martedì 3 settembre 2013

Corriere 3.9.13
Sorpresa, postcomunisti addio
Il Pd si scopre democristiano
di Paolo Franchi


Se e quando Matteo Renzi ed Enrico Letta si affronteranno apertamente per la guida del Pd e (elettori permettendo) del Paese non è dato sapere. Sul fatto che il campo degli aspiranti cavalli di razza del Pd ormai lo occupino loro, invece, molti dubbi non ce ne sono. Sì, cavalli di razza, proprio come mezzo secolo fa, nel lessico democristiano d'epoca, furono definiti, si parva licet, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Perché possiamo anche classificarli genericamente come postdemocristiani (siamo tutti post qualcosa), ma resta il fatto che entrambi nel movimento giovanile dell'ultima Dc, e poi nel Partito popolare, hanno mosso i primi passi e si sono formati. E non nascondono né, tanto meno, rinnegano le loro origini. Anzi. Cronisti frettolosi scomodano, per ricostruirne gli alberi genealogici, Giorgio La Pira e Beniamino Andreatta. Non ce ne sarebbe bisogno. Assai lontani per carattere, cultura, stile comunicativo, e prima ancora per concezione della politica, Renzi e Letta a modo loro incarnano, o per meglio dire reincarnano, due anime assai diverse, ma non per questo irrimediabilmente antagonistiche, di una storia che all'antagonismo ha sempre preferito la conciliazione, magari in extremis, anche tra gli opposti. La storia
di un partito e di un mondo nei quali, fin quando è stato materialmente possibile, le divisioni politiche e personali più aspre e le mediazioni più sofisticate hanno convissuto e si sono inestricabilmente intrecciate. Lasciando sempre con un palmo di naso
chi scommetteva (a sinistra e non solo) sull'insanabilità delle contraddizioni democristiane, e sulla fine imminente dell'unità della Dc.
Il duello (nemmeno troppo a distanza) tra Renzi e Letta basta, o dovrebbe bastare, a dimostrare che politici e commentatori a diverso titolo «nuovisti», trattando in questi ultimi vent'anni la tradizione politica e culturale dei cattolici democratici come un cane morto, hanno preso un colossale abbaglio. Ma la tenuta e la vivacità di questa tradizione, la capacità dei suoi esponenti di ritrovarsi nei momenti che contano (proprio ieri Dario Franceschini ha annunciato il suo voto per Renzi), nonché l'indiscutibile appeal dei contendenti non spiegano davvero tutto. Di mezzo, colossale, c'è la questione della sinistra italiana. O meglio di quel che resta di quella parte (maggioritaria) dei dirigenti, dei militanti e degli elettori fedeli del vecchio Pci che, traversate le stazioni del Pds e dei Ds, ha dato vita da socia fondatrice e da azionista di maggioranza al Pd. Prima o poi bisognerà pure raccontare nei dettagli questa storia. Qui, è sufficiente ricordarne l'esito, a lungo ritardato, a dir poco infausto.
I postcomunisti, che, secondo l'interpretazione più diffusa a destra, nel Pd la avrebbero fatta da padroni, lasciando agli altri soci, postdemocristiani in testa, il ruolo degli indipendenti di sinistra del tempo che fu, hanno clamorosamente perso la partita. Riducendosi progressivamente al rango di forza di interdizione, votata quasi esclusivamente a mantenere nei limiti del possibile le proprie posizioni di potere e le proprie rendite. Come se, accertatisi di aver gettato via il bambino, gli ex ds si fossero preoccupati soprattutto di non lasciar disperdere nemmeno una goccia di acqua sporca del loro passato. Può anche darsi che questo sia, in una certa misura, un cliché che gli è stato incollato addosso. Ma di sicuro non hanno fatto niente per liberarsene, e molto, troppo, per avvalorarlo: da ultimo impiccandosi all'improbabile tesi secondo la quale Renzi potrebbe benissimo governare l'Italia, ma non sarebbe capace di guidare il partito.
Intervistato dalla Stampa, uno tra i più intelligenti e colti tra loro, Gianni Cuperlo, ha voluto polemicamente ricordare a Renzi, sospettato, in caso di vittoria, di voler mandare in soffitta la sinistra interna, che «senza sinistra il Pd semplicemente non c'è». Basterebbe tenere a mente la composizione dell'elettorato democratico per riconoscere a Cuperlo più ragioni di quante comunemente gliene attribuisca la maggioranza dei commentatori: conquistare una quota, anche rispettabile, degli elettori del campo avverso non basta a vincere se, per farlo, si lascia emigrare (verso Grillo, verso Sel, verso l'astensione) buona parte dei propri. Ma, fossimo in Cuperlo e in chi la pensa come lui, terremmo bene a mente che, a portare Renzi a un'imprevista vittoria nelle primarie per la candidatura a sindaco di Firenze, fu soprattutto l'ancora più imprevisto soccorso rosso di militanti ed elettori di antica appartenenza al Pci prima, al Pds e ai Ds poi: desiderosi di sparigliare i giochi, cominciando con il togliersi di torno i gruppi dirigenti tradizionali e i loro candidati. La stessa cosa è avvenuta (in primo luogo, e non è un caso, nelle cosiddette regioni rosse) nelle primarie per la candidatura a Palazzo Chigi. E niente lascia supporre che non si ripeterà ancora, e su scala allargata. Di «morire democristiani» questi elettori non hanno sicuramente alcuna voglia. Di morire d'inedia, facendo da guardiani a un tempio ormai vuoto da un pezzo, probabilmente ancor meno.

La Stampa 3.9.13
Gli ex Ds verso una sconfitta epocale
Popolari, patto per convergere sul sindaco E l’area post comunista resta spiazzata
di Fabio Martini


Ha chiesto di avere una stanza al piano nobile del partito, lo hanno accontentato, ma sottovoce hanno cominciato a chiamarlo il «segretario emerito». L’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani ieri non era nel suo nuovo ufficio nella sede del partito a Sant’Andrea delle Fratte e il piano dei dirigenti, a parte Guglielmo Epifani, era vuoto e silenzioso. Un quartier generale abbandonato non soltanto dal punto di vista fisico. Con lo squagliamento di quasi tutti i notabili ex Ppi, è iniziato ieri un fuggi-fuggi dalla plancia di comando che rende ancora più probabile una grossa novità al piano nobile del Pd: l’insediamento entro la fine dell’anno di Matteo Renzi, un personaggio che ha una formazione totalmente diversa dai leader finora eletti dalle primarie. Nei suoi primi sei anni, il Pd è stato guidato da personalità provenienti dal Pci-Ds e che hanno sempre considerato il partito come l’unico bastione da non cedere mai ad «estranei». Ma ora per la prima volta la «ditta» potrebbe andare in crisi, condannando tutta una storia ad una sconfitta epocale.
Tutto è precipitato nel giro di 48 ore per effetto di due mosse congiunte, una sorta di «patto dei non comunisti» del Pd. Due giorni fa Matteo Renzi si era esplicitamente candidato alla guida del partito, chiudendo ogni illusione del trio Epifani-Bersani-Letta di congelare le Primarie. A quel punto, tra domenica sera e lunedì mattina i tre ex ragazzi del Ppi - li chiamavano le «tre punte di Chianciano» - il presidente del Consiglio Enrico Letta, il ministro Dario Franceschini e l’ex ministro Beppe Fioroni - si sono consultati e, giocando d’anticipo, hanno convenuto: convergiamo su Renzi. Certo, lo faranno con modalità diverse. Fioroni e Franceschini sono usciti allo scoperto con dichiarazioni problematiche, mentre Letta fa sapere che è sua intenzione non addentrarsi nelle vicende congressuali, anche se presto la corrente lettiana sarà in campo. Spalleggiando Matteo Renzi, gli ex Ppi hanno ritrovato unità di intenti. Per dirla con Beppe Fioroni: «Siamo pronti a marciare “core a core” nella stessa direzione... ».
E infatti quella di ieri è stata una giornata di marasma nella plancia di comando del Pd. Fino a ieri il partito era stato guidato dalla triade Bersani-Franceschini-Epifani con l’«appoggio esterno» di Letta. Ieri l’improvviso smarcamento di Franceschini, personaggio protagonista di proverbiali e brusche inversioni di rotta, è lo stesso che appena 37 giorni fa aveva proposto alla Direzione di eleggere il segretario con i soli iscritti, quanto di più anti-renziano sia stato concepito. Uno smarcamento che ha lasciato soli gli ex Ds. Soli e divisi in due aree tra loro conflittuali: da una parte gli amici di Bersani che finora non hanno un candidato alla segreteria, dall’altra «giovani turchi» e amici di Massimo D’Alema, che da tempo sostengono Gianni Cuperlo. Ieri i bersaniani (tra i quali si segnala il «mal di pancia» di Vasco Errani) hanno cercato di aprire un file da tempo messo in sonno: «Perché non convergiamo tutti su Fassina? ». Ma fare del viceministro l’anti-Renzi non è impresa semplice. Fassina ha dato la sua disponibilità ma «a condizione che Gianni si convinca dell’utilità di una candidatura unitaria». Ma Cuperlo, che da tempo parla da candidato, non sembra affatto convinto di questo sacrificio.

Corriere 3.9.13
Congresso già «finito»: ma i bersaniani all’angolo sono tentati da Barca
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Dario, facce Tarzan»: l’ironia si spreca sul web e corre veloce nei corridoi della Camera, dove ieri, dopo la pausa estiva, si sono affacciati i primi parlamentari del Pd.
La propensione del ministro dei Rapporti con il Parlamento a cambiare cavallo e punto di riferimento (all’inizio fu Franco Marini, poi Massimo D’Alema, quindi Walter Veltroni, dopodiché ci fu Pier Luigi Bersani e per penultimo Enrico Letta) fa discutere sia i sostenitori del sindaco di Firenze che i suoi detrattori. I primi temono l’abbraccio mortale dell’apparato, anche se il primo cittadino li rassicura: «Tranquilli, non ci faremo fagocitare». Per questo i renziani incassano il sì di Franceschini, che rappresenta pur sempre la rottura definitiva della vecchia maggioranza che ha tenuto finora le leve del comando, ma lo fanno con prudenza. Spiega Paolo Gentiloni: «Ben vengano certe prese di posizione se possono servire a fortificare il centrosinistra e il Paese, però nessuno punti a una maggioranza interna finta o a fare giochini di potere interni». I secondi, cioè i bersaniani, masticano amaro. Stefano Fassina si lascia sfuggire con un amico un esasperato: «Ma che gli dice la testa a quello?». Mentre l’ex segretario non cela il malumore: «Questo giochino “Renzi sì, Renzi no”, fa male al partito e alla politica».
Del resto, per Bersani è un brutto colpo. È la certificazione che il congresso del Partito democratico è già bello che finito. I pd al governo ne avevano avuto un qualche sentore giorni fa, quando avevano capito che rischiavano di restare fuori da tutti i giochi. Già, Massimo D’Alema è in pole position per la trattativa con il sindaco di Firenze. L’ex premier è pronto anche a stare in minoranza, come ha fatto sapere agli emissari del primo cittadino di Firenze, però è in rapporti non malvagi con il sindaco, che, ovviamente, non potrà non scegliersi degli interlocutori tra gli avversari interni. Per non rischiare Franceschini si è mosso, avvertendo prima Enrico Letta, con cui ha avuto un colloquio sull’opportunità di uscire allo scoperto già adesso. È toccato a lui, perché il premier, per il ruolo che ricopre, non può certo entrare nel dibattito interno al Partito democratico. Ma non può nemmeno stare dalla parte dei perdenti. E visto che tali paiono ormai i bersaniani e gli esponenti della vecchia maggioranza pre-elezioni politiche, meglio defilarsi da quel gruppo e aprire uno spiraglio nei confronti di Renzi. E chi meglio di Franceschini poteva farlo? Il ministro per i Rapporti con il Parlamento rappresenta l’ala governativa del Pd, quella più vicina a Letta, ma le sue mosse non sono automaticamente ascrivibili al premier, il che toglie il presidente del Consiglio dall’imbarazzo di apparire come uno che mette bocca nella dialettica interna al Pd. «Mi raccomando, io non voglio stress sul governo», è la raccomandazione ormai quasi quotidiana dell’inquilino di palazzo Chigi.
I renziani sono sicuri che tra un po’ si affacceranno sulla stessa sponda anche i lettiani, benché non tutti, perché una parte dei sostenitori del capo del governo sembra nutrire una spiccata antipatia per il sindaco di Firenze. Il quale sindaco non sembra poi troppo stupito della piega che stanno prendendo gli eventi in casa democratica. Non dice, come qualcuno dei suoi, che «la festa del Pd si è chiusa domenica e il congresso si è chiuso il giorno dopo», ma ha tutta l’aria di uno che fiuta il clima a lui propenso. «Del resto — è il suo convincimento — loro sanno benissimo che non hanno il quorum per cambiare regole e norme». In effetti, lo sanno talmente bene che Franceschini ha fatto la sua mossa e Beppe Fioroni (fino a qualche tempo fa uno dei più acerrimi nemici del sindaco di Firenze) lascia intendere che potrebbe seguire anche lui l’esempio del ministro per i Rapporti con il Parlamento.
Dunque, il primo cittadino di Firenze ha aperto una breccia nel fronte della vecchia maggioranza del Pd. Eppure i bersaniani non si rassegnano ancora. Ora puntano sul fatto che attorno a Renzi ci sono (quasi) solo ex Dc, nella speranza di resuscitare l’orgoglio diessino. A questo scopo sarebbero disposti a sostenere la candidatura di Cuperlo con Massimo D’Alema. Con un retropensiero: contro Renzi e contro Letta, che sembra aver lasciato le sponde della vecchia maggioranza, gli ex Ds potrebbero trovare un candidato comune alle prossime primarie per il premier, Fabrizio Barca.

