giovedì 5 settembre 2013

l’Unità 5.9.13
Anche Veltroni ha scelto Renzi
Il Pd, la sinistra e i democristiani
di Michele Ciliberto


A LEGGERE GIORNALI ANCHE MOLTO AUTOREVOLI, LA PARTITA NEL PD SAREBBE LIMITATA A DUE CONTENDENTI, ENTRAMBI POLITICAMENTE E CULTURALMENTE DI MATRICE DEMOCRISTIANA (IN SENSO LATO). Mentre non ci sarebbe spazio per candidati che provengono, sul piano culturale e politico, dalla tradizione della sinistra italiana. È vero questo? E, se fosse vero, cosa significherebbe? Osservo, in via preliminare, che Letta e Renzi perché è di loro, ovviamente, che si sta parlando sono molto diversi e che solo con una certa forzatura si possono ricondurre a una matrice comune. Mentre credo sia possibile ricondurre Letta a un alveo definibile genericamente come democristiano; penso che Renzi sia piuttosto un post-democristiano, pur avendo elementi in comune con quella tradizione. Basta pensare alla loro concezione della politica che in Letta si apre a una funzione centrale della mediazione; mentre in Renzi si svolge in senso alternativo, con una forte, e costituiva, apertura a dinamiche bipolari.
Ma non è di questo che intendo parlare, bensì dell’analisi generale proposta da molti giornali sulla situazione del Pd, con la connessa liquidazione della sua sinistra; e verificarne la validità. Lo dico subito: a mio giudizio è un’analisi legittima ma superficiale perché limitata a un orizzonte che oscilla fra politicismo da un lato e derivazioni di tipo giornalistico dall’altro. La situazione italiana è assai più complessa e drammatica di quanto prospettive di questo genere possano far immaginare. Vorrei partire da un dato materiale: c’è una crisi profonda che spezza tradizionali blocchi sociali e politici introducendo elementi straordinari di mobilità a tutti i livelli. Da essa deriva un risentimento generalizzato contro tutti e contro tutti, a cominciare dalla politica e dai partiti politici. Basta pensare, per averne conferma, al successo del Movimento 5 stelle. Un risentimento da cui scaturisce anche una speciale attenzione, e simpatia (nel senso etimologico del termine) verso quelle personalità della politica che si presentano come distruttori di una intera classe dirigente su cui si riversa il rifiuto, se non il disprezzo, di larga parte del Paese.
C’è qualcosa di pesante che ribolle nelle viscere dell’Italia, con esiti che possono essere imprevedibili. Questo profondo risentimento è una delle ragioni del consenso trasversale che trovano le posizioni che, in modi diversi, si contrappongono al tradizionale ceto politico. Molti osservano che sono posizioni indefinite, indeterminate, ma è una scelta politica voluta, volta a intercettare quel risentimento: il quale parte da punti specifici, ma finisce per coinvolgere ogni cosa; e perciò è, in prima istanza, altrettanto indefinito, indeterminato.
Ma il risentimento e su questo occorrerebbe riflettere non intende esaurirsi in se stesso, vorrebbe uscire dalla crisi, vedere attuate politiche che diano sollievo e speranze ai ceti più deboli e più colpiti. Vorrebbe insomma determinarsi, definirsi. Sta proprio qui in questa crisi e nelle tensioni di questo risentimento la radice materiale dell’esistenza della sinistra, anche della sinistra del Pd, nella società italiana. Certo, a questo disagio non ha corrisposto una consapevolezza teorica e una iniziativa politica adeguata. È questa, a mio avviso, la responsabilità del Pd: non essere riuscito ad esprimere, politicamente, quello che ribolle nel Paese. Ma il fatto che non ci sia riuscito non vuol dire che non possa riuscirci, se cominciasse a fare quello che sarebbe suo compito fare.
In concreto cosa dovrebbe fare? Cito solo qualche punto. Dovrebbe elaborare una cultura politica contrapposta ai cardini del berlusconismo sul piano antropologico, culturale, sociale, anche ideale. Situarsi dalla parte del lavoro, inteso come principio di emancipazione e di liberazione. Schierarsi con gli «ultimi», cioè con i ceti più colpiti dalla crisi e dalle politiche governative degli ultimi anni. Concepire il conflitto come motore di sviluppo e di progresso della società, non come un peso di cui liberarsi. Fare propri i principi della democrazia liberale per quanto riguarda il rapporto, e l’equilibrio, dei poteri. E dovrebbe riuscire ad esprimere iniziative politiche, a livello italiano ed europeo, in grado di coinvolgere anche forze moderate interessate a un progetto di cambiamento e disposte ad uscire dalla gabbia del berlusconismo. In breve: dovrebbe essere una sinistra tanto consapevole di se stessa quanto capace di guardare verso il centro, come è necessario fare in Italia se si vuole arrivare alla guida della nazione.
Se questa analisi, certo sommaria, ha un fondamento, il Pd si deve organizzare sul piano culturale, istituzionale e anche organizzativo tenendo conto di queste priorità. Ma non si tratta solo del Pd; si tratta dell’Italia. Coloro che danno per scontata l’estinzione della sinistra e considerano un residuo del passato il candidato della sinistra alla segreteria del Pd dovrebbero interrogarsi su cosa sarebbe l’Italia senza una sinistra forte, moderna, riformatrice e un Pd con la sua sinistra ridotta al silenzio. Certo, sono rilevanti le personalità del Pd che provengono, in vario modo, dalla matrice democristiana per il lavoro che svolgono a tutti i livelli. Ma bisogna anche sapere che oggi la funzione della sinistra, e anche della sinistra del Pd, è materialmente e politicamente indispensabile. Senza di essa declinerebbe la leva principale della trasformazioni sociali e politiche dell’Italia, almeno quali le abbiamo conosciute fin ad oggi. Ma sopratutto verrebbe meno la sola forza che può dare un esito politico positivo e democratico al risentimento che avvelena l’Italia, contribuendo a portarci fuori della crisi. Non so se sia a tutti chiara l’entità della posta oggi in gioco: il problema sul tappeto, discusso in modo spesso superficiale, riguarda, oltre che il futuro e il destino della sinistra, quello dell’Italia. Di questo si tratta quando si parla del congresso del Pd e dei vari candidati alla segreteria del partito: qualunque sia la posizione presa e la candidatura scelta sarebbe opportuno che si sapesse di cosa si sta parlando.

La Stampa 5.9.13
Centrosinistra, manovre pre congresso
Da Veltroni ai sindaci. C’è l’ammucchiata sul carro di Renzi
Civati accusa: vogliono le larghe intese anche dentro il partito
di Francesca Schianchi


