mercoledì 17 luglio 2013

Ultim’ora:
il Giornale Radio di Radio 3 delle 10.45Palazzo Chigi definisce esaustiva la relazione del ministro Alfano...


La Stampa 17.7.13
Il solito copione: capri espiatori, nessun colpevole
di Francesco La Licata


Il gioco delle parti ha dato vita ad un copione vecchio e usurato, recitato sul palcoscenico del Parlamento da un ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che sembrava la copia esatta di tanti suoi predecessori, costretti, nel corso dei decenni, a trovare una «pezza» anche a costo di sfiorare l’illogico - ogni volta che accadeva l’irreparabile. Alfano ha letto, in sostanza, la relazione approntata dal Capo della Polizia, Alessandro Pansa, quasi affidando proprio a quel testo una sorta di «certificazione» sul fatto che «l’affaire Shalabayeva» si fosse svolto a «sua insaputa». E per dare maggior peso alla relazione Pansa, con una «procedura di trasparenza» abbastanza inusuale, ha comunicato che il documento potrà essere letto da tutti sul sito del ministero.
Alfano ha ribadito che tutto è avvenuto all’insaputa sua e dell’intero governo. Soprattutto la parte dell’operazione riguardante l’espulsione della signora Shalabayeva e della figlioletta, dopo la fallita cattura del marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, che, però, dice il ministro, per la nostra polizia era solo un pericoloso latitante e terrorista, perché così era stato assicurato dal console kazako Adrian Yelemessov.
Ora, è comprensibile - anche se non giustificabile - che un’indagine amministrativa debba muoversi cercando di procurare il danno minore ce lo insegnano decine di commissioni inutili su ogni genere di disastro istituzionale -, ma appare eccessivo che si ammetta placidamente che la nostra polizia (Interpol compresa) non sappia chi e quanti siano gli oppositori stranieri presenti a vario titolo nel nostro Paese. Forse sarebbe stata opportuna magari una telefonata ai nostri servizi o anche a qualche servizio amico, per esempio quello inglese, Paese dove la signora Alma Shalabayeva era stata ospitata prima di giungere a Roma. Ma la ragion politica (in questo caso la difesa della stabilità del governo) deve sempre prevalere e quindi passi che accettiamo di fare la figura dei poliziotti delle barzellette. L’importante è difendere la propria (del ministro e del governo) estraneità, tuonare e promettere che «tante teste cadranno» anche se poi non succederà.
La vicenda, invece, avrebbe meritato ben altro svolgimento. L’ammissione del ministro («non sapevo nulla»), sorretta dall’analisi del prefetto Pansa, è istituzionalmente gravissima. L’indagine amministrativa sembra aver dimostrato che, dopo l’irruzione di uno squadrone di poliziotti a Casal Palocco e la fuga del latitante, si è inceppato il meccanismo della comunicazione tra i burocrati del Dipartimento e il gabinetto del ministro. In sostanza, dice Alfano, la vicenda fu trattata come una normale espulsione e queste pratiche, per prassi, non vengono sottoposte all’autorità politica.
Forse ci saremmo aspettati da Angelino Alfano, oltre alla minuziosa, burocratica ricostruzione, anche un qualche cenno sul danno prodotto all’immagine dell’Italia, additata pubblicamente come una «piccola» democrazia che si piega alle richieste del dittatore Nazarbayev. E forse, perché no?, non sarebbe stata inopportuna una qualche parola di umana «pietas» (presumibile per un cattolico come Alfano), a parziale indennizzo del dolore provocato ad Alma e alla sua bambina. Ma la politica concede poco spazio alla considerazione per il prossimo.
Cosa accadrà adesso? Il ministro una testa l’ha portata: quella del prefetto Procaccini, suo capo di gabinetto, che si dimette senza nessuna spiegazione ufficiale e senza che il governo abbia chiarito quale sia la sua «colpa». Poi ci sarà «l’avvicendamento» (a quanti avvicendamenti abbiamo assistito negli anni!) del prefetto Valeri, capo della segreteria del Dipartimento della pubblica sicurezza, prossimo ormai alla pensione. Insomma, non accadrà praticamente nulla. Anzi no, Alfano ha preannunciato, col tono del preside burbero ma non troppo, la formazione di una commissione che riorganizzi interamente il Dipartimento e in particolare la direzione generale degli uffici per l’immigrazione. Questo «studio» dovrà far sì che «non accada mai più che un ministro, un intero governo vengano tenuti all’oscuro» su iniziative così delicate.
Sembra di assistere ai titoli di coda di un film visto tante volte. Sempre lo stesso: prima il danno, poi il sacrificio di un capro espiatorio dato in pasto all’opinione pubblica ma senza infierire e, infine, l’immancabile commissione riparatrice. L’aereo di Ustica venne seppellito da un simile organismo che dava fiato alla tesi dell’incidente. Per non parlare delle decine di scandali istituzionali regolarmente insabbiati sotto l’autorevole parere di una relazione parlamentare. Poche storie scandalose, in Italia, si sono chiuse con la condanna dei responsabili. Si sa sempre chi esegue, ma non chi dà l’ordine. Come a Genova, per la Diaz e Bolzaneto.

La Stampa 17.7.13
La solitudine del ministro che si autoassolve in Senato
Il lessico da questura e gli sguardi imploranti un applauso
di Mattia Feltri


Secondo l’allegato B, tutti assolti. E il più assolto di tutti è il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Il sugo dell’informativa al Senato è semplicemente che lui non sapeva, né lui né il governo: lo ha detto come premessa e come postilla. E in mezzo ha letto un rapporto con l’ambizione della precisione sferica, scritto in inoppugnabile lessico di questura. Il ministro si è alzato davanti all’Aula pochi istanti prima delle diciotto. Serio. Compreso. Con quell’espressione che ha quando è allegro, o preoccupato, o triste, o fiducioso, o annoiato. Dava le istruzioni per l’uso: aprirò le virgolette, chiuderò le virgolette, entro le virgolette ci sono i dettagli, e le considerazioni, e gli sviluppi, e richiuderò le virgolette di cui sopra. Guardava specialmente alla sua sinistra, verso i banchi del Pd, accondiscendente, platealmente severo. C’erano attorno a lui numerosi ministri, Gianpiero D’Alia e Dario Franceschini a un lato, Beatrice Lorenzin all’altro. E prima erano arrivati a salutarlo i colonnelli berlusconiani, Sandro Bondi e Renato Schifani e però era l’assenza del premier e del titolare degli Esteri, Emma Bonino, a risaltare di più.
Una relazione durata venticinque minuti scarsi durante la quale non c’è stato un solo applauso, a parte quello finale, di rito, niente di fiammeggiante. Alfano aveva letto con qualche incertezza le pagine compilate dal capo della polizia, Alessandro Pansa, ma con il piglio dell’uomo sicuro di sé. Si era girato ora di qui ora di là, spostando il plico con metodo arioso e meccanico a destra o a sinistra del microfono, se si rivolgeva ai senatori di un lato o dell’altro. Si volava altissimo, coma la delicatezza della questione richiedeva, fino al «flusso informativo ascendente». Quasi nemmeno sembrava si stesse parlando di una donna e di una bambina di sei anni, prese di notte da cinquanta uomini dei reparti scelti della polizia, rispedite in un paese democraticamente non evolutissimo. Sembrava non si parlasse di diritti umani, di rapporti internazionali poco limpidi, di interessi economici formidabili. Sembrava che Alfano stesse parlando di Alfano, dell’innocenza di sé e dei colleghi, delle procedure, dei protocolli, di un trionfo burocratico che a un certo punto si inceppa, e non ce la fa a scalare l’ultimo chilometro. La risposta a questo sfacelo era la «riorganizzazione del dipartimento». Era «l’avvicendamento del capo della segreteria». Era, massima concessione alla carne e al sangue della vicenda, «l’azione inesausta» per riavere indietro Alma Shalabayeva e la piccina, e chissà a che titolo le restituiranno. Era come se i confini del disastro fossero un’opinione, e quindi dovessero essere ridisegnati dal ministro e dall’intero esecutivo.
C’è voluto Mario Giarrusso, il senatore siciliano a cinque stelle, pur nei suoi modi sconnessi, a restituire un po’ di dignità a un dibattito – sono gli effetti delle larghe intese – rimasto fra il cavillo e l’ossequio. I dubbi di Maurizio Gasparri sul calibro d’oppositore di Mukhtar Ablyazov, le cautele di Claudio Martini (Pd) il cui slancio arrivava giusto a immaginare «ulteriori aspetti da chiarire». La Lega, col capogruppo Massimo Bitonci, si limitava al minimo sindacale d’opposizione, manifestando il sospetto (come Sel) che il governo non potesse non sapere. Quello kazako sapeva senz’altro, ha detto Giarrusso. Ha detto che in «aula si è recitata una grande menzogna». «La pessima trama di un film di serie Z». «Ci sono coperture politiche che vengono dal capo del suo partito», ha detto. Accuse furenti e forse indimostrabili, ma che dovevano essere il cuore di un serio dibattito parlamentare. Quelle, e poi la reputazione di cui gode il Kazakistan nei documenti internazionali, la fine che fanno lì gli oppositori – siano santi o profittatori. La parola «bambina». La parola «orfanotrofio». La parola «donna». La parola «galera». Le parole infine echeggiate nel vuoto.

Corriere 17.7.13
«Informai il ministro. Mi sento offeso»
Il capo di gabinetto: fu Alfano a chiedermi di incontrare l'ambasciatore
di Fiorenza Sarzanini

ROMA — Ha scelto di andarsene prima di essere cacciato, al termine di una carriera durata quarant'anni e segnata dalla fiducia massima di tutti i ministri che si sono avvicendati all'Interno. Ma non ha nascosto di essere «nauseato, per quanto è accaduto». Perché Giuseppe Procaccini è un uomo delle istituzioni e mai sarebbe rimasto al suo posto dopo il terremoto provocato dall'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, di appena 6 anni, il 31 maggio scorso a bordo di un jet privato messo a disposizione dalle autorità kazake. Ma mai avrebbe immaginato che potesse finire così. Il prefetto paga per tutti e nella lettera di dimissioni consegnata lunedì sera al titolare dell'Interno Angelino Alfano lo ha scritto esplicitamente: «Dopo tanti anni di carriera vado via, ma sono stato ingiustamente offeso». Il motivo lo ha spiegato in maniera chiara a tutti coloro che lo hanno chiamato ieri per esprimergli solidarietà: «Ho ricevuto l'ambasciatore kazako al Viminale perché me lo disse il ministro spiegandomi che era una cosa delicata. L'incontro finì tardi e quindi quella sera non ne parlai con nessuno. Ma lo feci il giorno dopo, spiegando al ministro che il diplomatico era venuto a parlare della ricerca di un latitante. Lo informai che avevo passato la pratica al prefetto Valeri».
Procaccini lo dice adesso che ha già sgomberato l'ufficio, consapevole che il ministro continuerà a negarlo, come del resto ha fatto ieri di fronte al Parlamento. Eppure è proprio questa circostanza a tenere aperta la vicenda, il caso politico che continua a far fibrillare il governo. Perché riapre gli interrogativi sulla catena informativa arrivata fino al vertice del Viminale. «Ho saputo di questa storia per la prima volta quando sono stato contattato da Emma Bonino», ha sempre sostenuto Alfano. Procaccini fornisce una diversa versione. Nega di avergli parlato dell'espulsione e dell'avvenuto rimpatrio, ma conferma di averlo informato relativamente al colloquio avuto con il diplomatico. Esattamente come ha sempre fatto nel corso della sua carriera, non a caso è famoso al Viminale per i continui «appunti» che redige.
Del resto, sia pur velatamente, ne lascia traccia proprio nella lettera al ministro, il suo ultimo atto ufficiale: «Le confermo che ho mantenuto una linearità istituzionale priva di ogni invasività, cercando di operare da tramite funzionale circa la presenza nel nostro Paese di un pericoloso latitante armato». È questo il nodo. Il capo di gabinetto ribadisce che nessuno gli parlò del fatto che Mukhtar Ablyazov fosse un dissidente. Lo ribadisce adesso che ha deciso di farsi da parte: «Nessuno mi parlò mai dell'espulsione di sua moglie e di sua figlia. Anzi. Al termine del blitz Valeri mi comunicò che il latitante non era stato trovato e per me la vicenda si chiuse lì. Non sapevo nulla dell'espulsione. Nessuno mi ha informato di quanto accaduto relativamente alla pratica gestita dall'ufficio Immigrazione». Lo scrive anche nella missiva consegnata ad Alfano: «Sono testimone di quanta distorsione profonda dalla realtà sia stata consumata in questi giorni da una comunicazione velenosa, offensiva, fantasiosa e stancante. Devo confessarle che ho continuamente ripercorso la vicenda e mi sono anche interrogato se qualcosa mi fosse sfuggita, ma tutto mi riporta alla obiettiva circostanza di non essere stato informato».
Non sono stati facili questi ultimi giorni al Viminale. Perché via via che filtrava la ricostruzione di quanto accaduto in quei quattro giorni di fine maggio, Procaccini e il ministro si sono confrontati in continuazione. E in alcuni momenti c'è stata anche tensione forte, confronto aspro per la necessità di tenere una posizione che diventava sempre meno credibile. Tra otto mesi il prefetto va in pensione. Non avrebbe mai creduto di poter andare via prima. Lo scrive in modo forte, diretto: «Penso che per un capo di gabinetto dell'Interno ci sia un livello diverso di obblighi e responsabilità. L'essenza della mia funzione mi impedisce di replicare esplicitamente ma è poi la funzione stessa che è fondata sul rispetto, la fiducia senza condizioni, la stima e l'autorevolezza interna. Gli attacchi indecenti minano e incrinano tale delicato ruolo e influenza, o rischiano di farlo, il rapporto fiduciario con gli uomini delle forze di polizia, del soccorso e i tanti colleghi e collaboratori. Eppure fino a ieri l'ho sentita la fiducia, ne sono stato fiero nei tanti anni di servizio pubblico, soprattutto cercando di dare un esempio. È vero che è amaro e ingiusto lasciare in questo modo, ma l'Amministrazione ha ancora più bisogno dell'esponente apicale motivato».
C'è un aspetto della sua vita privata che Procaccini svela nella lettera proprio per dimostrare il dolore e lo sgomento per l'esito di questa storia. E infatti, dopo aver sottolineato il suo «totale impegno personale», scrive: «Ciò mi ha sicuramente limitato nella mia dimensione familiare e ne ho sempre sofferto, soprattutto quando ho visto il mio amato figliolo Fabrizio andare pian piano via. Di lui ricordo che mi disse con un filo di voce: "Avrei voluto che tu fossi orgoglioso di me". Eppure io lo sono stato immensamente e spero che lui sappia quanto e nell'assistere al suo saluto gli ho promesso che avrei cercato di agire perché lui fosse orgoglioso di me. Anche questo è per me motivo di tormento e non posso non tenerne conto mentre vengo ingiustamente offeso. Del resto la soddisfazione di aver lavorato tanti anni in una posizione che non potevo neanche immaginare di ricoprire mi lascia senza rimpianti».
Procaccini sa che la parola fine non è stata ancora scritta e conta «sulla pacata riconsiderazione delle azioni, affinché si possa riportare alla ragione i tanti preconcetti, le tante malevolenza espresse e favorite e le tante affermazioni oltraggiose e quelle avventatezze nei giudizi che sono propri di un periodo amaramente senza "rispetto"».

il Fatto 17.7.13
Il Pd non applaude ma s’inchina ancora
Alfano ridicolo: “Non conto nulla”
Ma il Pd come fa ad accettarlo?
di Fabrizio d’Esposito


Il vicepremier e ministro dell’Interno legge in Parlamento il rapporto del capo della Polizia che assolve il governo, scaricando le colpe sui sottoposti : “Non fummo informati di nulla”. Il Pdl se la beve, il Pd si piega, Renzi: “Riferisca anche Letta”. M5S: “Bugie per coprire Berlusconi”

Angelino Alfano, alle sei della sera, è un rospo da ingoiare per il Pd anche per il vocabolario sciatto, ministeriale e persino offensivo. L’enorme e incredibile scandalo di Alma Shalabayeva e della sua figlioletta di sei anni diventa, per il titolare del Viminale, “la nota vicenda delle cosiddette kazake”. A Palazzo Madama, Alfano arriva scortato soprattutto da ministri e sottosegretari del suo partito, il Pdl. In ordine sparso: Lorenzin, Bianco-fiore, Santelli, Lupi. Il premier non c’è. Nemmeno la Bonino. Poi, poco prima dell’attesa informativa, spunta Dario Franceschini, ministro per i Rapporti col Parlamento. È lui, l’alter ego politico di Enrico Letta, il garante del Pd per l’operazione salva-Angelino. Per i democratici comunque è dura, durissima. Alfano parla per una ventina di minuti ma dai banchi del centrosinistra di governo non si alza mai un applauso. La scena si ripeterà due ore più tardi a Montecitorio, quando l’inconsapevole ministro ripeterà la sua autoassoluzione.
ALFANO è un disastro anche nella sua mimica, nella scansione di frasi come “inizio del virgolettato” e “flusso informativo ascendente”. La moglie di Ablyazov viene trattata con grigio distacco burocratico. Prima il cognome, poi il nome. “Shalabayeva Alma”. Il grido di dolore è ipocrita: “Ciò non accada mai più”. Il nuovo ministro a sua insaputa finisce e i senatori del Pd restano immobili. Solo qualcuno batte le mani. Tipo Massimo Mucchetti, che però subito dopo l’applauso rotea la mano destra nel plateale gesto che significa: “Si va bene, abbiamo capito, meno male che è finita questa sceneggiata”. In quel momento c’è un’altra immagine che si sovrappone. Roberto Calderoli scende dal suo seggio e va a salutare la ministra Kyenge. Lei rimane seduta, non si alza, forse per evitare un abbraccio ma accetta la mano tesa del leghista. Chiusa parentesi. Le larghe intese resistono per il momento al macigno dello scandalo Ablyazov. A distanza di una settimana dal blocco del Parlamento per i guai giudiziari del Cavaliere. L’imbarazzo del Pd aumenta in maniera plastica, evidente durante gli interventi dell’opposizione. Peppe De Cristofaro di Sel evoca un nuovo caso di Ruby, “la nipote di Mubarak”, e i grillini fanno un’ovazione. Idem quando, sempre De Cristofaro, enuncia la considerazione più efficace ma anche più banale: “La permanenza di Alfano al ministero è pericolosa”. L’imbarazzo tocca vette altissime quando il senatore di Sel cita la dignità del-l’ex ministra dem Idem, dimessasi per una storia di Imu non pagata. Pure in questo passaggio il gruppo del Pd resta a braccia conserte. Nemmeno la Idem applaude se stessa. Si prosegue con la Lega che continua a picchiare e poi il silenzio cala sull’aula. Parla Mario Giarrusso, il grillino che si è occupato dello scandalo ed è il primo firmatario della mozione di sfiducia ad Alfano. Giarrusso è un crescendo che mischia tonalità incredibili, dal falsetto all’urlo vero e proprio. Una requisitoria contro il Kazakistan, regime dittatoriale. Il rapimento è la storia di “una grande menzogna”, “la trama di un film di serie zeta”. È l’unico che ha il coraggio di denunciare le “coperture politiche”. Una in particolare: quella di Silvio Berlusconi. Altra ovazione. Alfano scuote la testa, Franceschini a capo chino fa finta di leggere un messaggino.
Dopo Gasparri del Pdl, finalmente tocca al Pd. L’ingrato compito è affidato al toscano Claudio Martini. Il sinonimo di “ingoiare il rospo” è prendere atto. “Prendiamo atto dell’informativa” dice Martini. Stesso concetto alla Camera, seppure con toni più forti, arriva da Emanuele Fiano: “Prendiamo atto”. Certo, restano dubbi, misteri, contraddizioni, buchi neri e così via, ma guai a “strumentalizzare”. Cioè, offrire una sponda allamozione di sfiducia presentate da Sel e Movimento 5 Stelle. Si vota venerdì, a scrutinio segreto.
IL PD NE DISCUTERÀ oggi nell’assemblea dei senatori. I mal di pancia saranno tantissimi. Immancabile lo sfogatoio di colonnelli e peones insofferenti all’inciucio. Qualcuno azzarda “una dinamica tipo elezione al Quirinale” quando furono bruciati Marini e Prodi. Anche perché i renziani andranno al-l’attacco, forti della benedizione ricevuta dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che già infierisce: “Immagino che Letta andrà in aula egli stesso e dovrà prendere posizione sulla vicenda, dovrà dire se le considerazioni di Alfano lo avranno convinto o no”. In serata, alla Camera, un grillino paragona Alfano a “Schettino”. Il Pd s’inchina lo stesso.

il Fatto 17.7.13
Caduta nel vuoto la supplica di Alma sull’asilo politico
di Marco Filoni e Marco Lillo


