paese che è finito nel tritacarne di Berlusconi...». Epifani ha domato un’infinità di vertenze sindacali, ma ora gli tocca fronteggiare la rivolta dei Democratici. Mai così drammatica. Non sono solo le proteste dei renziani, degli outsider, dei dissidenti cronici come Pippo Civati. Si avvicina Cesare Damiano, compagno di tante battaglie nel sindacato, e dice: «Abbiamo toccato il fondo, insopportabile prestarsi al gioco del Cavaliere e delle sue sentenze ». Eppure, per disciplina, Damiano si è adeguato.
Perciò il segretario decide di alzare la voce: «O si separano i destini di Berlusconi dal governo o se no è meglio un’altra soluzione, un altro governo». Un ultimatum. La famosa corda che il Pdl sta tirando troppo, se si spezza non porta alle urne: «Il voto non è la prima opzione», spiega. Un’altra maggioranza si può sempre trovare; al Senato i Democratici stanno già facendo i calcoli, puntando sui fuoriusciti del M5Stelle, perché a Montecitorio, come si sa, la maggioranza il centrosinistra ce l’ha, e abbondante.
L’insofferenza per il governo delle larghe intese - alla cui tenuta il Pd ha offerto ieri l’ennesimo sacrificio votando la sospensione dei lavori parlamentari come chiesto dai berlusconiani - è giunta a un punto di non ritorno.
I filogovernisti - lettiani, Popolari, Areadem di Franceschini fanno fatica a reggere e a giustificare la bontà della scelta. E quando arriverà la sentenza Mediaset, a fine mese, cosa accadrà? Alle 13,30 con un sms i deputati democratici erano stati avvertiti: «In aula per voto procedurale». Una procedura che porta il partito in un vicolo cieco, all’abbraccio con il caimano. Lo dicono gli astenuti, quelli che non partecipano al voto, che si alzano e se ne vanno oppure non entrano affatto in aula: sono quasi una trentina, Michela Marzano, Paolo Gentiloni, Giovanna Martelli, Roberto Giachetti, Sandra Zampa, Carlo Galli, Rosy Bindi, Davide Faraone, Dario Nardella... Poi i renziani fanno anche un documento che è un “j’accuse”. È concordato con Matteo Renzi. Il sindaco fiorentino afferma: «È stato uno sbaglio, un grave errore».
Vanno all’attacco i renziani, chiedono una riunione del gruppo che ci sarà lunedì. Non sono i soli. Bersani, l’ex segretario che ha gettato la spugna quando all’orizzonte si è profilato il governo delle larghe intese, parla fitto in Transatlantico con i fedelissimi Alfredo D’Attorre e Davide Zoggia. D’Attorre subito dopo detta una nota alle agenzie di stampa chiedendo «una verifica politica», e si sfoga: «Il Pd così non regge, il problema politico c’è tutto e ora tra di noi e con la nostra gente è ancora più difficile da digerire l’alleanza con Berlusconi ». I bersaniani ce l’hanno come sempre con i renziani, con Luca Lotti, che è il responsabile degli enti locali, e parla di scelta assurda; con Davide Ermini che dichiara «continuiamo a farci del male, e se cambiassimo qualcosa? ». Dario Nardella, l’ex vice sindaco di Firenze, ripete che la tensione è altissima, e che il Pd non può sopportare tutto il peso del governo Letta, come già fu con Monti mentre il Pdl si sfilava. È saltata anche la riunione del “comitatone” per il congresso del Pd, dove oggi si dovevano decidere le regole. Epifani ha fatto sapere: «Non sappiamo cosa succede, non possiamo metterci a parlare di regole». Il rischio della crisi di governo è concreto: forse non salta subito l’esecutivo, ma presto continuando così. Renzi non gongola, però - dicono i renziani - va a finire che si deve preparare alla corsa per la premiership e non per la segreteria Pd. Tra insofferenza e imbarazzo, aspettando l’arrivo di Letta per il question time, i filogovernisti tentano di minimizzare. Raccontano della trattativa che c’è stata per convincere il Pdl a passare dall’Aventino a uno stop ai lavori parlamentari di una giornata. «No a moratorie o chiusure di istituzioni, però se si tratta di una giusta assemblea del Pdl...», twitta Antonello Giacomelli. Non basta. La paura è che il Pd ci rimetta l’osso del collo. «Chi ci vota più se continuiamo ad assecondare Berlusconi», commenta Ivan Scalfarotto che ha rispettato la disciplina del gruppo. Come
Sandro Gozi («Il gruppo doveva discuterne»); Khalid Chaouki («Che figura!»). «Se continuano così a trascinarci nelle vicende di Berlusconi, il Pd non può starci», rincara il renziano Matteo Richetti. Piero Martino, Nico Stumpo, Emanuele Fiano sono reduci da un quasi corpo a corpo in aula con i 5Stelle e difendono le decisioni prese. Matteo Orfini è convinto che per un quarto d’ora di visibilità, e per posizionarsi in vista del congresso i dissidenti («inqualificabili, sciacalli»), si sono messi sulle barricate. «Non sono un paraculo, mi hanno accusato pure di questo - si difende Civati - è che il Pd non può reggere questo stillicidio».

Repubblica 30.7.13
La Bindi critica Speranza e la decisione di accettare la sospensione di un giorno: “Bisognava almeno riunire il gruppo”
“Un errore assecondare l’eversione io non ho votato perché così moriamo”
di G. C.


ROMA — «Il Pd è sempre stato una sentinella contro la deriva berlusconiana, non possiamo venire meno al nostro compito di presidio democratico». Rosy Bindi ha detto “no” alla sospensione dei lavori parlamentari, lasciando l’aula di Montecitorio.
Bindi, perché non ha partecipato al voto?
«Il Pd non dovrebbe mai assecondare gli atteggiamenti di eversione istituzionale del Pdl. Il centrodestra ha attaccato la Cassazione; ha minacciato di bloccare i lavori parlamentari per alcuni giorni. È vero che lo stop delle commissioni e dell’aula è stato di un pomeriggio, ma il significato politico non cambia. Inoltre con il nostro comportamento in aula, abbiamo assecondato i “falchi” del Pdl: non dovevamo offrire sponda agli irresponsabili».
Il Pd ha fatto un errore?
«Il Pd deve sciogliere un nodo che ci portiamo dietro da quando abbiamo dato vita a questo governo. Una cosa è la lealtà a Letta, altra è annacquare il nostro profilo alternativo alla destra e soprattutto la nostra contrarietà
assoluta ai comportamenti berlusconiani, che sono improntati al conflitto tra i poteri dello Stato e alla pretesa di bloccare il corso della giustizia».
La sentenza Mediaset a fine mese accelererà una crisi di governo?
«Chi si proclama innocente dovrebbe auspicare una decisione veloce e non invocare il diritto alla prescrizione. Ci si lamenta sempre della lentezza della magistratura nei processi. Nella passata legislatura presentai un disegno di legge perché i processi per i politici abbiano tempi velocissimi, non per privilegiare i politici ma per assicurare ai cittadini che chi li rappresenta o li governa sia affidabile. Auguro a Berlusconi di essere assolto: perciò se arriva presto la sentenza, è meglio per tutti. Di certo, questa è una fase molto difficile e pericolosa per il Pd: non può mancare il sostegno leale al governo ma non è possibile neppure condizionare le prospettive del partito, peraltro in una fase congressuale, rinchiudendolo nello stato di necessità rappresentato dall’alleanza di governo con Berlusconi.
Non possiamo compromettere il nostro profilo politico».
I Democratici non reggono una maggioranza con Berlusconi?
«Noi abbiamo un atteggiamento molto responsabile. Ma era necessaria una decisione collegiale del gruppo parlamentare. Alcuni democratici si sono astenuti, altri non hanno votato. Ma anche quelli che sono stati disciplinati erano in grande sofferenza. Una cosa così impegnativa, meritava una discussione adeguata».
È indispensabile per il Pd cambiare maggioranza?
«Il governo deve fare cose importanti per il paese. Ma non possiamo accettare che questa fase diventi una camicia di forza, perché così rischiamo di morire. Non sarà il Pd a mandare in crisi Letta. Però se il Pdl puntasse a una crisi di governo, in Parlamento si possono sempre cercare altre soluzioni. Comunque non si va a votare con questa legge elettorale: il Pdl se lo metta bene in testa».
Il suo è un “j’accuse” al partito?
«No. Non votare è stata una sofferenza. Sono uscita dall’aula perché la tentazione più grande era di intervenire dissociandomi. Ho evitato. Ci vuole responsabilità in questo momento, è vero. Ma di subire il ricatto del Pdl non me la sono sentita. Nonostante il mio no alle larghe intese, al governo ho assicurato il voto di fiducia e la lealtà che non è mai venuta meno. Però ho detto che avrei presidiato il profilo alternativo del Pd e rifiuto l’equivoco della pacificazione».
(g.c.)

Repubblica 11.7.13
E Beppe boccia l’ipotesi ribaltone “Fare un governo con il Pd? Non si può, loro non esistono più”
“Credo al capo dello Stato, ma ormai è ostaggio dei partiti”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA — La legislatura rischia di precipitare. Il Pdl tira la corda fin quasi a spezzarla. L’esecutivo barcolla. Ci sarebbe il Movimento cinque stelle, però. Il piano B. Ma sulla soglia dell’ascensore che porta nel cuore del Senato, a due passi dall’Aula, Beppe Grillo chiude la porta al ribaltone. È una rapida battuta, ma ultimativa: «Un governo con il Pd? Ma come si fa, il Pd non c’è più!». È così, il leader. Due ore da Giorgio Napolitano, un’ora a urlare in conferenza stampa. Giacca, cravatta e abbronzatura da Costa Smeralda. Poi, terminata la maratona, si lascia coccolare a palazzo Madama dai suoi senatori. «Voglio stare con loro - dice, quasi timidamente - non li conosco neanche tutti». E loro lo circondano e lo guidano. La prima tappa è il Transatlantico. La senatrice Laura Bottici gli sussurra: «Vedi, Beppe, questo è il corridoio che porta all’Aula». Il clima è disteso.
Insomma, Grillo, si può fare un governo con i democratici?
«Con loro? Ma dai, scusa, ma come si fa a fare un governo con loro, il Pd non c’è più! Il Pd è scomparso!».
Com’è andata davvero con il Capo dello Stato? Il Porcellum riuscite a cancellarlo una volta per tutte?
«Mah, che devo dire? Napolitano vuole cambiare questa legge, è stato sempre contro. Ce l’ha detto. Però ci ha anche detto che non può fare altro. Che non riesce a fare di più».
E lei, Grillo, che ha detto al Presidente?
«Ma ve l’ho detto, gli ho chiesto di andare in televisione, di raccontare la verità agli italiani. Però Napolitano ci ha spiegato che in tv ci può andare solo per gravi motivi, per fatti gravi».
E la delegazione del Movimento che ha risposto?
«Che secondo noi potrebbe andare. Che ha alcuni minuti a disposizione e può usarli. Va sulle principali tre Reti, unificate, per una volta. E spiega la situazione ai cittadini».
Avete parlato anche del Parlamento. Voi denunciate lo stallo.
«Abbiamo detto a Napolitano che non è possibile andare avanti così. Lui lo sa, ci ha detto che la decretazione d’urgenza dovrebbe avvenire solo per motivi straordinari. Ma che lui non ce la fa, non può fare altro...».
E voi? Come giudicate la risposta?
«Mah, io credo che se lui dice così, è vero. Non ho motivo di non credergli. C’è da dire che lui ormai è ostaggio dei partiti».
Ostaggio?
«Sì, ma se l’è cercata con la rielezione ».
Il cordone circonda il Fondatore. Grillo arriva a un passo dalla buvette. Gliela mostrano, per molti grillini è il simbolo dell’odiata Casta. Un attimo e la truppa pentastellata si allontana via veloce. Qualcuno gli ricorda il caso di Adele Gambaro. Lui usa toni sfumati: «Sai, poverina, è caduta in una trappola...». Poi brindano nella sala del gruppo. Cambio rapido di camicia, via la cravatta. Si torna in Costa Smeralda.

Repubblica 11.7.13
In caso di condanna del Cavaliere il Senato dovrà ratificare la sentenza. Casson: “Non c’è storia”
Il Pd deciso sul sì all’interdizione ma c’è l’incognita del voto segreto


ROMA — «È senza storia». Dice proprio così l’ex pm Felice Casson, oggi esponente di punta del Pd, a proposito del futuro voto sull’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici di Berlusconi. Nella sue parole si coglie una certezza, quella che il Pd, «di fronte a una sentenza», non si farà prendere da improvvisi e trasversali mal di pancia. Perché «le sentenze vanno rispettate ed eseguite». Tutt’altra storia da quella dell’ineleggibilità,
dove i mal di pancia ci sono, e sono anche molto forti. Ma le due vicende sono assai diverse, anche se per un caso finiscono per incrociarsi nello stesso lasso di tempo e nello stesso Senato. Dove ancora ieri il Pdl, tramite i suoi emissari, in vista della seduta di oggi sull’ineleggibilità in giunta per le autorizzazioni, cercava di liquidare il prima possibile il caso, anticipando i tempi del voto per incassarne uno favorevole a Berlusconi.
Dunque Casson — ma non è il solo perché a Repubblica risulta che importanti esponenti del Pd la pensano allo stesso modo — è convinto che, qualora l’ex premier dovesse essere condannato, il percorso sarà assai semplice. A verdetto pronunciato in piazza Cavour, dalla Cassazione verrà trasmesso a palazzo Madama il dispositivo della sentenza che arriverà sul tavolo della giunta per le autorizzazioni. Qui un’unica eccezione potrebbe essere sollevata, quella che bisogna attendere le motivazioni, per le quali di solito sono necessari alcuni mesi. Ma qualora si decidesse di votare subito, Pd, Sel e M5S sarebbero assieme nel contrapporsi al Pdl che cercherà disperatamente il rinvio e punterà alla sorpresa del voto segreto in aula. Lì, trasversalmente, si potrebbe anche verificare il colpo di teatro di un Berlusconi salvato dal voto dei franchi tiratori.
(l.mi.)

Repubblica 11.7.13
L’amaca
di Michele Serra


Un partito di guerra, questo è oggi il Pdl. Non una voce solida, ragionevole, si leva dal suo interno per dire che non solamente l’Italia e le sue istituzioni, ma la stessa destra italiana è qualcosa di più e di meglio del suo vecchio capo pazzo di vanità e di rabbia. Non solamente la cerchia dei fedelissimi – le pitonesse, le amazzoni, i direttori dei suoi giornali e dei suoi telegiornali, gli ex craxiani che sono, del berlusconismo, i veri pretoriani – ma l’intero partito ragiona e sragiona all’unisono con il suo leader, come se sapesse di essere, senza di lui o al di fuori di lui, niente. Semplicemente niente. Non è un partito-azienda, il Pdl. È un partito-persona, in grado di digerire la perdita di sei milioni e mezzo di voti (un’ecatombe mai vista nella storia repubblicana) come una “grande vittoria”, e di fingere di non vedere e non sapere, per anni, il disdoro e il ridicolo che il solo nome di Berlusconi evoca in giro per il Pianeta Terra (fa eccezione la Bielorussia, ma non tutta). Si dice, da anni, che far coincidere i destini di un Paese con quelli di un individuo è quanto di più lontano dalla democrazia si possa concepire. La giornata di ieri, con il procurato coma parlamentare, ne è l’ennesima prova. Fortunatamente, a dare il senso della normalità, del tranquillo tran-tran quotidiano, c’era il Pd che non sapeva che pesci pigliare.