Repubblica 3.9.13
Pd, un terremoto scuote le correnti gli ex pci non controllano più la “ditta”
Bersani verso il sostegno a Cuperlo. Marini rompe con Areadem
di Giovanna Casadio


ROMA — Per capire lo choc in casa democratica, bisogna andare indietro di quattro anni, quando Dario Franceschini tifava per Lapo Pistelli a Palazzo Vecchio e invece il “rottamatore” Renzi - allora senza ambizioni di leader nazionale - vinse a man bassa e diventò sindaco di Firenze. E chi l’avrebbe detto che il cattolicodemocratico Franceschini avrebbe proprio lui aperto la breccia renziana alla scalata del Pd? È uno scossone, qualcuno parla di terremoto. Non solo perché scompagina le correnti del partito e rompe una maggioranza interna bersanian- franceschiniana-lettiana consolidata, ma soprattutto perché, per la prima volta, gli ex comunisti rischiano di perdere il controllo della “ditta”. Renzi, il cattolico ex Margherita, è superfavorito. A contendergli la segreteria per ora sono in tre - il dalemiano Gianni Cuperlo, l’outsider Pippo Civati, Gianni Pitella - che messi insieme, dice Beppe Fioroni, non fanno il 20% di consensi.
A restarci male, anzi malissimo, è Pierluigi Bersani. Ancora davanti ai primi lanci di agenzia, il bersaniano Nico Stumpo nicchiava: «Vediamo, non dice proprio che appoggia...». Il punto è che dopo la sfida delle primarie del 2009 (in cui Bersani batté Franceschini e diventò segretario), i due, entrambi emiliani, si erano presi bene. In nome della mescolanza delle culture di provenienza - comunista l’uno, democristiano l’altro - hanno costruito un buon tratto di Pd. Insieme con Enrico Letta. Il premier èstato informato dell’endorsement che l’amico ministro stava per compiere. Pare abbia dato il placet e i lettiani, pur restando per ora alla finestra come il loro presidente del Consiglio, si adegueranno. Ovvio che poi nulla è pacifico come lo si racconta.
Basta zoomare sulla stessa corrente di Franceschini, Areadem, per trovare uno sfarinamento. Franco Marini, storico leader dei Popolari, che in Franceschini ha avuto il suo pupillo, è poco convinto. Renzi ha offeso Marini (e non l’ha votato per il Quirinale) e Marini ha picchiato duro contro Renzi. Avvisaglie di avvicinamento comunque c’erano. Antonello Giacomelli, franceschiniano, una settimana fa aveva annunciato di appoggiare il renziano Dario Parrini per la segreteria toscana del partito. Ma nel rimescolamento delle carte a perdere pezzi sono i bersaniani. Bersani ha cercato un candidato anti Renzi che raccogliesse un’ampia maggioranza interna. Non lo ha trovato e ora, se non vuole rimanere isolato, darà i suoi voti a Cuperlo. Fino a qualche settimana fa, i bersaniani avevano tentato di convincere Cuperlo a fare un passo indietro; avevano anche saggiato l’ipotesi di gettare nella corsa Stefano Fassina; avevano ipotizzato la candidatura di Letta prevedendo una fine imminente della legislatura. Una costola bersaniana, guidata dal segretario emiliano Bonaccini, è diventata renziana. Cuperlo, che ha in D’Alema e nei “giovani turchi” i suoi sponsor, corteggia da tempo Bersani. La sinistra ex Pds-Ds si ricostituirebbe in una minoranza.
Ma quanto è contento Renzi dell’abbraccio dei big? Molto poco: «Non mi imprigioneranno...», ha ripetuto. Il “rottamatore” sa che la sua forza sta nella lontananza dalla nomenklatura, e tuttavia se vuole guidare il partito ha bisogno di alleanze. Da tempo i renziani denunciano il pericolo che «tanti nel Pd per opportunismo vogliano salire sul carro di Matteo». Dario Nardella avverte: «Non è che oltre la rottamazione c’è il riciclaggio, Matteo non farà mai accordi, patti alla vecchia maniera ». E’ a un Pd federale che Renzi pensa. Infine c’è Rosy Bindi, che oggi scioglierà la riserva e indicherà il suo candidato alla segreteria. Fioroni parla di «candidato unico, se Renzi ha l’80% non ce ne sono altri...». Però un abbraccio tra Fioroni e Renzi è assai complicato, e Fioroni sarebbe sul punto di passare dall’altra parte, con i profughi del Pdl e i centristi, quando lo scacchiere politico si sarà del tutto scompaginato. Cautela di Alessandra Moretti e del gruppo dei “non allineati”. Ironie del “turco” Orfini («Rivoluzione Renzi con Franceschini, Fassino, Fioroni, Veltroni, Bettini... bel congresso»); impegno di Civati: «Contrasterò le larghe intese dc-Renzi».

l’Unità 3.9.13
Sarà sfida Renzi-Cuperlo
Franceschini: sostegno al sindaco. Il fronte anti-renziano si organizza: Gianni il nostro candidato
In campo anche gli outsider Pittella e Civati
Il fronte anti-renziano converge su Cuperlo
di Simone Collini


Gianni Cuperlo non ci pensa a farsi da parte: «Un passo indietro? Assolutamente no. Sto girando le Feste, ho presentato le mie Note. Sono e resto candidato». Ed è attorno a lui che si sta organizzando il fronte antirenziano. Non ci saranno infatti altri candidati in campo, oltre a quelli che già si sono fatti avanti. E se il sindaco di Firenze trova nuovi alleati nell’area degli ex-Popolari, con però significative eccezioni, sulla candidatura sostenuta in principio da dalemiani e cosiddetti giovani turchi sono pronti a convergere anche i bersaniani.
La preoccupazione è che il prossimo congresso del Pd riproduca una linea di frattura tra ex-Ds ed ex-Margherita, ma proprio per evitare questo rischio si sta già lavorando per allargare il fronte dei sostenitori di Cuperlo a settori e personalità del mondo cattolico. E nel giorno in cui Dario Franceschini e Beppe Fioroni si schierano con Renzi, non passano inosservati i silenzi di Rosy Bindi e di Franco Marini, che presto spiegheranno perché non appoggeranno la candidatura del sindaco fiorentino (l’ex presidente del Pd lo farà oggi dalla Festa di Genova).
Il congresso ufficialmente si apre con l’Assemblea nazionale del 20 e 21, che dovrà approvare le regole e indicare le date dei congressi locali e di quello nazionale (l’indicazione è per domenica 24 novembre, anche se i tempi tecnici necessari allo svolgimento delle assise territoriali potrebbero provocare uno slittamento di una settimana, spiegano al quartier generale del Pd). Ma di fatto gli schieramenti si completeranno già prima di quell’appuntamento, con novità di non poco conto. Stefano Fassina, uno degli autori del documento «Fare il Pd», in cui si critica l’ipotesi di una torsione personalistica del partito, spiega che nei prossimi giorni ci sarà un incontro di quanti hanno appoggiato quell’impostazione per decidere come andare avanti: «Continuiamo a sostenere le nostre tesi e a breve sceglieremo a chi affidare la nostra riflessione», anticipa il viceministro dell’Economia. «Di certo la nostra linea è diversa da quella di Renzi, che non è adeguata ad affrontare le sfide che abbiamo di fronte».
Di certo c’è però anche che presentare un’altra candidatura, oltre alle quattro già in campo (accanto ai due principali sfidanti ci sono Pippo Civati e Gianni Pittella), servirebbe a poco. Sarebbe invece più opportuno, è il ragionamento che si fa a questo punto nel fronte bersaniano, provare ad allargare il fronte dell’unico candidato che può giocare la partita contro Renzi. «Il documento presentato da Cuperlo merita di essere preso in considerazione», dice non a caso il responsabile Organizzazione Davide Zoggia, che tra le altre cose apprezza il fatto che il deputato triestino abbia messo al centro del ragionamento il ruolo del Pd: «È una piattaforma che inquadra bene ciò che deve fare il prossimo segretario, quel che si deve fare per rilanciare il partito, perché è di questo che si deve occupare il nostro congresso, non di chi debba essere il candidato premier».
IL GELO DELL’EX SEGRETARIO
Lo stesso Pier Luigi Bersani ha commentato con freddezza l’uscita di Franceschini a sostegno di Renzi. Di fronte a chi gli ha riferito le parole del ministro per i Rapporti col Parlamento, l’ex segretario ha mostrato un certo stupore: «Prima di sostenere qualcuno alla segreteria del Pd bisognerebbe sapere che idee ha in testa sia del partito che dell’Italia. E io, sinceramente, ancora non l’ho capito quali siano». Ma c’è anche un’altra cosa che non convince Bersani, vale a dire il ragionamento fatto da Fioroni, secondo il quale «in un congresso in cui c’è un candidato che rappresenta l’80% e altri candidati che faticano tutti insieme a dividersi il 20%, bisogna prendere atto che c’è un solo candidato». L’ex segretario del Pd un po’ ironizza, parlando di «bella svolta sovietica di Fioroni sul candidato unico», un po’ fa sapere che «non sarà così», che non ci sarà cioè soltanto un candidato forte in campo. E per rafforzare la candidatura di Cuperlo, per evitare che appaia come rivolta più al passato ex-diessino che al futuro del Pd, si sta già lavorando per allargare il fronte dei suoi sostenitori ad esponenti del mondo cattolico e agli ex-popolari che non intendono appoggiare Renzi come Bindi e Marini, con iniziative ad hoc fissate in agenda per le prossime settimane.
Chi comunque non si preoccupa dei nuovi endorsement per Renzi è Matteo Orfini, che insieme agli altri cosiddetti giovani turchi ha sostenuto dall’inizio la candidatura di Cuperlo. «Sarà più difficile raccontarsi come innovatori imbarcando il “disastro”, il “vicedisastro” e tutta la compagnia», dice il deputato del Pd riprendendo il modo in cui Renzi aveva definito Veltroni e Franceschini dopo l’elezione di quest’ultimo a segretario del Pd. Le dichiarazioni di sostegno arrivate da più parti nei confronti del sindaco fiorentino possono insomma risultare anche controproducenti. Ironizza Orfini via twitter: «Dunque Renzi vuole “rivoluzionare” il Pd insieme a Franceschini, Fioroni, Veltroni, Bettini, Fassino. Sarà un congresso divertente».

l’Unità 3.9.13
Enrico Rossi
«No ai personalismi, la sinistra deve trovare l’unità»
«Serve un segretario a tempo pieno. Sarebbe più appropriato se Renzi si candidasse come premier In questo caso anche io lo potrei sostenere»
«Sosteniamo Cuperlo ha le idee più forti per rilanciare il Pd. Spero che Civati ci ripensi»
intervista di Osvaldo Sabato


«Vedo un ricompattamento su Renzi di molte correnti post democristiane» osserva Enrico Rossi. «L’acqua corre e il sangue tira» aggiunge il presidente della Toscana, ricordando un vecchio proverbio per fotografare quanto sta accadendo nel Pd.
Dopo la candidatura del sindaco di Firenze alla segreteria nazionale dei democratici e il sostegno di Dario Franceschini e le parole di Beppe Fioroni «ora c’è un solo candidato», Rossi chiede alla sinistra del partito di unirsi attorno al nome di Gianni Cuperlo.
Come in una sorta di risiko il presidente toscano si schiera contro le mosse degli ex popolari. «Franceschini rompe un dialogo che c’era e profila un dibattito congressuale fra gli ex popolari, che convergono sul sindaco di Firenze, e chi cerca soluzioni diverse» spiega Rossi.
Presidente, Renzi si è candidato alla segreteria nazionale del suo partito. La corsa è già iniziata.
«Ribadisco che il suo è un errore, perché il partito avrebbe avuto bisogno di un segretario a tempo pieno, Renzi questo non potrà e non vuole garantirlo. Mentre avrebbe potuto, come ho sostenuto altre volte, fare in modo più appropriato il candidato premier. In questo caso io stesso, e molti altri a sinistra come me, lo avremmo sostenuto».
Ma il sindaco vuole il Pd e per centrare l’obiettivo intende sfruttare fin da subito l’onda lunga della sua popolarità. «Non c’è dubbio che sia attrattivo. Dopodiché bisogna fare il congresso e mi pare che a questo punto per la sinistra del partito si ponga il problema di trovare rapidamente un punto di unità e convergenza».
Il nome giusto da contrapporre a Renzi è Cuperlo?
«La mia opinione è che si tratti della persona giusta. È sceso in campo, sta combattendo, ha prodotto un documento che trovo di grande interesse. Poi questa rappresentazione di un congresso che non c’è perché comunque c’è un candidato vincente, che ci propone Repubblica, giocando quasi come azionista di riferimento del Pd, mi pare che sia stucchevole. Quel giornale dopo essere stato contrario a Renzi adesso si è schierato a favore e vuole dare una rappresentazione falsata del dibattito all’interno del Pd. Alla segreteria nazionale sono candidati anche Cuperlo e Civati, anche se mi auguro che Civati possa ripensarci e ridiscutere la sua candidatura».
Lei chiede alla sinistra di non disperdere i propri voti?
«Mi auguro che trovi un punto di riferimento e converga su un nome. A mio parere questo nome è Cuperlo». Ma per Fioroni ora c’è un solo candidato ed è Renzi.
«Sono valutazioni che fanno Fioroni e molti commentatori di Repubblica, che pensano di poter dettare la linea politica del Pd».
Qual è l’errore da evitare in questa fase pre congressuale?
«Attenzione a non avere anche noi una deriva plebiscitaria di carattere personalistico».
Lei vede questo rischio?
«Sento nelle parole di Renzi profondamente questo pericolo».
Per esempio?
«Quando dice che non ci saranno più correnti. Siamo tutti favorevoli al fatto che non ci siano più. Però per primo dovrebbe essere Renzi stesso a sciogliere la sua, che notoriamente presidia l’Italia per cercare adepti, presidia la vicenda politica con un profilo assolutamente autonomo anche rispetto al partito».
Ma il sindaco non perde occasione per dire che i renziani non esistono. «Ognuno può dire quello che vuole. È l’evidenza dei fatti quella che conta ed è difficilmente contestabile. Ripeto: io starei molto attento a questa deriva plebiscitaria e personalistica del nostro partito. Le correnti possono essere luoghi di potere e di spartizione di poltrone, oppure possono essere aree culturali, io mi auguro che quest’ultime ci siano dentro un partito plurale, quale dovrebbe essere il nostro».
Se Renzi diventa segretario che succede nel Pd. Qualcuno parla di un pericolo scissione?
«Io credo che un po’ di saggezza nella guida di un partito che è l’unico a non avere un nome nel suo simbolo, consiglierebbe una rappresentazione plurale della leadership, altrimenti il pericolo è che ci sia un’emorragia silenziosa e che alla fine, colpo, dopo colpo, si vada anche a un mutamento del Dna del Pd e non penso che sia auspicabile. Esiste un popolo di sinistra che è attaccato alla sua storia e il Pd a rappresentarlo».
Ma quanta sinistra c’è in Renzi?
«Lui non appartiene alla storia della sinistra. Pur essendo giovane è nota la sua origine. Questo non significa che non possa candidarsi alla presidenza del Consiglio. Renzi ha molte doti, ma non si può dire che sia di sinistra, nel senso che intendiamo noi: una sinistra che cerca di uscire dal guscio bleriano, che torni a essere critica con il capitalismo, per ricostruire una speranza per cambiare. E questa sinistra, non mi pare che possa essere rappresentata da Renzi».
La sua strategia a questo punto è chiara: tentare la scalata a Palazzo Chigi da segretario.
«Non gli conviene. Lo abbiamo già visto con Veltroni e Bersani e sappiamo come è andata a finire».

La Stampa 3.9.13
Civati lancia la sua scuola politica a Firenze
di A. Mala.


Ora, ci sono molti modi per farsi un comitato elettorale e Pippo Civati ha scelto il suo. Vuole la segreteria del Pd. Perciò si è studiato un sistema. Che lancia sabato. A Firenze. Casa di Renzi. L’ha chiamato «Civoti? ». Cioè: mi voti? Un gioco. «Di più: un giocattolino formidabile». Ma solo dialettico. Nella sostanza lui, Civati, è serissimo. Non ci credono in tanti che vincerà. In ogni caso si è fatto la squadra. Larga. E adesso la porta a scuola.
Come funziona il «giochino formidabile»?
«È una giornata di formazione per i volontari che sosterranno la mia candidatura. Con una divisone in corsi differenti a cui i partecipanti potranno iscriversi. Aule, lavagne, istruzioni pratiche. Formazione vera e propria». Lezioni di civatismo, a metà strada tra il porta a porta e il domani 2.0. Che partito vogliamo? Che Italia immaginiamo? Che alleanze cerchiamo? A chi ci rivolgiamo? Quali sono le nostre differenze? «Andremo tutti alla struttura pubblica delle Murate, è lì che faremo i corsi».
Si inizia alle 10. Termine delle lezioni alle 18. «Ci troviamo a Firenze perché è facile da raggiungere, perché è nel cuore di una regione in cui il Pd è forte. E perché il sindaco è Renzi, certo». Una sfida, più che una provocazione.
C’è voluta l’estate per mettere assieme il gruppone elettorale. Una sorta di ricerca larga nelle sedi di partito. «Ci credi nel mio progetto? ». Pesca a strascico lungo la penisola, per guardare in faccia gli amici. «Organizzazione scientifica, strumenti efficaci e contenuti chiari: questi sono gli strumenti di cui i volontari devono essere in possesso per affrontare al meglio il congresso». Obamismo alla milanese. Un percorso fatto di «team building» e «Summer school». Dove porta lo si capirà tra qualche mese. Intanto si fa questa festastudio sotto lo studio del rivale numero uno. Davvero esiste solo Renzi?
«Abbiamo raccolto molte migliaia di nominativi di elettori e militanti disposti a dare un contributo a questa campagna. Abbiamo coperto ogni regione. Ogni federazione. Ogni circolo. Perché è anche così che si affronta un congresso di partito». Il suo esercito, dice. E un’ombra di sorriso gli aleggia sugli angoli delle labbra, come dopo un viaggio portato a termine nonostante i capricci del tempo.

