martedì 16 luglio 2013

il Fatto 16.7.13
L’appello di 50 costituzionalisti: “Difendiamo il Parlamento”

Pubblichiamo l’appello di alcuni tra i massimi costituzionalisti italiani contro lo stop ai lavori del Parlamento votato da Pdl e Pd riguardo la fissazione della sentenza della Cassazione sul caso Mediaset per il 30 luglio
I sottoscritti professori di diritto costituzionale, di diritto pubblico e discipline affini si oppongono fermamente a tentativi anche di una sola parte del Parlamento di condizionare in forme irrituali il regolare svolgimento dei processi civili o penali, quali che siano i soggetti coinvolti, minando così, insieme con la divisione dei poteri, l’indipendenza della magistratura voluta e garantita dalla nostra Costituzione. È semplicemente mostruoso accostare l’abbandono dei lavori parlamentari da parte delle opposizioni aventiniane nel giugno del 1924, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, alla sospensione dei lavori parlamentari ventilata nei giorni scorsi. Quand’anche la tempestiva fissazione della pubblica udienza di un processo penale di un leader politico per reati comuni, prossimo alla sua estinzione per decorsa prescrizione, non fosse stata giustificata, come invece lo è in quanto l’omessa tempestiva fissazione avrebbe coinvolto la responsabilità disciplinare dei singoli magistrati, il Parlamento, come e più del popolo sovrano, deve sempre esercitare le sue funzioni soltanto “nelle forme e nei limiti della Costituzione” come prescrive il primo articolo della nostra Legge fondamentale.
Alessandro Pace, Gustavo Zagrebelsky, Gianni Ferrara, Valerio Onida, Alessandro Pizzorusso, Lorenza Carlassare, Giuseppe Ugo Rescigno, Umberto Allegretti, Gaetano Azzariti, Antonio Ruggeri, Paolo Ridola e altri

Repubblica 16.7.13
Il documento
Le associazioni a difesa della Carta e lo stop voluto dal Pdl “Fermare il Parlamento un atto ai limiti dell’eversione”

ROMA — «Mai nella storia del nostro Paese si era accettato di sospendere i lavori delle assemblee rappresentative su richiesta di un gruppo politico per contrapporsi ad una legittima decisone dell’autorità giudiziaria». Umberto Allegretti e Luigi Ferrajoli (Comitati Dosset-ti), Gaetano Azzariti e Stefano Rodotà (Convenzione per la Democrazia Costituzionale» e Gustavo Zagrebelski e Sandra Bonsanti, (Libertà e Giustizia), hanno sottoscritto un documento contro il voto con cui si è deciso di sospendere i lavori del Parlamento. «I fatti avvenuti in Parlamento mercoledì non possono essere giustificati in alcun modo e si pongono ai limiti dell’eversione costituzionale», si legge nel testo. E la sola giornata di pausa invece dei tre giorni inizialmente pretesi dal Pdl, si spiega ancora, «non può essere considerata una vittoria per nessuno, bensì la sconfitta di tutti coloro che ritengono che la democrazia non possa mai essere sospesa. Neppure per un solo giorno».

Repubblica 16.7.13
Il Consiglio italiano per i rifugiati aveva inviato una lettera con tutti i rischi legati al rimpatrio della Shalabayeva
Il pressing delle Ong sulla Farnesina “Lanciammo l’allarme, non ci hanno risposto”
di Vincenzo Nigro


ROMA — Il nostro ministero degli Esteri venne avvisato il 31 maggio da una Ong della gravità del caso Shalabayeva. Emma Bonino lo ha detto: «Sono stata avvertita da una Ong e poi abbiamo fatto i nostri controlli ». Ma non ci fu solo quel-l’allerta indicata dal ministro degli Esteri: il 4 giugno un’altra organizzazione non governativa, il Consiglio italiano per i Rifugiati, scriveva una mail alla Farnesina per informare il ministero del caso e per scuotere la diplomazia italiana. Una mail circostanziata e pesante. A cui però nessuno dalla Farnesina ha mai risposto. Soltanto un mese e mezzo dopo il governo ha fatto il primo passo favorevole alla mogliedel dissidente kazako: la revoca del decreto di espulsione.
Dice Christopher Hein, direttore del Cir: «In quella lettera chiedevamo al ministero degli Esteri che fossero attuati immediatamente tutti i passaggi per tutelare la donna e la figlia». Alla Farnesina il Cir domandava innanzitutto di verificare le condizioni delle due donne dopo il rimpatrio, mapoi profilava la violazione da parte del governo italiano del divieto di respingimento ed espulsione sancito dal Testo Unico sull'Immigrazione. La legge italiana dice che «in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere soggetto di persecuzione per motivi di razza, di lingua, di cittadinanza, diopinioni politiche». Ciò che invece è esattamente accaduto con la Shalabayeva.
Informati dall'avvocato Federico Olivo, uno dei difensori della Shalabayeva, gli uomini del Cir elencano il 4 di giugno alla Farnesina tutti i problemi seri a cui il governo italiano sta per andare incontro e con cui poi si è dovuto confrontare nelle settimane successive: «Come è noto, il marito della signora, Mukhtar Ablyazov, è stato una delle voci di opposizione più conosciute in Kazakhstan, ha fondato il movimento di opposizione Democratic Choice. In esilio da anni è riconosciuto rifugiato nel Regno Unito ha dato l'annuncio preoccupato del rimpatrio della moglie e della figlia attraverso il web».
Il Cir solleva anche la possibilità che l’Italia con la sua condotta nei confronti della moglie di Ablyazov abbia «violato anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che prevede che nessuno può essere respinto o espulso verso un paese in cui rischia di essere sottoposto a trattamenti disumani o degradanti».

l’Unità 16.7.13
Perché la Farnesina non ha convocato l’ambasciatore kazako?
di U. D. G.


Non è più tempo di sole domande. È tempo di esercitare la logica e non accontentarsi di «verità» di comodo, tanto simili all’italico gioco dello scaricabarile, magari nella sua versione «soft» di annacquamento delle responsabilità. Un discorso che investe pesantemente il Viminale, ma che non può non riguardare, sia pure in una dimensione immensamente inferiore, la Farnesina. Il comunicato con cui il ministero degli Esteri ha preso l’altro ieri le distanze dall’affare Shalabayeva è formalmente ineccepibile e nella sostanza corretto, per ciò che concerne l’estraneità della Farnesina a procedimenti di espulsione. Ma questa presa di distanze non può bastare. Perché c’è un prima, un durante e un dopo in questa improvvida «rendition». È sul dopo che c’è qualcosa da dire. E il destinatario di questa richiesta è una donna che ha
fatto della battaglia per i diritti umani un dato costante della sua biografia politica: Emma Bonino. Qualcosa da chiedere alla nostra ministra degli Esteri c’è. Una cosa è stata accertata, non oggi, ma oltre 47 giorni fa. Vale a dire che l’ambasciatore kazako a Roma ha ingannato la polizia e dunque lo Stato italiano facendo scambiare un dissidente per un pericoloso criminale. La domanda è d’obbligo: perché l’ambasciatore in questione non è stato convocato al ministero degli Esteri per chiedere conto del suo comportamento? Il tempo non è certo mancato. Bonino ha ribadito a più riprese di aver avvertito della vicenda il collega di governo, Angelino Alfano, e il presidente del Consiglio, Enrico Letta. Da allora era il 2 giugno sono passati 47 giorni. E ancora l’ambasciatore kazako non ha varcato il portone della Farnesina. Eppure di spiegazioni dovrebbe darne. Perché la sua immunità diplomatica non gli consente di ingannare il Paese in cui è accreditato. A meno che non sia il Paese di Pulcinella.

Repubblica 16.7.13
I numeri di Pannella
di Sebastiano Messina


Quando qualcuno raccoglie le firme per un referendum, è giusto che i cittadini lo sappiano. Fa benissimo dunque Marco Pannella a chiedere che la tv informi gli italiani sui dodici quesiti proposti dai radicali. Ma Pannella, anziché chiederlo perché è semplicemente giusto, lo chiede perché gli spetta: e squaderna i suoi dati, secondo i quali nei tredici mesi che finivano con le elezioni «la prima radicale è Rita Bernardini, settantesima, mentre Emma Bonino è centonovantaduesima». Per sua fortuna nessuno si ricordava che il rapporto precedente attribuiva ai radicali lo 0,9 per cento dello spazio televisivo, che sarà poco ma è sempre più del quadruplo della percentuale ottenuta da Pannella alle elezioni (0,19). In democrazia, meglio evitare di usare l’affettatrice del droghiere per reclamare i propri diritti: si rischia di ferirsi le mani.

il Fatto 16.7.13
Angelino non si tocca e il Pd s’adegua per forza
Reazioni caute tra i democrat e silenzio totale di Napolitano
di Fabrizio d’Esposito

Il lunedì è il giorno più lento di Montecitorio. Anche se c’è seduta, come ieri. Pochissimi i deputati in giro. La settimana della Camera comincia con la pressione bassissima. Nonostante l’Alfanogate, come ormai viene chiamato lo scandalo del rapimento di Stato di Alma Shalabayeva e della sua figlioletta di sei anni. E il domandone che apre un’altra ferita nel ventre molle del Pd è questo: “Il Pd ingoierà anche il rospo di Alfano dopo la furia antiparlamentare di B. contro la Cassazione? ”.
NESSUNO DÀ una risposta diretta, specifica. Eloquente anche il silenzio del Quirinale, che interviene sull’orango calderoliano ma non sul kazako. La durezza di Guglielmo Epifani è generica: “Chi ha sbagliato pagherà”. Una durezza, poi, che si basa su una scontata certezza: la relazione del capo della Polizia al massimo toccherà il responsabile di gabinetto del Viminale, Procaccini. Ossia il collaboratore più vicino al ministro. Imbarazzante. Ma l’importante è salvare il soldato Alfano, seppure per un soffio. Le larghe intese che si preparano alla forza d’urto del Trenta Luglio (processo diritti tv Mediaset alla Suprema Corte) non possono inciampare e cadere per un dissidente kazako. Realpolitik. In caso contrario, Alfano non sarebbe il solo ad andarsene a a casa. Su questo il Pdl è chiaro. L’ordine di Berlusconi è: “Angelino non si tocca”. Il Pd si è già adeguato e fa finta di non vedere la mozione di sfiducia contro Alfano di Movimento 5 Stelle e Sel. Di qui l’imbarazzo, la prudenza, la provvisoria comodità di nascondersi dietro l’attesa per giovedì, quando lo stesso vicepremier e ministro riferirà in Parlamento.
Mercoledì scorso, Piero Martino, deputato già portavoce di Franceschini, è venuto alle mani coi grillini che gridavano “servi berlusconiani” ai democrat sulla Camera bloccata per ordine del Cavaliere. Adesso dice: “Secondo lei, una forza politica che sostiene il governo può firmare o votare una mozione del genere? ”. Nei giorni scorsi, il volenteroso Emanuele Fiano ha avuto il merito di promuovere un’interrogazione sullo scandalo. Anche Fiano è prudente nell’attesa: “Aspettiamo le risultanze della relazione di Pansa”. Idem il tesoriere del partito, Antonio Misiani, un altro dei pochi deputati presenti di lunedì: “Vediamo cosa succede. Dopo spero che ci sia una discussione vera”. A scuotere l’ansia e i timori del Pd arriva però il solito Matteo Renzi. Che alla festa del Pd di Carpi si tuffa a bomba sull’ultimo guaio del-l’esecutivo di Enrico Letta: “Non credo che questo accordo con il Pdl possa andare avanti molto. Letta deve parlare tutti i giorni con Brunetta e Schifani”. I falchi del Pdl si avventano su di lui: “Si attacca Alfano per favorire Renzi”. Il sindaco di Firenze ironizza: “Sembra che l’abbia rapita io”.
IL CASINO è tale che poi il portavoce di Renzi fa una retromarcia semantica: “Matteo non ha detto ‘credo che non durerà”. Anche la lingua italiana è un’opinione. I toni dei renziani sono comunque più duri. Ecco Ernesto Carbone: “Se si arriva alla responsabilità di Procaccini vuol dire che la responsabilità è politica”. Cioè di Alfano, anche se non sapeva. Allora sarà più facile votare la mozione di Sel e grillini? Qui Carbone si uniforma ai suoi colleghi: “Noi siamo un partito di maggioranza, loro sono opposizione”. Idem Amendola, che renziano non è ma sta nelle segreteria di Epifani: “Basta con questo sport del Pd di firmare o votare le mozioni degli altri”. Pina Picierno sembra più dura e dice, unica, quello che non si può dire: “Se Alfano è responsabile si deve dimettere”. Al punto da votare con Sel e grillini? “Una mia dichiarazione in questa direzione è stata forzata”.
EPPURE, oltre l’orizzonte forzato della realpolitik, Nichi Vendola spera che parte del Pd possa votare contro il ministro dell’Interno. Anche per questo Sel ha chiesto lo scrutinio segreto. La mozione sarà calendarizzata a metà della prossima settimana, a cinque giorni dal Trenta Luglio fatidico. Un incrocio tremendo. Ieri, il leader di Sel era alla Camera. La domanda sul rospo Angelino da ingoiare si tira dietro una battuta vendoliana: “È un problema del metabolismo del Pd”. Fabio Mussi è con lui. Grida: “In qualsiasi Paese del mondo di fronte a uno scandalo del genere un governo, non un solo ministro, si sarebbe dimesso in 17 secondi. La mozione? Votare e sputare”. Votare e sputare Alfano. Non ingoiare.

il Fatto 16.7.13
L’ex ministro Claudio Scajola
A sua insaputa? No, Alfano non poteva non sapere
di Carlo Tecce


Pronto, onorevole Claudio Scajola. “Mi dica, cosa butta di nuovo? Io, l’uomo a sua insaputa, sono ancora di moda? ”
Il mezzanino al Colosseo non c’entra nulla.
Quanto ho sofferto. Ho aspettato tre anni per sapere che davvero non sapevo: in udienza, e giuravano, le sorelle Papa e l’architetto Zampolini hanno negato le accuse. Ammetto, mi è scesa una lacrimuccia.
Angelino Alfano, a buon diritto, è un uomo a sua insaputa?
Che devo rispondere? La questione kazaka è delicata. Io parlo, voi cosa scrivete?
Ascoltiamo.
Io conosco il Viminale, non vi faccio perdere tempo.
Quante stanze separano l’ufficio del ministro e quello del capo di gabinetto?
Non più di tre, pochi metri, pochi passi.
Giuseppe Procaccini riceve i diplomatici kazaki, vogliono cacciare un dissidente: come fa il ministro a essere informato?
Aspetti.
Cosa?
La formulazione è sbagliata. Come fa un ministro a non essere informato?
Fatta la domanda, si dia una risposta.
Procediamo per esclusione ed esperienza. I due non si possono incontrare per caso, per esempio non possono ritrovarsi in bagno.
Perché?
Il ministro ha uno spazio riservato, non condivide questo tipo di bisogni. Però, per dire, il capo di gabinetto è il filtro per i dipartimenti e, viceversa, il ministro non può che compulsare questo filtro.
Al giorno, quante volte?
Io ricevevo il capo di gabinetto ogni mattina entro le 8: leggevo la posta privata, fissavo l’agenda e lui mi aggiornava sui fatti accaduti di notte. Poi ci vedevamo prima di pranzo per capire gli appuntamenti e le pratiche più urgenti. Non lasciavo il ministero, a tarda sera, se non avevo l’ultimo colloquio che faceva il punto conclusivo. Se non ci vedevamo di persona, era tassativo sentirci al telefono.
Conosce Procaccini?
Era il vice del mio capo di gabinetto, non avevo rapporti diretti con lui. Ma al Viminale conoscono la gerarchia e la fanno rispettare.
Perché un prefetto dovrebbe assumersi una responsabilità che va oltre i suoi poteri e mettere ai margini il ministro?
La gerarchia, le ripeto, la gerarchia è fondamentale.
I kazaki vanno al Viminale, la polizia organizza l’irruzione, la donna viene trasportata in un centro di accoglienza per immigrati e poi viene espulsa assieme a una bambina di sei anni. Passano 48 ore. Come può restare all’oscuro un ministro?
La sceneggiatura è ottima, convincente. Mi consenta, e utilizzo un’espressione berlusconiana, di fare una citazione. Diceva il mio maestro, ex ministro al Viminale, Paolo Emilio Tavani: Quando ti accorgi di non avere la fiducia dei tuoi sottoposti, vattene via.
Alfano o sapeva e ha agito male oppure non sapeva e non controlla il ministero.
Concordo. Non ci sono spiegazioni alternative.
In sintesi: il vicepremier non è all’altezza per essere un erede di Taviani al Viminale?
Sì. Però le abitudini sono fondamentali. Io mi comportavo così, vedevo regolarmente il capo di gabinetto e i miei predecessori - da Cossiga a Taviani - mi hanno insegnato questo atteggiamento, non saprei onestamente valutare la gestione moderna di Angelino... Io me lo ricordo per la sua attività politica.
Che deve fare, ora, Alfano?
Io me ne sono andato per un errore a mia insaputa, ma non posso suggerire una reazione di Angelino. Vengo da tre anni durissimi, botte da destra e sinistra, soprattutto da destra sì.
Quanto conta il Kazakistan per l’Italia?
Tantissimo. Al Viminale non ho avuto contatti, però allo Sviluppo Economico, era il 2009, ci fu un bilaterale con numerosi diplomatici. La nostra Eni ha investito somme ingenti in quel paese, c’è un giro d’affari molto importante. Mi creda: molto importante.