Repubblica 11.7.13
Culle vuote per la recessione così nella vecchia Europa i giovani non fanno più figli
Ogni anno 200mila neonati in meno. Grecia eSpagna più colpite
di Elena Dusi


ROMA — L’anno scorso in Italia sono nati 12mila bambini in meno rispetto al 2011. L’anno precedente il calo era stato di 6mila bebè. Dal 2009 il leggero aumento delle culle iniziato nel 2001 si è arenato, eppure in Europa possiamo dirci fra i più fortunati. In tutto il continente infatti non c’è un singolo paese in cui le nascite siano aumentate dal 2008 a oggi. Se Francia, Austria, Svizzera e Germania mantengono le posizioni, in Spagna, Grecia, Irlanda e Lettonia la curva del tasso di fecondità disegna un vero e proprio crollo. La tendenza è particolarmente sentita nella fascia d’età tra 20 e 24 anni. E se tutti questi indizi puntano verso un unico colpevole — la crisi economica — è perché la responsabile è proprio lei. Incertezza sul futuro e disoccupazione ci hanno precipitare di nuovo in quella crisi della natalità da cui l’Europa si stava stancamente risollevando dall’ingresso nel nuovo millennio. Dai 5,6 milioni di bambini nati nel continente nel 2008 si è scesi ai 5,4 del 2011. Alla recessione sono dunque imputabili 200mila culle rimaste vuote ogni anno.
Gli effetti della “grande recessione” sulla fecondità in Europa sono stati pubblicati oggi sulla rivista Demographic Research.
I ricercatori del Max Planck Institute di Rostock, in Germania, hanno incrociato i dati sulla disoccupazione con quelli delle nascite nell’ultimo decennio. E l’effetto è subito apparso lampante in ognuno dei 28 paesi presi in considerazione (solo la Russia fa più figli rispetto al passato). «Il declino della natalità nel sud Europa è evidente. Soprattutto in Spagna, un po’ meno in Italia» conferma Massimo Livi Bacci, demografo dell’università di Firenze. «Se mi si perdona il paragone, fare figli in questo momento è come comprare una macchina. Si rimanda a momenti migliori. Ma è ancora presto per dire se si tratta di un effetto congiunturale o di lunga durata».
«Il rapporto fra condizioni economiche e fertilità è uno dei temi più dibattuti in demografia» spiegano i ricercatori tedeschi guidati da Michaela Kreyenfeld. «Ma la crisi finanziaria iniziata nel 2007 ha colpito l’Europa nel momento in cui il tasso di fecondità stava registrando timidi progressi, bloccandoli». Lo studio del Max Planck conferma una serie di ricerche che negli ultimi anni hanno legato depressione e crisi delle nascite. E che fanno notare come quella odierna sia la prima grande recessione con mezzi di contraccezione affidabili e diffusi universalmente.
Due anni fa ad esempio l’Accademia delle Scienze austriaca aveva osservato come l’aumento delle nascite sbocciato in Europa negli anni Sessanta sia stato interrotto dalla recessione del 2008, mentre negli Stati Uniti l’inversione di tendenza demografica era iniziata un anno prima. Dai 4,3 milioni di bambini nati negli Usa nel 2007 si era arrivati ai 4 tondi del 2010. E se, fino al 2008, 26 dei 27 paesi europei registravano un tasso di fertilità in aumento, a partire dall’annus horribilis della finanza mondiale la tendenza si è ribaltata. Tredici paesi si sono ritrovati con un calo dei nuovi nati e altri quattro con
dati stagnanti. «Le crisi economiche — prosegue Livi Bacci — hanno spesso dato risposte equivoche sul piano della demografia. La recessione degli anni Trenta per esempio è stata seguita da una netta ripresa. Il fenomeno del baby boom nasce proprio da quella crisi e dalla guerra. Ma il problema europeo oggi è che i dati economici colpiscono una situazione già compromessa, con tassi di natalità bassissimi in partenza ». I primi a soffrire sono proprio gli immigrati che mantengono a galla la popolazione europea. I dati di Eurostat pubblicati all’inizio dell’anno dimostrano che il calo della fecondità si fa sentire di più fra le coppie straniere, le prime a essere espulse dal mercato del lavoro e le ultime a essere inserite nei programmi di assistenza sociale.


Repubblica 11.7.13
“Arrestate il n.1 dei Fratelli musulmani” la piazza: “Pronti a scatenare l’inferno”
L’America invia 12 cacciabombardieri al nuovo governo egiziano
di Fabio Scuto


IL CAIRO — Hanno incitato per giorni prima alla disobbedienza, poi alla rivolta di piazza e infine alla guerra civile mentre l’Egitto era spazzato da un’ondata di violenze che ha fatto 100 morti e quasi 2000 feriti dal 30 giugno. Adesso i leader della Fratellanza musulmana sono costretti a nascondersi, a ritornare in clandestinità, inseguiti da un mandato di cattura del procuratore generale del Cairo. A partire dal leader massimo, Mohammed Badie, il murshid, la Guida suprema che venerdì scorso al suo comizio alla Rabaa Adawiya aveva invitato l’Egitto alla ribellione contro il colpo di mano dei militari e il “nuovo corso” aperto dopo la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi. Mandati d’arresto anche per il suo vice Mahmoud Ezzat, per due leader del Partito Libertà e Giustizia, braccio politico dei Fratelli, e altri 5 dirigenti islamisti. Dal 3 luglio nello stesso carcere che ospita l’ex raìs Hosni Mubarak sono in cella Khairat al Shater — lo “stratega” della Confraternita — e l’ex presidente islamista del Parlamento. Resta invece ancora nel mistero la sorte dell’ex presidente Morsi che però, assicurano al ministero degli Esteri, si trova in un «posto sicuro, è trattato in modo dignitoso» e a suo carico «non è stata formulata ancora alcuna accusa».
Un portavoce della Fratellanza si affrettava a precisare ieri sera che nessun leader è ancora stato arrestato e ha definito le accuse un tentativo di stroncare le proteste, ma è innegabile che la Piazza degli islamisti a Nasr City appare isolata. Solo qualche decina
di migliaia di militanti mantiene il sit-in nella zona teatro all’alba di lunedì del fallito assalto al Comando della Guardia repubblicana, dove gli islamisti pensavano fosse rinchiuso Morsi, finito con un massacro. Ma la sfida della Confraternita non si ferma: manterrà il presidio fino a quando Morsi non tornerà al suo posto. «Possiamo scatenare l’inferno », dice Reda Ibrahim, un manovale di 43 anni che viene da Ismailia, «Morsi deve finire il suo mandato». Posizioni che ripetono tutti sulla piazza, sembrano sempre più distaccate dalla realtà ma non per questo meno pericolose. Oltre duecento militanti della Fratellanza sono stati già stati arrestati per possesso di pistole o fucili.
La presidenza ad interim sostenuta dai militari punta a tornare rapidamente a un governo di civili: sarà un esecutivo di tecnici, i cui membri devono ancora essere annunciati. Appare certo però che non ci saranno gli islamisti. Ma è la dichiarazione costituzionale del presidente Adly Mansour, che resterà in vigore per almeno sei mesi — fino alle elezioni parlamentari e presidenziali — a tenere agitata l’intera opposizione. Il testo è stata bocciato dal Fronte di salvezza nazionale (Fsn), principale alleanza liberale, e dall’influente predicatore salafita Yaser Borhami, guida del Partito islamista Al-Nour, che si è schierato contro la Fratellanza. I vertici del Fsn hanno inviato una lettera a Mansour per spiegare i motivi del rifiuto e proporre degli emendamenti alla dichiarazione costituzionale, compreso un nuovo sistema di selezione del Comitato incaricato di redigere la nuova Carta.
Il parziale ritorno verso la stabilità del “nuovo corso” è stato rapidamente ricompensato. Le ricche monarchie del Golfo erano contrarie a Morsi e alla Fratellanza e adesso tendono la mano. E anche gli Stati Uniti — i principali finanziatori delle casse egiziane — sembrano fidarsi del “nuovo corso” continuando senza modifiche gli invii di cacciabombardieri F-16 all’aeronautica cairota: 4 saranno consegnati il prossimo mese e altri 8 aerei entro dicembre. Per il Pentagono «al momento non c’è alcun cambio nei piani di consegna degli aerei da guerra agli egiziani».

Repubblica 11.7.13
Egitto
La debolezza dei movimenti islamici
Un golpe necessario
di David Brooks


È ormai palese come questi tipi di movimenti non solo al Cairo, ma anche in Turchia, in Iran e a Gaza, siano incapaci di guidare un governo moderno basato su pluralismo e tolleranza

Il dibattito sull’Egitto si svolge tra coloro che danno importanza alla forma e coloro che la danno al contenuto.
I primi hanno affermato che il governo del presidente Mohamed Morsi era stato eletto liberamente e che il sostegno democratico ricevuto era stato più volte confermato. La cosa più importante in assoluto, secondo loro, è difendere le fragili istituzioni democratiche e contrastare chi vorrebbe annientarle con un colpo di stato. La democrazia – si sostiene – finirà col placare l’estremismo. I membri della Fratellanza potrebbero anche arrivare al governo con le loro idee radicali, ma poi si troverebbero a dover porre rimedio ai guai e a quel punto si preoccuperebbero del rating del credito e del favore di cui godono presso l’opinione pubblica. Governare li renderà più moderati.
Quanti danno importanza al contenuto, invece, sostengono che i Fratelli musulmani sono caratterizzati da idee e principi ben precisi. Rifiutano il pluralismo, la democrazia laica e, per taluni aspetti, la modernità. Quando si eleggono dei fanatici – così prosegue il loro ragionamento – non si dà vita a una democrazia avanzata: di fatto si dà potere a chi innesca uno sconvolgimento della democrazia. Ciò che conta è estromettere dal potere questo tipo di persone, anche se dovesse rendersi necessario un golpe. L’obiettivo è indebolire l’Islam politico, con qualsiasi mezzo si rendesse necessario.
Gli eventi degli ultimi mesi sul piano internazionale hanno confermato la correttezza delle opinioni di chi dà particolare importanza al contenuto. È ormai palese – in Egitto, in Turchia, in Iran, a Gaza, e altrove – che gli islamisti radicali sono incapaci di guidare un governo moderno. Molti hanno mentalità assolutiste e idee apocalittiche. Gli islamisti possono dar vita a efficaci movimenti di opposizione ed essere impegnati quanto basta da fornire servizi sociali di base. Sono però del tutto sprovvisti della logica indispensabile per governare. Una volta in carica, cercheranno sempre di mettere a rischio la democrazia stessa che li ha eletti.
Una volta eletta, la Fratellanza ha sconvolto la revisione giudiziaria, ha usato la mano pesante nei confronti della società civile, ha arrestato gli attivisti dell’opposizione, ha snaturato il processo di stesura della costituzione, ha accentrato il potere e ha reso impossibile deliberare in modo democratico. È inutile deplorare i pasticci di Morsi, perché l’incompetenza è innata nel Dna intellettuale dell’Islam radicale. Abbiamo già visto emergere in Algeria, in Iran, in Palestina e in Egitto un’inettitudine pratica, un’incomprensione del mondo reale che porta all’implosione dell’apparato di governo.
I sostenitori dell’importanza del contenuto rispetto alla forma hanno dunque ragione. Promuovere le elezioni è in genere una cosa positiva, anche quando da esse derivi la vittoria di forze democratiche con le quali siamo in disaccordo. Ma le elezioni non sono qualcosa di positivo quando portano all’affermazione di persone i cui principi di fondo sono radicati fuori dall’orbita democratica. È indispensabile quindi indagare sull’insieme dei principi di fondo di un partito, e non limitarsi ad accettare chiunque riesca ad affermarsi nel corso di un iter democratico.
Il golpe militare di questa settimana potrebbe semplicemente riportare l’Egitto al punto in cui si trovava: un superstato straripante e disfunzionale controllato da un’élite militare che bada al proprio tornaconto. Quanto meno, però, l’Islam radicale, la più grave minaccia alla pace globale, in parte è stato screditato e destituito dal potere.
Traduzione di Anna Bissanti © 2013, The New York Times

Repubblica 11.3.13
Spesso gli Usa hanno appoggiato un “putsch”
L’imbarazzo americano
di Vittorio Zucconi


Ci sono almeno ventisei nazioni nel mondo con particolare attenzione ad America Latina, Asia e Africa che hanno conosciuto simili rivolgimenti grazie all’azione, palese o “coperta”, di Washington

Strano: non esiste una traduzione in inglese di “Golpe”. Per raccontare quello che sta ora accadendo in Egitto, America, Regno Unito e nazioni anglofone devono sempre ricorrere a lemmi d’altre lingue, allo spagnolo da repubblica delle banane, al sinistro tedesco “Putsch” o al più elegante francese “Coup d’état”. Nella storia inglese, ci viene detto, non ci sono stati colpi di stato, nel senso che Curzio Malaparte e Luttwak hanno codificato per il rovesciamento di governi con la forza. Anche se il vecchio “Fianchi di Ferro”, Oliver Cromwell non ci andò leggero nel tagliare la testa al re e farsi nominare Lord Protettore.
Strano, perchè dalla Guerra Ispano-Americana di 115 anni or sono che trasformò Cuba in un protettorato degli Usa per oltre mezzo secolo e inghiottì Puerto Rico per arrivare a quando sta accadendo in Egitto secondo i Fratelli Mussulmani che vedono la lunga mano dello Zio Sam nella caduta del presidente eletto Morsi, una certa pratica gli Usa se la sono fatta. La neonata prima e poi robusta potenza americana ha fatto entusiasticamente ricorso ai “Golpe” per espandere la propria influenza e i propri interessi.
Ci sono almeno ventisei nazioni nel mondo, con particolare attenzione ad Asia, America Latina e Africa, che hanno conosciuto rivolgimenti politici e militari grazie all’intervento diretto o indiretto, sfacciato o “covert”, di Washington. Tra i casi celebri come quelli del Cile di Allende, dell’Iran di Mossadeq, del Brasile del “comunista” João Goulart nel 1964, di Ngo Dinh Diem ucciso a Saigon sotto la presidenza Kennedy, fino ai despoti arabi coltivati e aiutati dalla Cia come Saddam Hussein e Anwar Sadat padre in Siria passando per schiere di marionette centro e sud americane, la lista dei “Coup d’ètat” made in the USA è ineguagliata.
Invece alla ruvida, diretta semplicità di Golpe de Estado, il perbenismo anglo luterano ha via via preferito eleganti eufemismi, come quel piatto “Regime Change”, cambio di regime, riscoperto dagli ideologi neo-con della democrazia da esportare, che pare una semplice opera di manutenzione, cambio dell’olio, cambio di biancheria. Ma c’è in compenso una efficacissima espressione che fa spesso da corollario ai Golpe e che l’America ha ripreso dal vocabolario dei vigili del fuoco: il “Blowback”, il terribile ritorno di fiamma in faccia che spesso accoglie chi spalanchi incautamente la porta di un incendio.
E “Blowback”, la fiammata di ritorno, è quello che in tanti dei Paesi dove Cia, Dipartimento di Stato, Pentagono, hanno “cambiato regimi”, l’America sta conoscendo. In Afghanistan, in Iraq, in Libia, in America Centrale, in Sud America, in Siria e in Egitto, il fuoco dell’incendio che era stato appiccato, o alimentato, o non spento, per «difendere gli interessi e gli investimenti privati americani» come scrisse l’ambasciatore in Brasile a Lyndon Johnson organizzando il “golpe” del 1964, sta ustionando, o rischia di ustionare, i piromani. Lo stesso rischio che ora Washington corre in quell’Egitto controllato dai militari –un classico “Golpe” – finanziati al suono di oltre un miliardo e mezzo di dollari all'anno, per comperare la pace con Israele.
Poiché le grandi potenze non hanno amici permanenti, ma soltanto interessi permanenti, come avvertiva Lord Palmerstone, la tentazione del colpo di stato è passata da presidente a presidente, dagli anni della carica di Teddy Roosevelt sulle colline di Puerto Rico e non cambierà presto. Sarebbe almeno il caso, a questo punto, di creare un lemma inglese, possibilmente meno ipocrita di “Regime Change”.

Repubblica 11.7.13
Egitto
Boom della vendita di armi. Nel suk clandestino del Cairo “saldi” su pistole e fucili
Vengono distribuite prima dei cortei. E diversi gruppi salafiti le starebbero accumulando
Per una buona pistola bastano 400 dollari
Un kalashnikov invece può costare fino a 1000 dollari
di F. S.


IL CAIRO — «Basha, puoi averla per 250 dollari», dice Abu Karim mostrando da uno straccio sporco una Smith & Wesson calibro 9 in buone condizioni. «Con altri 20 dollari ci metto vicino anche una scatola da 50 pallottole». Insieme a quello della droga, quello delle armi è uno dei traffici più redditizi di Boulaq, uno slum abitato da due milioni di persone nel cuore del Cairo. Un termitaio di vicoli sterrati dove si può comprare di tutto, basta avere dollari contanti. Con il dilagare della criminalità dopo la rivoluzione del 2011 con il moltiplicarsi di furti, rapine e stupri il mercato «privato» delle armi è molto cresciuto.
Fra le dune bianche al confine con la Libia passano le rotte dei trafficanti d’armi, è il paradiso dei beduini contrabbandieri, i grandi beneficiari del crollo del regime di Gheddafi. Per quel poroso confine passa di tutto: vestiti, scarpe, droga e soprattutto armi. Già durante l’epoca di Gheddafi il contrabbando era una fonte redditizia per le tribù beduine. Nuotando in un mare di petrolio e di gas naturale, il colonnello non aveva bisogno di imposte indirette sui beni di consumo, mentre in Egitto sono molto alte. Un camion, un fuoristrada, «importato» nuovo dalla Libia può costare la metà rispetto al prezzo di un rivenditore al Cairo.
Adesso molte delle armi che vengono da oltre confine — destinate prima a Gaza e alla Siria — si fermano in Egitto. Nelle manifestazioni dei giorni scorsi pistole e mitragliette si sono moltiplicate, le armi vengono distribuite prima dei cortei, sono decine i sequestri nelle sedi della Fratellanza musulmana.
Ci sono molti rumors sui giornali egiziani sulla formazione di milizie armate. Certo la caduta di Mubarak non ha posto fine alle teorie del complotto. Per esempio, si dice che alcuni gruppi salafiti si stanno armando fino ai denti. Ora la voce più diffusa è che i Fratelli musulmani hanno una potente milizia formata da migliaia di membri. I portavoce della Confraternita negano, ma le centinaia di arresti di suoi militanti sorpresi con pistole e fucili confermano che fra le loro file circolano molte armi. I prezzi variano a seconda del produttore. «Una buona pistola può arrivare a 400 dollari, ma se cinese è sui 100-150», spiega Abu Ismail, mediatore d’affari con Rolex d’oro al polso. «Per un kalashnikov si possono raggiungere anche i 1000 dollari. Per i mitra di grosso calibro andiamo dai 10 mila in su». Il contrabbando è un’attività antica tra i beduini, la cui conoscenza del territorio supera di gran lunga quella delle autorità. Diverse tribù beduine si estendono poi oltre i confini di Sudan e Libia. I convogli si muovono su vecchie rotte carovaniere solo a loro conosciute. Ciascun clan ha depositi di acqua e benzina sepolti sotto la sabbia e ricambi per i camion: il carico che ogni volta vale milioni di dollari deve arrivare ad ogni costo.