“Secondo quanto asserito nel ricorso contro il provvedimento di espulsione, si sostiene che la Shalabayeva avrebbe più volte richiesto al personale operante di non essere espulsa verso il Kazakistan, invocando asilo politico. Avrebbe formulato tali richieste a un agente di nome Laura. Al riguardo si allega la relazione dell’assistente della Polizia di Stato Scipioni Laura che nega di aver ricevuto alcuna istanza, anche verbale, di asilo pur confermando che la donna le aveva esposto i contrasti del marito con il governo kazako”, queste le parole del Prefetto Pansa e poi ripetute dal Ministro Alfano come se non ne avesse di proprie.
Eppure c’è un’altra storia. “Ho chiesto asilo politico”: la frase nitida e chiara Alma l’ha pronunciata, secondo quanto lei stessa racconta nel suo memoriale pubblicato prima dal Financial Times e poi in Italia dal Fatto Quotidiano. Ecco cosa racconta la signora: “Laura (Scipioni, ndr) si sedette accanto a me. Li sentii parlare di Ciampino e capii che eravamo diretti lì. Durante il tragitto Laura cominciò a parlare con me. Mi fece qualche domanda che, considerate le circostanze, mi apparve strana. Perché pensi che le cose vadano così male in Kazakistan? Cominciai a raccontarle... Quando finii di parlare, senza nemmeno tentare di dissimulare quello che stava facendo, tirò fuori il telefono che aveva nascosto da qualche parte e interruppe la registrazione. Capii che aveva registrato tutto quello che avevo detto. (...) Le chiesi cosa stava succedendo. Non disse nulla che potesse avere un senso. Accanto a noi c’erano altre cinque persone, erano tutti armati. Vedevo le armi sotto le giacche. Erano tutti italiani. Sul minibus c’era anche l’italiano che parlava russo. Dissi a Laura: ‘Laura, chiedo l’asilo politico! ’ Mi rispose con tono affettuoso: Ormai è troppo tardi. Tutto è già stato deciso”.
Se così fosse allora una grave responsabilità pende sui funzionari di polizia presenti in quel momento. La moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, quando ha realizzato che la stavano portando sull’aereo insieme alla figlia, ha cercato di far valere i suoi diritti. Qualsiasi cittadino straniero che si trovi in Italia e non possa ritornare nel suo paese a causa del fondato timore di subire violenze o persecuzioni, in qualsiasi momento può far valere questo diritto sancito dall’articolo 10 comma 3 della Costituzione.
Quel diritto può essere esercitato anche sulla scaletta del-l’aereo o nel tragitto tra lo scalo e il velivolo. Ora, secondo fonti vicine ai funzionari presenti al momento e rintracciate dal Fatto forse quelle parole la signora Alma le ha dette davvero. Forse non è stata ascoltata, forse non hanno tradotto quelle parole. Di certo c’è che questa è la tesi dei suoi avvocati. Quando ha realizzato che il passaporto della Repubblica centroafricana era stato considerato falso dalla Polizia di frontiera e che dunque il suo piano di restare in Italia con quel titolo diplomatico era fallito, Alma ha azionato il piano B.
La donna era stata prelevata, interrogata in un ufficio del centro e poi condotta al Cie di Ponte Galeria. È qui che avviene qualcosa di strano. Quasi tutti gli agenti che hanno preso parte al blitz arrivano per accompagnare la donna. Qui gli uomini della mobile di Cortese che hanno condotto il blitz (con una presenza di 4-5 uomini della Digos) fanno qualcosa di inusuale: anziché affidare la signora ai funzionari dell’ufficio immigrazione restano lì anche loro. A turno, nelle ore che la donna rimarrà rinchiusa al Cie, uomini della mobile rimarranno a presidiare. Lo racconta lei nel suo Memoriale: a un certo punto riconosce gli uomini che avevano fatto irruzione nella sua casa. Lo confermano fonti della Polizia. Gli agenti del-l’immigrazione di stanza al Cie rimangono persino stupiti. Del resto tutta la vicenda è uno stato d’eccezione. Nella prassi: un immigrato che viene condotto al Cie (di solito rimane mesi, Alma soltanto 48 ore) si trova in stato di fermo per identificazione. Alla donna invece viene riservato un trattamento da detenzione. Non solo: gli agenti presenti sono piuttosto eccitati. Hanno fatto il colpaccio, “ci saranno promozioni per tutti” dice qualcuno. Sono convinti di aver fatto un’operazione graditissima alle alte sfere, che sapranno premiarli come meritano. Non sapevano cosa li aspettava. Il pm Pignatone ha dichiarato che avrebbe acquisito il Memoriale di Alma per indagare sui comportamenti dei funzionari di polizia denunciati dalla signora, oppure per le sue possibili calunnie. Speriamo lo faccia presto

il Fatto 17.7.13
L’agente Laura c’era Alfano conferma


QUELLA SIGNORA bionda, scelta per dare alla Shalabayeva una donna con cui parlare e magari confidarsi durante il blitz, esiste davvero. Era lei la figura centrale nel memoriale scritto da Alma durante i tre giorni del suo incubo italiano, ed è stato il ministro degli Interni a citarla per nome e cognome leggendo ieri in aula la relazione di Pansa. È stato in particolare un passaggio del racconto fornito dal responsabile dell’Immigrazione, il dirigente di Polizia Maurizio Improta, a certificare ruolo e missione: “Incaricai l’assistente Laura Scipioni di portare i lasciapassare a Ponte Galeria e, insieme al personale che parla la lingua russa, di accompagnare la signora a Ciampino. (...) Non mi risulta che la donna abbia rappresentato all'assistente Laura Scipioni, che parla inglese correttamente, la volontà di chiedere asilo”.

La Stampa 17.7.13
Cacciata prima che chiedesse asilo
di Francesco Grignetti


1 «È vero che la signora ha insistito nella finzione di Alma Ayan, ma perché terrorizzata all’idea di far emergere il suo vero nome. La signora temeva di mettere sulle sue tracce il regime. Con il marito erano scappati da Londra nel gennaio 2011, perché secondo Scotland Yard c’era un complotto. In Italia pensava di poter vivere una vita normale. La sera del 29 maggio, prima di finire nel Cie di Ponte Galeria, ha messo per iscritto la richiesta di affidare la figlia alla sua «collaboratrice e amica», Venera Sedareva che vive presso di lei nella villa di Casal Palocco. In verità la signora Venera è sua sorella, ma non voleva rivelare il rapporto di parentela».
2 «Da un punto di vista formalistico il procedimento di espulsione sembra essere in regola. Ma non è affatto così. L’ordine del prefetto si basa su due presupposti errati: non è vero che il passaporto sia contraffatto, come abbiamo dimostrato già davanti al giudice di pace e come ha certificato il tribunale del Riesame; non è vero che la signora Alma Ayan sia entrata in Italia attraverso la frontiera del Brennero il 1 gennaio 2004. Questa seconda circostanza è incongrua perché a quella data non esisteva ancora alcuna Alma Ayan. È un’identità fittizia, «di protezione», che nasce con l’emissione del passaporto diplomatico del Centroafrica nel 2011. E comunque abbiamo scoperto che l’ambasciata del Kazakhstan effettua il riconoscimento ufficiale della signora Shalabayeva il 30 maggio, un giorno prima dell’udienza davanti al giudice di pace, che se avesse avuto questo documento avrebbe dovuto convalidare il trattenimento».
3 «È vero che la signora non ha chiesto asilo politico negli otto mesi in cui ha vissuto a Casal Palocco. Ma era spaventata e non voleva accendere un faro sulla sua presenza in Italia. Se persino Scotland Yard non era stata capace di garantirle la sicurezza, ha pensato che la cosa migliore sarebbe stata di nascondersi dietro il cognome “di protezione”. È altrettanto vero che la richiesta di asilo non è stata formalizzata sui moduli del Cie o davanti al giudice di pace. Ma ne abbiamo parlato: il giudice ci ha invitati a tornare nel pomeriggio a Ponte Galeria per conferire con la signora e formalizzare la richiesta. Ciò è stato impossibile. Questa possibilità ci è stata sottratta perché fisicamente la signora ci è stata sottratta. Alle 13 era già a Ciampino».
4 «La signora era molto preoccupata per la bambina. Abbiamo letto il suo memoriale. La portarono dal Cie a un ufficio di polizia, pensiamo nella questura centrale. Lì le dissero di chiamare la bambina al telefono. Un’agente chiamò al telefonino un collega che si trovava nella villa, quindi presumibilmente attorno alle 12,30, e fecero parlare Alma con sua sorella Venera. “Singhiozzava al telefono. Diceva che erano tornati, volevano la bambina e non le facevano chiamare gli avvocati. Urlai: non dargli la bambina”. Sappiamo poi che zia e nipote salirono sulla macchina con l’autista, e scortati da due auto della polizia. Fu un inganno: gli dissero che sarebbero andati in questura, li portarono a Ciampino».

il Fatto 17.7.13
La piccola Alua venne affidata con un ok a voce


SECONDO gli atti dell’espulsione do Alma Shalabayeva il procedimento di affido di sua figlia Alua, 6 anni, si basa unicamente su autorizzazioni verbali da parte del magistrato della Procura presso il Tribunale dei minori di Roma che ha seguito il caso, Gaetano Postiglione. Autorizzazioni alla polizia “concordate telefonicamente” recitano gli atti. Per legge una madre non può essere allontanata da un paese se prima non è stata trovata adeguata sistemazione per il figlio minore. La bimba è affidata prima alla sorella e poi in secondo tempo all’autista di famiglia, Semakin. Ma la competente autorità, nello specifico Postiglione, aveva autorizzato verbalmente l’affido alla sorella e quindi le sue indicazioni sono state disattese. E non si è ritenuto di aspettare qualche ora e tornare per la notifica e l’affido a quest’ultima. Eppure un ulteriore documento del 31 maggio firmato da Maurizio Improta , dove si dice che si può procedere all’espatrio, si legge: “La Shalabaieva è nella condizione di essere rimpatriata, unitamente alla figlia minore, attualmente affidata a persona nominata dal Tribunale dei minorenni, previo, ovviamente, nulla osta da parte di codesta autorità giudiziari”.
Dunque Laura c’è quando Alma e la piccola Alua sono a Ciampino e capiscono di avere davanti l’ipotesi peggiore, il rientro forzato ad Astana, l’incubo che può portare alla resa il fuggitivo Mukthar Ablyazov.

Corriere 17.7.13
Effetti collaterali del giallo kazako
Anche una bambina paga il conto
di Fulvio Scaparro


Nel pasticciaccio italo-kazako c'è una piccola protagonista, una bimba di sei anni, di cui si parla troppo poco. Nelle foto la vediamo sempre vicina a una mamma attenta e affettuosa ma sappiamo che entrambe stanno attraversando un'esperienza che qualunque genitore mai vorrebbe incontrare nella vita. Un'esperienza che vivono le migliaia di bambini costretti non solo per vicende diplomatiche ma soprattutto per guerre, persecuzioni e miseria a fuggire dalle loro case e dai loro Paesi per cercare rifugio altrove.
Non pretendo di conoscere i misteri delle ragioni che hanno portato l'Italia a consentire che una madre con la sua bambina venisse riconsegnata in fretta e furia ai suoi persecutori. Non c'è giustificazione politica, di convenienza diplomatica o di lotta al terrorismo, per un atto così disumano nei confronti di una bambina e di sua madre: aspetto che chi sa faccia chiarezza e, nei limiti del possibile, ripari il danno.
Mi rivolgo al ministero degli Esteri, a quello dell'Interno, al capo dell'esecutivo e al garante nazionale per l'infanzia, permettendomi di ricordare loro che il nostro Paese, con la Legge n. 176 del 27 maggio 1991, ha ratificato la Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza approvata dall'Onu nel 1989. Basta leggere i primi articoli di questa Convenzione per capire che bambini e adolescenti godono in tutto il mondo di una sorta di immunità diplomatica: il bambino deve essere «tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari».
Chiunque non tuteli bambini e adolescenti, a qualunque titolo presenti nel territorio nazionale, va contro la legge del nostro Paese. Dobbiamo ricordarlo tutti, cittadini, autorità e forze dell'ordine. La protezione non prevede la separazione anche temporanea dei bambini dalle loro figure principali di attaccamento come i genitori, altri familiari o persone nelle quali nutrono fiducia e non costituiscono un pericolo per loro.
A fine maggio, a Casal Palocco, i grandi assenti sono stati la ragione, il cuore e la legge. E ancora una volta i bambini pagano il conto.

sul sito de La Stampa il video dell’intervista
La Stampa 17.7.13
Parlano per la prima volta i testimoni del blitz avvenuto dopo la mezzanotte del 29 maggio a Casal Palocco.
Dall’irruzione all’espulsione. Incubo senza fine
“Sembravano gangster, così hanno portato via Alma”
I famigliari di Ablyazov raccontano a “La Stampa” la notte del blitz del 29 maggio degli agenti nella villa di Casal Palocco
“Gridavano e non capivamo nulla, temevamo di morire”
di Maurizio Molinari


eduti attorno ad un tavolo in una palazzina in centro città ci sono Venera, sorella di Alma, la moglie dell’oppositore kazako Mukhtar Ablyazov, assieme al marito Bolat Seraliev e alla figlia Adiya di 9 anni. Raccontano attimo per attimo cosa avvenne quella notte e nei due giorni successivi, fino all’espulsione di Alma e della figlia Alua verso il Kazakhstan. Seduta vicina a loro c’è Madina, la figlia di Ablyazov, che tradisce tensione per l’incerta sorte della madre e della sorellina entrambe ora ad Almaty. La decisione di raccontare a «La Stampa» i «tre giorni che hanno stravolto le nostre vite – esordisce Venera – è per far sapere cosa abbiamo passato ad una nazione che ci ha fatto sentire a casa ma dove all’improvviso siamo stati umiliati, maltrattati, offesi».
L’arrivo in Italia
Avviene a settembre. «Vivevamo in Lettonia – racconta Madina Ablyazov – ma abbiamo scoperto di essere spiati, braccati e la decisione è stata di andare via». La residenza in Lettonia spiega i permessi di soggiorno di Alma, Venera e Bolat. «Quando si trattò di decidere dove trasferirci avevamo come possibilità la Francia e l’Italia – continua Madina – ma fu mia madre Alma a optare per Roma, diceva che ci saremmo trovati meglio perché il clima era mite, la gente più accogliente e la scuola per Alua migliore». Si tratta della Southlands English School, dove Alua inizia l’anno scolastico, assieme alla cugina Adiya. Quando gli Ablyazov si spostano infatti, i Seraliev li seguono nella casa affittata a Casal Palocco, con una dependance nella quale risiede una coppia di domestici ucraini, Tatiana e Vladimir. «Da settembre fino alla notte del 29 maggio abbiamo vissuto bene» dice Venera anche se, aggiunge Madina, «non dicevamo ai quattro venti chi eravamo, nel timore di essere raggiunti dalle spie, come in Lettonia».
Le grida nella notte
Cinque minuti dopo la mezzanotte del 29 maggio «ci stavamo addormentando – racconta Bolat – quando improvvisamente abbiamo sentito un gran frastuono, la casa su un solo piano era circondata da vetri e ovunque c’erano uomini che battevano violentemente, tentavano di romperli, urlavano». Venera e Bolat non comprendono l’italiano né hanno idea di cosa succede, Alma parla un po’ di inglese. Il rumore diventa assordante. È Alma che apre la porta di casa. «In un attimo una ventina di persone vestite in abiti civili si riversano nel salotto, tutti uomini e una donna, strillano in continuazione, sembrano gangster, non capiamo nulla – dice Venera –, l’unica cosa comprensibile è che un uomo mostra in maniera aggressiva la foto di un personaggio maschile ad Alma, chiedendole se lo conosce». È un’immagine stampata al computer. Alma, Venera e Bolat la guardano, non capiscono chi sia ma «i gangster frugano ovunque ripetendo “Mukhtar, Mukhtar”» lasciando intendere che cercano Ablyazov. «Sono quasi tutti giovani, corpulenti e hanno un superiore, è l’unico che ha la giacca, con un distintivo piccolo che luccica sul colletto» ricorda Bolat. Cercano Ablyazov perché fino a tre giorni prima era lì, lo sanno dall’ambasciata kazaka e dall’agenzia investigativa privata che seguiva le tracce di Ablyazov e l’aveva ormai individuato. La donna però preferisce non «confermare né smentire» sulla presenza del marito.
Sotto il letto delle bambine
Alua e Adiya hanno il sonno pesante, sono reduci da una giornata di ginnastica e il frastuono non le sveglia «ma gli uomini entrano nelle loro stanze» racconta Venera, che assieme ad Alma è obbligata a sollevare di peso le bambine «mentre questi forsennati controllano i materassi, voglio guardare sotto i letti, ovunque».
L’aggressione a Bolat
Viene chiesto a Bolat di mostrare il suo computer. «Mi chiedono di mettere la password, vogliono che lo accenda ma serve qualche minuto e non hanno la pazienza di aspettare – racconta – vedono che sopra il laptop c’è una webcam e vogliono sapere se nella casa c’è un sistema di sorveglianza interno». Sono cose che Bolat intuisce «dai gesti dei gangster» perché non parla italiano né inglese e poiché chiede tempo, per via del computer che tarda, uno degli uomini armati inizia a colpirlo. «Prima alla testa, poi dietro la schiena, sono colpi forti, inizio a sanguinare dalla bocca e mi portano al bagno, spingendomi a lavarmi in fretta la faccia, il sangue scorreva senza fermarsi e lo inghiottivo. Dopo che mi hanno picchiato in camera sono stato condotto nella sala, dove uno dei poliziotti ha detto, anzi, l'ha fatto capire con gesti, che dopo avermi spaccato un occhio mi avrebbe spaccato anche l'altro, poi mi avrebbero rotto i denti e infine ha fatto un gesto per dire che mi avrebbe tagliato la gola». È lo stesso uomo che grida più volte a Bolat «Mafia! Mafia! ». Venera intanto è nel salone, seduta con Alma, circondata da altri armati, tutti uomini «perché l’unica donna che era fra loro non si è fatta vedere, faceva solo le perquisizioni nelle stanze».
Umiliato in bagno Bolat chiede di andare al bagno. Gli agenti glielo concedono ma lo obbligano a tenere entrambe le porte aperte. «Dovevo stare seduto sul wc e mi vedevano tutti, è stato umiliante – ricorda Bolat – loro ridevano di me, mi indicavano». Ma l’umiliazione in quel momento passa in secondo piano perché, dice Venera, «temiamo per la nostra vita perché abbiamo la casa invasa da uomini armati, non sappiamo chi sono e quando Alma in inglese gli chiede se hanno un mandato, un ordine del giudice o qualsiasi altro documento sembrano imbestialiti. Minacciano di colpirla».
L’agente con i capelli da indiana Alle 4 del mattino, il blitz è concluso, è evidente che Mukhtar Ablyazov nella casa non c’è e «gli uomini armati parlano in continuazione al telefono» prima della decisione di ritirarsi portando con loro Alma e Bolat mentre Venera resta in casa con le bambini. «Abbiamo fatto molta strada – ricorda Bolat – fino ad arrivare in un palazzo alla cui entrata c’è un grande arco, è stata la prima volta che ho visto un’auto con l’insegna della polizia, siamo saliti al quarto piano e ci hanno chiesto di firmare una dichiarazione sulla perquisizione avvenuta. Abbiamo accettato sotto minaccia». Fuori della stanza Bolat riconosce l’uomo che lo ha picchiato e lo indica ad uno dei funzionari. «La conseguenza è che mi si avvicina un agente in abiti civili e i capelli da irochese, da dietro quasi mi soffia sul collo e ripete minacciosamente “russo”, “russo”, “russo”». Dopo la firma Bolat e Alma vengono fatti uscire e salire in auto.
La paura, «ora ci uccidono» La vettura esce «dall’edificio con il grande arco all’entrata» e «va fuori città» facendo un «percorso molto lungo» fino ad arrivare «ad un edificio giallastro». Il luogo a Bolat sembra sperduto e, seduto sul sedile posteriore dell’auto si rivolge ad Alma confessandole: «Temo ci uccideranno».
Carabinieri assopiti
Bolat e Alma vengono riportati in città «in una specie di caserma dove all’entrata ci sono due carabinieri ancora addormentati», visto che è ancora primo mattino, «dobbiamo fare qualche giro in auto prima di poter entrare». Bolat e Alma si trovano «in un edificio che sembra aver a che fare con l’immigrazione».
«Il documento è falso» È qui che Alma e Bolat vengono separati. Una funzionaria che dice di chiamarsi Laura spiega ad Alma che «il suo passaporto centrafricano è falso» mentre Bolat ne ha uno valido del Kazakhstan. Fino al primo pomeriggio i due restano «alle prese con l’immigrazione» e a nulla valgono le proteste di Alma che attesta la validità del passaporto come anche di avere un permesso di soggiorno lettone, che però ha lasciato a casa «pensando che il passaporto era più importante». Quella sera Alma dorme «negli uffici dell’immigrazione» e Bolat torna a casa.
Il secondo blitz Alle 6,30 del mattino del 31 maggio circa 15 uomini armati tornano a battere alle porte finestra della casa degli Ablyazov e Seraliev. Cercano Bolat e lo portano a Roma «per ulteriori accertamenti». Ma prima di andare via, dice Venera, «prendono tutti i nostri averi, soldi, gioielli, telefoni, macchine fotografiche, tutto». Venera resta a casa con Alua e Adiya, che aveva scelto di non mandare a scuola. È a lei che «cinque uomini armati chiedono di prendere Alua». Venera resiste, non vuole lasciare la bambina e ricorda quegli attimi con le lacrime agli occhi: «Quando sono venuti a prendere Alua mi sono spaventata tantissimo. Le ho detto: “Non ve la consegno, non posso darvela, non potete portarvela via! ”. Sono diventata molto nervosa, non sapevo cosa fare, chi chiamare, chi contattare, cosa dovevo fare. Hanno cominciato a farmi grandi pressioni, a urlare, “look me”, “listen me”, (guardami, ascoltami, ndr) hanno minacciato, mi hanno detto che avrebbero buttato il mio telefono nella piscina e che non dovevo chiamare nessuno, che si sarebbero portati via Alua. Ho cominciato a supplicarli, a chiedere, mi sono messa in ginocchio pregando “Please, no Alua, no Alua”. Ma loro insistevano che avrebbero portato via la bambina comunque. Alma non c’era, ero io la responsabile». Il diverbio si prolunga e nel tentativo di convincerla gli agenti la fanno parlare al telefono con un donna che, in russo, le dice: «Sono il tuo avvocato, non ti preoccupare, vogliono solo portare Alua dalla madre in via Nazionale». Venera si rassicura ma chiede di accompagnare Alua a via Nazionale. Salgono in macchina e quando arrivano davanti a un aeroporto Venera chiede ad un agente: «Ma questo è un aeroporto, perché siamo qui? ». La risposta le è rimasta impressa: «Appunto, questo aeroporto è via Nazionale». A Ciampino Alua vede la madre e le corre incontro. È l’ultimo momento in cui Venera le vede perché sono circa le 15 del 31 maggio e poco dopo decolleranno alla volta del Kazakhstan con il jet privato arrivato dall’Austria.
Fuga in auto da Roma Venera torna a casa distrutta, incontra il marito rilasciato dagli agenti e con Malina, l’altra figlia di Abyazov, decidono di non dormire una notte di più in Italia, affrontando un viaggio di 9 ore in auto fino al confine svizzero. «Eravamo partiti da neanche 10 minuti – ricorda Madina – e le auto della polizia ci hanno fermato, chiesto i documenti, dicevano che cercavano due bambini scomparsi. È stata una maniera per intimorirci. Siamo ripartiti e non ci siamo più fermati, fino all’arrivo in Svizzera».
«La Farnesina non chiama Alma» Alma e Alua in Kazakhstan sono «ostaggi di Nazarbayev, un presidente-despota che non teme niente e nessuno» dice Madina, secondo cui «la loro sicurezza dipende ora soprattutto dall’Italia» e dunque si chiede «perché dieci giorni fa la Farnesina mi ha chiesto il suo telefono ad Almaty, gli ho dato tre numeri ed ancora nessuno l’ha chiamata. Non lo ha fatto né il console né l’ambasciatore né nessuno da Roma».
Il messaggio ai compagni di scuola Quando l’intervista finisce l’unica a essere rimasta in silenzio è la piccola Adiya. Si avvicina e mi dà un foglio di carta piegato. È la copia della lettera che ha mandato alla sua insegnante Mrs Coursier per far sapere, a lei e alla classe, che non sarebbe più tornata. «Mi dispiace non tornerò più perché la polizia italiana ha rapito mia cugina e la madre, ed ha picchiato mio papà, grazie di essere stati con me quest’anno, vi voglio bene». Con di seguito i disegni dei poliziotti che inseguono Alma e Alua.