Corriere 3.9.13
I militanti contro Fassina e Violante


Le proteste dei militanti si sono fatte sempre più accese. Fino a interrompere Luciano Violante e il viceministro Stefano Fassina (foto ), che ieri partecipavano a un dibattito alla Festa pd di Torino. Incalzati dal pubblico, i relatori hanno deciso di cedere il microfono per ascoltare la contestazione. «Berlusconi non dobbiamo difenderlo noi», hanno detto i militanti. E ancora: «Il Pd non deve subire i ricatti del Pdl» (ma le critiche hanno toccato anche altri temi, come il finanziamento ai partiti). «Noi siamo forti se applichiamo la legalità anche al nostro peggiore avversario», è stata la risposta di Violante. Mentre Fassina, ricordando che «la linea del partito è chiara», ha avvertito: «Attenzione a parlare di elezioni».

Corriere 3.9.13
I ministri pdl alla Festa democratica


Con Gaetano Quagliariello, che ha parlato di «cittadini e istituzioni, un rapporto da ricostruire» e Beatrice Lorenzin (nella foto Inside) , protagonista di un panel sul «valore del benessere», i ministri pdl del governo delle larghe intese hanno fatto il loro debutto alla Festa democratica di Genova. Quagliariello si è confrontato con Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, e Alfredo D’Attore, responsabile Riforme del Pd, sui temi della legge elettorale e dell’assetto istituzionale. Domani toccherà a Maurizio Lupi, titolare delle Infrastrutture, salire sul palco della festa del Pd in un incontro sul valore della crescita sostenibile con la governatrice del Friuli Debora Serracchiani.

l’Unità 3.9.13
Tagli dolorosi per «pagare» l’Imu
di L.V.


MILANO Non è stato semplice raggiungere l’accordo politico che ha portato al decreto per cancellare la prima rata dell’Imu. Ma ancora più difficile potrebbe rivelarsi trovare le risorse necessarie per coprirne il mancato gettito e incassare le prevedibili polemiche, dati gli ipersensibili capitoli di spesa su cui incombono i tagli destinati a finanziare il provvedimento, che complessivamente costerà due miliardi e mezzo di euro: occupazione, trasporti, efficienza energetica, sicurezza e lotta all’evasione fiscale.
I tagli lineari ai consumi intermedi e agli investimenti fissi colpiranno quasi tutti i ministeri, con l’importante eccezione della scuola e dell’università, e dovrebbero sfiorare la quota di un miliardo di euro (per l'esattezza le risorse sottratte ai dicasteri centrali ammonterebbero a 975,8 milioni). Circa 675 milioni di euro dovrebbero arrivare dalla riduzione della spesa già autorizzata di un ampio ventaglio di precedenti leggi e decreti legge, con tagli mirati ad alcune voci ormai considerate non più prioritarie (o meno monitorate dai riflettori dell’opinione pubblica), la cui gestione è affidata soprattutto al ministero dell’Economia guidato da Fabrizio Saccomanni.
Ad essere tartassato sarà, in particolare, il comparto del trasporto pubblico, colpito dal definanziamento per 300 milioni di euro dello stanziamento autorizzato dalla vecchia legge finanziaria del 2006 per gli investimenti sulle infrastrutture relativi alla rete ferroviaria. E non meno doloroso sarà sottrarre 250 milioni di euro al fondo per l’occupazione, che pure richiederebbe ben più risorse di quelle di cui dispone attualmente per affrontare l’ennesimo autunno di crisi economica e di contrazione del mercato del lavoro (in Italia il tasso di disoccupazione è arrivato al 12%, percentuale che per i giovani sale al 39%). Tanto più che le parti sociali già adesso lamentano che il decreto sull’Imu recentemente approvato dal governo abbia sottratto «risorse che sarebbero state meglio impiegate per misure più efficaci per il rilancio delle imprese e il sostegno dei lavoratori», come si legge nel documento unitario siglato ieri da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil.
Secondo le prime ipotesi al vaglio di via XX Settembre, saranno prelevati 300 milioni alla disponibilità della cassa di conguaglio del settore elettrico per finanziare l’efficienza energetica e le rinnovabili. Sarebbe poi previsto un taglio ai fondi per le assunzioni finalizzate alla sicurezza, pari a 55 milioni di euro, che erano previsti dalla manovra estiva del 2008 per assunzioni nelle Forze dell'Ordine in relazione ad «esigenze connesse alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione ed al contrasto del crimine». In vista anche una riduzione delle risorse per rimpinguare gli ispettori in lotta contro l’evasione: si tratta dei 20 milioni stanziati nel 2003 per le assunzioni di nuovo personale all’Agenzia delle Entrate e dei 10 milioni che erano stati destinati al fondo per incentivare la mobilità e le trasferte del personale che combatte i contribuenti meno fedeli, il lavoro nero, il gioco illegali e le frodi fiscali. Ed altri 35 milioni di euro arriveranno dall’Anas.

l’Unità 3.9.13
Stefano Fassina
«Le abitazioni di maggior valore vanno tassate»
Il viceministro dell’Economia riconosce la correttezza delle critiche delle parti sociali al governo in merito all’operazione sull’Imu
«Non si possono premiare gli interessi della rendita e trascurare quelli
della produzione»
intervista di Luigina Venturelli


Un pungolo affinché l’azione dell’esecutivo Letta si prepari ad una legge di Stabilità più attenta alle forze produttive e meno a quelle della rendita. È quanto dovrebbe diventare il documento unitario delle parti sociali, non solo negli auspici dei suoi sottoscrittori, ma anche in quelli dell’anima democratica del governo stesso. A cominciare dal viceministro all’Economia Stefano Fassina. Come giudica l’iniziativa unitaria di Cgil Cisl, Uil e Confindustria per dettare al governo gli obiettivi da perseguire in vista della ripresa?
«Già nei mesi scorsi i sindacati confederali, l’associazione degli industriali e tutte le altre forze sociali avevano dimostrato piena consapevolezza della delicata fase che il nostro Paese sta affrontando. Ed oggi, dopo l’accordo sulla rappresentanza e democrazia nei luoghi di lavoro, hanno confermato di essere degli attori imprescindibili per riportare l’Italia sulla via della crescita e dello sviluppo economico. Da questo punto di vista mi sembra molto importante il riconoscimento della governabilità come valore da difendere».
Purché, si legge nel documento, la governabilità porti a soluzioni ai problemi reali del Paese.
«Certo senza stabilità non è possibile per la politica elaborare risposte
efficaci alle esigenze degli italiani. Le parti sociali hanno dimostrato di saper svolgere quella funzione generale che guarda all’interesse di tutto il Paese e che va oltre la rappresentanza degli interessi specifici di categoria. Con buona pace di chi in questi anni li ha dipinti esclusivamente come soggetti corporativi».
Non le sarà sfuggita, però, la frecciata sull’ultimo decreto del governo e sulle risorse che sarebbero state meglio impiegate per il rilancio delle imprese e il sostegno dei lavoratori.
«Una frecciata corretta e meritata. Una frecciata inevitabile da parte di chi assume ad obiettivo della propria azione le vere priorità del Paese, senza sventolare bandierine propagandiste e classiste. Nel decreto siamo dovuti arrivare ad un compromesso politico complessivamente utile, ma che pure contiene parti sbagliate nel sottrarre risorse a investimenti e occupazione per cancellare l’Imu anche alle case di maggior valore. Spero che questo intervento di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria aiuti il presidente Letta e il Partito democratico ad affermare con forza ciò che è davvero importante realizzare per il bene dell’Italia».
Da dove cominciare?
«Dalla revisione delle politiche fiscali di cui parla il documento delle parti sociali, per ridurre il carico sul lavoro e sulle imprese. Si potrebbe reintrodurre la deducibilità dell’Imu per le imprese, finanziandola con il ripristino dell’Imu su quel 5% di abitazioni di maggior valore. Così si arriverebbe a risparmiare un miliardo di euro».
Ma come? Il dibattito intorno alla revisione dell’Imu si è appena concluso, e già si annunciano polemiche roventi per le coperture finanziarie al decreto che potrebbero arrivare anche da tagli ai fondi per l’occupazione.
«Per questo spero che l’impulso dato dalle parti sociali con questo documento unitario consenta di rimettere in ordine le priorità, che stanno tutte dalla parte dei fattori produttivi e non da quella delle rendite. Non a caso c’è anche Confindustria tra i firmatari del testo».
Industriali e Cgil, Cisl e Uil invocano anche una cabina di regia nazionale sulle crisi d’impresa.
«Mi sembra una proposta condivisibile. I segni di ripresa sono reali e innegabili, ma vanno sostenuti in modo adeguato. Non illudiamoci: senza una correzione delle politiche economiche a livello europeo che abbandoni l’obiettivo dell’austerità cieca perseguita finora, il mondo della produzione e dell’occupazione non riusciranno a recuperare il terreno perso e rimarranno invischiati nella spirale perversa della recessione».
Le parti sociali intervengono anche nel campo più propriamente politico, invocando la revisione degli assetti istituzionali e la messa in efficienza della spesa pubblica.
«Senza un meccanismo decisionale adeguato, del resto, è difficile adottare le buone politiche economiche di cui l’Italia ha estremo bisogno. Il che significa, tra l’altro perseguire il superamento del bicameralismo perfetto, la creazione di una Camera delle autonomie regionali, e il cambiamento della legge elettorale per restituire voce ai cittadini nella scelta dei loro rappresentanti». Sembra così che il documento delle parti sociali guardi anche oltre il governo Letta.
«Il documento guarda a tutte le priorità di questa fase, che non sono solo economiche e sociali, ma anche istituzionali e costituzionali».

Repubblica 3.9.13
Il viceministro dell’Economia, Fassina: sui conti pubblici c’è poca demagogia da fare
“Compromesso a favore del Pdl ma altri tagli erano impossibili”
Il vice premier Alfano ha parlato di decreto senza tasse? Non aveva letto il testo che non è tax free“ „
L’Iva? Aver dato priorità all’Imu rende il raggiungimento dell’obiettivo più complicato
Stefano Fassina è stato responsabile Economia del Pd
di Luisa Grion


E’ stato un compromesso, un «utile compromesso»: ma se il decreto sull’Imu «non è tax free» e «rispecchia alcune priorità che sono del Pdl e non del Paese», va anche detto che sui conti pubblici «c’è poca demagogia da fare». Per Stefano Fassina, viceministro dell’Economia, «la situazione è difficilissima e solo chi non conosce il bilancio dello Stato può dire che ci sono facili risorse da recuperare».
Ma l’abolizione dell’Imu rischia di far sì che il carico fiscale aumenti e che la Service tax sia più pesante della vecchia imposta.
«Non è così, anche perché il decreto non definisce le modalità della Service tax e le esercitazioni di calcolo che si vedono un giro sono teoriche. C’è l’impegno del governo a riequilibrare la varianza di gettito spettante ai Comuni, a rispettare i vincoli di invarianza fiscale per gli inquilini e ad evitare che quel 25 per cento di popolazione che non versa l’Imu si trovi a dover pagare di più. Il decreto affronta la copertura per la prima rata e lo fa prevalentemente con interventi una tantum, come l’aumento del gettito Iva prodotto dal pagamento dei crediti alle imprese e la sanatoria sulle slot machine ».
E il taglio alle detrazioni sulle polizze vita, e quindi l’aumento dell’Irpef versata, cos’è se non unbalzo di pressione fiscale?
«Ho letto pagine di eccitati commenti sulle 270 voci di detrazione cui bisognava mettere mano, ma intervenire sulle agevolazioni fiscali che danno gettito vuol dire intervenire sulla carne viva. E’ stata fatta una scelta, toccando una delle voci meno dolorose. Qual era l’alternativa? Togliere le detrazioni sul carico fiscale o sulla prima abitazione, sulla sanità e sui ticket. La situazione è difficilissima e anche l’informazione - consapevolmente o inconsapevolmente - fa demagogia quando parla con facilità dei tagli da fare. Dietro quei numeri ci sono persone e imprese».
E non è stato demagogico il governo
quando ha detto che il decreto sarebbe stato «tax free»?
«Alfano non aveva letto il testo. Il decreto non è tax free».
Parliamo allora di Iva: lei ha detto che ora l’aumento sarà inevitabile.E così?
«E’ chiaro che vogliamo evitarlo, ma è altrettanto chiaro che aver dato priorità al taglio dell’Imu per il 10 per cento delle abitazioni di maggior valore, con i conseguenti 2 miliardi di costo, rende il raggiungimento dell’obiettivo più complicato ».
Che fare?
«Rivedere quel passaggio. Per esempio basterebbe reintrodurre l’Imu sul 5 per cento di quelle abitazioni per recuperare un miliardo di risorse da destinare alla deducibilità dell’Imu per le imprese. Anche questo sarebbe un messaggio importante da dare: fra rendita e produzione va privilegiata la seconda».
Lei darà battaglia su questo punto?
«Ora è il Parlamento che deve decidere, ma troverei singolare che in una fase come questa non si scelga di dar sostegno alla ripresa economica».
I fondi per gli esodati sono stati sforbiciati, dai 700 milioni annunciati in conferenza stampa ai 583 effettivi; quelli per la contrattazione di secondo livello anche. Che cosa è rimasto di sinistra in questo decreto?
«Non c’è stata alcuna riduzione di fondi sugli esodati: quelli necessari per tutelare i 6.500 di cui si parla sono stati stanziati, in conferenza stampa era stata fornita una cifra approssimata. Quanto alle risorse per il secondo livello, va detto che sono stati utilizzati fondi non spesi per quest’anno e che per l’anno prossimo saranno ripristinati. Togliere l’Imu è stato un messaggio forte, la Service tax che la sostituirà sarà equa perché contiene una componente patrimoniale. Nel decreto c’è la cig in deroga e c’è l’intervento sugli esodati. Si è trattato di un utile compromesso, anche se riflette in parte priorità del Pdl che non sono priorità del Paese».

l’Unità 3.9.13
Dario Stefàno
Alla fine della prossima settimana il sì o il no alla relazione Augello
Il ricorso alla Corte costituzionale? Possibile, ma non per questo fondato
«Decadenza, niente scappatoie decideremo in tempi rapidi»
di Vladimiro Frulletti