Corriere 11.7.13
Il vero sapere somiglia a Ulisse
non ha paura dei mari sconosciuti
di Giulio Giorello

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mercoledì 10 luglio 2013

il Fatto 10.7.13
La presidente Laura Boldrini
“Lavoro, migranti, ius soli Io sto dalla parte della Carta”
di Mariagrazia Gerina


La Padania l'ha ribattezzata la “papessa”. Il leghista Salvini dice che il problema non è il Papa ma lei che lo strumentalizza. Brunetta le ha dato dell'estremista perché non ha accettato l'invito di Marchionne in fabbrica. La presidente della Camera Laura Boldrini tira dritto per la sua strada. Quella dei “diritti” sui quali – ha detto al numero uno della Fiat – non accetta “gare al ribasso”.
Presidente lei che tante volte ha denunciato la strage nel Mediterraneo come ha accolto le parole del Papa da Lampeudsa?
È stata una grande emozione. Le sue parole sono un monito al Nord ricco del mondo e all'indifferenza. Il Papa ha rimesso al centro le persone che rischiano la vita in mare, ridando dignità a migliaia di morti e ai tanti che ce l'hanno fatta. Negli anni di lavoro con l’Alto commissariato, tra i miei obiettivi c’era il rispetto degli obblighi internazionali e dell'ordinamento italiano, che tutela il diritto d'asilo. Si è trattato di fare anche una battaglia culturale sull’utilizzo ingiusto di parole come clandestino.
“Un conto sono le prediche, un conto è il governare”, ha detto però Cicchitto.
Basta guardare quello che sta succedendo in Egitto per capire che è proprio dal governare che nasce tutto. Da che mondo è mondo le fughe sono conseguenza della cattiva politica, del fallimento della democrazia. La gente fugge quando non ha alternative. E gli Stati hanno l'obbligo di accogliere e verificare se ci sono motivi per rilasciare protezione internazionale. Il diritto d'asilo è nella Costituzione. Governare vuol dire gestire tutto questo, nel rispetto dell'ordinamento nazionale e degli accordi internazionali.
Lei come portavoce Unhcr dal 1998 al 2013 ha avuto come interlocutori governi di centrodestra e di centrosinistra. Quali risposte le davano?
Ci sono stati governi più disponibili al dialogo, altri meno. Ricordo momenti drammatici. Come quando nel 2009 l'Italia scelse di mettere in pratica il respingimento in alto mare senza concedere neppure la possibilità di presentare domanda d'asilo. Fu un momento molto difficile, come portavoce dell'Unhcr venni attaccata duramente. Ma poi l'Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani. L'altro momento drammatico fu nel 2011, quando i migranti che arrivavano a Lampedusa non furono più trasferiti fuori dall’isola e si creò quella situazione ingestibile tutta sulle spalle degli abitanti. In Libia c'era una guerra, nei paesi vicini arrivavano centinaia di migliaia di persone, in Italia dalla Libia arrivarono 28mila persone ma autorevoli esponenti politici parlarono di tsumani umano, di esodo biblico, facendo sentire l'opione pubblica minacciata.
I suoi interlocutori di allora sono gli stessi che adesso sostengono il governo delle larghe intese. Questo taglia le gambe alla speranza o c’è una possibilità di cambiare rotta?
Io mi auguro che in Italia si esca dall'utilizzo strumentale dell'immigrazione e dell'asilo, che si vada oltre le ideologie, le prese di posizione propagandistiche e le divisioni. Il paese ha bisogno di uscire dalla stagione della paura, nell'era della globalizzazione si va inevitabilmente verso società composite formate da persone che vengono da contesti diversi ma cittadini nel paese in cui vivono. Non si può giocare alla demonizzazione, ci vuole senso della realtà. Non c'è un nemico di fronte. Ci sono solo quattro milioni e mezzo di immigrati e alcune decine di migliaia di rifugiati di cui occuparsi nel rispetto del diritto nazionale e internazionale. Ci vuole più maturità.
Pensa che dal parlamento possa venire un segnale?
C'è un gruppo di parlamentari bipartisan che sta lavorando sui temi dell'immigrazione. Io mi auguro che si riesca ad arrivare presto all'elaborazione di un testo condiviso sulla cittadinanza.
Ne avete parlato con Napolitano che oggi (ieri per il lettore ndr) l'ha ricevuta?
Abbiamo parlato della visita del Papa a Lampedusa. E di quando lui era ministro dell'Interno. Anche da presidente della Repubblica, ha sempre sollecitato i partiti a riconsiderare la legge sulla cittadinanza.
Le ha espresso la volontà di andare a Lampedusa?
Non ne abbiamo parlato.
E lei ci tornerà?
Se me lo chiedono, volentieri.
Dallo stabilimento di Atessa dove lei non è andata Marchionne ha attaccato quanti “anche da autorevoli istituzioni” considerano “esercizio dei diritti” “comportamenti violenti”.
Non credo che si riferisse a me. Io considero il mondo delle imprese centrale per la ripresa del paese, per questo ho ricevuto delegazioni di imprenditori, sono andata dai giovani industriali, ho accolto l'invito del presidente di Confindustria. Ma non posso esimermi dal ribadire che ci vuol rispetto dei lavoratori. Un concetto che dovrebbe essere pacifico. Lo dice la nostra Costituzione. Questo scrivevo nella lettera a Marchionne. Non si può pensare che il gioco al ribasso sui diritti sia il modo per uscire alla crisi.
Marchionne risponde che rischiamo di morire di diritti.
Non penso sia questo il rischio, piuttosto oggi ci sono più generazioni che vivono la precarietà del lavoro e di ogni ambito della vita. E che rischiano di morire della mancanza di diritti. Il nostro paese ce la farà se i lavoratori avranno più capacità di incidere. La formula di chi ordina e di chi esegue non è più praticabile, bisogna coinvolgere chi lavora nei processi produttivi.
Gliele dirà a voce queste cose?
Perché no? Se ci sarà occasione. Ho lavorato una vita per la mediazione, non mi tiro mai indietro di fornte a uno scambio di vedute.
Brunetta le dà dell'estremista, Salvini dice che strumentalizza il Papa. Sente il suo ruolo in discussione?
Ormai il gioco è a chi rilancia di più. Ma non è nel mio stile uscire dal linguaggio del rispetto. Quando uno ha buone ragioni non ricorre alle grida. Continuo nella mia strada e se questo provoca reazioni scomposte, non è un mio problema. Non mi interessa assecondare il pensiero unico. Seguo la mia coscienza e il programma che ho esposto il giorno in cui sono stata eletta alla presidenza della Camera. Quello è il mio impegno con gli italiani.

l’Unità 10.7.13
Giallo Kazakistan: «Alfano deve spiegare»
La denuncia del senatore pd Manconi, presidente della commissione Diritti umani
Fioccano le interrogazioni di M5S e Sel
di Claudia Fusani


Il governo balbetta da un mese su una brutta storia di spie, petrolio e diritti umani negati. E il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha una lancia nel fianco di cui non riesce a liberarsi. Perchè è difficile andare davanti al Parlamento, che lo reclama da giorni, a spiegare perchè la questura e la prefettura di Roma hanno, in meno di 72 ore, impacchettato e messo su un aereo privato una donna di 46 anni (Alma) e la figlia di sei (Alua) e le ha consegnate al presidente kazako Nursultan Nazarbayen e al premier Serik Akmetov. Due nomi che non brillano per principi democratici e rispetto delle libertà. E il cui obiettivo primario, oltre alla gestione degli immensi giacimenti energetici che fanno gola a tutto l’occidente, è arrestare, in ogni modo e ovunque si trovi, il dissidente Ablyazov. Per l’appunto il marito e il padre di Alma e Alua.
UNA PISTA IN ISRAELE
Quella accaduta a Roma, in una villa di Casal Palocco, tra il 29 e il 31 maggio 2013 è una brutta storia che ormai il governo e gli apparti non riescono più a tenere nascosta. In Parlamento, tanto alla Camera quanto al Senato, fioccano le interrogazioni. Il primo ad alzare la voce è stato, il 5 giugno scorso, in aula, il senatore Cinque stelle Mario Giarrusso. Ieri il senatore Luigi Manconi (pd), presidente della commissione per i diritti umani, ha chiesto di nuovo che il «governo venga in aula a riferire il prima possibile su questa storia». Il prima possibile, per Manconi, significa «al massimo entro la settimana». Ma se su questa storia si sono fatti sentire dapprima una
furibonda ministro degli Esteri Emma Bonino e poi un’altrettanto furibonda Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, tutto tace da Alfano che è il ministro che tutto dovrebbe sapere della faccenda. E che invece continua a tacere. Oppure a far veicolare versioni per cui «sarebbero tutto avvenuto a sua insaputa». Cioè, prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che Alfano voleva a capo della polizia; questore, capo della mobile e della Digos avrebbero agito in autonomia senza informare il livello politico di quello che accadeva tra il 29 e il 31 maggio in quel di Casal Palocco.
Ieri la storia è stata per la prima volta raccontata in una sede istituzionale, al Senato, dal senatore Manconi e dai due avvocati, Riccardo Olivo e Gregori Valente che hanno mostrato quei pochi documenti di cui sono riusciti ad entrare in possesso. Perché questo è il primo buco nero della storia: «Due persone su cui non pende alcuna accusa penale sono state prelevate da casa, perquisite e trattenute tre giorni senza poter vedere alcun legale e poi espulse in via amministrativa, poichè sprovviste di permesso di soggiorno. E di tutto questo denunciano i due avvocati non riusciamo ad avere accesso agli atti».
La storia può essere così riassunta. Su Ablyazov pesa da anni un mandato di cattura internazionale del Kazakistan per truffa, bancarotta e una lunga serie di reati economici. In realtà è il più grosso oppositore politico del presidente Nazarbayen, caro e grande amico di Berlusconi. Ablyazov, moglie e figlia hanno vissuto per anni a Londra. «Nel 2011 raccontano gli avvocati mostrando un documento della polizia di Londra le autorità inglesi hanno spiegato di non essere più in grado di garantire la loro sicurezza e che il livello di minaccia su di loro era diventato troppo alto». Inizia, nei fatti, una lunga latitanza, che tocca Lettonia, Francia, Svizzera. Da settembre 2012 Roma, Italia. Intanto un’agenzia di sicurezza privata, ingaggiata da una collegata di Tel Aviv, scopre che Ablyazov vive con la famiglia a Casal Palocco. Siamo al 28 maggio scorso. Quando un fax Interpol, di cui non c’è traccia, segnala a Prefettura e Questura dove andare a prelevare il dissidente.
QUATTRO IRRUZIONI
La prima irruzione è la notte tra il 28 e il 29 maggio. «Sembravano gangster ma invece erano poliziotti della questura di Roma, senza riconoscimenti, tesserini, nulla» raccontano gli avvocati. Seguono altre tre perquisizioni. Ablyazov non c’è. La moglie viene trattenuta tre giorni tra questura e Cie. «La bambina viene prelevata senza alcuna tutela aggiungono i legali la mattina del 31 maggio e portata a Ciampino dove su un aereo privato pagato dai kazaki l’attende la mamma».
Espulsione «illegittima» sulla base di «documentazione falsa» denunciano i legali. «Era entrata sottraendosi ai controlli di frontiera» filtra dal Viminale «e aveva con sè passaporti falsi». Quindi il decreto di espulsione è legittimo». Risulta dal fascicolo degli avvocati che i passaporti sono regolari (una della Repubblica Centroafricana e l’altro kazako). E che sicuramente Alma e la figlia, a prescindere dalle eventuali colpe del marito, erano in fuga da una minaccia più grande di loro.
Il nuovo capo della polizia Alessandro Pansa si insedia proprio il 31 pomeriggio, quando tutto si è già concluso. Un’operazione del genere non può essere stata condotta senza via libera dall’alto. Il ministro Alfano deve spiegare.

Il Fatto 10.7.13
Il rimpatrio di Alma rischia di diventare un nuovo caso Ruby
Alfano sempre più in difficoltà
Ieri vertice al Viminale in vista del Question time di oggi
Audizione al Senato: Lyudmyla Kozlovska, presidente Ong, “Uno stupro dei diritti umani condotto in un Paese occidentale come il vostro”
Il vicepremier Alfano sarebbe stato l’unico a essere avvisato e sarebbe stato chiamato direttamente dal diplomatoco Kazako
di Fabrizio d’Esposito e Davide Vecchi


Il rimpatrio forzato di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, 6 anni, in Kazakistan rischia di creare serie difficoltà al governo Letta. Il premier ha avviato l’indagine interna e ieri nel pomeriggio c’è stato un incontro al Viminale cui ha preso parte anche il presidente del Copasir, il leghista Giacomo Stucchi insieme ad Angelino Alfano, ministro dell’Interno. Sul tavolo la ricostruzione del trasferimento della donna prima dalla villa di Casal Palocco al Cie di Ponte Galeria, nella notte tra il 29 e il 30 maggio, poi il rimpatrio nella capitale kazaka, Astana, il giorno successivo. Ci sono diversi dubbi su entrambi i passaggi.
   ALCUNI dei quali sollevati dai legali dei familiari e confermati, a quanto si apprende, anche da una relazione preparata dalla Questura di Roma che ha effettuato il blitz notturno nella villa di Casal Palocco. Nell’operazione, infatti, oltre agli uomini della Digos sono stati coinvolti militari di altri reparti. Ernesto Gregory Valenti, avvocato dei familiari, ieri nel corso di una conferenza stampa in Senato organizzata dal senatore del Pd, Luigi Manconi, ha parlato dell’esistenza di “un documento agli atti secondo cui una società di sicurezza italiana è stata incaricata, penso da una società di sicurezza israeliana, di sorvegliare la villa prima dell’irruzione della polizia”. Inoltre, a quanto si è appreso, la questura aveva già ricevuto una prima richiesta di trasferimento forzato al quale però non è stato dato seguito perché non era accompagnata da un provvedimento di espulsione e si è così reso necessario attendere il mandato di cattura internazionale a carico della donna.
   I passaggi sono ancora tutti da accertare. Ma nella vicenda il ruolo degli uomini della Questura è ritenuto “assolutamente corretto” anche al Viminale. I dubbi sono semmai sui modi di azione scelti da Alfano. Il vicepremier , infatti, sarebbe intervenuto su chiamata diretta ricevuta dall’ambasciata del Kazakistan senza avvisare né il ministero degli Esteri né Palazzo Chigi. Ipotesi questa confermata anche dalla ricostruzione del trasferimento ad Astana: il jet privato è stato noleggiato in Austria al mattino e a bordo c’era il console del Kazakistan che ha preso in consegna Alma e sua figlia.
   La donna è stata rilasciata dal Cie prima ancora che venisse identificata correttamente con i documenti che l’ambasciata avrebbe dovuto inviare ed è invece stata schedata come immigrata clandestina. Le presunte responsabilità di Alfano, insolitamente premuroso, fanno dire sottovoce a vari ambienti istituzionali e politici che “possiamo trovarci di fronte a un nuovo caso Ruby”.
   UN PASTICCIO, stavolta, però ancora più tragico. Anche perché da Alfano si arriva in un lampo all’amicizia tra Berlusconi e il dittatore kazako Nazarbayev. Molto dipenderà anche dal grado di credibilità delle risposte che forse oggi stesso darà in Parlamento il vicepremier nonché ministro dell’Interno. Nel governo e anche nel Pdl questa vicenda comincia a mettere paura e alcune fonti anticipano che Alfano sostanzialmente si trincererà dietro la relazione della questura di Roma. La linea di difesa si baserà sul fatto che la donna è entrata in Italia “sottraendosi ai controlli di frontiera” e, inoltre, la sola assenza sul documento di timbri o visti di ingresso “legittimava il provvedimento di espulsione, ai sensi del decreto legislativo 286 del 1998 perché trovata in possesso di un passaporto diplomatico risultato falso e irregolarmente soggiornante sul territorio italiano”. Il documento, a quanto riferiscono ambienti del Viminale, “presentava evidenti segni di contraffazione ed era mancante di timbro o visto di ingresso in area Schengen”. Alla luce di queste irregolarità “la donna è stata deferita all’autorità giudiziaria per i reati commessi con l’esibizione del falso passaporto e proposta al prefetto di Roma, in quanto clandestina, ai sensi del decreto n. 286/98, per l’emanazione del provvedimento di espulsione”. I legali della donna smentiscono da giorni il canovaccio questurino : il passaporto era regolare e mancavano le autorizzazioni della magistratura. Ieri, Riccardo Olivo, altro avvocato della Shalabayeva, ha detto che c’era solo “una nota dell’Interpol” che poi però non è stata allegata agli atti. Olivo ha parlato durante un’audizione alla Commissione straordinaria diritti umani del Senato, presieduta da Manconi. Prima di lui Lyudmyla Kozlovska, presidente della Open Dialog Foundation, ha detto ai senatori presenti che questo scandalo “è uno stupro dei diritti umani condotto non in Kazakistan ma in un paese occidentale”. Cioè da noi.