il Fatto 17.7.13
Perché Pannella stavolta continua a mangiare?
di Pino Corrias


NON ARRIVANO notizie di imminenti digiuni o piagnistei di Marco Pannella per la libertà di Alma e di Aluà, la moglie e la figlia del dissidente Albyazov, che il nostro governo ha appena rispedito nella galera kazaka da cui fuggivano, fregandosene delle conseguenze che ora subiranno, in cambio di un po’ di gas. Ma anzi risulta che ogni sera a cena da Fortunato al Pantheon o in qualche mensa della Farnesina, continuino i festeggiamenti che Pannella dedica alla sua creatura meglio riuscita, dopo se stesso. Quella Emma Bonino diventata ministro degli Esteri dopo che alle ultimissime elezioni – le Regionali del Lazio dell’anno 2013 – ha incassato la bellezza di 316 preferenze, realizzando il sogno di ogni minoranza. Ma senza il lieto fine. Anzi testimoniando quanto sia conveniente e triste sottomettersi al potere che ti ha appena incoronato. E dopo un trentennio passato a difendere i perseguitati di tutti i mondi lontani, farsi sfuggire l’unica coppia di perseguitati che proprio sotto casa Bonino avrebbe potuto difendere senza alzare un grammo di polvere, né una lacrima, né un digiuno. Ma solo facendo il suo dovere.

Corriere 17.7.13
«La Farnesina il primo giugno sapeva»
di Valeria Valeriano


«Una sorta di intrigo internazionale a Roma». È con questa definizione che il caso Shalabayeva entra nella cronaca italiana. A pubblicare la notizia per primo è il sito Oggi.it. L'articolo è firmato da Giuseppe Fumagalli e va online nel pomeriggio di sabato 1 giugno. Il giornalista ricostruisce «72 ore da film» con l'aiuto di Riccardo Olivo, avvocato romano della moglie di Mukhtar Ablyazov. Fumagalli racconta la notte tra il 28 e il 29 maggio: l'«incredibile caccia all'uomo» nella nostra Capitale e il blitz, «con cinquanta uomini della Digos», nella villa di Casal Palocco. Spiega che gli agenti non trovano il dissidente kazako, ma arrestano la donna e avviano l'estradizione. Che avviene il 31 maggio, «a tempi record». «Alle 18.30 mamma e figlia decollavano da Ciampino dirette nel loro Paese», dice il legale. E al giornalista, commosso, dichiara: «Dal punto di vista formale è probabile che tutto sia stato fatto in regola. Da un punto di vista sostanziale hanno dato una donna nelle mani del boia di suo marito». Prima della pubblicazione, nella mattinata del primo giugno, Fumagalli contatta la Farnesina per avere conferme o smentite: il ministero degli Esteri a quel punto è di sicuro a conoscenza della storia. «Attendiamo la versione delle autorità e dei magistrati chiamati in causa», chiude l'articolo. Succedeva tutto un mese e mezzo fa. Passeranno una quarantina di giorni prima che, il 12 luglio, il governo guidato da Enrico Letta intervenga revocando l'espulsione di Alma Shalabayeva. Lei e la piccola Alua, però, ormai erano già in Kazakistan.


«Colpevole ritardo. Sette settimane dopo, la ministra degli Esteri, Emma Bonino, si è finalmente decisa di convocare alla Farnesina l’ambasciatore del Kazakistan a Roma «per ricevere adeguati chiarimenti». La diretta interessata preferisce mantenere una linea di basso profilo, tanto basso da risultare assente ai banchi del Governo quando al Senato Angelino Alfano declamava la relazione stesa dal capo della Polizia...»
l’Unità 17.7.13
L’ambasciatore snobba Bonino
La Ue chiede chiarimenti
di U.D.G.


Sette settimane dopo. Dopo aver consegnato in ostaggio una donna e una bambina di sei anni ad un regime sanguinario. Sette settimane dopo aver saputo, nella notte del 31 maggio, l’identità della donna che era stata messa a forza su un’aereo fornito dalle autorità del Kazakistan: l’identità della moglie di un dissidente che aveva riconosciuto lo status di rifugiato dalla Gran Bretagna.
COLPEVOLE RITARDO
Sette settimane dopo, la ministra degli Esteri, Emma Bonino, si è finalmente decisa di convocare alla Farnesina l’ambasciatore del Kazakistan a Roma «per ricevere adeguati chiarimenti». A darne l’annuncio è un comunicato di Palazzo Chigi. La diretta interessata, profondamente colpita da questa brutta vicenda, preferisce mantenere una linea di basso profilo, tanto basso da risultare assente ai banchi del Governo quando al Senato Angelino Alfano declamava la relazione stesa dal capo della Polizia,
«Il Ministro degli Esteri, Emma Bonino, si è recata oggi (ieri, ndr) a Budapest per un colloquio con il suo omologo ungherese Janos Martonyi, dedicato ad uno scambio di vedute sui lavori del Gruppo di Riflessione sul futuro dell`Europa nella prospettiva della definizione delle priorità della Presidenza italiana nel secondo semestre del 2014»: è la spiegazione dell’assenza fornita dalla Farnesina. A Budapest Bonino sarà stata raggiunto dalla incredibile risposta dell’ambasciatore kazako all’annuncio di essere stato convocato dalla Farnesina via Palazzo Chigi: «Sono davvero stupito per questa vicenda. Apprendo ora la notizia della convocazione, sono in vacanza fuori Italia. Vedremo quando arriverà la richiesta...». Lo dice all’Adnkronos Andrian Yelemessov, ambasciatore del Kazakistan. Siamo alla farsa. Alla derisione. L’affare-Shalabayeva è ormai un fatto internazionale. A renderlo nato sono le iniziative che le più importanti organizzazioni per i diritti umani intendono assumere nei prossimi giorni. A renderlo ancora più dirompenti sono le voci, sempre più insistenti, che giungono da Bruxelles, della volontà dell’Ue di acquisire informazioni sulla vicenda e sul comportamento assunto dalle autorità italiane. Bruxelles «ha chiesto informazioni alle autorità italiane per verificare che siano state seguite le norme europee» in materia di asilo. Siamo sotto accusa. In mattinata, il vicepresidente del Parlamento europeo Gianni Pittella aveva presentato un'interrogazione alla commissione Ue sul caso: «La vicenda dell' espulsione della dissidente kazaka, Shalabayeva Ablyazov, da parte delle autorità italiane è gravissima», ha dichiarato.
Altro che rientro in Italia. Secondo una delle più accreditate ong del Kazakistan, l’International Bureau for Human Rights, Alma Shalabayeva «ha buone probabilità di finire in galera» dove «le condizioni di detenzione sono orribili» e dove «i pestaggi e le torture sono frequenti». Secondo Andrey Grishin responsabile dell’associazione che da venti anni lotta per la tutela dei diritti umani nel Paese asiatico – «è praticamente impossibile che Alma Shalabayeva possa rientrare in Italia, il Governo kazako farà di tutto per impedirlo. La donna sarà perseguitata da pesanti accuse di ogni genere, rischia di essere imprigionata e sarà utilizzata come ostaggio per far rientrare in patria il marito, il dissidente Mukhtar Ablyazov». Vergogna è fatta.

il Fatto 17.7.13
L’Ue chiede spiegazioni Bonino, altra figuraccia
Bonino convoca l’ambasciatore, lui: “Ma io sono in ferie...”
La ministra degli Esteri, con un mese in ritardo, convoca l’ambasciatore asiatico a Roma. Intanto le Ong lanciano l’allarme: “Ora Alma Shalabayeva rischia il carcere, le torture e i pestaggi del regime”
Il ministro degli Esteri si sveglia dopo un mese e sedici giorni, e si becca una rispostaccia
Bruxelles vuole sapere dall’Italia cosa è successo davvero
di Carlo Tecce


Un mese e sedici giorni di ritardo. Ora, soltanto ora, la Farnesina convoca l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov che, piccato, declina: “Sono in ferie”. L’Unione Europea si dimostra più reattiva, assicura di monitorare la situazione e di volere spiegazioni. Il viceministro Lapo Pistelli aveva annunciato con enfasi: siamo a stretto contatto con il commissario Barroso, non male l’avviso di Bruxelles.
Il diplomatico Yelemessov, che insiste con la cantilena “Ablyazov non era un dissidente, ma un truffatore”, risponde con notevole fastidio a Bonino: “Sono davvero stupito per questa vicenda. Apprendo la notizia adesso, però sono in vacanza fuori dal-l’Italia. Vedremo quando arriverà la richiesta... ”. La richiesta dovrebbe arrivare a breve, ma il ministro Emma Bonino sapeva dal 31 maggio, non in mattinata mentre Alma Shalabayeva e la figlia di 6 anni venivano imbarcate per Astana, ma in tarda serata, forse nottata. C’è un vuoto temporale, di un giorno esatto, che Bonino non ha mai colmato. Perché, racconta, di aver informato il ministro Angelino Alfano e il premier Enrico Letta durante la parata celebrativa del 2 giugno. Che la Farnesina fosse stata coinvolta, invece, l’ha sancito un documento spedito dal Cerimoniale, il pomeriggio del 29 maggio, al-l’ufficio Immigrazione del Viminale: la donna stava per essere espulsa, in fretta, e le autorità cercavano riscontri diplomatici, se avesse l’immunità o millantava.
I FUNZIONARI del ministero, allora, non hanno disturbato Bonino e le pratiche burocratiche, seppur in proporzione minore, ricordano il ruolo a sua insaputa di Alfano. La figura di Yelemessov è centrale. L’ambasciatore telefona al ministro Alfano senza esito e viene ricevuto dal prefetto Giuseppe Procaccini, che ieri si è dimesso per “tutelare lo Stato”, perché la Farnesina non ha pensato di chiamare Yemelessov per un chiarimento? Il diplomatico non ha rispettato la prassi che prevede, per qualsiasi esigenza, un confronto con il ministero degli Esteri, non con il dicastero che controlla la polizia. Bonino poteva contattare Yemelessov prima di sussurrare la notizia a Letta e Alfano e anche nei giorni scorsi quando l’ambasciatore ha “scagionato” con devozione gli italiani e già annunciava le meritate ferie. E così la Farnesina incassa la replica di Yemelessov, l’uomo che, secondo il resoconto di Alfano scritto da Pansa (capo della Polizia), ha garantito sui trascorsi malavitosi di Ablyazov: “Chiedete come questo dissidente ha guadagnato miliardi, la mia posizione non cambia. E non cambiano i rapporti strategici fra Italia e Kazakistan per la vicenda di un criminale ricercato da più Stati”. Siccome si può dubitare del parere di Yemelessov, a differenza di quel che ha dichiarato Alfano e avrebbero creduto i funzionari del Viminale, l’Unione Europea ha chiesto gentilmente di avere informazioni sul caso Ablyazov-Shalabayeva per capire se siano state rispettate le procedure internazionali. La Farnesina non fornisce ulteriori particolari e non riesce a completare la sceneggiatura di Bonino che ha tralasciato troppi giorni sul calendario e non ha rivelato chi al ministero - prima del ministro stesso - fosse stato contattato dal Viminale: chi ha agito e chi ha sbagliato. Anche la radicale ha passato qualche ora determinante a sua insaputa.

il Fatto 17.7.13
Ora parli Napolitano
di Antonio Padellaro


Ieri pomeriggio, davanti a Senato e Camera, il ministro degli Interni nonché vicepresidente del Consiglio Alfano, detto Angelino, ha comunicato e certificato quanto segue: nessuno mi ha detto niente perché io non conto nulla. Lo ha fatto leggendo con partecipazione il rapporto predisposto dal suo capo della Polizia, Pansa, probabilmente inconsapevole (condizione in qualche modo connaturata alla sua indole) che quelle pagine e quelle virgolette (che apriva e chiudeva agitando festosamente le mani) sono la corda a cui la sua dignità di uomo politico è stata impiccata. C’erano molti modi per affrontare una delle vicende più vergognose per uno Stato democratico: la consegna di una donna e dalla sua bambina nelle grinfie di un dittatore, nemico giurato del loro marito e padre. Angelino ha scelto quello più ridicolo, fin dalla prima affermazione: “La mattina del 28 maggio l’ambasciatore del Kazakistan tentava inutilmente di contattare il ministro degli Interni, cioè il sottoscritto”. Purtroppo il “sottoscritto” evita di spiegare il perché di quell’“inutilmente”. E come mai, avendo affidato l’incombenza al suo capo di gabinetto Procaccini, non abbia poi sentito il bisogno di chiedere cosa c’era di così importante. Tanto più se il diplomatico appartiene a un governo con il quale il padrone del partito del ministro, un certo Berlusconi, intrattiene calorosi rapporti di amicizia.
Lacunosa e spesso incredibile, la presunta ricostruzione dei fatti contiene un nodo scorsoio che nessuna grande intesa al mondo potrà sciogliere: la favola secondo la quale Alma Shalabayeva non avrebbe mai chiesto asilo politico prima di essere imbarcata destinazione Astana. Una menzogna, come la magistratura potrà facilmente appurare anche sulla base della testimonianza della donna che qualcuno dovrà pure ascoltare. Non sarà qualche testa tagliata a salvare Angelino, né la presa in giro di una “riorganizzazione” degli uffici. Al premier Letta, in gita premio a Londra, chiediamo di rileggere il secondo comma dell’articolo 95 della Costituzione: là dove è scritto che “i ministri sono responsabili individualmente degli atti dei loro dicasteri”. “Responsabili” significa che di fronte a un errore grave dei sottoposti è soprattutto il ministro che deve pagare. Ovvero: dimissioni inevitabili. Ma, visto che qui si fa finta di niente, è troppo chiedere al presidente Napolitano di uscire dal suo impenetrabile silenzio per dire qualcosa in proposito? Del Pd, infine, ci resta l’immagine delle facce di pietra mentre un povero senatore s’arrampicava sugli specchi per salvare con Angelino le preziose poltrone di governo. Alla fine tutti contenti hanno applaudito il loro funerale.

l’Unità 17.7.13
Alfano ministro inconsapevole
Lacunosa ricostruzione del caso Kazakistan
La Ue vuole spiegazioni
Oggi si decide sulla sfiducia che si voterà venerdì
Il Pd chiede chiarezza: «Rimuovere le ombre»
Dalla villa al Cie: tutti i buchi del rapporto
di Claudia Fusani


La sintesi: «I vertici politici del ministero dell’Interno e il governo non sono stati informati dell’operazione Ablyazov»; ugualmente «tutti gli uffici che si sono occupati di questa operazione non hanno mai saputo che Ablyazov fosse un dissidente politico e che per questo avesse lo status di rifugiato e che Alma Shalabayeva fosse la moglie e Alua la figlia»; tutto questo «è molto grave e non deve succedere mai più». I provvedimenti: «Ho accolto a malincuore, perché conosco le sue capacità, le dimissioni del mio capo di gabinetto Giuseppe Procaccini; ho chiesto l’avvicendamento del segretario del capo della polizia Alessandro Valeri e al Capo della polizia una riorganizzazione del Dipartimento dell’Immigrazione. Da questo momento in poi faremo di tutto per assicurare il ritorno in Italia di Alma e di sua figlia Alua».
In venti minuti il ministro dell’Interno Angelino Alfano, ogni tanto incespicando nelle parole, comunque con un piglio da festa di partito, imbonisce l’aula del Senato raccontando una storia piena di lacune, contraddizioni e omissioni. Al limite della provocazione del buon senso altrui. Infatti quando Alfano si rimette seduto, solo la parte destra dell’emiciclo, il Pdl, applaude, quella sinistra tace imbarazzata comprensiva di Sel e M5S. Ma quello che fa più rumore è il gelo che cala sul banco del governo dove Alfano viene applaudito solo dai sottosegretari Biancofiore e Santelli. Parlotta con D’Alia il ministro Quagliariello, guarda davanti attonita il ministro Lorenzin, scuote la testa il Guardasigilli Cancellieri. Insomma, se l’aula non crede alla ricostruzione di Alfano, anche chi siede al banco del governo, dove sono assenti il premier Letta e la titolare degli Esteri Emma Bonino, sembra crederci poco.
Ci si aspettava tutti un racconto diverso, più responsabile, almeno in alcuni passaggi imbarazzato, dove Alfano si fosse assunto la responsabilità di almeno un pezzo della storia. Come i troppi impegni, Viminale, vicepremier e anche segretario di partito, che gli hanno impedito, soprattutto all’inizio, di seguire la vita di un ministero così delicato come l’Interno.
Per l’autodifesa più difficile della sua carriera, Alfano si affida a un documento lungo una trentina di pagine che è il sapiente copia e incolla della relazione del capo della polizia Alessandro Pansa. Il ministro comincia a parlare alle 18 quando da un paio d’ore sono diventate note ed ufficiali le dimissioni del suo capo di gabinetto, il potentissimo Giuseppe Procaccini. La lettera è della sera prima. È un segno preciso, di facile lettura: è l’uomo che siede alla destra del ministro, se il repulisti comincia da lì significa che oltre, nel senso al di sopra di quella carica, non sarà toccato nessuno. Al di sotto di quella casella, tutto è possibile.
L’informativa su quello che è successo a Roma tra il 20 e il 31maggiohadue pilastri, due capisaldi, da cui discende tutto il resto. Al di là del fatto che sia credibile o meno. Il primo: «Nessuna informazione è stata data al ministro dell’Interno e ad altri membri del governo» comincia Alfano citando lunghi brani della relazione di Pansa di cui si sofferma a specificare virgolettati e citazioni. Il secondo: «In nessuna fase della vicenda, fino al momento dell'esecuzione dell'espulsione con la partenza della donna con la bambina, i funzionari italiani hanno avuto notizia alcuna sul fatto che Ablyazov fosse un dissidente politico fuggito dal Kazakistan. Era stato raccontato come un pericoloso ricercato in più paesi per reati comuni e anzi collegato al crimine organizzato e al terrorismo» continua il ministro. Non solo:
«Fino alla partenza di Alma Shalabayeva e della figlia Alma nessuno ha saputo che erano la moglie e la figlia del dissidente. Così come risulta che mai in nessuna fase la donna abbia richiesto asilo politico o abbia detto di essere intestataria di un permesso di soggiorno di area Schengen (rilasciato dalla Lettonia e che quindi le avrebbe dato il diritto di restare regolarmente in Italia fino ad ottobre 2013, ndr).
Insomma, spiega Alfano, è vero che l’ambasciatore kazako a Roma Andrian Yelemesson il giorno 28 maggio «dà il via alla cattura del latitante Ablyazov andando direttamente al Viminale, dove incontra Procaccini e Valeri, e poi in questura dove viene affidato al questore Della Rocca e al capo della squadra mobile Renato Cortese». Ma, aggiunge, «il Dipartimento della pubblica sicurezza segue solo la fase della cattura del latitante. Non si occuperà più in seguito, dell’espulsione della signora e della figlia». Nella prassi, «non esiste obbligo di segnalazione al ministro di espulsioni ordinarie di cui l’organo politico viene informato solo di tanto in tanto e in termini statistici». Ma è costretto ad ammettere il ministro leggendo in aula la relazione del Capo della polizia -, «l'attenzione di un altro Paese, così evidente e tangibile attraverso l'impegno diretto del proprio ambasciatore, e l'utilizzo di un volo non di linea per il rimpatrio delle due cittadine kazake, avrebbe dovuto rappresentare elemento di attenzione tale da far valutare l'opportunità di portare l'evento a conoscenza del ministro stesso».
Alfano fa ballare i nomi di altri dirigenti che avrebbero potuto e dovuto sapere e informare, Chiusolo, Cirillo, il questore Della Rocca. Ma soprattutto chiama in causa il dirigente dell’Ufficio Immigrazione Umberto Improta. «È lui dice che non ha informato i superiori della stranezza di quel volo privato che i kazaki hanno fatto trovare pronto sulla pista di Ciampino per riportare Alma e Alua ad Almaty». Comunque, rassicura, «tutto questo non accadrà più». Una ricostruzione zeppa di buchi e salti logici.

