venerdì 12 luglio 2013

il Fatto 12.7.13
Quando la polizia rapisce innocenti
di Furio Colombo


È una storia sinistra da cui comincia bene un film, ma finisce male la legalità e rispettabilità di un Paese, nel nostro caso l'Italia. Una notte di fine maggio, ai nostri giorni, con questo governo, di cui si può pensar male ma non fino a questo punto, una bambina di sei anni e la madre, provenienti dal Kazakistan e domiciliate a Roma, sono state l’obiettivo di una grande operazione di cattura e rapimento.
Cinquanta uomini della polizia di Stato hanno circondato la casa, arrestato mamma e bambina, le hanno trattenute tre giorni. E appena si è presentato a Ciampino un aereo privato del Kazakistan, hanno forzato mamma e bambina a imbarcarsi, dunque consegnate da polizia a polizia con la negazione di ogni diritto e la mancanza di ogni dovuta formalità internazionale. Tutto ciò è stato tenuto nascosto al ministro degli Esteri Emma Bonino, fingendo di ignorare le sue prerogative di ministro degli Esteri. Hanno creato un problema gravissimo nel governo perché il responsabile della polizia è il ministro dell'Interno, Alfano che è anche il vicepresidente del Consiglio ed è anche l’'uomo più vicino a Silvio Berlusconi, caro amico del dispotico presidente del Kazakistan. Alfano non poteva non sapere che le due prede della polizia italiana sono la moglie e la figlia di Mukhtar Ablyazov, dissidente kazako in fuga. Finora, salvo alcune voci fra cui quella del deputato Fiano (Pd) alla Commissione Affari Costituzionali, e la conferenza stampa di Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato, ci sono state poche notizie e molto silenzio. E così adesso il presidente dittatore del ricco paese petrolifero, che ha gli amici giusti in Italia e che voleva ostaggi da giocare contro il suo principale avversario, li ha ottenuti e intende servirsene. Ma come può il Parlamento italiano, stravolto da ridicole manifestazioni per negare i reati di Berlusconi, non esigere la verità immediata su questa torbida storia? Chi spiegherà a nome e su ordine di chi si consegnano ostaggi, e soprattutto si arresta e si scambia una bambina? Non c’è un ambasciatore italiano, nella capitale del Kazakistan, che possa verificare e riferire? Non partirà d’urgenza una delegazione delle commissioni Esteri del Parlamento, per sapere subito dove sono e come vivono e quali rischi corrono le due prigioniere?
Per Letta il percorso è doveroso e chiaro: bloccare all’istante ogni rapporto con il Kazakistan. Pretendere subito nomi, passato e prevista carriera dei “bravi” che in Italia arrestano mamme e bambini.

il Fatto 12.7.13
Così furono espulse moglie e figlia del dissidente kazako
Consegnate al tiranno: Alfano sotto accusa
La Procura capitolina aveva chiesto di interrogare Alma Shalabayeva, ma la Questura disse no
Intanto fanno carriera i funzionari del blitz
Blitz, affido ed espulsione. Ecco le carte del rapimento
di Davide Vecchi
I pm tentarono di sentire Alma ma l’ufficio immigrazione risposte: va spedita subito ad Astana. A guardia della villa un carabiniere e un agente della Presidenza del Consiglio

Nel primo pomeriggio di venerdì 31 maggio avviene uno scambio tra la procura di Roma e l’ufficio immigrazione della questura: i magistrati vogliono sentire Alma Shalabayeva, su richiesta dei suoi legali, in merito al passaporto ritenuto falso, motivo per cui è indagata ed è quindi suo diritto essere ascoltata a spontanee dichiarazioni. Ma gli agenti rispondono via fax che il documento è contraffatto. Quindi il passaggio è inutile. In realtà si è poi accertato che il passaporto era autentico. Inoltre quel pomeriggio Alma era già in viaggio verso Ciampino dal Cie di Porta Galeria, dove era stata condotta appena due giorni prima.
“Di seguito alle intese telefoniche odierne, con riferimento al sequestro del passaporto diplomatico esibito dalla nominata in oggetto risultato contraffatto, si trasmette la nota del Ministero degli Esteri” del Burundi, “la nota verbale dell’Ambasciata del Kazakistan in Italia relativa alla reale identità della Shalabayeva alias Ayan”. Inoltre, conclude fra l’altro il fax, “la Shalabayeva è nella condizione di essere rimpatriata, unitamente alla figlia minore”.
Il fax firmato da Maurizio Improta, capo dell’ufficio immigrazione, è stato ricevuto dal-l’ufficio del procuratore capo, Giuseppe Pignatone e inviato all’attenzione anche del magistrato Eugenio Albamonte, alle 15.22 del 31 maggio. La moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, insieme alle figlia Alua di 6 anni, vengono nel frattempo portare a Ciampino. Qui, poco dopo le 18, viene stilato il verbale di affidamento della minore. Un verbale “redatto sottobordo”, in pratica sulla pista ai piedi dell’aereo, si legge nel documento, “alla presenza del console onorario Nurlan Khassern”. La bambina viene affidata “all’ambasciatore del Kazakistan Yerzhan Yessirkepov”. Che prende in consegna le due donne, le fa salire sul jet privato appositamente affittato al mattino alle 11 in Austria dal governo kazako, che lascia Ciampino alle 19 esatte.
La ricostruzione di quanto accaduto quel 31 maggio è solo una piccola parte dell’informativa della Digos allegata agli atti delle indagini sul rimpatrio forzato delle donne che sta mettendo in seria difficoltà il governo di Enrico Letta e in particolare il vicepremier e ministro dell’Interno, Angelino Alfano che sarebbe intervenuto direttamente, su espressa richiesta del regime kazako, senza coinvolgere Palazzo Chigi né il ministero degli Esteri né quello della Giustizia.
I documenti allegati agli atti riguardano il periodo dal 24 maggio in poi. In quella data, infatti, il dissidente Ablyazov viene intercettato, fotografato e filmato nel quartiere dell’Eur a Roma. In compagnia di alcuni familiari a passeggio e a bordo di un monovolume bianco. Per questo la Digos decide di organizzare il blitz nella villa che la famiglia ha affittato a Casal Palocco dove erano arrivate a inizio mese.
A carico dell’uomo, maggior oppositore del regime di Nursultan Nazarbayev, c’è un mandato di cattura internazionale. Ma uno, non due: emesso dal Kazakistan. In Gran Bretagna, dove è rifugiato politico da diversi anni, Ablyazov ha una pendenza civile. Nessun mandato di cattura inglese, dunque. Come invece inizialmente era stato fatto trapelare.
Gli uomini della Digos decidono di intervenire la notte tra il 28 e il 29 maggio. Nel pomeriggio del 28 effettuano un sopralluogo a Casal Palocco (che nel verbale diventa “Casal Balocco”) per pianificare il blitz e trovano tre persone. Ed ecco un’altra sorpresa che emerge tra gli atti: “D. F. si identifica con una tessera della Presidenza del Consiglio dei Ministri”, un secondo “mostra un tesserino dei Carabinieri”. Infine i due spiegano “di aver ricevuto incarico da un cittadino israeliano, Forlit, residente in Tel Aviv (…) dove è titolare della società Gadot Information Service”.
Alle 18.10, annotano gli agenti della Digos nell’informativa allegata agli atti, “personale investigativo nota un uomo di 55/60 anni di sesso maschile con un auricolare intento a comunicare con un altro uomo all’interno di un auto posteggiata nei pressi dell’abitazione di via Casal Balocco 3. (...) A richiesta di esibire i documenti il primo, D. F., diceva essere personale polaria e mostra tessera del Consiglio dei Ministri dopo aver tentato di divagare con risibili motivazioni (...) spiega di aver ricevuto incarico dal cittadino israeliano Forlit, dietro pagamento di 5mila euro, di verificare la presenza di una persona”.
La Digos procede alla bonifica della zona: alle 20 ha la certezza che Ablyazov sia all’interno della villa. Rimane un presidio di pochi agenti per verificare che nessuno si allontani da lì. Poi la notte scatta il blitz. E viene arrestato un uomo. Ma è il cognato del dissidente. E anche lui viene condotto al Cie insieme alla moglie di Ablyazov, Alma. Mentre Alua, la bimba di sei anni, viene affidata temporaneamente alla zia che rimane a Casal Palocco.
La competenza a questo punto passa dalla Digos, guidata da Lamberto Giannini, agli uomini dell’ufficio immigrazione, a cui capo è Maurizio Improta. Alma entra al Cie poco prima dell’alba del 29 maggio. Dopo appena poche ore il prefetto emette il decreto di espulsione. Lo ricorda lo stesso Improta anche nel fax che invia ai magistrati. L’ambasciata del Kazakistan invia i documenti relativi alla reale identità della donna solo il giorno successivo, quando ormai Alma è partita, con la figlia, e spedita nelle mani di Nazarbaev accusato ancora ieri da Amnesty International di ingannare la comunità internazionale. L’organizzazione ha denunciato “l’uso regolare della tortura e dei maltrattamenti in Kazakistan” dove le forze di sicurezza agiscono con impunità e la tortura nei centri di detenzione sia la norma. A questa realtà le autorità italiane hanno affidato Alma e sua figlia. Oltre alle indagini della Procura, anche la politica ha avviato un’inchiesta. Ieri durante la riunione del Copasir Claudio Fava ha invocato “una risposta di Alfano”. Va svelata, ha aggiunto il deputato di Sel, “la catena di comando di un’operazione opaca nelle forme e grave nel contenuto. Noi vogliamo sapere da Alfano chi ha chiesto al dottor Maurizio Improta di intervenire con modalità inconsuete e con tanta solerzia per espellere le due kazake e chi si è assunto la responsabilità di dare informazioni frettolose e imprecise su un presunto passaporto falso in possesso della donna che invece era autentico”.

il Fatto 12.7.13
Subito promossi i capi degli uffici di polizia protagonisti del caso
Giannini (Digos) e Improta (Immigrazione), questori un mese dopo il prelievo forzato
di Ferruccio Sansa


Il concorso per diventare dirigenti. In pratica questori. La futura classe dirigente della polizia. Nei corridoi della Questura di Roma non si parla d’altro. Non è una novità che le graduatorie, con i salti in avanti e indietro, siano accolte a denti stretti dagli esclusi, ma stavolta c’è qualcosa in più. Tra i promossi ci sono due nomi di spicco qui a Roma: Lamberto Giannini, responsabile della Digos, e Maurizio Improta, dirigente dell’ufficio immigrazione. “Proprio i due uffici che avrebbero avuto un ruolo chiave nel rimpatrio forzato di Alma Shalabayeva e della figlia Alua. Niente di illegale in questa promozione, fino a prova contraria, niente che provi un legame tra le due cose”, mettono le mani avanti gli stessi colleghi dei due neo-primi dirigenti. E provano a mettere in ordine i fatti.
Il prelievo forzato della donna e della bambina e l’espulsione avvengono tra il 29 e il 31 maggio scorsi. Un blitz cui partecipa la Digos. Nelle ore successive l’ufficio immigrazione sarebbe stato decisivo per stabilire se, e in che modo, espellere le due donne.
Passano le settimane. L’operazione passa nel silenzio. Venerdì 28 giugno, un mese dopo, si riunisce il consiglio di amministrazione della polizia. Un appuntamento atteso da migliaia di funzionari che in quell’incontro vedono decise le loro carriere. Stavolta, oltre ai vertici della polizia, avrebbe partecipato il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Non è una circostanza eccezionale. Sul tavolo, appunto, le graduatorie per promuovere i dirigenti superiori (in pratica i futuri questori) e primi dirigenti. È una selezione durissima: i posti di questore quest’anno sono 20 (più 6 ripescati che dopo il su-percorso di un anno otterranno la qualifica). I candidati sono 556, passa uno su dodici. Poi c’è la graduatoria per primi dirigenti, appena un gradino sotto, l’anticamera del questore: 74 posti su 1.624 funzionari in corsa.
Il consiglio di amministrazione redige le graduatorie definitive. Ed ecco le sorprese, come ogni anno. Chi sale e chi scende. Anche di decine di posti. Sempre con strascichi polemici. E qualcuno punta il dito sulla promozione di Giannini, che nella graduatoria del 2012 era 65° e quest’anno è arrivato 20°. Più quarantacinque. Sì, proprio l’ultimo strapuntino disponibile per diventare questore. Maurizio Improta, invece, nel 2012 era 73° e in un anno ha compiuto un balzo di cinquantadue posizioni: 21°. Può quindi rientrare tra i sei che frequenteranno il corso. In pochi mesi sarà questore.
Insomma, i due dirigenti hanno ottenuto una valutazione molto positiva del loro operato negli ultimi dodici mesi. Che cosa li ha distinti rispetto ad altri colleghi? “Adesso chiederemo l’accesso agli atti per capire”, promette Filippo Bertolami, dirigente sindacale nonché presidente del Comitato Funzionari Anip-Italia Sicura, da sempre impegnato per la trasparenza nei concorsi in polizia.
Ma ci sono altri casi su cui i colleghi vorrebbero chiarimenti: per esempio il salto di centosessanta posti di Pietro Ostuni, capo di Gabinetto della Questura di Milano, passato dal 259° posto al 99°. Come dire, dalle retrovie alla pole position per diventare questore l’anno prossimo. A rispolverare la cronaca recente i maligni ricordano che proprio Ostuni era il funzionario di turno a Milano la famosa notte in cui in via Fatebenefratelli approdò Ruby. L’uomo che ricevette le telefonate dalla scorta del Premier e dallo stesso Berlusconi. Il poliziotto è stato uno dei testimoni nell’indagine e nel processo contro il premier. Sentito dai pm disse: “Non ricordo che mi sia stato detto che Ruby aveva negato di essere parente di Mubarak, mi fu detto che era marocchina e che il padre faceva l’agricoltore in Sicilia”. Una risposta che portò i pm a incalzarlo: “Ammesso che sia credibile quello che lei sta dicendo… le è sembrato potesse essere vera la notizia fornita da Berlusconi? ”. E Ostuni: “Certamente no”. Un episodio scomodo, che non ha impedito a Ostuni un bel balzo in avanti.
NEL 2012 al concorso per primi dirigenti tra i vincitori figuravano un funzionario condannato per aver dato il porto d’armi al-l’autore di una strage (in un anno guadagnò 686 posizioni). Poi un vicequestore di punta che nel 2011, stando agli atti acquisiti per il ricorso, si era posizionato 299° per poi ritrovarsi 47° l’anno successivo; appena passata la selezione fu indagato dalla Procura di Roma per calunnia e falso ideologico. Parliamo del tifoso pestaggio di Stefano Gugliotta.
Ma ecco, ancora una volta, l’ombra del G8: tra i dirigenti selezionati due funzionari che erano a Genova e hanno avuto a che fare con le famose molotov. Un clamoroso falso per incastrare i dimostranti. Hanno fatto balzi di 314 e 407 posti.
Ma come sono possibili questi salti? Dal Viminale, come l’anno scorso, una risposta ufficiosa: “Le regole dello scrutinio sono pubbliche. Cambiano i governi, i vertici della polizia, le priorità della loro azione, e anche le caratteristiche richieste ai candidati”.
Bertolami assicura: “Faremo chiarezza anche quest’anno. Non è più accettabile un sistema che, tra colleghi oggettivamente meritevoli, premia frettolosamente anche funzionari i cui uffici sono protagonisti di fatti di cronaca non ancora chiariti”.

il Fatto 12.7.13
Appello umanitario
“Il governo la faccia tornare in Italia”
di Mariagrazia Gerina


Quaranta agenti per catturare e rimpatriare una donna e una bambina. “Deportate” pur sapendo a cosa andavano incontro in Kazakistan, essendo la madre e la figlia del principale oppositore politico di Nursultan Nazarbayev. “Deportate”, sì, perché di “deportazione” si è trattato, scandisce il direttore del Centro italiano per i rifugiati Christopher Hein. E bisognerà che il governo italiano trovi una risposta a ciascuna delle domande che un fatto di tale gravità solleva. Ma c’è una priorità su tutte, in questo momento. Che Alma Shalabayeva torni in libertà. E che con sua figlia Alua, che ha appena 6 anni, possa lasciare il Kazakistan e mettersi in salvo. “Il governo italiano deve esplorare tutte le vie possibili per farla tornare in Italia”, recita l’appello del Consiglio italiano per i rifugiati: “Alma Shalabayeva deve essere messa in libertà, questo è il primo obiettivo che dobbiamo raggiungere, bisogna capire come è possibile farla tornare in Italia, insieme a sua figlia”.
Il timore per quello che potrebbe accadere in questo momento è la priorità assoluta. “Le autorità kazake devono garantire la loro incolumità”, avverte d’altra parte Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty Iternational: “Ma è chiaro che c’è una corresponsabilità del-l’Italia rispetto alla incolumnità di Alma e di sua figlia”.
LE NOTIZIE CHE ARRIVANO dal Kazakistan sono frammentarie. “Certo – ripete Hein – quello che sappiamo è che non si è trattato di un normale ritorno in patria. Appena Alma Shalabayeva è atterrata in Kazakistan con sua figlia come si temeva è stata fermata e ora è agli arresti domiciliari”. Fa una pausa. E sospira. Perché poteva andare anche molto peggio. “E questo – accusa Hein – le autorità italiane lo sapevano”. È chiaro: “Se rispedisci in Kazakistan la moglie e la figlia di un oppositore ricercato sai benissimo che non stai facendo un atto pacifico”. E poi come è possibile che il ministero degli Esteri non sia stato informato “quando invece è ovvio che dovevano essere attivati i rapporti bilaterali Italia-Kazakhistan”. Come è ovvio che ora bisogna tentare tutto il possibile per invertire la rotta. “È stato fatto un torto e bisogna sanarlo subito”. Prima che sia troppo tardi. “Tutto è avvenuto così in fretta che quando abbiamo saputo del blitz, l’aereo su cui la signora e sua figlia erano state fatte salire era già partito da alcune ore per il Kazakistan”. L’intempestività con cui tutto è avvenuto è uno dei punti che il governo italiano dovrà chiarire. “La signora non ha avuto neppure il tempo di appellarsi”, attacca Hein: “Né abbiamo notizia che sia stata fatta la convalida del provvedimento di espulsione da parte del giudice di pace”. Non c’è stato tempo neppure per controllare la veridicità del passaporto rilasciato dalla Repubblica Centroafricana. “Anche senza quel passaporto - accusa Hein - la signora aveva diritto alla protezione, essendo la moglie di un rifugiato riconosciuto da un altro stato membro quale è la Gran Bretagna”. Anche questo le autorità italiane lo sapevano. Perché allora le hanno proceduto lo stesso al blitz e alla “deportazione”?