La Stampa 16.7.13
Quella poltrona che scotta
di Marcello Sorgi


Che la maledizione del Viminale si sarebbe abbattuta anche su di lui, Alfano non lo aveva previsto. Non poteva. E non solo perché il caso della contestata espulsione della moglie del dissidente kazako Ablyazov e della sua figlioletta di 6 anni è esploso nel bel mezzo del complicato avvio del governo delle larghe intese. Momento nel quale il ministro e vice presidente del Consiglio è stato molto assorbito dai problemi politici che affliggevano l’inedita maggioranza degli alleati -avversari.
Ma perché la caratteristica della maledizione è proprio di colpire il responsabile del ministero alle spalle, e a volte anche molto tempo dopo che ha lasciato l’incarico. Tal che è dura a morire la leggenda dei traslochi degli inquilini del Viminale, accompagnati, fino a qualche anno fa, da quintali di carte da portar via, a futura memoria e discolpa da scandali e intrighi a scoppio ritardato.
A dispetto della sua intestazione, infatti, l’Interno ha sempre avuto una consistente propaggine esterna e una sorta di doppio comando, in cui la parte più alta della struttura doveva barcamenarsi tra le esigenze politiche del responsabile «pro-tempore» italiano e la fedeltà di sempre all’alleato straniero, gli americani che negli anni della guerra fredda, ma anche dopo, consideravano l’Italia una sorta di protettorato e il responsabile dell’Ufficio Affari Riservati Federico Umberto D’Amato, un prefetto con la passione del grand-gourmet, un loro diretto dipendente. Il Vaticano che non ha mai rinunciato alla sua «informale» tutela. I vari pezzi del mondo arabo tra cui solo il mitico colonnello Stefano Giovannone sapeva districarsi. Per questa ragione, pur trattandosi di una delle poltrone più importanti di ogni governo, quella del Viminale non è stata mai troppo ambita, ed anzi veniva assegnata, già in anni lontani, quasi per esclusione. Ai tempi della Prima Repubblica la regola non scritta era che dovesse toccare esclusivamente a un democristiano, scelto tra i titolari delle correnti o sottocorrenti minori, quelli che, con un piccolo pacchetto di voti congressuali, erano in grado di determinare la scelta del segretario.
A rileggerla così, seppure con qualche approssimazione, quella dei responsabili del Viminale è essenzialmente la storia delle vittime di una pubblica, enorme organizzazione, sostanzialmente acefala e fatta di corpi separati sovente in lotta tra loro. Una volta si diceva che il Viminale era l’incrocio tra Sud, Stato e Dc, anche se nessuno era in grado di spiegare quale fosse l’azionista più importante. Tolta la stagione dell’Antimafia, la sola in cui la consapevolezza del rischio si sia diffusa tra le stanze del vecchio palazzone umbertino - creando una nuova generazione di poliziotti e manager abituati al gioco di squadra, in pratica una rivoluzione - i ministri di ogni tempo, a sedere su quella poltrona, accanto al centralino simbolico e monumentale che collega ogni branca del potere, ci hanno rimesso qualcosa, quando non l’intera carriera.
Perfino Mario Scelba, il «ministro di polizia» per antonomasia, protagonista della pesante stagione (1947-’53) di repressione anticomunista del Dopoguerra, pagò il prezzo di quella durezza con una prematura uscita di scena e solo un brevissimo passaggio alla Presidenza del consiglio, il classico «promoveatur ut amoveatur». Tra i siciliani, scelti con la caratteristica di essere aghi della bilancia degli instabili equilibri democristiani, non andò meglio a Franco Restivo, ministro tra il 1969 e il 1972, in tempo per beccarsi la bomba di Piazza Fontana, l’inizio delle stragi e del terrorismo e le accuse di aver provocato le une e l’altro in forza di una «strategia della tensione» da scaricare sulle spalle di «opposti estremismi», che sarebbero serviti a consolidare il dominio della Dc. Quanto ci fosse di italiano e di genuinamentedc, in questa cosiddetta «strategia», e quanto di importato dall’estero, si sarebbe scoperto qualche anno dopo. E molto è ancora da scoprire.
In qualche modo, la conferma di tutto ciò è la quinta o la sesta inchiesta su Moro, nata pochi giorni fa dalle rivelazioni della presenza molto mattutina, e prima della tragica scoperta, del ministro Francesco Cossiga il 9 maggio ’78 in via Caetani, dove il corpo dello statista era stato lasciato dai carnefici brigatisti che avevano eseguito la «condanna a morte». Il sequestro e l’assassinio del leader dc, i 55 giorni scanditi dalla grottesca serie di prove di inefficienza, la seduta spiritica che rivela il covo (che non verrà mai trovato) delle Br in via Gradoli, la presunta estrema unzione data dal sacerdote don Mennini al «condannato» nella «prigione del popolo», oltre naturalmente alla presenza, nelle stanze del Viminale, dei misteriosi «esperti americani», costituiscono l’esempio più lampante dell’identità ambigua del nostro sistema di sicurezza. Pur provenendo dalla corrente più filoamericana della Dc, i «pontieri» (in cui aveva militato anche Paolo Emilio Taviani, suo illustre predecessore dal 1962 al ’68, e organizzatore della rete paramilitare segreta di volontari anticomunisti «Gladio»), Cossiga dovette dimettersi. Ma un po’ ministro dell’Interno, appassionato di trame oscure e di misteriosi intrecci spionistici, rimase fino alla fine.
Oscar Luigi Scalfaro incappò nel ’93 nello scandalo dei «fondi neri» del Sisde, in piena «rivoluzione italiana», quand’era al Quirinale. Rimase memorabile il suo «non ci sto», pronunciato a reti unificate, per reagire all’impiccio che gli era stato costruito attorno - una storia di corruzione creata da due alti funzionari con un passato nei servizi e due cognomi surreali, Finocchie Broccoletti. Si scoprì dop o c h e n e i quattro anni, dal 1983 all’87, in cui era stato al Viminale, con Craxi presidente del consiglio, Scalfaro aveva utilizzato una parte modestissima della dotazione riservata al ministro anche per mandare qualche vaglia a un convento di suore.
In tempi più recenti, con il crollo della Prima Repubblica e l’avvento della Seconda, anche l’esclusiva democristiana sul ministero venne meno. Ma dei non-dc, il solo che sia uscito indenne da quelle stanze è Giorgio Napolitano, il primo comunista a sedere al Viminale nel 1996, di cui ancora molti ricordano la serietà e la severità nello svolgere il suo ruolo. Gli altri, chi più chi meno, qualche cicatrice come ricordo se la sono portata dietro. Roberto Maroni, nella sua prima esperienza di ministro leghista, nel ’94, subiva a tal punto l’oppressione di un ministero popolato al novanta per cento da personale meridionale, che si era trincerato in un angolo del palazzo e comunicava solo con i suoi stretti collaboratori, importati dalla Lombardia. La crisi di governo dopo soli otto mesi impedì un fenomeno di rigetto e la seconda volta, nel 2008, a Maroni andò meglio. Enzo Bianco, un passato repubblicano, da poco rieletto sindaco di Catania, nel 2001, la sera delle elezioni, a urne chiuse, si ritrovò con la gente che protestava accusandolo di non aver consentito a tutti di votare. Una pagina nera, dovuta all’accorciamento degli orari di apertura dei seggi. Anche Beppe Pisanu, che doveva simboleggiare il gran ritorno dei democristiani al Viminale, incorse in un incidente elettorale. Succeduto bruscamente a Scajola, dimissionario per l’infelice gaffe sul giuslavorista Marco Biagi ucciso dalle Br, nel 2006, la sera dello spoglio delle schede, si presentò a Berlusconi a notte fonda, annunciandogli la vittoria. Due ore dopo il Cavaliere apprese di aver perso per 24 mila voti.
Sia chiaro, la storia di Alma Shalabayeva e della figlia innocente, espulse dopo un inutile blitz con cinquanta uomini e un pasticcio burocratico che ha costretto il governo a una ignominiosa marcia indietro, rimane inammissibile. A leggere le ricostruzioni - e speriamo che Alfano giovedì alla Camera sia in grado di portare qualche argomento più convincente -, si fatica a credere a quel che sarebbe accaduto. Ma prima di considerare inverosimile che in Italia, a Roma, un’esule a rischio di rappresaglia politica, in quanto moglie di un dissidente, possa essere catturata come una delinquente e consegnata al regime che la perseguita, senza che siano stati avvertiti né il ministro competente, né il presidente del consiglio, forse la storia emblematica del Viminale repubblicano conviene ripassarsela.

Repubblica 16.7.13
Le teste degli altri

Non potendo difendere il ministro Alfano né nel merito né nel metodo seguito nel caso Ablyazov, il Pdl ieri è sceso in campo massicciamente, dai generali agli opliti, per attaccare "Repubblica". Il risultato è desolante culturalmente, perché tutti ripetono come all'asilo le stesse frasi predisposte appositamente dalla "Struttura Delta" che interviene nei momenti di massimo pericolo. Ma è anche illuminante politicamente: perché nessun dato di fatto rivelato dall'inchiesta di "Repubblica" sullo scandalo kazako è stato smentito, o anche solo confutato. Tutto è vero, come sapevamo e come il Pdl ammette, e dunque tutto porta alla responsabilità politica e personale di un ministro dell'Interno, per di più vicepresidente del Consiglio, che ha trascinato il Paese in un'operazione vergognosa e umiliante, a favore di un satrapo ex sovietico che gode di complicità inconfessabili e spregiudicate anche nel nostro Paese. La sola linea di difesa del Pdl è l'accusa di "manovra politica" al nostro giornale. Quale manovra? Abbiamo citato fatti, una concatenazione di fatti. Che conducono direttamente al Viminale, dove il Capo di gabinetto di Alfano riceve l'ambasciatore kazako con le sue richieste e innesca l'operazione di polizia che consegnerà Alma Shalabayeva e la figlia a Nazarbaev. Ora, i casi sono due: se il ministro sapeva, deve dimettersi perché responsabile di tutto. Se non sapeva, deve dimettersi perché irresponsabile del tutto. Non c'è una terza via davanti all'indecenza di quel che è successo. Persino nel Paese dove saltano sempre le teste degli altri.

Repubblica 16.7.13
Perché il ministro non poteva non sapere
L’ultimo fortino del ministro pronto a insistere sul “non sapevo” e a sacrificare i vertici del Viminale
In bilico Procaccini e Marangoni. Oggi la relazione di Pansa
di Carlo Bonini


ROMA LA DECISIONE è presa. E sarà formalizzata questa mattina, quando il capo della polizia Alessandro Pansa rassegnerà al ministro dell’Interno la sua inchiesta interna sul caso Ablyazov.
PER salvare se stesso, per sottrarsi alla logica stringente dei fatti che dicono che «non poteva non sapere», Angelino Alfano, come ribadivano ieri sera qualificate fonti del Viminale, «è pronto a sacrificare un’intera linea di comando». Più o meno la spina dorsale del Dipartimento della Pubblica sicurezza. Perché - aggiungevano le stesse fonti - «nessuno può pensare che in questa storia possa pagare una persona sola». Con il capo di gabinetto del Ministro, Giuseppe Procaccini, ilredde rationem riguarderà dunque anche il segretario del Dipartimento di Pubblica sicurezza, Alessandro Valeri, il prefetto e già capo della polizia pro-tempore Alessandro Marangoni, il capo della Criminalpol Francesco Cirillo, nonché, qualora la relazione Pansa gliene dovesse offrire motivo, il questore di Roma Fulvio Della Rocca, il suo capo della squadra mobile Renato Cortese e il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta.
La dimensione del “sacrificio umano”, il numero di teste da infilare nel cesto che verrà portato in Parlamento giovedì, dipenderà dal loro costo. Perché più si allungherà la lista dei capri da immolare in nome di questa operazione di disperata sopravvivenza politica, più alto sarà il loro rango, più la posizione di Alfano all’interno del Viminale rischia di diventare comunque insostenibile.
UNA RELAZIONE “FOTOGRAFIA”
Non a caso, la relazione del Capo della Polizia Alessandro Pansa e la sua ricostruzione della catena di eventi tra il 28 maggio (data della visita dei diplomatici kazaki al Viminale) e il 3 giugno (giorno in cui, sollecitato dal Viminale, il questore di Romainvia una prima nota con la ricostruzione di quanto accaduto) non conterrà alcuna raccomandazione finale. Un modo per consegnare anche visibilmente all’autorità politica la responsabilità intera delle decisioni che verranno prese. Il capo della polizia - secondo quanto riferisce l’entourage di Alfano - «si limiterà a una esatta radiografia di quanto accaduto. E le decisioni sulle responsabilità dei singoli saranno poi prese dal ministro di intesa con il governo». Un dettaglio che dice tutto di quale tipo di processo è stato imbastito. E sulla sua natura che, evidentemente, deve piegare i fatti a una logica diversa da quella che quegli stessi fatti mostrano con solare evidenza.
I RINGRAZIAMENTI KAZAKI
Non una sola delle circostanze sin qui documentate consente infatti di concludere che il ministro dell’Interno non sia stato informato di quanto accaduto il 28 maggio al Viminale. Fu Alfano a chiedere al suo capo di gabinetto Procaccini di ricevere l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere per raccoglierne le richieste. E che la pratica Ablyazov gli stesse a cuore è dimostrato dalla celerità con cui venne evasa dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza (il blitz è della notte del 28). Pensare che Procaccini abbia “dimenticato” di avvisare Alfano, di dargli alcun ritorno, anche solo verbale, dell’esito dell’operazione non fa soltanto a pugni con la logica o con la circostanza che la fiducia in lui del ministro è stata tale da farne uno dei candidati Pdl alla successione di Manganelli. Ma fa anche a pugni anche con una circostanza documentale. Il 31 maggio, infatti, l’ambasciata Kazaka ringraziò formalmente l’Ufficio Immigrazione della Questura con un fax in cui si plaudeva all’efficienza dimostrata nell’espellere Alma Shalabayeva e sua figlia. Pensare che quei ringraziamenti siano stati “partecipati” alla sola Questura e non anche al ministro e al suo gabinetto, dove quella storia aveva preso il “la” è semplicemente inverosimile. Insomma, anche la soddisfazione degli amici kazakivenne taciuta al ministro?
UNA STRANA AMNESIA
Del resto, che nulla funzioni della ricostruzione degli eventi data sin qui dal ministro, è dimostrato anche da un’evidente contraddizione del suo racconto. A suo dire, infatti, Alfano, dopo essere stato insistentemente cercato telefonicamente dall’ambasciatore kazako tra il 27 e il 28 maggio e aver affidato l’incombenza a Procaccini, nulla avrebbe più saputo fino alla telefonata del ministro degli esteri Bonino. In quella circostanza - è certo - la Bonino fa riferimento al Kazakistan. Possibile che, a distanza di soli 4 giorni tra le chiamate e la visita al Viminale dell’ambasciatore di quel Paese e la notizia che gli sta dando la Bonino, nei ricordi di Alfano non si accenda alcuna luce? In fondo, si parla del Kazakistan. Un Paesenon proprio difficile da confondere o da farsi passare di mente.
L’INGIUSTIFICABILE INERZIA
C’è infine un ultimo punto che renderà la “punizione esemplare” di qualche testa coronata degli apparati logicamente difficile da sostenere di fronte al Parlamento e all’opinione pubblica. L’inchiesta di Alessandro Pansa fotografa fatti e circostanze ampiamente noti al ministro e al Dipartimento di pubblica sicurezza già il 3 giugno. E dunque, perché - vale la pena di ripeterlo - per 45 lunghissimi giorni, Alfano non ritiene di dover rovesciare il tavolo? Per quale motivo scopre solo dopo 45 lunghissimi giorni che l’intero Dipartimento di Pubblica sicurezza e il suo fidatissimo capo di gabinetto lo hanno tenuto all’oscuro dell’operazione Ablyazov? Per quale motivo, il 5 giugno, Alfano difende pubblicamente «il corretto operato » di quella linea di comando che ora è pronto a spezzare e consegnare al tribunale dell’opinione pubblica quale unica responsabile?
IL RICATTO AL GOVERNO
Consapevole dell’impossibilità logica di aggirare la logica e i fatti, Alfano, non a caso, avvisa che le sue decisioni sull’apparato saranno «condivise con il governo ». Il ministro dell’Interno sa, infatti, che l’unico modo per garantirsi la sua permanenza al Viminale, per non essere divorato di qui in avanti da una struttura che in questo momento vive come un’intollerabile umiliazione il tribunale di fronte a cui è stata chiamata, è fare in modo che un’operazione di così evidente spregiudicatezza politica trovi la complicità anche nel Pd. Soprattutto in negli uomini di quel partito che in questi anni hanno stabilito legami solidi con il Viminale e che al Viminale continuano ad avere ascolto.
Una situazione che, a ben vedere, ricorda politicamente come un calco il luglio del 2001. I fatti del G8 di Genova. Anche allora, un ministro dell’Interno disperato (Claudio Scajola) rovesciò sugli apparati una responsabilità politica che era innanzitutto sua. E lasciò che negli apparati si consumasse un cinico gioco di scaricabarile che voleva la responsabilità di quel giorno in capo a un solo questore e a un singolo reparto della Celere. E questo, nel silenzio delle opposizioni (il Pd) e del Parlamento di allora, che rinunciarono persino a una commissione di inchiesta. Sappiamo come finì Scajola (costretto alle dimissioni due anni dopo). Sappiamo che ne è stato per dieci anni dell’immagine della Polizia.

il Fatto 16.7.13
Berlusconi e il dittatore
Smentito l’incontro tra B. e il presidente kazako


Silvio Berlusconi non avrebbe incontrato il presidente kazako Nursultan Äbizuli Nazarbayev. Secondo il comunicato di Palazzo Grazioli, “sabato scorso, 6 luglio, il presidente Berlusconi si è trattenuto tutto il giorno nella sua residenza di Arcore e in nessun altro giorno il presidente si è recato in Sardegna e ha incontrato il presidente Nazarbayev”. Il quotidiano in questione è l’Unione Sarda, che ha raccontato un presunto incontro segreto tra i due politici a Puntaldia, a 15 chilometri da Olbia, in una villa di proprietà di Ezio Maria Simonelli, presidente dei revisori dei conti della Lega Calcio e noto come uno dei commercialisti di Fininvest e Mediaset. Sempre il giornale sardo racconta che i due si sarebbero incontrati con l’intento “di trovare un accordo sulla versione da fornire successivamente per evitare al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di finire sulla graticola”.