l’Unità 17.7.13
Caso Shalabayeva, una storia di violazioni
di Luigi Manconi


Per un crudele paradosso, la drammatica vicenda dell’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayeva e di sua figlia potrebbe sortire un qualche effetto positivo. Esile, assai esile, in mezzo a tante conseguenze nefaste, ma non inutile. Quell’espulsione, con quel metodo e in quelle condizioni, ci dice molto.
Ce lo dice con chiarezza a proposito della politica italiana in materia di immigrazione. Ogni mese, dai Cie italiani, decine e decine di individui anonimi, spesso senza avvocati e senza alcuna risorsa, né tutela o relazione, vengono espulse e riportate in Paesi da cui sono fuggiti a seguito di guerre tribali o civili, discriminazioni religiose o etniche, perché oppositori dei regimi dominanti o perché appartenenti a gruppi sociali perseguitati.
Una storia che si ripete ormai da anni, divenuta consuetudine, e della quale non si discute quasi più perché non stupisce più, perché è ideologicamente coerente con un approccio quasi esclusivamente emergenziale all’immigrazione, che finisce quindi per essere l’oggetto di un delirio securitario. Al quale, dunque, si risponde con qualunque mezzo a disposizione, compresa la riduzione al minimo di tutele e garanzie durante la procedura di espulsione, in contrasto con numerosi principi di diritto internazionale e con tutte le convenzioni sottoscritte dal nostro Paese.
La vicenda di Alma Shalabayeva, dunque, può costituire una sorta di modello negativo: e un’occasione preziosa per scavare più a fondo nella concreta gestione delle politiche per l’immigrazione da parte dei governi italiani negli ultimi anni. Se ci si pensa un po’, la fretta immotivata, la grossolana sbrigatività, la sommarietà degli atti per come si sono manifestati nell’espulsione della Shalabayeva corrispondono, né più né meno, che a un pensiero profondo che segna l’atteggiamento di molti uomini e apparati delle nostre istituzioni. Ovvero gli immigrati e i richiedenti asilo sono, come minimo, un problema e più probabilmente una minaccia. Liberarsene al più presto è, allo stesso tempo, una misura di polizia e un programma politico, peraltro condivisi da una parte del senso comune e da segmenti delle classi dirigenti. Così accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo e nei confronti di una bambina e di sua madre, tanto più se quest’ultima è la moglie di una figura indubbiamente controversa e gravata da molti sospetti, oltre che esponente dell’opposizione. E accade, ancora, che, dopo il trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, Alma Shalabayeva sia stata trasferita a Ciampino e qui, insieme alla figlia, sia stata imbarcata su un jet privato e rimpatriata.
A distanza di circa un mese da quella notte, si è appreso con una pronuncia del Tribunale del riesame che il presupposto su cui si è basata l’espulsione della donna (ovvero la falsità del passaporto diplomatico da lei posseduto) era in realtà insussistente e che, anzi, la stessa era titolare di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Lettonia (Paese dello spazio Schengen), valido fino a ottobre e dunque idoneo a escludere l’espulsione automatica della donna.
A prescindere dai chiarimenti forniti al Senato dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e dalle conseguenze che tutto ciò ha avuto e avrà sul quadro politico, resta il dubbio che l’espulsione sia stata disposta in violazione del divieto di refoulement sancito, tra l’altro, dal testo unico sull’immigrazione. E in conformità, oltretutto, a una norma imperativa di diritto internazionale, strettamente complementare al divieto di tortura ed applicabile anche in relazione alla prassi delle «diplomatic assurances». Ovvero di quelle assicurazioni diplomatiche fornite dalle autorità del Paese di destinazione, che non valgono, di per sé, a escludere l’illegittimità di espulsioni adottate secondo l’art. 3 del «decreto Pisanu» e dunque senza neppure la convalida giurisdizionale che espongano la persona al rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti, come ha stabilito la Corte europea dei diritti umani anche rispetto alle espulsioni di soggetti sospettati di terrorismo.
Questa tragica vicenda, dunque, potrebbe rappresentare l’occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli? È ammissibile un sistema fondato sull’esecuzione immediata di espulsioni impugnate, che rende le convalide giurisdizionali meramente formali, celebrate in assenza dell’interessato, reo soltanto di essere nato altrove?

l’Unità 17.7.13
Cristopher Hein, direttore del consiglio italiano per i rifugiati:
«Non si è voluto dar tempo e concreta opportunità per ricorrere contro la deportazione»
«Diritti non tutelati, l’Italia deve ancora una risposta»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«La vicenda dell’espulsione della signora Shalabayeva e di sua figlia Alua, è un fatto gravissimo, tale da richiedere che dall’indagine siano chiariti tutti gli aspetti legati alla violazione di norme interne e internazionali. È quello che abbiamo chiesto alla ministra degli esteri, Emma Bonino, in una lettera del 4 giugno. Attendiamo ancora una risposta da parte della Farnesina». A parlare è Cristopher Hein, direttore del CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati), l’organizzazione che per prima ha resa pubblica, il 4 giugno, l’espulsione della moglie e della figlia di 6 anni del dissidente kazako Muktar Ablyazov.
Qual è dal punto di osservazione del CIR, la valutazione dell’affare Shalabayeva? «Dalle informazioni in nostro possesso, le autorità italiane hanno espulso la moglie e la figlia di un rifugiato riconosciuto formalmente in un altro Stato dell’Unione europea, la Gran Bretagna. Indipendentemente dalla questione se la signora Shalabayeva aveva o ha potuto effettivamente chiedere protezione in Italia, comunque il vincolo familiare fornisce una protezione che rende il rimpatrio illegale. È da sottolineare anche che Alma Shalabayeva aveva un permesso di soggiorno valido in Gran Bretagna e quindi, casomai, le autorità italiane avrebbero dovuto espellerla in quel Paese e non certo in Kazakistan. Inoltre, le autorità italiane erano al corrente che non si trattava di una persona sconosciuta in Kazakistan e quindi, a maggior ragione, avrebbero
dovuto valutare tutte le possibili conseguenze per la signora e sua figlia della loro consegna nelle mani delle autorità kazake...».
C’è altro ?
«Dal primo momento, conoscendo, come CIR, le normali procedure di allontanamento di un cittadino straniero in situazione irregolare di soggiorno, siamo rimastti estremamente sorpresi della velocità dell’operazione che di per sé non dava opportunità per presentare ricorsi».
Qual è dunque la conseguenza di questa «strana» velocità di esecuzione dell’atto di espulsione?
«Accelerando l’espulsione forzata, le autorità responsabili erano consapevoli che l’azione era, a dir poco, ai limiti della legalità. Dobbiamo dedurre che non si è voluto dar tempo e concreta opportunità per ricorrere contro la deportazione. Da tutto questo nascono domande che attendono ancora risposte».
Quali domande?
«Alcune: Perché la Shalabayeva non è stata espulsa verso il Regno Unito dove aveva un titolo di soggiorno valido, in
conformità con la normativa dell’Unione Europea? Le autorità italiane prima dell’esecuzione dell’espulsione hanno valutato, così come previsto dai principi della Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, la possibilità che la consegna della Shalabayeva, e di sua figlia, alle autorità kazake le potesse esporre a persecuzioni e trattamenti inumani? Alla Shalabayeva è stata concessa l’effettiva possibilità di richiedere protezione all’Italia, al momento dell’arresto, durante il trattenimento presso il CIE di Ponte Galeria, o comunque prima della deportazione; in conformità con la normativa dell’Ue e nazionale? Perché le autorità italiane non si sono occupate della vicenda durante i 38 giorni tra l’allarme pubblicamente dato dal CIR il 4 giugno e la revoca del provvedimento di espulsione il 12 luglio? Il CIR spera ci siano delle risposte convincenti a queste domande, per scongiurare il forte sospetto che nell’eseguire il provvedimento di espulsione l’Italia abbia violato il divieto di respingimento ed espulsione sancito dall’articolo 19 del Testo Unico Immigrazione 286/98 secondo cui “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”, e abbia violato anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che prevede che nessuno possa essere respinto o espulso verso un Paese in cui rischia di essere sottoposto a tortura e trattamenti disumani o degradanti».
Cos’altro vi aspettate come CIR dal Governo?
«La decisione presa il 12 luglio dal presidente del Consiglio di revocare l’espulsione e permettere alla Shalabayeva e a sua figlia di ritornare in Italia, è certamente un passo importante per riparare il danno, ma anche per prevenire che tali azioni si possano verificare di nuovo. Ma l’effettivo ritorno in Italia dipende dal consenso da parte delle autorità kazake. Ci aspettiamo quindi che i canali diplomatici siano pienamente attivati per rendere possibile e al più presto il ritorno in Italia della Shalabayeva e di sua figlia».

il Fatto 17.10.13
L’espulsione segreta finirà nel nulla?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, è possibile che la storia della incredibile e illegale espulsione della signora Ablyazov e bambina dall’Italia finisce nel nulla, come ogni reato di governo in Italia?
Filippo

È POSSIBILE , ma, per una volta, non è probabile. È evidente che le reponsabilità sono politiche. Sappiamo tutti che la burocrazia ha mote caratteristiche ma non il coraggio salvo i casi individuali di corruzione. Qui si tratta di un intervento collettivo e di forza che coinvolge decine di uomini e almeno tre livelli di comando che non possono avere escluso il vertice. Da quando il vertice di una forza di polizia si assume responsabilità politiche? Come è noto, neppure nelle dittature o nei colpi di Stato. Qui la responsabilità politica è grande perché è del tutto impossibile che funzionari addetti al passaggio di certi visitatori stranieri in Italia e servizi delle varie specialità, potessero essere all’oscuro di identità e status delle persone prelevate. Si sa, per esempio, che, nella casa romana e durante l’arresto della donna e della bambina, un parente è stato duramente colpito dai poliziotti, “mazzolato”, dice un legale della famiglia. L’evento è strano. Non abbiamo notizie del genere neppure dalle celebrate retate di mafia. E ricordiamo ancora che, per ogni arresto di mafia, anche di seconda grandezza, il leghista Maroni, quando era ministro dell’Interno, si attribuiva il merito appena la notizia faceva il giro dei media. Maroni non c’entrava niente con gli arresti di mafia, decisi dai giudici dopo lunga e rischiosa preparazione della polizia. Ma lo sapeva un momento prima, e per questo faceva in tempo ad attribuirsi il merito del-l’operazione. Dunque è escluso che Alfano non lo abbia saputo. E vorrei dubitare della totale estraneità della Farnesina. Quando mi sono occupato, insieme a Mario Segni, della deportazione inspiegata di una bambina bielorussa, nessuno alla Farnesina ha preteso di essere estraneo a quella deportazione (eseguita con modalità identiche a quelle della famiglia del Kazakistan, e, allo stesso modo, in obbedienza alla imposizione governo straniero). Ci hanno chiesto di pazientare, non sono intervenuti in alcun modo, ma non hanno mai negato il coinvolgimento del Ministero degli Esteri, e nessuno ci ha detto di rivolgerci al ministro dell’Interno o alla Polizia. Su questo punto c’è un vuoto da colmare. E anche il che fare è più che mai nelle mani del Ministro degli Esteri, perché si tratta di una ferita grave. Ma il ministro degli Esteri, a differenza di quasi tutti i suoi colleghi nel gabinetto a due teste, ha fama di non arrendersi, specialmente quando si tratta di diritti umani. Dunque accadrà qualcosa, visto che è inimmaginabile l’abbandono di ostaggi consegnati da mani italiane a un despota di chiara e cattiva fama.

Repubblica 17.7.13
La rabbia di funzionari e alti dirigenti: non siamo noi poliziotti ad essere amici del dittatore di Astana
“Sacrificano i nostri per salvare la politica” il Dipartimento nel caos per il repulisti
di Fabio Tonacci


ROMA — «Ci hanno scaricato. Hanno sacrificato uno dei nostri per salvare la politica », dicevano ieri alcuni funzionari nei corridoi del Dipartimento di pubblica sicurezza, dopo aver sentito il ministro Alfano chiedere l’avvicendamento del loro capo della segreteria, il prefetto Alessandro Valeri, e la riorganizzazione complessiva dell’apparato. Due richieste che vanno nella stessa direzione, ormai chiara a tutti al Viminale e da tutti temuta: far piazza pulita della vecchia guardia, sostituire gli uomini messi nei ruoli chiave negli ultimi dieci anni dai precedenti capi De Gennaro e Manganelli. Valeri è il primo a saltare. «Con la scusa dell’esito disastroso del caso Ablyazov, faranno fuori altri dirigenti. Come se fossimo noi poliziotti a essere amici del dittatore kazako, come se avessimo deciso noi il blitz a Casal Palocco».
Per la prima volta da quando Angelino Alfano guida il Viminale, il Dipartimento di pubblica sicurezza, cioè il cuore e il braccio operativo del ministero, si sente lontano dal vertice, dalla testa. Vittima sacrificale di un errore di valutazione che è stato prima di tutto politico. «Se un ordine arriva dal capo di gabinetto del ministro — ragionano i funzionari — è come se ti arrivasse da Alfano in persona. È ovvio che chi ha ricevuto la telefonata di Procaccini, e cioè Valeri, abbia preso lacosa con la massima serietà e si sia attivato immediatamente. Cosa avrebbe dovuto fare?».
Lo sconcerto e la tensione che si respira nella Questura di Roma e nella direzione centrale della Polizia criminale, coinvolte nella catena di comando che si è attivata per l’operazione Ablyazov, nascono da qui. Dalla consapevolezza di aver soltanto eseguito un ordine. Che arrivava dall’alto, dal braccio destro di quel ministro che oggi rivendica la regolarità del blitz e delle procedure seguite per l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia. E che però, al contempo, chiede “la testa” di Valeri (sarebbe andato comunque in pensione dal primo ottobre per ilcompimento dei 65 anni). E dà mandato al capo della Polizia Alessandro Pansa di riorganizzare tutto il Dipartimento partendo proprio dalla direzione centrale per l’Immigrazione, in attesa da maggio di un nuovo capo dopo il pensionamento del prefetto Rodolfo Ronconi. Eloquente anche la dichiarazione rilasciata in tarda serata dall’ex titolare dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma, Maurizio Improta, che ha gestito l’espulsione della moglie del dissidente kazako: «Ho fatto il mio lavoro, come ogni giorno, da sette anni. Per onestà intellettuale ed educazione familiare sono abituato a dire sempre la verità e a non nascondermi dalle mie responsabilità». Da ottobreparteciperà al corso di alta formazione per diventare dirigente, come era già stato deciso un mese e mezzo fa.
«Un’incongruenza evidente — sostiene Giuseppe Tiani, segretario generale del Siap — non possiamo accettare che il conflitto politico sotto traccia porti alla ricerca di capri espiatori». Non solo. «Da tre mesi i sindacati di polizia chiedono un incontro con Alfano — dice Tiani — e a differenza dei suoi predecessori, non ci ha ancora ricevuto». Anche questo alimenta il malumore interno al Viminale. Perché i tre incarichi, ministro dell’Interno, vicepresidente del consiglio e segretario politico del Pdl, ad alcuni sembranotroppi. «Procaccini è stato considerato responsabile della mancata comunicazione dell’esito dell’incontro con l’ambasciatore kazako — ragiona un alto funzionario del Dipartimento — però nemmeno Alfano si è preoccupato di chiedergli spiegazioni. Può capitare quando un ministro ha troppi impegni da seguire».

Corriere 17.7.13
Restano le ombre E un Pd nervoso complica le cose
di Massimo Franco


Le ombre rimangono, ma solo venerdì si capirà fino a che punto peseranno politicamente. La relazione al Senato del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha escluso che i vertici del governo fossero stati informati dell’espatrio forzato e al limite della legalità della kazaka Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni. E questo in teoria dovrebbe ridurre i contraccolpi di un pasticcio giuridico-diplomatico che ha già provocato le dimissioni del braccio destro ministeriale di Alfano: anche perché la figura del dissidente Ablyazov, ritenuto un nemico del regime di Nazarbaev, appare piuttosto controversa. Dopodomani sarà discussa la mozione di sfiducia presentata contro il vicepremier dal Movimento 5 Stelle e dal Sel di Nichi Vendola. Ma, a meno di novità destabilizzanti, Pd, Pdl e Scelta civica, le tre forze della maggioranza anomala di Enrico Letta, dovrebbero respingere anche questa offensiva.
Forse, però, occorrerà un supplemento di impegno e di presenza. Si dà per scontata la presenza in Aula del presidente del Consiglio, Enrico Letta, e del ministro degli Esteri, Emma Bonino. Ieri erano assenti entrambi: il premier per una visita-lampo a Londra. E i loro scranni vuoti hanno accentuato la sensazione di solitudine anche fisica di Alfano. È come se il caso procedesse al rallentatore, e a carte coperte; e dunque potesse riservare ancora qualche sorpresa, probabilmente brutta. Alcuni ministri, è vero, si sono già espressi a favore di Alfano. «Onestamente, sono convinta che non sapesse. Per una normale espulsione non si informa il ministro, altrimenti dovrebbero informarlo centinaia di volte», ha spiegato il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Ma le prossime ore potrebbero rivelare insidie al momento imprevedibili.
L’incognita si annida soprattutto all’interno della coalizione governativa: in particolare in un Pd in piena nevrosi precongressuale. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, continua a bersagliare quotidianamente Palazzo Chigi per strappare al partito il congresso e l’investitura a segretario e a candidato premier. È stato lui, ieri, a dire che a parlare del pasticcio kazako in Parlamento deve essere Letta in prima persona. L’ha fatto perché sa quanti malumori il caso sta provocando nella sinistra.
Vuole intercettarli e usarli nella sua trattativa personale col segretario Guglielmo Epifani, che temporeggia con difficoltà crescente. Ma stavolta la presa di posizione del sindaco riflette anche i dubbi degli alleati di Letta che non vogliono una crisi; e che temono per la sorte politica di Alfano senza un appoggio esplicito del capo del governo. Il titolare del Viminale si è limitato a leggere in Aula il rapporto sulla vicenda preparato dal capo della Polizia, Alessandro Pansa: una ricostruzione che, se confermata, esclude responsabilità dirette ma è stata ritenuta debole dal punto di vista politico. M5S e Sel insistono per le sue dimissioni, con una miscela di scetticismo ma anche di speranza che emergano i contrasti fra i Democratici. E la Lega è un po’ più cauta solo perché Roberto Maroni e i governatori leghisti di Piemonte e Veneto sanno di non poter tirare la corda in quanto alleati del Pdl.
Tra l’altro, sono reduci dalla figuraccia indecente degli insulti razzisti scagliati dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, contro il ministro per l’Integrazione, Cécile Kyenge. Quel brutto episodio con l’aggiunta dell’espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Ablyazov, hanno portato altra pubblicità negativa non solo al governo ma all’Italia. Come era prevedibile, a livello internazionale si è mossa l’Unione Europea. E ha chiesto informazioni alle autorità italiane su quanto è avvenuto. Le istituzioni di Bruxelles sono intenzionate a «verificare che siano state seguite le norme europee» in materia di asilo. Letta, che accusa Maroni per le mancate dimissioni di Calderoli, sa che ci sono «anomalie» nel caso kazako, tuttora da chiarire. Sarà inevitabile arrivare a una verità condivisa almeno dalla maggioranza, per evitarne una caduta rovinosa per l’Italia.