Berlusconi ha certamente diritto a difendersi, ma la decisione sulla sua decadenza dovrà essere presa in tempi «ragionevolmente rapidi» senza «scappatoie elusive». Lo assicura il presidente della giunta delle elezioni e delle immunità del Senato, Dario Stefàno, di Sel. Presidente, domani si riunisce l’ufficio di presidenza, poi lunedì prossimo ci sarà la prima seduta. A quando la decisione? «Non conosco ancora la proposta del relatore, ma ritengo ragionevole che la giunta si possa esprimere, per approvarla o respingerla, entro la fine della prossima settimana».
Per il presidente Violante va garantito il diritto di Berlusconi a difendersi. Per lei? «La giunta ha condiviso all’unanimità, e sin da subito, l’idea di coordinare l’imperativo della immediatezza con le invalicabili prerogative difensive che, io e la giunta stessa, vorremmo fossero sempre riconosciute a tutti i parlamentari, autorevoli e meno autorevoli che siano. Allo stesso modo va raccolto l’autorevole invito del Presidente Napolitano a rispettare con serietà le decisioni definitive della magistratura. Tuttavia, non credo che abbia giovato alla serenità del futuro dibattito in giunta, al libero svolgimento delle funzioni di relatore del senatore Augello ed alla stessa indipendenza della difesa del senatore Berlusconi il fatto che ogni giorno siano annunciate, spesso sulla stampa e quindi al di fuori dei luoghi deputati, possibili idee risolutive, brillanti scenari tattici oppure scappatoie elusive in giuridichese».
Se Berlusconi chiederà di essere ascoltato cosa farete?
«Per ascoltare il senatore Berlusconi le ipotesi procedurali sono due: la giunta può deliberare, ai sensi dell’art. 13 del regolamento per la verifica dei poteri, la attivazione di un Comitato inquirente, che poi procede all’audizione; oppure può deliberare la contestazione dell’elezione, procedura che, nel passaggio immediatamente successivo, prevede l’intervento diretto delle parti».
La Giunta non dovrebbe semplicemente prendere atto che un senatore è stato condannato a 4 anni per frode fiscale e quindi chiedere che il Senato ne tragga le dovute conseguenze? Non rischiate altrimenti di fare un processo a un processo oramai concluso? Di diventare, insomma, un quarto grado di giudizio?
«Non è questo il senso dell’esame della giunta che, invece, secondo l’art. 66 della Costituzione, dovrà valutare le conseguenze giuridiche sullo status del senatrore Berlusconi della sentenza di condanna definitiva. Non si tratta certo di commentare in positivo o in negativo la sentenza, il cui merito è estraneo alla nostra competenza».
Violante ritiene che la Giunta possa decidere di rinviare alla Corte Costituzionale la questione dell’eventuale non retroattività della legge Severino. Lei che ne pensa? «In realtà l’onorevole Violante ha detto di ritenere ammissibile la richiesta, anche nell’ambito dei diritti della difesa del senatore Berlusconi che l’ha sollevata, ma non di reputarla fondata nel merito».
Il senatore Augello potrebbe porre la questione. Che succederebbe?
«Occorre attendere la proposta del relatore per capire se ed in quale fase intenderà porla. Anche questo avrà una sua rilevanza ai fini della sua ammissibilità».
Berlusconi ha annunciato l’intenzione di ricorrere alla Corte europea dei diritti umani. In quel caso tutto si bloccherà?
«Sotto il profilo formale non vi è alcun obbligo procedurale di attendere la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo che, tra l’altro, presumibilmente arriverà tra qualche anno. E comunque non potrà riguardare la decadenza, perché si tratta di misura non ancora adottata. Semmai solo dopo la pronuncia del Senato questo aspetto potrà essere valutato a Strasburgo».
Visto che ,come ha sentenziato la Cassazione, Berlusconi è il «dominus» di Mediaset non dovrebbe scattare la decadenza immediata in quanto ineleggibile perché concessionario di un bene pubblico qual è l’etere tv?
«Questo è un altro aspetto dello status del senatore Berlusconi, che però concerne il distinto istituto dell’ineleggibilità. Non spetta a me trarre simili conclusioni, che sono affidate al dibattito sul punto ancora in corso presso la Giunta. Posso solo dire che le procedure regolamentari sono le stesse per comminare la decadenza per ineleggibilità, o per incandidabilità sopravvenuta, ma anche per la intervenuta pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici».
Fra poche settimane è attesa la decisione della Corte d'Appello di Milano su quanto dovrà durare per Berlusconi l’interdizione dai pubblici uffici. Non sarebbe meglio aspettare quella decisione?
«Non vi è alcuna connessione: incandidabilità ed interdizione sono istituti diversi: il primo appartiene alla sfera della legislazione elettorale e l’altro alla materia penale. Ed hanno anche differenti conseguenze giuridiche, come ad esempio sull’elettorato attivo. Reputo semmai ragionevole seguire l’ordine cronologico delle procedure: l’incandidabilità è efficace dal 1° agosto, l’interdizione non si sa quando lo sarà».
Teme che il lavoro della Giunta possa essere prolungato per evitare che, come minacciato dallo stesso Berlusconi, la sua decadenza da senatore produca la decadenza della maggioranza che sostiene il governo Letta?
«Questa è una decisione politica affidata alla valutazione dei partiti, su cui non mi pronuncio, e non una conseguenza di ordine costituzionale. Si tratta non di accelerare o di frenare, bensì di applicare le procedure previste a difesa del senatore interessato in vista di una decisione che dovrà avvenire in tempi ragionevolmente rapidi, come ci impone la legge con l’ormai famoso avverbio immediatamente».

il Fatto 3.9.13
Emanuele Macaluso
Una crisi di sistema
“Silvio è al capolinea e senza di lui il Pdl non ha futuro...”
intervista di Eduardo Di Blasi


Non è mai stato un estimatore del Pd, Emanuele Macaluso. “Nelle settimane dei congressi conclusivi dei Ds e della Margherita - ricorda oggi - scrissi per Feltrinelli un pamphlet intitolato Al capolinea. Per me non si sono spostati tanto da lì. Anche se certo, purtroppo, sono l’unica forza nel campo della sinistra democratica in grado di rappresentare una alternativa alla destra. Gli altri gruppi politici, da Sel a quello che resta di Rifondazione comunista, si sono infatti negli anni rottamati da soli senza bisogno di dover trovare un rottamatore”.
Adesso anche il Pdl sembra sulla via della rottamazione...
È la crisi politica di sistema che stiamo vivendo adesso. Berlusconi è finito...
Finito, finito?
Dopo la sentenza della Cassazione c’è poco da fare per lui. Si piglino pure il tempo necessario al diritto di difesa, ma la prospettiva è chiara. Silvio Berlusconi è un signore di quasi 80 anni, che non può più ricandidarsi per via della condanna e della legge Severino. Io non credo che sia lui a voler prendere tempo: sono i gruppi ex berlusconiani, e gli interessi delle sue aziende a tirare il freno. Se lui non esce di scena è perchè i berlusconiani non sanno cosa fare. Sono vissuti nella sua ombra: non hanno costruito rapporti con gli elettori. Sono stati nominati. È per questo che, come dopo Tangentopoli, ci troviamo in una crisi di sistema...
Come dopo Tangentopoli?
Oggi (ieri ndr.) Paolo Cirino Pomicino in una lettera al Corriere ricorda una cosa che io dico da tempo: nel nostro Paese non abbiamo più né un partito che si richiami al mondo cattolico conservatore, come era la Dc, né una traccia consistente di quello che, nel nostro Paese, era il Psi. Sono due partiti che hanno scritto la Costituzione italiana, che hanno portato l’Italia a divenire una grande nazione d’Europa, e che sono stati spazzati via non dalla magistratura, ma dalla loro stessa debolezza. Cioè, la corruzione c’era in quelle organizzazioni politiche, per intenderci, ma quei partiti si erano già indeboliti. Per questa ragione sono stati sostituiti dal “giustizialista” Berlusconi (si ricorda le telecamere del Tg4 puntate ogni giorno sul palazzo di Giustizia di Milano?) e dai Ds. E lì si sono mostrati già tutti i problemi della sinistra...
In che senso?
I Ds prima e il Pd poi, hanno sempre vissuto con l’ossessione di dover dimostrare di “saper stare al governo”. E nessuno si è mai preoccupato che fosse necessario anche “fare un partito”. Un partito riformista, di respiro europeo che vivesse nei gangli della vita sociale e politica. Non ci hanno creduto. Si è gestito quello che c’era, pensando che, allargandosi anche a Prodi o ai Popolari, poi bastasse il governo, o il solo fatto di contrapporsi a Berlusconi. Non è così. Una volta si diceva: “Manca l’amalgama”.
Adesso la competizione a sinistra è tra Enrico Letta e Matteo Renzi, entrambi di estrazione cattolica.
È il momento. Renzi, come si dice dalle mia parti, è “esperto”. È uno capace. Vale a dire che ha una capacità di comunicare, la battuta pronta. Negli anni di cultura “superficiale” che viviamo è perfetto. Va in Sicilia e adotta Leoluca Orlando, poi va a Milano e dice a un gruppo di socialisti milanesi - questo ho sentito - che lui porterà il Pd nel Pse. Alla fine io credo che la competizione tra Letta e Renzi non finirà per cambiare il Pd. È una contingenza nata sulla prospettiva elettorale. Ma lei lo sa che il Pse ha già pronto il programma per le europee del 2014? I partiti che aderiscono al Pse hanno contribuito alla nascita di quel programma e adesso si aggregheranno per scegliere il presidente. Il Pd non ha partecipato a quel dibattito sui contenuti. E non credo parteciperà nemmeno al secondo. E questo mentre la politica dovrebbe guardare all’Europa...
Il Ppe aveva provato a sostituire Berlusconi con Mario
Monti...
L’ex premier fu incoraggiato certamente dal Ppe che voleva liberarsi di Berlusconi. Poi, però, sappiamo tutti come è finita. Mi creda, non è questione di falchi e colombe. Oggi nessuno di loro sa come fare senza Berlusconi.

il Fatto 3.9.13
Vittoria Silvestri
La militante anti-Violante
“Salvare Berlusconi sarebbe da infami”
di Andrea Giambartolomei


Se non votano la decadenza di Berlusconi cosa diranno agli elettori? ”, chiede Vittoria Silvestri, 72 anni, sostenitrice del Pd che domenica pomeriggio ha abbandonato la sala della sede torinese dove Luciano Violante ha incontrato senatori, amministratori locali e sostenitori per spiegare le sue dichiarazioni sul diritto alla difesa di B. “Non ho la tessera del Pd perché costa e sono senza stipendio e senza pensione, ma amo il partito più dei suoi eletti - spiega -. Sono sempre stata appassionata della politica: sono cresciuta con un signore che mi cantava i canti comunisti. Ora sono un po’ schifata perché i politici fanno politica per interessi e non per amore. Ho visto Andreotti, ho visto Craxi, ma non mi hanno provocato quello schifo che ho sentito con Berlusconi e la sua servitù”. Per lei il Pd dovrebbe liberarsi presto dell’ex Cavaliere per dedicarsi ai problemi reali, a misure per il lavoro, per i giovani e per la sanità.
Come le è sembrato l’incontro domenica?
Mi sembra che tutto sia rimasto come prima. Ora tutto sta al buon cuore dei parlamentari.
A lei cosa non è piaciuto?
Non mi è piaciuta questa apertura di Violante a Berlusconi. Lo hanno condannato anche al terzo grado ed è ancora lì. Mio marito, quando nel 1966 è venuto a Torino per lavorare alla Fiat, ha dovuto presentare il certificato penale. Io, quando non avevo firmato il 730, ho dovuto pagare 700 mila lire di multa e mio marito è andato alla Commissione tributaria. Non possiamo far diventare Berlusconi una vittima. Le vittime siamo noi che lo sopportiamo da venti anni.
Quindi se ne è andata, ma poi è tornata. Perché?
Ho agito istintivamente. Se fossi rimasta ancora mi sarei arrabbiata di più. Poi l’onorevole Stefano Esposito mi ha convinto e mi si era sbollita la rabbia.
Ha sentito gli interventi dopo?
Sì, e non mi è piaciuto l’intervento di La Ganga (Giusi, ex pretore di Craxi in Piemonte, diventato recentemente consigliere comunale a Torino venti anni dopo aver patteggiato una condanna per corruzione, ndr) che ha dato ragione a Violante. Io voglio che il Pd si liberi di Berlusconi e si dedichi ai problemi seri. Voglio che si sveglino.
C’è invece qualcuno che l’ha convinta?
Sì, quelli che si sono opposti a Violante.
E se i senatori del Pd non votassero subito per la decadenza di Berlusconi?
Ma se non votano la decadenza... non posso dirlo.
Cosa farebbe?
Vado e scrivo “Infami, mi avete deluso. Avete distrutto i miei ideali, il lavoro, i giovani, la sanità”.
Molti nel Pd temono che dopo il voto Berlusconi possa far cadere il governo, però.
E fatelo cascare. Siamo stati alleati di Monti, abbiamo approvato tutte le leggi, pure la riforma Fornero, perché non doveva cadere il governo. Poi ci ha pensato Berlusconi a farlo cadere. Ed è il Pd che lo ha fatto resuscitare. A me vedere il Pd inerme dà fastidio.
Ha ancora fiducia nel Pd?
No e non ho fiducia neanche in Beppe Grillo. Però il voto è una conquista, quindi è un dovere andare a votare. Non saprei per chi, se non per il Pd.
C’è qualcuno che invece le ispira ancora fiducia?
Sì, Civati e la Serracchiani.

il Fatto 3.9.13
“Salvate B.” Radicali allontanati da festa Pd


È ormai guerra aperta tra militanti del Pd e Radicali. Un gruppo di “pannelliani” è stato allontanato dalla festa del Pd di Cortona (Arezzo) mentre raccoglieva firme per i referendum: “Il fatto che Berlusconi avesse posto la sua firma ad alcuni nostri referendum ha scatenato la rabbia dei militanti del Pd – spiega il portavoce aretino dei pannelliani, Angelo Rossi – Con le buone e cattive maniere siamo stati costretti a uscire”. “Ci siamo presentati d’accordo con gli esponenti dell’Arci locale – spiega Rossi – All’inizio nessun problema, era arrivato anche un assessore di Cortona pronto alla autentica delle firme, ma dopo una decina di minuti si è presentato il segretario del Pd locale, che ci ha chiesto di uscire dallo spazio all’interno della festa. Non sono stati momenti facili. I toni si sono alzati di pari passo agli insulti”. Era presente Pippo Civati e i Radicali lo accusano: “Ha fatto spallucce”. Ma il segretario del Pd cortonese, Andrea Bernardini, spiega che “non è stato cacciato nessuno. A tanti nostri militanti non era piaciuta la presenza dei radicali nella nostra festa dopo l’appoggio avuto da Berlusconi”.

Corriere 3.9.13
Il leader radicale Pannella sul Colle per parlare di carceri e referendum


Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto ieri mattina al Quirinale Marco Pannella: un incontro cordiale — i due si conoscono da oltre cinquant’anni — in cui il leader radicale ha parlato al capo dello Stato della campagna referendaria «per i nuovi diritti umani e la giustizia giusta», dodici quesiti per i quali il partito sta raccogliendo le firme in tutta Italia (domenica li ha firmati anche l’ex premier Silvio Berlusconi). Nel faccia a faccia è stato affrontato anche il tema del sovraffollamento delle carceri, molto caro a Pannella, che da tempo si batte per un’amnistia. Intervenendo in diretta a Radio radicale il leader ha avuto poi parole di grande apprezzamento per l’appello alla pace del pontefice: «Papa Francesco — ha affermato — sta intervenendo non essendo a conoscenza di nostre idee o posizioni, ma dando voce ai sentimenti comuni diffusissimi, tra ogni forma di credenti, e non solo tra i ”fedeli”. Quando lui invita il mondo, non solo quello cattolico, sabato prossimo, a una giornata di preghiera, di impegno e, per quel che lo riguarda, di digiuno per la Siria e contro la violenza, aiuta anche noi, anche me, in questo momento della realtà storica e politica del partito radicale». «A partire da quel che annuncia il Papa — ha concluso Pannella — vorrei suggerire che dalle carceri italiane venga fuori una tre giorni, da sabato a lunedì, di digiuno, contro la guerra, la violenza, e la violenza di Stato». 