Tra i fedelissimi è un coro unico: dall’Emilia, dove Matteo Richetti non manca una Festa democratica, alla Sicilia, dove ancora ieri Davide Faraone inaugurava un circolo Big bang a Piazza Armerina. «Chi vuole sostenga Matteo, ma sappia che non baratteremo questi consensi con niente». Perché dopo le clamorose aperture degli ex avversari Franceschini e Fioroni a Renzi, ora che la marcia del rottamatore si affolla di pesi massimi del Pd disponibili a sostenerlo, c’è chi, come l’ex segretario Veltroni, mette in guardia sul rischio di «unanimismo»: «Consiglio a Renzi di spiegare la sua intenzione politica nella maniera più chiara e inequivoca possibile, così chi sta con lui non lo faccia per calcoli, ma solo per piena convinzione», cosa, ricorda con amarezza, «che successe a me nel 2007».
Il diretto interessato, il sindaco di Firenze, non commenta e guarda avanti. Ieri era a Roma, per un’affollatissima passeggiata ai Fori imperiali neopedonalizzati insieme al sindaco capitolino, Ignazio Marino. Nessuna dichiarazione pubblica sulle tematiche congressuali, solo «la volontà di collaborare insieme sulla capacità attrattiva delle nostre città», si attiene al tema Renzi, solo un possibile ponte «anche con Venezia per poter creare ricchezza e occupazione». Perché, dice, «credo che l’Italia abbia molto bisogno di ripartire dai comuni, dai territori, dai sindaci». Da lì sta prendendo la volata pure lui: da Virginio Merola a Bologna a Piero Fassino a Torino fino a Michele Emiliano a Bari ed Enzo Bianco a Catania, è tutto un moltiplicarsi di sindaci conquistati alla causa. E anche ex: «Da tempo parlo di Renzi come della persona che sposta più voti – scrive l’ex primo cittadino di Napoli Bassolino – e dunque può battere il centrodestra in campo aperto alle prossime elezioni».
Ma c’è già chi denuncia il rischio che la sua immagine possa passare, come qualcuno ha già detto, da rottamatore a riciclatore, alla guida di un carro (del quasi certo vincitore) carico di volti non esattamente nuovi. «Queste adesioni creano un problema in primo luogo per il tema della rottamazione», attacca l’ex compagno di Leopolda e oggi candidato alla segreteria Pippo Civati, «vogliono fare le larghe intese anche dentro al Pd, mettere insieme cose incompatibili con dentro tutti». Il sindaco fiorentino non commenta, ma anche il suo silenzio su un endorsement pesante come quello di Franceschini è significativo. «Rivolterò il Pd come un calzino», ha detto qualche giorno fa il rottamatore, e il concetto è sempre valido: «Nessuno pensi che Matteo possa snaturarsi: potete stare certi che porterà un rinnovamento della classe dirigente», garantiscono gli uomini a lui più vicini. A cui non sfugge comunque il vantaggio, in vista dell’Assemblea del 20 e 21 settembre, di avere l’ex segretario dalla propria parte: «Così è sventato l’ultimo rischio che avevamo, un colpo di mano sulle regole», sono certi. A patto che il congresso venga fissato: «Le date le concedono i sovrani», rimbrotta il leader Epifani, e subito vari renziani insorgono perché venga fissata una data certa.
Una data per il congresso, senza timori di sostegni ingombranti. «Matteo non ha cambiato impostazione né parole d’ordine, e continuerà su questa strada», garantisce Faraone. «Non c’è stato nessun accordo e nessuna trattativa con chi ha deciso di schierarsi con noi», ribadisce il renziano della prima ora Richetti, «posso garantire che Franceschini e Fioroni non diventeranno il vice di Renzi e il presidente del Pd». Anzi, «spero che Matteo sia particolarmente rigoroso ad esempio sul limite di tre mandati e poi a casa. Io non darei nemmeno deroghe. E di certo – avverte - non è che se Fioroni sostiene Matteo, allora per lui il limite non sarà valido».
"Il fondatore mette in guardia il sindaco di Firenze dal rischio delle troppe adesioni Ma i renziani assicurano: Matteo non si snaturerà né farà patti, punterà al rinnovamento"

La Stampa 5.9.13
La sfida nel Pd
Cuperlo-Renzi le carte segrete
La sfida a rischio di Cuperlo e la carta a sorpresa della Cgil
L’intellettuale che potrebbe calare l’asso del sindacato
Il network: alcuni segretari regionali un po’ di intellighenzia, i vecchi sodali della Fgci
Cuperlo Potrebbe essere considerato un male minore anche dalla Camusso
Conta sull’amicizia di Fabio Fazio e Carlo Freccero, truppe sceltissime, ma esigue
di Federico Geremicca


Qualche segretario regionale, certo. Un po’ di intellettualità con ancora il gusto della partecipazione alle vicende della cosa pubblica. Gli uomini e le donne della “sua” Fgci, roba - però - di venticinque anni fa. E poi, se maturerà alla maniera in cui maturano queste cose - una piccola-grande sorpresa: cioè il sindacato, la Cgil, non tutta certo, ma sicuramente una larga maggioranza, offesa con Matteo Renzi (forse è troppo: diciamo arrabbiata) per i ripetuti attacchi circa la vecchiaia e perfino l’arretratezza di certe posizioni in materia di futuro e di sviluppo del Paese.
Se è molto o se è poco, lo si vedrà: ma è questa la rete di rapporti a partire dalla quale Gianni Cuperlo - 52 anni, triestino, laureato con 110 e lode al Dams di Bologna in comunicazione di massa - tenterà di sbarrare il passo a Matteo Renzi, incamminato verso quelle primarie che dovrebbero incoronarlo segretario del Pd. Per dirla in altre parole - se è vero quel che si racconta circa il capovolgimento dei rapporti di forza tra ex popolari ed ex diessini - è a lui che oggi è affidata la difesa del patrimonio di idee e di valori sopravvissuti alla scomparsa del fu Partito Comunista Italiano.
Non sono molti quelli disposti a scommettere su un risultato a sorpresa e - dunque - su una vittoria dell’ex “allievo” di Massimo D’Alema. Dopo che Matteo Renzi ha prima spaccato e poi aperto il Pd “come una scatola di tonno”, l’impresa di fermarne il cammino pare impossibile: ma Cuperlo non demorde e ancora ieri ha contestato al lanciatissimo sindaco di Firenze di volere un Pd «concepito come un comitato elettorale permanente che serve il leader di turno, il quale vive la responsabilità nel partito come il trampolino verso l’obiettivo vero, l’unico che conti: il governo».
Essendo in campo almeno altri due candidati “di sinistra” (Civati e Pittella), quella di Gianni Cuperlo appare davvero una missione senza speranza, e molti dei suoi sostenitori sarebbero già soddisfatti se raggiungesse il 20 per cento dei voti: una battaglia persa in partenza, insomma. Eppure, l’ex capo dei giovani comunisti al tempo della caduta del Muro di Berlino ha deciso di non saltare sul carro del vincitore e di restare in campo: spera che votino per lui i militanti e gli iscritti del fu partito da cui proviene. E magari un po’ di altri che non amano certe semplificazioni renziane o che sono turbati (per usare un eufemismo) da certi passaggi di campo che rischiano di appesantire e render confuso il progetto ed i disegni del lanciatissimo sindaco di Firenze.
Ma il grosso delle speranze (inconfessabili speranze) è affidato ad una scommessa: che votino per lui i “nemici” di Matteo Renzi (e non sono pochi...), uomini e organizzazioni di un “modello partito” che il sindaco di Firenze non fa mistero di voler demolire. E tra le organizzazioni, in testa a tutte, c’è la Cgil. I contrasti tra Renzi e Susanna Camusso sono noti: meno note, ma ancor più aspre, sono le polemiche che lo hanno contrapposto (per esempio sul Maggio fiorentino) alle organizzazioni sindacali toscane e fiorentine.
Inutile attendere dalla Cgil - e Cuperlo lo sa - dichiarazioni ufficiali di sostegno alla sua candidatura, ma una sorta di passaparola comincia ad animare l’organizzazione della Camusso: «Con Renzi mai, non si può: meglio Cuperlo, che almeno crede che il sindacato serva ancora». Dall’intensità di questo passaparola dipenderà - probabilmente - l’entità del consenso che raccoglierà quello che appare, al momento, il più forte degli sfidanti di Matteo Renzi. Non è molto, ma non è che ci sia granchè d’altro...
«Ha molti consensi nel mondo dell’università e della cultura», dice Enzo Amendola, dalemiano schierato con
Cuperlo. «Può contare su una rete di ex Fgci ancora in pista in tutt’Italia», aggiunge Fabrizio Rondolino, con Cupero a Palazzo Chigi negli anni della presidenza D’Alema. Ha amici e sostenitori - è vero - nel mondo dello spettacolo e della Tv, da Fabio Fazio a Carlo Freccero. Truppe scelte, certo: ma esigue e insufficienti di fronte alla slavina di consensi calamitati da Renzi. Una battaglia difficile, forse impossibile. Lettiani e bersaniani sono infatti in cammino verso il sindaco di Firenze, e non sembrano voler fermarsi. Ma Cuperlo va avanti e non si arrende: insensibile alla saggezza del motto che vuole che certe battaglie, piuttosto che perderle, è meglio non cominciarle...