Corriere 12.7.13
Il silenzio imbarazzato della Farnesina per il «pasticcio» dell’esule kazako
Si teme una protesta dell’Agenzia Onu per i rifugiati
di Giuseppe Sarcina
L’intervento del premier Enrico Letta ha bloccato sul nascere lo scontro nel governo sul «pasticcio kazako». La Farnesina tace, ma sotto traccia resta fortissima l’irritazione del ministro degli Esteri Emma Bonino per come l’operazione è stata condotta dal ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano. Il rocambolesco rimpatrio della moglie e della figlia di Mukhtar Ablyazov, con tanto di blitz in grande stile nella villetta di Casal Palocco (Roma), rimane per ora al centro dell’indagine «amministrativa» disposta dal presidente del Consiglio. Nei prossimi giorni si eviterà di porre la questione all’ordine del giorno («fuorisacco» compreso) del Consiglio dei ministri per evitare un altro corto circuito politico. Intanto si attende che sia fissata l’audizione di Arturo Esposito, direttore dell’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna) davanti al Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), mentre ieri Adriano Santini, direttore dell’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) non ha fornito alcun elemento di novità.
Tra i ministri e tra molti parlamentari cresce il timore che la vicenda possa risolversi con «un’altra figuraccia internazionale dell’Italia» (parole di Emma Bonino). Per il momento non sono arrivate richieste ufficiali di chiarimento da parte delle istituzioni di Bruxelles. Potrebbe farsi sentire, invece, la protesta dell’Agenzia per i rifugiati della Nazioni Unite (Unchr). I nostri diplomatici segnalano che l’Alto commissario, il portoghese António Guterres, ha già preparato gli appunti per un intervento pubblico.
Ma basterà un discorso di Guterres per scuotere l’attenzione? Il presidente-autocrate del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, 73 anni, si sente al riparo. Con Silvio Berlusconi ha stretto un rapporto di amicizia e di confidenza (anche ludica a quanto si racconta). Ma non c’è solo il Cavaliere. La rete kazaka è fitta. La Gran Bretagna, per esempio. È il Paese che nel 2009 ha concesso asilo politico ad Ablyazov. Eppure il 30 giugno scorso il premier David Cameron era a fianco di Nazarbaev, proprio mentre veniva annunciato che da settembre sarebbe cominciata la produzione negli impianti petroliferi di Kashagan, il giacimento più promettente degli ultimi trent’anni, con riserve stimate in 35 miliardi di barili (l’Arabia Saudita ne ha 262, la Libia 46 tanto per avere un’idea).
Nazarbaev, 73 anni, padrone del Paese dal 1991. Amico di Berlusconi, ma interlocutore di riguardo dei governi di Francia, Olanda, Gran Bretagna, naturalmente Russia e, più di recente, Cina e India. Nazarbaev, ammiratore di Ataturk il fondatore della Turchia moderna, partner di affari dell’italiana Eni, ma anche dell’americana Exxon, della anglo-olandese Shell, della francese Total.
Petrolio, repressione interna, dinamismo e disponibilità nelle relazioni internazionali. Nazarbaev è munifico organizzatore di convegni sul «dialogo Est-Ovest»; abile tessitore di alleanze nelle organizzazioni internazionali, tanto da ottenere che il Kazakistan venisse prima ammesso come «osservatore» nell’assemblea parlamentare dell’Osce (56 Stati), per poi raggiungere addirittura la presidenza annuale nel 2010.
L’Italia ha spesso dimostrato di avere più facilità di dialogo rispetto ad altri. Il 5 novembre 2009, Finmeccanica e Ferrovie firmarono un programma di cooperazione per lo sviluppo del sistema ferroviario nel Paese, naturalmente alla presenza di Berlusconi e Nazarbaev. Nel 1997, quando l’autoritario presidente decise di spostare la capitale ad Astana, l’Italia guidata dal governo di Romano Prodi fu la prima nazione a trasferire l’ambasciata.

Corriere 12.7.13
«Nel Paese la tortura è la norma»
La tortura e l’uso di forza letale da parte della polizia rimangono una pratica comune in Kazakistan nonostante le promesse del presidente Nursultan Nazarbayev alla comunità internazionale. Amnesty International in un rapporto intitolato «Vecchie abitudini: l’uso regolare della tortura e dei maltrattamenti in Kazakistan», denuncia come le forze di sicurezza agiscano con impunità e come la tortura nei centri di detenzione sia la norma. I fatti risalgono al dicembre 2011 quando le proteste nella città di Zhanaozen furono duramente represse dalle forze dell’ordine che uccisero 15 persone e ne ferirono gravemente oltre 100. Decine di persone vennero arrestate, imprigionate in celle sotterranee e sovraffollate delle stazioni di polizia e torturate. Dopo 17 mesi ancora nessuna giustizia. Nonostante alcuni poliziotti abbiano ammesso pubblicamente di aver sparato ai manifestanti, come è anche provato da numerosi video, soltanto cinque alti dirigenti delle forze di sicurezza sono stati condannati per abuso d’ufficio. Le autorità continuano a dichiarare infondate le denunce di tortura, comprese quelle fatte sotto giuramento in tribunale da persone arrestate a seguito delle violenze.

Repubblica 12.7.13
Il caso Ablyazov
Amnesty: in Kazakhstan torture sistematiche


IL KAZAKHSTAN in cui l’Italia ha rispedito d’urgenza la moglie e la figlia del dissidente Ablyazov, arrestate con straordinaria sollecitudine a Roma ed espulse con altrettanta rapidità, è sotto accusa da Amnesty International per «uso sistematico della tortura». Mentre la comunità internazionale chiede spiegazioni per il comportamento dell’Italia, un rapporto diffuso da Amnesty getta una luce sinistra sul rispetto dei diritti umani ad Astana, la capitale dell’immenso e semidisabitato stato asiatico.
«Non solo la tortura e i maltrattamenti sono radicati, ma questi non si limitano alle aggressioni fisiche da parte degli agenti delle forze di sicurezza. Le condizioni di prigionia sono crudeli, disumane e degradanti, e i prigionieri vengono puniti con lunghi periodi di isolamento », accusa il rapporto. E il dito è puntato direttamente al presidente Nursultan Nazarbaev, accusato di «ingannare la comunità internazionale con promesse non mantenute di sradicare la tortura e indagare sull’uso della forza letale da parte della polizia». Amnesty International elenca una lunga serie di drammatiche violazioni a partire dai dieci morti nella repressione per le proteste di Zhanaozen nel 2011, quando scattarono decine di arresti e una serie interminabile di denunce di torture. «È chiaro che l’asserito impegno del governo di sradicare la tortura è a solo uso della comunità internazionale». (p.g.b.)

il Fatto 12.7.13
Schiaffo alla Carta, sì del Senato al Ddl costituzionale
Approvato il testo che stravolge l’articolo 138: si crea una scorciatoia per l’approvazione delle riforme, nasce il comitato dei 42
La maggioranza ammette: “È una polizza vita per il governo”
di Luca De Carolis


Il primo colpo alla Costituzione, piazzato in fretta e furia. Celebrato come un successo dal governo dei rinvii, ma che arriva nel giorno in cui la costituzionalista Carlassare annuncia l’addio alla commissione dei saggi per le riforme “perché questa maggioranza è estranea ai valori del diritto”. Con 203 sì, 54 no e 4 astenuti, il Senato ha approvato il disegno di legge costituzionale 813. Via libera quindi al comitato dei 42 (20 deputati e 20 senatori, più i presidenti delle commissioni Affari Costituzionali di Senato e Camera), che nei 18 mesi dalla sua formazione dovrebbe riscrivere un bel pezzo della Carta: i titoli I, II, III e V della seconda parte (dal Parlamento al Presidente della Repubblica, sino alle parti su Governo e Regioni, Province e Comuni) più le norme “strettamente connesse” a quelle modificate. Sì anche alla deroga all’articolo 138, che dimezza da tre mesi a 45 giorni l’intervallo tra una lettura e l’altra in Parlamento del futuro ddl di revisione costituzionale. Uno strappo alla norma che per molti costituzionalisti rappresenta “la valvola di sicurezza della Carta”. Confermato, infine, anche un punto fondamentale per il Pdl: una nuova legge elettorale potrà essere scritta solo dopo la riforma.
IN UN’AULA con ampi vuoti (non ha votato un senatore pdl su quattro, causa ufficio di presidenza dei berlusconiani) la maggioranza ha portato a casa il suo testo. A votare contro Sel e Cinque Stelle, che hanno provato a contenere i danni con una pioggia di emendamenti: puntualmente bocciati. No alla proposta di M5S di trasmettere in streaming i lavori del comitato, “perché la gente deve avere la possibilità di formarsi un pieno giudizio sulle proposte che questi signori vorranno calarci”, come aveva sostenuto il 5 Stelle Endrizzi. Porta chiusa anche alla modifica chiesta da Sel per l’articolo 3, che vieta i sub-emendamenti di singoli deputati e senatori. “Così si lede l’uguaglianza dei parlamentari” si era sgolata Loredana De Petris. Ma la norma è intatta: a proporre modifiche al ddl del comitato potranno essere solo i presidenti dei gruppi, dieci senatori o 20 deputati. Bocciando e ribocciando, la maggioranza ha blindato il testo. Ed ha incassato il sì al ddl. Quello che De Petris ha bollato come “una polizza assicurativa per l’attuale governo, un modo per tenere assieme una maggioranza pasticciata”. Incredibilmente (o forse no) in aula il capogruppo di Scelta Civica, Gianluca Susta, ha usato lo stesso termine: “Le riforme avviate rappresentano una polizza vita per l’esecutivo”. Come a dire: finché c’è ddl, c’è speranza. E allora non stupisce il tweet gioioso di Enrico Letta: “Un passo avanti per la necessaria riforma della politica. Rispettando i tempi”.
IL MINISTRO per le Riforme, Gaetano Quagliarello, ammette quello che tutti sapevano ma nessuno diceva: “Dobbiamo approvare il testo alla Camera prima delle ferie”. L’imperativo è bruciare i tempi anche alla Camera: dove non è prevista la procedura d’urgenza su materie costituzionali (applicata in Senato), ma dove la maggioranza ha già forzato i tempi nella capigruppo, mettendo in calendario il ddl per il 29 luglio. Si andrà di corsa, per far iniziare a decorrere i tre mesi tra una lettura e l’altra da agosto. Obiettivo finale, approvare il ddl in via definitiva tra fine ottobre e inizio novembre. Nicola Morra, capogruppo in Senato di M5S: “Mercoledì lo abbiamo detto anche a Napolitano: su una materia delicatissima andrebbe fatta in modo condiviso. E invece la maggioranza va dritta”. E allora? “Cercheremo di fare ostruzionismo, ma i numeri in aula sono quelli che sono. Qualcosa ci inventeremo”. A margine, la solitudine di Walter Tocci e Silvana Amati: gli unici senatori Pd ad astenersi sul ddl, e a criticarlo. “I nostri partiti rappresentano a malapena metà del corpo elettorale, riformare oggi la Costituzione è un ardimento senza responsabilità” aveva detto Tocci martedì. C’è chi resiste fuori del Parlamento: a Bologna è nata la Rete dei comitati per la difesa della Costituzione, che annuncia una campagna di “informazione e sensibilizzazione dei cittadini”.

il Fatto 12.7.13
La costituzionalista Lorenza Carlassare
“Addio saggi, io non sto zitta”
di Silvia Truzzi


Mentre attorno alla decisione di sospendere i lavori parlamentari contro la fissazione di un’udienza in Cassazione (imputato Silvio B) si fa un gran blaterare di “scelta faticosa” e di “errori di comunicazione” (lettera dei senatori Pd), qualcuno che sbatte la porta c’è. Lorenza Carlassare, professore emerito di diritto costituzionale a Padova, ha presentato ieri le sue dimissioni dalla commissione dei saggi per le riforme. E attenzione: non c’entrano nulla i lavori della citata commissione. C’entra proprio la decisione di sospendere i lavori del Parlamento: l’organo Costituzionale deputato alla funzione legislativa, non lo sfogatoio dei malumori di un imputato.
Professoressa, cosa pensa di quanto è accaduto in Parlamento mercoledì?
È un attacco alla democrazia. Con queste dimissioni voglio protestare contro un atto che io ritengo di una gravità inaudita. Una cosa inammissibile.
Atto che ha avuto anche l’avallo del Partito democratico.
Stiamo precipitando in un baratro. Non so cosa pensare, sono indignata per quello che è accaduto. A cosa mira questo comportamento? A tacitare i giudici? Lo Stato di diritto dove va a finire? Non posso assolutamente più continuare a collaborare con la Commissione: la maggioranza ha deciso di fermare i lavori del Parlamento perché la data di una sentenza non consente a un imputato di beneficiare della prescrizione. Ma scherziamo?
Un atto intimidatorio contro i giudici che il 30 luglio dovranno deliberare sul ricorso proposto dai legali di Berlusconi contro la condanna che in appello lo ha visto condannato a quattro anni (più l’interdizione dai pubblici uffici) per frode fiscale?
Ma certo che è stata una cosa intimidatoria nei confronti dei giudici che dovranno decidere! Per questo è inaccettabile. Stiamo parlando di un potere dello Stato che sospende i lavori per protesta contro un altro potere.
I nodi delle sentenze che vedono imputato l’ex premier stanno venendo al pettine: era immaginabile che il governo e il parlamento sarebbero stati ostaggio delle proteste berlusconiane. E già un antipasto c’era stato, quando l’11 marzo i neo deputati del Pdl (tra cui alcuni futuri ministri) avevano manifestato davanti al Tribunale di Milano.
Ma quello che è accaduto in Parlamento è ancora più grave, molto più grave. Là si trattava di parlamentari, qui del Parlamento, del massimo organo dello Stato. Non un gruppo politico, ma l’organo costituzionale che sospende i lavori contro un altro potere dello Stato. Perché è questo che è accaduto.
In molti hanno taciuto. Troppi?
Sono sgomenta, esterrefatta e indignata: me lo faccia ripetere. Sono stupita dai silenzi che provengono da sedi di rilievo istituzionale e da autorità politiche. Questi silenzi sono inauditi. Le reazioni di tutti dovrebbero essere ferme e decise. Ma non dispero: sono sicura che si farà sentire presto la voce dei giuristi. È il fatto più grave accaduto in questi ultimi, tormentati, anni di vita della Repubblica.