il Fatto 16.7.13
Kazaki & cazzari
di Marco Travaglio


Ora ci spiegano che, sul ruolo dei ministri Alfano e Bonino nello scandalo kazako, bisogna attendere fiduciosi il rapporto del capo della Polizia appena nominato dal vicepremier e ministro Alfano a nome del governo Letta per conto del Quirinale. Come se il nuovo capo della Polizia potesse mai sbugiardare il superiore da cui dipende e mettere in crisi il governo che l’ha nominato. Suvvia, sono altre le indagini imparziali che andrebbero fatte. Ci vorrebbe una Procura indipendente dalla politica, quale purtroppo non è mai stata, almeno nei suoi vertici, quella di Roma, che in questi casi si è sempre mossa come una pròtesi del governo di turno. Quindi lasciamo stare le indagini e limitiamoci alle poche cose chiare fin da ora. Se la polizia italiana ha cinto d’assedio con 40 uomini armati fino ai denti il villino di Casal Palocco per sgominare la temibile gang formata da Alma e Aluà, moglie e figlia (6 anni) del dissidente Ablyazov, e spedirle fermo posta nelle grinfie del regime kazako, è per un solo motivo: il dittatore Nazarbayev, che ne reclamava le teste e le ha prontamente ottenute, è uno dei tanti compari d’anello di Berlusconi in giro per il mondo. Da quando Berlusconi è il padrone d’Italia, il nostro Paese viene sistematicamente prostituito ora a questo ora a quel governo straniero, in spregio alla sovranità nazionale, alla Costituzione e alle leggi ordinarie. I compari stranieri ordinano, lui esegue, il funzionario di turno obbedisce e viene promosso, così non parla. Un ingranaggio perfettamente oliato che viaggia col pilota automatico, sul modello Ruby-Questura di Milano. La filiera di comando è tutta privata. Governo e Parlamento non vengono neppure interpellati o, se qualche ministro sa qualcosa, è preventivamente autorizzato a fare il fesso per non andare in guerra, casomai venga beccato. Tanto si decide tutto fra Arcore, Villa Certosa e Palazzo Grazioli. Sia quando lui sta a Palazzo Chigi, sia quando ci mette un altro, tipo il nipote di Letta.
Era già accaduto col sequestro di Abu Omar per compiacere Bush (solo che lì una Procura indipendente c’era, Milano, e Napolitano dovette coprire le tracce graziando in tutta fretta il colonnello Usa condannato e latitante). Ora, per carità, è giusto chiedere le dimissioni di Alfano e Bonino, per evitare che volino i soliti stracci e cadano le solite teste di legno: se i due ministri sapevano, devono andarsene perché complici; se non sapevano, devono andarsene a maggior ragione perché fessi. Ma è ipocrita anche prendersela solo con loro. La Bonino è uno dei personaggi politici più sopravvalutati del secolo: difende i diritti umani a distanza di migliaia di chilometri, ma in casa nostra e dei nostri alleati non ha mai mosso un dito (tipo su Abu Omar e su Guantanamo). Alfano basta guardarlo per sospettare che non sappia neppure dov’è il Kazakistan e per capire che conta ancor meno di Frattini, che già contava come il due a briscola: è l’attaccapanni di B. ed è persino possibile che i caporioni della polizia, ricevuto l’ordine dal governo dell’amico kazako, abbiano deciso di non ragguagliarlo sui dettagli del blitz. Tanto non avrebbe capito ma si sarebbe adeguato, visto che non comanda neppure a casa sua. Il conto però va presentato a chi ha nominato Alfano vicepremier e ministro dell’Interno e la Bonino ministro degli Esteri. Cioè a chi tre mesi fa decise di riportare al governo B. nascosto dietro alcuni prestanome. E poi iniziò a tartufeggiare sul Pdl buono (Alfano, Lupi e Quagliariello) e il Pdl cattivo (Santanchè, Brunetta e Nitto Palma). Il Pdl è uno solo e si chiama Berlusconi, con tutto il cucuzzaro dei Putin, Nazarbayev, Erdogan & C. Per questo l’antiberlusconismo, anche a prescindere dai processi, è un valore. Chi – dai terzisti al Pd – lo accomuna al berlusconismo e invoca la “pacificazione” dopo la “guerra dei vent’anni”, non ha alcun diritto di scandalizzarsi né di lamentarsi per gli effetti collaterali dell’inciucio. Inclusi i sequestri di donne e bambine. Avete voluto pacificarvi con lui? Adesso ciucciatevelo.

il Fatto 16.7.13
Memoriale. Parla Alma Shalabayeva
Laura, l’agente pro Nazarbayev
“La poliziotta mi chiedeva: perché odia Nazarbayev?”
“Mi urlava, poi mi sorrideva. Si chiama Laura, mi ha mostrato la foto del figlio di 9 anni. Poi ha preso la mia bambina. Ho chiesto asilo politico, mi ha risposto: è tutto già deciso”

di Alma Shalabayeva

Pubblichiamo un altro stralcio del “Memoriale” della donna reso noto dal “Financial Times”

Nel pomeriggio una donna fece improvvisamente la sua comparsa nell’ufficio dietro il vetro divisorio. Aveva i capelli chiari. Era italiana, tra i 35 e i 45, più alta di me, 1,70 circa, di corporatura media. Non credo fosse bionda naturale, sembrava essersi tinti i capelli. Portava gli occhiali. Cominciò immediatamente a urlarmi contro. Non si presentò nemmeno. Non faceva che urlare accusandomi di aver falsificato il passaporto. Parlava un pessimo inglese, ma riuscivo a capirla. Si comportava in maniera imprevedibile. Un momento urlava, poi improvvisamente cominciava a sorridere e mi prometteva che mi avrebbero rimessa presto in libertà. Non riuscivo a capire quale era il suo scopo e mi sfuggivano le ragioni di questo spettacolo. Ero già emotivamente esausta e le sue urla rischiavano di causarmi uno scoppio di pianto. A fatica riuscii a controllarmi.
Mi portarono nella zona dove si trovavano gli uffici e dove c’erano una ventina di persone. Tra loro riconobbi alcuni che avevano fatto irruzione in casa mia il 29 maggio. Ce n’erano diversi. Chiesi ancora una volta di vedere un avvocato. Una donna con i capelli chiari e tagliati corti mi si avvicinò. Era la stessa donna che avevo conosciuto quando mi avevano portato all’ufficio immigrazione, che mi si era rivolta urlando.
“LA BIMBA AI MIEI UOMINI”
Allora non sapevo come si chiamava, ma la riconobbi immediatamente. In seguito mi disse di chiamarsi Laura. Non so se era il suo vero nome. Laura mi si avvicinò, mi sorrise: “Ti prego di chiamare tua sorella e di dirle di affidare la bambina alle persone che sono venute a casa tua”. Ebbi una reazione di enorme paura. Quali persone? Perché devo affidare a loro mia figlia? Chiesi ancora di vedere un avvocato e mi rifiutai. Lei insisteva. Mi disse: “Ora potrai vederla. Tua figlia non l’hai più vista e sicuramente le manca la madre. Se non telefoni la porteranno in prigione e non potrai vederla”. Risposi che non avrei telefonato e che insistevo per vedere un avvocato. Tirai fuori il foglietto con il numero dell’avvocato e dissi: “Mi dia un telefono per cortesia”. Laura mi strappò il foglietto dalle mani e lo fece a pezzi. Rimasi di sasso! A giudicare dalla risolutezza del suo comportamento evidentemente stava eseguendo alla lettera gli ordini che le erano stati dati. Mi disse che per legge non potevo parlare con un avvocato. Era presente anche l’italiano che parlava russo. Anche lui cercava di convincermi a telefonare a mia sorella. Laura fece il numero di uno dei suoi che era a casa mia. Mi passarono mia sorella: singhiozzava al telefono. Mi disse che erano tornati, volevano la bambina e non le facevano chiamare gli avvocati. Urlai: “Non darle la bambina, non andare da nessuna parte senza gli avvocati! ”. Non appena sentì la parola russa “advokat”, Laura mi strappò il telefono di mano. Tremavo. Mi ordinarono di mettermi a sedere e di aspettare. Poi d’improvviso tutti si agitarono. Mi dissero che dovevamo andare. “Dove? ”, chiesi. L’italiano che parlava russo mi disse: “Deve andar via”. “Devo telefonare al mio avvocato”, replicai. “È impossibile. Per legge lei se ne deve andare”. Laura mi disse che mi avrebbero condotto in auto da mia figlia. Gli altri mi spinsero: “Andiamo, andiamo! ”. Mi condussero in strada e mi fecero salire su un minibus. Intorno a me c’erano più di dieci persone; alcuni erano gli stessi che avevano fatto irruzione in casa mia.
“MI HA REGISTRATO”
Laura si sedette accanto a me. Li sentii parlare di Ciampino e capii che eravamo diretti lì. Anche l’italiano che parlava russo salì a bordo del minibus. Si sedette dietro di me e non ebbi modo di parlargli. Durante il tragitto Laura cominciò a parlare con me. Mi fece qualche domanda che, considerate le circostanze, mi apparve strana. “Perché pensi che le cose vadano così male in Kazakistan? ”. Cominciai a raccontarle come veniva trattata l’opposizione, le dissi che Nazarbayev era una persona spaventosa, che si serviva degli altri per i suoi sporchi affari e che voleva assassinare mio marito. Mi chiese che rapporti aveva Nazarbayev con il presidente russo. Le risposi che avevano ottimi rapporti. Quando finii di parlare, senza nemmeno tentare di dissimulare quello che stava facendo, tirò fuori il telefono che aveva nascosto da qualche parte e interruppe la registrazione. Capii che aveva registrato tutto quello che avevo detto. Laura rimase sempre accanto a me. Ogni tanto usciva per fare una telefonata e ovviamente prendeva in continuazione ordini da qualcuno. Cercava di calmarmi: mi diceva che tutto sarebbe andato bene e che ci avrebbero permesso di tornare a casa. Mi fece vedere la foto di suo figlio di nove anni. D’improvviso, intorno alle 18, Laura entrò nella stanza. Afferrò mia figlia e scappò con lei. La rincorsi. Laura attraversò di corsa tutto l’ae- roporto. Portava mia figlia in braccio e scherzava con lei facendole il solletico e fingendo che si trattasse solo di un gioco. Io le rincorrevo. In quel momento non pensavo a nulla. Laura con mia figlia in braccio correva verso un minibus che si trovava nella zona interna del-l’aeroporto, praticamente sulla pista. Salì sul minibus e io la seguii. Il minibus si mosse. Ecco in che modo mi attirò con l’inganno nel minibus. Aluasha non aveva capito nulla. Sull’autobus, Laura fece sedere la bambina tra noi. Le chiesi cosa stava succedendo, dove stavamo andando. Non disse nulla che potesse avere un senso. Sul-l’autobus accanto a noi c’erano altre cinque persone. A parte Laura, erano tutti armati. Vedevo le armi sotto le giacche. Erano tutti italiani. Sul minibus c’era anche l’italiano che parlava russo. Dissi a Laura: “Laura, chiedo l’asilo politico! ”. Mi rispose con tono affettuoso: “Ormai è troppo tardi. Tutto è già stato deciso”.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 16.7.13
Tutti i dubbi sul “no” all’asilo: Ai Pm il memoriale di Alma
Scandalo kazako, oggi la relazione con cui il capo della Polizia scagionerà il ministro dell’Interno
Ma il giorno del blitz la Questura sapeva che la donna era la moglie di Ablyazov
di Marco Lillo e Davide Vecchi


La Procura di Roma acquisirà il memoriale di Alma Shalabayeva pubblicato dal Financial Times e poi tradotto in Italia dal Fatto e da altri quotidiani. In quel documento di 18 pagine sono presenti accuse molto gravi nei confronti della Polizia e in particolare di alcuni funzionari addetti all’immigrazione che hanno avuto contatti con Alma Shalabayeva nelle ore in cui si decideva il suo destino. Per esempio la moglie del dissidente (che rimane ricercato in Italia e questa è un’ altra stranezza di questa storia) accusa una funzionaria di nome Laura, che effettivamente lavora alla Polizia dell’immigrazione, di averle impedito di presentare richiesta di asilo politico. Non solo. Laura le avrebbe strappato la figlia dalle braccia per obbligarla a seguirla sull’aereo e le avrebbe precedentemente imposto l’affidamento della figlia all’autista ucraino.
LAURA HA GIÀ presentato una relazione scritta ai suoi superiori per smentire le accuse e il procuratore Giuseppe Pignatone dovrà a questo punto effettuare i suoi accertamenti per poi concludere o nel senso della violazione delle norme a presidio del diritto di asilo o nel senso della calunnia contro la funzionaria, tertium non datur.
Anche perché la questione del-l’asilo politico è cruciale. Il Financial Times aveva pubblicato a novembre del 2012 un articolo - disponibile su internet - nel quale era scritto che Ablaymov “ha ottenuto asilo in Gran Bretagna”. Eppure nessun prefetto e nessun funzionario della Polizia che ha partecipato all’operazione di rimpatrio della moglie sostiene di avere avuto nozione di questa circostanza fondamentale. Una stranezza che si unisce - secondo la ricostruzione della Polizia - a quella di una signora che, mentre la deportano nelle braccia del nemico giurato della sua famiglia, non si avvale della richiesta di asilo. Di tutto questo si occuperà la relazione del Capo della Polizia Alessandro Pansa che sarà consegnata già oggi al ministro del-l’interno Angelino Alfano. Le indiscrezioni della vigilia parlano di un documento senza richieste di provvedimenti verso i funzionari e i prefetti coinvolti: una semplice ricostruzione analitica delle versioni ufficiali. Oggi il comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti, il Copasir, audirà Arturo Esposito, direttore del servizio segreto interno, AISI. La questione centrale da chiarire in questa storia resta quella della mancanza di informazioni sullo status di rifugiato a Londra di Ablyazov e della moglie. Eppure le informazioni disponibili per via diplomatica già all’innesco di questa storia, unite alla lettura dell’articolo del Financial Times disponibile con una semplice ricerca tramite google, avrebbero permesso di capire che non si trattava di un’operazione ordinaria. Agli uomini della Questura sarebbe stato sufficiente leggere la “nota a verbale” inviata il 28 maggio dall’ambasciatore.
“Non è escluso che nella villa in via Casal Palocco 3 Mukhtar Ablyazov convive insieme a sua moglie signora Alma Shalabayeva nata il 15.8.1966”. Nella nota è chiaramente indicato nome, cognome e data di nascita della moglie del dissidente. Questa comunicazione è l’innesco della rendition all’italiana che porterà Alma e sua figlia Adua nelle braccia del presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, grazie al quale il paese ex sovietico è classificato dall’organizzazione internazionale Freedom House come ‘not free’, non libero.
Dopo gli irrituali incontri del-l’ambasciatore kazako con il prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del ministro dell’interno e poi con Alessandro Valeri, capo della segreteria del Dipartimento Pubblica Sicurezza e con Renato Cortese, capo della squadra mobile, scatta l’operazione che porterà nel pomeriggio gli agenti della Mobile e della Digos a fare un sopralluogo e nella notte il blitz.
NELL’ABITAZIONE gli agenti trovano la moglie di Ablyazov. Lei è spaventata e tenta di nascondere la propria identità: aveva timore fossero emissari del regime di Nazarbayev. E così mostra il passaporto, poi ritenuto falso dalle autorità italiane, con il nome da nubile: Alma Ayan. Ma la data di nascita riportata sul documento è corretta e coincide con la “nota a verbale” inviata dal Kazakistan.
L’ambasciatore era certo della presenza di Ablyazov a Casal Palocco perché informato dagli agenti della società Sira a cui la Gadot information service di Tel Aviv, guidata da Forlit, aveva dato mandato di trovare nel territorio di Roma il dissidente. Incarico affidato il 18 maggio.

il Fatto 16.7.13
Giuseppe Procaccini. Il prefetto che si gioca tutto
di Valeria Pacelli


Ci sono ombre e luci intorno alla figura di Giuseppe Procaccini, il prefetto finito al centro delle cronache per aver ricevuto l'ambasciatore che voleva sollecitare l'arresto del dissidente kazako. È lui il “Dominus del Viminale” che ha il potere di mantenere la sedia di capo di gabinetto del ministro dell'interno dal 2008 ad oggi nonostante siano cambiati tre governi. Ma Procaccini è anche il prefetto che parla al telefono con alcuni indagati dalle procure italiane. Molteplici gli incarichi negli anni, spesso delicati. Era capo della segreteria di Claudio Scajola durante il caso Marco Biagi. Il ministero, allora diretto da Scajola, non riassegnò la scorta al professore universitario, poi assassinato dalle BR nel 2002, nonostante le sue richieste. Giuseppe Procaccini nel 1972 entra come avvocato al Ministero dell'Interno. Approda a Roma, dopo Belluno e Rieti, e dopo un periodo al Ministero del Tesoro diventa componente di numerose Commissioni, accompagnando addirittura a Bruxelles nel 1990 il Ministro del Tesoro di allora Guido Carli alla firma del Trattato di Maastricht. Nel 1995 viene nominato Prefetto e a luglio del 2000, capo della Segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Sono gli anni in cui lavora a stretto contatto con Gianni De Gennaro, allora capo della polizia e con il quale Procaccini stringe un ottimo rapporto. Nel giugno del 2008 viene nominato da Maroni, Capo di Gabinetto del ministro e resta tale anche dopo, sia con il ministro Cancellieri che con Alfano. Il suo nome è anche tra i papabili per il post-Manganelli, in quota ‘degennariani’.
Oltre il curriculum però il nome di Giuseppe Procaccini è finito anche nelle carte di alcune inchieste, nonostante non sia mai stato coinvolto direttamente. Il 28 maggio 2008 ad esempio parla al telefono con l'ex provveditore alle opere pubbliche di Roma, Angelo Balducci. Procaccini: “Tu non mi vuoi bene più (...), come stai? ” Balducci: “Insomma” Poi viene intercettato una seconda volta, l'11 novembre 2009. Balducci: “Ho buone notizie. Oggi abbiamo la riunione a Palazzo Chigi(..) quindi, in quella logica. adesso c'è la decisione formale di mettere l'opera così come quelle altre due che ti avevo detto nell'ambito del "Programma 2011. ”
Procaccini: “Posso pregarti di dire anche all'On. Gianni Letta(..) io sono in trepida attesa delle sue determinazioni? ”
Il prefetto poi finisce anche nelle intercettazioni della Procura di Napoli, che indaga per turbativa d’asta Giovanna Iurato nell'ambito dell’inchiesta sugli appalti per la sicurezza, Cen. La Iurato è nota alle cronache anche per aver riso al telefono, ricordando come si era falsamente commossa all'Aquila. Quando viene a sapere di essere indagata, il 31 maggio 2010, informa proprio Procaccini, che le consiglia: “adesso vattene a casa e ci rifletti”. Ma c’è un’altra donna che stima il prefetto. É Lubiana Restaini, la ‘dama bionda della lega’, blandita dall’inchiesta che ha coinvolto Francesco Belsito, che in un’intervista al Fatto si disse estranea ai traffici dell’ex tesoriere del Carroccio: “Devo tutelarmi con le persone che stimo, una su tutte il prefetto Procaccini. ” Sono i tratti di un personaggio che dopo le polemiche preferisce il silenzio. Contattato dal Fatto: “Sono stato sempre trasparente, ora voglio rimanere tranquillo”.

La Stampa 16.7.13
Procaccini, l’uomo ombra che voleva diventare Capo della Polizia
Funzionario da 400 mila euro annui, zelante e preciso Maroni, Cancellieri e Alfano l’hanno tenuto tutti
di Fra. Gri.