Corriere 5.9.13
Nuova maggioranza a portata di mano
Ma ora il Pd ha paura della svolta
Per i bersaniani un governo «raffazzonato» aiuterebbe il sindaco
I renziani sperano nel voto a marzo. Le ipotesi di mediazione con il premier
di Maria Teresa Meli

qui

Corriere 5.9.13
Sergio Cofferati
L’ex leader della Cgil ed eurodeputato pd: «Renzi ha poteri di suggestione, non una proposta politica specifica sui temi economici e sociali»
intervista di Andrea Garibaldi

qui

l’Unità 5.9.13
M5S, tocca a Orellana Grillo: è come Scilipoti
Walter Rizzetto: «Basta epurazioni. Sulle alleanze decidano gli iscritti»
intervista di A. C.


«Orellana come Scilipoti? Non scherziamo. Non conosco persone più distanti da Scilipoti», spiega Walter Rizzetto, deputato a 5 stelle. «Non ha affatto proposto un alleanza col Pd, men che meno vuole vendersi. Ha detto che bisogna cercare un confronto e un dialogo con altre forze politiche. In fondo anche Crimi e Lombardi sono andati da Bersani a marzo per parlare e dunque non vedo perché lui ora debba essere attaccato in questo modo».
E invece eccolo additato sul blog di Grillo come l’ultimo traditore. Dopo una estate decisamente nervosa tra voi 5 stelle.
«È un momento di nervosismo per tutte le forze politiche, noi compresi. Ci sono dei nodi importanti da sciogliere, dalla decadenza di Berlusconi alla difficile navigazione del governo».
Cosa dovrebbe fare il M5S in caso di crisi?
«Dobbiamo consultare la nostra base, gli attivisti in rete. Noi siamo solo dei portavoce».
Alcuni suoi colleghi, come Vito Crimi, sostengono che sul tema delle alleanze non c’è niente da consultare. Siete ontologicamente contrari...
«Io rispondo agli attivisti e a chi ci ha dato 8 milioni di voti, non ad altre logiche».
Se dunque la Rete vi dicesse che è necessario fare un nuovo governo per cambiare la legge elettorale?
«Sarebbe una indicazione importante di cui tenere conto. Poi è giusto che l’assemblea di tutti i parlamentari si riunisca per prendere una decisione definitiva. Ma gli elettori vanno ascoltati ed è quello che sto facendo in queste serate nei meet up del Friuli. Da tempo aspettiamo un portale per i referendum in rete, mi unisco ai tanti che lo chiedono a gran voce».
Rischia di arrivare dopo la crisi di governo?
«È un rischio possibile. Ma io non credo in una crisi prima del 9 settembre. Mi pare che Berlusconi stia cercando di fare pressioni sul Pd, sul governo e sui componenti della Giunta del Senato». Di solito quando uno di voi finisce additato come reprobo per nome e cognome sul blog di Grillo poi viene espulso. Sarà un nuovo caso Gambaro?
«Io dico di no. Orellana non merita un trattamento del genere. Il caso Gambaro è già stato molto difficile, ci ha divisi. E non voglio neppure pensare che si ripeta. Il M5S ha bisogno di uno come lui, uno che il movimento ce l’ha dentro». Stavolta il movimento rischia di dividersi? I segnali non mancano...
«Io mi auguro di no, abbiamo bisogno di tutto tranne che di una scissione». Anche alla Camera non manca chi ha preso le distanze da Grillo difendendo Orellana...
«Conosciamo lo spessore della persona e non possiamo esimerci. Non stiamo parlando di un saltimbanco o di un opportunista. E sfido chiunque a dimostrare il contrario».
Il senatore Romani parla di un movimento diviso in due.
«Vedo soprattutto una gran voglia di discutere, di confrontarsi. Ben venga il contraddittorio. È questa la strada per risolvere anche il caso Orellana. Fino a sei mesi fa nessuno di noi si conosceva, non è così facile amalgamare un gruppo così ampio di persone».
Il senatore Battista ricorda a Grillo che nei giorni della candidatura di Rodotà al Colle si era parlato di «praterie» per un governo col Pd...
«Con Rodotà al Quirinale sarebbe stata forse un’altra storia. Ma ora bisogna guardare avanti, senza rimpianti. Nell’interesse non solo dei nostri elettori, ma di tutti gli italiani. Io per ora non vedo segnali di uscita dalla crisi».
E se l’espulsione di Orellana sarà ufficializzata da Grillo?
«Voterò no, come ho fatto nel caso della Gambaro».
Ma ci sarebbero conseguenze oppure alla fine accettereste un’altra epurazione senza fiatare?
«Mi pare prematuro parlarne ora, sono decisioni che vanno prese insieme ad altri colleghi. Intanto comincerei con l’epurare Berlusconi dalla vita politica». Non si potrebbe fare dando vita a un nuovo governo senza Pdl?
«È una possibilità da valutare, anche perché sarebbe una via politica per archiviare Berlusconi. Ma in questi mesi ho imparato a conoscere il Pd e non vedo possibilità per una convergenza. La cosa più opportuna, in caso di crisi, sarebbe tornare al voto dopo aver cambiato la legge elettorale».

Corriere 5.9.13
Il giudice non risponde agli elettori ma alla legge uguale per tutti
di Corrado Stajano


Nel 2002 il governo Berlusconi d’epoca decise di far scomparire dalle aule dei tribunali la scritta «La legge è uguale per tutti» che poteva intimidire, così aggressiva. Fu sostituita da una frase più morbida e amichevole, «La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano». Gli ignari e i distratti non ci fecero caso, ai pochi che protestarono fu risposto: che cosa c’è da scandalizzarsi? Le sentenze non vengono emesse dai giudici «in nome del popolo italiano»?
Il nodo dell’attuale conflitto sull’agibilità politica di B., inimmaginabile almeno da due secoli in un Paese civilizzato del mondo occidentale, è proprio legato alla sostanziale diversità di quelle due frasette. «La legge è uguale per tutti» è un motto ben chiaro, senza ambiguità. I cittadini, come è scritto anche nell’articolo 3 della Costituzione, forse il più importante della somma Carta, sono uguali davanti alla legge: l’uguaglianza è il fondamento dello Stato di diritto.
L’altra dizione, invece, ha non casualmente il significato opposto trasformando in giudice il popolo, privo di sovranità. È quel che B. e i suoi fedeli vorrebbero anche oggi. Come si può condannare, sostengono infatti, un leader politico, come escludere dal Senato di cui fa parte un capopartito che anche alle ultime elezioni ha ricevuto milioni di voti? Deve essere il popolo, il «suo» popolo, il vero giudice: un giudice amico che l’ha già assolto. Si cancellano in questo modo intere biblioteche di scienza giuridica. La legge è uguale per tutti ma non per B., anche se condannato con una sentenza definitiva a una grave pena dalla Suprema Corte per un’«enorme evasione fiscale realizzata con società off-shore».
Non è una variante filologica quella scritta apposta nelle aule dei tribunali che il governo Prodi cancellò nel 2006, ma il cuore della politica dell’ex presidente del Consiglio e dei suoi fedeli, l’avallo della caduta di ogni regola. L’opinione pubblica d’Europa di cui l’Italia ha non poco bisogno è esterrefatta e irridente di fronte alle grandi manovre degli azzeccagarbugli di B. che si stanno agitando come anguille per salvarlo da questa pesante sentenza senza scampo. In quei Paesi è costume infatti che un uomo politico si dimetta anche per le più minute illegalità, come qualche giorno fa il presidente della Repubblica federale tedesca Christian Wulff accusato di aver ricevuto piccoli favori da imprenditori amici.
Qui da noi, invece, si sostiene che B. dovrebbe essere graziato, la sua pena abrogata o almeno commutata anche se non esistono le necessarie ragioni umanitarie, il suo scranno rosso al Senato conservato in nome del bene comune, della crisi economico-finanziaria e soprattutto delle «larghe intese». (Ma forse l’ex presidente ha compreso che quel ricatto, la tenuta di Letta in cambio della sua salvezza — anche ieri ha minacciato di «staccare la spina» — non gli conviene: è il governo la sua vera guardia del corpo).
Non conta, sembra di capire, il principio di legalità, essenziale in uno Stato di diritto, non importa che B. non sia neppure un «pentito» ma si senta solo un perseguitato. Tra l’altro l’ex presidente del Consiglio non ha un sereno avvenire nei tribunali della Repubblica. Lo attendono in appello a Milano il processo Ruby (sette anni in primo grado e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici) e il processo per concussione nel caso Mediaset; a Napoli il processo, forse il più grave, per la corruzione dell’ex senatore De Gregorio, reo confesso: un mucchio di denaro per far cadere il governo Prodi. Saranno necessarie in caso di condanna un’infinità di grazie? La grazia a vita, forse.
C’è qualcosa di grottesco in questo gran pasticcio. La Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato dovrà cominciare la prossima settimana a discutere sulla validità della legge Severino — l’incandidabilità di chi è stato condannato per gravi reati — concordemente votata dagli stessi che ora debbono giudicare: è retroattiva, non è retroattiva, può essere inviata alla Consulta, oppure no?