Repubblica 17.7.13
L’odore marcio del compromesso
di Barbara Spinelli


SIAMO talmente abituati a considerare l’Italia un paese diverso, più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie, che nella diversità ci siamo installati, e non chiediamo più il perché ma solo il come. Il perché conta invece, è la domanda essenziale se vogliamo capire chi siamo: non una nazione che fa delle leggi le proprie mura di cinta ma un paese immerso nell’anomia, nell’assenza di leggi scritte o non scritte.
Di conseguenza, un paese a disposizione. Gli storici forse, o gli antropologi, potrebbero rispondere. Perché siamo una terra dove ben due volte, nell’ultimo decennio, sono stati sequestrati cittadini stranieri con regolari passaporti e deportati con spettacolare violenza nei paesi da cui erano fuggiti per scampare alle torture o alla morte. Il 17 febbraio 2003 fu il caso dell’imam di Milano, Abu Omar; oggi è toccato a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov (anche ricercato per frode), e alla figlia di 6 anni Alua: in ambedue le occasioni lo Stato si è inchinato a mafiosi diktat di potenze straniere, sperando che l’affare non venisse mai a galla.
Perché siamo sempre in stato di emergenza, di necessità, sempre in mano a governanti che hanno l’impudenza di dire che non sanno quel che fanno, che sono stati aggirati da poteri interni o esterni incontrollati. Perché la fine della guerra fredda non ci ha resi più liberi di fare un’altra politica ma ci ha ancora più seppelliti nella necessità, imbarbarendoci al punto che un vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, può paragonare il ministro di colore Cécile Kyenge a un orango, senza subito decadere dalla carica che ricopre. Anche questo è anomia: tutto è permesso ai potenti, quando non hanno nulla da temere.
Siamo abituati a ingoiare ogni misfatto e a ridacchiare di noi stessi: dei politici che ignorano le proprie azioni, di Calderoli che fa la sua «simpatica battuta», del poliziotto che grida alla Shalabayeva battute analoghe («puttana russa»). L’aggettivo simpatico dilaga nel nostro parlare: Thomas Mann se ne accorse e inorridì, descrivendo l’alba del fascismo nella novella Mario e il Mago. Anche il sequestro di Alma e Alua è orrido. C’è qualcosa di radicalmente marcio in Italia, se davvero crediamo che un’operazione così vasta (40 uomini della pubblica sicurezza mobilitati per l’assalto) sia nata nelle menti di una polizia del tutto sconnessa dal potere politico.
Nella sua inchiesta sulla deportazione di Alma e Alua, Carlo Bonini ricostruisce su Repubblica una storia torbida, che comincia al ministero dell’Interno con un vertice segreto, la mattina del blitz, tra l’ambasciatore kazako Yelemessov, il suo primo consigliere, e il capogabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini. Qui si concorda l’enorme operazione, e la sua natura violenta. Chi legge l’inchiesta non potrà sottrarsi a sgradevoli reminiscenze: in quelle stesse stanze del Viminale Borsellino, convocato d’urgenza mentre interrogava il pentito Gaspare Mutolo sui patti Stato-mafia, sentì quel che a suo parere aveva precipitato l’assassinio di Falcone, e che 18 giorni dopo avrebbe ucciso anche lui: il «puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».L’assenza tragica del «fresco profumo della libertà». In quelle stanze non trovò solo il nuovo ministro Mancino. Trovò Contrada, uomo dei Servizi di cui subito intuì la mafiosità.
Quel puzzo di compromesso morale permane. Non abbiamo magari tutte le prove ma lo sappiamo: la democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri. Il dispositivo intrappola perfino ministri onesti come Emma Bonino, che seppe subito dell’avvenuto sequestro e forse tentò rimedi: ma troppo tardi, troppo in segreto. Ancora una volta Berlusconi è coinvolto, non direttamente come nel caso Abu Omar ma tramite Alfano.
In uno Stato-piattaforma è ineluttabile il patteggiare sotterraneo con poteri esterni o occulti. La democrazia degenera in finzione, i ministri scaricano le colpe sulla polizia, o i Servizi, o i capigabinetto. «Non sapevamo », ripetono: in italiano si chiama omertà.
Invece di Alfano s’è dimesso il capogabinetto Procaccini: in stato di necessità i governi non hanno da cadere. Resta che non basta un gesto, per emendare la democrazia a bassa intensità che siamo diventati. Per riattivare gli anticorpi che ci sveleniscano, e che pure esistono: la Costituzione, i magistrati, i parlamentari liberi, l’informazione indipendente. Non a caso la destra berlusconiana si scatena da anni contro di loro. Li accusa di eversione: non della democrazia, ma dello Stato-dispositivo che domina i cittadini e li depotenzia.
Per questo sono state così importanti, nel 2010, le rivelazioni di Wikileaks sulla deportazione di Abu Omar in Egitto, dove poi fu torturato e spezzato. Grazie a loro fu scoperchiata la completa identità di vedute fraBerlusconi e il governo Usa, sull’indipendenza dei giudici italiani. In un cablogramma confidenziale del 2005, gli americani si lamentano dei nostri magistrati. «Sono ferocemente indipendenti. Non rispondono ad alcuna autorità governativa, neanche al ministro della Giustizia. È quasi impossibile dissuaderli dall’agire come vogliono»: cioè dal chiedere l’estradizione degli agenti Cia implicati del sequestro dell’imam.
Sotto accusa a quei tempi era Armando Spataro, il procuratore che chiese e infine ottenne la condanna in terzo grado dell’ex direttore del Sismi Pollari e del suo numero due, Marco Mancini. Ma non poté processare gli agenti americani. Il segreto di Stato fu difeso da Berlusconi come dal governo Prodi, l’estradizione venne bloccata. Fu con Enrico Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che l’ambasciatore Usa Ronald Spogli provò a negoziare l’impunità della Cia.
Letta non gli rispose a muso duro, come avrebbe dovuto. Già allora amava rinviare, sopire: mandò Spogli dal ministro della Giustizia Mastella, che solerte obbedì al potente alleato. Lo stesso avviene oggi. Il Kazakistan è uno Stato torturatore ma ricco di petrolio. Il suo Presidente Nazarbayev gode dell’amicizia di Berlusconi.
Fin dalla guerra fredda il potere politico a Roma ha questa malleabilità, questa inconsistenza. È uno Stato- non Stato, simile alla Grecia pur avendo avuto una Resistenza che non fu estromessa su pressione americana come a Atene (in una guerra civile di tre anni, dal ‘46 al ’49) ma che pesò, dando vita al Comitato di liberazione nazionale e poi alla Costituzione. Ciononostante siamo andati somigliando a quel che la Grecia fu per decenni: una piattaforma militare, uno Stato in cui i cittadini non credono. Non abbiamo avuto i colonnelli, abbiamo gli anticorpi, ma il miasma fiutato da Borsellino resta. I ministri della Repubblica non sanno la verità che ammettono, quando dicono che i misfatti avvengono «a loro insaputa». Ammettono che i governanti sono marionette, che le elezioni sono inutili: altri decidono chi siamo.
Ritrovare il fresco profumo della libertà è compito nostro e dell’Europa, se non vuole essere anche lei un dispositivo. Urgente è mettere in comune i debiti, ma anche la democrazia, le leggi. Manca l’unione bancaria, ma anche una vincolante Costituzione comune: che bandisca le deportazioni di chi trova asilo in terra europea; che dia la cittadinanza agli immigrati nati nell’Unione, perché la «mondializzazione dell’indifferenza » è inevitabile se il diritto del suolo non sostituirà quello del sangue. Una comune legge, infine, dovrebbe vietare ai rappresentanti delle nazioni parole come quelle dette da Calderoli. La politica estera, l’integrazione degli immigrati, il diritto d’asilo non sono a disposizione. Né di signori esterni, né di signori interni che non temono sanzione alcuna, quando imbarbariscono.

Repubblica 17.7.13
Il Quirinale sceglie la prudenza: non si può indebolire il governo
La paura per il voto di venerdì sulla mozione di sfiducia
di Goffredo De Marchis


ROMA — Il silenzio del Quirinale sull’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia verrà rotto domani. Giorgio Napolitano risponderà alle domande dei giornalisti durante la cerimonia del Ventaglio che celebra ogni anno i saluti estivi tra le istituzioni e la stampa. Ma non ci sono dubbi sulla sua posizione: il presidente della Repubblica proteggerà ancora una volta il governo Letta e i suoi ministri offrendo il credito della massima autorità dello Stato alla ricostruzione del capo della Polizia Alessandro Pansa e del ministro dell’Interno Angelino Alfano. «L’inchiesta amministrativa — dicono al Colle — rispetta i criteri della trasparenza. Il resto appartiene alla sfera della polemica contro le larghe intese».
Napolitano quindi distingue i due piani. La storia, o meglio la storiaccia, del rimpatrio coatto di due donne in un Paese dove i diritti umani non sono rispettati e l’offensiva contro l’esecutivo. Il “suo” esecutivo, quello per il quale ha accettato la conferma al Quirinale e per il quale ha speso tutta la sua autorevolezza. L’appuntamento di domani diventa perciò particolarmente delicato. I suoi collaboratori giuravano addirittura che il capo dello Stato avrebbe letto solo stamattina il documento firmato da Pansa. Ieri pomeriggio era troppo impegnato a preparare il discorso per i giornalisti. Un discorso
non facile perché la Grande coalizione è sottoposta a molte prove, dentro la maggioranza e fuori. Ma Napolitano resta convinto che sia la strada giusta per l’Italia in questo momento. E che Letta deve guardare al futuro con un orizzonte vasto almeno 18 mesi. «Non va indebolito ».
Naturalmente, la mancata lettura della relazione di Pansa rappresenta la versione ufficiale del Quirinale. In realtà, ieri mattina si è attivato il canale diretto tra il premier e il capo dello Stato per decidere come diffondere il documento e come Alfano avrebbe dovuto comportarsi in Parlamento. «Cerchiamo di essere trasparenti al massimo, rimettiamoci alla versione del capo della Polizia. È il modo più prudente di affrontare la questione. Senza aggiungere commenti », si è raccomandato Napolitano. Così è stato. Letta ha girato il messaggio del Colle al ministro dell’Interno. Che infatti alla Camera e al Senato ha letto quasi integralmente la relazione.
Semmai qualche dubbio è affiorato, nei contatti tra Palazzo Chigi e il Colle, per il “triplo incarico” di Alfano: segretario del Pdl, vicepremier e titolare del Viminale. A volte troppo impegnato a dirimere la battaglie tra “falchi” e “colombe”, tra Santanchè e Cicchitto e a fare da scudo all’esecutivo per seguire di persona tutti i dossier dell’Interno. Ma la linea l’ha dettata Napolitano:lavorare per sottrazione, non aggiungere aggettivi o battute, prudenza. Un consiglio che anche Letta ha voluto seguire alla lettera. Ha affidato la posizione di Palazzo Chigi a una nota scritta, è volato a Londra e lì ha evitato le domande sul caso Shalabayeva rilanciando invece la polemica sulle frasi di Calderoli contro il ministro Kyenge. È una strategia che è servita nell’immediato, permettendo ad Alfano di uscire indenne almeno dalla giornata di ieri. Ma guarda a venerdì quando al Senato e alla Camera verrà discussa la mozione di sfiducia individuale per il ministro dell’Interno presentata da Sel e 5stelle. Il problema è il Partito democratico, la suatenuta, le sue difficoltà di fronte a un intrigo che continua ad avere contorni oscuri. L’attacco di Matteo Renzi («è Letta che deve chiarire, non Alfano») lascia presagire possibili strappi. I capigruppo Roberto Speranza e Luigi Zanda sono impegnati a evitare che voti del Pd convergano sulla mozione delle opposizioni. Ma nessuno oggi può escludere altre iniziative contro Alfano da parte dei democratici. Ecco perché la “protezione” di Napolitano, con l’uscita pubblica di domani, è destinata incidere sulla vita del governo. Poi, il 30 luglio tocca alla Cassazione con la sentenza Mediaset. Ma quella è un’altra storia.

il Fatto 17.7.13
Miliardi in gioco
Roma e Astana sono sempre più vicine: parte la mega-stazione petrolifera
di Chiara Paolin


Nel periodo gennaio-maggio 2013, mentre l’Italia annaspava tra disoccupazione record e un ennesimo ribasso delle previsioni di crescita, il Kazakistan incassava un Pil positivo al 5 per cento, l’ok all’Unione economica eurasiatica da realizzarsi entro il 2015 (con Russia e Bielorussia) e l’ingresso ormai certo nel Wto, il gotha del commercio mondiale.
Ad Astana soldi e affari continuano a lievitare attirando le spompate economie occidentali. L’Italia è in prima fila, con appalti che beneficiano grandi e piccoli, industria e artigianato, interessi colossali e ambizioni provinciali. Basta scorrere gli annunci più recenti della Camera di Commercio italo-kazaka per comporre un vivace mosaico: il Gruppo Cremonini di Modena, già fornitore di tutti i McDonald’s russi, ha deciso di entrare nel mercato locale delle carni mentre la Eusebi Impianti di Ancona ha ottenuto una commessa da dodici milioni di dollari per occuparsi di sicurezza.
MA C'È SPAZIO ANCHE PER L'ARTE, la bellezza, l’amicizia. Tenendo fede alle sue promesse, il governo di Astana ha restaurato l’Oratorio di San Giuseppe, lesionato dal terremoto all’Aquila; ha aperto la braccia alla spedizione archeologica del Centro Ligabue di Venezia per indagare sulle tombe degli Sciti; ha fatto passerella al Maremetraggio 2013 di Trieste, rassegna cinematografica con ben quattro pellicole in arrivo dal Kazakistan consegnate direttamente dall’ambasciatore Adrian Yelemessov, quello che si complimentava via fax con le autorità italiane per aver arrestato la Shalabayeva. Lo scorso 4 luglio, invece di spiegare cosa fosse successo ad Alma e Alua, Yelemessov stringeva la mano al felicissimo sindaco triestino Roberto Cosolini, godendosi momenti speciali organizzati solo per lui, come la partita tra le Nazionali di basket Under 20 Italia-Kazakistan, e poi l’omaggio allo strabiliante Monumento ai caduti del Kazakistan, “l’unico del genere esistente in Italia” come segnala lo stesso ambasciatore.
Certo le cose serie sono altre. Cioè i cinque miliardi di euro all’anno di interscambio, con l’Italia secondo partner commerciale di Astana, con i nomi grossi che ormai sono di casa laggiù (Salini-Todini, Impregilo, Italcementi, Renco, Unicredit) e soprattutto l’affare dell’Eni a Kashgan, la mega stazione petrolifera finalmente in partenza dopo anni di preparazione e diplomazia. Un business che vale 150 miliardi di euro, 370mila barili di greggio al giorno dove l’Italia sta alla pari con i grandissimi del settore: Eni detiene una quota nel consorzio del 16,81 per cento come Kmg, ExxonMobil, Shell e Total (ConocoPhillips ha l’8,40 per cento e Inpex il 7,56 per cento).
UN VERO SALTO DI QUALITÀ, per noi. Una fase d’investimento che soffre sotto i riflettori scottanti del caso Ablyazov. Ma il viceministro degli Esteri, Lapo Pistelli, è tranquillissimo: “Non è il caso di fantasticare sulla diplomazia economica e commerciale che prevale sulla politica, e nemmeno sul ruolo di questo o quel leader nei rapporti con Astana” ha detto ieri in audizione alla Camera. Aggiungendo, ancor più esplicito: “Nessuno può sostenere che il tipo di interscambio che abbiamo con questo interessantissimo paese sia ciò che determina la linea politica del governo. Sono argomenti incongrui”.

il Fatto 17.7.13
La politica estera, comica italiana
di Giampiero Gramaglia


La politica estera, non solo quella italiana, segue sovente percorsi tortuosi. Tutto sta, però, a sapere dove si vuole arrivare. Prendete una notizia di ieri, apparentemente anodina: il ministro degli Esteri Emma Bonino va a Budapest, nella capitale dello Stato meno presentabile dell’Ue, il cui governo ha scarso rispetto per i principi democratici fondamentali, e vede il collega ungherese Janos Martonyi, “nella prospettiva – recita un comunicato della Farnesina – di definire le priorità” della presidenza di turno italiana del Consiglio dei Ministri Ue nel secondo semestre 2014.
Uno pensa: “Ma c’era proprio tanta fretta di andare a sentire gli ungheresi, mentre a Roma la casa brucia? ”. Poi, andando avanti nel comunicato, si scopre che lì a Budapest c’era pure il ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid, ospite della Conferenza degli Ambasciatori ungheresi. E, lì, la Bonino l’ha incontrato: evocando “il rinnovato clima di cooperazione” fra Roma e New Delhi sulla vicenda dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ribadendo “il forte auspicio di una rapida conclusione delle indagini e del processo”, sottolineando “la volontà di continuare a perseguire l’obiettivo del rientro in Italia in tempi rapidi dei due militari”. Insomma, dai kazaki siamo certi che Alma Shalabayeva e sua figlia non le avremo mai indietro. Ma Latorre e Girone ci speriamo e ci proviamo, perché – non sai mai che tornino – la festa per loro attenuerebbe le polemiche per la moglie e la figlia del dissidente espulse.
Alla politica estera italiana, in realtà, non mancano le idee chiare sulle linee guida: una volta, dicevi atlantismo ed europeismo ed avevi detto (quasi) tutto, perché un po’ di attenzione al Medio Oriente, se non altro per la vicinanza, l’abbiamo sempre avuta. Adesso la Bonino declina così i suoi tre filoni principali: Diplomazia della Crescita, Europa e crisi del Mediterraneo; e, più o meno, ci siamo. Il problema non sono le pentole, semmai i coperchi: quando si tratta di calare principi e linee guida nei singoli episodi, inanelliamo incidenti di percorso, particolarismo invece di visione generale, episodicità invece di costanza, quantità invece di qualità, i difetti italici li ritroviamo tutti nella nostra politica estera.
Non c’è neppure bisogno di andare indietro nel tempo, alle scelte sciagurate del sodalizio B & B, Bush e Berlusconi, negli anni più bui della guerra al terrorismo. Gli incidenti di percorso si vanno infittendo: Cesare Battisti, con il governo brasiliano dell’amico Lula che si fa beffe della richiesta di estradizione di un terrorista pluri-condannato in via definitiva per concorso in omicidio; i marò, ‘me li tengo, te li do’, mi rimangio la parola e me la rimangio di nuovo, sullo sfondo dei rapporti con l’India inquinati da affari non esemplari dell’industria delle armi nostrana; il caso Snowden, con lo spazio aereo italiano chiuso, come quello francese ed altri europei, al presidente boliviano Evo Morales perché gli Usa sospettavano che sul suo velivolo ci fosse la ‘talpa del Datagate’ - e non era vero -; infine, la macchia peggiore, la consegna kazhaka, che trasuda timore di dispiacere a un despota post-sovietico, Nazarbayev, e la disponibilità a barattare diritti del-l’uomo con petrolio. Di pari passo, gli amici impresentabili: il Cavaliere li collezionava con cura, Putin il russo, Lukashenko il bielorusso, lo stesso Nazarbayev. Il contagio arriva al governo delle larghe intese: Letta strizza l’occhio ad Aliyev l’azero, dopo la scelta del gasdotto Tap. E capita pure che, a trattare con gli impresentabili, si mandino faccendieri ancor più impresentabili, come Lavitola, plenipotenziario di Mr B a Panama e altrove.
Infine, c’è il problema del personale politico, che agli Esteri non è sempre stato di prim’ordine. Dall’interim di Berlusconi, di cui resta la foto mentre fa le corna ai colleghi dell’Ue, a Frattini, che cablo Usa impietosamente diffusi da Wikileaks definivano “fattorino”, all’ambasciatore promosso ministro al merito tecnico Giulio Terzi di Sant’Agata che, della grande tradizione diplomatica italiana aveva solo il nome nobile.
Certo, non ci aiuta, a noi che Grande Potenza non siamo mai stati, neppure con la Terza Sponda e dieci milioni di baionette, l’assenza di una politica estera e di sicurezza europea, dentro la quale potremmo talora mimetizzarci. Dal 2008 pure la parvenza di politica estera europea s’è volatizzata: con la crisi, l’Ue pensa solo al proprio ombelico; e nessuno sa essere irrilevante come Lady Ashton.

il Fatto 17.7.13
È vero, basta con la dietrologia. Quel che si vede è già abbastanza
di Alessandro Robecchi