ROMA Giuseppe Procaccini, prefetto di prima classe, nato a Napoli nel 1949, capo di gabinetto del ministro dell’Interno dal 2008, aspirante alla carica di Capo della polizia fino a qualche settimana fa. Di sua eccellenza Procaccini da qualche giorno vediamo la foto sui giornali e ne sentiamo parlare come di un protagonista. Già, ma chi è Giuseppe Procaccini? La risposta non è semplice: è un uomo-ombra, uno di quelli di cui si ricorda il puntiglio, la meticolosità, lo zelo nell’eseguire le indicazioni del ministro pro-tempore. Che fosse Bobo Maroni, o Annamaria Cancellieri, oppure oggi Angelino Alfano, chiunque si interpelli, politico o grand commis dello Stato, la risposta è sempre la stessa: «Procaccini è un uomo di fiducia».
Possibile dunque che il prefetto riceva l’ambasciatore del Kazakhstan al Viminale, il 27 maggio scorso, facendo le veci del ministro, e poi attivi l’intera catena di comando della polizia affinché si catturi un latitante kazako, senza informare il suo ministro? In fondo, il giallo è tutto qui.
Il ministro Alfano giura che lui non è stato informato. Quindi bisogna dedurre che Procaccini nel caso Shalabayeva si sia arrogato un potere non suo, inseguendo chissà quale sogno di gloria. Magari il sogno proibito di diventare Capo della polizia.
Non che fosse così lontano dai veri circoli del potere. Solo per stare agli eventi più recenti: il 12 giugno è stato lui ad aprire la Conferenza dei Prefetti, prima dell’intervento del ministro dell’Interno e del saluto del Presidente Napolitano. Si evince dallo stipendio che lo Stato gli corrisponde: quando il governo Monti pubblicò gli emolumenti dei dirigenti statali, lui era al trentesimo posto con 395.368 euro annui.
Non ci si deve meravigliare. L’uomo, dai modi sempre felpati e diplomatici, frequenta da sempre gli ambienti che contano. Era a Bruxelles nel 1990, appena quarantenne, accompagnando l’allora ministro del Tesoro Guido Carli per partecipare alla firma del Trattato di Maastricht.
In quella fase era stato distaccato alla presidenza del Consiglio e poi al ministero del Tesoro, salvo rientrare nel 1992 al ministero dell’Interno e da allora ha scalato tutte le posizioni, una alla volta.
Al ministero ha annusato il potere che si esercita in polizia quando, nel luglio 2000, fu nominato a capo della Segreteria del Dipartimento di Ps. Un anno dopo venne nominato Vicecapo della polizia, preposto all’attività di Coordinamento e pianificazione delle forze di polizia, dove rimase fino al dicembre 2006. Salvo una parentesi di due anni, corrispondente al biennio di Giuliano Amato. Poi Procaccini tornò trionfalmente in auge con il ritorno del centrodestra e l’arrivo di Roberto Maroni sostituendo nientemeno che Gianni De Gennaro, spostato alla guida dei servizi segreti.
Il ruolo di capo di gabinetto infatti non porterà sotto i riflettori, ma è immancabilmente trampolino di lancio verso successi ulteriori. E infatti, dopo cinque anni di vero potere nei corridoi più importanti del ministero dell’Interno, per quasi un anno - coincidenti con le condizioni di salute sempre più precarie di Antonio Manganelli - il nome di Procaccini non è mai mancato nei totonomine. L’uomo faceva sapere in giro di avere solidi appoggi politici. Ma secondo suo costume non si esponeva. È un raro caso, infatti, il suo, in cui il database dell’Ansa non registra una sola parola detta in pubblico.

l’Unità 16.7.13
Alfano, il Pdl minaccia È tensione sull’indagine
di Ninni Andriolo


L’imbarazzo cresce ed è palpabile, anche se il Pdl fa quadrato intorno ad Alfano. Aldilà di chi ne fosse a conoscenza o no, infatti, un blitz di una cinquantina di poliziotti che scatena un caso internazionale pone oggettivamente problemi di responsabilità politiche che non possono essere sottovalutati. «Faremo luce fino in fondo e chi ha sbagliato pagherà» assicura Letta da giorni. Il presidente del Consiglio ha cercato di tenere il governo al riparo dalle ricadute del caso Shalabayeva, ma tutto dipende dal contenuto della relazione che il Capo della polizia si appresta a consegnare a Plazzo Chigi. E se c’è chi sostiene che quel rapporto scagionerà definitivamente Alfano, c’è anche chi attende i risultati di quell’inchiesta con preoccupazione. E non solo perché potrebbe mettere in luce le responsabilità dei vertici della polizia di Stato e del capo di gabinetto del Viminale.
E ancora. Berlusconi ha smentito di aver incontrato il presidente Nazarbaiev, che ha trascorso in Sardegna alcuni giorni di vacanza ospite di un commercialista milanese vicino al Cavaliere. Ma se dovessero emergere elementi nuovi sull’amicizia tra il leader Pdl e il dittatore kazako? Clima sospeso, quindi. Di attesa. Fino a ieri al contrario di quanto è stato scritto la presenza di Alfano non era inserita nel calendario di giovedì della Camera. E ai presidenti delle commissioni Affari costituzionali ed Esteri del Senato, Finocchiaro e Casini che avevano chiesto al governo di riferire alle due commissioni il ministro Franceschini ha risposto che «il Governo riferirà al Parlamento non appena in possesso dell`indagine interna annunciata dal presidente del Consiglio il 10 luglio e le cui conclusioni sono previste in tempi rapidi».
Data ancora da definire, quindi. Mentre Sel e Movimento 5 Stelle hanno depositato alla Camera una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro dell’Interno che potrebbe essere calendarizzata la prossima settimana. Dal governo si rimarca che ai ministri e alla presidenza del Consiglio non era stata fornita alcuna informazione sul blitz che stava scattando a Casalpalocco e sulla espulsione di Shalabayeva. La linea rimane quella maturata nel vertice Letta-Alfano-Bonino-Cancellieri che fece seguito al Consiglio dei ministri della scorsa settimana, ma dietro le parole si intuisce una certa cautela. La preoccupazione è palpabile. Ieri, ricordando Beniamino Andreatta, Letta si è lasciato andare a una considerazione amara alludendo al caso Calderoli e alla vicenda kazaka. «Mi chiedo cosa pensino di noi i nostri militari all'estero quando leggono nelle cronache quotidiane di cose indecorose che avvengono nelle istituzioni», ha affermato il premier. Andreatta aveva un senso altissimo delle istituzioni, ha aggiunto, e «non ebbe mai sbavature». «A volte è difficile ritrovare il filo del senso delle istituzioni, anche nelle cronache quotidiane ha concluso il capo del governo Ma dobbiamo ricordare che le istituzioni sono più importanti di noi, delle persone che di volta in volta le rappresentano». E il ministro della Difesa, Mauro. «È stata disposta un'inchiesta e aspettiamo i risultati. L'inchiesta aggiunge consentirà di accertare tutto quello che è accaduto e successivamente il governo si esprimerà, a cominciare dal ministro Alfano».
Qualora si dovesse acclarare una «grave mancata informativa al governo» e null’altro, l’immagine del vice premier potrebbe indebolirsi ancora. Un ministro dell’Interno che non sa cosa avviene nei suoi uffici e non li controlla non è cosa da poco. I problemi da gestire non sono poca cosa per il capo del governo. I falchi Pdl ad esempio. Fanno quadrato intorno al segretario-vice premier-titolare del Viminale, ma sono pronti a dimostrare e la vicenda Shalabayeva starebbe lì a testimoniarlo che Alfano non può sommare tante cariche assieme. Le larghe intese nel mirino, quindi, attraverso il varco di Alfano, uno dei maggiori sponsor del governo di servizio nel partito di Berlusconi. Pidiellini formalmente compatti, tuttavia. «Senza di lui il governo non va avanti», dichiara Brunetta. «Chi spinge per le dimissioni resterà deluso» avverte Schifani. Daniela Santanché se la prende con «il partito di Repubblica» (il direttore ha chiesto ieri le dimissioni del ministro). Secondo la candidata alla vice presidenza della Camera il gruppo editoriale di De Benedetti «vuole usare Alfano come bomba umana per fare esplodere il governo, ma non per l'interesse del Paese e degli italiani coi loro tanti pro-
blemi, ma per l'interesse del suo candidato Renzi».
L’esigenza di fare chiarezza e di «andare fino in fondo nell’accertamento della verità», in ogni caso, non ammette deroghe. «Il ministro dell'Interno deve dimettersi per quanto è emerso sul caso Kazakistan?», chiedono a Guglielmo Epifani durante la festa democratica di Forli. «Aspettiamo di capire cosa è successo risponde il leader Pd Io non ho ancora capito bene dove stanno le responsabilità e quali sono. Il capo della polizia ha avuto questo incarico dal presidente del Consiglio, facciamolo lavorare rapidamente: deve dirci che cosa è successo. Il governo poi deciderà che tipo di responsabilità colpire: penso che debba venire in Parlamento e lì valuteremo esattamente tutto il quadro delle responsabilità politiche». Cauto anche Renzi. «Il Pd deciderà sulla base delle spiegazioni che il governo darà in Aula spiega il sindaco di Firenze Aspettiamo che racconti come sono andati i fatti».

l’Unità 16.7.13
Lo strano caso della società petrolifera kazaka
Un’inchiesta di Report e vari cablo di Wikileaks mettono in luce l’intreccio di rapporti fra la Repubblica ex sovietica e l’Italia
di Umberto De Giovannangeli

«Per favorire i russi, il governo Berlusconi ha svenduto gli idrocarburi in loco, e ha appoggiato il gasdotto South Stream, così è Gazprom a imporre il prezzo del gas e l’Eni, che appoggiando il gasdotto alternativo Nabucco avrebbe potuto ridurre i prezzi, si è tagliata le palle». E ancora: «È una questione geopolitica e di interessi personali: l’Italia ci perde, ma qualche italiano ci guadagna. Esiste una società kazaka chiamata Zhaikmunai controllata dai paradisi fiscali, che ha un piccolo campo di esplorazione in Kazakistan e tira su dei ricavi nell’ordine di un milione di dollari al giorno con margini del 50%. Io chiesi a Eni chi erano i proprietari e mi dissero: occupati del tuo lavoro e non rompere i coglioni. Parlai con dei dirigenti della petrolifera di stato kazaka: mi dissero che in Zhaikmunai si nascondono interessi di politici kazaki e italiani». Chi? «Uomini importanti del centrodestra, i soliti. I nomi me li hanno fatti, poi in Eni mi hanno chiaramente detto di stare attento al fuoco amico, quindi io sto zitto».
Una testimonianza illuminante, quella che un ex manager del Cane a sei zampe consegnò a Paolo Mondani, inviato di Report, nella trasmissione del 16 dicembre 2012 dedicata all’Eni e agli affari che legavano l’allora presidente del Consiglio con il leader del Cremlino, Vladimir Putin, e il padre-padrone del Kazakistan Nursultan Nazarbayev.
Rincara la dose Bill Emmott, ex direttore dell’Economist: «Ho parlato con uomini dei servizi segreti britannici e sanno bene che il rapporto politico Berlusconi-Putin è anche d’affari, con relazioni personali e corrotte che riguardano il gas». Zhaikmunai è un affare per pochi. La società esiste, ha un sito, prospera, con una redditività superiore al 50% dei ricavi (saliti da 108 milioni del 2007 a 340 milioni l’anno scorso). Ha anche titoli quotati a Londra. Ma ha una trasparenza tutta sua, che si limita all’operatività ed esclude l’azionariato. Fra le tracce lasciate negli archivi c’è il «curioso» legame con due Sicav lussemburghesi — World Invest e Aerion Fund — che l’anno scorso hanno acquistato suoi bond per 450mila dollari. Pochi, ma perché tra tutte le società mondiali puntare proprio su un’anonima piccola estrattrice kazaka? Forse si capirebbe meglio tenendo a mente che le due Sicav sono emanazioni della Banca Arner. Di fatto gestite dall’istituto svizzero dove Silvio Berlusconi è titolare del conto corrente numero 1.
In attesa dell’accertamento delle responsabilità dirette nel caso Shalabayeva, una domanda che s’impone è la seguente: ma quale potente biglietto da visita ha potuto esibire l’ambasciatore kazako a Roma per poter avere questa corsia preferenziale al Viminale? L’amicizia tra il Cavaliere e Nazarbayev è cosa nota. Come quella che lega Berlusconi a «zar Vladimir» (Putin). Affinità nella visione della democrazia ma, soprattutto, stretti legami nella «diplomazia del gas».
MISSIVE BOLLENTI
Dei rapporti di affari tra l’Italia e il Kazakistan ai tempi del Cavaliere a Palazzo Chigi si occupano anche report resi pubblici da Wikileaks. In un cablo dell’ambasciatore americano Hogland del Marzo 2009 vengono illustrati in dettaglio i rapporti economici tra Italia e Kazakistan. «L’Italia è ufficialmente al quarto posto in termini di investimenti diretti esteri (Fdi) cumulati in Kazakistan, dietro gli Stati Uniti, i Paesi Bassi, e il Regno Unito; gli affari delle aziende italiane sono principalmente concentrate nel petrolio (Eni), cemento (Italcementi-Shymkent) e costruzioni (Todini), ma le piccole e medie imprese si difendono egregiamente nei settori della moda (Max Mara e Dolce-Gabbana), del vino (Martini) e immobiliare (Renco)». Il potente presidente kazako Nazarbayev cerca di pianificare con Berlusconi (e ci riuscirà) di visitare l’Italia e di organizzare una
visita del Papa Benedetto XVI nella capitale Astana. Nel «regno di Narsultan», politica e affari vanno a braccetto con tangenti e soprusi: «La produzione della fabbrica (Symkent) è stata spesso fermata dalle autorità locali, che sostengono che la società non ha i “permessi necessari”. Questo è un pretesto per esigere tangenti o altri compensi», o anche «il Ministero dei Trasporti kazako ha pagato all’azienda (Todini) circa $8 milioni in meno rispetto all’importo dovuto. Anche se l’azienda ha il diritto di portare il caso all’arbitrato internazionale, ed è sicura di vincere, ha detto che il Gruppo Todini è riluttante a fare questo passo per paura che ciò possa mettere in pericolo occasioni future».
Altri report della diplomazia Usa riguardano ancora la «diplomazia del gas» che il Cavaliere dispiega con Putin e i referenti del presidente russo nelle repubbliche asiatiche dell’ex Urss. Una cosa è certa: da quelle parti tangenti e affari sono un tutt’uno. Così come la pratica del dossieraggio. E del ricatto. Una pratica di cui il regime di Astana è maestro.

l’Unità 16.7.13
Compiacenze e omissioni
di Laura Boldrini


La vicenda dell’espulsione della signora Alma Shalabayeva e di sua figlia ci impone una riflessione che, andando al di là dello specifico episodio, deve necessariamente investire lo sviluppo di una cultura del rispetto dei diritti umani delle nostre istituzioni pubbliche.
Non entro nel merito della vicenda che è stata ampiamente narrata dalla stampa nazionale e prima ancora internazionale. Il governo ha già preso l’impegno di riferire al Parlamento in merito alle responsabilità di chi ha permesso che la moglie e la figlia di un dissidente politico, riconosciuto rifugiato da un Paese membro dell’Unione europea, fossero rinviate nel loro Paese di origine, dove si troverebbero a rischio di persecuzione. Ritengo, però, doveroso porre alcune considerazioni partendo dalle modalità con cui si è arrivati a questo infelice epilogo, che sta portando tanto discredito all’autorevolezza internazionale dell’Italia.
Colpisce e preoccupa che le autorità nazionali di un Paese, in cui il mancato rispetto dei diritti umani è stato ampiamente documentato dalle maggiori organizzazioni di tutela, possano richiedere e ottenere l’espulsione di alcuni loro concittadini, e conseguente rimpatrio, trovando immediata compiacenza da parte delle autorità italiane, senza che venga previamente verificata la posizione delle persone coinvolte, quindi la condizione di rifugiato di Ablyazov, e le conseguenze del rimpatrio delle due donne, così come previsto dall’art. 19 del Testo unico immigrazione. Peraltro non dovrebbe sfuggire ai più che la sentenza con cui la Corte di Strasburgo ha condannato l’anno scorso l’Italia per i respingimenti in alto mare, ha precisato che esiste a carico degli Stati un dovere di verifica delle conseguenze del rinvio verso il Paese di provenienza.
Ritengo che anche quando vi sono in gioco interessi economici o politici, all’autorità pubblica e all’azione di governo non sia consentito derogare alle norme internazionali sui diritti umani. È questa una battaglia culturale da portare avanti dentro l’amministrazione pubblica così come tra le forze politiche e nella società civile. D’altronde è nel livello di rispetto di tali diritti la misura della capacità di un Paese di imporre la propria autorevolezza sulla scena internazionale.
Nella mia esperienza di lavoro presso l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati ho avuto modo di conoscere, presso le commissioni territoriali per la protezione internazionale, funzionari di prefettura o della polizia di Stato che con grande senso di responsabilità e professionalità affrontavano il difficilissimo compito di valutare le domande di asilo. Ho incontrato, inoltre, personale della Guardia costiera che ha messo a rischio la propria stessa vita per salvare i naufraghi in mare, consapevole che questo era il dovere da compiere. Esistono in Italia, dunque, esempi di alta professionalità nella tutela dei diritti umani. Nonostante ciò, l’esperienza dell’espulsione della signora Shalabayeva ci fa pensare che possono permanere nell’amministrazione pubblica comportamenti omissivi e superficiali che devono essere contrastati con vigore e senza remora alcuna, anche sul piano culturale.
E ci fa sorgere un interrogativo inquietante: quante altre volte possono essere accaduti episodi analoghi senza che l’opinione pubblica ne fosse informata?
*Presidente della Camera dei deputati

l’Unità 16.7.13
Chi ha sbagliato deve pagare
di Vittorio Emiliani


L’espulsione concitata, piena di ombre di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov, e di sua figlia assume contorni sempre più inquietanti per la certezza del diritto e per la stessa sicurezza delle persone In Italia.
Sentiremo, forse oggi stesso, a quali conclusioni arriverà il nuovo capo della polizia, Alessandro Pansa, insediato a pasticcio avvenuto, ma, in ogni caso, il sacrosanto principio democratico del chi ha sbagliato, paghi andrà rispettato. Gli interrogativi allarmanti sono davvero tanti per un Paese che, nel tempo, ha saputo assicurare agli esuli politici (si pensi agli argentini e ai cileni negli anni di Videla e di Pinochet) quel diritto d’asilo di cui i nostri esuli antifascisti avevano potuto fruire durante il ventennio.
Il caso che abbiamo di fronte riguarda soltanto l’efficienza e la trasparenza dell’apparato di sicurezza italiano? Oppure esso, da questo già delicato campo, non tracima in compiacenze politiche nei confronti del presidente kazako Nursultan Nazarbayev rieletto due anni fa col 95,5 % dei voti, signore del gas e del petrolio, in Italia proprio nei giorni scorsi, amico personale di Berlusconi e comunque importante per le nostre maggiori industrie?
I fatti sono allarmanti fin da quando nell’ estate del 2012 Alma Shalabayeva si trasferisce in auto dalla Svizzera in Italia con la bambina avendole le autorità britanniche consigliato di lasciare il Regno Unito per motivi di sicurezza anche dopo aver concesso asilo politico al marito, l’ex ministro e finanziere Mukhtar Ablyazov, oppositore di Nazarbaev (non un giglio di campo, sottolinea la stampa berlusconiana, e però un rifugiato politico nel Paese dell’Habeas corpus).
Nessuno segnala la presenza di sua moglie in Italia, né accerta di quale passaporto disponga. Essa pertanto rimane sconosciuta sino alla notte fra il 28 e 29 maggio quando qui c’è la testimonianza diretta dell’avvocato Riccardo Olivo con uno schieramento imponente di auto e pattuglie, la polizia italiana fa irruzione nella villa di Casalpalocco.
Su richiesta dell’ambasciatore kazako a Roma, il quale presume che lo stesso Ablyazov sia colà. La nostra polizia obbedisce al diplomatico kazako senza informare il vertice del Viminale? Di più: gli stessi solerti dirigenti, tre giorni più tardi, mettono a punto la procedura di espulsione della signora e di sua figlia: con quale decreto? sempre con la regìa dei diplomatici kazaki? Sembra di sì, se accettano di espellerla imbarcandola su di un jet privato che non è il mezzo idoneo richiesto dalla legge italiana per il rimpatrio. Strano che tutto ciò avvenga senza sentire di il bisogno di avere una autorizzazione politica.
Ha fatto benissimo il presidente del Consiglio Enrico Letta a ripristinare il principio in base al quale Alma Shelabayeva e sua figlia possono tornare nel nostro Paese.
Con ciò ha voluto significare che veniva garantito un diritto specifico, inalienabile. Anche se quel ritorno si presenta quanto mai problematico.
Sentiremo la ricostruzione del capo della polizia. Ma le ombre sono davvero tante e non giova al ministro e vice-presidente del Consiglio Alfano che il suo partito accusi chi tali ombre sottolinea di volere ad ogni costo la caduta del governo. Buttarla in politica non serve proprio. Anzi.
Abbiamo perduto di fronte al mondo un altro pezzo del nostro offuscato credito e altro fango ha gettato su di esso il leghista Calderoli inaccettabile vice-presidente del Senato. Vediamo di non scivolare oltre su questa china.