il Fatto on line 10.7.13
Caso Kazakistan, i legali: “Procedure insolite”. Oggi Alfano alla Camera
di Luca Pisapia

qui

il Fatto Lettere 10.7.13
Caso Ablyazov: vogliamo i responsabili


Da chi è partito l’input? Qual è la catena di comando che ha portato la Digos a irrompere, con dovizia di uomini e mezzi, nottetempo nella casa dove soggiornavano la moglie e la figlia di Ablyazov, figura molto discussa ma anche maggior oppositore in esilio del dittatore kazako Nazarbayev amico di Berlusconi, prelevarle e consegnarle nelle grinfie del dittatore dopo aver fornito alla magistratura notizie infondate sulla validità del loro passaporto e violando l’art.10 della Costituzione che tutela i cittadini stranieri in Italia? Possibile che, a distanza di più di un mese dai fatti, il governo e i ministri interessati non abbiano ancora chiarito di chi sono le gravi responsabilità e perché vi siano state così gravi violazioni, non solo della Costituzione ma anche della Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Come si può rimediare, se si può, per tutelare quelle persone dalle possibili vessazioni del dittatore kazako? Di chi è la responsabilità politica? Chi si vuole coprire? Il caso dovremo annoverarlo fra i tanti piccoli e grandi misteri d’Italia o questo governo saprà dire la verità? Subito però!
Mario Sacchi

Corriere 10.7.13
Spunta una pista israeliana nel giallo dell’esule kazako
Ma il Viminale assicura: «Abbiamo agito correttamente»
di Fabrizio Caccia


ROMA — Solo ieri, per la prima volta, dopo 40 giorni di silenzio, qualcosa è trapelato dal Viminale: «La Questura di Roma agì correttamente, il passaporto diplomatico della donna era contraffatto e dunque fu espulsa in quanto clandestina», assicurano fonti vicine al Ministero dell’Interno. E mentre infuria lo scontro politico (Pd, Sel e Movimento 5 Stelle hanno presentato altrettante interrogazioni) il governo riferirà forse domani in Parlamento sul caso dell’espulsione della cittadina kazaka Alma Shalabayeva il 31 maggio scorso da Roma. Ma intanto il pasticcio internazionale s’ingarbuglia ogni giorno di più: «C’è un documento agli atti — rivela Ernesto Gregory Valenti, uno dei legali della donna — secondo cui una società israeliana avrebbe incaricato una società di security italiana di sorvegliare la villa romana della signora nei giorni precedenti l’irruzione della polizia». Per conto di chi agiva la società israeliana? Forse del governo kazako? «Non ho altri dettagli da riferire», taglia corto il legale. Di certo, il grande intrigo assume ora contorni da spy story. La cittadina kazaka Alma Shalabayeva e la piccola Alua, 6 anni, espulse in tutta fretta quel 31 maggio dall’aeroporto di Ciampino, sono infatti rispettivamente la moglie e la figlia di Mukhtar Ablyazov, dissidente politico inviso al presidente e padrone del Kazakhstan, Nursultan Nazarbaev, già torturato nelle prigioni patrie e ora ricercato dal suo Paese ma anche dall’Interpol per una truffa da 5 miliardi di dollari. Ablyazov viveva da qualche mese nella villetta di Casalpalocco insieme alla famiglia, ma il 29 maggio quando arrivò la Digos lui non c’era più. Gli avvocati della donna, Riccardo Olivo e Gregory Valenti, accusano le autorità italiane di «eccesso di potere» e di «decreto illegittimo». Il passaporto diplomatico della Repubblicana centrafricana mostrato dalla donna ai poliziotti era infatti “un passaporto vero” e così pure il passaporto kazako detenuto dalla signora. E allora? Caso spinosissimo: il Kazakhstan è una miniera di petrolio e l’Eni vi opera dal 1992. «Ma come si può rimandare in Kazakhstan una persona contro la sua volontà, se è risaputo che perfino la Corte europea dei diritti umani rifiuta l’estradizione in quel Paese?», è la domanda che si pone il senatore Luigi Manconi (Pd), presidente della commissione per la tutela e promozione dei diritti umani. Secondo le fonti vicine al Viminale, invece, «Alma Shalabayeva, in Italia, non aveva mai chiesto diritto d’asilo e nemmeno manifestato alcun timore di eventuale persecuzione in vista del rimpatrio». Dov’è la verità?

Corriere 10.7.13
È compito del governo chiarire i lati oscuri del pasticcio kazako
Il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha garantito che «riferirà al più presto» sull'inquietante vicenda del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov
di Giuseppe Sarcina


Ieri la Commissione dei Diritti umani del Senato ha esaminato la dinamica dei fatti fin qui nota. La sera del 29 maggio una cinquantina di agenti della Digos hanno fatto irruzione in una villetta di Casal Palocco, poco distante da Roma. Cercavano Ablyazov, il banchiere imprenditore fuoriuscito dal Kazakistan nel 2003 e ora inseguito da una richiesta di estradizione e, soprattutto, dall'ostilità del presidente autocrate Nursultan Nazarbaev. Nella casa, invece, i poliziotti hanno trovato la moglie di Ablyazov, Alma Shalabayeva e la figlia di 6 anni.
Alfano dovrà spiegare parecchie cose. E non solo perché lo chiedono il premier Enrico Letta, i ministri degli Esteri, Emma Bonino e della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. E dovrà essere convincente, perché questo evidente pasticcio giudiziario rischia di trasformarsi in «un'ennesima figuraccia» (parole di Emma Bonino) politico-diplomatico internazionale. Può la Questura di Roma organizzare un'operazione in stile antiterrorismo per dare la caccia a un oppositore che ha chiesto e ottenuto asilo politico in Gran Bretagna, cioè un Paese dell'Unione europea? Può il ministero disporre il rimpatrio immediato di una donna e di una bambina sulla base di verifiche sommarie? Chi ha deciso e perché di consegnarli all'ambasciata del Kazakistan che già aveva noleggiato un aereo austriaco, ancora prima che fossero terminati gli accertamenti giudiziari?
A queste risposte una parte della politica e dell'opinione pubblica ha già risposto. Le decisioni sono state prese dal ministro Alfano. Motivo? L'uomo forte del Kazakistan è un amico personale di Silvio Berlusconi. Quel Paese per altro è un partner importante per la nostra politica energetica (l'Eni ha concluso un accordo chiave lo scorso anno). Ora tocca ad Alfano dimostrare che le cose siano andate diversamente.

Repubblica 10.7.13
Caso Ablyazov, “espulsione illegale”
La moglie del dissidente kazako aveva due passaporti in regola. Alfano in Parlamento
di Alberto Custodero


ROMA — Gli israeliani spiavano il nascondiglio in Italia di Alma Salabayeva. L’Ufficio immigrazione della Questura di Roma sapeva che la donna aveva non uno, ma due passaporti regolari. La Repubblica del Burundi l’aveva proposta come «console onorario per le regioni del Sud Italia». Mentre si attende la relazione al Parlamento del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che finora ha taciuto, si complica l’intrigo internazionale dell’espulsione a velocità record della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. A svelare che «una società di sicurezza israeliana aveva incaricato una azienda di sicurezza italiana di sorvegliare la villa della Salabayeva prima dell’irruzione della polizia» è stato uno dei legali della donna, ErnestoGregory Valenti, ieri, al Senato, nel corso di una conferenza stampa organizzata da Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani. C’è forse un coinvolgimento in questa operazione dei servizi segreti israeliani così come in quella di Abu Omar di quelli americani?
Ma c’è un documento, in possesso di un altro avvocato della kazaka espulsa, Riccardo Olivo, che inchioderebbe l’Ufficio immigrazione a una responsabilità tutta da chiarire. Il 30 maggio, dunque il giorno prima delle udienze di convalida lampo prima dell’espulsione, l’Ambasciata di Roma del Kazakistan aveva inviato ai responsabili dell’Immigrazione un documento con il quale attestava che Alma Salabayeva era in possesso di due passaporti regolarmente rilasciati dalle autorità del suo Paese d’origine, facendo dunque cadere la necessità e l’obbligodell’espulsione. Perché, pur sapendo che aveva documenti in regola, è stata comunque allontanata dall’Italia insieme alla figlia in fretta e furia?
È stato infine il presidente del Tribunale del Riesame di Roma, Guglielmo Muntoni, a rendere noto nella sua ordinanza che Alma Salabayeva «era stata proposta come Console onorario per le regioni del Sud Italia da parte della Repubblica del Burundi». Ecco spiegato il motivo per il quale la donna era in possesso di un passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana che il giudice definisce, al contrario della Polizia, autentico. Il fatto poi, osserva ancora il magistrato, che la moglie del dissidente si sia «presentata alle autorità africane con il nome di Alma Ayan anziché Alma Shalabayeva appare riferibile non a falsità ma alla necessità di sottrarsi ai nemici politici del marito». Insomma, bastava un po’ più di calma e di tempo per chiarire ogni equivoco. Il ministro Alfano dovrà spiegare il perché di una «velocità » con la quale s’è proceduto al rimpatrio che lascia «perplesso» pure il presidente del Riesame. Se l’espulsione è «frutto di un errore e non c’è stata volontà premeditata di consegnare due ostaggi al presidente kazako», il terzo avvocato della donna, Anna D’Alessandro, lancia un appello «al governo affinché, invece di spaccarsi, trovi una convergenza nel chiedere che Alma e la figlia ritornino in Italia». E le voci su un interessamento di Berlusconi per consegnare all’amico presidente kazako le due donne? Sul punto interviene Manconi: «Non ho prove — ha detto — dell’interessamento del Cavaliere in questa vicenda».

il Fatto 10.7.13
Padre-padrone. Il Kazakistan
Il satrapo a tutto greggio dall’Urss ad Astana
di Stefano Citati


Andate tutti in vacanza in Kazakistan: lì c'è un signore che è mio amico, non a caso ha il 91% dei voti”, disse Silvio Berlusconi nel 2008, salutando Nursultan Nazarbayev in visita in Italia. Undici anni prima il padre-padrone del Kazakistan aveva ricevuto al Quirinale l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.
È dal 1990 che l'ex burocrate comunista governa il paese, conservando il potere a colpi di modifiche costituzionali che lo hanno proclamato “leader della nazione”, titolo che gli garantisce l'immunità giudiziaria.
UN SOGNO per un politico come Berlusconi per il quale il satrapo petrolifero incarna un modello ineguagliabile: “Ho visto i sondaggi fatti da una autorità indipendente che ti hanno assegnato il 92% di stima e amore del tuo popolo. È un consenso che non può non basarsi sui fatti”, gli disse il Cavaliere nel 2011. Secondo le organizzazioni europee che hanno monitorato le ultime elezioni – nelle quali il presidente è stato rieletto con il 95% delle preferenze – il voto è risultato tutt'altro che regolare.
Ma tutta questa stima personale è solo un aspetto dei legami dell'Italia con il leader kazako. Perché il regime di Nursultan siede su un letto di petrolio e gas: oltre il 3% per cento delle riserve mondiali stimate, primo produttore mondiale di uranio. Politica, società ed economia cadono tutte assieme sotto l'influenza del partito Nur Otan, dove torna il suffisso – nur, luce compone il nome di Nazarbayev, sultano o “signore della luce”. Il cerchio magico che domina l'ex repubblica sovietica – sterminate steppe dove Mosca codusse i test atomici, e con 16 milioni di abitanti - è composto dalla stretta cerchia familiare del satrapo 73enne. Dinara Nursultanovna Kulibayev, pur dano sfogo alle sue tendenze artistiche, controlla – attraverso il marito Timur Asqaruly Qulybaev, chiaccherato per la sua relazione con “Lady” Goga Ashkenazi, che per un periodo è apparsa in pubblico con Lapo Elkann – buona parte delle società pubbliche che gestiscono le risorse naturali del paese. Timur (ovvero Tamerlano), è nell’elenco dei mille uomini più ricchi del pianeta. E il suo nome finì anche in un’inchiesta che indagava su spostamenti sospetti di capitali tra banche svizzere.
È con queste società familistico-statali che l'Eni ha a che fare per i giganteschi giacimenti petroliferi - come quello di Kashagan - custoditi dal Mar Caspio, il cui greggio, che può valere decine di miliardi di euro, dovrebbe essere nei prossimi anni portato in Europa attraverso l'oleodotto South Stream, per il quale Berlusconi si è speso con l'amico russo Putin (e quello turco Erdogan).

Repubblica 10.7.13
Il crimine dell’indifferenza
di Barbara Spinelli


PROVIAMO a immaginare una storia completamente diversa, dell’ultima settimana del Papa. Una storia segreta, non confessata, non ufficiale. A volte capita, che un racconto fantasticato si avvicini al vero.
Immaginiamo dunque questo: che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture. Altri drammi vedremo, con l’Egitto che sprofonda nel caos e nell’eccidio.
Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. Si riempie un vuoto, per occultarlo. Lo si affolla di parole dottorali, quando altra è l’emergenza: andare in quell’isola, simbolo delle nostre ipocrisie e del nostro disonore. La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la globalizzazione dell’indifferenza.
È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): «Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo». Come Achab, il cacciatore della balena bianca in Moby Dick: di sotto al cappello calcato, cade nell’oceano una sua lacrima. «Tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia ». Perché dove c’è teologia non c’è teofania:dove c’è ideologia si parla di Dio, ma Dio non si manifesta.
Immaginiamo che sia una forma di esilio, questo rifiuto di scrivere encicliche ora. Un «esiliarsi rimanendo lì», spiega Carlo Ossola in un articolo del febbraio 2012 sulSole 24 ore:una peregrinatio in stabilitate,secondo i monaci antichi. Una «disoccupazione di spazi» per accogliere il prossimo senza che esso diventi ingombro, disse una volta Roland Barthes. È quello che fece Gesù, che non scriveva trattati ma andava in giro fra la gente «nelle oscure vie della città» (nelle «periferie esistenziali» evocate a marzo dal Papa), come il Cristo raccontato da Dostoevskij che torna in terra e scampa alla prigione del Grande Inquisitore di Siviglia.
Gesù non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo dell’adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a terra, e scrive sulla sabbia un’altra legge, che non si fissa perché sulla sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s’incammini nelle menti, aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia: in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un articolo sul Regno: esiste uno stile cristiano (lo stile di Gesù), non meno sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013).
La Parola è centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta dottamente. Ma quella che dici all’altro:ai sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra i colpevoli d’indifferenza: «Tanti di noi,mi includo anch’io,siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. (...) Ci siamo abituati alla sofferenza dell'altro, non ci riguarda, non è affare nostro!».
La Chiesa romana è peccatrice, proprio come nella Commedia di Dante è responsabile del mondo uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani d’Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e l’immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di guadagno».
Arrivando a Lampedusa il Papa ha sorriso ai migranti, ma altrimenti il volto era assorto, il capo chino. Durante la messa non è andato tra la folla, per lo scambio dei saluti. Non sta col capo chino chi edifica dottrine, l’occhio fisso sul crocifisso: dunque più sulla morte di Gesù che sulla sua vita e le sue opere terrene. Tiene il capo chino chi espia, o è rattristato, o semplicemente pensa, e tace come Gesù con l’adultera.
A che pensa il Papa? Nell’omelia lo racconta. Fin da quando ha saputo dei tanti morti in mare, il pensiero della tragedia s’è conficcato «come una spina nel cuore che porta sofferenza». Allora ha sùbito risposto sì all’invito di visitare l’isola. L’enciclica gli era indifferente (immaginiamo, ancora): «Ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta». Due volte ha detto il verbo – «Non si ripeta per favore» – come un mendicante che ha rabbia dentro e la trattiene.
Ha anche pensato alle poche parole che Dio rivolge all’umanità, nella Genesi. Una prima volta all’uomo che appena creato pecca: «Dove sei Adamo? ». Poi al primo fratricida: «Caino, dov’è tuo fratello?». Ne è nata una «catena di sbagli che è una catena di morte». Di qui la terza domanda, del Pontefice: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?». La conclusione cui giunge non è quella cui siamo abituati: nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi. Essenziali sono le lacrime, l’anestesia del cuore.«Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del patire-con». Ecco la globalizzazione dell’indifferenza: è tremenda perché «ci ha tolto la capacità di piangere». Perché si nutre di politiche che generano caos, e lo chiamano pace.
Tutto questo possiamo immaginare, senza scostarci troppo dal vero. Dicono che un Papa così è impolitico, perché va nelle periferie esistenziali detestate dai Grandi Inquisitori, e fa politica quando potrebbe installarsi in un’enciclica. L’irritazione è massima. Basti citare la reazione di Cicchitto, araldo di Berlusconi: «Un conto è la predicazione religiosa, un altro è la gestione da parte dello Stato di un fenomeno così difficile quale l'immigrazione irregolare». Cose simili dice il ministro greco dell’Interno (Nikos Dendias, uomo di Samaras), blandendo i nazisti di Alba Dorata.
Il peccato d’indifferenza ha una lunga storia in Europa. Lo scrittore Herman Broch lo chiamò, narrando la Germania pre-hitleriana, crimine dell’indifferenza: più grave ancora del peccato di omissione, perché non perseguibile penalmente (nel primo caso c’è almeno il reato di omissione di soccorso). L’indifferente non è stato sveglio, quando si poteva. «Non è stato attento al mondo in cui viviamo», dice il Papa: «Non abbiamo curato e custodito quello che Dio ha creato per tutti». Chi difende il proprio benessere buttando a mare gli «uomini di troppo» usa il cristianesimo, mal dissimulando il razzismo e facendo quadrato attorno alla triade «Dio, famiglia, patria tribale». Ha perfino, come Cicchitto, l’impudenza di invocare la laicità: che lo Stato governi, e i Papi scrivano encicliche. Disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato. Non a caso il suo nome è Francesco. Sappiamo che le prediche di Francesco mutarono ilmondo.