Repubblica 3.9.13
Bonino, Veronesi e il Gran Muftì di Siria ecco il popolo dei “digiunatori” di Francesco
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — Tutti con Francesco nel digiuno contro la guerra. Che il nuovo Papa stia rivelando doti non solo di guida spirituale, ma anche stoffa da leader internazionale, sembrano dimostrarlo le reazioni suscitate dal suo appello lanciato domenica. Sono infatti molti oggi, e da più parti del mondo, a schierarsi con Francesco nel protestare contro la possibilità di un conflitto in Siria, astenendosi dal cibo come gesto concreto per evitare lo scontro. E il Pontefice «venuto dalla fine del mondo» finisce per trovare consenso non solo tra le file amiche, ma pure in quelle di altri credi religiosi, e anche tra i laici.
Come il ministro degli Esteri Emma Bonino. Ai giornalisti che le chiedevano ieri se avrebbe partecipato al digiuno indetto da Bergoglio per sabato prossimo, pur precisando che non si unirà nella preghiera in quanto “laica”, la titolare della Farnesina ha risposto: «È probabile». Tra coloro pronti ad affiancare il Papa nel suo proposito di astensione dalcibo c’è Umberto Veronesi. Il grande chirurgo ha esteso l’invito a digiunare ai membri del movimento Science for Peace, di cui è presidente e fondatore, e che annovera tra i suoi sostenitori 21 Premi Nobel. Veronesi ritiene che questa iniziativa sia uno strumento importante di promozione della pace, un punto di incontro fra scienza e pensiero evangelico. «Le parole del Papa — rileval’oncologo — confermano che la natura dell’uomo è incline alla solidarietà e l’aiuto reciproco, e la violenza in ogni sua espressione è la reazione a situazioni avverse, prima di tutto alla violenza».
Fra i nomi di prima fila anche quello di don Luigi Ciotti: «L’inerzia sarebbe segno di viltà e indifferenza — si legge in una nota diramata dal fondatore del Gruppo Abele e di Libera — . Ma l’uso delle armi — ce lo insegna la storia, ce lo insegnano le tragedie recenti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia — non solo non risolve il male, ma lo aggrava. La crisi economica che provoca sofferenza in tante aree del mondo, implica anche sul piano costruzione dei diritti una nuova etica, un nuovo coraggio, una più radicale affermazione della dignità e libertà umane. E chiede soprattutto alla politica di riscoprire la sua forza, che non può essere quella delle bombe, ma deve essere quella della ragione, del dialogo, del negoziato».
L’appello fatto da Francesco ha raccolto adepti anche su altri fronti di fede. Il Gran Muftì di Siria, Hassoun, leader spirituale dell’Islam sunnita a Damasco, si è detto «profondamente colpito dall’appello di Papa Francesco». E ha espresso il desiderio di essere presente alla veglia di preghiera davanti al colonnato vaticano. Hassoun è considerato da molti osservatori come un gigante, nel senso umano e religioso, malgrado le posizioni nazionaliste e l’investitura ufficiale del regime. In linea con lo spirito della Siria multiconfessionale, è un sunnita che forse più di tutti nel mondo arabo si è impegnato nello stabilire una vera “comunione” — ben più che un semplice dialogo, dunque — fra le varie religioni. Con il Papa anche patriarchi e leader cristiano ortodossi.
L’arco cattolico si è poi dimostrato compatto nell’accogliere, in maniera entusiastica, l’iniziativa di Francesco: dalla Comunità di Sant’Egidio ai Francescani di Assisi, da CL all’Azione cattolica, alla Caritas. Ma anche movimenti di non credenti, come l’associazione “Art. 21”e la “Tavola della pace”. Tutti concordi nel rilevare la «grande forza» e «il coraggio» con cui Francesco ha rotto «il silenzio e l’inazione generale che da lungo tempo circonda questa tragedia».

l’Unità 3.9.13
Senatori 5 Stelle divisi in gruppi come una seduta di autoanalisi
Niente esplusioni, solo la reprimenda di Morra
Senatori riorganizzati per analizzare i «problemi»
di Rachele Gonnelli


«Lei senatrice in quale gruppo sta?» «Mi pare Orsetti», risponde seria e ineffabile Monica Casaletto. E in effetti è difficile prendere sul serio ciò che è successo ieri al Senato all’interno del gruppo Cinque Stelle. All’ordine del giorno c’erano problemi spinosi, come quello dei dissidenti interni, parrebbe disponibili a dare un appoggio ad un eventuale governo Letta-bis o comunque a sostituire le larghe intese con una nuova maggioranza. E poi la linea politica del Movimento su elezioni anticipate e legge elettorale. Ciò che invece è andato in scena è stato un teatrino da neurodeliri o, nel migliore dei casi, una seduta di psico-analisi collettiva.
La cinquantina di senatori presenti il capo ufficio stampa Claudio Messora, autore di un post di censura sul Blog di Grillo che ha scatenato furiose critiche, ha pensato bene di non farsi vedere si sono divisi in sei gruppetti, i tre gruppi pari (2, 4, 6) incaricati di individuare le problematicità nel gruppo parlamentare, i tre dispari sono stati invece incaricati di redigere una cronologia dei fatti: interviste, dichiarazioni, post su Facebook, persino la poesiola in romanesco della senatrice Paola Taverna che scherniva i dissidenti è assurta a evento storico. Quarantacinque minuti di tempo ad ogni gruppo per discutere e redigere un cartellone scritto a pennarello, il «report». «Usiamo la tecnica del problem solving», spiega il senatore Maurizio Buccarella. «Un esperimento interessante», si limitano a commentare Luis Alberto Orellana e Francesco Campanella, i possibili primi della lista degli epurandi. Nessuno per la verità, neanche la moderatrice che ha proposto il metodo, la senatrice Elisa Bulgarelli, è in grado di dire a cosa tutta questa autoanalisi dovesse servire. Di certo non c’è stato più tempo per affrontare il tema della legge elettorale, nonostante sul Blog di Grillo fosse stata pubblicata appositamente, come materiale per il dibattito, una salace intervista ad Aldo Giannuli che confermava il giudizio negativo sulla proposta di revisione del Porcellum perché «pensata in funzione ostile al M5S».
Poco si è discusso anche della cosiddetta «piattaforma», un sistema per interloquire con elettori e militanti e anche per sottoporre alcuni temi a votazione: il progetto di Parlamento elettronico che sempre Buccarella dice «è in fase Beta di sperimentazione nel Lazio» affidato nelle mani di Stefano Barillari, capogruppo in Regione e fedelissimo di Grillo e Casaleggio. Più che altro su questo argomento tutti hanno avvertito la necessità di questa benedetta piattaforma che nasce dal sistema liquid feedback ma rivisto e corretto. Perché per sintetizzare i senatori pentastellati si sentono tremendamente soli, in balia delle acque: della stampa che li assale, dei problemi che non capiscono, non sanno, delle insidie e trappole dei politici di professione o che comunque hanno più esperienza e persino delle relazioni dello staff addetto alla comunicazione, vedi Messora.
Dai cartelloni, esibiti in streaming sul canale Youtube, è facile estrarre un florilegio non si sa se drammatico o esilarante. Il gruppo 6 relatrice Enza Blundo mette in evidenza «la mancanza di confronto interno» da cui discenderebbero interviste non condivise, ma anche «la mancanza di franchezza e di fiducia tra di noi che vengono da preconcetti e mancanza d’ascolto e che generano incomprensioni». E «un’aggressività verbale», forse strascio delle espulsioni di Gambaro e altri. Il gruppo con relatore Stefano Lucidi sottolinea «la distanza con Grillo, c’è stato poco scambio ultimamente». Blundo segnala mali profondi che di certo non colpiscono solo i 5 stelle come l’autoreferenzialità, «la mancanza di feedback con gli elettori». «Un altro problema aggiunge è il grillismo individuato come rigidità». Oibò. Che sia produttivo o no esibire tutta questa nudità politica, l’ultimo velo casca alla fine. Viene fuori che non è affatto chiaro il ruolo degli eletti. Il gruppo della Taverna chiede «chiarimenti su alleanze, legge elettorale e scenari futuri». Il gruppo 2, relatore Giuseppe Vacciano, ammette che «molti non hanno capito cosa fare su un possibile appoggio al governo». Altro che «personalismi che non possono più essere tollerati»: la diagnosi di Nicola Morra, il capogruppo ora, pare una foglia di fico.

Corriere 3.9.13
«Il grillismo è bigotto» Assemblea di fuoco tra i senatori 5 Stelle
Divisioni nel gruppo: così non incidiamo
di Ernesto Menicucci


ROMA — «Dividerci? Ci siamo già divisi...». La buttano sul ridere, i senatori del Movimento Cinque Stelle, riuniti in assemblea a Palazzo Madama. È qui che va in onda la seduta di autocoscienza dei «grillini» che, per analizzare cronologia dei fatti e problemi interni, si sparpagliano in sei sottogruppi. Un metodo, proposto dalla vicecapogruppo Elisa Bulgarelli, che ottiene due risultati: la diretta web diventa «parziale» (le riprese sono solo nella sala «centrale»), i possibili scontri vengono attutiti e spezzettati.
L’estate è stata lunga, il Movimento è stato esposto a tutte le tempeste possibili: le voci sugli «aperturisti» verso il Pd, le divisioni sulla legge elettorale, il malcontento per alcuni post di Beppe Grillo e del suo staff. Così, prima di riprendere l’attività parlamentare, il gruppo del Senato si è chiuso in conclave: ieri il primo round, oggi il secondo. L’elenco dei «mali» è infinito, va dall’autoreferenzialità alla «frustrazione per non riuscire ad incidere», e non risparmia neppure il «grande capo». Anzi, il «grillismo, inteso come rigidità paragonabile al bigottismo» viene citato da Enza Blundo come uno dei guai da risolvere. L’ex comico finisce sotto accusa: «Si è creata troppa distanza tra Beppe e noi», dice Stefano Lucidi. E rivolto a Grillo è anche l’appunto sull’eccessiva «aggressività verbale e scritta». Proprio ieri il leader ha aperto un nuovo fronte: «Niente scontrini e tasse alle Feste democratiche: il fisco non è invitato». Replica Antonio Misiani, tesoriere pd: «Dura accettare lezioni da chi, come Grillo, ha sfruttato i condoni fiscali del governo Berlusconi».
Per i «grillini», quello della comunicazione è un nervo scoperto. E il post di Claudio Messora, del 22 agosto («o si governa o si muore»), ha creato molti malumori, anche per le sue conseguenze: le mail tra alcuni senatori pubblicate dai giornali, la risposta di Paola Taverna sotto forma di sonetto, dal titolo «gli aperturisti». Il risultato è che adesso si parla di «mancanza di franchezza, di preconcetti, personalismi, diffidenza» e anche di «gestione economica» del gruppo. La Taverna sembra fare mea culpa: «Serve ponderatezza nelle reazioni: me ne assumo la responsabilità...», ma cita anche il cuore del problema: «Servono chiarimenti su scenari futuri ed eventuali accordi coi partiti, sulla legge elettorale e sulla nostra posizione all’interno del Movimento». Il tema è tutto lì: esistono o no i 10-15 senatori pronti a sostenere un Letta bis? E poi: sull’andare subito al voto col Porcellum, sono tutti con Grillo? Il capogruppo Nicola Morra (che chiede di essere sostituito, mentre gli altri insistono perché resti) giura che «non c’è nessuna possibilità di dialogare con questa gente, la gerontocrazia va spedita a casa». Anche la Fattori, data fra gli «aperturisti», smentisce: «Votare col Pd? Piuttosto mi dimetto da senatrice». E viene fuori anche l’idea di votare un documento unitario per ribadire il no ad alleanze con il centrosinistra.
Ma sulla legge elettorale, la «base» non sembra seguire Grillo: «Il Porcellum? È incostituzionale», dice Luis Alberto Orellana. Anche lui è considerato come un possibile dissidente: «I fuoriusciti? È un desiderio del Pd...». Francesco Campanella aggiunge: «L’esodo c’è solo nella Bibbia». Eppure, dopo l’elenco dei problemi con una cronologia che parte da inizio legislatura (le diarie e l’elezione di Grasso) e arriva a fine agosto, c’è anche chi ha dei dubbi. Carlo Martelli, sandali ai piedi, ragiona: «Se siamo ancora un gruppo coeso? La risposta più onesta che posso dare è non lo so. Siamo qui per scoprirlo». Alla fine, si trova il «nemico» comune: i giornalisti «giornalai», «mandati dal sistema per farci scivolare». Sarà.

Repubblica 3.9.13
E il M5S si divide sul “grillismo bigotto”
Scontro tra i senatori: “Un problema i post violenti di Beppe”. L’ira di Casaleggio
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Alla fine tentano di dire che il problema è WhatsApp, con le sue risposte troppo immediate (le conversazioni tra eletti a 5 stelle nelle ultime settimane sono finite in scintille). E poi i soliti giornalisti, che travisano tutto e, guarda caso, se vedono in diretta streaming i senatori mettere nero su bianco, come uno dei problemi di cui parlare, «il grillismo che con la sua rigidità diventa bigottismo», pensano sia una notizia. Ci fanno un titolo. Battono le agenzie.
La riunione della resa dei conti era stata organizzata per cercare di placare gli animi, per non dare in pasto all’opinione pubblica l’immagine di uno scontro fratricida tra chi pensa che abbia ragione Grillo (si torni subito a votare, vadano tutti a casa e porcellum sia), e chi dice - come ancora ieri Luis Orellana - che con quella legge alle elezioni non si può tornare, e che di un Letta bis bisogna parlare tutti insieme. Così, a Vito Crimi ed Elena Bulgarelli - in vacanza dalle stesse parti in Sardegna era venuta in mente un’idea di “problem solving”: «Dividiamoci in gruppi di 6, 6 senatori ciascuno, i dispari tracceranno la cronologia di quel che è successo, i pari tireranno fuori liste di problemi». Poi bisognerà riunirsi ancora, mettere insieme gli elenchi, ma prima di tutto giù a distribuire cartoncini («che colore di pennarello vuoi?») e scene che perfino gli uomini della comunicazione riuniti in quelle ore alla Casaleggio Associati - saltano sulla sedia. A Milano si narra di un Gianroberto Casaleggio furioso per la figura da “dilettanti”, di un Grillo altrettanto basito davanti alla diretta streaming che pure era stata caldeggiata - dai falchi - per stanare chi non intende seguire alla lettera “il progetto”, chi si sente già “onorevole” e non “portavoce”. Alla fine, si cerca consolazione nella reazione della rete («Alcuni parlano di prova di democrazia»), ma si conclude - alla Nanni Moretti - «con questi senatori non vinceremo mai. Le tecniche di selezione, al prossimo giro, dovranno cambiare».
Intanto, a Roma, l’esperimento si trasforma in autogol: invecedi isolare il dissenso, la divisione in gruppi ha il potere di moltiplicarlo. In tutti i cartoncini che diligentemente i senatori vanno a leggere tra i problemi vengono fuori «I post di Grillo» o - per dirla con Enza Blundo (che poi in finale di riunione se la prenderà con i giornalisti che travisano) - «il grillismo quando si configura con una rigidità paragonabile al bigottismo che impedisce di capirsi ». E ancora: «L’aggressività, sia verbale che scritta». E infine, per bocca dell’ultraortodossa PaolaTaverna (autrice della poesia in romanesco antidissidenti): «Un problema con la Comunicazione scelta dallo staff».
È lo stesso Claudio Messora, che sa bene di essere messo sotto accusa, a twittare ironico il link dello streaming aggiungendo: «Non potete perdervelo». A quel punto il capogruppo Nicola Morra è furioso. Alla proposta della Bulgarelli di tracciare gli argomenti e rimandare a oggi la discussione dice no, appoggiato da Laura Bottici. Si comincia a parlare. Stefano Lucidi pone il «problema non risolto sul ruolo della comunicazione » e parla di «poca trasparenza nella gestione economica del gruppo», concludendo: «Non abbiamo ben capito chi determinerà nei prossimi mesi la linea politica». Endrizzi torna a chiedere a gran voce il portale per interagire con la base. Sara Paglini vuole chiarezza su cosa intende fare il gruppo in caso di caduta del governo. Ma è soprattutto il walzer dei falchi: Morra invita a non parlare con la stampa e dice che «gli errori non possono più essere tollerati». Vito Crimi ribadisce che la linea è solo e soltanto «tutti a casa », Alberto Airola sostiene che qualsiasi ipotesi di governo a 5 stelle si infrangerebbe contro Napolitano e contro il Pd, mentre per Laura Bottici il portale interessa fino a un certo punto, perché «se la Rete chiede alleanze, allora la Rete non ha capito». Infine Barbara Lezzi: «Dico ai colleghi che vanno a sfogarsi con i giornalisti: andatevene a casa anche voi, state danneggiando il Movimento. Il linguaggio di Grillo è quello che ci ha portati fino a qui». Secondo round stamattina. La parola spetta alle colombe, se non sono ancora volate via.