l’Unità 16.7.13
Il caso di Alma non è un caso isolato
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Il caso di Alma Shalabayeva prelevata dalla sua abitazione romana con la figlia minore ad opera di un ingente numero di non meglio individuati agenti, per poi essere frettolosamente espulse nel loro Paese dimostra come in Italia continuano ad esservi sacche di opacità istituzionale che operano al di fuori delle regole democratiche.
LORIS PARPINEL
Qualcuno pensa (probabilmente a ragione) che ci siano responsabilità politiche legate all’amicizia fra Berlusconi e il dittatorie Kazaco Nursultan Nazarbayev dietro all’affaire Shalabayeva. Quasi nessuno dice o pensa, tuttavia, che vi siano state, in questa brutta storia, delle responsabilità di ordine legale. Perché? Perché le leggi sull’immigrazione approvate nel tempo di Berlusconi e Maroni non tutelano in nessun modo il rifugiato politico che arriva sul nostro territorio. La giovane donna e la bambina di sei anni che non sono riuscite a far valere i loro diritti, appunto, di rifugiati sono diventate un caso perché di mezzo c’era un perseguitato politico «importante». Capace di suscitare l’interesse della stampa intorno alle vicende su e della sua famiglia. Le leggi per cui i provvedimenti relativi all’arresto e alla espulsione (compresi, in molti casi, i maltrattamenti) possono essere presi dall’Autorità di Pubblica Sicurezza «inaudita altera parte» (e senza contraddittorio, cioè, valutato da un giudice), tuttavia, sono leggi di questo Stato. La domanda cui Alfano dovrà rispondere in Parlamento non riguarda dunque solo Alma. Quello che gli italiani dovrebbero poter sapere è il numero e la gravità dei soprusi più quotidiani: quelli di cui nessuno ha saputo o saprà nulla ma che si consumano ogni giorno sulla pelle dei rifugiati che non contano nulla.

Il caso Calderoli
Repubblica 14.7.13
Lo straccio sporco dei barbari razzisti
di Curzio Maltese


ROBERTO Calderoli deve dimettersi dalla vice presidenza del Senato perché chi parla come l’ex ministro non è degno di ricoprire alcuna carica istituzionale, tantomeno una così importante, in un paese civile. Punto e basta.
Almeno in questo caso, per favore, non apriamo il solito dibattito da talk show, dove tutti hanno un po’ ragione e un po’ torto. Qui la ragione sta tutta da una parte, il torto dall’altra.
Si dirà, ma qual è la novità? Sono ormai vent’anni che sopportiamo il continuo imbarbarimento del discorso pubblico, la progressiva perdita di dignità culturale della politica, archiviando ogni passo verso il baratro dell’intolleranza come occasionale “gaffe”, prontamente seguita da svogliate, ipocrite scuse. Il risultato concreto di questo vecchio che avanza è l’aver ridotto a pezzi l’immagine dell’Italia agli occhi del mondo, l’infelice laboratorio di una regressione collettiva. Allora, che cosa cambia una in più o in meno? Il fatto è che esistono punti di non ritorno e questo dell’offesa di Calderoli al ministro Cécilie Kyenge segnala esattamente questo.
Sarebbe un tragico errore considerare la vicenda come un episodio isolato, per quanto deplorevole, o peggio una semplice voce dal senfuggita. Da un lato l’offesa di Calderoli è il precipitato di un ventennio di sotto cultura politica. Dall’altro, collegato agli altri fatti di questi giorni, annuncia il definito assalto agli ultimi baluardi di opinione pubblica democratica sopravvissuti nel nostro Paese.
Proviamo a guardarci un istante con lo sguardo degli altri. Siamo una nazione finita nelle prime pagine dei giornali stranieri, soltanto nell’ultima settimana, per queste tre notizie. Abbiamo bloccato i lavori del Parlamento in polemica contro una (forse) imminente condanna definitiva di un leader politico per evasione fiscale. Seconda notizia, abbiamo espulso e consegnato nelle mani di un regime dittatoriale in qualche modo amico, o meglio amico degli amici, una donna e una bambina colpevoli soltanto di essere moglie e figlia di un dissidente. Terza notizia, il vice presidente del Senato della Repubblica ha “scherzosamente” definito “un orango” una donna nera che è ministro del governo. Non stiamo a far paragoni con nazioni di superiore civiltà e quindi non staremo a raccontare che cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se un vice presidente del senato americano avesse definito “un orango” Condoleeza Rice. Ora, che cosa si può e si deve pensare di un paese in cui tutto questo passa in prescrizione in una sola settimana, senza alcuna assunzione di responsabilità da parte di nessuno, senza conseguenze, confuso nel grigio pietrisco della cronaca quotidiana?
Enrico Letta ha fatto bene a rivolgersi a Roberto Maroni per chiedere le dimissioni di Calderoli. Se Maroni fosse un vero leader politico, invece che un semplice erede, ne coglierebbe l’opportunità istituzionale, politica e personale. Istituzionale perché il presidente della Regione Lombardia è uno dei principali registi dell’Expo 2015, un evento ad alto rischio, il cui (improbabile) successo è legato all’afflusso di “orango” e “bingo bongo” dai paesi emergenti dell’ex Terzo Mondo, dall’Africa, dall’Asia, dal Sud America. Visto che un massiccio arrivo a Milano 2015 di milioni di visitatori californiani o tedeschi o scandinavi, ansiosi di scoprire le novità tecnologiche del-l’Italia è, per usare un eufemismo, piuttosto incerto. Politico e personale perché se davvero la Lega, dismessa la bandiera pur nobile del federalismo, è ormai ridotta a sventolare lo straccio lurido del razzismo, allora non le serve un leader azzimato come Bobo Maroni. È molto più adatto uno dei dobermann addestrati alla caccia allo straniero.
Naturalmente, Maroni tutto questo non lo capirà. L’ha già dimostrato, anzi. A non capire le cose è infatti rapidissimo. Neppure il più acuto Enrico Letta sembra comprendere che la difesa del suo vice Alfano è insostenibile davanti agli elettori del Pd. Quello che si scrive è dunque inutile, ma noi continueremo a farlo. Perché almeno, come diceva il titolo di un vecchio giornale satirico, possiamo vergognarci perloro.

il Fatto 16.7.13
Contestata la Camusso: “La Cgil non ci difende”


''LA CGIL non ci ha difeso”. Una lavoratrice esasperata avvicina al termine di un convegno alla Camera del lavoro di Milano, il segretario della Cgil Susanna Camusso, accusandola di aver accettato condizioni penalizzanti per quanto riguarda l’età pensionistica femminile e di aver pensato solo agli esodati. “Perché secondo lei abbiamo detto che la cosa non è finita? Perché abbiamo detto che bisogna ricostruire i principi? Bisogna proporre il problema dell’età e della ricongiunzione onerosa”, Susanna Camusso risponde rassicurando e senza sottrarsi all’attacco della lavoratrice, portavoce delle paure “di chi non ha più nulla”. “La serenità senza un euro al mese va a farsi benedire”, risponde la donna all’invito di Camusso alla ragionevolezza. Ma “non ti arrabbiare con le persone sbagliate” ribatte il segretario della Cgil e, davanti alle ripetute contestazioni della donna anche su di Cesare Damiano, ricorda che “Da m i a n o fa il presidente della commissione Lavoro della Camera, io parlo della Cgil”.

l’Unità 16.7.13
La posta in gioco nel Pd: partito personale e presidenzialismo
di Mario Tronti


L’estate è instabile: lo vediamo. La stagione e la politica si somigliano. Siamo sul variabile. Aspettare l’anticiclone, o provocarlo: tema congressuale. Scalfari, domenica scorsa, ha descritto la situazione in modo perfetto. Nulla da aggiungere. Riportare la notizia a contatto con la realtà non è dunque impossibile.
Eppure la settimana passata ci ha fatto toccare con mano l’enorme distanza che corre tra quanto avviene e quanto viene raccontato. Una pioggerella diventa un temporale. Un refolo di vento trattato come un tornado. Ha fatto bene Letta a prendersela con il «vociare»: che sia di chi si oppone, passi, ma se è di chi sostiene, no, non deve passare. Forse ci vuole qualche altolà, qualche alzata di voce, visto che il senso di responsabilità sta diventando merce sempre più rara.
Una cosa che andrebbe recuperata d’urgenza è la gerarchia di importanza tra i problemi. In mancanza di questo, si continua all’infinito a recitare drammi sul nulla. La sospensione, un pomeriggio, «per prassi consolidata», di una seduta parlamentare diventa un atto di tradimento dal proprio elettorato. Un disegno di legge, di puro buon senso, sul conflitto d’interessi, non ad personam viene trattato come una mano data al caimano. All’opposto, la dichiarazione di ineleggibilità del Cavaliere viene presentata come l’obbligazione etica a cui la coscienza moderna non può sottrarsi. Questo mentre il Paese brucia e il senso delle proporzioni vorrebbe che ci si spenda per contenere l’incendio nei luoghi caldi della crisi, prima che si diffonda nella prateria del Paese.
E qui, l’economia, il lavoro, la disoccupazione, il precariato, non sono motivo di discussione, sono luoghi della decisione. C’è un governo che, per qualità. vogliamo dirlo, è migliore della sua forzosa maggioranza. Sta operando tra enormi difficoltà, oggettive e soggettive. Va aiutato da questo partito, con tutti i mezzi, e risorse, di base e di vertice. C’è già, dall’altra parte, chi lo usa per la propria futura campagna elettorale. Da questa parte va incalzato a fare bene, e meglio, strappando misure di risposta efficaci alle gravissime condizioni delle parti sociali più disagiate. Questa è politica responsabile, non le battutine Andreotti-Andreatta.
Il terreno della discussione è altrove. Studiando, riflettendo, mettendo in campo storia passata, esperienza presente, pensiero futuro, c’è da attrezzarsi per quello che sarà, nei prossimi mesi, la madre di tutte le battaglie e quello che sarà.... il padre di tutte le battaglie.
Una: se l’Italia deve passare da una Repubblica semi-parlamentare a una Repubblica semi-presidenziale. Due: se il Pd deve essere partito politico oppure diventare, anch’esso, partito personale. Madre e padre che formano una perfetta coppia di fatto, a cui occorrerà stare attenti a non conferire un punto di diritto. Si tratta, non di una riforma costituzionale, ma di un cambio di Costituzione. E non dello stesso partito, ma di un altro partito. Qui andrebbe allora drammatizzato il passaggio. Vedo in giro troppa superficiale considerazione della posta in gioco, come se si trattasse di aggiornare un comma della Carta, o di sostituire un articolo dello Statuto. È in gioco l’intero destino politico di questo Paese e di questo partito, di nuovo storicamente intrecciati, come è accaduto in episodi di grande storia passata. Perché dico, oggi, Repubblica semi-parlamentare? Ma perché è passata in questi anni, in base a una falsa illusione di governabilità, una costituzione materiale in base alla quale ci siamo messi tutti passivamente in fila dietro il nome su una scheda. L’elezione diretta del Capo dello Stato formalizza questa stortura, che i padri costituenti giustamente aborrivano. Qui c’è nello stesso tempo la definitiva delegittimazione della forma del partito, a cui gli stessi padri conferivano un protagonismo collettivo. Non si può giocare personalisticamente con problemi che riguardano tutti. Bisogna intendersi, fare chiarezza, dire le cose come stanno. Non è vero che la personalizzazione della leadership sia un processo oggettivo delle democrazie contemporanee. Non ce n’è traccia in Europa occidentale, nostro luogo di abitazione. Si vota per i partiti che a volta a volta presentano un candidato premier. Non è vero che semi-presidenzialismo e doppio turno debbano stare per forza insieme. E uno scambio su questo, sarebbe, esso sì, l’inciucio. Non è vero che i partiti, per rigenerarsi, devono rinunciare ad essere partito, cioè forza politica organizzata, dal basso verso l’alto e non viceversa.
E su questo una cosa va detta con determinata nettezza: non è la stessa cosa avere la tessera di un partito, o il non averla. Non è la stessa figura l’iscritto e l’elettore. Non ha lo stesso valore politico essere militante o simpatizzante, fare politica ogni giorno, oppure passeggiando, entrare una domenica in un gazebo. «Fare la tessera» è la libera scelta di appartenenza attiva a una comunità. Un gesto che abbatte la pulsione individualistica, borghese, alla radice della persona una volta si diceva: una scelta di vita. Di questo bisogna discutere nei congressi di base, prima di aprire la lotteria dei nomi. Diciamo che c’è da eleggere un gruppo dirigente, diciamo che andrà eletto un nuovo Parlamento. Leader e premier rappresentano, non comandano. Sarebbe bene porre su questa linea di divisione il cuore del confronto. Si tornerebbe a respirare aria pura, non inquinata dalle discese in campo.

il Fatto 16.7.13
La sindrome oscura del Partito democratico
di Mario Frattarelli


Ogni giorno assistiamo a dichiarazioni o, peggio, ad azioni sempre più sconcertanti di esponenti del PD. Sembra come se avessero perso il controllo. Sui perché, si scatenano la ridda di commenti e le ipotesi interpretative più fantasiose, ma anche le analisi dei più illustri politologi, hanno qualcosa che non quadra e non convincono del tutto. Il dato certo, è che questo partito ha tradito di colpo, la sua storia recente e gli impegni per cui era stato votato alle ultime elezioni. Leader che senza vergogna, da un giorno all'altro hanno rinnegano se stessi. Se questo è evidente, molto più indecifrabili risultano le motivazioni. Venduti per soldi? Mancanza di scrupoli e relativismo etico? Non stupirebbe. Il fatto lampante è che il Pd, abdicando al suo ruolo, ha perso ogni credibilità e le conseguenze che subirà non saranno di breve durata. La fiducia in questa gente è svanita. Eppure, i vari capi corrente, che si scontrano per contendersi il controllo, o forse le spoglie del Pd, non sembrano preoccuparsi più di tanto. E questo è ancora più inspiegabile.