La Stampa 5.9.13
Ior, le carte
“Il condono dell’Ici alla Chiesa? Ci aiuta il ministro Tremonti”
Nelle mail di Gotti Tedeschi alle alte sfere vaticane affari, pressioni e raccomandazioni
Il caso San Raffaele. La tassa sugli immobili. Gli amici degli amici. Gli intrecci con la politica
di Guido Ruotolo


Il terremoto si avvicina. Primi segnali dello scandalo Vatileaks, delle faide interne al Vaticano, dei corvi e della bufera che sta per investire l’Istituto opere religiose (Ior), la banca del Vaticano. Ettore Gotti Tedeschi, banchiere, presidente dello Ior, poi costretto alle dimissioni, è un attento osservatore, oltre che uno dei protagonisti di questo terremoto che sta per cambiare gli equilibri interni alla Curia romana, e che porterà Papa Francesco a dare vita a una strategia di cambiamento radicale nel mondo della Chiesa. Quelle che seguono sono mail tratte dall’immenso archivio - oltre quarantamila pagine - del banchiere Ettore Gotti Tedeschi, sequestrato dall’autorità giudiziaria
È il 14 febbraio del 2011 e il presidente dello Ior spedisce un documento riservato al segretario del Papa, padre Georg. Lui la chiama, in realtà, «nota un po’ sofisticata». Specifica il banchiere: «Si tratta di una nota riservata che ho scritto per il professore Vian per una possibile memoria, riscritta da Vian, per il Segretario di Stato e suppongo successivamente, per un sì interno, se verrà apprezzata. In questa nota miro a comparare i Patti Lateranensi con la Legge Antiriciclaggio. L’intento è cercare di spiegare con ogni mezzo l’opportunità e la bontà intrinseca (non sempre purtroppo apprezzata) di ciò che è stato fatto. La provocazione che utilizzo è che la Legge Antiriciclaggio equivale ai Patti Lateranensi nel mondo globale. Spero possa persino trovarla divertente».
Risponde il segretario del Papa, dopo averlo letto: «Caro Presidente, un testo particolarmente interessante ed attuale. Grazie per aver lo mandato, Le cose vanno bene avanti? Saluti cari. Don Giorgio».
Il documento di cui parlano padre Georg e il banchiere, risale al 28 marzo del 2011. Sembra un manifesto programmatico di rifondazione della finanza vaticana. «È questo il momento di valutare l’opportunità di creare una specie di “ministro dell’economia” presso la Segreteria di Stato della Santa Sede, secondo criteri specifici che accennerò di seguito, proponendo tre progetti essenziali».
Il primo è quello di restituire credibilità al Vaticano. Come? Bisogna inserire «la Santa sede nella cosiddetta white list». Arriviamo allo Ior: «Bisogna rafforzare le attività dello Ior, ridefinendone gli obiettivi e attuando nuova e adeguata governance». Ma dice anche che occorre «ridefinire obiettivi e strategie di Enti quali Apsa, Governatorato, Propaganda Fide».
Mancano pochi giorni alla grande retata (13 dicembre del 2011) per il San Raffaele di Milano. Gotti Tedeschi il 5 dicembre alle 8,42 spedisce una mail a Georg Gänswein, segretario di Papa Ratzinger.
«Caro Mons. Georg, il professore Giovanni Maria Flick, nella sua qualità di consigliere di amministrazione della Fondazione del San Raffaele, da tempo esprime disagio verso la gestione dell’attuale processo. Questo disagio lo ha anche più volte esternato senza esito. Ieri mi ha chiesto di poter intercedere per poter parlare con lei. La prego di farmi sapere i suoi desideri, in proposito. Suo Ettore Gotti Tedeschi».
Lo stesso giorno, alle 19,32, risponde padre Georg: «Caro Presidente, volentieri sono disponibile a incontrare il professore Flick, in questa settimana. Purtroppo non è più possibile, ma certamente nella settimana prossima. Propongo martedì 13 alle 18. Andrebbe bene? Saluti. Don Giorgio». All’incontro però Flick non potrà esserci. Ma a don Georg, Gotti Tedeschi manda (il 22 dicembre) una memoria riservata per il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, «per sua opportuna conoscenza».
Bel problema, quello delle tasse sugli immobili della Chiesa che non sono utilizzati per fini religiosi. Il presidente dello Ior il 30 settembre del 2011, manda una memoria al Segretario di Stato, Cardinal Tarcisio Bertone.
E per «Sua Conoscenza», spedisce via mail una copia del documento anche a padre Georg, il segretario di Papa Ratzinger: «Caro Mons. Georg, Le allego il documento sul problema piuttosto grave dell’Ici che credo di aver risolto, o quantomeno creato le condizioni per riuscirci. Ieri abbiamo parlato con il commissario Europeo Almunia che sembra pronto a concedere una dilazione fino a fine novembre, a condizione di ricevere una lettera che lo spieghi dal ministero del Tesoro. La segreteria del ministro Tremonti la manderà in questi giorni. Suo Ettore Gotti Tedeschi».
L’incipit del «riservato e confidenziale», il documento spedito al Segretario di Stato e al segretario del Papa, rivela una «fonte privilegiata» del banchiere nell’elaborare la memoria stessa: il ministro del Tesoro Giulio Tremonti.
Gotti Tedeschi ricorda che la Commissione Europea, su denuncia del mondo radicale (2005), viene trascinata a contestare l’estensione Ici sugli immobili della Chiesa non utilizzati per fini religiosi, «pertanto quelli “commerciali”, cioè scuole, collegi, ospedali ecc.. (Esclusi quelli che ricadono sotto il Trattato dei Patti Lateranensi) ».
«Nel 2010 la Commissione Europea avvia una procedura contro lo Stato italiano per “aiuti di Stato” non accettabili alla Chiesa Cattolica. Detta procedura evidenzia oggi una posizione di rischio di condanna per l’Italia e una conseguente imposizione di recupero delle imposte non pagate dal 2005. Dette imposte deve pagare lo Stato Italia che si rifarà sulla Cei (si suppone), ma non è chiaro con chi per Enti e Congregazioni».
A questo punto, la memoria indica le tre possibili alternative per risolvere il problema: «Abolire le agevolazioni Ici (Tremonti non lo farà mai). Difendere la normativa passata limitandosi a fare verifiche sulle reali attività commerciali e calcolare il valore “dell’aiuto di Stato” dato. (Non è sostenibile) ».
Terza strada: «Modificare la vecchia norma contestata dalla Comunità Europea. Detta modifica deve produrre una nuova norma che definisca una categoria per gli edifici religiosi e crei un criterio di classificazione e definizione della natura commerciale (secondo superficie, tempo, utilizzo e ricavo). Si paga pertanto l’Ici al di sopra di un determinato livello di superficie usata, di tempi di utilizzo, di ricavo. A questo punto la Cei accetta la nuova procedura. Detta accettazione fa decadere le richieste pregresse (dal 2005 al 2011) della Comunità Europea (Almunia) deve accettare».
La memoria di Gotti Tedeschi è del 30 settembre. È si conclude con degli impegni precisi: «Incoraggiare monsignor Rivella ad accelerare un tavolo di discussione». L’interlocutore del ministero delle Finanze è Enrico Martino (nipote del cardinale Martino).
Si occupava di tutto e forse anche di più, Ettore Gotti Tedeschi. Non era solo il numero uno della banca vaticana. Era, lo è ancora oggi, il numero uno in Italia del Banco di Santander, e attraverso il carteggio sequestrato, emerge anche un fine analista politico e non solo. Ma non disdegnava certo di occuparsi di cose molto terrene. In una mail dell’11 marzo del 2012 indirizzata a monsignor Lech, il factotum segretario del cardinale Tarcisio Bertone, allega una nota riservata per il Segretario di Stato.
«Mi risulta da fonti attendibili che la nomina di Lorenza Lei alla direzione generale della Rai possa trovare ostacoli. Due ragioni principali: risulta che la dottoressa Lei avrebbe in un paio di occasioni “sussurrato” che il cardinal Bertone ha ricevuto assicurazioni da Berlusconi sulla sua nomina. Queste dichiarazioni (vere o false in questi termini) n hanno però provocato una certa opposizione interna ed esterna a detta designazione “Oltretevere” (pare soprattutto da parte del vicedirettore Comanducci, in quota Forza Italia, designato da Previti). Risulta anche che la Lega voglia contare in Rai e cogliere questa occasione di rinnovo vertici per avere un proprio dg. Mi viene detto che il candidato della Lega è l’attuale vicedirettore Marano».
L’ex sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, ex magistrato, ex An, è sempre stato un cattolico conservatore. In queste mail che spedisce a GottiTedeschi, l’esponente politico perora la causa del sostegno della Cei alla questione del «testamento biologico».
«Caro Ettore, perdonami ma sulla questione del testamento biologico vi è la necessità che dalla Cei ci arrivi qualche segnale. So di pareri analoghi a quelli che ho cercato di scrivere, che stanno giungendo anche da altri al Cardinale presidente. Vorrei far pervenire il mio. Un caro saluto in Domini».
Risponde Gotti Tedeschi: «Alfredo ti ho riscritto la lettera introduttiva, adattandola a quello stile che io considero più proprio, semplice e sintetico per Sua Eminenza. Vedi poi tu Ettore».
Mantovano non ha ricevuto le modifiche proposte. Il banchiere: «Ma come, te l’ho rinviata subito corretta radicalmente, sconsigliandoti di inviare quella originale... ».
È avanti Mantovano. che non trova sponde nel suo partito: «Il testo approvato dalla commissione Affari sociali della Camera ha subito incisivi cambiamenti in pejus». Ha protestato con il suo capogruppo: «Mi è stato detto che quelle modifiche sono state concordate con un soggetto autorevole, delegato dalla Cei che - poiché una delle ragioni per le quali si sta provando ad approvare la legge è di venire incontro alle esigenze del mondo cattolico italiano - è strano che io critichi le modifiche, quasi a voler pretestuosamente essere più papista del Papa».