Repubblica 3.9.13
La scommessa del liceo classico
di Maurizio Bettini


Il liceo classico è in crisi? Visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, mi stupirei del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby al netto di oneri per lo stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”.
Certo è molto triste trovarsi nella condizione di dover giustificare la pratica della cultura umanistica proprio in Italia. Come minimo uno si domanda che fine faranno i suddetti “beni” in un paese che sta perdendo la sola dimensione all’interno della quale essi acquistano senso, ossia la relativa “memoria” culturale. A che serve restaurare il Colosseo se l’unica cosa culturale vagamente nota a chi lo visita saràIl gladiatore di Ridley Scott? Peraltro non credo che il Rinascimento a Firenze, con relativi Uffizi, o il Medio Evo a Siena staranno molto meglio dei monumenti classici. L’ignoranza è ignoranza, e non riguarda solo Roma antica. Dato però che continuare a ripetere queste cose è avvilente, è meglio voltare pagina e affrontare il problema da un altro punto di vista.
Il liceo classico, ossia una fra le migliori istituzioni di trasmissione culturale che possediamo, sconta al momento un doppio handicap. Da un lato quello che grava in generale sulla cultura umanistica, dall’altro un modo di insegnare le proprie materie più “classiche”, il latino e il greco, che spesso scoraggia i giovani dall’iscrizione. Perché mai un ragazzo in età da ginnasio dovrebbe volontariamente sottoporsi alla tortura delle declinazioni o della sintassi, senza vedere qual è lo scopo di tutto ciò? Non basta certo dirgli: così alla maturità, fra cinque anni, sarai in grado di fare bene la versione, perché perfino un quattordicenne si accorge del circolo vizioso. In altre parole, il paradosso del liceo classico sta nel fatto che, troppo spesso, non produce studenti che conoscono davvero la cultura classica, ossia quell’affascinante mondo in cui Odisseo incontra Ciclopi e Sirene o Socrate discute dell’amore. Un mondo tanto in continuità con la nostra cultura quanto diverso dall’esperienza contemporanea: e i giovani, checché se ne pensi, sono molto affascinati dalla diversità, anche quella degli antichi. L’elenco delle orazioni di Cicerone ha scarse probabilità di interessare un ragazzo di oggi (peraltro all’epoca interessava poco anche me), mentre so per esperienza che il discorso cambia se gli si fa ascoltare il racconto della morte di Didone. E soprattutto se lo si mette di fronte al paradosso di un eroe, Enea, che Virgilio chiama “pio” proprio perché abbandona la donna che ama per fondare la Città. Che cosa era dunque la “pietà” per i Romani? Erano così diversi da noi?
Per fortuna ci sono oggi licei classici in cui gli insegnanti, con la loro vivacità, riescono addirittura a far crescere le iscrizioni, fanno rappresentare ai ragazzi Euripide e Plauto, utilizzano i dizionari digitali o comunicano con gli studenti via Facebook. E posso testimoniare che gli oltre sessanta docenti di materie classiche che si sono riuniti a Siena in Agosto (!) per una Summer school, organizzata dal Centro Antropologia e Mondo Antico dell’Università con il sostegno (non solo economico) del Miur, sono stati capaci di suscitare un vero e proprio tornado di idee e di entusiasmi. Beati i loro studenti, viene da dire. Perché non è affatto detto che l’Italia sia esclusivamente il paese di Sanremo, del calcio edella mala politica culturale.

Corriere 3.9.13
Test di ammissione, la carica dei 115 mila
Presa d'assalto Medicina: sono il 23% in più rispetto al 2012 gli aspiranti camici bianchi
di Mariolina Iossa


ROMA — Test d'ingresso per Psicologia a La Sapienza di Roma, ma anche per Economia a Torino e a Padova, Ingegneria al Politecnico di Milano e Farmacia a Genova e a Firenze. Per questi corsi di laurea, e per molti altri, sono i singoli atenei a decidere se stabilire il numero chiuso, se realizzare un test a scopo selettivo o orientativo, e infine anche la data. Ma sono soprattutto quelli nazionali predisposti dal ministero per le facoltà a numero chiuso a tenere banco e a mandare in fibrillazione migliaia di studenti. Si parte oggi con Veterinaria, si continua domani con le Professioni sanitarie, si proseguirà il 9 con Medicina e Odontoiatria, infine l'ultima è il 10 per gli aspiranti architetti.
Quest'anno il Miur ha contato 114 mila 557 neodiplomati che si sono iscritti ai corsi di laurea ad accesso programmato. C'è quindi da registrare un sostanziale aumento, più 23 per cento di iscritti ai quiz per Medicina, più 38 per cento per Veterinaria. Come ogni anno, bisognerà attendere il giorno del test per i numeri definitivi: nel 2012 dai dati divulgati dalle singole università gli iscritti a Medicina erano stati 81 mila ma poi se ne sono presentati 68 mila. La sorpresa potrebbe esserci, comunque, e le cifre potrebbero venire confermate perché, dicono al ministero, se «lo scorso anno le iscrizioni erano gestite a livello locale, quindi si potevano verificare per motivi opportunistici doppie o triple iscrizioni», quest'anno tutto è gestito a livello nazionale e le cifre sono quindi controllate al vertice.
Difficile entrare in uno dei corsi di laurea ad accesso programmato. Anche quest'anno Medicina e Odontoiatria è stata presa d'assalto da 84 mila 165 aspiranti medici (18 mila in più rispetto all'anno scorso), che dovranno battersi per uno dei «soli» 10 mila 157 posti disponibili complessivi. Gli esperti di Alpha Test, i cui dati sono stati pubblicati da Skuola.net, hanno calcolato il rapporto tra candidati e posti disponibili. In sostanza, per Medicina e Odontoiatria, su 10 mila 157 posti, il rapporto posti disponibili-candidati è in media di 1 a 8, siamo praticamente allo stesso livello del 2012; per Veterinaria, una brutta sorpresa, con soli 825 posti disponibili il rapporto è addirittura di 1 a 13 (mentre lo scorso anno era di uno a sei); per Architettura, invece, una buona notizia, lo scorso anno era di 1 a 4, quest'anno, con 8 mila 787 posti disponibili, il rapporto è di uno a due, in pratica uno su due ce la farà.
Sarà dunque molto importante per i candidati poter contare sul bonus maturità introdotto in via definitiva dal ministro Profumo e modificato dall'attuale ministro Maria Chiara Carrozza per renderlo meno disomogeneo. Il bonus è quel punteggio ulteriore che si potrà sommare al punteggio ottenuto al test ma solo se il voto ottenuto all'esame di maturità è almeno pari a 80 e almeno pari all'80esimo percentile di riferimento. Il sistema è complesso e anche quest'anno ha dato origine a molte disparità: per esempio, uno studente dell'Avogadro di Roma di una certa sezione ha conseguito il diploma con 93 ma non avrà il bonus mentre il suo compagno di un'altra sezione ha ottenuto 6 punti con lo stesso risultato. Lo stesso ministro Carrozza ha ammesso che occorrono ulteriori modifiche e ha già avviato il lavoro di una commissione. L'Udu, unione degli studenti universitari, che da sempre protesta contro il numero chiuso e contro i test d'ingresso considerati una «lotteria», sta predisponendo «un ricorso collettivo nazionale per impugnare bonus maturità e numero chiuso».
Ma quanto costa accedere ai quiz d'ingresso per il numero chiuso? Skuola.net ha pubblicato il costo medio per gli aspiranti medici. «Tentare il sogno di diventare medici o dentisti — è scritto sul sito — è costato in media 54 euro. Così l'introito stimato proveniente dai circa 84.000 aspiranti medici odontoiatri sarà di circa 4.5 milioni di euro, che corrisponde a circa 440 euro per ogni posto messo a disposizione».

La Stampa 3.9.13
La corsa delle matricole
Università, l’Italia alla lotteria dei test
Da oggi le prove per 115 mila gli studenti. Per la prima volta graduatorie nazionali e bonus maturità
Rispetto al passato ci saranno meno domande di cultura generale e più sulle altre materie scientifiche
di Nadia Ferrigo


60 domande a risposta multipla da affrontare in 100 minuti, dieci in più degli anni passati I risultati definitivi verranno pubblicati sul sito del Miur il 30 settembre

Chi c’è già passato, descrive il giorno del sempre temuto test d’ingresso peggio di una maratona. Sveglia all’alba, centinaia di concorrenti disposti a tutto e una gran paura di non riuscire a tagliare il traguardo. Dopo un’estate passata a sudare più sui libri che sotto l’ombrellone, è arrivato il momento della verità per più di 115 mila neodiplomati, pronti a sfidare le odiate domande a crocette. Si parte oggi con la facoltà di Veterinaria, domani toccherà ad aspiranti fisioterapisti e infermieri, lunedì prossimo si tenta la sorte con la facoltà di Medicina – gettonatissima, quest’anno più che mai e Odontoiatria, per concludere il dieci settembre con la prova di Architettura.
Vita dura, durissima per chi sogna il camice bianco: gli iscritti ai test d’ingresso sono balzati da 68 mila a 84 mila, ma i posti disponibili sono sempre poco più di 11 mila. Risultato: solo uno su otto riuscirà nell’eroica impresa. Peggio di loro, solo i veterinari. Per prendersi cura di cani, gatti e simili, una preparazione rigorosa non basta. L’immatricolazione è quasi un terno al lotto: se l’anno scorso solo uno su nove poteva sperare di sfangarla, con quasi 11 mila iscritti e appena 832 posti a disposizione le possibilità per il prossimo anno accademico sono appena una su tredici. Non molto incoraggiante. Va decisamente meglio per gli aspiranti architetti: le richieste, anche se di poco, sono in calo e i posti disponibili sempre gli stessi, così uno su due riuscirà a conquistare l’immatricolazione.
Per la prima volta, la graduatoria sarà su base nazionale e il test identico per tutti gli atenei: 60 domande a risposta multipla da affrontare in 100 minuti, dieci in più degli anni passati. Come deciso dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, ci saranno meno domande di cultura generale e più su altre materie scientifiche. «Meno male – commenta Giulia Marasi, 21 anni, di Roma -. Devo ridare l’esame di Veterinaria, l’anno scorso mi è capitata una domanda sulle figure retoriche. Erano anni che non ne sentivo parlare, mi ha mandato nel pallone. Forse con un po’ più di tranquillità... ». Per vincere alla lotteria ci vogliono anche sangue freddo e pancia piena: le decine di blog e forum a tema consigliano di restare calmi e portare con sé una bottiglietta d’acqua e qualche cosa da sgranocchiare. «Ho tentato la prima volta un anno fa, senza successo – racconta Lodovica Magri, 23 anni, di Milano -. Ero in aula dalle nove, la prova è iniziata solo a mezzogiorno. Appena lette le prime domande, mi sentivo svenire. Questa volta mi sveglierò all’alba, ma con una bella colazione».
Le graduatorie saranno pubblicate sul sito del Miur il 30 settembre. Accanto al nome di ogni aspirante matricola, il verdetto: chi è «assegnato» potrà iscriversi all’università indicata come prima scelta, mentre chi è «prenotato» dovrà accontentarsi dei posti rimasti scoperti in un altro ateneo. Al banco di prova anche il chiacchierato «bonus maturità». Oltre al punteggio ottenuto con i test, si calcola anche il voto del diploma, rivalutato con il meccanismo dei percentili: se il voto non supera gli ottanta centesimi e non è nel 20 per cento dei voti migliori della commissione di maturità, niente bonus. «I percentili non funzionano – commenta Mario Nobile, portavoce del coordinamento universitario Link -. A parità di media, gli studenti della stessa scuola potrebbero essere giudicati diversamente: in genere ogni commissione segue l’esame di maturità di una o due classi, come si può assicurare l’uniformità del giudizio? ».
Di «bonus maturità» sentiremo parlare di nuovo, e presto. Come anticipato dal ministro Carrozza, i test d’ingresso l’anno prossimo anno saranno già ad aprile, ma non è ancora chiaro che ne sarà di bonus e percentili. Mentre i grandi decidono il da farsi, non resta che augurare ai più giovani buona fortuna. Ne avranno davvero bisogno.

La Stampa 3.9.13
Test universitari, la graduatoria unica mette fine alle ingiustizie
di Andrea Gavosto


Nei prossimi giorni, migliaia di studenti in tutta Italia saranno impegnati nei test di ingresso all’università, per entrare in quei corsi di laurea - circa un terzo del totale - che hanno deciso di adottare il numero programmato. Sempre più, le prove di ammissione stanno diventando per studenti e famiglie una data da cerchiare sul calendario, con livelli di impegno e di ansia paragonabili a quelli dell’esame di maturità. Anche in questo, l’Italia si sta avvicinando agli altri Paesi avanzati, dove test standardizzati per l’ammissione all’università, confrontabili per tutti gli studenti, sono la prassi.
Quest’anno, la principale novità riguarda la prova di Medicina, che è diventata unica a livello nazionale. Questo permetterà di correggere una grande iniquità degli scorsi anni, quando i test venivano somministrati dai singoli atenei o da gruppi di atenei geograficamente vicini e, quindi, con soglie minime di ingresso diverse. Con un’unica graduatoria nazionale per tutti i candidati, non potrà più accadere che uno studente non ammesso, mettiamo, a Torino abbia ottenuto un risultato al test migliore di uno, invece ammesso, a Bari.
Sicuramente si tratta di un passo in avanti, che si spera venga presto imitato dagli altri corsi di laurea scientifici ed economici, dove ancora prevale la differenziazione per ateneo. L’adozione di una graduatoria nazionale avrà però almeno due effetti che andranno verificati nei prossimi mesi. Uno è l’allungamento dei tempi. Poiché ogni studente al momento dell’iscrizione può esprimere diverse preferenze relative all’ateneo dove iscriversi, per sapere se una candidata è stato ammessa o no, bisognerà aspettare che tutti quelli prima di lei in graduatoria abbiano esercitato le loro opzioni e se le università prescelte abbiano ancora posti a disposizione: un esercizio complesso, per cui gli ultimi qualificati rischiano di avere il responso definitivo a corsi ben avviati. Il secondo effetto della graduatoria unica sarà, verosimilmente, un aumento della mobilità degli studenti sul territorio: coloro che si collocheranno verso il fondo dovranno, pur di iscriversi, accettare di spostarsi in un’altra città. L’aspetto forse più dirompente è che, a fonte della classifica degli studenti, si creerà un’analoga classifica delle università: sarà facile verificare quali saranno gli atenei scelti dai candidati migliori e quelli che, invece, raccoglieranno gli ultimi in graduatoria. Certo, a nessuna università piace finire nella zona bassa della classifica, ma è il prezzo che si deve pagare quando si introducono criteri meritocratici: e, si spera, anche uno stimolo per migliorare.
Le prove di ammissione all’università impongono però una considerazione più generale. Oggi abbiamo in Italia una prova nazionale la maturità - al termine della scuola secondaria e, in misura crescente, una prova di ammissione all’università. Le due rispondono a criteri e obiettivi diversi e sono disallineate, nonostante lo sforzo del ministro Profumo di «standardizzare» l’esame di Stato ai fini dell’ingresso universitario. Chiaramente, una delle due è ridondante, come ha recentemente sottolineato anche l’ex-sottosegretario Ugolini. Se si disponesse di un test confrontabile per tutti gli studenti alla fine della scuola superiore, centrato su competenze culturali e logiche comuni, le prove di ammissione all’università sarebbero inutili, perché gli atenei avrebbero già gli elementi necessari per decidere chi ammettere. E il test sulle competenze varrebbe non solo per chi si vuole iscrivere all’università, ma anche per il 40% dei diplomati che preferisce entrare direttamente nel mercato del lavoro, fornendo quindi elementi preziosi per i futuri datori di lavoro.
*Direttore Fondazione Agnelli

La Stampa 3.9.13
Fiction e sogni di gloria dietro il boom di Medicina
Le domande cresciute del 24 per cento in un anno : “Ma in corsia non c’è Dottor House”
di Marco Accossato


I neodiplomati che tenteranno il test d’ingresso sono 16 mila più dello scorso anno