il Fatto 10.7.13
“Furgoni di lingotti d’oro in Vaticano”
Monsignor Nunzio Scarano, insieme a un amico ha visto i camion uscire dalla San Sede
di Marco Lillo


Andate tutti in vacanza in Kazakistan: lì c'è un signore che è mio amico, non a caso ha il 91% dei voti”, disse Silvio Berlusconi nel 2008, salutando Nursultan Nazarbayev in visita in Italia. Undici anni prima il padre-padrone del Kazakistan aveva ricevuto al Quirinale l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana. È dal 1990 che l'ex burocrate comunista governa il paese, conservando il potere a colpi di modifiche costituzionali che lo hanno proclamato “leader della nazione”, titolo che gli garantisce l'immunità giudiziaria. UN SOGNO per un politico come Berlusconi per il quale il satrapo petrolifero incarna un modello ineguagliabile: “Ho visto i sondaggi fatti da una autorità indipendente che ti hanno assegnato il 92% di stima e amore del tuo popolo. È un consenso che non può non basarsi sui fatti”, gli disse il Cavaliere nel 2011. Secondo le organizzazioni europee che hanno monitorato le ultime elezioni – nelle quali il presidente è stato rieletto con il 95% delle preferenze – il voto è risultato tutt'altro che regolare. Ma tutta questa stima personale è solo un aspetto dei legami dell'Italia con il leader kazako. Perché il regime di Nursultan siede su un letto di petrolio e gas: oltre il 3% per cento delle riserve mondiali stimate, primo produttore mondiale di uranio. Politica, società ed economia cadono tutte assieme sotto l'influenza del partito Nur Otan, dove torna il suffisso – nur, luce compone il nome di Nazarbayev, sultano o “signore della luce”. Il cerchio magico che domina l'ex repubblica sovietica – sterminate steppe dove Mosca codusse i test atomici, e con 16 milioni di abitanti - è composto dalla stretta cerchia familiare del satrapo 73enne. Dinara Nursultanovna Kulibayev, pur dano sfogo alle sue tendenze artistiche, controlla – attraverso il marito Timur Asqaruly Qulybaev, chiaccherato per la sua relazione con “Lady” Goga Ashkenazi, che per un periodo è apparsa in pubblico con Lapo Elkann – buona parte delle società pubbliche che gestiscono le risorse naturali del paese. Timur (ovvero Tamerlano), è nell’elenco dei mille uomini più ricchi del pianeta. E il suo nome finì anche in un’inchiesta che indagava su spostamenti sospetti di capitali tra banche svizzere. È con queste società familistico-statali che l'Eni ha a che fare per i giganteschi giacimenti petroliferi - come quello di Kashagan - custoditi dal Mar Caspio, il cui greggio, che può valere decine di miliardi di euro, dovrebbe essere nei prossimi anni portato in Europa attraverso l'oleodotto South Stream, per il quale Berlusconi si è speso con l'amico russo Putin (e quello turco Erdogan). Due furgoni pieni di lingotti d'oro. Monsignor Nunzio Scarano e uno dei suoi più cari amici, Massimiliano Marcianò, un imprenditore 45enne di Roma, hanno visto con i loro occhi la seguente scena: due camioncini si fermano davanti alla Città del Vaticano. Aprono gli sportelloni e in gran fretta mani nervose caricano, proprio lì sul piazzale, davanti al monsignore e al suo amico, alcune valigie piene di lingotti d'oro. Marcianò ha raccontato questa e altre scene che sembrano prese da un film, quando è stato ascoltato come testimone dalla Guardia di Finanza di Salerno guidata dal colonnello Antonio Mancazzo, nell'ambito dell'indagine dei pm campani per riciclaggio.
Il verbale di Marcianò del 4 luglio scorso è stato girato dal procuratore di Salerno Franco Roberti e dal pm Elena Guarino, ai colleghi di Roma Nello Rossi, Stefano Fava e Stefano Pesci nell'ambito del coordinamento investigativo. Il Tribunale di Roma ieri si è riservato di vagliare la richiesta di scarcerazione presentata dall'avvocato Francesco Caroleo Grimaldi nell'interesse di Scarano, sulla quale c'è il parere negativo della Procura. Marcianò ha raccontato ai pm di Salerno di avere assistito alla scena dei lingotti insieme a Nunzio Scarano e di avere chiesto al suo amico dove fosse destinato quel carico di valigie piene d'oro. Senza risposta dall'ex contabile dell'Apsa. Ieri il Fatto ha rivelato che Scarano nel suo ultimo interrogatorio di lunedì scorso ha puntato il dito sull'APpsa.
IL MONSIGNORE ha raccontato di essere stato messo da parte dopo avere denunciato al segretario di Stato Tarcisio Bertone alcune operazioni poco chiare effettuate da un collaboratore del direttore Apsa, Paolo Mennini. Inoltre ha fatto il nome di un peso massimo della finanza come il gruppo Nattino. Monsignor Scarano ha parlato di operazioni sospette effettuate dall'Apsa, l'altro grande ente finanziaro del Vaticano, accanto allo Ior: imprenditori che intestavano le loro ricchezze a società svizzere o monegasche e che poi facevano girare i soldi sui conti Apsa. Inoltre ha spiegato alcune operazioni lucrose di spostamento di masse enormi di capitale tramite banche italiane, con utili finanziari occultati alle autorità italiane sempre grazie all’istituto vaticano. Il monsignore inoltre aveva nel suo archivio alcuni dossier sulle operazioni dell’Apsa. Lo ha raccontato agli investigatori salernitani il suo amico Marcianò. Anche gli armatori D'amico, indagati a Roma per dichiarazione dei redditi infedele come svelato dal Fatto, sono stati interrogati dai pm romani sui loro rapporti finanziari con Scarano e il broker Carenzio. Paolo D'Amico, presidente dellla Confitarma, organizzazione padronale degli armatori, ha raccontato: “ho conosciuto Carenzio attraverso Scarano che lo ha indicato come persona affidabile. Io ho concesso un finanziamento di 5 milioni di euro a una società amministrata dalla moglie di Carenzio alle Canarie e ne ho riavuto indietro solo 1,5 milioni”. Mentre Cesare D'Amico, suo cugino e socio, ha dichiarato: “ho affidato a Carenzio nel 2008, 1 milione di euro per investimenti immobiliari e non ho recuperato nemmeno in parte la somma. Mai saputo di somme di denaro in Svizzera”. Nell'interrogatorio di garanzia del primo luglio scorso davanti a gip di Roma Barbara Callari, Scarano ha detto che il denaro depositato in Svizzera (in ipotesi dei D'Amico) sarebbe stato trasportato a Roma con l'aereo ma poi sarebbe finito a Beirut. Sempre secondo quanto dichiarato al giudice da Scarano, l'agente dei servizi segreti Giovanni Maria Zito avrebbe poi portato la somma (20 milioni di euro) a Beirut, perchè il Libano "è un paradiso fiscale".

La Stampa 10.7.13
“Soldi dall’estero allo Ior senza alcun controllo”
Monsignor Scarano, arrestato il 29 giugno: «È il modo più facile per quel tipo di operazioni»
di Francesco Grignetti


Aveva due conti presso lo Ior e uno in una normalissima banca italiana. Però monsignor Nunzio Scarano, arrestato nei giorni scorsi assieme a un agente dei servizi segreti e a un faccendiere italo-svizzero per una scivolosa storia di milioni di euro che dovevano rientrare clandestinamente in Italia, quando c’erano da fare operazioni spregiudicate utilizzava immancabilmente il conto dello Ior. Perché? «Effettivamente allo Ior sarebbe stato più facile».
Più facile. Sì, perché le procedure opache dello Ior, che non chiede e non dà spiegazioni, che emette bonifici senza indicare i mittenti né la causale, violando così ogni normativa antiriciclaggio, sono miele per i faccendieri.
Al tribunale del Riesame, ieri, si discuteva della detenzione di monsignor Scarano. È stato analizzato il suo interrogatorio davanti al gip Barbara Callari. Gli chiedono conto di quell’operazione anomala per cui esce dallo Ior con 560 mila euro in contanti in una valigia. «Non credo - lo incalza il gip - che una banca italiana le avrebbe mai dato... ». È per questo motivo che monsignor Scarano faceva confluire sul suo conto Ior le «offerte» degli armatori D’Amico e di tanti altri ricchi benefattori? I D’Amico gli davano migliaia di euro al mese. Secondo i conteggi della procura, il tesoretto di monsignor Scarano si aggira attorno al mezzo milione di euro. E ancora non si parla della grande operazione di rientro dei capitali - che forse sono 20 milioni di euro, forse sono 40, finiti alla fine in Libano attraverso l’agente segreto Giovanni Zito, operazione per cui il monsignore chiedeva una «commissione» di 2,5 milioni di euro.
In un modo o nell’altro, sono le procedure dello Ior che finiscono al centro dell’indagine. Il religioso nel corso dell’interrogatorio conferma che le offerte arrivavano sul suo conto presso lo Ior. «Io ho dato disposizione alla banca - afferma Scarano - che nel caso c’era bisogno di chiedere ulteriori informazioni, erano tutti bonifici con la causale per opere di carità».
Lo stesso monsignore, però, racconta di quando l’armatore Cesare D’Amico si recò agitatissimo presso la sua abitazione. «Era molto preoccupato. Io gli dissi di non mandare più bonifici, di togliere di mezzo ogni cosa anche perché tutta questa situazione è diventata incandescente e poco piacevole. Lui mi assicurò che io ne sarei uscito senza alcun problema».
E comunque monsignor Scarano ha chiaro il quadro di sostanziali illegalità e l’ha denunciato ai pm nel suo ultimo interrogatorio: non soltanto lo Ior si muove come una banca che non rispetta le norme antiriciclaggio, ma così farebbe anche l’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), dove lui ha lavorato fino a tre mesi fa, e dove c’è un direttore, Paolo Mennini, che odia di tutto cuore. L’ultimo interrogatorio di monsignor Scarano è tutto qui: non solo lo Ior, ma anche l’Apsa, che opera estero su estero, e non passa mai per l’Italia, schermerebbe i capitali alla stessa maniera.

l’Unità 10.7.13
F35

Mauro convoca la maggioranza, tensioni nel Pd

Governo e maggioranza di nuovo alle prese con lo spinoso tema degli F-35. E questa volta a scendere in campo, in prima persona, è il ministro alla Difesa, Mario Mauro, in pressing su Pdl, Pd e Scelta civica affinchè anche in Senato si approvi una mozione unitaria come avvenuto nei giorni scorsi alla Camera. La questione torna di attualità perchè da oggi in aula al Senato sono già calendarizzate le mozioni di Sel e Movimento 5 stelle che chiede la sospensione immediata della partecipazione dell’Italia al progetto dell’aereo F35 e ieri anche Felice Casson ha depositato un’analoga mozione firmata inizialmente da 22 senatori del Pd, fra cui Laura Puppato e Corradino Mineo. In tarda serata è iniziata la riunione del gruppo democratico durante la quale numerosi firmatari avrebbero ritirato la loro adesione su richiesta della presidenza del gruppo. L’orientamento sarebbe di confermare la versione licenziata da Montecitorio. Rispetto ad allora c’è però la novità del pronunciamento del Consiglio supremo di Difesa che ha ribadito che la titolarità delle scelte sugli F-35 è del governo. Per questo, il ministro alla Difesa ha deciso di occuparsene direttamente e oggi dovrebbe vedere i capigruppo in una riunione di maggioranza. Il voto in aula al Senato è atteso tra stasera o al massimo giovedì.

il Fatto 10.7.13
F-35, il Pd sceglie tra il rinvio unitario e l’asse con Sel-M5S


PASSAGGIO delicato sugli F-35 oggi al Senato. Il ministro della Difesa Mario Mauro è in pressing su Pdl, Pd e Scelta Civica affinché si approvi una mozione unitaria, come già avvenuto nei giorni scorsi alla Camera. Ma Sel e M5S hanno calendarizzato due mozioni pacifiste che chiedono di abbandonare in toto l’acquisto dei cacciabombardieri. Una mozione su cui potrebbe convergere una parte del Pd: il senatore Felice Casson ha depositato una sua mozione anti F-35, firmata da altri 22 colleghi (tra cui Laura Puppato e Corradino Mineo). Dopo una lunga riunione del gruppo, ieri si è deciso di rimandare a oggi ogni decisione. La linea della maggioranza nel Pd è di riapprovare al Senato la versione della mozione passata alla Camera portando in aula un nuovo testo unitario con Pdl e Scelta Civica: stop momentaneo del progetto F-35 per compiere più approfondite indagini sul rapporto costi-benefici. Resta da capire se l’area pacifista piddina guidata da Casson rientrerà nei ranghi o deciderà invece di allearsi con Sel e Movimento 5 Stelle.

il Fatto 10.7.13
Il testo in Cdm
Ddl governo, basta distinzioni per figli legittimi e naturali


Sono pronte le norme del governo di attuazione della legge delega approvata dal Parlamento nel 2012 sulla parificazione tra figli legittimi e figli nati fuori dal matrimonio, garantendo la completa uguaglianza giuridica. Il decreto legislativo, proposto dal presidente del Consiglio e dai ministri dell’Interno, della Giustizia, del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministro dell’Economia, dovrebbe essere esaminato nella prossima seduta del Consiglio dei ministri. Sarà così definitiva l’introduzione del principio dell’unicità dello stato di figlio, senza più alcuna distinzione tra figli legittimi e naturali. La filiazione fuori dal matrimonio avrà gli stessi effetti successori, ai fini dell’eredità, nei confronti di tutti i parenti e non solo dei genitori. Inoltre, è prevista la sostituzione della nozione di potestà genitoriale con quella di responsabilità genitoriale, oltre alla modifica delle disposizioni di diritto internazionale privato, con la previsione di norme di applicazione, in attuazione del principio di parità tra figli legittimi e naturali. Tra le nuove norme, anche quella prevista dall’articolo 53 che introduce e disciplina le modalità dell’ascolto dei minorì che abbiano compiuto dodici anni, “o anche di età inferiore, se capaci di discernimento, al-l’interno dei procedimenti che li riguardano”. Una norma che tiene conto di numerose sentenze della Cassazione, che hanno sottolineato come il mancato ascolto dei minori costituisca “violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo, salvo che ciò possa arrecare danno ai minori stessi”.

Repubblica 10.7.13
Sarà l’aula di Palazzo Madama a voto segreto a decidere sull’esecutività dell’interdizione dai pubblici uffici

Il Pdl: pronti a dare battaglia
Sulla decadenza del Cavaliere l’ultima parola al Senato
di Tommaso Ciriaco

ROMA — L’ultima spiaggia di Silvio Berlusconi ha la forma dell’Aula di Palazzo Madama. È lì che i senatori saranno chiamati a mettere il sigillo su un’eventuale interdizione dai pubblici uffici del Cavaliere. Ed è sempre lì, fra quei banchi, che il Pdl si prepara a dare battaglia. Puntando tutto sul voto segreto, previsto dal regolamento è a volte latore di gradite sorprese.
La direzione di marcia la indica la Costituzione, quando affida al ramo parlamentare di appartenenza l’ultima parola sulla decadenza degli onorevoli condannati in via definitiva. Recita infatti l’articolo 66: «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità».
In passato nessuno è uscito indenne da un voto del genere. Nel 1967, ad esempio, il Parlamento sancì la decadenza del deputato monarchico Mario Ottieri, colpito da una condanna per bancarotta fraudolenta. Stessa sorte toccò nel 1977 a Mario Tanassi, inciampato nel caso Lockheed. Non si arrivò invece a votare su Cesare Previti e Totò Cuffaro, ma solo perché i due si dimisero prima dell’approdo in Aula.
Se Berlusconi dovesse cadere sotto i colpi della Cassazione nel processo Mediaset, sarà costretto a sottoporsi prima al giudizio della giunta delle elezioni e dell’immunità, poi a quello dell’Aula di Palazzo Madama. In giunta il voto è palese. E in quella sede Pd, Sel e Cinquestelle godono di una solida maggioranza. Prima di esprimersi, i membri della giunta dovranno ascoltare un relatore della Regione Molise, che è collegio d’elezione del Cavaliere. Poi la palla passerà all’Aula.
Il passaggio più delicato è proprio quest’ultimo, perché i senatori dovranno fare i conti con le mille incognite dello scrutinio segreto. Sulla carta i numeri sono sfavorevoli al leader del Pdl. La somma di democratici, Sel e M5S, infatti, è 165. Ben oltre la soglia di maggioranza fissata a 159. Ma nell’urna c’è sempre la possibilità che si coagulino gli interessi di chi punta tutto sulla stabilità e di chi teme che l’interdizione metta fine alla tormentata vita della diciassettesima legislatura.
A sentire il democratico Felice Casson, comunque, uno scenario del genere nonè neanche da prendere in considerazione: «La fantasia degli avvocati la conosciamo. Ma è fuori dalla realtà — spiega il senatore — pensare di andare contro una sentenza definitiva. Sarebbe devastante e aprirebbe un gravissimo conflitto istituzionale ». Anche i grillini, d’altra parte, sono pronti a votare contro l’ex premier. «È una scelta scontata — giura Vito Crimi — perché la legge Severino sull’anticorruzione parla chiaro, prevedendo l’interdizione per i condannati a pene superiori a due anni».
Eppure, il Pdl si prepara a scendere in trincea. A via dell’Umiltà tutto è pronto per denunciare l’esclusione dalla vita parlamentare del leader del centrodestra. Un argomento che secondo Casson non è però destinato a far breccia: «Il Senato non è chiamato a fare una valutazione sul merito, ma deve solo prendere atto del titolo esecutivo. Cioè, in questo caso, di un’eventuale sentenza».