Corriere 9.5.13
Nomine, pressioni e trattative
Le carte segrete di Gotti Tedeschi

Le mail dell’ex presidente della banca vaticana
di Fiorenza Sarzanini

qui

Corriere 5.9.13
Violenze alle donne il mostro che è in noi
di Beppe Severgnini

qui

l’Unità 5.9.13
Sequestrò tre ragazze in Ohio, si impicca in carcere
«Non sono un mostro sono malato», aveva detto al processo. Era stato condannato a 1000 anni
di Sonia Renzini


«Ho passato 11 anni all’inferno, adesso il tuo inferno è appena cominciato», aveva detto Michelle Knight in lacrime al processo del suo carnefice, l’ex autista di autobus di 53 anni Ariel Castro che per 11 anni l’aveva tenuta segregata in casa abusando di lei e di altre due giovani donne, Amanda Berry e Gina De Jesus, rapite come lei tra il 2002 e il 2004. Invece l’inferno per il mostro di Cleveland è durato solo un mese. È stato trovato impiccato in carcere martedì scorso nella sua cella del Correctional Reception Center di Orient in Ohio, dove era rinchiuso dal 1 agosto, quando era stato condannato all’ergastolo per sequestro di persona, violenza carnale e tortura pluriaggravata al termine di un processo che aveva fatto rabbrividire il mondo.
«Non sono un mostro, sono una persona normale, sono solo malato. Ho una forma di dipendenza come un alcolista», aveva provato a difendersi raccontando degli abusi sessuali subiti da bambino e millantando rapporti consensuali con le vittime. Un estremo quanto inutile tentativo di negare quel concentrato di depravazione venuto alla luce solo con la fuga delle donne. Era riuscito a evitare la pena di morte grazie ad un patteggiamento con i procuratori, che avevano cercato di evitare alle vittime di essere costrette a testimoniare al processo. Ed era finita con oltre mille anni di carcere, questa la pena per avere cancellato la vita di tre donne rapite alla loro normalità rispettivamente all’età di 14, 16 e 20 anni, e costrette a divenire adulte in quella casa degli orrori demolita appena il mese scorso. Ben 937 i capi di accusa di cui Castro era stato riconosciuto colpevole dopo il suo arresto il 6 maggio scorso e la liberazione miracolosa delle giovani in seguito alla fuga della 27enne Berry, che oggi ha una figlia di 6 anni avuta proprio da Castro (anche Michelle Knight era rimasta incinta, ma aveva abortito per le percosse e la privazione di cibo). Berry era riuscita ad attirare l’attenzione di un vicino di casa, attraverso una porta sbarrata, mentre l’uomo era fuori. «Sono stata rapita e ora sono qui, sono libera», aveva detto alla polizia.
«È STATO UN VIGLIACCO»
Un caso di suicidio apparente lo ha definito la portavoce dei servizi penitenziari dello Stato Usa, Jo Ellen Smith, secondo cui le guardie del carcere di Orient hanno scoperto il cadavere di Castro durante un controllo di routine. Inutili i tentativi di rianimazione, trasportato all’Ohio State University è stato dichiarato morto poco più di un’ora dopo. Difficile al momento capire come sia stato possibile, visto che Castro era tenuto in isolamento e veniva sottoposto a controlli ogni 30 minuti. È vero che non era oggetto di sorveglianza anti suicidio, questo pare accertato, nonostante lo fosse stato in precedenza, subito dopo il suo arresto, alla prigione della contea di Cuyahoga. Ai primi di giugno, però, le autorità avevano annullato i controlli poiché accertato che non era a rischio suicidio. Il pubblico ministero della contea Timothy McGinty lo ha definito un vigliacco. «Non ha saputo sopportare nemmeno una piccolissima parte di quello che ha causato», ha detto.
Esprime disappunto la famiglia di Castro per avere appreso la notizia dai media, due ore dopo il decesso. Lo ha detto alla Cnn Juan Alicea il cognato di Castro, mentre la cugina, Maria Castro Montes, ha raccontato di avere pianto alla notizia della morte: «Il mio primo pensiero è stato se le ragazze lo sapevano. Forse questa è stata la cosa migliore. Non penso che avrebbero mai trovato pace con lui in vita».