A un certo punto, nel Paese, c’è sempre qualche tizio che si alza e tuona: “Basta con la dietrologia! ”. Ecco, è il momento di dirlo chiaro e forte: quel tizio ha ragione. Basta con la dietrologia. Qui la davantologia basta e avanza, non c’è bisogno di oscure teorie, trame complicate, ghirigori, intrecci, doppi e tripli giochi, significati reconditi e complottismo selvaggio. Prendi il ministro dell’Interno. Il suo più grande successo nei tre mesi di governo è stato il ritrovamento della bicicletta che gli avevano rubato sul molo di Agrigento, un successo delle forze dell’ordine sospeso tra il vecchio neorealismo (ladri di biciclette) e il nuovo surrealismo (il ministro in persona che guarda le immagini delle telecamere di sicurezza per recuperare la sua bici). Poi, forse provato dal successo, il nostro eroico ispettore Clouseau si è placato, almeno fino al clamore del caso kazako. Ora, per salvare Angelino dalla sua ignavia e conservargli le sedie di vicepremier e ministro dell’Interno, si procede a una fitta tosatura di teste, accompagnata dall’urlo belluino: “Chi ha sbagliato deve pagare! ”. Detto da lui, fa un certo effetto.
Non serve alcuna dietrologia nemmeno per il triste caso di Emma Bonino, che non sapeva, non era a conoscenza, non dipende da lei eccetera, eccetera. Emerge dalle cronache che intorno alla villa dei kazaki c’era una specie di Onu: agenti segreti, spie, ex caramba assoldati dagli israeliani, quaranta poliziotti in assetto antisommossa di cui Angelino non sapeva. Insomma, mancavano solo i pellerossa, due difensori della Lazio e il batterista dei Nomadi e poi c’erano tutti. Il ministro degli Esteri non solo scende serenamente dal pero, ma dice anche che lei resta ministro. Perché? Perché da ministro potrà aiutare meglio madre e figlia rapite mentre lei era ministro. Andiamo, gente, con una simile davantologia, chi ha bisogno di dietrologie?
EPPURE c’è sempre qualcuno che insiste, che cerca il complotto, che sa guardare “dietro”. Quando si scatena il putiferio per la volgarità razzista di Calderoli nei confronti di un ministro in carica, una delle tesi difensive è: “Si fa tanto clamore per distogliere l’attenzione dall’affare kazako”. Ben pensata, eh! Ma siccome c’è sempre una dietrologia della dietrologia, per qualcuno anche l’affare kazako sarebbe una specie di complotto per far fuori il mirabolante governo Letta. Come scrive il Corriere della Sera a proposito di Angelino nostro: “Sia nella sinistra antigovernativa, sia in quei settori del Pdl che inseguono una crisi di governo, lo si vuole abbattere per far crollare tutto”. Insomma, altro complotto. Non si chiede ad Alfano di andarsene perché è inetto (e quindi, in quella posizione, pericoloso), ma per far cadere Letta. Insomma, altra dietrologia, questa volta al confine con il surreale: meglio tenersi un ministro incapace, se no cade il governo che ha come vicepremier un ministro incapace, Comma 22. E infine, per tentare di placare le acque e cadere in piedi, si butta sul tavolo l’italianissima carta della cialtronaggine, estrema ratio della difesa. È una cosa che funziona da secoli e suona più o meno così: noi non siamo cattivi, siamo solo molto scemi. Non è che facciamo rapire i rifugiati con azioni illegali, è che eravamo distratti. Non è che siamo luridi razzisti indegni di un consesso civile, no, siamo solo un po’ leggerini quando facciamo i comizi. Ecco, dovrebbe bastarci, come consolazione. Se no cade il governo Letta, un lusso che – dicono – non ci possiamo permettere.

il Fatto 17.7.13
Larghe intese
F-35? Ci pensiamo qualche mese, ma poi li compriamo lo stesso
di Marco Palombi


Il governo: votate pure la mozione, avete il nostro “parere favorevole”, basta che sia chiaro che alla fine decidiamo noi. La maggioranza: certo, diciamo di fermare per ora l’acquisto degli F-35, ma tranquilli, alla fine li compriamo. Il minuetto danzato ieri nell’aula del Senato sui cacciabombardieri statunitensi è tutto qui: Pd, Pdl e Scelta civica non fanno neppure finta – come era successo alla Camera un paio di settimane fa – che ci sia qualche possibilità reale di bloccare il programma; il governo non si preoccupa nemmeno di dare l’idea di considerare questa faccenda una cosa seria. Tutto agli atti.
COMINCIA il ministro della Difesa, Mario Mauro: gli F-35 ci servono e non hanno alternative tecniche credibili; comunque il Parlamento ha votato a favore del programma moltissime volte in quindici anni e, se non bastasse, abbiamo preso impegni vincolanti coi nostri alleati. Quanto alla faccenda su chi decide cosa in merito all’acquisto di armi – tema sollevato dal Consiglio supremo di difesa, secondo cui le Camere “non hanno poteri di veto” in materia – Mauro è ancora più netto, quasi insultante: le commissioni Difesa possono dare “un parere – cito la legge - motivato con riferimento alla mancata coerenza con il piano di impiego pluriennale”. Insomma, il Parlamento può controllare solo “la coerenza tra quanto il governo ha dichiarato e quanto contenuto nei decreti” di spesa. Conclusione: “Invero - e lo dico con il conforto di autorevolissimi costituzionalisti - tutta questa materia non ha minimamente la possibilità di alterare l’equilibrio tra Parlamento e governo come definito dalla Costituzione”. Tradotto: il programma è già approvato, basta chiacchiere.
La maggioranza, dal canto suo, è perfettamente d’accordo col governo, soprattutto sulle magnifiche e progressive sorti dell’industria italiana: a regime gli F-35 ci frutteranno “diecimila posti di lavoro” super qualificati in ben tre insediamenti produttivi (calcoli contestatissimi).
C’è pure chi, come Bruno Alicata del Pdl, sottolinea quanto sia necessario essere armati bene in un momento in cui tra Nord Africa e Medioriente si sprecano rivoluzioni e golpe. E la mozione che impegna il governo a “non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione senza che il Parlamento si sia espresso”? Beh, spiega Alicata in aula, “risponde alle sollecitazioni che provengono dall’opinione pubblica per un supplemento di riflessione”, ma “bisogna aver chiaro che l’Italia non può uscire dagli scenari di sinergia industriale e ricerca tecnologica”.
E IL PD? La parola al vice capogruppo Nicola Latorre: “Va subito detto che un Paese moderno, industrializzato, parte di un consesso internazionale, non può e non deve rinunciare ad un sistema di difesa”. Quindi, alla fine, questi cacciabombardieri li comprate? Sì, ma “sentendo tutto il peso della responsabilità di chi sa che c’è un confine tra la politica e la testimonianza”. Il riferimento è alla mozione “pacifista” di Felice Casson (e pochi altri senatori democratici): “Dissento dal mio gruppo – si alza infatti l’ex magistrato – perché non solo, finora, i parlamentari del Pd non avevano mai votato a favore degli F-35, ma anche perché nel programma elettorale c’era scritto che bisogna assolutamente rivedere il nostro impegno nel programma”. Parlano contro i cacciabombardieri anche Sel e il Movimento 5 Stelle: l’F-35, spiegano i grillini, è un sistema “d’attacco”, pensato persino per trasportare ordigni nucleari, dunque assolutamente inconciliabile con l’impostazione militare difensiva sancita dalla Costituzione. Finito, si vota: passa la mozione Pd-Pdl, il governo è contento, i militari pure, ora inizia la riflessione e tra un po’ decolleremo in verticale.

La Stampa 17.7.13
Due bambini carbonizzati Sospetti sul padre stalker
L’uomo non accettava la separazione: era stato denunciato 10 volte
L’emergenza dimenticata
di Mariella Gramaglia


Medea, la madre che uccide i suoi figli per gelosia, per rabbia, per autodistruzione, esiste nel mito, nel teatro greco, talvolta nell’ossessione altrui. Di rado nella cronaca. Il suo doppio maschile è fra noi, ieri una volta di più. Pasquale Iacovone ha un nome semplice e prosaico, ma difficilmente sarà dimenticato dai suoi compaesani di Ono San Pietro nel Bresciano.
Andrea e Davide, un caschetto biondo e uno castano, nove e tredici anni, ritratti ai bordi di una piscina con i volti occultati per rispetto e per lutto, hanno finito di vivere, carbonizzati, martedì 16 luglio alle 10.15. Il padre, un bel ragazzone di quarant’anni, è fortemente sospettato di avere appiccato il fuoco alla casa con una tanica di benzina, quasi sicuramente sapendo che i figli dormivano ancora. Lui stesso è tra la vita e la morte.
Il ripetersi di queste vicende, il sapore aspro di una storia mille volte raccontata, può indurre alla paralisi, al cupo senso d’impotenza rispetto a una ferita del nostro convivere civile.
Diceva Gandhi: «Se la storia dell’universo fosse cominciata con la guerra, non un solo essere umano sarebbe vivo ora». Non è male ricordarlo, anche quanto alla guerra che attraversa i sessi e le famiglie. Mentre scriviamo mille legami d’amore, di solidarietà, di cura, si dipanano sotto i nostri occhi. E questa orribile vicenda di Brescia ci fa tremare proprio per la sua «eccezionalità». Eccezionalità patologica, tuttavia, perché statisticamente troppo frequente, in Italia e nel mondo, come da poco ci ha fatto notare anche l’Organizzazione mondiale della sanità.
L’avvocato di Enrica Patti, la moglie scampata alla strage, ci ricorda quanto è fragile la rete sociale, repressiva e di contenimento, intorno alle famiglie di un uomo violento. Non una, ma dieci denunce per «stalking», avevano messo in chiaro, nel corso di quattro anni, che un uomo (malato? crudele? non sta a noi dirlo), aveva tentato di tutto per rendere la vita impossibile alla moglie separata. All’inizio minacce via sms e telefono, poi sempre peggio, fino ai coltelli mostrati anche ai figli, tanto per non nascondere nulla delle proprie intenzioni.
Se gli uomini come Pasquale sono malati, vanno curati e messi in condizione di non nuocere, se sono dei sadici pericolosi vanno loro sottratti i figli (perché Andrea e Davide vivevano con il padre?) e vanno puniti con la giusta severità.
Ci eravamo illusi, dopo l’insediamento del nuovo governo, la folta presenza di donne parlamentari alla Camera e al Senato, la discussione del protocollo di Istanbul contro la violenza sulle donne, di essere a una svolta. Nuove disposizioni, sia penali che civili, avrebbero dovuto garantire una giustizia più tempestiva e un rifinanziamento delle reti di protezione sociale delle donne e dei bambini vittime di violenza. L’allora ministra delle Pari opportunità Josefa Idem si era impegnata a coordinare una task force di pronto intervento e decisione in questo campo. Possibile che uno spiacevole incidente di percorso di una singola ministra piuttosto fattiva, abbia paralizzato l’intera strategia? E’ da un po’ che l’opinione pubblica è a corto di notizie confortanti in proposito. Molte esponenti del movimento delle donne avevano fatto notare al presidente Enrico Letta che, pur con il massimo rispetto per la sottosegretaria Cecilia Guerra, era bene che la titolare della Pari opportunità sedesse in Consiglio dei ministri, anche per sottolineare la rilevanza dei suoi dossier e consentire loro, quando sono di simile calibro, di avere una corsia di emergenza. Si è ancora in tempo ad ascoltarle.

il Fatto 17.6.13
Tanto Fausto Bertinotti quanto Gianfranco Fini hanno ancora assegnato un ufficio a palazzo Theodoli-Bianchelli, in piazza del Parlamento, pagato dalla Camera: l’ex leader comunista ha a disposizione la bellezza di sei stanze al quarto piano, l’ultimo segretario del Msi solo quattro al terzo.

il Fatto 17.7.13
La marcia della Fiat sull’informazione
Da anni il Lingotto è nel patto di sindacato del Corriere e possiede il quotidiano La Stampa: eppure la legge considera il troppo potere sui giornali un pericolo
di Nicola d’Angelo


Nelle scorse settimane è stato avviato l’aumento di capitale della società Rcs, proprietaria del Corriere della Sera, cioè del principale quotidiano italiano. L’occasione è stata propizia per regolare i conti di un azionariato diviso dalle ambizioni di controllo del giornale di via Solferino. Lo scontro si è accesso tra Fiat e Diego della Valle. Il gruppo presieduto da John Elkann ha comunicato di aver già rilevato diritti per salire dal 10% al 20% nel capitale Rcs post aumento. Allo stato è dunque diventato il primo azionista, seguito da Mediobanca con il 15,14%. L’imprenditore della Tod’s si è invece fermato dopo aver sottoscritto la quota di competenza e risulta quindi socio con l’8,81%. L’inoptato (la parte dell’aumento non ancora sottoscritta pari al-l’11,2 per cento), secondo quando trapela dal mercato, sarebbe stato oggetto in Borsa di un unico maxi acquisto. Mistero su chi si è “accaparrato” le relative azioni.
L’oggetto del contendere non è un prodotto di mercato qualunque. L’editoria, o meglio la proprietà dei giornali, è regolata dalla legge che, come per la televisione, fissa norme finalizzate a garantire il pluralismo ed evitare pericolose forme di concentrazione.
La posizione dominante
Innanzitutto, la legge n. 416 del 1981 che prevede precisi limiti contro la concentrazione della proprietà dei giornali e norme sulla trasparenza dei trasferimenti e sull’intestazione delle quote delle società di settore. Per quanto riguarda il pericolo di concentrazioni editoriali, la legge dispone che gli atti di cessione delle quote di proprietà delle imprese editrici di giornali quotidiani sono nulli se chi compra venga ad assumere una “posizione dominante” nel mercato editoriale. L’articolo 3 della successiva legge n. 67/1987 configura poi come “posizione dominante” nel mercato editoriale quella posizione che consenta di superare il limite del 20 per cento della tiratura complessiva dei quotidiani in Italia. La domanda è: se Fiat, che già detiene la proprietà della Stampa, dovesse acquisire il controllo del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport (anch’essa di Rcs), supererebbe il limite del 20 per cento di tiratura complessiva previsto dalla legge? Ma non sono solo le norme sull’editoria a porre limiti alla proprietà dei giornali. Anche il testo unico della radiotelevisione (n. 177 del 2005) impone che nei mercati che formano il famigerato Sic (Sistema integrato delle Comunicazioni) non ci siano posizioni dominanti. Uno di questi mercati è quello dei quotidiani e dunque l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, cui è deputato anche il controllo sui limiti di tiratura, dovrebbe accertare se dall’operazione in corso derivi un’ipotesi di dominanza vietata ai sensi del-l’art. 43 della stessa legge. Per il momento sembra essersi mossa l’Antitrust che però interviene ad un livello superiore, cioè quello relativo all’abuso di posizione dominante.
Resta invece sullo sfondo il ruolo del patto di sindacato, un accordo che risale al 1997 tra i principali azionisti (Fiat, Mediobanca, Generali, Intesa ed altri) che consiste in un sindacato di blocco e consultazione nella gestione delle azioni della Rcs Mediagroup. Il patto ha come oggetto la disciplina del trasferimento delle azioni da ciascuno dei partecipanti, per dare continuità alla presenza dei pattisti nell’azionariato della società.
Il patto di sindacato
Oggetto dell’accordo è anche la consultazione, per il tramite della direzione del sindacato, per la nomina dei vertici della società e soprattutto l’impegno da parte dei singoli partecipanti di non acquisire il controllo del giornale. I fatti di questi giorni però rischiano di mettere in discussione l’esistenza di questo “salotto buono”, dando alla Fiat un ruolo predominante. D’altra parte, il patto, prevedendo la libertà di voto in assemblea dei suoi partecipanti e la sostanziale parità tra gli stessi, ha consentito fino ad oggi a Fiat, proprietaria della Stampa, di possedere una quota importante, seppure non di controllo, del Corriere senza che ciò determinasse l’esercizio di un’influenza notevole su Rcs rilevante ai fini del calcolo delle soglie di dominanza previste dalla legge. Sono in corso consultazioni incrociate fra i soci del patto di sindacato per stabilire una data di incontro per la fine del mese di luglio, dopo le sottoscrizioni dell’aumento di capitale. In un clima incerto (anche per l’identità di chi ha sottoscritto l’inoptato) l’accordo tra i principali soci del Corriere si ripresenta con nuovi equilibri e soprattutto con un punto interrogativo sul suo futuro. A metà settembre infatti scatteranno i termini per poter esercitare le facoltà di recesso dai vincoli del patto stesso. C’è infine un aspetto che riguarda le ragioni che hanno spinto Fiat a questo cospicuo investimento. Marchionne ha detto che si tratta di una scelta strategica, affermazione poco comprensibile in un mercato come quello dell’editoria in forte crisi. Ma qui si apre il capitolo dell’informazione italiana che, a partire da quella televisiva e salvo poche eccezioni, è terra riservata da sempre alle brame degli stessi gruppi economici e di potere.
*ex Commissario Agcom

il Fatto 17.7.13
L’informazione e i suoi pochi padroni
di Loris Mazzetti


Non c’è detto più giusto: “Ognuno dovrebbe occuparsi di ciò che conosce meglio”. Vale per tutti, in particolare per Massimo Mucchetti, giornalista che, godendo di una certa popolarità, prima diventa capolista del Pd al Senato, poi presidente della commissione Industria, Commercio e Turismo. Protagonista in questi giorni per aver presentato un disegno di legge che, se votato, andrebbe a integrare la legge 60 del 1953, e successivo dpr del 1957, sulla ineleggibilità. Al di là dell’ennesimo aiutino a Berlusconi, non se ne vede la necessità perché l’esistente, se applicata, è perfetta: chi detiene concessioni dello Stato non può avere cariche pubbliche. Mucchetti, invece, dovrebbe chiedersi perché il centro-sinistra ha permesso per vent’anni a Berlusconi di sedersi illegalmente in Parlamento. Perché Mucchetti, che è stato un bravo giornalista, non si occupa di ciò che meglio conosce: dare regole democratiche ai media? Mi sarà sfuggito, ma non ho letto di un suo intervento a seguito della denuncia fatta dal Garante sulla Comunicazione Cardani durante la presentazione della relazione annuale dell’Agcom in cui ha lanciato l’ennesimo grido d’allarme sul “pluralismo dell’informazione e sulla libera concorrenza”. Cardani, non solo, ha messo in risalto anche le debolezze infrastrutturali della comunicazione digitale, e per l’ennesima volta il Parlamento è stato informato che una fetta abbondante della popolazione è ai margini della Rete.
DI TUTTO ciò chi si dovrebbe occupare se non uno che per oltre trent’anni ha vissuto dentro ai media e ne conosce pregi e difetti? Perché non spendere un po’ di energie sul grave problema sollevato dallo scontro tra Fiat e Della Valle: la maxiconcentrazione editoriale. Marchionne con il giro delle quote Rizzoli-Rcs potrebbe aggiungere alla Stampa, il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, in un colpo solo. Perché non osservare attentamente l’esistente: oltre alla solita famiglia Berlusconi con le tv, la Mondadori con Panorama, il Giornale e godere di quotidiani “affiliati” (Libero e il Foglio), ci sono altri gruppi super potenti come quello che fa capo a Caltagirone (Messaggero, il Mattino, Gazzettino, il Corriere Adriatico, il Quotidiano di Puglia, Leggo, il primo free-press italiano) ; il gruppo Espresso dell’ingegner De Benedetti (la Repubblica e l’Espresso, 18 testate locali, tre radio nazionali e 6 tv tra digitale e satellite, per non parlare del web). Troppi i potenti e troppo pochi i politici indipendenti.

il Fatto 17.7.13
Medici. Il vero taglio lineare del governo Letta
di Ivan Cavicchi


IL GOVERNO LETTA aveva giurato che per la sanità non ci sarebbero stati più tagli lineari. In realtà il taglio lineare più odioso, per i malati e i cittadini utenti, è ancora in vigore: quello che da anni sta bloccando il turnover e i contratti degli operatori sanitari colpendo il lavoro che è la vera risorsa della salute pubblica. Anche senza essere esperti tutti capiscono che se a diminuire non sono le malattie ma i medici chi ci rimette sono i cittadini. Questo dimostrano gli studi sul sovraccarico dei servizi quando vanno sotto il minimo organizzativo tollerabile (overcrowding). È chiaro, dunque, che se non si fanno i contratti, a parte il danno economico agli operatori, si impoveriscono i servizi e le loro organizzazioni. Le cure diventano scadenti. Nel nostro sistema sanitario i contratti non si limitano ad adeguare le retribuzioni ma costituiscono discipline etico-organizzative. Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome: il blocco dei contratti è blocco del lavoro. Contro questo stallo l’intero fronte del sindacalismo medico ha dichiarato uno sciopero il 22 luglio e il 18 luglio vedrà il neo-ministro della Sanità, Beatrice Lorenzin. La richiesta delle organizzazioni sindacali è di arrivare rapidamente alla sigla del contratto per gli oltre 115mila operatori ma soprattutto di sbloccare il turnover e di provvedere alla regolarizzazione dei precari che, spesso, sono coloro che garantiscono alcuni servizi come i pronto soccorso. Anche per questo la manifestazione del 22 luglio non si terrà di fronte al dicastero di Lorenzin ma al ministero dell’Economia. In Italia i medici assomigliano a dei pugili che, con le mani legate dietro la schiena, prendono pugni da tutte le parti. Soprattutto dalla propria coscienza. E infatti i medici non ce la fanno più. Da cittadino trovo rassicurante la loro ribellione. Un solo suggerimento: alzate il tiro. La situazione richiede che il lavoro, per non essere solo spesa, necessita di un nuovo genere di contrattazione. Rinnovare è quasi più importante che sbloccare.
 *docente Università Tor Vergata, Roma

il Fatto 17.7.13
Ora gli condannano pure il confessore
Don Corsani, grande amico di B., giudicato colpevole di violenza sessuale
di David Marceddu