Repubblica 12.7.13
La giurista si dimette dalla commissione dei 35 dopo il voto sul processo Mediaset: “Un’indebita pressione sulla Cassazione”
La Carlassare lascia il comitato dei saggi “Lo stop del Parlamento è una disfatta morale”
intervista di Matteo Pucciarelli


MILANO — «Siamo alla disfatta morale, per favore lo scriva» dice Lorenza Carlassare, giurista e costituzionalista. Faceva parte dei 35 saggi per le riforme, ma dopo il blocco del Parlamento voluto dal Pdl ha deciso di dimettersi. Lo ha fatto inviando una lettera al ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello, poi pubblicata sul sito di Libertà e Giustizia.
Professoressa, come mai questa decisione?
«Voglio fare una premessa: nella commissione mi sono trovata bene, anche con Quagliariello i rapporti erano e sono ottimi. Però qualcuno doveva pur fare qualcosa. Certe cose non succedono nemmeno in Africa, non so se ci rendiamo conto... «.
Quagliariello le ha risposto con un’altra lettera in cui spiega che è “prassi consolidata delleCamere deliberare una breve sospensione dei propri lavori per consentire ai parlamentari di un gruppo di partecipare ad attività di particolare rilievo”.
«Ci ho parlato con il ministro, era dispiaciuto per la mia scelta. Ma come costituzionalista sono sconvolta, si è oltrepassato ogni limite. La sospensione era in realtà un’intimidazione bella e buona verso la Cassazione. Bastava ascoltare le parole di Daniela Santanché mercoledì mattina. Certeregole devono necessariamente restare ben salde in questo Paese. Non potevo e non posso tacere di fronte a un atto di questo tipo. Sono sempre stata libera di poter dire come la pensavo nel corso della mia vita, faccio lo stesso anche adesso».
Dal punto di vista tecnico, da giurista, qual è stata la regola infranta?
«Si è infranto nel suo insieme lo spirito costituzionale. La maggioranza ha mostrato un’assolutaestraneità ai valori dello Stato di diritto, così pure il disprezzo per il costituzionalismo liberale e i suoi più elementari principi. Il bello è che poi si dicono tutti liberali».
I suoi colleghi della commissione invece come hanno commentato gli ultimi fatti?
«Non li ho sentiti. Ma noi siamo comunque un gruppo di persone messe lì a lavorare da questa maggioranza. A me dispiace andarmene. Però proprio perché la commissione è frutto delle larghe intese ho il dovere di manifestare questo dissenso. Soprattutto non comprendo il Pd: qualsiasi cosa gli chieda il Pdl loro la fanno, ma è mai possibile?».
Quindi a lei non piace questa maggioranza?
«Sono sempre stata convinta che questo governo non dovesse neanche nascere. Lo dico anche da un punto di vista politico-costituzionale, perché il percorso che ha condotto alla sua formazione mi è sempre sembrato — diciamocosì — perlomeno dubbio».
Le sue dimissioni sono legate anche al fatto che si stesse discutendo al vostro interno del presidenzialismo?
«Assolutamente no e voglio che sia chiaro. È vero che quando mi fu proposto di far parte del comitato ero assai perplessa e indecisa se accettare o meno. Ma poi sul campo mi sono trovata molto bene. L’orientamento prevalente non era quello di una modifica in senso presidenziale».
E a che punto siete, anzi eravate, arrivati?
«C’era un accordo su come migliorare il funzionamento del sistema parlamentare. Ad esempio dando al premier la possibilità di revoca dei ministri, una sola Camera politica e il Senato organo territoriale. Quindi migliorare il sistema, ma senza andare verso il presidenzialismo».

il Fatto 12.7.13
In ginocchio dal Caimano, gli elettori Pd in rivolta
Pd, nella lotta tra correnti a vincere è il CaimanoIl “tessitore” di alleanze interne (e esterne) è Dario Franceschini, ma ogni giorno ha il suo “a utogol”: 70 senatori scrivono un ambiguo documento pro governo
di Wanda Marra


Dopo il Sì al Pdl per bloccare il Parlamento contro la Cassazione, sui social n etwork Democratici esplode la rabbia della base: “Con la nostra tessera si prende Mediaset Premium?”. E la bizzarra autocritica di 70 senatori: “Errori nella comunicazione”

Il documento dei 70? Volevano fare un testo a sostegno di Letta. Però, invece di scrivere semplicemente ‘siamo con il governo. Abbiamo fatto bene a votare sì alla sospensione dei lavori mercoledì’, si sono prodotti in tutt’altra cosa”. Lo sfogo è di un autorevole professionista della comunicazione del Pd. Eccolo il testo. Primo, il problema è la comunicazione: “La distanza tra quanto comunicato e ciò che è accaduto è paradossale”. Secondo: “Ci vuole uno scatto d’orgoglio da parte del Pd e la fine degli autogol”. Terzo: “A cominciare dalla fatica e dalla responsabilità nel sostenere il governo”. Il documento parte per impulso del lettiano Francesco Rossi in aiuto del governo. Risultato? Un ambiguo pastrocchio. Le firme sono di quasi tutte le componenti (la Fedeli, Tonini, Verducci, Gotor). Ma né di renziani né di civatiani. Tanto per chiarire quali sono gli equilibri nel partito. Dice Miguel Gotor al fattoquotidiano.it : “Le minoranze cercano visibilità per il congresso”. Il nemico numero uno è sempre quello interno. E allora, il giorno dopo l’ennesimo “autogol” nel Pd si torna alle lettere, ai documenti, alle carte bollate. Spiega Francesco La Forgia, milanese, eletto con le primarie, uno degli ispiratori della corrente dei 40 senza corrente: “Nel Pd esiste un’oligarchia che decide tutto. Quello che tiene i fili è Dario Franceschini. Ovviamente Enrico Letta, che non si mischia troppo direttamente nelle vicende interne, ma ha la necessità di controllarle. Bersani, ma soprattutto i bersaniani. E Beppe Fioroni”. Nei momenti cruciali, le decisioni sono state prese da pochi e al massimo ratificate a posteriori dagli organismi dirigenti (vedi l’elezione di Napolitano). Leggendo le vicende della cronaca quotidiana con questa filigrana qualche tassello va a posto. Chi comanda nel Pd? La risposta più gettonata è “Dario Franceschini”. Ma poi, si spiega che alla fine non comanda “nessuno”, perché si tratta di un gioco di equilibri. L’equilibrista numero uno però è il ministro per i Rapporti con il Parlamento. È stato il primo facitore della mediazione che ha portato alla segreteria Epifani. Ed è quello a cui il premier delega pratiche anche importanti. Ora Palazzo Chigi deve fare una serie di nomine: Finmeccanica, la Cassa depositi e prestiti, le Poste e via di questo passo. È evidente che l’ultima parola è a Letta, ma - raccontano - è Franceschini quello che istruisce le pratiche. Bersani è in grado di contare fino a un certo punto, i Giovani Turchi sono divisi. E D’Alema magari muove i fili ma è più lontano dal gioco quotidiano. Matteo Renzi è nella posizione di quello che il potere lo deve conquistare. Come stupirsi che i Democratici nel tentativo di mantenere gli equilibri di potere accumulino errori?
Torniamo all’altroieri. Con un intervento molto poco incisivo in Aula parla Rosato. Alle mani con i grillini quasi ci arriva Piero Martino. Tutti franceschiniani. Qualche settimana fa, in Aula, Angelo Rughetti, renziano, l’aveva preso di petto: “Non è possibile che tu fai il presidente del Consiglio, il segretario del Pd e pure il capogruppo, lasciaci fare il nostro mestiere”.
MARTEDÌ sera ci sarà un’assemblea di gruppo. Una verifica. La gestione Speranza non va giù a molti, la dissidenza a molti (altri). Ieri, 13 renziani hanno inviato una lettera allo stesso Speranza e ad Epifani. Chiedono “una valutazione” di fronte ai “veri e propri insulti” rivolti da colleghi Pd ad altri deputati del gruppo. Sotto accusa, Orfini. Lui conferma di aver dato degli “sciacalli” e dei “cretini” ai dissidenti (ma di non aver detto “merda” all’indirizzo di Gentiloni): “Imparino a stare in un partito”. Arriva la controlettera (a firma di 5 tra cui Velo e Raciti, a lui vicini): “Serve calma e una riflessione approfondita sul nostro modo di stare insieme”. La calma si sa è la virtù dei forti. Forti magari anche di qualche certezza. Estratti da un dialogo con Epifani. “Segretario, ma lei sull’ineleggibilità cosa voterebbe? ”. “Se stessi in Senato saprei che fare, ma non ci sono”. “E dunque? ”. “Abbiamo ben altro a cui pensare”. Ovvero al 30 luglio. “Se condannano Berlusconi governerete con un condannato? “Ne parliamo il 2 agosto”. Con Napolitano si è lamentato dell’atteggiamento “schizofrenico” del Pdl. D’Attorre, bersaniano: “Se il Pdl fosse in grado di staccarsi dal suoi capo, potremmo anche pensare di andare avanti”. Posizione complessa. In Transatlantico si ipotizza una nuova maggioranza con Renzi premier, il Pd, un pezzo del Pdl, un pezzo dell’M5S. Ieri il sindaco mandava sms di complimenti ai dissidenti. La giornata la chiosa Nardella (renziano): “Lunedì i grillini presenteranno la mozione per dire che rinunciano al finanziamento pubblico. Speranza ci chiede di elaborare un comportamento comune. L’importante è non fare la cosa sbagliata. Come al solito”.

il Fatto 12.7.13
Roberto Speranza
Il capogruppo senza quid col congiuntivo alla Fantozzi
di m.pa.


Roberto Speranza, inopinatamente capogruppo del Pd alla Camera, è un fautore del congiuntivo alla Fantozzi: “Le sue parole ci convincono - ha detto, emozionato, a Enrico Letta mercoledì - e mi pare che aprano una fase nuova per il Paese”. Il nostro, d’altronde, come Alfano non ha il quid, ma è giovane e sta imparando: gerundio di cui necessita tanto in politica quanto in grammatica. La scorsa settimana, per dire, ha dichiarato pensoso al Foglio che “un nostro limite è stato aver seguito per troppo tempo un carrozzone giustizialista che, complice un antiberlusconismo sfrenato che ha fatto il gioco dello stesso Berlusconi, spesso ci ha costretto a curvare la nostra identità sul nostro essere contro qualcuno e non a favore di qualcosa”. Ripreso fiato , l’altroieri, per tradurre in pratica questa “rottamazione dei manettari ha dato il via libera al blocco dei lavori parlamentari chiesto dal Pdl contro la decisione della Cassazione di evitare che il Cavaliere si salvasse dal processo “diritti tv” grazie alla prescrizione.
 Ieri, poi, vista la rivolta che si era scatenata nel gruppo e nella base del partito, ha scritto una lettera agli iscritti col suo omologo del Senato Luigi Zanda: quello che vi hanno raccontato sono “bugie e falsità”, dicono i due, il Pdl voleva tre giorni di Aventino, poi ne pretendeva due, noi gli abbiamo concesso solo ieri pomeriggio per fare la riunione dei gruppi, è stata una vittoria.
CLASSE 1979, potentino, il suo talento politico è stato - per così dire - scoperto da Gianni Pittella, ex socialista, lucano pure lui, attualmente vicepresidente del Parlamento europeo per il Pd e candidato alla segreteria (i cattivi dicono solo per garantirsi la proroga al quarto mandato a Strasburgo). Dopo una precoce carriera nel movimento giovanile - anche grazie, nonostante le frequentazioni dalemiane, a Veltroni - l’occasione d’oro gliela offre Pierluigi Bersani, che ha bisogno di volti nuovi nella campagna per le primarie contro Renzi: l’ex segretario del Pd lo ricompenserà con una candidatura da capolista in Basilicata e poi con la nomina a capogruppo che ha fatto incazzare praticamente chiunque nel partito. Speranza, però, non si è lasciato abbattere dalle critiche e piano piano sta imparando il difficile mestiere del potere. Ieri, per dire, ha intuito qual è “il punto politico vero” di un’alleanza col Pdl: “Il punto politico vero - ha detto ispirato davanti alle telecamere di Omnibus - resta: secondo noi, dietro quella richiesta di bloccare il Parlamento si intravvede una contraddizione da parte del Pdl: non riuscire a dividere le vicende personali di Berlusconi dalla difesa degli interessi del Paese. Per cui la domanda che poniamo al centrodestra è questa: sono in grado di riuscire a tenere separati i due terreni?”. Ecco, la risposta è no, ma non vogliamo forzare i tempi di apprendimento del giovane Speranza.

il Fatto 12.7.13
Ettore Rosato
Franceschiniano bulldozer È il volto del “Sì” al Pdl
di Mariagrazia Gerina


Passerà alle cronache parlamentari di queste ore come l’uomo che ha alzato il pollice perché il gruppo Pd alla Camera votasse compatto la sospensione dei lavori, per accontentare Berlusconi e le sue truppe, feriti dalla “fretta” della Cassazione. “Spingi sul verde, spingi sul verde”, raccontano che continuasse a urlare ai più recalcitranti mentre la sirena scandiva gli ultimi istanti utili per ricondurre tutti al voto. Franceschiniano di ferro, vicepresidente del gruppo democratico addetto all’aula, ad Ettore Rosato, triestino dai toni pacati, è toccato uno dei compiti più ingrati nel mercoledì nero del Parlamento. Quello di dover spiegare le ragioni di un voto difficilmente comprensibile ai più. E poi di dover pure limitare i danni, evitando che troppi democratici, persi dietro le contraddizioni del suo ragionamento, si discostassero dalle indicazioni del “gruppo”. Il resoconto stenografico dell’aula resterà memorabile. “Noi siamo contrari, e lo abbiamo detto a chiare lettere in Conferenza dei presidenti di gruppo, sulla stampa e lo continueremo a dire, a qualsiasi tentativo di blocco delle istituzioni di qualsiasi tipo e da chiunque proposto”, si alza a spiegare Rosato, accompagnato dagli applausi dei deputati del Pd e di Scelta Civica, fedelmente annotati. E dispersi dal prosieguo del ragionamento. Che recita: “Con la stessa chiarezza - noi siamo per acconsentire a una richiesta che il capogruppo Brunetta ha posto in termini molto corretti e molto concreti all’interno della Conferenza dei presidenti di gruppo”. E qui gli applausi dei suoi lasciano la scena a quelli ironici – anzi “polemici”, come annota il resoconto stenografico – che si alzano dai banchi del gruppo MoVimento 5 Stelle. Accompagnati dalle grida: “Venduti! ” e “Vergogna! ”.
Da Triestino, Rosato non è uno che si scompone. Classe 1968, diplomato ragioniere al-l’ITC G. R. Carli, assunto alle Assicurazioni Generali, Rosato, cattolicissimo, muove i suoi primi passi nella Dc, prima di Tangentopoli. Per poi diventare subito dopo la giovane promessa della nuova politica triestina, al fianco del sindaco Riccardo Illy. Destinato a succedergli. Ma fermato dalla sconfitta alle amministrative del 2006. Da lì si schiudono per lui le porte della politica nazionale. “D’ora in poi verrà a Trieste scortato da due pompieri”, lo battezzarono i suoi concittadini più maligni quando divenne sottosegretario all’Interno con delega sui vigili del fuoco. Grande amico di Dario Franceschini, coordinatore della sua campagna per le primarie del Pd, lo ritroviamo qualche anno dopo che cerca di proteggere il suo “vate” dalle accuse dell’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. Nella scorsa legislatura, anche lui ha vestito i panni di tesoriere, del gruppo Pd. Stavolta gli è toccato un compito forse più ingrato.

Repubblica 12.7.13
Psicodramma a parti inverse
di Curzio Maltese


IGUAI giudiziari di un uomo politico in un paese normale dovrebbero essere essenzialmente affari suoi. Oltre che, si capisce, di dirigenti ed elettori del suo partito. Da vent’anni i processi di Berlusconi sono invece diventati problema di un intero paese. E questo è già molto anomalo. Ancora più anomalo, per non dire grottesco, è che i guai con la giustizia del capo della destra stiano diventando uno se non “il” problema del principale rivale politico, il Partito democratico.
Non si pretende (non più) dal Pd che si comporti come qualsiasi altra forza democratica del mondo di fronte a un avversario colpito da condanne gravi per reati comuni, chiedendone l’immediata uscita dalla scena politica. Non siamo una democrazia normale, è evidente, altrimenti i primi a chiedere le dimissioni di Berlusconi sarebbero i suoi compagni di partito. È tuttavia paradossale che il Pd sia riuscito a importare in casa i guai altrui e a farne occasione di feroci contrasti interni, fra dirigenti e militanti, base elettorale e vertice del partito. Insomma le condanne di Berlusconi, lungi dal mettere in crisi la destra, servilmente compatta intorno al padrone, rischiano di spaccare la sinistra. L’hanno già spaccata, anzi, fra litigi, appelli, pesanti accuse reciproche, divisioni al voto, in uno spettacolo a un tempo preoccupante e assurdo. In ballo c’è la tragica prospettiva che la condanna in Cassazione il 30 luglio possa stroncare la carriera di leader di Berlusconi. Il futuro politico di un quasi ottuagenario in Italia è evidentemente più importante del presente economico di un Paese sull’orlo del baratro, dell’avvenire dei nostri figli.
Ora, in questo ennesimo psicodramma innescato dal berlusconismo, bisognerà forse ristabilire alcuni punti fermi. Il governo Letta e la strana maggioranza che lo sostiene scaturiscono da un’emergenza nazionale che non sono i processi di Berlusconi. Si tratta di un governo chiamato a fare due o tre cose essenziali, lo stimolo alla crescita, il controllo del debito pubblico e una legge elettorale decente, utile e perfino costituzionale. Per compiere questa missione nell’interesse del Paese, il Pd ha messo in conto di accettare qualche compromesso con l’alleato col quale, aveva detto, non avrebbe mai governato. Contro l’opinione di milioni di elettori, compreso chi scrive, ha fatto prevalere il valore della governabilità su ogni altro. Ma se la governabilità finisce per annientare l’identità stessa del Pd, allora tanto vale chiudere l’esperienza e tornare al voto. Dopo aver cambiato la legge elettorale, s’intende, perché il presidente Napolitano ha già detto e ripetuto che non scioglierà mai le camere con il Porcellum imperante.
Quello che il governo delle larghe intese aveva promesso agli italiani, in cambio del tradimento del mandato elettorale, era un’assunzione piena di responsabilità da parte di un ceto politico che per due decenni ha lasciato marcire i problemi del Paese per concentrarsi sui propri. E in particolare sui problemi di uno solo. Se dopo poche settimane siamo ancora lì, con una maggioranza appesa alle vicende personali del solito noto, in grado di paralizzare la vita politica e bloccare i lavori parlamentari, allora è stato tutto inutile. Ne prendano atto e tornino a casa. Non si può fermare una nazione perchéil più ricco di tutti, secondo vari tribunali della Repubblica, non ha pagato le tasse. Tanto meno una nazione dove ogni settimana un piccolo imprenditore si uccide perché di tasse ne ha pagate troppe.