l’Unità 5.9.13
Psichiatra uccisa da un paziente
di Dino Martina


Ventotto coltellate tra schiena e gola. Una rabbia cieca quella di Vincenzo Poliseno, 44enne con problemi di alcool e tossicodipendenza, che ieri ha aggredito e ucciso Paola Labriola, 53enne psichiatra, al lavoro in un Centro di igiene mentale di Bari. Lo ha fatto perché voleva soldi. Soldi che aveva provato a chiedere al centro in cui è in cura, nel rione periferico di San Paolo, trovando però, alle 7 del mattino, la struttura chiusa. E poco più tardi, negli uffici della circoscrizione del rione Libertà, dove ha insistito più volte per avere del denaro ed è stato allontanato bruscamente. Non lontano dalla sede della circoscrizione, alle 9.30, le grida della donna hanno richiamato medici e infermieri in servizio nel Cen-
tro di salute mentale. La donna è stata trovata agonizzante in una pozza di sangue. Poliseno le aveva chiesto denaro ma aveva ricevuto un rifiuto. La corsa dei soccorritori del 118 è stata inutile. L’uomo, a pochi passi dal suo corpo, ancora armato e apparentemente lucido, ha atteso l’arrivo degli agenti della squadra volanti della polizia. Per lui l’accusa è di omicidio volontario.
In cura da diversi anni, Poliseno non era paziente di Paola Labriola e al Centro del rione Libertà si era rivolto sporadicamente in passato. La psichiatra lascia tre figli, tra cui due gemelli di 12 anni, e il marito, psicologo, arrivato quasi subito sul luogo dell‘omicidio. Entrambi i coniugi sono conosciuti e stimati da pazienti e colleghi. La scena e la notizia dell’omicidio hanno sconvolto tanti. Alcuni si sono scagliati contro il direttore
generale dell’Asl di Bari, Domenico Colasanto, denunciando le condizioni precarie in cui si trovano a lavorare i medici, senza un servizio di guardia nei luoghi più delicati. Ieri, la tensione nei Centri di salute mentale della Regione era altissima. Ogni atteggiamento fuori dalle righe da parte di pazienti ha prodotto segnalazioni e telefonate frenetiche fra operatori e medici. Uno psichiatra che lavora al centro di ascolto di Putignano racconta di un infermiere finito sotto indagine per aver risposto alle aggressioni fisiche e alle ripetute minacce di morte di un paziente. Anche l’assessore regionale alla sanità, Elena Gentile, e il sindaco Michele Emiliano, hanno raggiunto il Centro di salute mentale, del quartiere. «Paola Labriola è una martire della città» ha detto a caldo Emiliano che ha poi proclamato il lutto cittadino.

il Fatto 5.9.13
Distrutto per sempre il gesso di Canova in una mostra inutile
Doveva essere trasportato da Perugia ad Assisi in un’esposizione della Fondazione di Galan, la stessa che usò le opere del Maestro per la pubblicitò della lingerie
di Tomaso Montanari


Prima o poi doveva succedere: il mostrificio italico ha fatto una vittima illustre. Il 2 agosto un bassorilievo in gesso di Antonio Canova è stato staccato dal muro dell'Accademia d'Arte di Perugia per essere spedito a soli 24 chilometri di distanza, a una trascurabile mostra di Assisi intitolata semplicemente “Canova”. L’operazione, affidata alla ditta di trasporti Alessandro Maggi di Pietrasanta, è stata fatale: il gesso, cadendo, si è ridotto in mille pezzi. E non c'è restauro che tenga.
L’opera era uno dei pochi esemplari noti dell'Uccisione di Priamo, episodio omerico che insieme ad altre famose scene della letteratura classica ispirarono a Canova una delle sue più celebri serie di bassorilievi. Proprio come il bronzo, il gesso consente di moltiplicare gli originali, e in questi casi l'importanza dell'esemplare è legata alle circostanze della creazione: e quello di Perugia aveva tutte le carte in regola, perché era stato donato all'Accademia dagli eredi dello stesso Canova. L’assicurazione dovrebbe ripagare 700.000 euro. Magra consolazione: la nostra generazione ha distrutto qualcosa di unico e irripetibile, che non passeremo ai nostri figli.
DELITTO NEL DELITTO, su questo episodio clamoroso è scesa una coltre di silenzio: la notizia non è riuscita a evadere da scarne cronache locali, e i grandi giornali (che vivono anche del business delle mostre) si sono ben guardati dal raccontare il disastro perugino. Né il sito dell'Accademia né quello del ministero per i Beni Culturali ne danno notizia. L'unico che ha messo il dito nella piaga è lo storico dell'arte Francesco Federico Mancini, in una bella intervista al Corriere dell'Umbria. Mancini chiarisce assai bene la costellazione strumentale e commerciale sotto la quale è nata la mostra che è all'origine di quella che definisce una “gravissima perdita per il nostro patrimonio” che suscita “sconcerto e indignazione”.
La mostra di Assisi è una specie di franchising della Gipsoteca Canoviana di Possagno, l'istituzione che raccoglie l'eredità dell'artista, e che oggi è stata trasformata in una fondazione, e dunque immancabilmente cannibalizzata dalla politica. Il suo presidente, infatti, è il solito Giancarlo Galan, l'ex ministro pdl per i Beni Culturali il cui consigliere saccheggiò la Biblioteca dei Girolamini a Napoli. Il rapporto culturale tra Galan e Canova è ben chiarito dalla scelta di far realizzare (nel novembre 2012) un catalogo di Intimissimi nella Gipsoteca: una galleria fotografica in cui tombe papali, santi e eroi classici servono a vendere mutande e reggicalze. Una scelta benedetta dall'allora sottosegretario ai Beni Culturali Roberto Cecchi (governo Monti), il quale dichiarò sottilmente che “economia e cultura sono un tutt'uno, non a caso siamo il Bel Paese”.
La mostra di Assisi è l'esatta attuazione di questa linea: non ha un progetto scientifico (anche se ha un comitato che vanta direttori generali Mibac e soprintendenti: i quali forse dovrebbero lasciarlo, visto il tragico epilogo), non ha una linea culturale. È un'antologica da cassetta che sarebbe giustificata dal fatto che il fratello di Canova aveva possedimenti in Umbria: parole incredibili, ma vere, del direttore artistico culturale di Perugia-Assisi 2019, che è il carrozzone di una delle quasi venti candidature italiane a capitale della cultura europea nel 2019. Un direttore (meraviglia nella meraviglia) che è il critico letterario Arnaldo Colasanti, noto ai più per aver condotto un'edizione di Uno Mattina Estate.
PROPRIO IL TANDEM europeo Perugia-Assisi è il motivo per cui la mostra di Canova (invece di svolgersi semmai all'Accademia di Perugia, dove avrebbe avuto più senso e più sicurezza) è stata programmata ad Assisi: dando la stura a un coro di esilaranti scempiaggini, come quella (avanzata dal direttore della sventurata Accademia perugina) sulle affinità armoniche tra le forme neoclassiche di Canova e i versi medioevali di San Francesco.
MA C'È POCO DA RIDERE: i cocci del rilievo di Canova ci ricordano che il mostrificio politico-commerciale in servizio permanente-effettivo non mette a rischio solo la funzione civile e culturale del patrimonio. Ne minaccia la stessa sopravvivenza materiale. Il Mibac diretto da Massimo Bray ha stoppato la terrificante mostra di Roma Barocca prevista a Pechino e annullato l'esibizione commerciale del San Giovannino di Michelangelo alla Galleria Borghese. Ma è tutto il sistema a dover essere profondamente innovato. E non è il caso di aspettare altri cocci.