Repubblica 16.7.13
Dire qualcosa di sinistra
Progressisti, smettete di rimpiangere il passato
Un tempo i riformisti erano identificati con il desiderio di cambiare lo stato delle cose Poi questa strada si è smarrita
di Michele Serra


Se dire “qualcosa di sinistra” fosse così facile, in molti l’avrebbero già detta, questa cosa. O per ruolo politico o per dovere intellettuale o anche solo per fare bella figura. Ma così non è stato, specie negli ultimi anni; tanto da far sospettare (i più sospettosi) che la sinistra abbia trascurato apposta i suoi doveri e i suoi compiti, pur sapendo bene quali fossero, per viltà o per opportunismo; o da far temere (i più timorosi) che la sinistra abbia esaurito strada facendo la sua funzione storica, e taccia, dunque, non per calcolo ma per inettitudine. Per totale smarrimento. Sono abbastanza vecchio di questi luoghi — la sinistra, le sue persone, le sue parole, i suoi giornali, i suoi interminabili dibattiti — da poter azzardare un’ipotesi un poco (solo un poco) più precisa.
La sinistra, dalla Rivoluzione francese in poi, è quella vasta area della politica e del pensiero che pretende di organizzare il cambiamento della società. Prima interpretandolo e poi orientandolo. Progettare il cambiamento è la sua stessa funzione, la sua ragione d’essere; e il verbo “cambiare” è stato, per molte generazioni di intellettuali e di militanti, di uso quotidiano. Quasi stucchevole per quanto spesso lo si impiegava: l’Italia che cambia, cambiamo l’Italia, l’Italia da cambiare. Nella celebre definizione del giovane Marx, «il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato delle cose presente». È un assetto di pensiero del tutto radicale, si capisce; ma contiene lo stesso germe che anima i riformismi anche più blandi: lo “stato delle cose presente” è insoddisfacente e dunque va cambiato. Si deve lavorare per cambiarlo. Si deve studiare come cambiarlo (in meglio, si intende) e attraverso quali leve, quali mezzi. Il mondo deve migliorare e la storia deve andare avanti. Per quanto approssimativa e schematica, la vecchia distinzione storica tra conservatori e progressisti, per generazioni, non ha conosciuto sostanziali smentite: la destra era per la conservazione, la sinistra per il progresso.
Dire “qualcosa di sinistra”, dunque, è dipulsore qualcosa in grado di descrivere o anticipare o favorire o provocare un cambiamento. Le parole della sinistra dovrebbero essere (o provare a essere) in qualche modo preveggenti: aiutare a immaginare il futuro, ad architettarlo. Le famose “parole d’ordine” del passato, tutte, quelle giuste e quelle sbagliate, quelle intelligenti e quelle stupide, quelle nobili e quelle ignobili, erano comunque l’indicazione di un obiettivo da raggiungere, di un percorso da fare. Erano “dinamiche”, forza in movimento.
Nel suo Manifesto dei conservatori (1972) Giuseppe Prezzolini attribuisce allaDestra “i libri e la cultura”; alla Sinistra le canzonette, la televisione, i consumi futili, le mode, l’irresistibile marea montante della massificazione. Per dire quanto fosse radicata — appena dieci anni prima che Berlusconi apparisse sulla scena — l’idea che il “cambiamento”, virtuoso o vizioso non importa, fosse comunquequalcosa “di sinistra”. Che riguardava la sinistra. Oggi (qui volevo arrivare) la sola traccia profondamente identitaria che la sinistra ha sempre avuto — la vocazione a cambiare “lo stato delle cose presente” — sembra perduta. Peggio, sembra che il cambiamento — proprio quello, massificante e mutageno, detestato dal conservatore Prezzolini e descritto con ben maggiore potenza e disperazione dal comunista Pasolini — abbia così spaventato la sinistra da scatenare al suo interno forti pulsioni conservatrici. Più che l’impulso a progettare “un altro cambiamento”, ha pesato l’impulso a proteggersi da quello in corso. Ne è nata una sinistra-ossimoro, conservatrice e terrorizzata dai mutamenti in atto. Ed è soprattutto per questo, secondo me, che è così difficile dire “qualcosa di sinistra”: perché la sinistra ha perduto le parole del cambiamento, a partire dalla parola “cambiamento”. E dunque ha perduto le sue parole.
La si è nuovamente udita, quella parola, echeggiare come un esorcismo nelle tremende settimane successive al voto di febbraio. A pronunciarla fu Bersani, non si sa quanto memore dello spirito ottimista e“progressista” del riformismo emiliano nel quale si è fatto le ossa. Disse, per la precisione, che «non c’è responsabilità senza cambiamento» (parlava ai suoi, si è poi capito quanto inutilmente) e che «non c’è cambiamento senza responsabilità » (parlava a Grillo, si è poi capito quanto inutilmente). L’ambito era — come dire — strettamente politologico, tattico e non strategico, e non scomodava certo sconquassi negli assetti economici e sociali, tanto meno modelli di sviluppo alternativi.
Ma in quanto capo della sinistra Bersani “sapeva”, direi istintivamente, che la domanda (tumultuosa, quasi smaniosa) di cambiamento uscita dalle urne non poteva che investire in pieno la sinistra, fisiologicamente: la richiamava bruscamente alla sua funzione tradita o comunque sbiadita. Rovesciandosi a valanga verso  le Cinque Stelle, la speranza di “cambiare le cose” per la prima volta abbandonava in misura così massiccia e così allarmante la sinistra italiana.
La verità — forse — è che nessuno, in questa fase, riesce non dico a determinare, ma ad azzardare i connotati del futuro, ivi compreso il futuro prossimo. E non per caso l’aspetto più debole — e più ridicolo, francamente — del movimento di Grillo e Casaleggio è quello che affida al web una specie di palingenesi politica, e di reincarnazione della democrazia, che fa impallidire, per ingenuità, il mito della “futura umanità” forgiata “nei campi e nelle officine”. Che il vecchio materialismo scientifico possa lasciare il campo alla fede fantascientifica in un Avvento internautico non sembrerebbe proprio — quanto a cambiamento — un passo avanti.
Riassumendo. Direi che un buon criterio, di qui in avanti, per provare a dire “qualcosa di sinistra”, e per capire se qualcuno sta dicendo davvero “qualcosa di sinistra”, sia valutare, sempre, se e quanto questa cosa contiene il proposito, e magari la capacità, di incidere nel futuro, anche un piccolo pezzo di futuro, e di immaginarlo più equo, e migliore. Non è più vero, neanche per la più settaria delle persone di sinistra, che senza sinistra non c’è futuro: il futuro ha già dimostrato di poterne fare allegramente a meno, della sinistra. Ma è certamente vero che senza futuro non c’è una sinistra, che senza futuro la sinistra muore. Dunque la paura del cambiamento — qualunque sorpresa, qualunque incognita possa riservarci il futuro — è per la sinistra un indugio mortale. Ogni pigrizia conservatrice, dentro la sinistra e dentro le sue parole, parla prima di tutto di quella paura. Compresa la paura di sbilanciarsi, di dire cose azzardate, di sembrare stravaganti o ingenui o imprecisi. La paura dell’errore intellettuale. Ma per dire qualcosa di sinistra sarà obbligatorio, di qui in poi, ricominciare a rischiare. Chi si ferma è perduto. E chi tace acconsente.

La Stampa 16.7.13
Salesiano, è vicino alla famiglia Berlusconi
Molestie sessuali, condannato don Corsani


È stato condannato a Rimini con rito abbreviato a tre anni di reclusione per violenza sessuale su un ex allievo, don Gabriele Corsani, 45 anni, economo del collegio salesiano di Pavia. Il giudice lo ha riconosciuto colpevole di aver molestato sessualmente un giovane, all’epoca dei fatti, nel 2007, appena ventenne, in una camera d’albergo di Rimini dove il gruppo si trovava per un seminario.
L’inchiesta della Procura di Rimini nei riguardi del sacerdote - vicino alla famiglia Berlusconi - era partita il 5 luglio 2011, con la denuncia del ragazzo, che oramai 24enne aveva trovato il coraggio di raccontare tutto. Secondo l’accusa, il sacerdote aveva attirato in una stanza l’ex allievo di una scuola di ispirazione cattolica del milanese, proponendogli di dormire insieme per poi palpeggiarlo. Il ragazzo era riuscito a fuggire. Don Corsani era stato il primo sacerdote ad accorrere a casa di Rosa Bossi Berlusconi, madre di Silvio Berlusconi, alla notizia della sua morte nel febbraio 2008 a Milano. Un anno dopo il religioso aveva concelebrato ad Arcore la Messa funebre di Maria Antonietta Berlusconi, sorella dell’allora premier.

il Fatto 16.7.13
Rabbia e scontri di piazza in memoria di Trayvon
L’America indignata per l’assoluzione del vigilante omicida
Zimmerman riavrà la pistola con la quale sparò al ragazzo
di Angela Vitaliano


New York George Zimmerman riavrà la pistola con la quale ha ucciso il diciassettenne Trayvon Martin, una Kel Tec 9 e, secondo il suo avvocato, Mark O’Mara, dovrà portarla con sè “a maggior ragione ora, visto che ci sono un sacco di persone lì fuori che lo odiano, anche se non ne avrebbero motivo”. Per i sei giudici della Florida che hanno emesso il verdetto nella tarda serata di sabato, il ventinovenne che il 26 febbraio 2012 uccise Martin, che camminava verso casa di suo padre, indossando una felpa con un cappuccio sollevato sulla testa, non è colpevole dell’accusa di omicidio di secondo grado e nemmeno di omicidio colposo. George Zimmerman, protetto dallo “Stand Your Ground”, la legge dello Stato della Florida che riconosce il diritto di uccidere chi si ritenga stia mettendo in pericolo il nostro patrimonio o la nostra vita, è un uomo libero e “non ha più nulla a che fare con la corte”.
ALMENO con quella della Florida, dal momento che sono già partite le indagini federali per un’eventuale processo legato proprio all’aspetto “razziale” della vicenda. Zimmerman, una guardia di quartiere volontaria, in base allo “stand your ground”, non era nemmeno stato arrestato o trattenuto per l’omicidio commesso e c’erano voluti ben 46 giorni e un’enorme mobilitazione su tutto il territorio nazionale per arrivare a fermarlo, aprire il caso e far partire il processo. Persino il presidente, Barack Obama, solitamente restio a intervenire in maniera “personale” in questioni legate alla “razza” aveva dichiarato, inviando la sua solidarietà ai genitori del ragazzo, “se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato proprio come Trayvon”. Per Trayvon e per la condanna di Zimmerman si erano mobilitati attori, atleti, politici e personalità del mondo della televisione trasformando il caso uno dei più seguiti degli ultimi anni. Tanto che la Cnn, nel pieno della rivolta egiziana, aveva addirittura scelto di seguire, in diretta, tutte le fasi del dibattimento fino alla lettura del verdetto, favorevole a Zimmerman.
Una decisione quella dei giudici, sei donne che sono apparse in aula, sabato sera, molto provate, che, peraltro, negli ultimi giorni era apparsa sempre più inevitabile vista l’assenza di “prove inconfutabili” del fatto che la morte di Trayvon fosse catalogabile come omicidio di secondo grado (cioè non preventivato ma sostenuto da forti motivi di odio e di accanimento contro una razza o una minoranza). Sebbene il procuratore Angela B. Corey, che ha stabilito i capi di accusa per Zimmerman, abbia ribadito nella conferenza stampa seguita al verdetto, che gli elementi erano sufficienti per un’accusa di omicidio di secondo grado, molti esperti giudicano inevitabile la decisione della giuria che avrebbe potuto, invece, essere diversa se l’accusa si fosse limitata all’omicidio colposo.
RESTA IL FATTO che, da sabato sera, non si placano le polemiche e le dimostrazioni che stanno avvenendo, spontaneamente, in tutte le città americane, all’insegna dello slogan “No Justice, No Peace”, lo stesso che aveva accompagnato i moti di Los Angeles del 1992. Nella metropoli californiana, proteste e scontri con la polizia: almeno sette le persone arrestate. Domenica sera, a guidare la manifestazione di New York - dove per ore è stata occupata Times Square e paralizzato il traffico - Hailie Perez, maglietta rosa e infradito: a dieci anni è diventata il simbolo di un paese che chiede più protezione dalle armi e una discussione seria su una legge come lo “Stand your ground” che consente a chiunque di farla franca con poco. In Florida, infatti, in un caso di “legittima difesa”, una giuria tendenzialmente è portata a sostenere le ragioni del “sopravvissuto”, proprio come nel caso di Zimmerman.

l’Unità 16.7.13
America, monta la rivolta
Obama invita alla calma
A migliaia in piazza dopo l’assoluzione del vigilante che uccise il ragazzo nero Trayvon Martin
Il Dipartimento di giustizia: «Indagheremo ancora»
Oltre 20 arresti tra Los Angeles e New York
Lo spettro dei motivi razziali, ma l’Fbi smentisce
di Francesco Sangermano


Decine di migliaia di afroamericani. E al loro fianco anche ispanici, asiatici e immigrati di diverse altre etnie. Il giorno dopo la sentenza che ha decretato l’assoluzione di George Zimmerman, il vigilante che nel febbraio 2012 uccise il 17enne di colore Trayvon Martin a Sanford in Florida, la rabbia degli Stati Uniti ha invaso le piazze delle principali città americane. Da New York a Los Angeles, da San Francisco a Chicago, da Denver a Detroit, da Miami a Philadelphia, da Atlanta a Washington. Decine di manifestazioni condite da slogan e cartelloni in cui forte è stato il grido di rabbia per una decisione che, gridano i manifestanti, affonderebbe le sue radici in motivazioni razziali. E sebbene un documento dell’Fbi rilevato ieri dal New York Post tenda a smentirlo (secondo il giudizio di un investigatore locale, Zimmermann ha «un po’ il complesso da eroe, ma non da razzista») la comunità afroamericana fa sapere forte e chiaro di non crederci affatto. «Sarebbe stata presa la stessa decisione in questo caso?» si legge in un eloquente cartello in cui campeggiano un Trayvon «bianco» e un vigilante «nero» apparso per le strade di New York.
INTERVIENE IL PRESIDENTE
Uno scontro che rischia di riaprirsi e di fronte al quale è subito intervenuto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama per invitare tutti alla calma e cercare di gettare acqua sul fuoco. «La giuria ha parlato» ha detto, aggiungendo che «la morte di Trayvon Martin è stata una tragedia per tutta l’America». «Dobbiamo ora chiedere a noi stessi ha aggiunto se stiamo realmente facendo tutto il possibile per aumentare la comprensione reciproca all’interno della nostra comunità». Parole pronunciate a caldo cui si sono aggiunte quelle riportate dal portavoce della Casa Bianca, Jay Carney: «Il presidente Obama ha detto pensa che bisogna fare di tutto perché queste tragedia non avvengano più». Ma la tensione resta alta. Non foss’altro perché, secondo quanto riportato dal legale di Zimmermann, Mark O’Mara, l’uomo potrà di nuovo avere una pistola ed avrebbe perfino diritto a reclamare la restituzione di quella con la quale ha ucciso Trayvon.
Il dipartimento della Giustizia Usa ha fatto sapere che continuerà a indagare sulla morte del giovane. Il ministro della Giustizia, Eric Holder ha spiegato che «la morte di Trayvon è stata tragica e inutile». L’ha definita «una tragedia che si poteva evitare». Per questo, ha spiegato, il Dipartimento continuerà ad agire nei riguardi di questo caso «in maniera fattiva e coerentemente con la legge» per appurare se ci siano «gli estremi per un’azione federale per violazione dei diritti civili». Se così dovesse essere, Obama ha fatto sapere che non interverrà dato che, ha sottolineato ancora Carney, «un suo intervento in merito sarebbe inappropriato».
A seguito delle manifestazioni di piazza della scorsa notte, intanto, almeno una ventina di persone sono state arrestate dalla polizia di New York e di Los Angeles, le città dove più tesi sono stati i cortei.
Nella Città degli Angeli un gruppo di dimostranti si è staccato dal corteo principale e ha marciato sull’interstatale 10, bloccando il traffico per circa mezz’ora. I media locali hanno riferito anche di scontri con lancio di pietre (cui la polizia avrebbe risposto sparando pallini di gomma) tra Washington Boulevard e la 10th Avenue, senza feriti. Un’altra ottantina di manifestanti si erano, invece, radunati di prima mattina di fronte all’edificio della Cnn su Sunset Boulevard a Hollywood, provocando l’intervento delle forze dell’ordine che hanno fermato 7 persone. Nella Grande Mela, invece, oltre un migliaio di persone con cartelloni inneggianti alla giustizia per Trayvon si sono riunite nella notte a Times Square, bloccando per oltre un’ora il traffico nel
cuore di Manhattan. Secondo quanto riferito dal dipartimento di polizia di New York, almeno una decina di loro sono stati arrestati.
Tensioni, infine, anche a Oakland (città nella periferia di San Francisco) dove nella notte i manifestanti si sono lasciati andare ad atti di vandalismo, rompendo finestre, bruciando bandiere americane e scrivendo sui muri delle strade e del tribunale della contea. «No justice, no peace» («Niente pace senza giustizia»), oppure «Who is guilty? All system is guilty» («Chi è colpevole? Tutto il sistema è colpevole») i messaggi più presenti.
LA CONDANNA DI KERRY KENNEDY
Sulla vicenda è intervenuta ieri anche Kerry Kennedy, figlia di Bob e presidente del Robert F. Kennedy Center for Justice and Human Rights. «Faccio mie le parole pronunciate da mio padre ha detto presenziando all’Ischia Global Fest con l’anteprima europea del documentario Ethel diretto dalla sorella Rory Quando un americano uccide un altro americano senza motivo, quando operiamo uno strappo al tessuto della vita che l’altro ha faticosamente costruito per sé e per i propri cari, allora l’intera nazione ne è degradata».

il Fatto 16.7.13
Razzismi d’America
La brutta storia del giovane Martin
di Furio Colombo


Se c'è una cosa che i razzisti non ammettono mai, è di essere razzisti. Riesce solo all'avvocato Dershowitz, l'ex docente di Harvard diventato, dopo il processo di O. J. Simpson, il penalista più famoso degli Stati Uniti, di affermare: “Il processo è certamente razzista, la sentenza è certamente giusta”. Intende dire che assolvere e mandare libera la guardia privata Zimmerman che vede un giovane nero con felpa e cappuccio camminare in un quartiere agiato (dunque sbagliato) è un indizio sufficiente per fare fuoco e uccidere, è conforme alla legge. I giurati saranno state tutte donne (dunque particolarmente in guardia contro il pericolo) e tutte bianche (il pericolo è nero) ma la legge è legge. Quale legge?
SIAMO in Florida, e dunque stiamo parlando di una cinica trovata elettorale di Jebb Bush, della vecchia famiglia, quando era governatore della Florida La legge si chiama “Presidia il tuo territorio” e autorizza a sparare anche solo in caso di “percezione del pericolo”. Questo la guardia giurata Zimmerman ha fatto: ha percepito il pericolo del ragazzino (17 anni e niente affatto atletico, come vediamo dalle immagini) perché nero e con cappuccio della felpa alzato, e ha sparato vari colpi al suo bersaglio facile, uccidendolo. Ora che Zimmerman è stato assolto per avere applicato la legge, e dimostrato che a Sanford, Florida, devi stare attento a non attraversare il quartiere sbagliato, la sua carriera professionale non può che trarre un immenso beneficio dal cadavere del giovane Trayvon Martin. Che importa se ladri e rapinatori il più delle volte (è statistica) sono biondi? Secondo la legge di Jebb Bush conta la percezione. La percezione è nera. E’ bella la frase di Obama che ha detto: “Avrebbe potuto essere mio figlio”.
MA OBAMA stesso è conscio di essere nero. Lo ha sempre saputo senza mai illudersi che la presidenza avrebbe scolorito " la percezione". Fatti come la accusa di essere islamico e perciò anti-cristiano, e di avere utilizzato un certificato di nascita falso per provare di essere americano, possono accadere solo a un presidente, per quanto grande, “percepito come nero”.
Il razzismo pesa sull'America, e in certi luoghi e situazioni (come nel tribunale di Sanford) c’è chi si comporta come se Martin Luther King non fosse mai passato di qui. E c'è chi mette “il pericolo nero” a carico della sinistra e quindi come parte del dovere conservatore di tenere testa in tutto a quel pericolo, dal ragazzo nero che pretende di passare nel luogo sbagliato, al presidente degli Stati Uniti che vuole togliere le armi, le scuole e le cure mediche dalle mani del controllo privato. Ma Martin Luther King è passato da queste strade d'America e il suo assassinio lo ha consegnato alla storia americana come un vigilante ben più grande della guardia giurata Zimmerman. Alcuni anni fa, un generale a cinque stelle, capo di Stato maggiore delle forze armate americane, si era permesso di dire che “ci sono pochi ufficiali neri perché noi promuoviamo secondo il merito”. Ha dovuto dimettersi prima di sera. Una delle colpe non perdonate a Nixon è stata l'uso frequente della parola “nigger” (un insulto simile a quello di Calderoli) nelle conversazioni registrate dal presidente a insaputa dei suoi interlocutori e requisite dalla magistratura.
Non tanti anni fa una studentessa di Harvard è stata obbligata a lasciare il campus per sempre dopo avere esposto alla finestra della sua stanza la bandiera confederale degli schiavisti, provocando una sollevazione di migliaia di studenti. Eppure il razzismo resta cupo, solido, non sempre in vista, più spesso pronto a negare, ma resta, come certe malattie che si curano ma non si sradicano. Non è chiaro, nella sociologia americana, il rapporto fra razzismo e scelta politica. Di certo la straordinaria figura di Obama ha fortificato e incoraggiato i liberal, e persino gli inclini a non sapere. Ma ha messo i veri razzisti in stato di perenne allarme. Forse perchè i neri restano i più poveri del Paese, dunque i primi beneficiari delle battaglie di Obama, come quella per le cure mediche garantite a tutti. E i primi a beneficiare di una grande rilancio della scuola pubblica, come quello che sta a cuore non solo al presidente ma anche alla attivissima First Lady di questo periodo americano fortunato e difficile, guidato con fermezza ma attaccato con furore molto oltre i limiti tradizionali delle opposizioni.
E ADESSO, dopo il processo Trayvon Martin? C'è ancora una carta da giocare. E' la protezione estrema, conquistata dalla vita e dalla morte di Martin Luther King, il Civil Right Bill. Un processo in America non si può rifare. Ma La guardia giurata Zimmerman deve ancora temere un processo federale per violazione dei diritti civili del diciassettenne abbattuto impunemente nel quartiere sbagliato. Ci sarà un giudice federale (federale, non locale) disposto a farlo e il procuratore federale disposto a sostenere l'accusa? Nel caso non dimenticato di Rodney King quel secondo processo, che non è un appello, ma una difesa dei diritti che solo lo Stato Federale può garantire a ogni individuo ha fermato i disordini (che in quel caso furono violentissimi) e rovesciato il verdetto di assoluzione dei poliziotti in accertamento di colpevolezza, vergogna, espulsione.
Il caso è immensamente diverso, e c'è di mezzo una legge folle. Fra poco sapremo. E sapremo se la comunità nera americana continuerà ad avere fiducia in un presidente come Obama, nonostante il diritto di uccidere di cui alcuni bianchi con poca intelligenza e molto spirito distruttivo si sono impossessati mettendo a rischio (in Florida) l'intera, pluralistica comunità americana.