Repubblica 10.7.13
Epifani: “Chiudiamo subito sulle regole” E nel partito cresce il fronte pro-Renzi
Fassino, Bettini e molti amministratori in campo per il sindaco
di Giovanna Casadio


ROMA — Un occhio al governo, nel giorno delle tensioni nel Pdl per l’udienza Mediaset; e l’altro al congresso del partito. Epifani ripete che il Pd sostiene Letta. «Però dobbiamo essere pronti a qualsiasi evenienza...», ammette. E scherzando con Pippo Civati chiede: «Ma tu, hai sempre buoni rapporti con i grillini?». I Democratici, avverte il segretario, non possono restare ripiegati nel dibattito interno, e quindi invita con un post su Facebook a «chiudere velocemente la definizione delle regole congressuali, la priorità per il nostro congresso è costruire le risposte di cui il paese ha bisogno per rigenerare fiducia e senso del futuro». «Era ora!», è il commento dei renziani.
Matteo Renzi infatti sta scaldando i motori ed è pronto a scendere nella corsa per la segreteria, anche se si riserva ancora di decidere. Lo ha detto ieri in un’intervista aRepubblica. Vorrebbe il congresso entro il 7 di novembre, a norma di Statuto, e immagina un partito rinnovato, non più preda di correnti e capibastone. Riceve molte aperture di credito. Dallo stesso premier Letta, innanzitutto. «Penso che Renzi sia un’ottima carta per il Pd del presente e del futuro. E penso che il futuro lo affronteremo insieme», assicura il presidente del Consiglio, ex vice segretario democratico che però nel merito del congresso non vuole entrare. «Non parteciperò al dibattito, non lo credo giusto e Epifani sta lavorando benissimo». Né si pronuncia su chi sarà il prossimo candidato premier: «Non sta a me dirlo. Non sono ancora chiare le scelte essenziali sulle regole, le stanno ancora decidendo e le regole interne ai partiti sono indispensabili per la democrazia, abbiamo visto cosa è successo con il M5S...». Regole sempre al centro dello scontro. Renzi è per lasciare le cose così come sono, soprattutto per non toccare il legame tra leadership (del partito) e premiership, mentre Epifani, D’Alema, Franceschini e Bersani tutti vogliono la distinzione: il segretario non è detto debba essere anche il candidato a Palazzo Chigi.«Chi si deve dare una mossa, lo dico senza polemica, è proprio chi le attuali regole vuole cambiare bacchetta il renziano Paolo Gentiloni - E comunque se le primarie per il segretario le facciamo sotto Natale, cominciamo male».
Ma il fronte pro Renzi cresce, soprattutto tra gli amministratori locali democratici. Inoltre, Goffredo Bettini presenta un documento per il congresso che al sindaco fiorentino piace molto. Lancia, Bettini, il partito-agorà e raccomanda l’unità contro le oligarchie, insieme con un’analisiimpietosa degli errori fatti dal Pd bersaniano. Feeling ricambiato. «Se Renzi sarà segretario cambierà la politica italiana», afferma Bettini pur ritenendo prematuro schierarsi. Più netto è il sindaco di Torino e neo presidente dell’Anci, Piero Fassino: «Penso che non ci sia contraddizione tra un premier forte e un segretario altrettanto forte e espressione di una generazione nuova». Fassino spinge Renzi, e potrebbe essere la testa d’ariete pro-“rottamatore” della corrente di Franceschini, Areadem, di cui fa parte. Antonello Giacomelli, anche lui Areadem, giudica positivamente l’ultima uscita del sindaco di Firenze: «È più impegnato a delineare il profilo di segretario». Per Virginio Merola, sindaco di Bologna «Renzi è la persona giusta» per il Pd. Mentre Nico Stumpo, bersaniano, sta lavorando a un fronte anti renziano che, ne è convinto, avrà la maggioranza al congresso. In vista del “comitatone” per le regole, domani, nelle file democratiche è scontro al Senato sugli F35. Una fronda “pacifista” capitanata da Casson ha preparato una mozione, anche se la resa dei conti è stata rinviata a stamani, nell’assemblea del gruppo.

La Stampa TuttoScienze 10.7.13
A passeggio a 28 mila all’ora La prima volta di un italiano
L’uscita nello spazio di Parmitano. E martedì è in programma il bis
di Antonio Locampo


L’impresa Luca Parmitano ha effettuato una serie di riparazioni e di controlli all’esterno della Stazione spaziale Per una lunga fase si è agganciato al braccio robotizzato (a sinistra il momento del contatto)

«Esco a fare due passi». Un bigliettino laconico, lasciato su un frigorifero a bordo della Stazione spaziale internazionale e firmato da Luca Parmitano. Per la prima volta nella storia dell’astronautica una bandierina italiana è uscita nel vuoto spaziale, cucita su uno scafandro.

L’astronauta dell’Esa, catanese, 37 anni, ha realizzato ieri quella che i tecnici chiamano «attività extraveicolare», una «passeggiata spaziale». Tutto è cominciato alle 14.15 ora italiana: Parmitano e il compagno americano Chris Cassidy sono entrati nella camera di depressurizzazione, sotto l’occhio delle microtelecamere che si trovano sui caschi. Poi sono usciti nell’oscurità, perché in quel momento la Stazione stava attraversando la fase d’ orbita non illuminata dal Sole.
Tutto regolare, comunque. Si va a 28 mila km orari (anche se non sembra) e fuori la temperatura è di -100°. Inizia la «passeggiata», che è tutto fuorché semplice. A cominciare dalla fase di preparazione: dalle maschere per respirare ossigeno puro in modo da eliminare l’azoto nel sangue, fino alle operazioni per indossare lo scafandro, lo zaino di sopravvivenza e il «salvagente», un sistema dotato di mini-propulsori che permettono di tornare indietro, se ci si allontanasse troppo dalla Stazione. In tutto un fardello di oltre 100 chili, che nello spazio, ovviamente, si sentono meno. Ma l’ingombro è davvero notevole. «Sì, è una grande sfida. Ma con Chris ci siamo preparati per ore e ore e quindi siamo perfettamente in grado di avere confidenza con lo scafandro», ci aveva detto Luca prima del lancio della sua missione congiunta Nasa-Asi battezzata «Volare».
Prima esce Cassidy e poi lo raggiunge Parmitano, che si riconosce perché la sua tuta è completamente bianca, mentre quella dell’americano ha le fasce rosse sulle gambe. E il lavoro inizia subito: l’astronauta italiano si trasforma in «meccanico spaziale». In quasi sei ore di attività vengono recuperati apparati scientifici che si trovavano all’esterno della Stazione, compresa una telecamera da inviare poi a terra, e poi vengono installati una serie di apparati per il modulo russo «Nauka», che entro fine anno andrà a sostituire l’attuale modulo «Pirs». E non sono mancati alcuni controlli di routine.
Parmitano ha effettuato buona parte dell’attività esterna con i piedi agganciati al braccio robotizzato, poi ha effettuato alcuni scatti fotografici per verificare le condizioni di «Ams», il grande rilevatore di antimateria realizzato con il contributo di un team di ricercatori italiani. Il tutto, mentre gli altri quattro membri dell’equipaggio - tre russi e un americano - effettuavano filmati dalla «Space Cupola», la torretta panoramica.
La «passeggiata» si è conclusa alle 19.58. Oggi, per Parmitano, sarà una giornata di pausa, ma non c’è tempo per metabolizzare le emozioni. La seconda uscita è già in programma. Appuntamento per martedì prossimo.

l’Unità 10.7.13
Nel caos egiziano El Baradei è il nuovo vicepresidente
Nel «giorno dei martiri» i militari forzano i tempi: l’economista El Beblawi scelto come premier
di Umberto De Giovannangeli


La guerra delle piazze e i giochi di palazzo. Presidenti deposti a forza e premier (e vice presidenti) nominati dopo snervanti trattative. È il caos egiziano, tra l’incubo della guerra civile e la speranza, per quanto tenue, di un futuro da Paese normale. Il presidente ad interim, Adly Mansour, nominato dai militari, ha fissato una serie di tappe per arrivare al voto entro sei mesi: il premio Nobel per la pace, Mohamed El Baradei è stato designato vice presidente con delega alle relazioni internazionali, mentre l’ex vicepremier egiziano e ministro delle Finanze, Hazem El Beblawi è stato incaricato di formare il governo. Lo riferisce il sito del quotidiano ufficiale al-Ahram, spiegando che sono già cominciate le consultazione per la scelta della squadra che dovrà traghettare l’Egitto verso nuove elezioni democratiche entro la fine dell’anno. El Beblawi, economista di orientamento politico liberale, faceva parte dell’esecutivo di transizione del dopo-Mubarak guidato da Essam Sharaf.
Ma la tensione rimane altissima in tutto l’Egitto. I Fratelli musulmani hanno invitato tutti i loro militanti a scendere in piazza, nella «giornata dei martiri», in risposta al massacro dell’altro ieri al Cairo, dove almeno 54 persone (77 per la fratellanza) sono state uccise negli scontri tra i militari e i sostenitori del deposto presidente Mohamed Morsi. In serata, migliaia di sostenitori della Fratellanza musulmana continuavano ad affluire al Cairo, in piazza Rabaa al Adawiya, per invocare la liberazione del deposto presidente e il ripristino della sua legittimità costituzionale. Analogamente, altre migliaia di sostenitori del movimento islamico sono scese in strada ad al Miniya, nell’Alto Egitto, con lo slogan: «Rivoluzionari! Liberi! Proseguiamo il cammino!».
Seicentocinquanta persone, in gran parte sostenitori del presidente deposto , sono state fermate per il sospetto che l’altro ieri abbiano tentato di assaltare la sede della Guardia repubblicana al Cairo, dove ci sono stati scontri in cui sono morte 54 persone. I Fratelli musulmani negano che sia stato tentato alcun attacco all’edificio, affermando invece che i soldati hanno o aperto il fuoco sul loro sit-in al termine delle preghiere del mattino. L’ufficiale della sicurezza che ha fatto sapere degli arresti ha aggiunto che tra i fermati ci sono siriani e palestinesi.
ROAD MAP
L’esercito non accetterà «manovre» politiche. L’avvertimento è del ministro della Difesa e capo delle Forze armate, generale Abdel-Fattah el-Sissi. In una dichiarazione diffusa dalla televisione di Stato, el-Sissi afferma: «Il futuro della nazione è troppo importante e sacro per manovre o ostacoli, qualsiasi siano le giustificazioni». Intanto, il partito salafita Nour, seconda formazione religiosa del Paese dopo la Fratellanza musulmana, ha reso noto che accetta la scelta dell’ex ministro delle Finanze, Samir Radwan, come primo ministro ad interim. Il portavoce di Nour, Nader Bakkar, ha aggiunto che si sta invece ancora valutando la nomina di El Baradei.
L’Egitto terrà nuove elezioni parlamentari dopo che saranno stati approvati per via referendaria emendamenti alla Costituzione sospesa con la deposizione di Morsi. Il presidente ad interim, Adli Mansur, ha delineato un orizzonte di sei mesi per arrivare al voto. Il suo decreto indica in quattro mesi e mezzo il tempo necessario per riformare la Costituzione ispirata alla Sharia fatta approvare a dicembre dalla maggioranza islamista e sospesa dopo il colpo di Stato realizzato dai militari. Le elezioni politiche dovranno essere convocate entro 15 giorni dall’approvazione della nuova Costituzione in un referendum e, una volta insediato il nuovo Parlamento, nel giro di una settimana dovranno essere convocate anche le elezioni per un nuovo presidente.
VITA O MORTE
I Fratelli musulmani hanno già bocciato il percorso delineato da Mansour: per Essam al-Eriam, vice presidente del Partito Libertà e Giustizia, braccio politico del movimento islamista, si tratta di un «decreto costituzionale formulato da un uomo nominato dai golpisti» che «riporta il Paese alla casella di partenza». Ancora più duro il consigliere legale del partito islamista, Ahmad Abu-Barakah, che ha parlato di documento «privo di efficacia e illegittimo». Per la Fratellanza è diventata una questione di vita e di morte: si sono convinti che i militari e il Movimento 30 giugno, la grande coalizione delle opposizioni diventate forza di governo, non li vogliono. Non sono nella loro «road map», esclusi dalla fotografia del nuovo Egitto.
Intanto l’Onu ha chiesto di fare chiarezza sugli scontri che lunedì mattina hanno portato all’uccisione di 54 sostenitori di Morsi. Tanto il segretario generale, Ban Ki-moon, che la responsabile dell’Alto commissariato per i Diritti Umani, Navi Pillay, hanno invocato una inchiesta indipendente sugli incidenti al Cairo. Per ora i militari si sono limitati ad avviare l’interrogatorio dei 650 fermati per le violenze della capitale. Nella notte i carri armati continuano a presidiare gli edifici pubblici e le piazze del Cairo. La normalità è lontana.

La Stampa 10.7.13
Siria: sciopero della fame di attiviste incarcerate e torturate

qui

La Stampa TuttoScienze 10.7.13
L’agonia dell’Accademia russa
E intanto i burocrati strangolano gli scienziati
di Anna Zafesova


Il partito comunista - che vanta tra le sue file il Nobel per la fisica Zhores Alfiorov - ha addirittura chiesto la sfiducia al governo di Dmitry Medvedev, una misura cui non aveva mai fatto ricorso. A far scendere in piazza matematici e fisici è stata la proposta di una drastica ristrutturazione dell’istituzione più prestigiosa del Paese, che secondo il suo presidente Vladimir Fortov l’avrebbe trasformata in un «club di discussioni» senza impegni e diritti, mentre l’impero accademico sarebbe stato di fatto sequestrato dai burocrati. Una neonata agenzia governativa dovrebbe infatti assumere la gestione del patrimonio - immenso - dell’Accademia, declassata a «organizzazione sociale-statale», con una moratoria sull’elezione di nuovi membri, mentre per i vecchi verrebbe introdotta una procedura di espulsione relativamente semplice.
Gli accademici - 501 membri effettivi e 749 supplenti - hanno proclamato la rivolta. Una settantina di grandi nomi - dal matematico Yuri Manin al fisico Roald Sagdeev - si sono rifiutati di entrare nella «nuova» Accademia, in quanto non più indipendente. Per Alfiorov si tratta solo di un’operazione di «espropriazione», confermata anche dalle modalità della riforma: proposta a sorpresa e votata in pochi giorni, saltando ogni norma. La vicepremier Olga Gorodez, in un infuocato dibattito alla Duma, non l’ha negato: «L’Accademia ha 260 mila ettari di terreno, sui quali costruisce palazzi con appartamenti da un milione di dollari, è il colmo del cinismo».
A sostenere l’idea che gli accademici siano dei boiari impegnati solo ad amministrare i beni concessi dallo Stato ci sono anche gli scienziati più giovani: il genetico Konstantin Severinov sostiene che da anni l’Accademia «si occupa solo di manutenzione e pagamento di stipendi base», mentre le ricerche «vengono finanziate altrove», e il fisico Anatoly Geim - che dopo aver ricevuto il Nobel si è visto invitare dai russi a tornare dal suo esilio britannico-olandese e ha rifiutato - ritiene che «gli accademici non cambieranno mai nulla, ci vuole un chirurgo, e probabilmente deve venire dal governo». Del resto, già Lomonosov nel ’700 lamentava le ingerenze dei burocrati «semi­ignoranti» nella «comunità dei dottissimi» allo scopo di farne una «fabbrica» che compiacesse i potenti con gemme, oroscopi e fuochi d’artificio.
Fondata da Pietro il Grande nel 1724, l’Accademia per tutta la sua storia ha oscillato tra il ruolo di ba­luardo dell’indipendenza e pilastro dell’impero. Di fatto un «ministero della scienza», si è permessa sfide che nessun altro osava: all’epoca sovietica dava asilo a intellettuali e artisti sgraditi al regime, e gli «immortali» si rifiutarono di espellere dai loro ranghi Andrey Sakharov, che venne mandato al confino, conservando il titolo prestigiosissimo ­ e remuneratissimo ­ di accademico.
Luminari di fama mondiale ai quali il potere non sapeva dire di no creavano nei loro istituti ­ attual­ mente circa 500, in sedi gigantesche e lussuose, senza contare poligoni, laboratori, archivi, ospe­ dali, scuole, alberghi, residenze e dacie «corpora­ tive» ­ oasi di semilibertà che hanno poi prodotto l’intellighenzia che ha lanciato la perestroika.
Una gloria oggi dimenticata: l’età media dei mem­ bri è di 74 anni e, nonostante i finanziamenti stata­ li siano stati raddoppiati negli ultimi anni, la pre­ senza degli scienziati russi sulla scena mondiale si è ridotta drasticamente. Per numero di pubblica­ zioni, infatti, la Russia è al 120° per numero di cita­ zioni al 16° (e la maggior parte sono menzioni in­ crociate tra autori), mentre i 100 mila dipendenti dell’Accademia (di cui la metà amministrativi) producono la metà delle pubblicazioni dei cinesi e un decimo dei francesi.
La chiusura al mondo durante il comunismo e la scarsità dei finanziamenti negli Anni 90 hanno tra­ sformato l’Accademia in una burocrazia ineffi­ ciente quanto intoccabile. Ma potente: il clamore attorno alla riforma ha costretto Vladimir Putin a intervenire personalmente e a mediare, perché in seconda lettura la legge smorzasse o rimandasse le ristrutturazioni proposte. Ora la battaglia è rin­ viata a settembre, per il voto finale.