Repubblica 12.7.13
Abolire subito il Porcellum
di Gianluigi Pellegrino


ADESSO più che mai l’abolizione del porcellum costituisce un’urgenza democratica. Un dovere costituzionale che un governo che si proclama di necessità per il bene del Paese deve avvertire come priorità assoluta. E che il Presidente della Repubblica dovrebbe cercare di imporre con ogni mezzo al vertice dell’agenda nazionale, perché un paese senza una praticabile legge elettorale è privo di effettiva agibilità democratica.
Una regola legittima e riconosciuta dai cittadini non svolge la sua funzione solo in caso di elezioni, ma agisce ogni giorno come monito ed opportunità per tutti gli attori in campo. È la precondizione esistenziale di una democrazia: vitale come è per un corpo l’aria che si respira. Altrimenti è come un fiume rimasto senza fonte. Smette di scorrere, ristagna, imputridisce. Diventa pantano, buono solo per tafani, alligatori e, appunto, caimani.
Se questo è vero sempre, figuriamoci in questo desolante passaggio italiano dove un atto dovuto del vertice della giurisdizione ha scatenato una crisi politica e una ridda di ultimatum al governo. Ma ci troviamo a dover subire tutto perché tanto “finché c’è il porcellum…”. Così diventano possibili i più disparati ricatti che non sai se definire eversione o disperato folklore, ma anche la paralisi e i veti incrociati trovano il terreno più fertile. Tocchiamo così con mano che la riforma elettorale è la precondizione per la stessa ipotesi di una qualche efficacia dell’azione della legislatura: dal versante economico a quello delle vagheggiate riforme istituzionali si può coltivare un lumicino di speranza di un sussulto virtuoso delle larghe intese, solo se i partiti avvertono come un monito sempre possibile il ritorno all’esame dei cittadini. Se invece resta l’impedimento del porcellum è come pagare una tassa da paralisi decisionale ogni minuto che passa.
Ecco perché un governo coerente con quel che dice, dovrebbe oggi mettere la legge elettorale davanti a tutto. Lo si è voluto politico e non tecnico proprio per accelerare le mediazioni anche su questo fronte dove gruppi parlamentari e partiti sono fisiologicamente bloccati dal proprio calcolo particolare, come avviene del resto per la legge sul finanziamento. Scriva allora il governo una norma elettorale per collegi uninominali (come chiedono Pd e M5S) con un secondo turno nazionale per l’attribuzione del premio di maggioranza (come è più congeniale al Pdl), riservando una quota proporzionale come diritto di tribuna per le più piccole minoranze. Una norma semplice idonea a risolvere insieme gran parte dei problemi istituzionali e non sbilanciata a favore di nessuno. Un sistema che andrebbe bene persino ove dovesse passare il presidenzialismo.
La scriva il governo e la porti di urgenza alle camere; chi si oppone se ne assume la responsabilità e ogni relativa conseguenza. Se invece come è doveroso la norma elettorale passa non c’è nessun automatismo che porti solo per questo al voto anticipato. Anzi il consiglio d’Europa raccomanda che le riforme elettorali siano sganciate e il più possibile lontane dall’appuntamento con le urne. Ciò che soltanto cambierebbe è che il governo resterebbe in piedi sino a quando ha benzina nel motore ed è davvero utile per il paese.
Per questo Letta deve farlo, se è vero che non vuole tirare a campare. E lo dovrebbe pretendere il Pd se non vuole confermare nei suoi elettori l’amara sensazione che l’intesa con il Pdl stia cambiando natura; da coabitazione provvisoria necessaria per il paese, a sodalizio politico per i più retrivi interessi di bottega.

Repubblica 12.7.13
Ineleggibilità, nuovo duello nel Pd
Speranza: noi contrari. Casson: non mi risulta. Parte l’esame in giunta
di Liana Milella


ROMA — Il diktat dei vertici del Pd “gela” l’avvio del dibattito sull’ineleggibilità nella giunta per le elezioni ed autorizzazioni del Senato. Casson resta pressato tra Speranza e Finocchiaro. Il Pdl ne approfitta per prendere tempo. Il relatore Augello chiede di attendere l’eventuale memoria difensiva di Berlusconi, magari ancora in viaggio, e soprattutto il dibattito. Casson chiede pubblicamente quello che aveva anticipato sui media, acquisire subito la sentenza di condanna in appello per il processo Mediaset, ma anche le concessioni e autorizzazioni di cui Berlusconi è stato titolare. Quando il Pdl Caliendo obietta l’irritualità della richiesta e dice che non ci sono né concessioni né autorizzazioni, l’ex pm Casson lo gela così: «Allora vorrà dire che manderemo la Guardia di finanzia a prenderle ». Anche l’M5S fa la sua parte. Non presenta ancora il suo promesso dossier sull’ineleggibilità di Berlusconi, ma accusa il Pdl di fare melina e di voler ritardare i tempi, ovviamente in polemica con Augello e Caliendo.
Si sapeva già che la discussione sull’ineleggibilità avrebbe spaccato e fatto soffrire il Pd. Puntualmente la divisione si è manifestata. Sono le 11 quando il capogruppo alla Camera Roberto Speranza interviene sul tema. Parole pesanti le sue. «Secondo la legge del ’57 Berlusconi non è ineleggibile, quindi noi come sempre abbiamo fatto, rispetteremo la legge. Questo è anche è anche l’orientamento del segretario nazionale». Poi la pietra tombale: «Un partito non può “stirare” una legge per motivi politici». Quando sono le 17 ecco che la stessa linea viene ribadita a palazzo Madama da Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali. Anche queste parole inequivocabili: «A mio avviso, con questa legge, è difficile che si possa dichiarare l’ineleggibilità per Berlusconi. Va cambiata la legge perché non fotografa in maniera compiuta le ragioni per cui dovrebbe subentrare l’ineleggibilità ». Se il Pd, in giunta, vota con il Pdl — a parte le conseguenze al suo interno — Berlusconi si salva subito perché i possibili orientamenti del relatore Andrea Augello sarebbero direttamente accolti e quindi la pratica dell’ineleggibilità non verrebbe neppure sottoposta al successivo parere dell’assemblea.
Tra le due dichiarazioni di Speranza e di Finocchiaro ecco la riunione della giunta. Alle 14, al Senato, a palazzo Sant’Ivo alla Sapienza. La pattuglia del Pd si confronta, chi è favorevole a sfruttare al massimo i margini lasciati dalla legge 361 del ’57, come l’ex presidente della provincia dell’Aquila Stefania Pezzopane o l’ex pm Felice Casson, vanno avanti. Il relatore Augello espone il caso, parla delle precedenti quattro votazioni alle Camere — ’94, ’96, 2002, 2006 — in cui non c’è stata neppure storia, Berlusconi è stato dichiarato pienamente eleggibile. La legge del ’57 parla di concessioni «in proprio» e, scrive Augello, questo deve intendersi «in nome proprio», mentre nel caso del cavaliere c’è stata una cessione. Sempre Augello riporta anche il precedente del senatore Vittorio Cecchi Gori, anch’esso dichiarato eleggibile, perché non titolare «in proprio» dei canali Telemontecarlo e Videomusic. Ma lo stesso Augello, che pure potrebbe chiudere con una richiesta di eleggibilità, preferisce rinviare per due motivi: la memoria difensiva di Berlusconi e l’opportunità di seguire il dibattito in giunta su un caso che lui stesso definisce «politicamente rilevante anche per la complessità giuridica della questione». A quel punto Casson fa la sua richiesta di acquisire la sentenza Mediaset dalla quale si deduce che Berlusconi è il padrone effettivo delle sue aziende. Vedremocome andrà a finire.

Repubblica 12.7.13
Orfini: i contrari alla proposta del Pdl hanno manifestato il loro dissenso solo al momento del voto per ottenere qualche “mi piace” su Facebook
“Sciacalli quei miei colleghi schierati contro il partito”
di G. C.


ROMA — «Sciacallaggio è un giudizio politico colorito, ma meno pesante che dire “rottamiamoli tutti senza incentivi”». Matteo Orfini, leader della sinistra del Pd, è accusato dai renziani di avere offeso i dissidenti del partito.
Orfini, finisce a insulti?
«Non ho insultato nessuno. Ho dato un giudizio politico su quello che è avvenuto. Noi siamo stati quattro ore a non fare nulla, mentre era in corso una discussione sulla richiesta di sospensione dei lavori parlamentari da parte del Pdl. In quelle quattro ore, chi non era d’accordo perché non l’ha detto? Perché non ha chiesto la riunione del gruppo? Invece hanno manifestato il loro dissensosolo al momento del voto in aula. Un modo di fare curioso, per ottenere qualche “mi piace” su Facebook. Non si sta così in un partito, perché se non si è d’accordo lo si dice. E si evita di utilizzare il dissenso per guadagnare qualche consenso personale, danneggiandoil Pd».
Però “persone di merda” non è un giudizio politico, è un’offesa.
«Sciacalli sì, merda non l’ho mai detto».
Insomma si è pentito delle parole usate?
«No. È una valutazione politica la mia. E si è fatto sciacallaggio sul corpo già debilitato del Pd. Questo è accaduto perché non si vuole discutere ma solo prendereposizione a fini congressuali. Ci si comporta esattamente come nei giorni dell’elezione del presidente della Repubblica. Non continuerei a fare danni in questo modo ».
E’ stato richiamato dal capogruppoSperanza?
«Ma no! Sono colpito che le accuse di cattive maniere vengano dalla parte politica che in questi anni ha fatto dell’aggressione e della richiesta di “rottamazione” nei confronti di alcuni compagni di partito la sua ragione d’essere. Che ora si richiamino al bon ton, è sorprendente. Stiamo al merito ».
Nel merito, il Pd può sottostare ai ricatti di Berlusconi?
«Noi non siamo stati ricattati da Berlusconi: il Pdl ha chiesto di poter discutere e noi lo abbiamo sempre accordato».
E se Berlusconi dovesse essere condannato, così accadrà?
«Di fronte a una condanna definitiva di Berlusconi, o il Pdl prenderà le distanze dal Cavaliere, dimostrando di occuparsi del-l’Italia e non dei problemi di Berlusconi, oppure è impossibile continuare l’alleanza».
Il Pd dovrebbe essere pronto a una crisi di governo?
«I Democratici sono al governo per risolvere i problemi degli italiani, non quelli di Berlusconi».

Corriere 12.7.13
Insulti come «giudizi politici» L’addio alla disciplina del Pci
Orfini: sciacalli? Mi aiuta a esprimere un concetto
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — L’ultima polemica che divide il Pd è più ruvida del solito; a tratti, scivola nel turpiloquio.
Per ricostruirla occorre tornare a mercoledì pomeriggio, in Transatlantico.
Provate a immaginare: il colpo d’occhio è quello delle grandi occasioni. Lampadari accesi e nemmeno più un posto a sedere sui divanetti; gente che parla in piedi, gente che cammina. Deputati, portavoce, portaborse, funzionari, imbucati, cronisti, commessi. Solito circo.
Da pochi minuti è stata votata la decisione di interrompere i lavori per «una pausa di riflessione» chiesta dal Pdl (a favore Pdl, Pd e Scelta civica; contrari Sel, Lega e M5S). In realtà il Pdl, polemizzando con la Cassazione e per esprimere solidarietà a Silvio Berlusconi, aveva chiesto che il Parlamento restasse chiuso addirittura per tre giorni. La mediazione del ministro Dario Franceschini, capo delegazione del Pd al governo, ha ridotto i tre giorni in tre ore. Ma al momento del voto il Pd si è spaccato.
Esce dall’aula l’onorevole Matteo Orfini (ha 38 anni e una biografia scarna, lineare, solida: comincia a fare politica da ragazzo nel liceo Mamiani, a Roma, quartiere Prati; nello stesso quartiere diventa poi segretario della sezione Ds di piazza Mazzini, che è anche la sezione di Massimo D’Alema, dimostrazione plastica che la vita è fatta di passioni, e coincidenze. Orfini inizia così a collaborare con D’Alema, fino a diventarne un formidabile portavoce, capace di replicare toni e pause dell’eloquio, ma ancora molto diverso nell’abbigliamento: ai piedi, un paio di scarpe da riposo che D’Alema boccerebbe con mezzo sguardo).
Pochi passi e Orfini si ferma accanto a un gruppetto di cronisti. Chiacchiere, commenti al voto, alla spaccatura del Pd. La conta di quelli che si sono astenuti, di quelli che non hanno votato. Come Paolo Gentiloni.
Orfini: «Gentiloni è una merda».
I cronisti ascoltano, e c’è chi renderà il concetto meno aspro, chi eviterà di riferirlo; Maria Teresa Meli sul Corriere scriverà invece ciò che ha sentito. Appunto: «Gentiloni è una merda».
Orfini, a questo punto, si allontana e, interpellato dai cronisti delle agenzie di stampa, cambia registro. Gli chiedono: cosa pensa dei suoi colleghi che non hanno votato? Orfini, lapidario: «Sono sciacalli».
Il giorno dopo, ieri.
Tredici deputati del Pd scrivono una lettera al segretario Guglielmo Epifani e al capogruppo alla Camera Roberto Speranza. Succo della lettera: «Di fronte a veri e propri insulti rivolti da colleghi del Pd ad altri deputati del gruppo, crediamo sia opportuna una valutazione da parte vostra per capire se non siano stati superati i confini minimi della decenza».
I firmatari (tra cui Michele Anzaldi e Francesco Bonifazi) siedono quasi tutti tre file sotto a Orfini. Che li osserva gelido. Con uno sguardo, per capirci, simile a quello che metterebbe su D’Alema, tra il perplesso e il disgustato.
Orfini, non pensa di aver esagerato?
«No».
Quelle parole, così volgari...
«Io non ho mai detto a Gentiloni che è una merda. Mai. Ci siamo scambiati alcuni sms dopo aver letto i giornali. E lui, con lealtà, ha ammesso di non avermi mai sentito pronunciare una simile parola».
Infatti è davanti ai cronisti che lei ha definito Gentiloni in quel modo.
«Ripeto: io non ho mai detto che Gentiloni è una merda... mentre non ho problemi a confermare che molti miei colleghi sono degli sciacalli».
Nemmeno questo è un bel termine.
«Lo so: ma ha la forza di aiutarmi a esprimere un giudizio politico».
Continui.
«C’è poco da aggiungere: hanno avuto la faccia tosta, lo stomaco, di lucrare su una vicenda complessa come quella che abbiamo affrontato, trasformando un momento di vita parlamentare in un antipasto del congresso. Uno schifo».
Lei, onorevole, continua ad usare concetti molto forti.
«Hanno avuto tre ore per porre i loro problemi, ma i dubbi gli sono venuti solo al momento di votare... Sciacalli, Nient’altro che sciacalli».
Mentre Gentiloni replica via Twitter («Sono fiero di non aver votato ieri. A @orfini che mi dice: non sei una m. ma solo uno sciacallo rispondo: occhio agli amici del giaguaro»), Emanuele Macaluso, 89 anni, giornalista ed ex sindacalista ed esponente di rango del Partito comunista, sente questi discorsi, queste parole, e trasale.
«Che volgarità... Ma davvero sono volati simili insulti? Oh, se ripenso al genere di linguaggio che veniva utilizzato nella sinistra italiana, un tempo, al tempo del Pci... ».
I suoi ricordi...
«Nulla, nulla di lontanamente paragonabile a ciò che si sente dire a questi giovani signori. Certo, anche noi polemizzavamo, e con vigore, con tenacia... E poteva esserci uno come Pajetta che magari aveva un carattere un po’ ruvido... Ma ogni scontro era ben dentro certe regole dialettiche, di educazione e rispetto reciproco».
Quando Giorgio Amendola avvertiva qualche soffio di dissidenza poteva arrivare a parlare di «contrabbando revisionista»...
«Ma certo! Gli interlocutori potevano essere accusati al massimo di aver detto una sciocchezza, di pericoloso disfattismo... e anche se, in qualche rara circostanza, si arrivava ai toni più accesi, si restava sempre dentro una certa forma, cercando magari l’eleganza della metafora... E questo, mi creda, valeva per tutti».
Anche per Il Migliore.
Per dire: quando due partigiani comunisti reggiani come Aldo Cucchi e Valdo Magnani accusarono Botteghe Oscure di aver venduto anima e ideologia a Mosca e furono per questo espulsi dal Pci, Palmiro Togliatti spiegò che «due pidocchi erano finiti nella criniera di un cavallo da corsa». E quando poi dovette polemizzare con Giuseppe Prezzolini, disse: «È una meretrice vecchia, venduta su tutti i marciapiedi».
A scavare nella memoria della sinistra italiana, si rintracciano mille scontri, ma quasi sempre affrontati con toni misurati. Ci fu Achille Occhetto che definì «un giuda» Antonio Bassolino. E sempre Occhetto che, a sua volta, si sentì paragonare a «Pulcinella» da D’Alema (che poi, però, smentì).
Ecco, a proposito: cosa penserà D’Alema delle parole usate dal suo ex portavoce Matteo Orfini?

da Repubblica 12.7.13:
L’ex ministro Barca boccia la decisione di sospendere i lavori parlamentari, e definisce in un’intervista alManifesto «dorotei » i dirigenti del partito: «Sono dorotei, e uso questa espressione perché verifico un’apparente condivisione, ma una chiara voglia di non confrontarsi. Mi si dica che sbaglio, ma nessuno me lo dice».

Repubblica 12.7.13
L’Amaca
di Michele Serra


Nel convulso pomeriggio della serrata di Montecitorio (onde permettere al Pdl di riunirsi per decidere se imbracciare i fucili o telefonare a Ghedini) il capogruppo del Pd, Zanda, ha detto più o meno così: è del tutto impensabile che il Parlamento possa sospendere i suoi lavori. Dunque li sospendiamo solo per qualche oretta. Dev’essere del Pd – ho pensato – un elettrauto del mio paese che quando va a bere il caffè, nel dubbio di essere troppo perentorio, espone il mirabile cartello “torno quasi subito”.
Si capisce che fare il capogruppo del Pd non è un lavoro facile. Diciamo, però, che Zanda ci aggiunge del suo. Una volta enunciato un princìpio, renderlo elastico non è facile come tirare la pasta sfoglia. Dire che il Parlamento non può tirare giù la serranda come fosse un ortofrutta e aggiungere un secondo dopo che dopotutto si tratta sì di una chiusura, ma piccolina, equivale a non avere ascoltato quello che la propria stessa bocca ha appena detto. Ovvero: Zanda, in una manciata di secondi, ci ha fatto capire che quando si dice che il Pd è dilaniato al proprio interno non ci si riferisce tanto alle correnti,quanto a ogni suo singolo membro.