La Stampa TuttoScienze 4.9.13
Oltre la psicanalisi in viaggio nel cervello
“Meno Freud, più Dna: così si entra nella mente”
di Marco Pivato


Lo studioso Gianvito Martino è direttore della divisione di neuro­ scienze del San Raffaele di Milano

Come si dice da 2 mila anni, «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1,1-18). Curioso trovare una suggestione biblica tra gli studi delle neuroscienze. Eppure è così: il cervello assorbe parole, esperienze ed eventi che lasciano tracce organiche nel Dna e, dunque, proprio nel profondo della «carne». Al punto da modificare le direttrici biochimiche e fisiologiche che orchestrano l’organismo. Così, Gianvito Martino, direttore della divisione di Neuroscienze del San Raffaele Milano, ospite, lo scorso weekend, del Festival della Mente di Sarzana, ha anticipato i dettagli del suo nuovo saggio, «Il cervello gioca in difesa. Storie di cellule che pensano» (Mondadori), in libreria da fine settembre.
«Se un tempo il dialogo tra ambiente e cervello era dominio della psicoanalisi, oggi la neurologia riconosce le basi molecolari di questo rapporto, innanzitutto confermandone l’esistenza e poi spiegandone le ragioni». Possiamo quindi affermare che siamo quello che pensiamo e viviamo. Non è uno slogan, ma il risultato delle reazioni che avvengono nel «tempio dell’intelletto», sotto la pressione dell’ambiente: ogni memoria lascia un messaggio, una «cicatrice» a livello organico.
Ben inteso, i vissuti non sconvolgono l’integrità del Dna, ma il suo modo di «lavorare». Precisa, infatti, Martino che «l’esperienza modifica non tanto la struttura del Genoma, quanto la sua funzionalità». È una scoperta preziosa, dato che testimonia come più importante di cosa ci sia scritto in questo «libretto d’istruzioni» sia piuttosto come viene letto: il Dna è una raccolta di «ricette» per cucinare proteine, gli esecutori biologici che regolano i processi di quel laboratorio che è il corpo umano. Come il mago conosce certi «abracadabra» così l’ambiente recita continuamente il Genoma, come leggendo da un enorme «formulario» e cambiandoci giorno dopo giorno.
Ad attivare o disattivare le «formule» del Dna sono fattori che si trovano vicini ai geni e ne controllano l’attività. Così «l’esperienza - rosegue Martino - è in grado di “accendere” e “spegnere” geni che a loro volta danno istruzioni all’organismo». E il professore torna alla metafora del libro polisemico, dove i geni sono parole o frasi: «Silenziare un gene è come usare un correttore per cancellare intere digressioni, mentre attivare un gene è come usare un evidenziatore per risaltarne altre: dal senso ultimo che risulta nella lettura di questo Genoma, “visto e corretto” dai vissuti, l’organismo apprende come cambiare e comportarsi».
La plasticità del cervello rispetto agli eventi, così, ricorda la plasticità del sistema immunitario. Quando un trauma fisico, chimico o biologico - come nel caso dell’invasione di patogeni - mette in pericolo l’organismo, specifiche cellule «ordinano» al Dna di produrre le difese. In modo simile il cervello «è in grado di processare le esperienze negative, contemplabili proprio come risposte infiammatorie anomale, e quindi respingerle».
Questa «vita sommersa» e questa vitalità del cervello sono l’ulteriore sorpresa di un organo che si rivela sempre più complesso e dinamico. Martino ricorda, sempre nel parallelo con i sistemi di difesa dalle malattie, che «il cervello, per tanto tempo, è stato considerato impenetrabile dal sistema immunitario, sia per via della struttura, avvolta da importanti barriere protettive, sia perché la risposta immunitaria porta con sé l’infiammazione, potenzialmente molto dannosa. Ma poi si è pensato che, dopotutto, data l’importanza dell’organo che contiene l’Io biologico, l’immunità potesse e dovesse operare anche in questo “santuario”». La prova che effettivamente è così è stata poi trovata nell’evidenza che alcune malattie neurodegenerative sono scatenate proprio dall’infiammazione di neuroni che, in seguito, muoiono, come nel caso del Parkinson. È un dato che fa ripensare il dogma che vor­rebbe il cervello isolato e monolitico. Gli studi sul­ l’immunità neurologica raccontano il contrario: il cervello cambia grazie alle staminali neurali che riparano danni e crescono influenzate dall’am­biente. «Può sembrare l’uovo di Colombo ­ con­clude Martino ­ perché è facile intuire che la no­stra forma mentis sia forgiata dagli altri e dal tempo. Ma finora non avevamo prove. Diverso è osservare le basi molecolari della plasticità del cervello rispetto all’esperienza».

mercoledì 4 settembre 2013

l’Unità 4.9.13
Bersani a Renzi «La sinistra è il lievito del Pd»
«La sinistra non può essere una destra abbellita»
«Il partito non è un’appendice del leader»
«Franceschini? Un posizionamento senza contenuti»
Bindi: voglio vincere con una ricetta antiberlusconiana non paraberlusconiana
di Simone Collini


È l’ultimo dirigente del Pd non renziano? Pier Luigi Bersani sorride e conferma. Non che sia l’unico, perché anzi è convinto che la partita congressuale sia ancora tutta da giocare. Ma che non sia renziano sì. E lo dimostra parlando alla Festa del Pd di Genova, lanciando bordate contro il sindaco di Firenze ma anche contro chi, ventiquattr’ore prima da questo stesso palco, ha annunciato di sostenerlo.
«Franceschini? Un’operazione non convincente, non vedo i contenuti. Mi risulta che ci fossero diverse opinioni. Così puoi dare l’impressione che sia più una questione di posizionamento che di merito, e non è una buona cosa». In verità Bersani li conosce alcuni contenuti renziani, l’idea di partito che ha in mente il sindaco di Firenze, il motivo per cui si candida alla segreteria. E nessuno di questi gli piace. «La sinistra non è una componente del Pd ma il suo lievito. Il Pd ha un’ispirazione di sinistra, che non è un abbellimento della destra, ha una sua autonomia, una sua visione. Da Renzi sento concetti che sono un po’ troppo mutuati dagli anni 80, seppur con parole bellissime come merito e opportunità. Ma se non c’è anche il concetto di uguaglianza quelli sono due imbrogli perché consentono al più forte di dire al più debole che non è ca-
pace». La platea raccolta al Porto Antico applaude, saluta l’ex segretario con una standing ovation (e lui, minimizzando, «Voglio bene a loro e loro vogliono un po’ bene a me, siam pari»), rumoreggia quando Michele Serra che lo intervista chiede a Bersani se non stia facendo una battaglia di bandiera visto che è certo che Renzi vincerà il congresso.
Quando domenica c’era il sindaco di Firenze su quello stesso palco, le persone in piedi in sala erano molte di più, gli applausi più frequenti, l’entusiasmo maggiore. È garanzia che ci sarà un Pd più forte con Renzi segretario? Non per Bersani, che anzi teme una deriva personalistica del partito, utilizzato unicamente come trampolino di lancio verso Palazzo Chigi. «Negli ultimi 20 anni le formazioni politiche sono state delle appendici, delle specie di protesi dei leader. Berlusconi è stato profeta in questo ma la cosa si è diffusa qua e là, con l’effetto di produrre messaggi populistici. L’abbiamo scambiato per modernità ma non c’è nessuna democrazia al mondo che fa così. Noi cosa vogliamo fare con questo congresso? Cedere a quel che abbiamo alle spalle o segnare una svolta e insediare una forza politica aperta ma stabile, con un leader pro tempore a cui il partito sopravviverà?».
LE LEGGI SI APPLICANO
Un ragionamento che fa dal palco di Genova anche Rosy Bindi, poco dopo, dicendo che vuole vincere «con una ricetta antiberlusconiana, non paraberlusconiana». Bersani non lo dice così, ma da questo punto di vista Renzi non lo convince perché appare fermo a quel modello fatto di «plebisciti senza contenuti» e perché sembra avere del partito l’idea di «qualcosa che a volte un po’ gli serve, un po’ gli dà fastidio».
Bersani fa insomma capire che non rimarrà ai margini, in questa battaglia congressuale. Non vuole fare il king maker di un candidato, ma quando la discussione entrerà nel vivo sosterrà Gianni Cuperlo, del quale ha letto «con interesse» il documento presentato nei giorni scorsi. E lo farà cercando di allargare il campo dei sostenitori del deputato triestino coinvolgendo figure provenienti dagli ex Popolari e personalità del mondo dell’associazionismo cattolico, perché la cosa che lo preoccupa è che si inneschi un meccanismo per cui alla fine di questo congresso si torni alla separazione tra Ds e Margherita. Le uscite di Franceschini e di Fioroni, con la sua «curvatura sovietica sul candidato unico», fanno paventare proprio questo rischio, mentre per Bersani «bisogna lavorare al rimescolo, al Pd». E un modo per farlo è di far presentare le candidature al congresso nazionale, al quale potranno votare «tutti coloro che aderiscono al Pd», soltanto dopo che si saranno chiusi i congressi locali: «Altrimenti tutti si mettono una maglietta con su una persona, ma non possiamo solo organizzare tifoserie e plebisciti senza contenuti».
Per il resto sono battute scherzose («Renzi con la bandana? Starebbe meglio a me, lui può permettersi di non metterla», o la replica al «Bersani un po’ spompo» di Renzi: «Macché, guarda qua, sono anche abbronzato»), parole preoccupate sulla Siria («può accendersi una miccia che può incendiare una prateria, noi non facciamo niente se non nel quadro dell’Onu»), parole di ringraziamento nei confronti di Napolitano («l’ho visto io, aveva già fatto gli scatoloni»), di incoraggiamento nei confronti di Letta («sta facendo più del possibile»), ma sono anche messaggi piuttosto espliciti a Berlusconi, ora che si avvicina il voto sulla decadenza dell’ex premier da senatore. «Se il Pdl pensa di staccare la spina, buttando la questione tutta sua sul Paese, la palla passa al presidente della Repubblica e al Parlamento, che si deve mettere alla ricerca di una soluzione che metta in condizioni di fare la legge di Stabilità e un progetto di legge elettorale». Ma il Pd voterà la decadenza? Bersani: «Le leggi vanno applicate, punto. Non perdiamo tempo in discussioni». Una risposta anche alla volontaria incrociata nella cucina di un ristorante durante il classico giro di stand, che mostrando una bella padella ha accolto l’ex segretario così: «La vedi questa? Allora, cosa fate con Berlusconi?».