Sono 16 mila in più, quest’anno, i neodiplomati che tenteranno il test di ingresso a Medicina, malgrado i posti disponibili siano praticamente gli stessi dell’anno passato, poco più di 11 mila. Dopo il calo di iscrizioni del 2012 rispetto al 2011, quest’anno è boom, mentre crolla parallelamente il numero di chi proverà a entrare a Farmacia o a Infermieristica. Neppure le altre facoltà non sanitarie come Architettura registrano un simile aumento di domande all’esame di ammissione. E se nell’arco dei prossimi vent’anni il pensionamento di molti medici richiederà probabilmente un massiccio ricambio, l’unica certezza, oggi, è che a fronte di un aumento del 24 per cento di iscritti soltanto uno su 8 ce la farà a conquistare il corso per diventare dottore. Malgrado ciò, Medicina resta la facoltà più ambita.
Che cosa spinge così tanti giovani a tentare il test? «Sicuramente la propensione ad aiutare gli altri - commenta il professor Daniele Nigris, docente di Sociologia della Salute e della Medicina all’Università di Padova -, ma non dobbiamo sottovalutare la spinta di modelli culturali stile “E. R.” e “Dottor House” che ci sono stati propinati a lungo, e l’appeal economico, che ha il suo peso non indifferente». Nessuna generazione, insomma, è immune dai sogni che vengono proposti anche attraverso la tv, ma su questo aspetto il professor Nigris mette in guardia gli aspirati dottori: «Gli stessi medici americani sorridono dicendo ai loro allievi di non pensare di trovarsi un reparto stile “Dottor House”, perché in nessun ospedale ci si può permettere quattro specialisti per un caso che non si riesce a risolvere». Allo stesso modo, anche le speranze di un posto fisso per sempre devono fare i conti con un’altra realtà: «I ragazzi che oggi si iscrivono a Medicina non conoscono la situazione dei contratti, dove spesso, sia nel pubblico sia nel privato, il posto fisso è un’illusione e si va avanti a scadenze e rinnovi annuali». D’altro canto è vero che «la maggior parte delle specialità mediche consente di fare attività privata, il che rende senza dubbio più remunerativa la professione».
È sulle motivazioni che i sogni dei dottori di domani sembrano dividersi. In una professione sempre più al femminile, «le donne - osserva il dottor Pier Roberto Mioli, direttore delle Chirurgie della Città della Salute di Torino - credono molto di più nell’ideale del medico, nella funzione sociale, rispetto ai colleghi uomini decisamente più determinati dal punto di vista dell’evoluzione della tecnologia e della carriera». Un particolare che fa ben sperare, considerato che all’ultimo concorso in Chirurgia a Torino c’erano dieci dottoresse per dieci posti.
A Medicina, come negli altri corsi di laurea ad accesso programmato, l’Italia è divisa, il che sarà determinate sulla graduatoria nazionale e sulla futura mobilità degli aspiranti medici: al Nord vive il 40 per cento dei giovani e nella stessa area è disponibile il 45 per cento dei posti nei vari corsi universitari; al centro il 18 per cento dei giovani ha a disposizione il 23 per cento dei posti; al Sud, pur vivendo il 41 per cento dei giovani, gli Atenei meridionali hanno a disposizione solo il 31 per cento dei posti.
Medici e sociologi concordano: nella Medicina di domani il problema non saranno tanto i numeri, quanto il ruolo del medico. «Gli verrà richiesto di più in termini di rapporti umani, di capacità di comprendere i bisogni della persona che si troverà a curare», sostiene il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici. «Dovrà conoscere anche l’organizzazione - aggiunge Mioli - e tutto ciò che sta attorno alla professione».
«Motivazione», sarà sempre più la parola chiave. Cosa che - secondo il professor Nigris - deve essere alla base anche della selezione: «Ho sempre sostenuto che per tutte le professioni di aiuto una selezione fondamentale è quella psicologica, che osservi proprio le capacità relazionali della persona, mentre in Italia le facoltà di Medicina rifiutano quasi in blocco il rapportarsi con i sociologi e gli antropologi della medicina, con un effetto paradossale: i medici più giovani sono quelli che meno mettono in discussione i presupposti su cui è basato il modello biomedico».

il Fatto 3.9.13
Mps, l’ex candidata di Verdini a capo della Fondazione
Antonella Mansi lasia la vicepresidenza di Confindustria per occuparsi dei destini del Monte
Due anni fa il Pdl la voleva alla guida della Provincia di Siena
di Daniele Martini


Pier Luigi Bersani 1-Matteo Renzi 0. Nel derby democratico-bancario senese, con la nomina di Antonella Mansi a presidente della Fondazione Monte dei Paschi vince l'ex segretario Pd e perde l'aspirante. Perde la lobby Astrid collegata a Bruno Valentini, il sindaco di Siena che si professa renziano e che puntava su un altro nome: Francesco Pizzetti, un professore che per risultare idoneo 20 giorni fa aveva pure trasferito la residenza a Sovicille (Siena). Esce sconfitto Franco Bassanini, fondatore di Astrid, un ex socialista ormai abituato da presidente della potente Cassa depositi e prestiti a scrutare vasti orizzonti, ma legato alla banca senese come a una fiamma di gioventù. Perde Giuliano Amato, ex craxiano, ex presidente del Consiglio, ex ministro, ex padre della nuova normativa bancaria. E perde Luigi Berlinguer, presidente dei garanti Pd: ex rettore dell'Università senese, ex ministro della Pubblica istruzione, ex dominus in piazza del Campo. E perde la faccia il sindaco Valentini, appunto, renziano di fatto, anche se assai incauto, convinto che delle nomine al Monte si possa trattare come di un fantino del Palio, per sms con il capo corrente. Domenica, alla festa del Pd di Genova, Renzi aveva rivelato: “Mi ha mandato un messaggino il sindaco di Siena Va-lentini, ‘Matteo, allora vado a dritto sulle nomine, okay? ’. E io gli ho risposto: ‘Bruno ma che c'entro io con le nomine del Monte Paschi’. La politica non deve mettere bocca in queste cose”.
A Siena vincono gli antirenziani, fazione di cui in Toscana porta il gonfalone il presidente della Regione, Enrico Rossi. Con lui si prende una rivincita anche l'ex sindaco senese, Franco Ceccuzzi, antipatizzante dell'attuale primo cittadino. E poi Alberto Monaci, presidente Pd del consiglio regionale toscano, nemico di Ceccuzzi, ma riappacificatosi con lui proprio sulla faccenda della Fondazione. E insieme a loro vincono due che con il Pd c'entrano di sguincio: Fabrizio Viola, amministratore del Monte, che per la Fondazione gradiva qualcuno che non avesse la fregola di interferire con la guida della banca. E Giorgio Squinzi, presidente Confindustria, di cui la giovane Mansi è una pupilla anche per l'amicizia che lega il presidente degli industriali al di lei padre, titolare della Solmine, industria chimica di Scarlino (Grosseto), un tempo nota per gli inquinanti “fanghi rossi”. E la chimica è il settore di Squinzi.
RESIDENTE A CHIUSI (SIENA) da una settimana, la trentasettenne Mansi, vice in Confindustria, vanta un curriculum bancario esile. È consigliere della Bassilichi che gestisce i bancomat Monte dei Paschi e un anno e mezzo fa fu nominata presidente della Federico Del Vecchio, banchetta controllata dalla Popolare dell'Etruria, istituto aretino noto per la più alta concentrazione massonica del mondo. Lì la signora Mansi svolgeva più che altro una funzione di rappresentanza essendo il credito gestito dall'influente direttore generale Vezio Manneschi. Ora la signora dovrà misurarsi con le grane della Fondazione senese che dopo il tracollo del Monte da tigre è diventata micetto. Con incorporate le faide Pd che si riverberano sui quattro della Deputazione amministratrice, scelti pure loro con il bilancino cencellian-democratico. Lei con queste beghe piddine finora aveva avuto a che spartire poco, essendo i suoi orientamenti politici assai aperti, con una predilezione per il Pdl casomai. Due anni fa Denis Verdini l'aveva scelta come candidato alla Regione da contrapporre a Enrico Rossi. Lo stesso Rossi che, ora che la Man-si si è “riposizionata”, l'ha sostenuta per la Fondazione.

Corriere 3.9.13
Uno scisma politico religioso il conflitto tra sciiti e sunniti
risponde Sergio Romano


Vorrei delucidazione sulla natura del contrasto tra musulmani sunniti e sciiti. È forse paragonabile a quello tra cattolici polacchi e ortodossi russi?
Alberto Meroni

Caro Meroni,
E' una domanda a cui ho già cercato di rispondere qualche tempo fa. Ma il problema è drammaticamente attuale e merita qualche ulteriore riflessione.
L'Islam non è soltanto una grande fede monoteista. È anche una comunità di fedeli che ha bisogno di regole, di leggi e soprattutto di un leader. Maometto non è soltanto l'ultimo dei profeti, secondo la concezione musulmana. È anche l'uomo che, cacciato dagli oligarchi della Mecca, si rifugia a Medina, crea uno Stato, ne allarga i confini e ne diventa il Sovrano. Alla sua morte, dieci anni dopo, occorre un successore che verrà scelto fra i suoi più vicini compagni e verrà chiamato «khalifa», una parola araba che, come ha scritto Bernard Lewis in uno dei suoi libri sul Medio Oriente, assomma in sé il doppio significato di successore e vicario.
Ma sin dalla scelta del primo califfo si forma nella grande famiglia maomettana un partito di seguaci (in arabo Shi'a) per cui il «trono» spetta di diritto ad Ali ibn Abi Talib, marito di Fatima figlia di Maometto, e padre dei suoi nipoti. Ali diventerà infine il quarto califfo, ma soltanto dopo l'assassinio del terzo, Uthman, nel corso di una guerra civile. La sua elezione verrà contestata dai seguaci della Sunna, una parola araba che significa grosso modo insegnamento tradizionale o consuetudinario e allude alla prassi politico-religiosa dei primi tre califfi. Ali verrà ucciso in battaglia nel 661 d.C. e il califfato sarà da allora, sino alla sua fine, l'appannaggio di due grandi dinastie.
Alle origine di questa grande frattura vi è quindi un problema di successione dinastica, non molto diverso da quelli che hanno afflitto alcuni Stati europei nel corso della loro storia: York contro Lancaster nell'Inghilterra medioevale, Stuart contro Orange nel Regno Unito, borbonici contro orleanisti nella Francia postnapoleonica e molti altri conflitti dinastici nella grande area del Sacro Romano Impero. Ma l'Islam è anzitutto una fede e lo scisma finisce inevitabilmente per esasperare le divergenze spirituali tra le due famiglie. Non basta. Sciiti e sunniti sono uniti dal culto di Maometto e dalla fede nel Corano, ma divisi da una rivalità che si è progressivamente nutrita di sentimenti identitari, risentimenti sociali, contrastanti ambizioni politiche. Gli sciiti sono quasi ovunque minoranza o, come nel caso del Bahrein, maggioranze governate da minoranze sunnite: una condizione che li spinge spesso a ribellarsi contro l'«oppressore». Ma hanno segnato un punto agli inizi del Cinquecento quando la dinastia sciita dei Safavidi s'impadronisce della Persia e regala alla Shi'a una potente casa madre.
Alla fine della sua lettera, caro Meroni, lei si chiede se il rapporto fra sunniti e sciiti assomigli a quello fra cattolici e ortodossi nel mondo slavo. Risponderò parafrasando ciò che Lev Tolstoj scrisse delle famiglie in Anna Karenina: «Tutte le religioni felici si assomigliano fra loro, ogni religione infelice è infelice a suo modo».

Repubblica 3.9.13
L’intervista
“Non siamo gli sceriffi del mondo l’America è stanca della guerra”
Lo scrittore liberal Paul Auster: ma capisco il tormento di Obama
di Antonio Monda


NEW YORK — Paul Auster vive con angoscia l’intenzione di Obama di attaccare la Siria, e segue giornalmente l’evoluzione di una situazione ancora molto incerta, nella quale sembra che ogni soluzione possa portare elementi negativi e anche tragici. «Non avrei mai pensato di vivere nuovamente, una situazione del genere» racconta con tono amaro e disilluso. «Sembra che l’America, e con essa il mondo intero, sia condannato alla violenza».
Come si sente un liberal di fronte ad un presidente democratico che scatena la guerra?
«Mi sento male, e vivo questo momento con grande disagio. Capisco l’angoscia del presidente ».
Ritiene che Obama sia titubanteo ragionevole?
«Mi sembra tormentato. Io personalmente sono fermamente contrario, ma voglio dire che quella di Obama non è una vera dichiarazione di guerra. Non capisco dove possa portare un conflitto di questo tipo, se non a nuove tragedie. Non mi sfuggono gli elementi coinvolti in questa situazione: le stragi di civili, la repressione, la dittatura, gli interessi e le pressioni opposte di Iran e Israele».
Obama è anche premio Nobel per la pace...
«Questo è il mondo in cui viviamo: anche chi è animato da buone intenzioni, una volta che assume ruoli di questa responsabilità, deve prendere decisioni tragiche e violente. La situazione generale è assolutamente precaria, e ogni giorno più rischiosa: non mi sento di attaccarlo».
Non si tratta della prima scelta in questa direzione: ha bombardato la Libia senza voto del Congresso, per prevenire un massacro di civili. E poi, con i droni, il Pakistan, la Somalia e lo Yemen.
«Questa ovviamente è una tragedia, e spero che proprio queste esperienze possano convincerlo a rinunciare ad attaccare, anche se ci sono molti elementi che invocano risposta e fanno capire che in Siria la situazione è tragica».
Kerry ha paragonato Assad a Hitler, ma, paradossalmente, per tutte le logiche implicazioni fa maggiore impressione il paragone con Saddam.
«È un altro elemento che mi ha riempito di angoscia, e non mi sfuggono le implicazioni logiche. Credo tuttavia che al di là della retorica politica, utilizzata per convincere il Congresso e l’opinione pubblica, il motivo di quel paragone sia dovuto all’uso dei gas, utilizzati in passato da Saddam. E per quanto riguarda Hitler, i gasevocano i campi di sterminio. Detto ciò, c’è da riflettere sul fatto che uccidere con bombe o fucili non è moralmente meno grave che utilizzare i gas».
L’America sembra sola: Bush aveva con sé la “coalizione dei
volenterosi”, Obama ha solo la Francia, l’Australia e la Turchia.
«L’America è stanca della guerra, e il mondo rischia di stancarsi dell’America. Aggiungo che, considerato quello che è successo nel Parlamento inglese, anche la Gran Bretagna appare stanca e disillusa».
Secondo lei cosa succederà al Congresso?
«Io penso che sarà un voto estremamente incerto, e comunque vada a finire, per Obama sarà un momento difficile, forse anche tragico».
La risoluzione per l’intervento in Iraq fu approvata dal 61%dei Democratici della Camera e dal 58% al Senato. Tra i sì ci furono Clinton e Kerry.
«Il mondo politico, nei momenti tragici, tende a stringersi attorno al comandante in capo: anche i presidenti più discussi o odiati, ricevono applausi ad esempio nel giorno del discorso allo Stato dell’Unione. Credo che la votazione del Congresso mostrerà molti voti trasversali, con democratici a favore della guerra e repubblicani contro. Gli interessi lotteranno, come sempre, con gli ideali».
In cosa differisce la guerra di Obama da quella di Bush?
«Continuo a pensare che questa non sia ancora guerra, e spero non lo sarà mai, ma in Siria sono morte decine di migliaia di persone e l’attacco con il gas di pochi giorni fa ha fatto strage di civili e anche di bambini: si tratta di una vera guerra civile. All’epoca di Bush, in Iraq, la situazione era estremamente diversa, e il presidente sabotò le prove dell’esistenza di armi di sterminio».
Rimane il fatto che il presidente che doveva cambiare atteggiamento riguardo al Medio Oriente, oggi continua a bombardare.
«È una situazione tragica, degenerata, dal quale è quasi impossibile uscire senza far danni. Non me la sento di esprimere un giudizio politico, ma solo un auspicio».
Qual è la sua opinione riguardo al concetto degli americani poliziotti del mondo?
«Si tratta di un’enorme questione morale. Da quando ero giovane ho visto il mio paese andare in guerra in posti non doveva andare: il Vietnam, Grenada, l’Iraq. Mi chiedo anche se sia stato giusto intervenire in Kosovo, e in ognuno di questi casi mi sono sempre opposto con forza. Tuttavia, ritornando a quello che mi chiedeva prima, esistono dei casi in cui il problema etico esige una risposta: penso ad esempio al Ruanda. Qual è il limite oltre il quale l’intervento umanitario diventa abuso e sopruso?».