Repubblica 12.7.13
I militanti processano i vertici del Pd “È ora di finirla con i compromessi state realizzando i desideri di Silvio”
La rivolta dai circoli al web. “Proviamo vergogna per voi”
di Sebastiano Messina


Certo, è difficile non riconoscere il lessico dei grillini, in tanti post, ma i messaggi di protesta e di rabbia sono centinaia e centinaia. I più feroci sono apparsi sotto la lettera dei capigruppo Speranza e Zanda. Risposta numero uno: “Dopo quello che avete fatto non darò più alcun voto, dovete alzarvi e andarvene” (Nicola Basti). Risposta numero due: “Hai voglia di fare i comunicati, i fatti parlano e dicono che il Pd è diventato lo zerbino di Berlusconi” (Roberto Pantani). Risposta numero tre: “Vergognatevi!!!” (Oreste Pasina). E via così, fino alla risposta numero 385, quella di Pierpaola Pochi, scritta con lo stile perentorio di un sms: “Forse nn avete capito ke a noi del Pd nn va sto governo!”. Chissà se li leggono, questi messaggi, al Nazareno.

LA BASE non capisce, non ci sta, anzi è furibonda. Dai blog a Twitter rimbalza la rabbia dei militanti del Pd per una decisione così indigesta — la mezza giornata di stop al Parlamento concessa al partito di Berlusconi — che i due capigruppo Speranza e Zanda hanno dovuto scrivere a tambur battente una lettera “ai circoli e agli iscritti del Pd” per garantire che il Partito democratico “non permetterà al Pdl di giocare con la vita del Paese”, una lettera che su Facebook è stata accolta da una valanga di sfottò. Proprio mentra arrivava, pesantissimo, il dissenso del segretario del Pd bolognese, Raffaele Donini: “Più si va avanti più è insopportabile l’idea di condividere l’azione di governo con un signore pluriinquisito e condannato che ancora tenta di tenere in ostaggio il Parlamento preoccupato soltanto dei suoi problemi giudiziari”.
Certo, se la base fosse quella che ieri sera frequentava la mitica “sezione Giubbonari” di Roma, quella dove Bersani venne a festeggiare la caduta del governo Berlusconi e dove Fabrizio Barca ha presentato il suo programma, il Pd di Epifani potrebbe tirare un sospirone di sollievo. Qui, infatti, quattro su cinque approvano la decisione di fermare il Parlamento per quella contestatissima mezza giornata. E quattro su cinque non è una proporzione, perché alle sei di sera sono proprio in cinque, attorno al tavolone rosso del circolo. “Un malessere c’è, per la scelta di fare questo governo” ammette la segretaria, Giulia Urso. “Ma una volta fatta la scelta — aggiunge — bisogna essere coerenti e rispettare le decisioni del partito”. Cesare, lunghi capelli ricci e grigi,romano de Roma, allarga le braccia: “Se je dicevamo de no, quelli se n’annaveno lo stesso. E allora, de che stamo a parlà? Argomento effimero, aria fritta”. Franco, attore astigiano con la camicia gialla, concorda con la sua voce stentorea: “Gli abbiamo concesso mezza giornata? E vabbè. Fosse solo quello, dico io, andrebbe bene. Il fatto è che noi italiani siamo ancora sotto lo schiaffo di quello lì, e finché non ce ne liberiamo…”.
Il più convinto di tutti è Alberto, un cinquantenne lungo e secco: “Dov’è lo scandalo? Settanta senatori protestano? Ormai si fa di tutto per andare in tv…”. L’unico che dissente, nello stanzone di quella che una volta era la Casa del Fascio,è Stefano, un ragazzo ungherese (“Ma con la tessera del Pd”) che sta davanti al suo notebook: “Dal punto di vista costituzionale il gruppo del Pdl aveva tutto il diritto di chiedere la sospensione dei lavori per riunirsi…”. Però? “Ecco, dal punto di vista etico no, e secondo me il Pd non avrebbe dovuto accogliere quella richiesta”.
Quattro su cinque, dunque. Peccato che sul web, ormai anche per il Pd la piazza virtuale del Paese, le cose non vadano come al circolo Giubbonari. Anzi, qui le proporzioni sono, diciamo così, leggermente diverse. Perché aprendo la pagina ufficiale del Partito democratico su Facebook, la risposta di Epifani alla richiesta del Pdl ha ricevuto in un giorno 388 adesioni (“mi piace”) ma il triplo di commenti (1151). Più che un diluvio, un uragano. Certo, il segretario incassa l’appoggio di Ugo Minini (“Una semplice tattica parlamentare per disinnescare una mina, dopodiché non cambia nulla per i processi a Berlusconi!”). Peccato che per arrivare a leggere ilpost di Minini, il primo a favore della segreteria sia necessario scorrere i 91 che lo precedono: una mitragliata di accuse feroci, insulti al vetriolo, battute beffarde e messaggi d’addio.
C’è l’amarezza dei militanti e la delusione degli elettori: “Noi ci mettiamo la faccia, adesso basta giocare a briscola! Veniamo via, ché è già troppo tardi” scrive Gaetano Magliano. “Ci sono dei momenti in cui occorre tassativamente dire no e mercoledì era uno di questi” avverte Franco Pratola. “Mi vergogno di avervi votato, non dovevate accettare nessun tipo di compromesso!” annuncia Silvia Ghinassi. “Epifani — scrive Ernesto Salibra — la gente è incazzata per la nascita del governo Letta e ora vi mettete ad esaurire i desideri di Berlusconi. La gente non ci voterà più”. “Perché perché perché perché?” domanda Katia Martelli con dodici punti interrogativi. “Non ci si doveva prestare neanche per mezzora. Non si sottostà ai ricatti, mai!” manda a dire Paolo Soccio.
E non è una tempesta isolata. Da mercoledì mattina, qualunque annuncio venga pubblicato sulla pagina ufficiale del partito è accolto con lo stesso trattamento. Il Pd comunica il via alle iscrizioni on line? Ecco i primi tre commenti: “Vergognatevi complici dei mafiosi truffatori e pedofili” (Salvatore Pinto), “Ma mettendo la tessera nel decoder riceverò anche Mediaset Premium?” (John Smith), “Ma siete scemi?” (Giuseppe Alesso). Viene annunciato il sì alla riforma del voto di scambio? E si scatena il sarcasmo: “Guardate che con questa riforma vi arrestano il capo: il nano” (Valeriano Gurieri), “Ma come fate a votare leggi contro voi stessi?” (Maurizio Ventura). “Avete deciso di costituirvi?” (Caterina Campitelli).

il Fatto 12.7.13
“Liberiamoci dall’abbraccio mortale con B.”
Elettori e militanti chiedono una svolta
Occupy Pd: “Il Congresso, ultima spiaggia”
di Beatrice Borromeo


“Aderisci al Pd online”: così i democratici inconsapevoli, sulla loro pagina ufficiale di Facebook, scatenano le perfide ironie degli (ex) elettori. Medaglia d’oro a John Smith, che si chiede: “Ma mettendo questa tesserina nel decoder riceverò anche Mediaset Premium? ”. Seguono altre domande: “È compresa anche la gita ad Arcore? ”, “Mi pagate? ”, “Non avevate spazio per la L? ”, “Ma che, so’ stronzo? ”. Poi qualche affermazione: “Andate a cagare”, “sparatevi”, “Pdl-live, siete fantastici”, “Emilio Fede vi fa una pippa, servi! ”. E una proposta: “Facciamo un minuto di silenzio per l’idea geniale”.
PERCHÉ IL GIORNO dopo – davanti al partito “inginocchiato”, che si accoda ai diktat del Cavaliere votando “sì” alla sospensione dei lavori parlamentari – assimilato quello “spettacolo terribile ” (come l’ha definito un giovane deputato ancora disorientato), la domanda che sintetizza gli umori della base è questa: “Cos’è sta puzza di cadavere? ”. I militanti, da ieri, si dividono in due: quelli che si esprimono a insulti e quelli che non riescono neanche più a parlare, che vogliono solo dimenticare. E basta fare un giro alla festa dell’Unità, a Roma, per notare che chi c’è (e sono pochi) è lì solo per “le salsicce, una birra, un giretto. Il Pd? Non me lo dovete no-mi-na-re! ”.
Alla fase dell’accettazione, invece, non si avvicinano neanche i giovani di “Occupy Pd”, che ieri si sono riuniti per programmare nuove invasioni delle sedi del partito. E anche se le letture, in giro per l’Italia, sono diverse (per qualcuno il partito è morto martedì, per altri deve sopravvivere almeno fino al congresso), il denominatore comune è la frustrazione. “È stato un disastro totale. I nostri dirigenti sono dei pazzi scatenati”, dice Elly Schlein, volto e voce di un movimento che si fa sempre più agguerrito. Ieri mattina, raccontano gli attivisti, “siamo andati al lavoro tranquilli, perché i nostri avevano escluso l’ipotesi di seguire il Pdl. Invece nel pomeriggio l’hanno fatto davvero”. Le giustificazioni ufficiali, quelle che richiamano prassi parlamentari e tecnicismi, sono “fastidiose come zanzare”: secondo il torinese Daniele Diotti “c’era da prendere una decisione ovviamente politica, che non osino negarlo. Ormai è evidente che l’agenda del Pd la dettano i processi di Berlusconi, e ci minacciano pure di far cadere il governo: il 30 luglio è diventata la data del-l’Apocalisse anche per noi. Vi pare possibile? ”. Il tenore dei ragionamenti è lo stesso, dal Nord alle isole. Con la convinzione diffusa che abbandonare quel che resta del Pd, e creare un nuovo gruppo, non è un’opzione: “Se pensassimo che la base ragiona come quei porci dei dirigenti ce ne andremmo, ma non è così. Gli elettori sono furiosi e basiti da questa autoreferenzialità”, dice Elly dalla cadenza romagnola.
E SE LE ANIME di Occupy Pd sono “sconvolte, incazzate” e si preparano “all’ultima battaglia ” (quella “per cambiare il partito al prossimo congresso”), gli elettori comuni sembrano sempre più disinteressati. Al parco Schuster, davanti all’imponente basilica di San Paolo, c’è chi lancia occhiate furenti se solo orecchia il nome di qualche dirigente (“speriamo non si facciano vedere: come Franceschini, che ha colto l’occasione della pioggia per dare buca”). Un signore, al tramonto, cerca un po’ di pace facendo il saluto al sole, mentre girando tra i chioschi, proprio alla festa dell’Unità, la risposta è sempre la stessa: “Di politica non voglio sentir parlare”.

l’Unità 12.7.13
Il limite dei ricatti
Nessuna esigenza di governabilità può prevalere sulla legalità repubblicana
di Michele Ciliberto


Non è una scoperta di oggi la natura eversiva del berlusconismo. e Quando uso questo aggettivo mi riferisco all'azione continua e sistematica che esso ha svolto negli anni, fin dalla nascita, per distruggere l'equilibrio dei poteri proprio di una Repubblica parlamentare e, in modo specifico, per ridurre alla (sua) ragione il potere giudiziario.
Si capisce, questa pulsione inarrestabile: prima di entrare in politica Berlusconi ha costruito il suo potere forzando i confini della legge, come è risultato chiaro dall'esito di molti dei processi in cui è stato presente come protagonista principale. Questa è, in senso proprio, la colpa originale della sua vicenda politica e non è cancellabile né con un colpo di spugna né con un atto di grazia: i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Del resto, come egli stesso ha avuto modo di dire nel 1994, Berlusconi è sceso in campo per salvare le sue aziende. Lo ha fatto quando si è reso conto che il sistema politico tradizionale da cui era stato lungamente aiutato e protetto era entrato in una crisi irreversibile e che questo apriva uno spazio inedito a una sua azione diretta, imperniata su una ripresa in forma originale del ruolo politico e della funzione di governo della destra nel nostro Paese dopo la fine della cosiddetta prima Repubblica. Alle radici del berlusconismo c'è questo intreccio di affarismo e di politica, da cui sono scaturiti come effetto necessario ed inevitabile l'attacco contro la magistratura e il varo inarrestabile di decine e decine di leggi ad personam che avevano l'unico scopo di salvaguardarlo, di metterlo al riparo dalle leggi della Repubblica.
Da questo punto di vista l'attacco sferrato in questi giorni contro la Corte di Cassazione è l'ultimo, e non sorprendente, anello di una lunga catena. Neppure è cosa nuova il coinvolgimento del Parlamento nella lotta contro la magistratura. Nuovi sono invece il livello di questo coinvolgimento e il tentativo di irretire in questo scontro, in nome della governabilità, il Pd fino a minacciare la crisi del governo se la Cassazione, che sta solo difendendo la legittimità e la stessa possibilità di un processo, non si piega ed accetta il diktat di Berlusconi e dei suoi amici.
Anche questa minaccia può essere comprensibile: quando si arriva «alle porte co' i sassi» (come si dice a Firenze), tutto diventa possibile, anche un gesto disperato. Comprensibile, ma non accettabile, tanto meno condivisibile. Quello che bisogna fare in una situazione come questa è mantenere anzitutto i nervi saldi, senza farsi coinvolgere in un’azione che tende a trasformare una vicenda giudiziaria personale in una questione politica nazionale. Nessuna esigenza di governabilità può prevalere sulla legalità repubblicana.
E poi, venendo al merito delle minacce di Berlusconi e dei suoi: quale può esserne l'effetto? Far saltare il governo, rompere con il Pd, andare alle elezioni? E, ammesso che questo avvenga: quali sono i vantaggi che Berlusconi potrebbe ricavarne? Come egli è il primo a sapere, proprio la partecipazione a questo governo è per lui e per il suo partito anche una estrema linea di sopravvivenza: dopo c'è il baratro, per entrambi. Niente, infatti, gli garantisce di vincere le elezioni e niente gli garantisce di poter tornare al governo. Anzi. Oggi Berlusconi e il Pdl sono in una condizione di gravissima difficoltà, perché tutti i nodi stanno arrivando al pettine, tutti insieme e sul terreno più delicato e impermeabile.
Farebbero bene i dirigenti del Pdl più accorti e consapevoli a riflettere su questo, senza mettersi a fare minacce a destra e a sinistra: hanno poche armi nei loro arsenali. Ma se intendono andare avanti su questa strada lo dicano e lo facciano in modo formale, ufficiale. Vadano dal Presidente della Repubblica, si assumano le loro responsabilità, aprano la crisi. Non è detto che si debba di necessità andare alle elezioni; ma meglio riandare a votare e cercare di aprire una pagina nuova piuttosto che stare a marcire nella palude in cui il Pdl vorrebbe cacciare il Paese, intaccando giorno dopo giorno le fondamenta della Repubblica e della legalità repubblicana. Viene il momento in cui l'etica della convinzione deve far risuonare la sua voce, e farla sentire anche all'etica della responsabilità, perché diventa difficile distinguere tra l'una e l'altra. È il momento più difficile quello in cui si manifesta, se c'è, l’autonomia e la dignità della politica. Oggi siamo in uno di questi momenti. E questo vale per tutti i protagonisti della vita politica nazionale, a cominciare dal Pd il quale ha sulle spalle responsabilità nazionali assai grandi: per il presente e per il futuro, per se stesso e per l'Italia. Sarebbe bene ne avesse consapevolezza.

ma il prima pagina l’articolo che segue è lanciato con il titolo (non affatto equivalente!) “Per salvare il Paese”...
l’Unità 12.7.13
Chi tradisce il patto per salvare Paese
di Emanuele Macaluso


La Cassazione, applicando la legge, ha anticipato un processo in cui è imputato Berlusconi e il sistema politico italiano sballa mettendo in difficoltà tutte le istituzioni. Sapevamo da tempo che il Pdl è un partito personale e padronale, ma la reazione dei suoi parlamentari rivela un quadro più inquietante di ogni immaginazione.
Pensare di bloccare per tre giorni il Parlamento, di imitare ridicolmente l'Aventino, nel momento in cui quel «partito» è impegnato in un governo di necessità per fronteggiare un'emergenza economica sociale e istituzionale, ci fa capire il carattere della crisi che attraversa il paese. E la reazione nevrotica del Pd agli accadimenti provocati dal suo temporaneo alleato di governo completano il quadro. I tentativi di Berlusconi e dei suoi sodali di coinvolgere il governo e il Parlamento nelle sue reazioni contro la magistratura sono insensati e vanno respinti.
La fermezza del presidente Letta è, su questa questione, una garanzia. Se i ministri del Pdl dovessero sollevare il «caso» per coinvolgere il governo, il presidente del Consiglio non deve perdere un minuto per trarne le conclusioni. Il fatto che il gruppo parlamentare del Pdl abbia chiesto una sospensione della seduta (da recuperare in un lunedì quando la Camera non lavora) per dare sfogo, in una riunione, a sentimenti e risentimenti in un partito che si identifica in una persona che rischia di non potere più mettere piede in Parlamento, è comprensibile. Tutte le componenti del Pd sapevano di fare un compromesso temporaneo e necessitato con un partito che si identifica con Berlusconi. Lo sapeva Rosy Bindi e lo sapeva Renzi, accusato ingiustamente di berlusconismo, che con i suoi sostenitori, in questa occasione, recita la parte dell'intransigente antiberlusconiano! Non sono le regole scritte che, nel Pd, mancano per una normale e democratica competizione tra correnti di pensiero diverse. Manca quel minimo comune denominatore politico che rende agibile una competizione di idee e proposte programmatiche fra componenti dello stesso partito. Se è un partito. Nel Pd ogni occasione è buona per mettere in difficoltà l'una o l'altra componente, anche quando, come in questa occasione, in discussione sono gli interessi generali del Paese. In nome dei quali è stata, in extremis, costituita l'attuale straordinaria coalizione di governo. Alla quale è bene ripeterlo agli smemorati non c'erano alternative se non il caos istituzionale nel momento in cui non c'erano più margini per eleggere un presidente della Repubblica e un governo. In quell'occasione la stragrande maggioranza del Parlamento chiese a Napolitano, con inusitata insistenza, di restare ancora al Quirinale. E non va, da nessuno, dimenticato il discorso del presidente all'atto del suo insediamento, anche perché, in quell'occasione, fu stipulato un patto politico-istituzionale per la salvezza del Paese. Chi pensa di usare l'emergenza politica per fronteggiare l'emergenza giudiziaria di Berlusconi tradisce quel patto. E chi coglie ogni occasione per mettere in difficoltà il governo solo per affrettare elezioni e candidature (nel caos) è un irresponsabile. Cerchiamo tutti di riflettere dato che l'oggi condiziona il domani di questo Paese e delle nuove generazioni.