Repubblica 16.7.13
Aleppo, al fronte con il velo fino ai piedi ecco le donne che combattono contro Assad
Una brigata di 150 miliziane si è unita ai ribelli. E ora è in prima linea
di Laura J. Vero


ALEPPO — Rihad si siede con il fucile tra le gambe, la canna puntata sul tetto mentre giocherella con il mirino. «Sto facendo esperienza, siamo state su diversi fronti», dice con voce bassa e tesa dal divano di un rifugio sicuro sul fronte di al-Sahur, accanto all’autostrada dell’aeroporto di Aleppo. Fuori si sente il rimbombo di un proiettile sparato dalla porta e lei, vestita di nero da capo a piedi, fino agli occhiali da sole, non fa una piega. Ha sparato anche dei razzi, spiega, ma non sa se ha ucciso qualcuno. Immagina che qualche tiro sia andato a segno.
Questa donna di una trentina d’anni fa parte dell’unica katiba (brigata) esclusivamente femminile nella “capitale” del Nord della Siria, dove i combattimenti contro l’esercito leale a Bashar al Assad vanno avanti dal luglio dell’anno scorso, quando i ribelli avviarono l’offensiva per prendere la città. Gli aerei del regime sorvolano costantemente Aleppo, dove subito dopo la chiamata del muezzin all’iftar, la cena che rompe il digiuno del Ramadan, la gente trema per i bombardamenti.
Gli scontri continuano anche a meno di cento metri di distanza, tra soldati leali ad Assad e insorti. In questi giorni Rihad festeggia il suo primo anno da miliziana, da quando arrivò in città durante lo scorso Ramadan. Un anno passato a lottare faccia afaccia contro militari addestrati, come le oltre 150 donne combattenti che imbracciano le armi ad Aleppo, tutte comandate da Um Fadi. «La chiamiamo Mamma», sottolinea Rihad.
La sua fama la precede, almeno nella sala dove i miliziani del fronte che controlla la zona aspettano il suo arrivo. Um Fadi si siede accanto a due “guardaspalle”. «Lottavo con uomini di tutti i gruppi», dice la donna, 43 anni. «Tutti mi conoscono».
Nel giugno del 2011, dopo che la protesta pacifica, in seguito agli attacchi dell’esercito siriano contro i cittadini che manifestavano, si era trasformata in una guerra civile che ha già fatto più di 93.000 morti (secondo l’Onu), Um Fadi, casalinga con dieci figli (l’ultimo ha appena un anno), decise di andare a Daraa, il cuore delle rivolte contro il governo di Damasco, insieme a suo fratello. «Non potevo più sopportare», dice la Mamma. «Non è facile vedere questa situazione, la gente che muore, e non fare nulla; se non è il figlio mio, è quello del mio vicino».
«Sono andata al fronte senza nessun addestramento», ride, «e ho cominciato trasportando munizioni da una parte all’altra ». Um Fadi ancora non sparava, ma in prima linea accumulò abbastanza grinta da zittire suo fratello, combattente nelle fila di Gorabat as-Sham, quando la interrompe. «L’ho vista con un fucile e se la cavava talmente bene che sono andato a prendere un’arma più grande», scherza il veterano Taha, «non sarei potuto essere più orgoglioso».
Quando un anno dopo tornòa casa, ad Aleppo, per prendere parte all’offensiva, si era già fatta un nome e decine di volontarie cominciarono a bussare alla sua porta. «Io le incoraggio soltanto, non le incito: sono loro che vengono da me».
La katiba è nata per una necessità logistica. «Avevamo bisogno delle ragazze per registrare le donne», osserva Abu Musafar, capo del fronte al-Shabab al-Suriye, insediato nel quartiere di al-Sahur. Così le donne, dalle cucine della retroguardia, dove preparavano il rancio per figli, mariti e fratelli, saltarono ai posti di blocco di cui ancora sono disseminate le strade della zona controllata dai ribelli, «per perquisire gli shabiha (i sicari del regime) che vanno in giro travestiti da donne», secondo Um Fadi.
Il loro abbigliamento (hijab e abaya fino alle caviglie) richiama l’attenzione, lontano com’è dalle simil-divise militari di altre combattenti come le miliziane curde delle Ypg, le Unità di protezione popolare schierate lungo la frontiera con la Turchia sulla strada per Raqqa, nel Nordest del Paese. Anche le donne sono in guerra. «Fanno parte dell’Esercito siriano libero», dice Abu Musafar, «non devono aver paura e restarsene chiuse in casa».
Rihad è stata una delle prime ad arruolarsi: era appena arrivata da Homs, dove aveva sostenuto la rivoluzione facendo lavoro umanitario fino a quando non aveva perduto tutta la sua famiglia. «Eravamo cinque maschi e sei femmine, sono tutti morti», racconta. Rimasta sola, decise di imbracciare le armi. «Sono venuta a combattere ad Aleppo e ho conosciuto la Mamma », racconta.
Il suo caso non è insolito. Rabia, 27 anni, ha perso suo marito a Bab Amr, uno dei punti in cui i combattimenti sono più violenti a Homs, lungo la strada che dalla capitale siriana porta fino a Tartus, sulla costa a maggioranza alawita (la setta a cui appartiene anche la famiglia del dittatore Assad). «Combattevamo insieme», dice. Questo prima di trovare suo figlio di due anni mezzo morto nel letto per lo sparo di un cecchino appostato di fronte alla sua finestra.
«Quando sono arrivata», continua Rihad, «ho scoperto che tutti i combattenti erano mieifratelli e tutte le ragazze erano mie sorelle. «Ho anche una mamma», dice alludendo a Um Fadi, «mi hanno dato tutto», anche un marito con cui divide la casa e il fronte.
Ma il ricordo è doloroso. «Mi manca il mio quartiere, la mia terra, la mia casa e i miei vicini», singhiozza sotto un velo nero che le copre tutta la faccia, «mi manca la mia famiglia, spero di tornare a Homs e pregare nella moschea di Khaled bin el Walid (dal nome di uno dei conquistatori della Siria musulmana e centro delle proteste nella città, bombardata nel 2012)». La sua crociata rivoluzionaria si è trasformata in vendetta. «Spero che il regime cada e che la Siria sia libera», rivendica, «tanto grande quanto la sofferenza della Siria è il mio odio contro Bashar».
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 16.7.13
Cina, la madre coraggio salvata dal web
Vuole puniti gli stupratori della figlia, la internano. Ma la Rete si mobilita e la fa vincere
di Giampaolo Visetti


PECHINO — Nemmeno tremila yuan. Per la Cina il coraggio di una madre, colpevole di aver chiesto giustizia per la figlia stuprata, non vale che 311 euro. La sentenza-beffa emessa ieri dal tribunale di Changsha, che ha respinto la richiesta di scuse scritte da parte del capo della polizia, apre però una breccia nell’autoritarismo di Pechino: per la prima volta le autorità, pressate dalla rivolta del popolo del web, ammettono un errore dello Stato nei confronti di un individuo, aboliscono una condanna e confermano che la soppressione del sistema di rieducazione attraverso il lavoro può non essere solo una speranza.
A contare, nel caso di Tang Hui, non è infatti la vergogna del risarcimento economico. La donna che ha costretto il partito-Stato a riconoscere la propria non-infallibilità sta facendo discutere tutta la nazione, avvicina la fine deilaojiaoe aumenta il panico tra i funzionari corrotti, ufficialmente nel mirino della nuova leadership. È l’ultima storia- icona della propaganda riformista di Pechino, capace di spingere ilQuotidiano del Popolo a scrivere che la sentenza«ispira una nuova e profonda fiducia nella giustizia». Dietro le apparenze, la violenza-shock contro la figlia di Tang Hui, 11 anni, sequestrata, violentata e costretta a prostituirsi per tre mesi. Solo la testardaggine di sua madre, capace di mobilitare la Rete, nel 2006 costrinse la polizia dello Hunan ad arrestare la banda dei sequestratori, attiva nel fiorente e tollerato mercato cinese dei bambini. Due gli “orchi” condannati a morte, quattro all’ergastolo, uno a quindici anni di prigione. Troppo poco, per Tang Hui, che riavuta la figlia tornò a chiedere il sostegno di internet affinché fossero puniti anche i mandanti del sequestroe coloro che accettarono di arricchirsi per girarsi dall’altra parte. Cominciò così la caccia della polizia dello Hunan, decisa a non perdere la faccia con Pechino.
La madre-coraggio venne arrestata per «disturbo alla quiete pubblica», reato comunemente associato ai dissidenti politici, e lo scorso anno fu addirittura condannata a 18 mesi di laojiao per «influenza sociale negativa». E’ stata questa, complice l’indignazione della Rete e la rivolta popolare contro l’arroganza dei funzionari, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La donna imprigionata per aver difeso la figlia stuprata venne liberata dopo soli otto giorni dal campo di Yongzhou, ma le autorità si resero conto che la sua lotta per affermare i diritti individuali nella seconda economia del mondo non era finita. Tang Hui chiese scuse formali scritte dai suoi carcerieri, accusati di violenze, e dallo stesso capo della polizia della contea, Jiang Jianxiang. In aula, altro caso senza precedenti, l’alto funzionario fu costretto ad ammettere pubblicamente gli abusi, scusandosi a nome del governo. Per questo la corte ha negato a Tang Hui l’onore del documento scritto. Non ha potuto però evitare di riconoscere che anche in Cina l’ingiusta privazione della libertà, consentita anche in assenza di accuse, ha un valore e che i campi di rieducazione si sono trasformati nella prigione segreta in cui rinchiudere le persone che infastidiscono un qualsiasi potere.
L’insediamento della nuova leadership, nel marzo scorso, ha riacceso i riflettori sulla più volte annunciata fine dei laojiao. Alcuni sono già stati riconvertiti in comunità terapeutiche, altri in centri di salute mentale, altri semplicemente chiusi per «inagibilità ». Una decisione ufficiale del governo è attesa entro l’autunno, ma la pressione dell’ala conservatrice del partito potrebbe costringere il Politburo ad aggiornare l’agenda delle riforme ad alta carica emotiva.

Repubblica 16.7.13
Dal 2014 Macao farà studiare i propri allievi nel Guangdong: unico collegamento una galleria di 5 chilometri L’università sarà in territorio cinese, ma vi saranno garantite libertà di espressione e di navigazione sul web
Cina, un tunnel sotto il mare per l’isola-campus senza censure
di Giampaolo Visetti


PECHINO Per la prima volta un’enclave “straniera” occuperà pacificamente un pezzo di territorio cinese. A partire dal prossimo anno accademico, l’Università di Macao si trasferirà a Zhuhai, nella regione del Guangdong, spingendo la Cina ben al di là del modello “un Paese, due sistemi”, che dal 1990 regola i rapporti tra Pechino e le ex colonie meridionali di Hong Kong e Macao. La nuova sede dell’ateneo fondato dai portoghesi nel 1700, che vanta oggi un campus sulla famosa isola di Coloane, sarà a tutti gli effetti un pezzo di Stato trapiantato lungo la costa di quella che la popolazione chiama “Cinacontinentale”. All’interno dei 250 ettari di Hengqin, isolotto cinese destinato a ospitare aule e laboratori, varranno le norme democratiche che regolano il paradiso asiatico del gioco d’azzardo. Studenti e professori avranno libero accesso a internet e ai social network occidentali, come Facebook e YouTube. Internet sarà garantito grazie 3800hotspot wifi,sottratti alle restrizioni assicurate dalla censura del partito comunista cinese. Si potranno anche seguire via satellite le tivù del resto del mondo e sarà riconosciuta la libertà d’espressione. Polizia e vigili del fuoco saranno controllati dalle autorità di Macao, così come il sistema giuridico, e i frequentatori delle lezioni non avranno nemmeno bisogno di passaporto e visto. Un avveniristico tunnel sottomarino collegherà direttamente l’ex colonia portoghese con la sua università delocalizzata nella regione industriale più ricca della Cina e gli iscritti potranno muoversi come se restassero all’interno della stessa nazione.
A indurre l’esperimento senza precedenti, capace di abbattere un “muro” resistito oltre sessant’anni, ragioni politiche, accademiche, ma soprattutto economiche. Con il ritorno di Macao sotto il controllo indiretto di Pechino, 23 anni fa, l’isola ha registrato un boom commerciale superiore anche a quello cinese. Il prezzo della terra è salito alle stelle, il valore degli immobili sfiora quelli da capogiro che caratterizzano Hong Kong. Le autorità di Macao da anni spingevano per dotare l’università, 10 mila tra studenti e docenti, di un campus capace di ospitare secondo standard occidentali oltre 300 laboratori e una biblioteca ricca di 650 mila libri. La leadership di Pechino non attendeva invece che l’occasione più adatta per testare gli effetti del ricongiungimento effettivo di Macao alla madrepatria, fissato nel 2049. L’incrocio degli interessi accademici, politici e finanziari, porterà la Cina postmaoista a sperimentare per la prima volta il funzionamento di una mini-comunità democratica al proprio interno, regolata dal badge universitario.
L’ex colonia portoghese, già più integrata rispetto ad Hong Kong, assaggerà in modo progressivo la presa cinese su di sé. La nuova università di Macao ospitata in Cina sarà infatti mista. Studenti, professori e personale potranno arrivare sia dall’ex colonia che dalle regioni continentali. La scommessa di Pechino è questa: seguire l’influenza delle libertà democratiche, e dei media aperti, sui giovani cinesi, ma nello stesso tempo allenare le nuove generazioni di Macao a reggere il peso della Cina, non ancora vista come patria comune. L’obiettivo politico è dare vita ad una società nazionale unita, attraverso cultura e istruzione, affinando il modello che dovrà presto essere applicato anche alla più ribelle Hong Kong. Il risultato più immediato è invece che per la prima volta un sistema di diritto liberale e l’indipendenza accademica verranno applicati in una, pur piccola, parte dello Stato cinese. Inedita anche la soluzione che renderà possibile l’esperimento: il governo di Macao, grazie a 150 milioni di dollari, ha affittato il campus di Zhuhai fino al 2049, investendone altri 10 per la costruzione di un ateneo venti volte più vasto di quello attuale, finanziato da privati.
Per la Cina il test di un’istruzione democratica in affitto vanta il precedente dell’esperimento di un’economia capitalista, varato da Deng Xiaoping nel 1980 con l’istituzione della “zona economica speciale” a Shenzhen, proprio alle porte della nuova università. Il virus capitalista seminato nel Guangdong dall’erede di Mao ha portato ai trent’anni d’oro della crescita cinese e al boom della seconda potenza globale. Impossibile, per gli analisti, dire se il contagio della libertà accademica renderà più democratica Pechino, oppure meno ostili al suo autoritarismo Macao, Hong Kong e,in prospettiva, Taiwan. Proprio Hong Kong conta già due istituti di ricerca dislocati sul territorio cinese e nel marzo scorso ha firmato un accordo per aprire un campus universitario a Shenzhen. Sono i primi passi per creare la più grande megalopoli economica, finanziaria e accademica del pianeta, pronta a nascere nel Guangdong dalla fusione tra Shenzhen, Hong Kong e Macao e dal confronto tra l’unico comunismo di successo della storia e gli ultimi avamposti democratici in Cina. «Resta da vedere cosa succederà — ha detto Fu Hualing, costituzionalista nell’università dell’ex colonia di Londra — quando nel nuovo ateneo si dovrà affrontare un tema davvero sensibile, o quando gli studenti chiederanno di manifestare per difendere le loro opinioni. Costruire dove costa meno è una soluzione, iniettare la cultura dell’Occidente in Oriente può essere un problema ». Gli istituti di Europa e Usa interessati al mercato cinese della conoscenza sono già decine, mentre per la prima volta Pechino si appresta ad aprire un campus a Londra. La Cina prova ad aprirsi, ma non è affatto detto che sia disposta ad importare più idee di quante sia decisa ad esportare.