Per tutti è e rimane il confessore di Silvio Berlusconi. Salesiano come salesiani erano i preti con cui il Cavaliere, racconta sempre emozionato, ha studiato da ragazzino. Lunedì il tribunale di Rimini ha condannato don Gabriele Corsani a 3 anni e 4 mesi per violenza sessuale nei confronti di uno studente che all’epoca dei fatti, nel 2007, aveva 19 anni ed era in gita in Riviera accompagnato proprio dal sacerdote. Il religioso aveva attirato in una stanza l’ex allievo proponendogli di dormire insieme per poi, come ha ricostruito l’accusa, palpeggiarlo. Il ragazzo era riuscito a fuggire dalla camera, ma la denuncia è arrivata solo anni dopo, nel 2011. Il giudice per l’udienza preliminare Stefania Di Rienzo ha contestualmente inviato alla procura di Pavia gli atti relativi a un altro presunto caso di molestie ai danni di uno studente di Medicina della città lombarda. Il pubblico ministero, che aveva chiesto 6 anni di reclusione, durante la requisitoria ha parlato di “serialità”. “Ci potrebbero essere stati altri casi”, spiega Monica Gnesi, avvocato di parte civile, che spera che l’eco mediatica aiuti altre eventuali vittime a parlare.
Don Corsani, 44 anni, economo del Collegio Salesiano di Pavia, è così tanto vicino alla famiglia dell’ex premier da essere stato il primo sacerdote ad accorrere in occasione della morte di mamma Rosa Bossi nel 2008. Un anno dopo, aveva concelebrato ad Arcore i funerali della sorella del Cavaliere e anche quelli di Giorgio Gaber: “Don Gabriele è un uomo molto stimato e amato”, spiega il suo avvocato Chiara Vittone. Di sicuro un uomo pieno di amicizie che contano. Nel suo collegio a Pavia, a incontrare i ragazzi il giorno della festa di Don Bosco, arrivano sempre nomi grossi del jet set sportivo: Riccardo Montolivo, Maxi Lopez, Bruno Pizzul, Sebastian Giovinco, Esteban Cambiasso. Nel-l’aprile del 2010 era stato ospite con i suoi ragazzi a Palazzo Chigi. “Era un sacerdote molto coperto, molto protetto da un ambiente omertoso”, prosegue l’avvocato Gnesi, che punta il dito contro i superiori del sacerdote.
Il giudice ha stabilito anche una provvisionale di cinquemila euro e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nel corso delle indagini affidate ai carabinieri, era emerso anche un altro episodio, rivelato da un diciannovenne: il prete avrebbe tentato di baciarlo sulle labbra. Ma per questo fatto, mai denunciato, don Corsani è stato assolto.
Lui ha sempre negato, anche se non ha preso parte al processo. “Innanzitutto abbiamo una condanna in primo grado, non definitiva, per un solo fatto, mentre in quella stessa sentenza è stato assolto per un’altra vicenda - spiega Vittone - Questa serialità non la vedo anche perché quella di Pavia è solo un’indagine all’inizio. Non ci sono prove. C’è solo il racconto di questo ragazzo. Sono assolutamente sicura che il mio cliente sia innocente e attendo le motivazioni della sentenza per capire e fare appello. Mi rendo conto che si voglia costruire il caso sul fatto che sia una persona vicina a Berlusconi”.

l’Unità 17.7.13
Sempre più giovani gli anoressici e i bulimici


I giovanissimi sono sempre più prigionieri di anoressia e bulimia. Secondo il quaderno del ministero della Salute dedicato ai disturbi alimentari sono infatti in aumento i casi di esordio precoce di queste due patologie, che generalmente si manifestano in una fascia d'eta' compresa tra i 15 e i 19 anni. Al contrario, altri disturbi alimentari, come la sindrome da alimentazione incontrollata (il cosiddetto binge eating disorder, Bed) sembrano non avere età, arrivando a colpire i bambini e persino gli anziani, anche se raggiungono il picco in età adulta. Le più colpite rimangono sempre le donne (circa 8 nuovi casi all’anno ogni 100mila persone per l’anoressia, che sfiorano i 12 nuovi casi all'anno per 100mila persone nel caso della bulimia), ma il cresce il disagio anche tra gli uomini, che ormai rappresentano il 5-10% di tutti i casi di anoressia nervosa, il 10-15% di tutti i casi di bulimia e ben il 30-40% dei casi di sindrome da alimentazione incontrollata.
Colpa soprattutto di un ideale di magrezza e di perfezione fisica diverso, più «restrittivo» che si è sviluppato negli ultimi 50 anni e che viene veicolato con diversi mezzi di comunicazione, tra i quali Internet. A lanciare l'allarme sui pericoli che dalla rete possono arrivare per chi soffre di disturbi alimentari è il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che sottolinea come molte siano, ancora oggi, le informazioni distorte e fuorvianti che e' possibile trovare online. «Quando si digitano le parole anoressia o bulimia è facile ancora oggi trovare siti su come aggirare il controllo delle famiglie, su come smettere di mangiare:cosi non si può più andare avanti, per questo serve un’operazione culturale molto forte» sottolinea Lorenzin, spiegando che il ministero non intende abbassare la guardia, soprattutto in termini di prevenzione. Queste patologie, pur essendo in primo luogo disturbi psichiatrici, producono complicanze fisiche anche serie, per la malnutrizione e i comportamenti impropri messi in atto per controllare il peso.

Repubblica 17.7.13
Se ancora resiste il culto della razza
di Tahar Ben Jelloun


Potrei scrivere direttamente al signor Roberto Calderoli per dirgli quanto si è sbagliato; ma dato il mio attaccamento e la mia amicizia per l’Italia e il suo popolo, preferisco rivolgermi a tutti, anche perché l’informazione che ho da dare riguarda ognuno di noi: le razze non esistono. Non si tratta di uno scoop ma di una realtà evidente. Non esiste una razza bianca, e neppure nera o gialla. Siamo tutti quanti simili e diversi. Il termine «razza», se usato per gli umani, è improprio. Ha un significato se riferito agli animali, così diversi tra loro; ma applicato all’uomo rappresenta un errore, sia sul piano ontologico che su quelli genetico e biologico. I cani possono essere di razze diverse. Non così gli umani. Perciò, ignorarlo vuol dire trattare l’uomo come un animale. Proprio questo è accaduto nel caso delle aggressioni contro la ministra dell’integrazione Cécile Kyenge. Ciò che definisce un essere umano sono i suoi geni, il suo Dna, non il colore della sua pelle. Nessun comportamento psicologico o politico può essere ascritto a un dato esteriore, o in altri termini, all’aspetto fisico di una persona. A definirci sono le nostre qualità, le nostre capacità, la nostra volontà, la nostra fedeltà o infedeltà ai valori fondamentali che sono alla base di ogni civiltà. Che importa il colore della pelle? Che ruolo può mai avere nel mio giudizio, nella mia percezione della realtà?
Razzista è chi crede che nel genere umano esistano diverse razze: ma ciò è scientificamente falso. Apparteniamo tutti a una sola ed unica razza: la razza umana, che comprende i sette miliardi di abitanti del nostro pianeta.
Di fatto, le dichiarazioni di taluni leader della Lega Nord, come ed esempio quelle del deputato europeo Mario Borghezio, sono soltanto insulti che rivelano sentimenti di odio e disprezzo verso chiunque, uomo o donna, non faccia parte del suo schieramento politico. In Francia abbiamo sentito profferire ingiurie razziste di questo tipo da esponenti dell’estrema destra, poi condannati dalla giustizia. Ma nel caso italiano, da alcuni anni vediamo emergere un’ideologia tendente a diffondere pregiudizi sugli immigrati la cui pelle non è di un bianco smagliante. Si ricade così in una vecchia abitudine: quella di confondere il buono col bello, e di assimilare il bianco a tutto ciò che è giusto – mentre per converso il non bianco è identificato col male.
Alcuni decenni fa, quando nel Sudafrica regnava ancora il regime dell’apartheid, un individuo (di pelle bianca) giustificò la discriminazione nei confronti dei neri dicendo: «A noi non piacciono perché hanno lo stesso colore dei nostri escrementi».
Questo riferimento a ciò che viene espulso è inconsciamente presente nella mentalità e negli atteggiamenti del razzista «di base».
Come sappiamo, insulti razzisti sono risuonati anche negli stadi, contro i calciatori di colore; e qualcuno ha imitato i versi delle scimmie. Il signor Borghezio ha parlato di «bonga bonga». Ma prima di lui, un presidente del consiglio aveva descritto Barack Obama come un uomo «abbronzato».
Ultimamente lo Stato francese ha trovato infine il coraggio di radiare dalla sua Costituzione la parola «razza». Certo, non basta questo a cancellare il razzismo; ma è già un passo in avanti, per tagliare l’erba sotto i piedi dei razzisti.
La stupidità del razzismo si combatte con l’educazione e l’istruzione, smantellando i pregiudizi. Una volta affermato e dimostrato che le razze non esistono, diventa più difficile trovare una pseudo-giustificazione alle discriminazioni basate sul colore della pelle. D’ora in poi i razzisti dovranno cercare altrove di che alimentare la loro stupidità e il loro squallore. Perché non rispettando gli altri, il razzista manca di rispetto a se stesso. È un disgraziato, a disagio nella sua pelle, e quindi bisognoso di rassicurazioni. In tempi di crisi, per forza di cose il razzismo diventa più virulento.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Corriere 17.7.13
Da noi Einstein non insegnerebbe
di Gian Antonio Stella


«Benvenuto professor Einstein, ce l'ha già un codice fiscale italiano?». Se il grande fisico fosse ancora vivo e venisse a fare una conferenza in Italia, sarebbe questa la domanda, surreale, che ogni università nostrana dovrebbe fargli. Al che, probabilmente, il geniale premio Nobel tedesco-americano tornerebbe a fare la linguaccia come nella foto celeberrima in cui, nel 1951, sbeffeggiò i fotografi accorsi a festeggiarlo: prrrrrrr!
Ma vi pare sensato che uno scienziato, uno studioso, un docente straniero chiamato a partecipare a un convegno o a tenere una lezione in qualche università o centro studi della penisola debba essere fornito di un codice fiscale apposito (anche se magari non tornerà mai più in Italia in vita sua) per poter essere pagato e dunque lasciare una quota di questo compenso per le tasse? Ammesso che lo Stato non possa proprio rinunciare a questo tipo di balzelli neppure se si tratta di un caso sporadico e di un contributo scientifico indispensabile per i nostri studenti, per i nostri atenei, per la nostra società, non potrebbe più semplicemente chiedere a chi invita quel docente straniero di pagare quella tal quota di imposte e morta lì?
No. E così, per fare un esempio, Vermondo Brugnatelli, docente alla Bicocca di Milano, perdendo una mattinata regalata all'Università e allo Stato, si è pazientemente messo in coda all'Agenzia delle Entrate per procurarsi un codice fiscale per il collega straniero chiamato a tener lezione: «Naturalmente la documentazione allegata non bastava: mi hanno chiesto un'ulteriore attestazione da fare rilasciare in università e con la quale tornare e perdere un'altra mattinata sperando che fosse la volta buona. Da notare che altri uffici delle Entrate questo documento non lo chiedono; altri ancora, mi dicono, non chiedono neppure la dichiarazione del richiedente di non voler prendere residenza in Italia, che peraltro avevo già con me...».
A farla corta, pare che ogni diverso ufficio delle Entrate si regoli a modo suo. Come se non si trattasse di norme codificate ma di prassi, dove prevale l'arbitrio del singolo dirigente. Va da sé che, dopo avere risolto il problema in un ufficio diverso senza che questo gli chiedesse «né dichiarazioni complementari dell'interessato né attestazioni dell'università» pretesi dall'altro, Brugnatelli ha deciso di inoltrare un reclamo alla stessa Agenzia delle Entrate «con una complessa procedura automatizzata (evidentemente fatta per scoraggiare i reclami) e che limitava il testo del reclamo a un massimo di 490 caratteri, poco più di tre tweet».
Dopo un po' gli arrivava un messaggio di risposta automatico: «Sarà nostra cura verificare le modalità di erogazione del servizio in questione e fornirle una risposta in tempi brevi». In simultanea però, sorpresa!, spuntava tra le email un secondo messaggio automatico, presumibilmente della persona cui era stato indirizzato il reclamo. Sei parole: «Sarò assente fino al 17 settembre». 

Corriere 17.7.13
Tra l'Europa e Israele scontro sulle colonie
L’Europa vieta rapporti con chiunque operi nei Territori occupati
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Un diplomatico israeliano lo definisce «un terremoto», una portavoce dell’Unione Europea prova a rasserenare: «Niente di nuovo». Eppure le parole di Benjamin Netanyahu sono quelle di chi reagisce a un sisma (in arrivo): «Non accetteremo alcun diktat esterno sui nostri confini — avverte il primo ministro —. Mi sarei aspettato da chi abbia veramente a cuore la pace e la stabilità in Medio Oriente che si dedicasse prima a risolvere problemi più urgenti come la guerra civile in Siria o la corsa dell’Iran alle armi atomiche».
Il documento che sta scuotendo i rapporti tra il governo israeliano e Bruxelles è stato approvato il 30 giugno ed entra in vigore fra pochi giorni. Indica le linee guida da seguire nei rapporti con Israele, fissa le regole per prestiti o finanziamenti da parte della Commissione. E per la prima volta prescrive che ogni intesa venga accompagnata da una clausola: quei soldi non possono finire a università, società, istituzioni al di là della Linea Verde, perché — precisa — gli insediamenti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est non fanno parte dello Stato d’Israele. «L’Unione Europea ha chiarito più volte — continua il testo — che non riconoscerà cambiamenti ai confini precedenti al 1967, se non sono stati concordati dalle parti coinvolte nel processo di pace».
Maja Kocijancic, una portavoce dell’Unione, spiega che «l’approccio non è nuovo, le linee guida precisano un sistema già applicato e permetteranno a Israele e l’Ue di portare avanti le discussioni su accordi bilaterali in preparazione». Le regole riguardano i finanziamenti per progetti che partano l’anno prossimo e toccano le iniziative della Commissione non quelle dei ventotto Stati membri. «Un numero ridotto di casi», commenta Kocijancic. Sandra de Waele, che fa parte della delegazione Ue in Israele, ammette che il documento nasce anche «dalla frustrazione degli europei per le continue costruzioni negli insediamenti».
Proprio ieri il movimento Peace Now ha denunciato che il governo si prepara ad approvare mille nuovi alloggi nelle colonie. Il documento europeo è stato accolto come una sfida da Danny Dayan, ex leader del consiglio dei coloni, che alla radio dell’esercito israeliano ha cercato di ironizzare: «I nostri sono problemi da ricchi, siamo andati avanti quando eravamo in 40-50 mila al di là della Linea Verde e adesso siamo 700 mila, Gerusalemme Est compresa. Non abbiamo edificato gli insediamenti con gli aiuti dell’Unione e continueremo a farlo senza».
La clausola da inserire negli accordi preoccupa di più i funzionari del governo. «Dobbiamo decidere come agire da qui in avanti — dice uno di loro, anonimo, al quotidiano Haaretz —. Non siamo disposti a firmare intese con quella formula, questo potrebbe fermare la cooperazione economica, scientifica, culturale, sportiva universitaria». Anche Yair Lapid, ministro delle Finanze e che dovrebbe rappresentare i moderati nella coalizione di centro-destra, attacca la decisione: «Fa capire ai palestinesi che per loro non c’è un prezzo internazionale da pagare, se continuano a rifiutarsi di riprendere i negoziati. L’Autorità di Ramallah si convincerà che Israele finirà con il cedere alle pressioni economiche e diplomatiche».
Gli americani — racconta Haaretz — avrebbero avvertito Netanyahu che se gli sforzi di John Kerry, il segretario di Stato, per far ripartire il processo di pace dovessero fallire, l’Ue potrebbe decidere misure ancora più dure: l’etichetta identificativa per i prodotti che arrivano dagli insediamenti in Cisgiordania o l’obbligo del visto per i coloni che vogliono viaggiare in Europa.

Repubblica 17.7.13
Israele, la Ue esclude dagli accordi le colonie
Avallo politico alle richieste palestinesi. L’ira di Netanyahu: “Diktat inaccettabile sui confini”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — La nuova normativa che regolerà i rapporti economici tra Ue e Israele fa insorgere la destra israeliana e spinge il primo ministro Benjamin Netanyahu a definirla «un diktat inaccettabile sui confini di Israele». Le nuove linee guida della Ue stabiliscono che i benefici dello scambio finanziario, economico e culturale fra Europa e Israele non saranno più applicabili, in Cisgiordania, Gerusalemme est e sulle alture del Golan. L’Unione europea non considera territorio di Israele le aree che si trovano oltre la “linea verde” del 1967, dove si trovano circa 170 insediamenti abitati da oltre mezzo milione di coloni.
L’Ue ha minimizzato l’importanza di queste “linee guida” adottate dal vertice dei ministri degli Esteri a giugno, parlando di chiarimenti che riguardano «un numero molto limitato di casi». Ma è indubbio che la decisione rappresenta un potente avallo politico da parte della Ue alla richiesta palestinese sui confini futuri della Palestina che si basano sulle linee del 1967, l’Anp chiede come pre-condizione per riprendere la trattativa con Israele lo stop alla costruzione degli insediamenti in queste zone occupate. La decisione assunta ormai 15 giorni fa, era attesa in Israele ma non per questo non suscita polemiche e attacchi contro Bruxelles da una parte e dall’altra il plauso dei palestinesi.
Israele viene considerato partner importane e privilegiato dalla Ue, ma anche responsabile dal giugno 1967 di una «occupazione» con «insediamenti illegali» in territori in cui la Ue «non riconosce la sovranità israeliana». Per questo le linee guida vieteranno «borse di studio, premi e risorse finanziarie » legate ai progetti di partnership per la ricerca prevista nel programma “Horizon 2020” a favore di enti israeliani la cui sede sia nei Territori palestinesi occupati. Questo vale anche per i prodotti agricoli delle colonie della Cisgiordania che già da tempo per la Ue non potevano essere identificati come prodotti “Made in Israel”. Un rapporto dell’anno scorso stima in 287 milioni di dollari le importazioni in Europa di beni prodotti oltre la “Linea verde”.
Spiega David Kriss, portavoce della delegazione Ue in Israele: «Al momento attuale entità israeliane beneficiano di sostegni finanziari e di cooperazione con la Ue e queste linee-guida sono state concepite allo scopo che ciò prosegua in futuro». «Al tempo stesso in Europa è stata espressa la preoccupazione che entità israeliane nei Territori occupati (illegali secondo la comunità internazionale, ndr) possano pure beneficiare di sostegni europei». Da qui la necessità di definire «limitazioni territoriali», esplicite ed inequivocabili. Il movimento dei coloni replica accusando l’Unione europea d’aver assunto posizioni «unilaterali e discriminatorie » e di essersi allineata «con le richieste più estreme dei palestinesi», con questa decisione l’Ue «non potrà più essere considerata neutrale e obiettiva». Adesso Israele è davanti a un dilemma: o firma una clausola che fa riferimento ai confini del 1967, cosa che al momento rifiuta, o abbandona importanti progetti di cooperazione con il suo principale partner commerciale. Bruxelles offre una maggiore integrazione economica e commerciale a Israele, ma dall’altra vuole rendere impossibile per qualsiasi ente o istituzione che opera oltre la “Linea verde” nei Territori occupati di godere dei frutti di questa integrazione.

l’Unità 17.7.13
Francia. Arrestato neonazista norvegese, progettava una strage


Aveva trovato rifugio in Francia Kristian Vikernes, neonazista norvegese arrestato ieri perché «avrebbe potuto preparare un attentato terroristico su grande scala» e costituiva «una potenziale minaccia per la società». Lo ha reso noto il Ministero degli Interni francese.
Con il musicista 40enne, alias «Varg», è stata arrestata anche la compagna, la francese Marie Cachet.
Vikernes era stato condannato in Norvegia a 21 anni di carcere per l’omicidio di un suo amico e nel 2010 dopo averne scontati 16, si era stabilito in Francia. Da anni era sotto la sorveglianza della polizia, ma quello che ha fatto scattare l’arresto disposto dalla Procura francese è stato l’acquisto da parte della donna che possiede un porto d’armi legale di alcune carabine, poi sequestrate dagli agenti. Non solo, hanno pure preoccupato gli inquirenti il tono
«antisemita» e i messaggi xenofobi diffusi via internet da Vikernes. Il musicista norvegese è stato uno dei destinatari del memoriale dell’autore della strage di Oslo, Anders Behring Breivik, diffuso poco prima degli attentati costati la vita a 69 persone.
Le autorità francesi hanno descritto Vikernes come un «simpatizzante» di Breivik e ne ha recentemente ricevuto il manifesto che accusa i musulmani di distruggere la società europea.

il Fatto 17.7.13
Erdogan e la “caccia alle streghe”
Nelle principali città turche decine di arresti nelle retate casa per casa
di Roberta Zunini


Istanbul Da un mese e mezzo nelle borse dei cittadini di Istanbul, Ankara, Smirne, Antiochia, le principali città turche, tra gli effetti personali, non possono mancare almeno una mascherina e un paio di occhialini da nuoto. I più coraggiosi, o timorosi, o precisi, ci stipano invece una ben più ingombrante maschera antigas, completa di filtro omologato. L’acqua, sparata dagli idranti dei Toma, rende scivolosi i corsi principali di queste città ed è sempre più rossa per le sostanze urticanti con cui è addizionata, mentre le carceri sono di giorno in giorno più affollate. In Turchia, secondo molte associazioni umanitarie, tra cui la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh), la democrazia è in pericolo perché il primo ministro Tayyip Erdogan, ha dato il via a una vera e propria caccia alle steghe, mandando le squadre antiterrorismo casa per casa a cercare i “vandali”, anzi i “terroristi” che avevano occupato Gezi Park dal 30 maggio al 15 giugno scorso. Il suo obiettivo è metterli dietro le sbarre, in attesa di farli processare per eversione e, nel contempo, spaventare la popolazione, secondo i sondaggi circa metà degli 80 milioni di turchi, che lo considera da mesi più simile all’ex presidente egiziano di stretta fede islamica Morsi, piuttosto che a un possibile primo ministro di un paese europeo.
Mentre sono ripresi i negoziati tra Turchia e Ue, in questi ultimi quattro giorni, centinaia di poliziotti in assetto antisommossa hanno ricominciato ad attaccare i manifestanti di quella che è ormai conosciuta in tutto il mondo come Resistanbul. La rivolta pacifica dei cittadini turchi, soprattutto giovani laici laureati e colti che avevano protestato pacificamente seduti sull’erba di Gezi park, l’unica area verde nel centro di Istanbul, contigua alla simbolica piazza Taksim - dove c’è la statua di Kemal Ataturk, fondatore della Turchia moderna e laica - per salvarla dal piano di costruzione dell’ennesimo centro commerciale e dalla replica di una caserma di soldati musulmani, sono tornati nelle strade per chiedere il diritto di manifestare per il diritto alla libertà di espressione e, ancora una volta, sono stati brutalmente attaccati dalla polizia. Nella via principale di Istanbul, Istiklak (che conduce a piazza Taksim) domenica scorsa sono scesi in piazza gli architetti e gli ingegneri, contrari alla costruzione del terzo ponte sul Bosforo che avrà come effetto la contaminazione di importanti fonti idriche e la distruzione dell’ultima area forestale di Istanbul, una megalopoli di 17 milioni di abitanti.
Risultato: un’ora dopo l’inizio della manifestazione, migliaia di cittadini comuni si sono uniti agli architetti e alla polizia, non solo a Istanbul ma anche ad Ankara e Antiochia, e alla polizia è stato ordinato di disperderli. Il fotografo che si trovava accanto a me mentre correvamo per evitare i bossoli di gas lacrimogeni sparati ad altezza uomo, si è preso una pallottola di gomma sulla coscia. La maggior parte della gente si è buttata nelle stradine laterali, soprattutto in via Mis dove la maggior parte dei gestori dei locali ha aperto le porte per offrire rifugio, tirando giù le saracinesche. Ma il gas lacrimogeno al peperoncino riesce a infiltrasi ovunque e in pochi minuti ha invaso anche i piani superiori.
Solo litri e litri di latte usato come collirio e antispastico hanno evitato alla maggior parte di finire all’ospedale con la congiuntivite mentre vomitavano l’anima. Ma non ha evitato a decine di loro di essere arrestate il giorno dopo. In queste ultime 2 settimane, secondo l’agenzia Anadolu, almeno 30 persone sono in carcere per aver partecipato alle proteste.