l’Unità 12.7.13
Enrico Rossi, il presidente della Toscana: altre maggioranze sono possibili
Sul congresso Pd: non totonomi, liberiamoci dall’egemonia neoliberista
«Il Pd non è sotto ricatto. Se il Cav rompe, non si vota»
intervista di Vladimiro Frulletti


Il Pd non è sotto ricatto e se il Pdl farà cadere il governo bisogna costituire una nuova maggioranza. Anche coi 5Stelle. Perché, per Enrico Rossi, presidente della Toscana, prima di tornare a votare vanno fatte le riforme minime di cui ha bisogno il Paese.
Presidente, il Pd è sotto ricatto del Pdl?
«No, il Pd è una forza seria, responsabile. Per sostenere il governo e far passare le riforme ha accettato la sospensione dei lavori parlamentari».
Esente da errori?
«Forse ci sono stati nella gestione. Sarebbe stato opportuno dare una spiegazione politica più robusta. Dire che vogliamo sostenere il governo senza cedere agli atti estremi di un Pdl che sembra perdere la testa».
Per Schifani se Berlusconi sarà condannato il governo cadrà.
«Dimostra che legano le sorti del governo alle sentenze autonome della magistratura. E qui c’è il rischio non solo di ledere appunto l’autonomia dei giudici, ma anche di pretendere un lasciapassare assoluto per Berlusconi».
Per la base del Pd sarebbe particolarmente indigesto.
«Sarebbe una ferita alla democrazia e alla legalità che non potremmo mai accettare.
Spero che il Pdl rifletta e ritiri queste gravi affermazioni. Le istituzioni non possono essere appese ai destini personali di nessuno. Qui si tocca una materia che giustamente il nostro elettorato sente come cruciale: l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge».
Se tirano troppo la corda, avverte Epifani, poi si spezza. E se cade il governo?
«Non è automatico che si vada alle elezioni. Può emergere una maggioranza diversa qualora il Pdl non riuscisse a svincolarsi dall’effetto di padronanza che ha Berlusconi».
Un altro governo?
«Un’altra maggioranza».
Stesso premier?
«Letta sta dando buona prova di se’. E prima del voto ci sono delle cose da fare. C’è da cambiare la legge elettorale. E io ci aggiungerei i finanziamenti alla cassa integrazione in deroga. Se non si vuole che la gente dia l’assalto ai consigli comunali, poi a quelli regionali e infine al Parlamento». Una nuova maggioranza coi 5Stelle? «Con chi ci sta. Se cade il governo, come Pd lavorerei a una nuova maggioranza». Le critiche, soprattutto dei renziani, sulla sospensione chiesta dal Pdl sono anche figlie delle vicende congressuali? Orfini ha parlato di «sciacalli».
«Credo che tutti dovremmo sforzarci di fare un congresso vero, quindi anche dai toni aspri, ma senza mettere all’indice nessuno».
Il nodo del congresso è se il segretario sarà anche candidato premier?
«Le due figure si possono anche scindere, ma non è la questione fondamentale. Il congresso deve sciogliere il nodo dell’identità del Pd, dire a quali figure sociali ci rivolgiamo per farci uscire, finalmente, dall’indistinto in cui siamo ora. Serve una svolta». In che direzione?
«Dobbiamo finalmente fare i conti anche autocriticamente sull’egemonia neo-liberista, egoista e antisociale che s’è impossessata anche della sinistra dove a un certo punto anche la parola solidarietà sembrava un errore. E qui il Papa ci sta dando una grande lezione».
In che senso?
«Non sono credente, ma da Lampendusa il Papa ha rilanciato la forza scandalosa del Vangelo ripartendo dagli ultimi, dagli immigrati. Questo è il coraggio che ci serve. Rimettere al centro la questione sociale non solo per dare risposte di governo, riformiste, a chi sta indietro, ai lavoratori, ai giovani disoccupati, ai piccoli imprenditori costretti a chiudere, ma anche per indicare orizzonti più ambiziosi»
Quali?
«L’emancipazione, che oggi si combatte su scale europea e mondiale. La sinistra deve far sognare e non dare per scontato che continuino a esistere i paradisi fiscali. Se non c’è tensione ideale, se al congresso ci
limiteremo a discutere di tizio o caio, falliremo il nostro compito».
I nomi danno volto ai progetti.
«Certo, ma da soli non si va da nessuna parte. Un partito è anche militanza, partecipazione, radicamento, pure online. Non è solo gazebo o solo marketing. C’è da costruire un partito perché c’è da cambiare il Paese. Certo poi c’è una classe dirigente che va sostituita perché ha finito il proprio ciclo». Che pensa della proposta di Barca? «Pone un tema fondamentale, la relazione fra partito e conoscenza. Oggi gli intellettuali pensano per conto proprio e i politici non pensano più»
Lei ha già scelto Cuperlo?
«Ha le caratteristiche per tenere unito il Pd e realizzare la svolta politica di cui c’è bisogno».
E il suo vicino di casa Renzi?
«Ha una grande popolarità e penso che potrebbe fare il capo del governo. Certo deve strutturarsi un po’, però ha grande capacità attrattiva».
Le regole del congresso?
«Non si devono cambiare».
Letta rischia per il congresso Pd?
«No, la stabilità la mette a rischio Berlusconi. Casomai i candidati alla segreteria dovrebbero dire cosa deve fare e per quanto tempo questo governo o altri che lo dovessero sostituire. Perché le indicazioni date dal Presidente Napolitano a questa legislatura sono irrinunciabili».

il Fatto 12.7.13
Radicali e 5 Stelle
“Grullo” e “guerriero” L’amore/odio tra Grillo e Pannella
di Paola Zanca


Tutto cominciò quel sabato sera di novembre, anno 1986. Beppe Grillo è in tv, a Fantastico , e spara la battuta che lo farà cacciare dalla televisione pubblica (un siparietto tra Craxi e Martelli, invitati a cena in Cina: “Ma allora se son tutti socialisti, a chi rubano?”). Marco Pannella scrive a Enrico Manca, all’epoca presidente della Rai: gli dice che deve chiedere conto al “clan degli avellinesi” dell’offesa al Psi da parte di “un bravissimo guitto che di politica ha il torto di comprendere ben poco”. A quasi trent’anni di distanza, sembra aver cambiato idea. Ora, lo chiama “il nostro grande Beppe” , e dice che se “cresce” lui, è un “regalo” per il Paese. È contento Pannella, perché Grillo due giorni fa in conferenza stampa lo ha elogiato (“un guerriero”) e si è detto disposto a firmare i referendum radicali (gli ultimi 12 riguardano la giustizia, l’immigrazione, le droghe, il finanziamento pubblico, il divorzio breve). In mezzo ci sono gli appelli di sostegno agli innumerevoli scioperi della fame e della sete: fa un certo effetto, oggi, vedere il nome di Beppe Grillo scritto a fianco di Ernesto Galli della Loggia piuttosto che di Pierluigi Battista (il tema era la grazia a Adriano Sofri e lo scontro tra il Presidente Ciampi e il Guardasigilli Castelli). Quando Grillo cambia veste – è il 2007, anno del primo V-day – Pannella gli riconosce di aver capito una cosa: che tra i neonati Pd e Pdl alla fine “vincerà la piazza, la Rete” pur se travestita da “dileggio, rivolta, nausea, festa popolarissima, populistissima”. La festa però dura poco: passa l’indulto e Pannella denuncia “la criminalizzazione dilagante” di un provvedimento che i Radicali avevano voluto “con grande fermezza”: “È ormai passata l’idea del grande tribuno della plebe Grillo-grullo”, diceva Pannella. C’è chi sostiene – Famiglia Cristiana per la precisione – che Grillo gli ha portato via la scena giusto prima che diventasse “un campione dell’antipolitica”. Così, da qualche tempo, è Pannella che ha provato ad allacciare i fili del dialogo: “Mi augurerei molto che lavorassimo insieme”, auspicava nel 2008. Ammetterà qualche anno più tardi, nel 2011, di aver “corteggiato Grillo come Marilyn Monroe” ma di aver poi realizzato che sono “verginelli inesperti”, con l’unico vanto di non essere “ladri”. Alla vigilia del suo arrivo in Parlamento, otto mesi fa, lo avvertì: “Stai attento, perché senza dialogo si va a sbattere e si rischia di crepare politicamente” . Lui aveva già risposto su La7 un anno prima: “Io ho paura. Se questo movimento va in Parlamento, io devo espatriare. Mi diranno di tutto, mi sputeranno addosso. So già uale sarà la mia fine, faccio la fine di Pannella”.

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei...
«La sensibilità del Pdl ai temi che vedono impegnati i Radicali in prima linea è del resto cosa nota. Da Daniela Santanché, la quale vorrebbe "che il Pdl firmasse in massa i quesiti referendari dei Radicali e che il governo, di cui il Pdl fa parte, li trasformasse in decreti legge", all’ex Guardasigilli Nitto Palma, che si è sempre dichiarato favorevole alla linea radicale sulla giustizia».
La Stampa 12.7.13
Carriere, carceri e responsabilità civile Ecco i quesiti radicali
di Grazia Longo


Un successo caldeggiato dal Pdl ma targato Radicali. L’apertura di Silvio Berlusconi ai referendum sulla giustizia voluti da Pannella potrebbe garantire un esito positivo per alcuni cavalli di battaglia del centrodestra finora rimasti solo sul piano delle intenzioni. Sul tappeto temi come la responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, magistrati fuori ruolo, abolizione dell’ergastolo e abuso della custodia cautelare.
Il monito dell’ex premier, durante l’ufficio di presidenza del partito che si è svolto a Palazzo Grazioli, è inequivocabile: «Occorre allestire al più presto i gazebo, in tutto il Paese, per invitare la gente a firmare i referendum dei Radicali sulla giustizia».
E l’ipotesi che - considerati i tanti processi pendenti di Berlusconi a partite dall’udienza in Cassazione il 30 luglio per la frode fiscale di Mediaset - si possa trattare di un suo esclusivo interesse personale, non sfiora minimamente il segretario nazionale dei Radicali. «Non solo non mi scandalizza - afferma Mario Staderini -, ma non può che farmi piacere la partecipazione di altri, Berlusconi compreso, a schierarsi al nostro fianco». I motivi sono sostanzialmente tre: «Innanzitutto senza i referendum dubito che si possano mai risolvere le questioni sulla giustizia perché difficilmente finiranno nell’agenda del Parlamento. In secondo luogo l’attenzione del Pdl mi pare un buon viatico verso il successo». Quanto al coinvolgimento diretto del leader Pdl, Staderini osserva che «i referendum non sono dei provvedimenti ad personam, non mirano a favorire le sue questioni giudiziarie. Basti pensare a quello sulla carcerazione preventiva: nelle nostri pessime carceri, il 40 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio».
La sensibilità del Pdl ai temi che vedono impegnati i Radicali in prima linea è del resto cosa nota. Da Daniela Santanché, la quale vorrebbe «che il Pdl firmasse in massa i quesiti referendari dei Radicali e che il governo, di cui il Pdl fa parte, li trasformasse in decreti legge», all’ex Guardasigilli Nitto Palma, che si è sempre dichiarato favorevole alla linea radicale sulla giustizia.
Che non costituisce, tuttavia, l’unica materia dei referendum proposti. «In tutto sono 12 - ricorda Mario Staderini - e riguardano anche altri diritti da rivendicare, come la revisione della normativa sugli stupefacenti e l’abrogazione delle norme che ostacolano il lavoro e il soggiorno regolare degli immigrati». Senza tralasciare, poi, il referendum per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. «Sarebbe stato strano - chiosa il segretario dei Radicali - che Beppe Grillo non avesse sostenuto questo quesito, proprio a cominciare da questo. In ogni caso, noi non possiamo che essere soddisfatti del consenso: più siamo a muoverci e prima riusciremo a raccogliere le 500 mila firme necessarie ad andare alle urne per riformare i diritti umani e la giustizia».

Repubblica 12.7.13
Vertice Pdl: "Avanti col governo, con Forza Italia, coi referendum"

Sostegno al governo Letta, ritorno al vecchio brand forzista da settembre e appoggio ai referendum promossi dai Radicali sulla Giustizia. Questo l'esito della riunione dell'ufficio di presidenza a palazzo Grazioli, nelle parole di Paolo Romani, Maurizio Sacconi, Micaela Biancofore, Mariastella Gelmini

il Fatto 12.7.13
Qualcuno comanda su Rcs, ma non si può sapere chi è
Assegnato tutto il 15 per cento del capitale del gruppo che controlla il Corriere della Sera. Ma il compratore resta segreto e la sfida tra Elkann e Della Valle è aperta
di Marco Franchi


Di certo per ora c’è solo che circa l’11 per cento di Rcs è finito nelle mani di qualcuno. Nel secondo giorno di asta tutti i 15,16 milioni di diritti inoptati relativi al-l’aumento di capitale del gruppo editoriale sono stati venduti per poco più di 300mila euro.
CHI HA RASTRELLATO? Non Diego Della Valle che “non aveva alcuna intenzione di farlo”, ha detto ieri una fonte vicina al dossier nonostante mister Tod’s, che lo scorso 4 luglio avesse annunciato di voler salire fino al 20 per cento dal suo 8,8, salvo poi auspicare in una lettera al presidente della Repubblica un’uscita di tutti gli azionisti forti del gruppo, lui compreso. Non ha comprato la Fiat di John Elkann, che con il blitz di fine giugno è diventata la prima azionista della Rizzoli con il 20,1 per cento. Si smarca anche Andrea Bonomi, numero uno del fondo Investindustrial ed ex consigliere di Rcs: se dovesse farsi avanti lo farà solo ad aumento concluso quando l’assetto azionario del gruppo sarà più chiaro. Non ha comprato lo squalo Rupert Murdoch né il gruppo editoriale tedesco Axel Springer che “investe solo sul digitale”, ha spiegato il presidente del consiglio di sorveglianza Vincenzo Vita.
La Consob, che vigila sulla Borsa, sta comunque verificando l’andamento dell’asta dell’inoptato. Ieri intanto hanno inviato lettere sia ai pattisti sia ai fondi che avrebbero acquistato i diritti. Per i “vecchi” soci del gruppo editoriale resta comunque valida la richiesta fatta nelle scorse settimane e, quindi, se uno di loro avesse acquistato ulteriori diritti sarebbe obbligato a comunicarlo a stretto giro al mercato. Qualora i compratori, uno o più, fossero invece nuovi investitori, per conoscerne l’identità bisognerà attendere i tempi previsti dalla normativa. Chi ha rilevato ieri i diritti avrà tre giorni lavorativi per esercitarli e quindi dovrà farlo entro il 16 luglio. Per i nuovi soci l’obbligo di comunicazione scatta solo al superamento delle soglie rilevanti, ad esempio il 2 per cento e il 5, ed entro cinque giorni di Borsa dalla reale sottoscrizione e dal conseguente deposito della mappa azionaria da parte Rcs. Non solo. Nel caso si tratti di investitori istituzionali come i fondi, in base alla legge comunitaria c’è la facoltà di non fare comunicazioni fino al superamento del 5 per cento. In sostanza, il quadro finale potrebbe essere noto entro martedì 24 luglio.
Nel frattempo nelle sale operative è scattata la caccia al compratore misterioso. In molti puntano il dito sui fondi di investimento che si sarebbero accaparrati in blocco una quota rilevante (ma per ora solo potenziale) dell’editore del Corriere della Sera, che consentirebbe loro di piazzarsi al terzo posto tra gli azionisti del gruppo - alle spalle di Fiat e Mediobanca - ma con una chiara opzione per salire al secondo, considerata l’intenzione di Piazzetta Cuccia di alleggerire sul medio periodo la propria presenza. A fare materialmente gli acquisti sarebbero stati quattro intermediari, con un ordine giudicato “consistente”
in arrivo dall’estero. Quindi, o nella partita si è infilato un terzo protagonista, magari in sintonia con uno dei contendenti. Oppure un fondo o più fondi stanno effettuando un cosiddetto “portage” a favore di altri soggetti e dunque in attesa di ricavare una plusvalenza sulla cifra investita. L’esercizio di tutti i diritti costerebbe intorno ai 56 milioni di euro.
MENTRE si attende la soluzione del giallo, c’è già chi festeggia: le banche. Perché la ricapitalizzazione da 421 milioni totali, considerando i titoli sia ordinari sia di risparmio, si è chiusa con successo senza lasciare pesanti fardelli sulle spalle del consorzio di garanzia capitanato da Banca Imi, controllata da Intesa Sanpaolo, a sua volta socia al 6% e creditrice di Rcs. Non brindano invece i dipendenti del Corriere della Sera: ieri in una nota pubblicata sul quotidiano il comitato di redazione di via Solferino ha sottolineato che il futuro assetto azionario di Rcs “non deve prefigurare alcuna posizione dominante di fatto nell’editoria italiana, né del gruppo Fiat, né di altri”. I giornalisti osservano “con disorientamento i movimenti e le dichiarazioni di Diego Della Valle. Sarebbe utile capire quali siano le sue reali intenzioni e soprattutto quale sia il futuro che immagina per il Corriere della Sera e il gruppo nel suo insieme”. Nel rispetto, viene aggiunto, dello Statuto del Corriere firmato il 3 aprile 1974 da Piero Ottone e sottoscritto da tutti i direttori che si sono succeduti alla guida del giornale dove si richiamano “con forza” i principi di indipendenza dal potere politico e da qualunque gruppo di pressione. Intanto il cda Rcs ha annunciato cessione del 54,6 per cento di Dada, la controllata che si occupa di servizi digitali, a Orascom per 58 milioni a Orascom Tmt Investments.