Corriere 16.7.13
Né inferno né paradiso l'«altrove» cinese visto senza pregiudizi
di Fabio Cavalera


Il rischio maggiore che si corre, quando si osserva la Cina, è quello di cadere in una delle due tentazioni opposte: o chiuderla nelle categorie politiche del nostro pensiero occidentale, oppure lasciarsi trascinare dal fascino ultramillenario del Celeste Impero per raffigurare un mondo fantastico e affascinante però surreale e, quindi, inesistente.
Nel primo caso si tende a rappresentare la grande potenza d'Oriente come un «altrove negativo» perché si parte, senza ammetterlo, dalla presunzione della nostra infallibilità, dalla presunzione di un Occidente democratico e benestante, come tale superiore e preferibile, l'Occidente delle libertà, e dal rifiuto (più che comprensibile, per carità) della tirannia maoista prima e dell'autoritarismo ibrido di social-capitalismo poi, il rifiuto dello Stato che schiaccia l'individuo, dimenticando comunque, in questo filone di pensiero, che le radici del comunismo cinese e della sua evoluzione sono nella cultura confuciana e non sono una invenzione ideologica del ventesimo e ventunesimo secolo.
Nel secondo caso, invece, si scivola nella contrapposta mistificazione di glorificare il sistema cinese, la sua capacità di ripartire e di diventare traino dell'economia mondiale, la sua centralità nelle relazioni internazionali e il suo gigantismo dinamico. E così, spesso inconsciamente e incautamente, si casca e si diventa prigionieri delle trappole propagandistiche di un regime molto attento a costruirsi una forte immagine positiva di stabilità, di crescita, di ricchezza.
L'inferno Cina e il paradiso Cina non esistono. È dunque difficile intraprendere il percorso per avvicinarsi con cautela e sensibilità all'universo cinese. Ma il primo passo utile è quello di liberarsi del pregiudizio politico e culturale, in un senso o nell'altro. E affidarsi poi al racconto e alla guida di veri studiosi, di veri analisti, di veri narratori come lo storico Stefano Cammelli autore da ultimo del bellissimo Muri rossi (Mauro Pagliai Editore) ora in libreria, dopo gli importanti Storia di Pechino e Ombre cinesi.
È un romanzo-saggio che ci accompagna assieme a otto occidentali, gli otto protagonisti di altrettanti capitoli, nella ricerca di una terra promessa che non si raggiunge mai; sono uomini che, cercando di comprendere la Cina, «hanno varcato un confine indefinibile, oltre il quale non c'era la meta ma l'Occidente era ormai perduto», uomini che «non si rassegnano davanti allo scontato», ovvero davanti agli stereotipi dell'inferno Cina o del paradiso Cina, ma che semmai inseguono con disincanto «l'ombra del vero», la Cina nella sua dimensione quotidiana piena di cadute e risalite, di eccessi e di orrori, di dubbi e di sogni.
È paradossale che questi uomini, gli otto protagonisti del libro, come del resto ogni intellettuale spogliato dell'alterigia, si ritrovino in una condizione di sofferenza.
Lo dice bene Cammelli: «Non sono amati dai cinesi cui vanno benissimo gli entusiasti e lontani commentatori di improbabili dragoni, non sono amati dall'Occidente perché nessun amore per la Cina deve spingersi oltre la messa in discussione della indiscutibile superiorità occidentale». Però è indiscutibile: la loro, è l'unica strada che ci conduce fino a sfiorare l'altrove cinese. O «l'ombra del vero».

Il libro: Stefano Cammelli, «Muri rossi», Mauro Pagliai Editore, pagine 216, euro 12.

Corriere 16.7.13
Le frasi fatte e i luoghi comuni quelle affinità elettive tra parole
Nel Dizionario di Lo Cascio i legami tra seimila vocaboli
di Cesare Segre


Un viaggio attraverso la chimica, la medicina, l'agricoltura, insomma le scienze più popolari nell'Ottocento; un viaggio appassionato, attraverso la lettura di centinaia di libri e l'approdo a tentativi concreti di sperimentazione. Questo il tema dell'ultimo grande romanzo, incompiuto, di Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet. Poteva essere un inno ai progressi delle scienze, ma Flaubert preferì invece presentarlo come la messa in scena di un fallimento generale, il trionfo della «bêtise», dell'imbecillità. Infatti i due protagonisti, oscuri impiegati, quando decidono di sperimentare tutte le scienze apprese sui libri, facendosi medici o chimici, vedono fallire le loro iniziative, in piccoli o grandi disastri. Non basta leggere tanti libri per diventare grandi scienziati.
Il romanzo pare dovesse terminare con l'immagine dei due compagni chini su un tavolino, a copiare, copiare, copiare tutto lo scibile e tutto quel che è stato scritto. Tra i materiali che i due si propongono di allestire c'è anche un Dizionario dei luoghi comuni, che Flaubert concepisce certo in chiave satirica, dato che segnala le banalità di cui i nostri discorsi, anche quelli pseudocolti, sono trapunti. Si tratta di luoghi comuni validi in qualunque occasione («L'acqua di Parigi fa venire le coliche»; i calli «indicano il mutare del tempo meglio dei barometri»; l'arte «porta dritti all'ospizio») oppure di citazioni «dotte», utili a nobilitare il linguaggio.
Indubbiamente in qualsiasi lingua ci sono delle specie di automatismi che fanno accompagnare a certi verbi certi sostantivi e a certi sostantivi certi attributi (l'ambizione è «folle»; i malviventi sono di solito «feroci»; la boscaglia è «cupa e impenetrabile»; ciò che viene «chiuso» lo è quasi sempre «ermeticamente»; «rigido» è accompagnato volentieri da «compassato»; l'ingiuria deve necessariamente «lavarsi nel sangue»; i muscoli degli uomini forti sono, è ovvio, «d'acciaio»). È come se certi gruppi di parole con significato autonomo (ossia certi sintagmi) fossero legati da una o più valenze (nel senso della chimica); noi nel parlare non ci riferiamo più a una singola parola, ma a qualche sintagma.
In italiano, per esempio, usiamo «tagliare» per l'erba, per la carne, per i capelli, mentre in altre lingue ci sono verbi appositi per tagliare l'erba e per tagliare il pane. Il parlante italiano noleggia una bicicletta o una barca, mentre per una camera o un appartamento ricorre al verbo «affittare». Ho tratto questi esempi dal Dizionario combinatorio italiano di Vincenzo Lo Cascio, noto linguista e lessicografo dell'Università di Amsterdam, che ha studiato i legami di seimila parole italiane (tremila nell'editio minor) con la loro costellazione di affinità. Una ricerca che potrebbe essere inesauribile, dato che alla fine le parole di una lingua sono collegate tutte l'una con l'altra: un'immensa rete. Ma le scelte operate da Lo Cascio sono generalmente quelle più giudiziose e utili.
Occorre in effetti spiegare come e perché, a penetrare nella foresta delle valenze, con vantaggio soprattutto per chi vuole apprendere una lingua, c'è un itinerario che svela i limiti già messi in rilievo da Flaubert, e un altro, più teorico, nel quale lo strumento ideato da Lo Cascio si rivela perfettamente adeguato. In sostanza, potremmo dire che Flaubert si esprime da scrittore, mentre coloro che fanno uso «normale» di una data lingua entrano per necessità nei suoi meccanismi e, istintivamente o no, ne usufruiscono.
La lingua si trasforma di continuo. Parole nuove vengono aggiunte. Altre cessano di essere usate. E la rete dei sintagmi continua a mutare. Una volta i maggiori contributori al mutamento erano gli scrittori. Ora ci sono ben altre forze verso l'innovazione, bella o brutta che sia: basta pensare alla pubblicità. Flaubert, scrittore e attento agli scrittori, rappresentava il bisogno di innovazione. Naturale la sua ripugnanza per parole ed espressioni che il parlante ripete meccanicamente, senza nemmeno pensare al loro significato. Lo scrittore è impegnato a rinnovare il linguaggio, a farci riscoprire, o scoprire, la nostra lingua, specie quando la usa con finalità letterarie.
Viceversa, per il parlante comune, le parole ed espressioni d'uso sono modi neutri di accennare a una realtà che per inerzia si designa sempre allo stesso modo, finché non se ne imponga uno nuovo. Il linguaggio della banalità, a veder bene, è stato in origine molto espressivo, e ricorreva volentieri alla metafora: «avere il dente avvelenato», «armato sino ai denti», «difendersi con le unghie e coi denti» ci riportano a sentimenti e atteggiamenti primitivi se non preistorici, mentre «correre ventre a terra» ci trasforma in cavalieri antichi. La reazione a una proposta sgradita può essere descritta come un complicato atto digestivo («difficile da digerire») e gli ostacoli di un interlocutore diventano una scena di carcere duro («essere una palla al piede») o una fase di palleggio («prendere la palla al balzo»). Possiamo persino autosotterrarci («sprofondare sotto terra dalla vergogna») o metterci in dialettica con la luna («pretendere la luna», «avere la luna storta»).
Il Dizionario di Lo Cascio registra un buon numero di questi sintagmi obbligati, da una parte aiutando lo studente di italiano a muoversi tra le valenze, diverse in ogni lingua, dall'altra mettendo alla prova il nostro gusto linguistico, e perciò stimolandoci a evitare le espressioni ormai banali, degne dell'ironia di Flaubert. Un aiuto, comunque, per muoverci nella rete di parole e forme in cui s'intrecciano i nostri discorsi.

Corriere 16.7.13
Fouquet, il Re Sole sono io
Ascesa e caduta del ministro delle finanze, abile quindi odiato
di Carlo Baroni


Erano tempi che dovevi scegliere da che parte stare. Con il re o il Parlamento? O magari con tutte e due? Per sopravvivere ci voleva scaltrezza più che acume. Nicolas Fouquet possedeva l'una e l'altro. Con in più un'intelligenza sottile e profonda. Troppa. Ed era leale. Virtù pericolosa in un mondo di intriganti. Che, spesso, si coniuga con l'ingenuità. Di pensare che gli altri siano come te. Non provino invidia per i tuoi successi, tanto più se siedono su un trono. Fouquet non aveva dato retta agli ammonimenti saggi di François de La Rochefoucauld: «Se vuoi crearti dei nemici, mostrati superiore ai tuoi amici. Ma se vuoi farti degli amici, lascia che i tuoi amici si credano superiori a te». Fouquet il nemico non se l'era cercato. Era stato «lui» a sceglierlo. Il più terribile, l'unico che non poteva sconfiggere. «Lui», il re Sole, Luigi XIV. Sono loro i due protagonisti di un pezzo del '600 e dell'interessantissimo libro di Alessandra Necci, Re Sole e lo Scoiattolo (Marsilio editori). Un viaggio in un secolo con dentro un cambiamento che non tarderà ad arrivare. Intorno a Luigi e Nicolas una corte di nobili perfidi, borghesi rampanti, cardinali intriganti, gentildonne pronte a tradire o a morire per te. Uno scenario cangiante come il cielo di Parigi. La capitale di un regno dove niente sarà più come prima.
Nicolas Fouquet si muove bene. Viene da una famiglia sveglia ed attenta. Ricca, ma non viziata. Lo tira su come si cresce un futuro uomo. Studi solidi dai gesuiti, un matrimonio (poi un altro quando diventerà vedovo) con donne belle, sicure e fedeli. Una carriera fatta passo dopo passo, senza sgomitare, ma pronto a far valere i suoi diritti, le sue capacità, il suo talento. Uno «scoiattolo» furbo ed operoso che mette via le ghiande perché sa che dopo l'estate arriva sempre la brutta stagione. L'«altro», Luigi, è figlio del privilegio. Arriva inaspettato, dopo ventidue anni di matrimonio. La corona incollata sulla testa anche quando deve fuggire come un ladro, di notte, da Parigi. Un uomo complicato e complesso. Deciso ed arrogante. Illuminato ed assolutista. Generoso e vendicativo. Cova rancori che maschera dietro un volto enigmatico. Quando colpisce è per sempre. E Fouquet lo saprà bene e presto.
Ci sono gli echi della trilogia sui moschettieri di Dumas e le immagini colorate, i suoni, i gesti, le parole di Vatel, il film di Roland Joffè sulla grande festa nella residenza di Fouquet a Vaux-le-Vicomte con il re come ospite. Fouquet che «alle sei era il re di Francia e alle due del mattino non era più nulla» come scriverà Voltaire. Ascesa e discesa agli inferi in poche ore come solo ai grandi è concesso. Nell'ombra trama già Jean-Baptiste Colbert. La «serpe» pronta ad affondare i suoi denti velenosi. Il mago della finanza che non sbaglia i conti del bilancio dello Stato e neanche i calcoli politici. Capace di metterti in cattiva luce con una parola non detta, un movimento impercettibile di ciglia. Onesto, a modo suo, quanto Fouquet è generoso. Nicolas che fa di tutto per farsi nominare sovrintendente alle Finanze, l'anticamera per diventare primo ministro. Parigi è sua, la gente lo acclama, butta i cappelli per aria quando passa. Il re gli sorride. Fouquet è quello che ha i soldi e decide a chi darli. Presto conoscerà il significato della parola ingratitudine.
Intorno gli altri attori di uno spettacolo grandioso e tragico. I cardinali Richelieu e Mazzarino, statisti che disegnano la nuova Europa e accartocciano e stropicciano la vecchia Francia. Il popolo li teme e li odia. Però non può disprezzarli. Il rispetto che non si può negare ai grandi. La grandeur francese prende piede grazie a loro e alle armate del principe di Condè. Gli altri, si chiamino pure Spagna o Inghilterra, si piegano e devono scendere a patti. L'Europa ha un nuovo baricentro. I trionfi fuori le mura e i tumulti dentro casa. La Fronda costringe ad arretrare il cardinale che viene dall'Italia. Ma passata la tempesta tornerà per forgiare il futuro re, Luigi XIV. Anna d'Austria, in bilico tra il dovere di madre di un sovrano e l'ambizione di una reggente. E il marito Luigi XIII, complessato e irrisolto. Tra l'incudine di un padre ingombrante, Enrico IV, e un figlio che finirà per abbagliarlo. Sullo sfondo la paura di pagare anche per colpe non commesse come aveva teorizzato benissimo Richelieu: «Datemi sei righe scritte per mano dal più onesto degli uomini e ci troverò un motivo per farlo impiccare».

Il libro: Alessandra Necci, «Re Sole e lo Scoiattolo», Marsilio editori, Gli specchi, pagine 450, euro 18,50.

Corriere 16.7.13
I crociati del nord apprezzati dal Reich
di Armando Torno


Cappellano dell'Ordine dei Cavalieri Teutonici, Pietro di Dusburg ha lasciato una preziosa Chronica che arriva al 1326. Un'opera essenziale per storici e pangermanisti, per cultori del mito prussiano. Si ritrova facilmente nelle pagine di pensatori quali Johann Gottfried Herder; in genere è conosciuta nella traduzione in oltre ventisettemila versi tedeschi che Nicolaus von Jeroschin realizzò poco dopo la stesura del testo narrativo latino. Ora, per la prima volta, è apparsa in italiano con l'originale a fronte. L'immane lavoro si deve a Piero Bugiani: Cronaca della terra di Prussia (Centro Studi sull'Alto Medioevo di Spoleto, pp. 684, euro 70; premessa di Pietro U. Dini, prefazione di Francesco Santi).
Di Pietro di Dursburg (nato in Gheldria, oggi Olanda) conosciamo ben poco. Dovette essere attivo in Prussia già nel 1289, quindi fu canonico a Königsberg, ora Kaliningrad, in un periodo che va dal 1310 al 1356: e in questa città, resa celebre quasi mezzo millennio più tardi da Immanuel Kant, pare abbia scritto buona parte della sua Chronica. La quale resta l'unico testo narrativo esteso sui teutonici. Ne ricorda la fondazione «in una tenda ricavata dalla vela di una nave»; soprattutto racconta dei crociati baltici — in essi si inseriscono i teutonici — che possedevano le medesime prerogative di quelli che puntavano a Gerusalemme. Combatterono i resti pagani d'Europa in una guerra senza Terrasanta ma densa di violenze selvagge, cominciata nel XII secolo contro i Vendi, di cui narra la Chronica Slavorum.
Tra gli innumerevoli episodi, vale forse la pena riportarne un paio dal libro III: «Un fratello subì questo martirio: i Prussiani lo legarono per le mani, ancor vivo a un albero, gli strapparono dal ventre l'ombelico, cui erano attaccati gli intestini; fissarono le viscere all'albero, e poi con ripetute percosse lo costrinsero a girare attorno alla pianta, finché tutti gli intestini rimasero appesi al tronco». E ancora, ecco cosa succede a una giovane di notevole bellezza, oggetto di lite tra alcuni contendenti: «Affinché quella disputa non si allargasse troppo, si fece avanti un tale con una spada, che troncò nel mezzo la ragazza, dicendo: "L'ho tranciata in due, ognuno prenda la parte che gli spetta!"». Ma, al di là dei fatti trucidi, le pagine di Pietro di Dusburg sono particolarmente importanti: narrando la fondazione di un nuovo Stato che è senza dinastie, con l'idea che tutti erano coinvolti in essa, riporta i costumi degli antichi prussiani.
Basterà ricordare che erano baltici e non parlavano tedesco, ma qualcosa di simile al lituano o al lettone. Non avevano elaborate idee teologiche, né possedevano libri sacri, anzi non conoscevano la scrittura. Un passo — citiamo da pagina 89 della traduzione di Bugiani — è significativo: «Rimasero assai sorpresi in passato quando venne loro riferito che gli esseri umani sono capaci di passare i loro pensieri anche a qualcun altro non presente attraverso lo scritto». Pietro di Dusburg, poi, ci aggiunge del suo: inventa, tra l'altro, la figura del Criwe e ne fa un papa pagano abitante a Romov, tanto per scimmiottare Roma. Herder parla di lui come di un Oberdruide. E non è il solo che creda a tali finzioni, necessarie al cappellano teutonico per perorare la causa di un papato forte. O forse per giustificare lo scontro di culture.
Dusburg è entrato senza volerlo in quella lotta ideologica che ha radici nella Germania di Tacito. L'alterità rispetto a Roma, i cavalieri teutonici, il Sacro Romano Impero, Federico II et similia furono cari tra gli altri ad Alfred Rosenberg, l'ideologo del Terzo Reich, il quale giunse a individuare nei crociati del Nord una cultura-diga contro lo slavismo, sinonimo di ignoranza e barbarie. Ma la questione si allarga ché Pietro di Dusburg offrì materia anche a coloro che considerarono gli slavi anime inferiori. Sciocchezze che qualche cretino ha avuto il coraggio di ripetere dopo Puskin, Dostoevskij, Tolstoj e Florenskij.
Inutili aggiungere commenti sull'ultima questione. Sono però doverosi i complimenti a Piero Bugiani, attivo alla Sismel. Il testo latino è quello dei Monumenta Poloniae Historica (Cracovia 2007); è stato scelto un manoscritto diverso dall'edizione del 1861 degli Scriptores Rerum Prussicarum.

Agenzia Radicale 16.5.13
Lo Strega dei padri
di Giovanna Bruco
qui
http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/riceviamo-e-
pubblichiamo/1786-lo-strega-dei-padri