Repubblica 3.9.13
Grass: “Un piano Marshall per l’Europa così la sinistra può battere la Merkel”
Il premio Nobel: “Basta rigore, più investimenti. La ricetta Spd piace ai tedeschi”
di Andrea Tarquini


BERLINO — «Il duello tra la cancelliera e lo sfidante spd mi ha sorpreso. Per la prima volta Peer Steinbrueck ha parlato chiaro conciso e concreto, di strategie di sinistra anticrisi, contrapposte al tatticismo della Merkel. E per i paesi in crisi dell’eurozona ha proposto un Piano Marshall europeo al posto del rigore e basta della sua avversaria». Vivace come sempre, Guenter Grass commenta la situazione creata in Germania e in Europa dal teleduello di domenica sera vinto solo di misura da ‘Angie’. Ecco il suo colloquio con noi e col collega Manfred Bissinger, grande firma tedesca, a margine della presentazione del libro Che cosa ne direbbe oggi Bebel? (edito da Steidl), dedicato da molti intellettuali alla crisi della sinistra tedesca.
Le è piaciuto il duello?
«Mi ha soprattutto sorpreso. Il candidato dell’Spd, descritto dall’inizio da tutti come un perdente, si è mostrato capace di attaccare e contrattaccare preciso. Ha saputo far pensare “Dio, ci serve un cancelliere che difenda gli interessi della giustizia sociale e della qualità della vita”. L’esito del voto è aperto, che la Spd non sprechi la chance».
Può bastare?
«È comunque un passo avanti, un discorso strategico sulle realtà sociali del mondo del lavoro. Steinbrueck ne ha parlato pensando non solo alle aristocrazie operaie europee, bensì ai poveri del mondo, Steinbrueck ha saputo mostrare, nonostante ostilità e critiche di media e intellettuali, di poter essere il cancelliere di cui c’è bisogno, con analisi e strategie».
Sullo sfondo dell’eurocrisi che ruolo ha avuto il duello e avrà il voto tedesco?
«Steinbrueck ha chiesto un approccio tedesco diverso, con la Grecia e non solo. L’aiuto ad Atene, ha detto, va pensato non per salvare là le grandi banche tedesche, ma come una specie di Piano Marshall per i paesi in crisi: per farli uscire dall’orrenda disoccupazione giovanile di massa. Merkel non lo dice, Steinbrueck sì: la differenza avrà effetti dalla Grecia fino alla Francia».
Il duello le è sembrato come a molti una prova generale di Grosse Koalition?
«Io ho sempre detto no a grandi coalizioni, decenni facome oggi. A volte poi la realtà ha creato sorprese, mi ha spinto a correggermi. Ero contro la
Grosse Koalition del 1966-69 con Brandt agli Esteri, ma poi quella soluzione prima offrì anche lati positivi e poi soprattutto, alla fine, portò a Brandt cancelliere. Insomma portò a più mutamenti di quanto io non mi aspettassi allora».
E la Grosse Koalition 2005-2009 a guida Merkel, dopo i sette anni di Schroeder?
«Anche quella portò a risultati positivi, soprattutto per idee e politiche nate essenzialmente col marchio socialdemocatico. Di quei successi non ci ricordiamo, non abbiamo imparato a uscire dal nostro stato permanente di autocritica. Dovremmo invece vantarci di quei successi economici, democratici, di bilancio e occupazione, diventare sfacciati come la Cdu che se ne vanta avendoli raggiunti grazie a noi. Però la Grosse Koalition non può diventare uno stato permanente. La in una democrazia anche la Cdu ha bisogno di un periodo di rinnovamento all’opposizione».
Crede possibile una maggioranza di sinistra, anche con la Linke?
«La Spd non vuole governare con la Linke, soprattutto perché la Linke da erede della Sednon appare un partner adeguato. È ancora erede delle storie tragiche di spaccature a sinistra in Germania e in Europa. Il suo capo, Gregor Gysi, dice con arroganza di “voler ricreare una Spd socialdemocratica”. Lui — erede degli stalinisti secondo cui i primi nemici nella Repubblica di Weimar erano socialdemocratici e centristi, non Hitler — dovrebbe parlare con più umiltà. Non sono premesse per una collaborazione con la Spd. Potrebbe essere che in futuro alcuni militanti e deputati del-l’est, della Linke, abbiano uno stomaco più duro e aprano gli occhi».
E in politica internazionale?
«Una cosa è dire come la Spd che la Nato va riformata, ben altro è chiedere di uscirne, come fa la Linke. Insomma Spd-Verdi- Linke non è possibile, a sinistra va bene solo Spd più Verdi. Dobbiamo convincere soprattutto i molti potenziali non votanti a votare, nel loro interesse, dobbiamo saperci mobilitare come la Cdu mostra di saper fare».

Repubblica 3.9.13
Quando il maestro ti conquista
Il fascino del professore
di Vera Schiavazzi


Mentre la storia triste di un professore di liceo agli arresti per avere intrattenuto lunghe relazioni sessuali con due studentesse è ancora lontana dalla parola fine, migliaia di professori e di ragazzi stanno per tornare sui banchi e cominciare da capo quella che dovrebbe essere anche e forse soprattutto una relazione tra persone.
Un rapporto capace di orientare una vita, di far scegliere certi studi piuttosto che altri, di salvare dalla disperazione adolescenziale nutrendola di versi, numeri, letture. O al contrario di cancellare innocenza e fiducia. A studiare il problema è stato George Steiner. Con un approccio assai più rigoroso di due film di culto come “L’attimo fuggente” di Peter Weir, interpretato da Robin Williams e ambientato nel bigotto Vermont del 1959, o de “La classe” del francese Laurent Cantet, Palma d’Oro a Cannes nel 2008. È stato lui a riconoscere la “corrente magnetica” che passa tra la cattedra e i banchi, tra il maestro e i suoi allievi. E ne vedeva i pericoli e le deviazioni, da Abelardo e Eloisa fino a Martin Heidegger e Hannah Arendt. Le sue storie sono raccolte ne “La lezione dei maestri” (Garzanti, 2004). Forse non è il caso di scomodare Socrate e Platone, Sant’Agostino o Shakespeare per raccontare in che modo il professore di Saluzzo scambiava centinaia di sms con le sue due presunte vittime.Ma il problema esiste e agita le menti dei docenti migliori in tutti i licei d’Italia.
«Per creare relazioni personali e gestirle dall’inizio alla fine occorre un livello straordinario di responsabilità e professionalità — dice Pier Cesare Rivoltella, docente di Didattica alla Cattolica di Milano, alla guida del Cermit, il centro che si occupa di insegnamento e nuove tecnologie — Il sistema scolastico italiano non è in grado di garantire questa premessa in modo generale, ma c’è una sensibilità crescente e nascono molti progetti interessanti capaci di far rinascere un dialogo corretto, anche attraverso i social network. Con l’attenzione del caso, perché questi strumenti presuppongono una relazione paritetica che non è quella propria dell’insegnamento».
«Docente e studente sono due parole bruttissime, io preferisco maestro e allievo — dice Chiesa — Il professore non dev’essere l’amicone dei ragazzi, ma deve conquistarsi la stima sul campo, partendo da tre regole-chiave: ascolto reciproco e reale, rispetto dell’altro per quello che è, fiducia con la quale ci si deve rivolgere al maestro perché le cose che ti chiede, compiti compresi, sono davvero utili. Fatte queste tre cose si può iniziare davvero a insegnare ». La carenza di relazione, il ripiegare su se stessi facendo ilminimo indispensabile da una parte e dall’altra sono, per Chiesa, il vero male delle scuole superiori italiane. «E certo — si rammarica — vicende come quella di Saluzzo non aiutano, anzi, possono intimorire molti insegnanti spingendoli a spersonalizzare ancora di più il loro lavoro».
Le regole non sono soltanto un problema nostrano: «Non si devono confondere norme culturali con altre che invece sono etiche – dice Bruce Weinstein, autore di un manuale sul tema rivolto ai ragazzi in uscita per il Castoro nell’edizione italiana, “E se nessuno mi becca?” – Esistono principi relativi, mutevoli da paese a paese, per esempio come ci si deve vestire a scuola, e altri universalmente inviolabili. Uno di questi è il sesso tra insegnante e alunno. È un limite che non va mai travalicato ». Non solo: «Nella relazione adulto/ragazzo c'è sempre in gioco la gestione del potere. E l'adulto non deve mai abusare di questo potere, anche semplicemente nel modo in cui si rivolge, parla, insegna o punisce un suo studente », osserva Weinstein, mettendo (involontariamente) il dito nella piaga. «Un allievo non è tuo figlio, e tuttavia di lui ti devi far carico a 360 gradi – riflette Fabio Fiore, professore di storia e filosofia al “Newton” di Chivasso dove è in corso una sperimentazione che punta sulle famiglie e sui nuovi media per ricucire lo strappo – Il carisma? Se è troppo può essere un pericolo che sbilancia la relazione. Il fatto è che sono saltati i rapporti tra generazioni, i confini dell’autorità non sono più chiari, la relazione rischia di essere opaca. Per salire in cattedra servirebbe un lungo tirocinio psicologico, inclusa qualche lezione sulla sessualità. Ma ci sono confini che non si possono scavalcare».
Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, docente, uno tra i più autorevoli esperti italiani a occuparsi di adolescenza, ora lavora al progetto Campus, undici scuole superiori di Trento che si sono unite per formare i professori a essere tutor e a seguire individualmente cinque studenti a testa anche fuori dall’aula. «I ragazzi che hanno carenze affettive possono cercare sicurezza e modelli nel professore più facilmente di altri — sostiene Pietropolli Charmet — Ma la scuola comincia a porsi seriamente l’o-biettivo di dilatare la relazione, andando al di là della semplice lezione. I ragazzi di oggi non hanno paura del professore e non si sentono in colpa, portano in aula il corpo, la disperazione, la solitudine, la violenza, tutto. Chi è in cattedra deve mediare tra loro e un sistema di regole scolastiche che senza relazione umana non ha senso». È possibile farlo senza troppi rischi? «La scuola — risponde lo psichiatra — è organizzata nel senso opposto, per impedire i rapporti personali, e guarda con sospetto a chi parla troppo con gli studenti, a tu per tu. È un tabù che deve cadere. I tutor lavorano con l’aiuto di una scheda, annotanoogni colloquio e poi lo condividono con gli altri, sapendo che entrare nella relazione a due significa aprire un coperchio, e che spesso è l’adolescente per primo a proporsi, a chiedere il numero di telefono, a scrivere lettere e messaggi».
Paolo Mattana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca e autore di “Caro Insegnante” per Franco Angeli è la voce dissonante nel dibattito. «La scuola è oggi un luogo di reclusione per bambini e ragazzi — sostiene — come spiegava già Foucault. Si potrebbe anche tollerare, ma il fatto è che non funziona e produce giovani del tutto disinteressati alla cultura e all’etica.Possiamo tornare a appassionarli e a appassionarci all’insegnamento se c’è un interesse autentico, un piacere, un eros che non può venire negato proprio nel rapporto con ragazzi che scoprono la sessualità che si vorrebbe cancellare. Lo chiamo eros, e non “affettività” perché sarebbe ipocrita. E penso che si più rischioso negarlo e nasconderlo che dichiararlo. Il vero scandalo è l’assenza di un’educazione alla sessualità nella scuola italiana di oggi. Se insegniamo senza passione rubiamo la loro vita, li rendiamo catatonici e non dobbiamo stupirci se finita la scuola bruciano o stracciano i libri».
Non solo libri, appunti, compiti a casa, voti in pagella. Ma anche i gesti, la voce, la fascinazione, la capacità di creare un transfert tra allievo e maestro che somiglia da vicino a quello tra lo psicoanalista e il suo paziente. «Ogni mattina entrando in una classe di liceo mi devo chiedere come si conquista la stima degli studenti, che non è scontata come quella che i bambini ti regalano alle elementari. Ma naturalmente se affascini puoi sbagliare, ci vuole capacità e responsabilità per costruire una vera relazione tra persone, al di là della cattedra». Domenico Chiesa è un professore di lungo corso, tra i leader nazionali del Cidi, il Centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Pochi mesi fa era al “Soleri” di Saluzzo nei panni di formatore, per parlare proprio di rapporti umani tra adulti e ragazzi, tra chi insegna e chi deve imparare. Con tutti i rischi del caso.

Repubblica 3.9.13
Non sedurre ma servire, questo  il vero potere
di Mariapia Veladiano


Capita che un docente sia accusato di avere avuto rapporti di sesso, anche violento, con sue studentesse, anche minorenni. Più d'una. Capita che lo ammetta. Più tardi la giustizia dirà tutto quel che può, dopo un processo che deve essere giusto. E intanto però capita che compagni e compagne di classe e di scuola difendano il professore. Bravo dicono, appassionato, innamorato della materia. Innamorato? E allora ci si chiede qualcosa.
Nelle aule come nella vita può capitare che le emozioni diventino bufera che travolge. Nella scuola di più, non solo perché ci si passa un mare di tempo e i rapporti sono stretti stretti e le interazioni necessarie. Ma anche perché le aule sono affollate di portatori privilegiati dell'emozione più potente in noi, il desiderio. Da giovani il desiderio è moltitudine. Essere visti, riconosciuti come persona che vale, amati. Esistere.
Ed è bene che le emozioni attraversino le ore di lezione. Non si trova teoria pedagogica a sostenere che l'apprendimento e il rapporto educativo funzionino meglio in un contesto di gelo relazionale. Gli strumenti critici e le emozioni ci fanno sapere il nostro valore. E insieme viene la libertà. Di non farsi aggirare, di difenderci da soprusi sociali e personali, stereotipi, trappole che ci minacciano. Scuola sta con libertà, se il patto con l'adulto funziona.
Davvero però il rapporto può tracimare in ogni momento, e la letteratura è piena di queste storie con finale a volte chissà letterariamente felice, più spesso incerto. La cronaca invece conosce soprattutto finali drammatici. Il patto stabilisce che nel contesto d'aula il confine dei ruoli è tenuto dall'adulto, che conosce, e riconosce, anche in se stesso, il potere delle emozioni, e in virtù del suo essere adulto le sa governare, anche in sé stesso. E gioca d'anticipo ogni momento, non comprime la distanza con lo studente, che non è distanza di valore, ma di ruolo e di maturità. Non si confonde con lui. Ci sono i confini. Colleghi insegnanti hanno deciso che un confine è non essere amici sui social network fino a che rimane il rapporto di scuola. Niente telefono diretto, niente sms, niente post o tweet. Altri stanno anche su questi confini. Ma conoscono l’arte della misura che non ammicca.
E poi c'è il potere. Sia pure piccolo, corroso da una considerazione sociale in caduta libera e più ancora da una carsica crisi di indotta disistima, in aula il docente porta una forma di potere, quello di riconoscere lo studente oppure no appunto, ed è il potere più forte, aiutato dal potere del voto, la promozione. Credito fra gli amici e in famiglia.
L’unico potere d'aula buono è servizio alle persone che ci sono affidate. Lo è per legge e per deontologia professionale. E invece no. Può capitare che non sia così è diventi mezzo di seduzione, sopruso. Più facile se l'insegnante è bravo. Perché il seduttore ha sempre del buono in sé, altrimenti non sedurrebbe nessuno. Ha il buono di una passione. E quello del desiderio, come i ragazzi. Non coltivato in un sé adulto e appagato ma un desiderio malato di vita. Di tutte le vite. Bisogno di esistere attraverso le vite d'altri, possedute fino all'estremoconfine. Queste cose non capitano nel deserto. C’è sempre un mondo di adulti “sani”, ciechi sordi e muti, intorno. Non tutti colpevoli d'omissione, no. Perché un genitore che trova un professore pieno di entusiasmo, generoso del suo tempo e del suo sapere, amato dai ragazzi, che vanno a scuola volentieri e sono felici, è contento, semplicemente. Certo che deve essere attento, e magari lo è, eppure non vede. Perché il seduttore seduce a trecentosessanta gradi, i genitori anche, e i ragazzi hanno il diritto di non capire la tempesta che li abita, e sono sgomenti e contenti nello stesso momento: un'attenzione malata è pur sempre un'attenzione, un insegnante sedotto è un frammento di onnipotenza nelle loro mani giovani. In un gioco di rovesciamenti che la psicoanalisi sa chiamare per nome e raccontare. Forse è per questo che i ragazzi con ostinazione difendono il docente che esce dal suo ruolo fino all'offesa dei loro corpi e della loro libertà. Perché difendono il loro essere esistiti, assoluti, unici e importanti, per un attimo a volte lungo, perché condannare il seduttore vuol dire riconoscere che l’ingresso travolgente nell’età adulta, vissuto come un posto ricevuto e riconosciuto, non c’è stato. Vuol dire precipitare di nuovo nella paura di non valere.
Però all'appello delle colpe qualcuno può ben essere chiamato. Tutti quelli che per convenienza, piaggeria, quieto vivere, ammiccante connivenza, hanno taciuto. E quelli che sulla scuola non sorvegliano. Che affidano un compito straordinario a persone la cui inadeguatezza, o malattia, colpevolmente non sanno riconoscere.