il Fatto 12.7.13
Armi da guerra, gli Stati canaglia sono nostri clienti
Export “fuorilegge” per 2,7 miliardi verso Paesi in conflitto
di Enrico Piovesana


Con tre mesi di ritardo, il governo ha finalmente trasmesso al Parlamento la relazione annuale sull’export di armamenti italiani. Dal documento, di cui il Fatto Quotidiano è riuscito ad avere una copia in anteprima, emerge che l’anno passato il governo Monti ha autorizzato contratti di vendita per 2,7 miliardi di euro (al netto dei programmi intergovernativi di cooperazione industriale): una lieve flessione rispetto ai 3 miliardi dell’anno precedente.
Ai primi posti per valore contrattuale delle commesse, quasi tutte aziende possedute o partecipate da Finmeccanica: svetta su tutte Alenia Aermacchi (con un miliardo di export ‘puro’), seguita da Agusta Westland (490 milioni), Selex Galileo (189), Mbda (172), Oto Melara (142), Fincantieri (68), Avio (66), Rheinmetall Italia (63), Piaggio Aero (60), Whitehead Alenia (59), Simmel Difesa (54), Selex Sistemi Integrati (47).
GLI ARTICOLI di maggior successo nel campionario del ‘made in Italy’ bellico, stagione 2012, sono stati come sempre aerei, elicotteri, navi, blindati, artiglieria, bombe, missili, siluri, fucili, munizioni e armi chimiche antisommossa (i candelotti Cs prodotti dalla Simad, venduti in gran quantità dalle polizie di Brasile, Bangladesh, Romania e Spagna).
Secondo la legge 185 del 1990, che regola l’export militare italiano, le aziende italiane non possono fare affari con paesi in conflitto o in cui siano accertate gravi violazioni dei diritti umani o la cui spesa miliare è eccessiva rispetto a quella sociale. Ma la lista delle nazioni con cui l’industria bellica tricolore continua a firmare contratti non sembra rispettare tali criteri. Al primo posto c’è Israele (473 milioni di esportazioni autorizzate), seguito dagli Stati Uniti (419), dal regime algerino di Bouteflika (263), dalla dittatura monopartitica del Turkmenistan (216) e dalla monarchia autoritaria degli emiri arabi (150). L’elenco prosegue con paesi come l’India (109 milioni), militarmente impegnata sia in Kashmir che contro la guerriglia naxalita; il Ciad (88), nazione poverissima con un esercito che arruola ancora bambini-soldato e destabilizzata da ribellioni armate; la Turchia (43), in eterno conflitto con gli indipendentismi curdi; l’Arabia Saudita (39), monarchia autoritaria e irrispettosa dei diritti umani fondamentali; il Pakistan (24), in guerra aperta con i talebani locali; la Libia (20), dove continuano i combattimenti tra fazioni; la Thailandia (13), impegnata nel conflitto contro gli indipendentisti musulmani; l’Afghanistan (8), dove in guerra ci siamo anche noi. Tra i destinatari di esportazioni minori figurano altri Stati difficilmente compatibili con la legge 185, quali Libano, Kosovo, Cina, Russia, Vietnam, Zambia, Behrein, Oman, Colombia, Perù e Filippine. Nazione, quest’ultima, da decenni in guerra con guerriglieri islamici e comunisti, ciononostante destinata a scalare rapidamente le classifiche dell’export bellico italiano grazie a una commessa a Fin-cantieri da 310 milioni per la fornitura di due navi da guerra.
A fornire intermediazione finanziaria per questi contratti sono ovviamente le banche, che su tali operazioni lucrano grossi profitti. Nel 2012 l’81 per cento dell’ammontare complessivo delle esportazioni è stato negoziato da tre istituti bancari: la succursale italiana di Bnp Paripas, con intermediazioni per quasi un miliardo di euro (il 34 per cento del totale), Deutsche Bank con 740 milioni (27 per cento) e Unicredit con 540 milioni (20 per cento). Seguono Barclays con 230 milioni (8 per cento), Bnl con 108 milioni (4 per cento), Carispezia con 68 milioni (2,5 per cento) e una sfilza di altri istituti piccoli e grandi che si spartiscono le briciole, comunque milionarie, di questa torta.
“NONOSTANTE le lamentele, non pare proprio che il comparto militare italiano si trovi in una situazione problematica, soprattutto rispetto ad altri settori produttivi”, osserva il responsabile della Rete Disarmo, Francesco Vignarca, che sta per pubblicare sul sito della rivista Altra Economia una dettagliata analisi della relazione. “Il problema è che le nostre armi continuano a finire nei luoghi più problematici del globo: siamo proprio convinti che in questo modo la nostra politica estera, cui l’export di armi è sottoposta per legge, contribuisca alla pace a livello internazionale? ”

Repubblica 12.7.13
Fermato a 5 anni dai soldati israeliani
Hebron, video shock di un bimbo palestinese portato via in lacrime. “Aveva tirato una pietra”
di Alberto Stabile


BEIRUT — Waadi Maswada ha appena cinque anni e nove mesi, e quasi non si riesce ad intravedere in mezzo alle esuberanti corporature dei militari israeliani, sei soldati e un ufficiale della Brigata Givati, che lo circondano. Ma sullo sfondo della scena, ripresa da un attivista dei diritti umani della Ong B-Tselem, un occhio spalancato sugli eccessi dell’interminabile occupazione dei Territori palestinesi, si sente, insistente come il lamento di un animale ferito, il pianto di Waadi che sta per essere arrestato.
Siamo ad Hebron, la Città dove riposano i Patriarchi, che qualche centinaio di coloni israeliani, a dispetto della storia e degli oltre centomila palestinesi che ci vivono, hanno scelto come simbolo del riscatto della biblica Eretz Israel. Ed è per garantire ai coloni di poter coltivare il loro disegno nazionalistareligioso, che il centro di Hebron è dal 1967 occupato militarmente. In sostanza, Hebron è una scintilla del conflitto perennemente accesa.
Ora, viene da sorridere a pensare come Waadi, che non arriva neanche alle ginocchia dei soldati che lo circondano, possa aver rappresentato una minaccia qualsivoglia alla sicurezza dello Stato ebraico. Ma il bimbo, spiega l’ufficiale ai pochi passanti che notano la scena e si avvicinano, ha tirato una pietra contro la macchina di un colono (colpendo una ruota) e va deferito (cioè consegnato) alla polizia palestinese per i dovuti provvedimenti.
Waadi intuisce, si dispera. La telecamera di B-Tselem, un’organizzazione nata in Israele ma animata tanto da attivisti israeliani che palestinesi, registra l’indifferenza dei soldati al pianto di quel bimbo, la concitata trattativa con un ragazzo palestinese per sapere dove abita Waadi, e infine lo sportello della jeep militare che si chiude, inghiottendo lo sguardo disperato del bambino.
Giunti a casa, ci dice l’accurato resoconto di B-Tselem, i soldati informano la madre che intendono consegnare il bambino alla polizia palestinese (con cui l’esercito israeliano continua una sorta di coordinamento che risale agli accordi di Oslo, per il resto rimasti inapplicati). La donna, ovviamente, si rifiuta, di consegnare Waadi, che nel frattempo s’è nascosto dietro una pila di materassi, almeno finché non arriva il padre, Karam.
Dopo mezz’ora, arriva Karam. I soldati insistono nella loro decisione di trasferire il bimbo alla polizia palestinese. Il padre obbietta: «Ma ha soltanto cinque anni»! Niente da fare: se non ubbidisce agli ordini, Karam sarà arrestato. Ora la scena cambia. Padre e figlio stati portati alla base militare israeliana di a-Shuhada. Karam ha gli occhi coperti da una benda chiara e le manette ai polsi, come fosse sospettato di chissà quale atto diviolenza anti israeliana. Waadi gli siede accanto. Insieme, Karam essendo sempre bendato e ammanettato, vengono accompagnati al posto di blocco del Dco, l’Ufficio di coordinamento, dove ad un certo punto arriva un colonnello israeliano. Il quale, rivolto ai suoi uomini, si lancia in una reprimenda: «Voi state danneggiando la nostra immagine». Non che lo sfiori il sospetto che il fermo sia pure temporaneo di un bimbo sia illegale, ma perché «in presenza della telecamere, i palestinesi arrestati debbono essere trattati bene». Karam e il piccolo Waadi vengono consegnati alla polizia palestinese che li rilascerà subito dopo.
La logica deformata da un’occupazione infinita ha vinto ancora. Le legge è stata applicata alla lettera, contro un bambino di 5 anni e 9 mesi anche se l’età minima della responsabilità penale nei Territori è di 12 anni. Ma i palestinesi, si sa, non hanno diritto neanche all’infanzia.
In serata l’esercito ha rivendicato la correttezza dell’operato dei soldati, ma ha anche annunciato l’apertura di un’inchiesta.

Repubblica 12.7.13
Quel bambino palestinese “arrestato” per un sasso
di Adriano Sofri


TRATTARE un bambino di cinque anni e nove mesi, che piange spaventato, come se fosse un pericoloso nemico adulto, e umiliare suo padre davanti a lui e a causa di lui, non è solo un’infamia: vuol dire fare di quello e di tanti altri bambini, asciugate le lacrime, irriducibili e temibili nemici. È successo il 9 luglio a Hebron, il video è in rete da ieri, girato da un militante di B-Tselem. B-Tselem significa, dalla Genesi, “a sua immagine”, è una preziosa organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei territori occupati. Il bambino si chiama Waadi, il suo giovane padre Abu Karam Maswadeh. L’operazione è condotta da una decina di soldati e un ufficiale. Volevano portarlo via da solo – ha tirato un sasso all’auto di un colono, dicono; testimoni dicono che l’ha tirato a un cane – ma sua madre si è opposta, vuole che arrivi il padre, altri bambini, specialmente una minuscola e risoluta, lo circondano e lo incoraggiano.
Arriva Karam e chiede: “Perché volete arrestare un bambino di cinque anni?” Ha tirato un sasso. Lui cerca di farli ragionare, invano. Li fanno salire sulla camionetta, li portano via insieme, Waadi piange e si stringe al padre. Li chiudono per mezz’ora in caserma. Poi i soldati ammanettano il padre e gli bendano gli occhi con una fascia bianca, e li portano a piedi, in una ostentata gogna, fino al checkpoint 56 (non so se sia un numero ordinale, certo Hebron è piena di checkpoints), dove li trattengono un’altra mezz’ora. L’uomo di B-Tselem filma tutto, i soldati lo fotografano più volte, per intimidirlo: ma tutta la scena si svolge in una surreale tranquillità. “Mera routine”, osserverà un commentatore israeliano, aggiungendo: “Mero razzismo”. Arriva un ufficiale più alto in grado, il padre – che parla l’ebreo oltre all’arabo e l’inglese – è in grado di seguire i loro discorsi: l’ufficiale li rimprovera per averli arrestati platealmente davanti alle telecamere:danno d’immagine. Allora un soldato slega il padre, gli toglie la benda e gli dà dell’acqua. Padre e figlio vengono consegnati a poliziotti palestinesi, e subito rilasciati. Il video è un incidente, ma rivela che l’arresto di bambini e genitori e la loro consegna alla polizia è la norma, illegale, nat uralmente. L’età minima per la responsabilità penale è di 12 anni. Nessun bambino israeliano che tirasse pietre a palestinesi è mai stato arrestato, e neanche gli adulti. Hebron, che per i palestinesi è Al Khalil, capoluogo della Cisgiordania meridionale, occupata dal 1967, sacra a tutte lereligioni monoteiste, è abitata da più di 150 mila palestinesi, da 700 coloni israeliani, e più di mille soldati a loro difesa. A Hebron, nel 1994, Baruch Goldstein, medicocolono dell’insediamento di Kiryat Arba, fece strage di palestinesi in preghiera nella moschea di Ibrahim – la tomba dei patriarchi: il primo attentato suicida avvenne proclamando di vendicare quella carneficina. Dicono che il viaggio a Hebron stringa il cuore. Che i soldati israeliani e i bambini palestinesi giochino come il gatto coi topolini. Che l’esercito scorti i coloni e i visitatori sionisti in incursioni sprezzanti ai quartieri palestinesi. Che le aggressioni per sradicare colture e forzare i palestinesi a lasciare altre terre ai coloni siano continue. Dall’alto della città vecchia divenuta un luogo fantasma, è stesa una gran rete per impedire ai rifiuti, i sassi, le bottiglie lanciate dagli haredim incattiviti di colpire i passanti palestinesi. Dicono che ai più fanatici piaccia pisciargli sopra, dall’alto. Molti anni fa c’era in Israele un gruppo di riservisti pacifisti che aveva scelto per titolo “Yesh gvul”, che vuol dire “C’è un limite”. Non so se il gruppo ci sia ancora. Il limite dovrebbe esserci, sempre, dovrebbe esserci un limite a tutto. Il 9 luglio è stato di nuovo superato.
I cristiani sussultano specialmente alla vista di un giovane uomo incolpevole trascinato per le strade da armati con gli occhi bendati: gli ricorda un altro. E non c’era il bambino. Ma non occorre essere cristiani per sussultare. Ho letto i commenti sul sito di Haaretz, combattuti, alcuni orrendi, altri ammirevoli. Uno ha scritto: “Anch’io da piccolo ho tirato un sasso alle bambine. Mi hanno castigato e non l’ho fatto più”. Un altro ha risposto: “Hanno anche portato via tuo padre con gli occhi bendati?”.

La Stampa 12.7.13
“Caschi blu dell’Unesco per salvare la cultura”
Bandarin, vicedirettore dell’organizzazione: “Pensiamo a una forza non armata nei siti archeologici a rischio”
di Alberto Mattioli


Magari sono danni collaterali, però sono sempre danni e spesso irreparabili. La vittima non è l’uomo, ma l’umanità, il suo patrimonio. All’Unesco si torna a parlare di «caschi blu culturali» per salvare il salvabile nei Paesi dove si combatte. Francesco Bandarin, veneziano, vicedirettore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la cultura e la scienza, fa il punto sulle ultime emergenze, «soprattutto due».
Quali?
«La prima è il Mali. Il Nord, come sappiamo, è stato invaso dalle milizie salafite che, prima della liberazione del Paese, hanno devastato Timbuctù. Intanto, i mausolei. I salafisti hanno rispettato le moschee ma, per odio teologico, hanno distrutto almeno sedici tombe di “santi” islamici. Stiamo studiando come ricostruirle. Poi, i 300 mila manoscritti, per lo più risalenti all’epoca d’oro dell’Islam africano, dal XIII al XV secolo. Solo il 25% era catalogato e appena l’1% digitalizzato. Circa la metà sono stati portati dal Nord occupato al Sud libero e adesso sono salvi a Bamako, ma conservati in condizioni difficili. Prima di fuggire da Timbuctù, gli jihadisti hanno incendiato una delle biblioteche più importanti. Calcoliamo che siano stati bruciati circa 4 mila manoscritti. E questi sono persi per sempre».
E l’altro fronte?
«La Siria, che è molto più grave. Sotto tiro non ci sono solo le città storiche, come Damasco e Aleppo, ma anche siti archeologici come Palmira o il Krak dei Cavalieri. I danni non sono quantificabili, anche perché le informazioni ci arrivano solo da una parte, quella governativa. Ma sono sicuramente ingenti e non solo per le bombe».
Per cosa, allora?
«Abbiamo notizie di musei saccheggiati. E di scavi illegali in molti siti archeologici, per esempio ad Apamea. Il mercato antiquario di Beirut è letteralmente inondato di statue ellenistiche in arrivo dalla Siria. Abbiamo allertato i Paesi confinanti perché a loro volta attivino dei controlli alla frontiera. Ma è difficile».
Servono dei caschi blu dell’Unesco?
«Non credo che serva una forza armata. Serve una forza di conoscenza e di controllo. Possiamo unire le risorse dell’Unesco, delle Ong, degli esperti e soprattutto delle missioni archeologiche. Durante la guerra in Libia, per esempio, le informazioni più affidabili ce le hanno date loro. L’idea è quella di agire prima, durante e dopo la guerra».
Iniziamo dal prima.
«Inventariare è indispensabile. Basta fornire agli archeologi uno smartphone e un collegamento Internet. Non è un inventario scientifico ma almeno si stabilisce com’erano i siti “prima”. Poi si può pensare a luoghi d’asilo dove depositare quel che è trasportabile. In fin dei conti, allo scoppio della Seconda guerra mondiale il Louvre fu svuotato e salvato».
E durante la guerra?
«Qui siamo più deboli. Però ricordo per esempio quel che abbiamo fatto in Congo. Per dieci anni, abbiamo pagato gli stipendi delle guardie dei parchi naturali perché continuassero a sorvegliarli e non si trasformassero in bracconieri. Erano 1.054 persone, mi ricordo, che prendevano 30 dollari al mese ciascuna. Non sono cifre enormi, ma il difficile era far arrivare i soldi. Una volta anch’io sono partito su un aeroplanino per portare di persona gli stipendi, in biglietti da un dollaro».
E il dopo?
«Della gestione dei vari dopoguerra, l’Unescopuò essere orgogliosa. In Cambogia abbiamo lavorato con il governo che è succeduto ai Khmer rossi e i risultati sono eccellenti. E anche in Paesi non ancora stabilizzati come l’Iraq e l’Afghanistan si vedono i primi risultati».
Un altro capitolo è trovare e condannare i distruttori.
«Un precedente importante c’è. La Corte penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia ha condannato il capo delle milizie responsabile del bombardamento di Dubrovnik. E adesso la Corte ha aperto una procedura per le distruzioni di Timbuctù alla quale collaboriamo».
Ultima domanda sul Patrimonio. La candidatura di Langhe e Monferrato come procede?
«La prima volta è andata male perché c’erano dei problemi di gestione. Ci stanno lavorando e la candidatura sarà ridiscussa l’anno prossimo. Sarebbe il cinquantesimo sito italiano iscritto. Poi c’è un dossier di Torino per ottenere il “label” che l’Unesco dà alle città che investono sulla creatività come motore dello sviluppo. Torino ha puntato sul motorismo storico. E in effetti credo che in materia non ci sia città al mondo che la superi».