Corriere 10.7.13
Srebrenica, una strage impunita, questa notte si ricorderà l’orrore
di Alberto Melloni


Il dono delle lacrime: così la tradizione cristiana indica una grazia che coincide con la vetta dell'umanizzarsi. Papa Francesco a Lampedusa ha evocato questa tradizione, senza citazioni, come suo solito. Ha chiesto, il Papa, chi ha pianto per i desaparecidos d'Europa: venuti da ogni dove e svaniti su quel confine azzurro. Ma il suo appello impone di liberare dalla coltre di oblio altri morti dimenticati e altri pianti di madri inconsolabili.
Fa parte di questo orizzonte la massa umana — 8.472 dicono i dati ufficiali — di uomini, vecchi, ragazzi di Srebrenica, massacrati l'11 luglio 1995 da milizie di serbi in una guerra che dovrebbe ricordarci che il più feroce animale della fauna europea, l'homo sapiens, non è domato e non ci è estraneo. Le madri di Srebrenica cercano da anni i loro morti, i resti dei loro morti, nelle fosse comuni, nei boschi. Un lavoro paziente sul Dna è riuscito a restituire ai propri cari oltre seimila identificazioni: ma altre madri continuano a scavare e tormentarsi, nella convinzione che un femore, una mandibola, un cranio darà pace ai loro cuori.
Quei morti ritrovati o sconosciuti non avranno giustizia nei tribunali pur necessari; non s'offenderanno per le medaglie date ai caschi blu inerti nella carneficina e decorati per aver resistito alla vergogna; non hanno tenuto conto di quell'Europa che credeva che il dopo-Tito fosse un mercato e non lo specchio del nostro divenire.
Attendono solo di essere visti con uno sguardo e una conoscenza «umana» che in quella estate mancò. Quella conoscenza si compirà stanotte in Italia per chi farà un po' tardi: attraverso lo sguardo di In utero-Srebrenica: un pluripremiato documentario di Giuseppe Carrieri che la Rai manda in onda poco dopo mezzanotte. Pasoliniano nella sua potente lentezza, questa raccolta di fonti orali fissa per sempre un dolore senza mediazioni, senza vanità, senza sconti. Un racconto che porta in sé il dono delle lacrime di un tempo che ha bisogno che venga la fine del mondo o almeno la fine di un mondo per ritrovare il valore di un gesto inutile come la compassione per l'irreparabile, la responsabilità davanti all'irreparabile.

Corriere 10.7.13
Massacro degli Armeni. Il ruolo di Kemal Atturk
risponde Sergio Romano


Una mia zia, Liza Mourokian, moglie di un fratello di mia madre, ebbe il padre (un giudice) ucciso dagli Ottomani. Qualcuno, in famiglia, sostiene che fu Atatürk e i suoi. Sono stato molto vicino alla zia (mio padre li aveva fatti andare in Cile e poi gli ultimi anni ad Alassio) e non mi ha mai raccontato che fossero stati gli uomini di Atatürk. Ho fatto un po' di ricerca via Internet, ma non ne sono venuto a capo. È plausibile? Vorrei scrivere la biografia di mia zia se avessi la documentazione necessaria. Nata ad Aleppo, vissuta poi a Salonicco, Nizza, Milano, Bucarest, campo rifugiati in Israele (lei non ebrea), campo rifugiati nel napoletano, Santiago del Cile, Liverpool (dove abitava il fratello) e finalmente Alassio! La donna più allegra che io abbia mai conosciuto.
Piero Ottolenghi

Caro Ottolenghi,
Non sembra che Mustafà Kemal, come si chiamava sino alla fondazione della Repubblica turca, sia stato personalmente coinvolto nel massacro degli armeni. Nel 1915, mentre due esponenti del partito Unione e Progresso — Mehmet Talat e Ismail Enver — decidevano la pulizia etnica dei territori armeni e provocavano un esodo durante il quale la maggioranza degli espulsi fu massacrata o morì di stenti, Kemal comandava un reggimento a Gallipoli e si distinse per la prontezza con cui seppe sventare i piani strategici del corpo di spedizione del Commonwealth britannico. Più tardi, dopo la conclusione dell'armistizio, mentre gli Alleati sembravano decisi a processare i responsabili come criminali di guerra, Kemal, ormai generale dell'esercito e già noto come una delle personalità emergenti della società politica ottomana, sembrò persino disposto a collaborare con i vincitori.
Come altri esponenti dell'Impero, pensava che il processo dei responsabili avrebbe giovato alla delegazione turca durante i negoziati per il Trattato di pace ed evitato le clausole più punitive. In un giornale che pubblicava insieme a Ali Fethi Okyar (ministro degli Interni nel primo dopoguerra e più tardi presidente del Consiglio), apparve alla fine del 1918 un articolo che denunciava «il tentativo di sterminare gli Armeni» come «gravido di conseguenze». In un libro pubblicato dalle edizioni Guerini nel 2006 (Storia del genocidio armeno), l'autore, Vahakn N. Dadrian, osserva che in Turchia, allora, «i processi contro i responsabili del genocidio armeno non mancavano di sostegno politico e mediatico».
La posizione di Kemal cambiò quando il Trattato di pace, firmato a Sèvres il 10 agosto 1920, menzionò espressamente le responsabilità turche e mise l'Impero sul banco degli imputati. In una fase in cui stava divenendo il leader della riscossa nazionalista, Kemal adottò una linea strettamente «patriottica» e sostenne, dopo qualche esitazione, la spedizione militare contro «l'Armenia libera e indipendente», che era stata costituita alle frontiere con la Russia nel maggio 1918.
I processi, in realtà, non ebbero mai luogo. La Gran Bretagna riunì a Malta qualche decina di presunti responsabili, ma la raccolta delle prove per un'azione giudiziaria apparve presto impossibile. I due registi del massacro, nel frattempo, erano fuggiti. Il primo, Mehmet Talat Pascia, Gran Vizir dal 1918, fu ucciso da un armeno a Berlino nel marzo 1921. Il secondo, Ismail Enver Pascià, ministro della Guerra durante il conflitto, morì in Tagikistan nell'agosto 1922 combattendo contro i sovietici. Sognava la nascita nel Caucaso e in Asia Centrale di un grande Stato composto dalle popolazioni musulmane di origine turca. Anche Enver, come Kemal aveva combattuto contro gli italiani in Cirenaica fra il 1911 e il 1912.

l’Unità 10.7.13
Infiniti universi paralleli
È la tesi del fisico americano Brian Greene
Secondo lo scienziato esistono dimensioni nelle quali si aggirano le nostre copie imperfette, «e lo dice la matematica»
di Cristiana Pulcinelli


CI ERAVAMO APPENA RIPRESI DALL’ESSERE STATI CACCIATI DAL CENTRO DELL’UNIVERSO per diventare gli abitanti di un pianeta periferico di una delle moltissime galassie che lo popolano, quand’ecco un altro colpo al nostro orgoglio. Ad essere messo ai margini questa volta è l’universo stesso che potrebbe essere solo uno fra tanti. La realtà potrebbe consistere di moltissimi, forse infiniti, universi paralleli e separati tra loro di cui nulla sappiamo, ma nei quali condurrebbero la loro esistenza copie di noi stessi, diverse tra loro magari solo per qualche dettaglio.
Non è la mente di un romanziere visionario a partorire questa idea, ma il rigoroso pensiero di un fisico americano: Brian Greene. Greene insegna alla Columbia University di New York ed è l’autore di un best seller uscito una decina d’anni fa: L’universo elegante. Nel 2011 ha scritto un altro libro, uscito in Italia con il titolo La realtà nascosta, (Einaudi 2012, pag 431 euro 26,00), grazie al quale in questi giorni ha vinto il premio letterario Merck. Greene vi descrive ben 9 versioni di universi paralleli, o multiversi come li chiama lui. A seconda della teoria della fisica che prendiamo in esame, dice Greene, si genera un certo tipo di multiverso: c’è quello patchwork, quello inflazionario, quello a brane, quello ciclico, quello quantistico e via discorrendo. Ognuno di essi viene reso con una metafora appropriata e sapiente: gli universi potrebbero essere come le pezze della coperta patchwork che si ripetono identiche ogni tanto, oppure come i buchi nel groviera separati dal formaggio, o come le bolle in una infinita vasca da bagno piena di bagnoschiuma che si infilano una dentro l’altra. «Molti differenti approcci della fisica prima o poi si imbattono nell’idea del multiverso, quindi, benché sia un’idea controversa, deve essere valutata seriamente», ci spiega lo scienziato americano durante una chiacchierata in una soleggiata mattina di luglio davanti a una tazza di tè caldo corretto al latte di soia.
Mentre parliamo, sembra di essere catapultati in un libro dello scrittore giapponese più à la page del momento, Haruki Murakami, in cui giovani assassini, scendendo una scala, entrano in un universo parallelo e simile all’originale. Ma Greene ci rassicura: «È virtualmente impossibile per una persona muoversi volontariamente da un universo all’altro». In ogni caso, l’idea che ci siano altre dimensioni nelle quali si aggirano le nostre copie imperfette è un po’ inquietante e non solo per noi profani: «Alcuni dei primi ricercatori che hanno elaborato questa idea l’hanno definita deprimente e sconvolgente. Secondo loro ci depredava della nostra individualità. Io non la penso così. Al contrario, sono pieno di stupore e meraviglia per la visione più ampia della realtà che emerge dall’indagine matematica». Già perché di tutto questo è colpevole la matematica: è per soddisfare alcune equazioni che siamo incappati nell’idea di multiverso. Ma la matematica non è una creazione della nostra mente? «Questo è un vero enigma. Abbiamo inventato noi la matematica per decifrare il disegno che è dietro a ciò che percepiamo con i nostri sensi? Oppure la matematica è cucita nella stoffa della realtà? Ci sono diversi punti di vista al riguardo. Un giorno potrebbero arrivare sulla Terra degli alieni e dirci: ma guardatevi, siete ancora intrappolati nel mondo della matematica! Tuttavia al momento faccio fatica a pensare a qualcosa di diverso per decifrare il mondo». Ammettiamo che l’ipotesi dei multiversi sia vera, il ruolo del caso nel nostro universo aumenterebbe: non c’è nessun motivo per cui l’universo che conosciamo è fatto così com’è, tant’è vero che ce ne sono molti altri. «Sì è così. Però ci dovremmo essere abituati. La vita stessa è un fenomeno transitorio e raro, anche se fosse vero il multiverso. Dovremmo essere ben contenti della finestrella di opportunità che ci è stata data, anche perché in termini cosmici si chiuderà presto». In che senso? «I dati ci dicono che nel futuro le condizioni non saranno tali da sostenere la vita».
Ci rimane solo da sperare che Leibniz avesse ragione quando diceva che il nostro è il migliore dei mondi possibili. Ma Greene non condivide del tutto questa opinione: «Se penso alla mia famiglia, sono d’accordo con lui: non posso immaginare niente di migliore. Ma se considero l’universo in cui vivo come parte di un multiverso, non vedo perché debba essere speciale”. Mi viene un sospetto: in un altro universo potrebbero esserci una copia di me e una di Greene che stanno parlando in questo momento? «Anche se non possiamo dire “in questo momento” perché la nozione del tempo non è applicabile a tutti gli universi nello stesso modo, tuttavia potrebbe avvenire. Naturalmente, se è compatibile con le leggi della fisica. Forse in quell’universo però lei sarebbe il fisico e io il giornalista». Forse anche il tè sarebbe freddo invece che caldo.

il Fatto 10.7.13
Storia contro
Gela, luglio ’43: processo allo sbarco degli americani
La Procura militare di Napoli ha aperto un’inchiesta per strage, settant’anni dopo

di Eduardo Di Blasi

SENZA MEMORIA
Giuseppe Mangano, podestà di Acate, con la moglie Melina e il figlio Salvatore Valerio. In basso, il carabiniere Michele Ambrosiano, fucilato a Passo di Piazza il 10 luglio 1943 (La prima proviene dall’Archivio di Salvatore Alberto Mangano, entrambe sono in Gela 1943)

FOTOGRAFO DI GUERRA Gli americani si preparano allo sbarco in Sicilia. La foto è di Phil Stern che partecipò da reporter all’operazione Husky (9 luglio ’43). In alto, i Ranger entrano a Comiso. Sono solo due degli scatti che fanno parte della mostra “Phil Stern. Sicily 1943”, da oggi in prima mondiale ad Acireale (Catania) sino all’8 settembre

Oggi, settant’anni fa. È un sabato. Festa di Santa Felicita. Sulle spiagge di Gela, comune siciliano di 32 mila anime, annunciati dai bombardamenti degli ultimi giorni e dagli avieri paracadutati nelle campagne della Sicilia sud-orientale, gli Alleati sbarcano per la prima volta in Europa dall’Africa liberata. Da qui iniziano la marcia che, nel volgere di un paio d’anni, affrancherà l’Europa dal nazifascismo. È l’operazione Husky: 490 mila uomini, 2.510 aerei, 2.590 navi, 1.800 cannoni, 600 carri armati, 14 mila veicoli.
PER I SETTE DECENNI trascorsi, la storia dello sbarco e della successiva conquista della Sicilia non ha appassionato più di tanto la storiografia contemporanea. L’avanzata angloamericana nell’isola è così divenuta nell’immaginario comune una serena risalita verso nord, fatta di scontri militari di scarsa importanza e poche crepe nella reputazione dei liberatori.
La cura della memoria, negli ultimi anni, ha però prodotto alcuni libri che vestono di una nuova luce quell’estate del ‘43 sulle coste siciliane e nel suo immediato entroterra. La riscoperta delle testimonianze orali rimaste, incrociata con la documentazione ancora conservata nell’archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e in altri consimili, ha prodotto tre libri editi da Mursia: Uccidi gli italiani (opera del senatore del Pdl Andrea Augello), Gela 1943 (di Fabrizio Carloni, giornalista e storico) e Obiettivo Biscari (di Domenico Anfora, maresciallo dell’Aeronautica e Stefano Pepi, carabiniere, entrambi appassionati della storia dell’isola e del Secondo conflitto mondiale). Sulla scorta delle fonti testimoniali contenute nei tre volumi, a settant’anni di distanza, la Procura militare di Napoli ha aperto un fascicolo di inchiesta.
ANCHE SE si è superato di molto il mezzo secolo dai fatti, i crimini di guerra non cadono infatti in prescrizione e l’unico rischio, in questo caso, è solo quello di non trovare più nessuno in vita per istruire il processo.
Non è operazione semplice riuscire a rintracciare gli indiziati per l’uccisione del podestà di Acate che fu fermato assieme alla famiglia (moglie, figlia, fratello medico e donna di servizio) sulla strada di Vittoria in fuga dalle bombe che il giorno 9 colpirono gli edifici del paese. Giuseppe Mangano si fece riconoscere appellandosi alla Convenzione di Ginevra. Allontanato dalla famiglia assieme al fratello fu fucilato in piazza attorno alle diciannove. Il figlio diciassettenne, risparmiato, si avventò con una pietra verso i fucilatori e ne ricavò un colpo di baionetta che lo stese assieme ai suoi congiunti.
A Gela, in località Passo di Piazza, Carloni ci racconta dello sterminio di otto carabinieri che avevano creato un posto fisso alle dipendenze di un vicebrigadiere. Circondati dalle forze dell’Alleanza i militari si arresero. È scritto in Gela 1943: “Furono disarmati e fatti distendere a terra per essere perquisiti e derubati di tutto quello che avevano dagli orologi alle penne stilografiche, ai borsellini agli anelli; poi furono fatti appoggiare a un muro con le mani sulla testa e fucilati senza preavviso, alle spalle”.
Il motto del generale George Patton “Kill, kill and kill some more”, fu usato come un ordine dal capitano John Compton che fucilò 35 persone a Santo Pietro. Al sergente Horace West, finito davanti alla Corte marziale degli Stati Uniti, fu invece riconosciuta una provvisoria incapacità di intendere e di volere per aver sparato ai trentasei prigionieri (italiani e tedeschi), lì catturati. L’aviere scelto Giuseppe Giannola, riuscì a salvarsi. Recentemente ha ricevuto la medaglia al valore.

il Fatto 10.7.13
I tre libri che hanno riaperto il dibattito sulla Liberazione


LA PRIMA EDIZIONE di Uccidi gli italiani sulla battaglia di Gela di Andrea Augello è del 2009: all’epoca recava la prefazione di Anna Finocchiaro. È stato ristampato e aggiornato nel 2012 con l’aggiunta dei nomi dei militari italiani e tedeschi fucilati dagli americani nelle stragi di Biscari.
È invece del 2011, sempre per i tipi di Mursia, il testo di Fabrizio Carloni Gela 1943, che racconta attraverso testimonianze dell’epoca lo sbarco e la resistenza incontrati nell’entroterra di Gela dalle truppe angloamericane.
Obiettivo Biscari di Domenico Anfora e Stefano Pepi si concentra sui sei giorni di guerra sanguinosa (9-14 luglio 1943) che si sviluppò attorno alla cittadina di Acate (fino al 1938 chiamata Biscari).