La Stampa 17.7.13
Argentina, bufera sul capo dell’esercito “Era un amico del dittatore Videla”
Tre ex prigionieri ricordano il generale Milani nella terribile caccia ai «sovversivi»
di Paolo Manzo


Il Generale César Milani nominato due settimane fa da Cristina Kirchner a capo dell’Esercito argentino è al centro di furenti polemiche per il suo possibile coinvolgimento nelle torture e nelle sparizioni dell’ultima dittatura. Almeno tre ex prigionieri politici si ricordano bene di quando, a Tucumán, l’allora tenente Milani spiava i suoi commilitoni e prendeva parte all’Operativo Independencia, la nefasta caccia ai «sovversivi» iniziata da López Rega nel 1975 e continuata, dopo il golpe, da Jorge Rafael Videla.
Sul finire degli Anni Ottanta, inoltre, Milani avrebbe addirittura partecipato al tentativo di colpo di stato dei militari «carapintadas» per rovesciare il governo del presidente Raúl Alfonsín. Era il 1988. La democrazia era tornata da 5 anni, il rapporto Nunca Más, redatto dalla Commissione Diritti Umani presieduta da Ernesto Sábato, era uscito nel 1984 e, soprattutto, il nome di Milani era citato ampiamente proprio nel «Nunca Más» della Rioja, la provincia dove l’uomo che oggi guida l’esercito argentino aveva svolto le sue principali attività al tempo della dittatura. Qui, a detta di testimoni, l’allora tenentino trascorreva il suo tempo rastrellando case, simulando fucilazioni e minacciando di morte presunti terroristi. Suo principale accusatore il prigioniero politico Ramón Alfredo Olivera che ieri ha confermato tutto ai media argentini.
Strana svista quella di Cristina su Milani, soprattutto visto il lavoro in difesa dei diritti umani dei Kirchner che ha portato in tribunale quasi tutti i principali carnefici della dittatura. Il Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel ieri ha chiesto pubblicamente al governo di «rivedere la nomina di Milani», lanciando l’allarme sulla sua partecipazione alla repressione tramite il battaglione d’intelligence 601, il più terribile gruppo di spie della dittatura di Videla.
Ma c’è di più, almeno secondo Marcela Ledo delle «Madres» della Rioja e, soprattutto, mamma di Alberto, scomparso nel 1976. Il giovane era entrato nell’esercito pochi mesi prima, Milani lo teneva d’occhio perché «troppo di sinistra» secondo Álvaro Illanez, ex commilitone di Ledo, «e lo aveva scelto come suo aiutante personale». Il 16 giugno 1976 Alberto va in «perlustrazione», da solo con altri ufficiali e sottufficiali. Molto strano. Il 17 in caserma Milani annuncia la sua «diserzione». Da allora Alberto Ledo è uno dei 30mila desaparecidos .

La Stampa 17.7.13
Attila József, così sognava il figlio della lavandaia
Aveva la forza fisica e una voce per benedire e maledire il mondo, per gridare la rabbia e l’offesa
Ribelle e visionario, il poeta ungherese è oggi un simbolo della lotta contro il regime autoritario di Orbán: a migliaia in piazza a Budapest per difendere la sua statua
di Paolo Di Paolo


La statua di Attila József, a Budapest, accanto al palazzo del Parlamento: il governo del populista Viktor Orbán vorrebbe rimuoverla per ripristinare l’assetto fascista della piazza Paolo Di Paolo (foto sotto) è stato finalista dell’ultimo premio Strega con il romanzo Mandami tanta vita (Feltrinelli) in cui racconta Piero Gobetti, «enfant prodige» della cultura italiana. In questa serie, che prende il nome dalla rivista dell’intellettuale torinese, lo scrittore racconta per La Stampa gli altri Piero Gobetti d’Europa, giovani ingegni impegnati e sovente in conflitto con il proprio tempo.
Se passate da Budapest, andate a cercarlo. Accanto al fastoso palazzo del Parlamento, in una piccola piazza, c’è un uomo giovane: magro, immobile, seduto su una gradinata. Ha in mano un cappello e tiene gli occhi bassi. Sembra molto stanco, ma non sconfitto. Quando il governo ungherese – guidato dal conservatore populista Viktor Orbán – ha annunciato la rimozione della statua del poeta Attila József, per ripristinare l’assetto fascista della piazza, migliaia di persone si sono date appuntamento per difenderla, in un atto di resistenza poetica e politica insieme. Perché la scommessa della giovinezza di József, morto trentenne nel 1937, è stata proprio questa: pensare la politica come rivolta e come poesia. Alimentare un grande fuoco davanti al quale gli uomini possano «scongelarsi».
È il fuoco dei vetrai, impastato di sangue e di sudore, di quelli che portano la luce nelle città come poeti.
Animato dallo spirito del ribelle e dalla lucidità del visionario, Attila resisteva al proprio tempo ingrato, provava a non cedere, come un melo selvatico - l’immagine è sua - che resiste all’uragano. E così è diventato uno dei simboli delle proteste contro il governo Orbán, contro la progressiva riduzione della libertà di espressione e dissenso, contro modifiche a una costituzione che si fa pericolosamente meno democratica.
«Su una spalla del povero c’è il mondo»: il giovane József scrive l’epica dei senza-niente, chiede a Dio di sgombrare il mondo dal male, con una disperazione pari allo slancio di un «minuscolo cuore», che balbetta, che spera, mentre «sempre più diventa buio». Se c’è una cosa che ha imparato subito è che si impara da tutti i lavori. Da bambino faceva il guardiano ai maiali, e anche nel sudicio ha imparato qualcosa - la quiete e la voracità. Ha venduto acqua nei cinema, il film era lo stesso per giorni: così ha imparato la bellezza dei dettagli. Ha fabbricato girandole di carta, e ha imparato che cosa sono i colori. Ha recapitato pacchi, e così deve essergli venuto in mente un verso che avrebbe scritto anni dopo: «Il dolore è un postino grigio». Ha fatto lo strillone di giornali, e così ha imparato che le notizie da gridare di solito sono cattive. È stato mozzo su una nave, è stato contabile e istitutore.
È stato quasi tutto, Attila József. Ma più di tutto avrebbe voluto essere un filosofo e un poeta. Un professore gli disse: le due aspirazioni non vanno d’accordo, meglio tentare la fortuna altrove. Ma la fortuna non si è mai presentata alla porta di Attila. Postini grigi invece sì: recapitavano per lui giorni disperati senza soldi e senza lenzuola, a Vienna. Eppure non ha mai smesso - né a Vienna, né a Parigi, a Cagnes-sur-mer, o nella sua Budapest - di scrivere versi. Ha creduto nella poesia e nella rivoluzione, questo ungherese nato all’inizio di un secolo feroce, così come ha creduto nei propri vent’anni: «I vent’anni la mia forza / i vent’anni li vendo». Non aveva eredità da spendere che non fosse la sua stessa energia. Il padre era operaio in una fabbrica di saponi; la madre una lavandaia: «Era mia madre, piccola, moriva presto: le lavandaie muoiono presto». Attila aveva da giocarsi la forza fisica e una voce per benedire e maledire il mondo, per pronunciare la rabbia e l’offesa, per dichiarare l’amore a una ragazza di nome Flora, per inneggiare alla rivoluzione. Iscritto al partito comunista, ne fu espulso come deviazionista.
Era un «vate proletario», un francescano, o cos’altro? Inseguiva un sogno di felicità privata e collettiva: quello che, da queste parti, siamo quasi riusciti a smettere di sognare. «Oh Europa, quante piaghe porti in te», scriveva - e protestava contro l’invecchiare di tutto: perfino la rivoluzione «tossicchiando si accoccola su pietre aguzze». «Uomo ungherese - la sua bandiera è un cencio, / un piatto vuoto il suo cibo; / siamo nazione che coglie erbacce: per noi / viene una morte rappezzata, scalza! ». Qualcuno ha visto in József un Villon novecentesco, e in effetti nei suoi versi c’è un dito puntato contro le ipocrisie della società, del potere, l’invito a colpirle, ad abbatterle con «l’ascia larga» per udire «lo strillo del deserto feudale». Ma c’è soprattutto lo slancio di un idealista, il batticuore di chi invita l’amico a farsi come un filo d’erba («più dell’asse terrestre sarai grande»), di chi scrive la sua «preghiera per gli stanchi», o per i cani sporchi, fradici, arruffati rimasti senza nessuno. È l’estremismo generoso e quasi impraticabile di chi riesce a custodire lo stupore anche di fronte al peggio, e prepara una staffetta per gli idealisti del futuro.
«Non vi offendete, vecchie pietre, se vi calpesto. Sono meno immobile di voi e sono più forte» scriveva Attila József. Anche lui, a vent’anni, sognava un amore giusto: «Oh, se avessi un’innamorata l’amerei come il fiume il suo letto». A trenta, con Flora, gli sembrò di avere trovato la felicità, di avere arginato l’incubo ricorrente della depressione. Lei invece gli spezzò il cuore? Fatto è che un giorno d’inizio dicembre, anno 1937, a Szárszó, Attila si distese sui binari al passaggio di un treno. La scena, come un presagio, sta in una delle sue prime poesie: «Ha vesti stracciate, è giovane. Il cielo si è fatto grigio».
Resta, di Attila József, la forza con cui ha difeso i sogni delle lavandaie come sua madre e delle tessitrici, i cenci unti e i pezzi di muro, ai bordi della città, incerti se cadere. La rugiada e il vento notturno, le case dei contadini, il Danubio, la pioggia e le «parole piane, primitive» con cui racconta il dolore che zampilla sui gradini, una rivoluzione possibile, l’umanità intorno a sé stanca ma non sconfitta. Il volto di ciascuno - dice un suo verso - «è una piccola periferia».

Repubblica 17.7.13
Si chiama Lidar e consente di esplorare siti archeologici dal cielo emettendo raggi e impulsi Grazie a questo metodo i ricercatori hanno svelato parti nascoste dell’area del tempio di Angkor
Cambogia Le città del passato scoperte con il laser
di Alessandra Baduel


All’epoca dell’impero Khmer il tempio cambogiano di Angkor era al centro di un’enorme metropoli medievale, la più grande mai identificata nel mondo preindustriale, che subì gli effetti dell’eccessiva urbanizzazione combinati con un repentino cambiamento climatico e finì in rovina. Merito della scoperta, e della lezione dal passato buona per il nostro presente, è stata l’idea degli archeologi al lavoro sulle vestigia Khmer di usare il Lidar, fusione delle due parole light e radar: uno strumento creato negli anni Sessanta, ma ancora poco usato in archeologia, che permette, sorvolando un’area, di individuare e registrare la conformazione del terreno e di quanto c’è sotto, penetrando anche la giungla più fitta.
«In venti ore di volo», ha spiegato l’archeologo australiano Damian Evans alNew York Times, «abbiamo ottenuto quello che, lavorando sul terreno, avremmo scoperto solo dopo decenni di esplorazioni». Venti ore nelle quali il Lidar, montato su un elicottero, ha bombardato il suolo, coperto di giungla e campi di riso, con milioni di impulsi laser, misurando le singole distanze fra lo strumento e il terreno e dando così ai ricercatori tutti gli elementi per creare una mappa dei circa 370 chilometri quadrati che circondano gli antichi siti Khmer attualmente esistenti: Angkor, Phnom Kulen e Koh Ker. Il risultato ha rivelato un’imprevedibile urbanizzazione che fra 800 e 1300 si è andata estendendo intorno ai templi, con strade che fuori dalle mura di Angkor Wat componevano una vasta griglia cittadina e una rete di sistemi idraulici e serbatoi che consentiva la prosperità di una fitta e ben organizzata “città espansa”, inclusi dei lunghi argini “a bobina” probabilmente usati per l’agricoltura necessaria a nutrire le sue svariate centinaia di migliaia di abitanti. Uno sviluppo che secondo il gruppo internazionale di archeologi, la cui ricerca è in via di pubblicazione nella rivista
The Proceedings of the National Academy of Sciences of United States of America, può aver contribuito alla decadenza dell’impero Khmer perché, come suggeriscono i risultati del Lidar, la deforestazione legata all’urbanizzazione potrebbe aver aumentato gli elementi di fragilità dell’intero sistema urbano.
Verso il 1300, quando ormai l’impero Khmer si estendeva in buona parte dell’attuale Cambogia, nella Thailandia centrale e nel Vietnam meridionale, gli acquedotti cominciarono a riempirsi di depositi di sabbia. L’analisi degli anelli degli alberi, fatta negli scorsi anni dagli stessi ricercatori, segnala che in quel periodo ci fu un decennio di monsoni molto più violenti del solito abbinati a fasi di siccità. Sono stati i resti di uno sfioratore, componente tipico di ogni canalizzazione, a spingere gli archeologi a tentare la via del Lidar, convinti che li avrebbe aiutati a scoprire le tracce dell’antica città di Mahendraparvata, citata nelle iscrizioni. E con quelle tracce, hanno trovato anche leragioni della sua fine.

Corriere 17.7.13
Islam e Darwin, il sogno possibile
La tradizione scientifica araba alla prova del dubbio e della modernità
di Giulio Giorello


Al-Ma'mun, il califfo di Bagdad, sogna. Gli compare un uomo dalla fronte spaziosa, le sopracciglia folte, gli occhi blu scuro, ormai calvo. L'apparizione declina le proprie generalità: «Sono Aristotele». Il califfo gli chiede cosa sia il bene. «Tutto ciò che giova al popolo», è la risposta. Al-Ma'mun torna a chiedere: «E poi?». Ribatte il filosofo: «Non c'è un poi». Forse è solo leggenda; comunque, l'ossessione del califfo per i libri, in qualunque lingua fossero scritti, avrebbe trasformato «la città della pace», costruita sulle rive del Tigri nel 726 d.C. come centro del nuovo e potente Impero abbaside, in una capitale della cultura paragonabile all'Atene di Pericle. Il nostro sognatore si era dimostrato un politico con i piedi saldamente piantati per terra nella lunga guerra civile che gli aveva permesso di liquidare il fratello, suo rivale. Fin da ragazzo aveva studiato la filosofia e si era rivelato assai competente anche nella grammatica dell'arabo, la lingua del Corano; ma non era digiuno di nozioni di aritmetica, che venivano applicate nella riscossione delle tasse. Gestiva il potere con mano salda, e intanto istituiva «la casa della saggezza», grande istituzione culturale in cui avrebbe chiamato le figure più prestigiose della ricerca religiosa e scientifica. La Casa doveva scomparire solo nel 1258 con l'invasione mongola.
Quest'epopea della «scienza araba» è oggi ricostruita in un bel libro di Jim Al-Khalili, docente di Fisica teorica all'Università del Surrey nonché divulgatore di alto livello per il «Guardian» e per la Bbc. Noto al pubblico italiano per aver discusso novità cosmologiche e paradossi della fisica dei quanti, in questo La casa della saggezza (Bollati Boringhieri), Al-Khalili ci offre il punto di vista di un ricercatore odierno, affascinato dalla nascita di una vera e propria Big Science (secoli prima che gli anglosassoni coniassero il termine), nella posizione di un osservatore dei due mondi: nato a Bagdad, è figlio di madre britannica e di padre sciita di origini persiane, nel cui albero genealogico compare persino un ayatollah. Ha conosciuto l'esperienza di «indesiderabile» al tempo di Saddam Hussein; ma ha trovato conforto nella tradizione di quei pensatori che in tempi lontani avevano fatto la grandezza della sua città natale. E se ha potuto apprezzare i vantaggi delle società aperte dell'Occidente senza trascurarne i difetti, è perché aveva alle sue spalle quella stessa tradizione di tolleranza e libera critica senza la quale la fioritura della «scienza araba» sarebbe impensabile.
«Non dovremmo vergognarci di riconoscere la verità anche se da generazioni precedenti e da nazioni straniere», scriveva al-Kindi (801-873), il primo «filosofo degli arabi». Gli faceva eco idealmente il medico e chimico al-Razi (854-925): troppo spesso la verità è «obbligata a nascondersi» per proteggersi dai fanatici religiosi che «proibiscono la riflessione razionale e si adoperano per uccidere i loro avversari». Più tardi il fisico Abu Ali al-Hasan ibn al-Haytham (noto in Occidente come Alhazen, 965-1039) per difendere le verità della scienza raccomandava di «trasformarsi in nemico di tutto ciò che si legge e applicare la propria mente a qualsiasi contenuto per attaccarlo da ogni lato». Dura autodisciplina, questa del «sospetto»: ma che è ricompensata dal conseguimento della conoscenza, una «delizia» insidiata da quelli che «etichettano le scienze come atee, sostenendo che esse conducano alla perdizione»; costoro lo fanno solo per «mascherare la loro ignoranza», denunciava il matematico, astronomo e geografo al-Biruni (973-1048).
Invece, dalla Bagdad di al-Ma'mun alla Cordoba andalusa, per le menti migliori era proprio l'ignoranza a essere detestata «peggio di un delitto»! Con la morte di al-Ma'mun era cominciata la decadenza di Bagdad; ma il desiderio di capire il mondo non si era spento. Alcuni dei «pionieri del dubbio», di cui sopra si è detto, dovevano prosperare al di fuori dell'esperimento politico degli abbasidi, e persino giovarsi della rivalità tra i diversi centri di potere in cui si era frammentato l'impero. Tutto ciò incrementava l'arte della traduzione in arabo dalle lingue più diverse — il greco come il cinese — e offrire vie di fuga per i «sapienti» ogni volta che si profilava un contrasto con le autorità. La tolleranza non è mai un atteggiamento di facile o sprezzante «benevolenza» nei confronti di chi la pensa diversamente, ma uno strumento concreto per costruire davvero una Big Science, il che vuol dire biblioteche, ospedali, laboratori e osservatori astronomici.
Le storie narrate da Al-Khalili riguardano anche noi. Fu il successo del grandissimo matematico al-Khwarizmi (il «filosofo Algo» degli europei, 780-850) a diffondere anche al di fuori della «comunità dei credenti», l'impiego delle cifre decimali (incluso lo zero), a dare nuovo impulso ad aritmetica e geometria, e a segnare una svolta nella disciplina che doveva diventare universalmente nota come algebra (e il termine algoritmo, oggi così familiare a economisti e informatici, non vi suggerisce niente?). Né andrebbe dimenticato il contributo alla riforma dell'astronomia di Tolomeo intrapreso dagli astronomi dell'osservatorio di Maragha, di cui venne a conoscenza in quel di Ferrara Niccolò Copernico! Come ha messo in luce uno dei maggiori storici della scienza araba, Ahmed Djebbar, in un volume di qualche anno fa dedicato al «patrimonio intellettuale dell'Islam», non bisogna cadere nella trappola dei precursori «arabi» (in senso lato) di Galileo o di Keplero; però, occorre rendersi conto che mai gli europei sono stati nani sulle spalle dei giganti come nel caso degli apporti da un mondo così vicino e allo stesso tempo così lontano come quello dell'Islam, anche se molti preferiscono dimenticare.
Libri come quello di Al-Khalili, invece, spingono noi e loro a ricordare; ogni volta che la libertà della ricerca viene minacciata — in Oriente come in Occidente — servono volontà politica di reagire e comprensione delle modalità dell'impresa scientifica. Vale anche per noi l'augurio finale di Al-Khalili: «Se il mondo islamico ce l'ha fatta una volta, potrà farcela di nuovo»... A sognare Aristotele, o magari Darwin ed Einstein.