La Stampa 12.7.13
Addio a Gemma Russo partigiana ed educatrice
Aveva 99 anni, fu staffetta per Leone Ginzburg
di Umberto Gentiloni


Avrebbe tagliato tra pochi giorni il traguardo del secolo: era nata in Calabria il 29 luglio 1913, ultima figlia di una famiglia benestante. Gemma Russo si trasferì a Roma per studiare, laureandosi in filosofia alla Sapienza sotto la guida di Ugo Spirito per poi spostarsi a Ginevra attratta dalle lezioni di Jean Piaget e dalle sue teorie sulle fasi dell’apprendimento cognitivo. La guerra le fa cambiare strada, la spinge verso l’impegno politico. Diventa una staffetta partigiana con un prezioso segreto da custodire: conosce il luogo dell’esilio di Leone Ginzburg, condannato al confino politico in Abruzzo a partire dal 1940. La staffetta consegna lettere e comunicati, tiene informato il prigioniero su ciò che si muove nella capitale, lo rende partecipe dei primi sintomi di una possibile rinascita. Anche Gemma si iscrive al Partito d’Azione continuando a spostarsi con messaggi da consegnare e risposte precise da riferire. Con attenzione meticolosa nasconde piccole somme di denaro nel suo cappellino, un baschetto che contiene spiccioli e banconote destinate a diverse strutture dell’antifascismo. Si trova a Firenze all’alba della liberazione, prende la parola per un comizio alla galleria degli Uffizi per salutare la ritrovata libertà. E di seguito stringe relazioni e amicizie con altre donne di una generazione segnata dalla cesura della guerra. Nel 1946 firma il manifesto degli Intellettuali Italiani per la Repubblica; è in buona compagnia: Corrado Alvaro, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Guido Piovene, Giuseppe Ungaretti, Renato Guttuso, Luchino Visconti e tanti altri. Inizia una nuova avventura, nell’Italia del dopoguerra, suo principale obiettivo diventa la lotta contro l’analfabetismo all’interno dell’Unione Nazionale Lotta Analfabetismo che contribuisce a fondare nel 1947. Dieci anni di attività per poi muoversi nel campo della didattica e della metodologia dell’insegnamento fino agli esperimenti nazionali sulle classi sperimentali di scuola media in una borgata romana, al Trullo. Si è dedicata al difficile mestiere di insegnare ad insegnare, indagando i nessi tra didattica e ricerca, lontano dai riflettori, con una crescente diffidenza verso la politica e le sue trasformazioni. Leggeva con passione, informata e attenta alle nuove frontiere della conoscenza, frequentatrice di terreni di confine tra la riflessione psicologica, l’osservazione della natura e l’esperienza individuale. Nel 1962 aveva scritto un commento alla Lettera al padre di Kafka interrogandosi sull’amicizia, i suoi percorsi e il peso di condizionamenti e vincoli familiari. Il suo lungo viaggio attraverso il Novecento e oltre si è concluso; quel mondo appare lontano e sbiadito, a ben guardare le eredità e i lasciti sono ancora tra noi.

Corriere 12.7.13
La mente non fa feste, ma un festival
di Ida Bozzi


Con un totale di 300 mila visitatori e 500 ospiti in nove anni, il Festival della Mente è diventato un appuntamento fisso di fine estate: e nel centro di Sarzana, in provincia di La Spezia, tra piazze antiche, palazzi e fortezze, anche quest'anno ritorna la manifestazione dedicata alla mente intesa come creatrice di pensiero, arte, emozioni e bellezza. Dieci anni, dunque, che il Festival corona con un'edizione assai nutrita tra dibattiti e spettacoli, presentata ieri a Genova. Molti ospiti, con ritorni come Bergonzoni e i Servillo, Barbero e Bartezzaghi, ma anche nomi che raramente si incontrano alle rassegne, come quello di Bernard-Henri Lévy.
«Non mi interessava fare un'edizione celebrativa. Per noi — spiega Giulia Cogoli, che dirige il Festival — non si tratta di un punto di arrivo ma di passaggio, da cui guardare oltre. In dieci anni abbiamo costruito un vero e proprio dialogo tra il pubblico e i relatori, che si aggiorna e che prosegue ogni volta. Anche invitando di nuovo personalità già presenti in passato, che facciano il punto sull'evoluzione delle loro conoscenze».
La formula non prevede un tema, ma un flusso di argomenti che si intrecciano e si diramano tra varie discipline: idee, arte, fantasia, creazione sono gli spunti di riflessione, da cui poi i dibattiti si dipanano attraverso vari percorsi. Apre il festival venerdì 30 il giurista Guido Rossi per parlare di «Responsabilità delle idee nel bene e nel male», e sulle idee, e sulla ricerca della verità nell'arte (a partire dalla «condanna» platonica dell'arte, appunto), interverrà sabato 31 Lévy nell'incontro «A proposito delle avventure della verità»; la relazione tra creatività, arte e amore sarà invece indagata domenica da Massimo Cacciari in dialogo con Enzo Bianchi.
«Anche gli incontri con gli scrittori, che saranno numerosi — continua la Cogoli — non sono presentazioni di libri, ma lezioni su argomenti teorici sulla letteratura e sulla creazione». Così Paolo Giordano affronterà venerdì in un incontro di sapore conradiano il tema «Attraversare la linea d'ombra», mentre sabato Emanuele Trevi s'inoltrerà «Dall'altra parte delle cose», e domenica l'autore inglese Tim Parks si addentrerà nel campo del lavoro quotidiano dello scrittore, e nel rapporto tra la vita, l'opera e il pubblico.
Ma le aree coinvolte sono numerose: si parlerà di creatività e televisione con Carlo Freccero, di fantasia e umorismo con lo scrittore Jonathan Coe; di fantasia e fotografia con Ferdinando Scianna; dei nuovi terreni (nella finanza e nell'economia) in cui si muove un'idea filosofica e psicologica come l'empatia, con Laura Boella; e dei fronti più avanzati nello studio del cervello, con il genetista Edoardo Boncinelli, che illustrerà l'area cerebrale in cui, forse, gli esseri umani pensano il futuro, mentre Silvio Garattini si occuperà del cervello che invecchia. Spazio, inoltre, alle arti applicate, con l'illustratore e calligrafo Luca Barcellona, e alla storia del gusto, con lo storico dell'alimentazione Massimo Montanari.
Ogni sera, in chiusura delle tre giornate del festival, sono in programma appuntamenti di spettacolo, di teatro o di musica dal vivo: venerdì il concerto di Ramin Bahrami che propone un «Grand tour tra Bach e Scarlatti», sabato il recital in musica e parole con due mattatori del palcoscenico, Toni e Beppe Servillo, che proporranno insieme lo spettacolo Cantami una poesia, e domenica il recital finale, protagonista Alessandro Bergonzoni che aprì il Festival della Mente dieci anni fa. Da segnalare, a proposito di creatività, una serata particolare: quella di venerdì 30, in cui l'attore e autore Sandro Lombardi proporrà una lettura (di alcune) delle più belle pagine della Recherche di Marcel Proust.

Repubblica 12.7.13
Un sondaggio del “Guardian” fissa la stagione nella quale si comincia a diventare più insensibili e indifferenti Per il quotidiano è un’attitudine controversa: se fa rima con realismo non è necessariamente dannosa
Cinismo L’età del disincanto arriva dopo i 44 anni
di Enrico Franceschini

Il cinismo comincia a crescere dopo i 44 anni, afferma un sondaggio pubblicato in Inghilterra. Può sembrare una notizia deprimente, avvalorando la tesi che, con l’avanzare dell’età, perdiamo entusiasmo, vediamo tutto più nero e diventiamo insopportabili. Ma bisogna ricredersi, se recenti studi dello stesso genere indicano i 45 anni come il momento in cui si impara a fare sesso con piena soddisfazione e i 46 come quello in cui si assapora la vera felicità: diventare più cinici, in quest’ottica, farebbe parte di un processo largamente positivo. Così la pensa pure il filosofo inglese Julian Baggini, che argomenta i pregi del cinismo commentando sul Guardiandi Londra i risultati della suddetta ricerca: «I cinici possono essere individui sereni, costruttivi e di ottima compagnia », assicura. Per poi però confessare: «Ho 44 anni anch’io ». È possibile immaginargli un’amara piega in volto, segno internazionale di riconoscimento del cinismo, mentre lo dice.
Naturalmente bisogna intendersi sul significato del termine. Nell’uso corrente, “cinico” è sinonimo di mascalzone: uno che non crede in niente, privo di ideali, interessato soltanto al proprio vantaggio personale. Gli esempi di personaggi del genere abbondano. Ma non è sempre stato così. Il cinismo nasce come scuola filosofica dell’antica Atene, basata sulla ricerca della felicità, il disprezzo per le comodità e gli agi, la scelta di una vita secondo natura, indifferente ai bisogni materiali. Diogene, uno dei suoi fondatori, viveva in una botte, girava scalzo, mendicando, ed era contento lo stesso: con una proverbiale lanterna in mano non cercava “l’uomo ideale” di Platone, bensì l’uomo concreto, com’è davvero.
Poi però con il tempo il concetto è cambiato, come ci ricorda l’odierna definizione del dizionario: «Atteggiamento di ostentata indifferenza e disprezzo nei confronti di valori morali e sociali». Non tutti i dizionari, tuttavia, lo definiscono allo stesso modo. Quello inglese di Oxford è meno negativo: cinico è chi è «incredulo della bontà e della sincerità umana». Come un novello Diogene, sul quotidiano londinese che ha dedicato ieri la copertina del suo inserto culturale al tema, il professor Baggini filosofeggia: «Se Bob Woodward e Carl Bernstein avessero creduto di più nella bontà e nella sincerità umana, non avrebbero mai scoperto lo scandalo Watergate ». Armarsi di una lanterna per vedere l’uomo com’è, dunque, è a volte consigliabile, se non socialmente utile. Anche Edward Snowden, l’ex-agente della Cia che sta rivelando i segreti del Datagate, dev’essere un cinico di questo tipo: non riusciva aconvincersi che spiare miliardi di telefonate ed email fosse a fin di bene.
«Il cinico conosce il prezzo di tutto e il valore di niente», ammonisce tuttavia Oscar Wilde. Ma in un altro dei suoi celebri aforismi lo scrittore riconosce che il cinismo «è l’ar-te di vedere le cose come sono, non come dovrebbero essere ». E allora è un male o un bene? Essere realisti vuol dire non essere ingenui o illusi, non è la stessa cosa che essere un delinquente senza cuore, insiste Baggini: «Non possiamo migliorare il mondo, se non capiamo che cosa è guasto e non funziona». Suona come una metafora del noto pensiero di Gramsci sul “pessimismo dell’intelligenza” e “l’ottimismo della volontà”: e forse non c’è bisogno di avere 44 per cominciare a capirlo.

Repubblica 13.7.13
Alla scoperta di noi selvaggi
Una conversazione di Lévi-Strauss con Marcel Hénaff
di Marino Niola


Lévi-Strauss colpisce ancora. A tre anni dalla sua scomparsa esce l’ultima grande intervista concessa dal più importante antropologo del Novecento. Una conversazione serrata e appassionante con un interlocutore d’eccezione come il filosofo francese Marcel Hénaff, professore all’Università della California. Titolo,
Dentro il pensiero selvaggio. L’antropologo e i filosofi(Medusa, pagg. 96, 12 euro).
Argomento del libro è l’attualità di quell’ossimoro rivoluzionario che nel 1962 diede il titolo a uno deilivres de chevet del secolo breve. Di fatto il pensiero selvaggio mandava in pensione l’opposizione eurocentrica e rassicurante – egualmente cara agli idealismi e ai marxismi – tra primitivi e civilizzati. Questi logici e razionali, quelli prelogici ed emotivi. Praticamente non pensanti, impressionabili dalle cose ma incapaci di dominare il mondo con gli strumenti della ragione.
E in questo dialogo con Hénaff Lévi-Strauss torna sull’argomento e col senno di poi rincara addirittura la dose. Ricordando che gli indios dell’America centromeridionale senza provette, alambicchi e microscopi avevano inventato tecniche per detossificare la manioca a scopi alimentari. Erano riusciti a disidratare le patate alternando fasi di congelamento e di fermentazione. Ed è grazie a loro che abbiamo il mais, creato incrociando specie non commestibili. E per di più senza compromettere gli equilibri ambientali. Come dire che la scienza non è prerogativa esclusiva di civiltà come la nostra. Perché in realtà il pensiero selvaggio non è il pensiero dei selvaggi, ma è una modalità del pensiero che fiorisce in ogni mente umana, contemporanea e antica, vicina e lontana. È un modo di rapportarsi alla realtà che si trova anche in noi e si manifesta tutte le volte che la mente si ricongiunge alle cose, fa corpo con la natura. È una logica del concreto. Simile a quella dell’arte, della musica, della poesia.
È questa la conclusione provocatoria del grande vecchio che poi spara ad alzo zero sulla filosofia che si ostina a far rientrare la realtà nei suoi schemi come in un letto di Procuste. Il mio pensiero, dice polemicamente l’auto-re diTristi Tropici,ha sempre avvertito un senso di soffocamento di fronte a certe astrazioni. Invece “all’aperto l’aria nuova lo rinvigoriva”. Come dire che l’esperienza dell’altro in carne e ossa è la sola cura contro un universalismo astratto ed eurocentrico. Eppure qualcosa di universale esiste. E l’antropologia indica la strada concreta per trovarlo. Quella che passa attraverso le umanità particolari, per arrivare a quel minimo comune denominatore che ci rende tutti umani. Quell’unità della specie che la modernità ha cominciato a cercare da quando le scoperte geografiche hanno allargato improvvisamente i confini del mondo.
Oggi che non siamo noi a viaggiare verso gli altri ma sono loro a viaggiare verso di noi, a colonizzare il nostro mondo, si ripropone alla rovescia il dilemma dei conquistadores. Cosa possiamo fare noi e loro per coabitare in un pianeta sempre più affollato. In cui un Lévi-Strauss novantaseienne confessa di sentirsi fuori luogo, quasi deportato, fotografando con oggettività da entomologo e visionarietà da profeta quella crisi sistemica che spaesa tutti noi. Perché avvertiamo che niente più sarà come prima. E viviamo con inquietudine una mutazione dagli esiti imprevedibili. Eppure, ora come allora, si tratta di mantenere l’ordine. Ed è proprio questo il vero tratto universale, la vera natura di homo sapiens. In fondo le istituzioni umane, la cultura, le arti, le ideologie e le religioni stesse sono dispositivi per ordinare la realtà. E parare ogni volta i colpi del caos.

IL LIBRO Dentro il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss con Marcel Hénaff Medusa pagg. 96 euro 12

Repubblica 12.7.13
L’indagine
La crisi delle biblioteche povere e senza personale


ROMA — Le biblioteche italiane sopravvivono con poche risorse e scarsissimo personale. Un’indagine statistica promossa dal Centro per il Libro e la lettura e dall’Associazione italiana biblioteche, in collaborazione con Istat e Anci, ha fornito le cifre di una crisi. I problemi delle biblioteche regionali, provinciali e comunali (più 6.800 quelle censite) sono noti, ma i dati raccolti li rendono più chiari: nel 2012 le biblioteche hanno speso per l’acquisto di nuovi libri una media di 7.850 euro ciascuna, per un investimento totale annuo di 30 milioni di euro, 60 se si considerano anche quelle universitarie, dunque poco più di un euro ad abitante (e la somma nel 2013 è in calo). «È grave – spiega Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro e la lettura – perché la debolezza della lettura pubblica incide negativamente sul mercato editoriale ». E poi ci sono altre cifre non confortanti: la media di apertura settimanale è 22 ore, manca il personale (il 61% ha massimo tre impiegati) e le risorse digitali sono molto esigue (il 20% non ha il catalogo web). Grave, perché con 47 milioni di libri prestati ogni anno e 14 mila utenti, di cui il 61% donne, le biblioteche contribuiscono inmododecisivoallaletturadegliitaliani. (R. D. S.)