La Stampa TuttoScienze 10.7.13
“Solo il mio software sa leggerti nell’anima”
di Marco Pivato


Ora è scattato il conto alla rovescia e l’appuntamento, probabilmente decisivo, è domani a Boston.

Dimmi cosa scrivi (e come) e ti dirò chi sei. Non c’entrano le perizie calligrafiche o psichiatriche. Il riconoscimento della personalità si fa grazie all’intelligenza artificiale, con software in grado di analizzare testi da Twitter, e-mail, social network. E le applicazioni sono potenzialmente infinite: forensi (scovando personalità da stalker o valutando la tendenza a mentire), preventive (riconoscendo le devianze come la pedofilia on-line), psicologiche (evidenziando elementi nevrotici, ma anche le caratteristiche del leader carismatico). E non mancano le applicazioni strategiche, legate al marketing, per individuare le personalità più adatte a diffondere messaggi pubblicitari. Fino all’anti-terrorismo.
Se George Orwell ormai è superato dal Maxi Fratello che spia ovunque e tutti, come ha rivelato il Datagate di Edward Snowden, i nuovi programmi per il riconoscimento della personalità non «ascoltano» direttamente, ma traggono informazioni preziose in modo implicito, a partire dalle tracce linguistiche che ognuno di noi lascia inconsapevolmente in un tweet o in un sms. Il primato della ricerca in questo campo di frontiera è italiano e il punto di riferimento si trova al Laboratorio di linguaggio, interazione e computazione (Clic) del Centro interdipartimentale Mente/ Cervello dell’Università di Trento, il CIMeC. È infatti lo studio del giovane ricercatore Fabio Celli - l’«Adaptive personality recognition from text» - ad aver attirato l’attenzione di molti, non solo scienziati e informatici, ma anche della polizia di New York e di una società finanziaria californiana interessata ad analizzare il comportamento di chi investe in Borsa.
Se il riconoscimento automatico della personalità con metodi computazionali è un’ambizione non di oggi, è solo adesso che stanno maturando gli strumenti adeguati. E infatti proprio la ricerca di Celli è tra i motivi che hanno spinto all’organizzazione di una conferenza mondiale che si terrà domani al Mit di Boston: si chiama «Workshop on computational personality recognition» e si svolgerà all’interno di un grande evento, l’«International Aaai conference on weblogs and social media» dell’Associazione per l’avanzamento dell’intelligenza artificiale (http://icwsm.org/2013).
«Secondo uno dei modelli più testati, vale a dire il “Big five”, le caratteristiche essenziali per definire la personalità sono cinque - spiega Celli -: nevroticismo, estroversione, apertura, amabilità e coscienziosità». E se per alcuni lo schema soffre di un eccesso di riduzionismo, in realtà i software partono da questa base per poi combinare le informazioni in modo creativo. «I programmi - aggiunge - riescono a rilevare correlazioni precise tra modo di scrivere e modo di essere, le stesse individuate dalla psicologia comportamentale. Il computer rileva correlazioni che si ripetono: non sa cosa significhi “nevrotico” o “estroverso”, ma il fatto che segnali dati simili a quelli ottenuti dai test cognitivi prova che le estrapolazioni hanno una certa significatività».
E fa degli esempi: «Chi usa molta punteggiatura ha un basso tasso di estroversione e un alto tasso di apertura all’esperienza, mentre chi parla molto spesso della famiglia ha un basso tasso di apertura all’esperienza e chi utilizza parole più lunghe di sei caratteri è, di solito, più introverso». Ampliando la ricerca dall’individuo alla massa, poi, emerge che «i nevrotici tendono a cercare molti contatti e followers, mentre la personalità leader rimane in una cerchia ristretta di amicizie e messaggia in maniera secca, a botta e risposta». Nell’ottica di applicare queste conoscenze è utile allora sapere che «il leader fabbrica concetti o messaggi pubblicitari che verranno veicolati più facilmente attraverso personalità nevrotiche, perché le sue interazioni sono altamente virali».
Il trentaduenne Celli, al secondo anno di dottorato, racconta che l’idea iniziale è nata assistendo a una lectio magistralis di un professore dell’Università di Trento, Fabio Pianesi: fu allora che si chiese se sarebbe stato interessante provare ad applicare il riconoscimento della personalità all’universo dei social network. «Ma poco dopo - sottolinea - avrei scoperto che, oltre a me, ci stavano pensando almeno altri due team di ricercatori: uno negli Stati Uniti, capitanato da Jennifer Golbek, e un altro allo Psychometric centre di Cambridge, ma decisi di andare avanti e scrissi la prima versione del mio programma». Il risultato fu l’articolo «Unsupervised personality recognition for social network sites», presentato l’anno scorso in un convegno a Valencia. Il successo fu discreto e così Celli pensò che valesse la pena di portare avanti il lavoro, modificando il progetto di dottorato.

La Stampa TuttoScienze 10.7.13
Dai canti dei fringuelli i segreti della lingua dei bebé
Due specie diversissime e un filo rosso che svela come impariamo a parlare
di Gabriele Beccaria


È possibile curiosare tra i canti dei fringuelli per capire qualcosa in più su un mistero coinvolgente come la nascita del linguaggio negli esseri umani?
Dietro questo interrogativo c’è una lunga storia, che comincia con una ricercatrice americana dell’Hunter College di New York, Dina Lipkind: è lei che decide di provare un esperimento mai tentato prima, soltanto in apparenza banale: insegnare a un gruppo di fringuelli zebra in cattività un nuovo canto. Un’impresa di sicuro difficile, dato che questi uccellini, in natura, ne imparano uno solo nel corso dell’intera vita.
Eppure, con pazienza e una notevole dose di abilità, nel giro di alcune settimane ci riesce. Da una melodia nota - basata su un modello identificato in laboratorio come «abc-abc» - le sue volenterose cavie acquisiscono un altro set di fischi e suoni, stavolta modellato su un «pattern» alternativo, del tipo «acb-acb».
Dina Lipkind si rende conto che lo sforzo a cui ha obbligato le sue fragili creature è una vera e propria lotta linguistica e quindi cognitiva. Il salto, ogni volta, in ogni esemplare, non consiste nel passare da una sillaba a un’altra, quanto nel comporle. Le connessioni richiedono una dolorosa transizione. Solo dopo che sono state davvero afferrate, può avere inizio un nuovo canto. Il problema - in altre parole - non sono i suoni, ma è la grammatica a far sudare sette camicie.
Il secondo test lo conduce uno studioso giapponese, Kazuo Okanoya, con i fringuelli bengalesi. Stesso tentativo e stessi risultati: anche questi uccelli, decisamente più intelligenti dei colleghi, devono impegnarsi al massimo per approdare all’analogo risultato di una melodia inedita.
A questo punto può cominciare il terzo - e decisivo - momento della ricerca, che finalmente si addentra tra i vocalizza dei bambini. Entro il primo anni di età - è noto - i bebè cominciano a esercitarsi con tutti quei suoni, familiari per ogni madre e padre, composti da vivaci sequenze di «da-da-da» e «ba-ba-ba». Monotone, forse, ma non per i genitori, che spiano il fenomeno della lallazione come l’annuncio di un’imminente svolta comunicativa dei figli. E di certo intriganti per Dina Lipkind e Doug Bemis, che hanno cominciato ad analizzarli con pignoleria nel database «Childes» dedicato al linguaggio infantile. E, così, dopo un po’ di tempo si accorgono che, se i bambini ripetono ossessivamente la stessa sillaba, come per stamparla nella memoria ed esercitare le loro nascenti capacità espressive, passano alle versioni sofisticate, in cui ne combinano due diverse, solo dopo un lungo - e faticoso - tirocinio. Non succede tutto in una volta. Ci vuole tempo ed esercizio, a volte qualche mese, come ai fringuelli sono necessarie alcune settimane.
Ecco finalmente un filo rosso che, accomunando due specie tanto diverse, rivela il nocciolo di una scoperta. Ciò che stanno facendo i cuccioli di uomo è imparare un passaggio fondamentale che plasmerà le loro esistenze, quello che dalla trasparenza dei suoni singoli arriva fino alle contorsioni della parola. E allora - annunciano Dina Lipkind e gli altri autori su «Nature» - alla domanda iniziale, di certo un po’ stravagante, si può rispondere con un «sì» secco. Anche se a un livello immensamente più raffinato, i bambini eseguono lo stesso lavoro di apprendimento con cui i giovani fringuelli acquisiscono le giuste melodie per entrare nel mondo dei volatili. Se i linguaggi degli uni e degli altri non sono comparabili, il background presenta tuttavia una struttura simile che implica molto più del trascinamento dell’istinto.
E non è un caso che dietro quelle prove d’autore - nei boschi, nelle gabbiette di laboratorio e nelle culle - sia coinvolto lo stesso gene-chiave, il Foxp2, considerato dagli addetti ai lavori una star: senza di lui non c’è articolazione di suoni e non ci sono, appunto, i vocalizzi che accomunano umani e volatili e che, invece, sorprendentemente, sono sconosciuti ai nostri parenti più prossimi, le grandi scimmie. A loro l’evoluzione ha negato l’idea (e il piacere) di cosa significhi intonare un canto.
"Dina"

Lipkind, Psicologa: È RICERCATRICE AL DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA DELL’HUNTER COLLEGE DI NEW YORK (USA)"
IL SITO : WWW.HUNTER.CUNY.EDU/MAIN/

Repubblica 10.7.13
Benefattori privati ma anche idee folli suppliscono sempre più agli investimenti statali
La scienza a modo mio
Così milionari e reality finanziano la ricerca
di Massimiliano Bucchi


Un miliardario russo con la passione della fisica, un premio Nobel, un reality show per finanziare una colonia su Marte. Sembrano gli ingredienti di un film di fantascienza, sono in realtà recentiepisodi che segnano un significativo cambiamento nelle modalità di finanziamento della ricerca e più in generale nei rapporti tra scienza e potere.
Il secolo scorso ci aveva abituati alla cosiddetta “Big science”, la scienza che richiedeva grandi strutture e grandi finanziamenti e come tale era saldamente in pugno alle grandi superpotenze. Era talmente stretto, il rapporto tra scienza e potere, che nel 1939 Albert Einstein e Leo Szilard potevano scrivere direttamente al presidente americano Roosevelt per auspicare un progetto di ricerche sugli usi militari della fissione nucleare in grado di anticipare quello tedesco; e dopo il bombardamento di Hiroshima, poterono scrivere nuovamente al presidente (Truman) per scongiurarne ulteriori utilizzi. Era talmente legata al contesto di competizione tra grandi potenze, quella scienza, che si parlò di “effetto Sputnik” per descrivere lo choc delle élite americane nel fare i conti con lo sviluppo della scienza e tecnologia sovietica, e il conseguente slancio di investimenti e iniziative che ne seguì.
Era la dottrina della scienza come “gallina dalle uova d’oro”, nutrita amorevolmente dalla politica per conto della società, che ricambiava con risultati in grado di produrre rilevanti ricadute tecnologiche, economiche, militari. Questo rapporto si svolgeva generalmente in un clima di consenso sociale; talvolta, come descrive C. P. Snow nel suoScienza e Governo, l’opinione pubblica ne restava addirittura largamente all’oscuro. Gli scenari iniziarono a cambiare negli ultimi decenni del secolo scorso. Alla riduzione degli investimenti pubblici fece da contraltare un ruolo sempre più pervasivo del business, soprattutto in settori quali biotecnologie e Ict. La figura dello “scienziato imprenditore” affiancò e per certi versi rimpiazzò quella dello scienziato consulente caratteristica della Big Science.
«Posso fare buona scienza e guadagnarci » spiegò soddisfatto ad Henry Etzkowitz, un ricercatore della Silicon Valley. Una figura che agli occhi del grande pubblico fu incarnata in modo spettacolare da personaggi come Craig Venter, che con la propria azienda privata riuscì a sfidare il consorzio pubblico internazionale nella corsa alla mappatura del genoma umano. Una diversa modalità di allontanamento dal modello della Big Science emerse dalla mobilitazione di cittadini e pazienti, soprattutto su temi medici e ambientali. Si colmavano così lacune di attenzione a questioni e patologie troppo specifiche per la ricerca pubblica e poco remunerative per quella privata. Ha fatto scuola la vicenda dell’Afm, che, dall’iniziativa di due genitori straziati dalla perdita del figlio per una rara patologia, ha creato in Francia laboratori all’avanguardia diventando uno dei soggetti più rilevanti nella ricerca in questo settore.
Ma oggi si assiste a qualcosa di ancora diverso.
Da un lato, cresce il ruolo dei “benefattori privati”. La nuova generazione di imprenditori del software e del web ha un occhio di riguardo per la ricerca. La sola Bill e Melinda Gates Foundation in dieci anni ha finanziato progetti di ricerca per oltre 3 miliardi di dollari — per avere un termine di paragone, si consideri che nell’ultimo bando per progetti di ricerca di interesse nazionale il nostro Ministero ha messo a disposizione meno di 40 milioni di euro. Qualche mese fa, il patron di Facebook Mark Zuckerberg ha stabilito un’insolita alleanza con il concorrente Sergey Brin di Google per assegnare 11 premi da 3 milioni di dollari a ricercatori in grado di contribuire «alla cura di malattie e all’estensione della vita umana». Roba da far impallidire lo stesso premio Nobel, il cui attuale valore monetario si ferma a un terzo della cifra.
Ancor più scalpore ha fatto la notizia che l’investitore russo Yuri Milner ha attribuito nove premi dello stesso importo ad altrettanti ricercatori nel campo della fisica; scatenando, soprattutto con alcune scelte orientate alla teoria delle stringhe, forti polemiche nella comunità scientifica. L’ultimo episodio è ancora più singolare. Per raccogliere i 6 miliardi necessari a finanziare il progetto di insediare coloni terrestri su Marte nel 2023, patrocinato dal Nobel per la fisica Gerard ‘t Hooft, l’azienda olandese Mars One progetta di farne un reality show vendendo i relativi diritti televisivi. Ne risulterebbe così un’inedita miscela di iniziativa privata e crowdf ounding, con spettatori/abbonati che diventerebbero azionisti collettivi del progetto.
In uno scenario di contrazione delle risorse pubbliche, è assai probabile che il ruolo di donatori privati e altri meccanismi divenga sempre più rilevante. La preoccupazione di molti, tuttavia, è che insieme al rapporto con il finanziamento statale venga meno il controllo della comunità scientifica. Nessuno potrebbe infatti impedire a un miliardario creazionista di finanziare ricerche in contrasto con la teoria dell’evoluzione, né a un’azienda o associazione di raccogliere finanziamenti per ricerche finalizzate a illusori o improbabili terapie o ad altri obiettivi eticamente controversi.
Secondo Arie Rip, professore all’università di Twente e consulente per le politiche della ricerca in Sud Corea, «le agenzie governative dovranno ridefinire il proprio ruolo per convivere con altre forme di finanziamento, ad esempio anche offrendo la propria valutazione di qualità dei progetti a finanziatori privati». Un dubbio però rimane: se dovesse venire fuori che scientificamente la missione/reality per insediare coloni su Marte non ha molto senso, chi lo dirà agli 80000 che si sono già presentati alle selezioni? Il professor ‘t Hooft o Alessia Marcuzzi?

Corriere 10.7.13
«The Bridge», arriva il thriller con la poliziotta autistica


A pochi giorni dal debutto americano, «The Bridge», l’attesa serie thriller interpretata da Diane Kruger (nella foto) e da Demian Bichir, candidato all’Oscar come miglior attore nel 2012 per il film A better life , arriva in Italia su Fox Crime. «The Bridge» andrà in onda ogni giovedì alle 21 a partire dal prossimo 18 luglio e sarà visibile sul canale 117 della piattaforma Sky. La serie, di cui attualmente è in corso la realizzazione di un secondo remake francese, narra le vicende di due poliziotti, Sonya Cross, americana di El Paso, affetta dalla sindrome di Asperger, una rara forma di autismo che le impedisce di provare empatia con le persone, e Marco Ruiz, della polizia messicana dello Stato di Chihuahua, famoso per i suoi metodi investigativi poco ortodossi.