l’Unità 4.9.13
Il fronte anti-sindaco si compatta
Speranza: «Non voterò il candidato scelto da Franceschini»
Fassina sceglie Cuperlo: «Insieme controcorrente»
Il viceministro: «Le nostre proposte per chi vuole un rinnovamento vero al di là della retorica»
Civati: «Io resto Con me nessun ministro né i 101 anti Prodi» Pittella: «Non mi ritiro»
intervista di V. Fru.


«Controcorrente» così Stefano Fassina sigla il twitter con cui ieri pomeriggio ha deciso di scendere in campo a fianco di Cuperlo. Una scelta che l’attuale vice-ministro all’economia del governo Letta, già uomo di punta dei bersaniani, definisce con quel «controcorrente», appunto, fuori dalla scia che sembra destinata a portare Renzi alla guida del Pd. E che sta diventando, di giorno in giorno, sempre più larga e forte, dopo l’esplicito appoggio di Franceschini e della sua Areadem (ieri anche Marina Sereni ha deciso ufficialmente di sostenere il sindaco di Firenze) e quello meno diretto («con l’80% dei sostegni c’è solo un candidato») di Beppe Fioroni.
«Congresso Pd con Gianni Cuperlo» twitta Fassina alle quattro del pomeriggio dopo aver avuto, in mattinata, un faccia a faccia con l’ex segretario della Fgci. E già lì, prima del caffè, a RepubblicaTv Fassina assicurava che assieme a Cuperlo «faremo» un bel congresso e che le loro proposte «incontreranno le domande di chi vuole un cambiamento vero al di là della retorica». Per cui sarebbe azzardato scommettere su una vittoria di Renzi. «Non sempre quello che è alla moda il ragionamento di Fassina riesce poi a rispondere alle esigenze del Paese».
Quello di Fassina è il segnale ufficiale che attorno a Cuperlo (come anticipato da l’Unità ieri) si sta formando il fronte dell’anti-renzismo. Di quelli, per usare le stesse parole del deputato triestino, sono convinti che senza sinistra non possa esserci futuro per il Pd. Il che, forse, potrebbe anche rafforzare la paura, esposta da Davide Zoggia, di un congresso tutto giocato sulla sfida fra ex (ex Dc contro ex Pci). Non a caso adesso
il lavoro dei sostenitori di Cuperlo è cercare sostegni nell’area ex Margherita. Ma già ora per Cuperlo si tratta di un oggettivo passo in avanti nel rafforzamento nella candidatura. La scelta di Fassina può essere anche letta come una risposta al sostegno di Franceschini a Renzi e quindi alla rottura del patto fra il ministro ai rapporti col Parlamento e Bersani. Scelta che a molti non è piaciuta. Silvia Velo, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera, non è tenera con Franceschini e parla di «una svolta degna dei migliori talenti acrobatici senza nessun imbarazzo: si gira la ruota e si cambia cavallo e carrozza».
Ma c’è anche da ricordare che proprio Fassina era stato individuato dai bersaniani come la figura su cui far convergere tutti quelli indisponibili a una segreteria Renzi. Non a caso a Cuperlo era arrivato più di un suggerimento a fare un passo di lato (se non proprio indietro) per verificare questa ipotesi. Ma Cuperlo e i suoi sostenitori (da D’Alema ai Giovani Turchi di Orfini) hanno tenuto duro. È vero che in corsa per la segreteria rimangono anche Pippo Civati e Gianni Pittella, che al momento non hanno intenzione di fare marcia indietro. Pittella da una parte invita Renzi a guardarsi dai «nuovi amici», ma dall’altra ribadisce che la sua candidatura resta in pista. Mentre Civati sul suo blog lanciando frecciate conferma di restare in campo: «Con me scrive non ci sarà nessun ministro dell’attuale governo, né alcun rappresentante della numerosa falange dei killer di Prodi».
Ma Cuperlo adesso può oggettivamente puntare a raggruppare tutti quelli che non si sentono rappresentati da Renzi. Il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza, ad esempio alla festa Pd di Modena in un confronto con Franceschini spiega che lui non voterà «il candidato scelto da Dario» auspicando al contempo che il congresso non si traduca in una sfida fra nomi, ma in un confronto su come fare un Pd «utile al Pese».
A Genova, alla Festa nazionale, Anna Finocchiaro ricorda come sarebbe a rischio lo stesso Pd se «un’area culturale importante come quella degli ex Ds non fosse rappresentata». E lo stesso Sergio Gentili, coordinatore del forum nazionale ambiente del Pd, è convinto che Cuperlo e Fassina, saranno «in grado di unire i democratici, laici e cattolici, su una cultura non subalterna al liberismo e alla politica plebiscitaria e personalistica». E Bersani? La scelta formale su Cuperlo non l’ha fatta ancora. Del resto il suo obiettivo era trovare un altro nome che potesse unire se non tutta almeno gran parte della maggioranza che l’aveva visto vincere alle primarie dello scorso anno. La scelta di Franceschini però l’ha spiazzato. E adesso quindi non rimane che puntare su chi, come Cuperlo, ha le carte per giocarsi la partita con Renzi.

l’Unità 4.9.13
Matteo Orfini
Il giovane turco schierato per Cuperlo: ha detto quale Italia vuole, Matteo ancora no
«Non è conservatore chi sta dalla parte dei più deboli»
«Non si cambia con i professionisti del trasformismo»
di Maria Zegarelli


Scrive su Twitter: «Insomma siamo passati dalla rottamazione al riciclo. Una scelta ecologica». Una battuta al veleno, quella di Matteo Orfini, diretta a chi in queste ore sembra in gara per dichiarare l’appoggio al sindaco. Orfini, tutti con Renzi?
«A quanto pare sì, c’è una parte consistente di insospettabili che sono diventati renziani».
Teme sia in atto un nuovo patto di sindacato, quello che i Giovani turchi rimproverarono a Pier Luigi Bersani? «Purtroppo credo stia accadendo la stessa cosa. Eravamo convinti che non facesse bene a Bersani e sono convinto che non faccia bene neanche a Renzi. Credo che in un partito il pluralismo sia vitale, non lo è la legittimazione dei professionisti del trasformismo. Io non voterò Matteo, ma alcune cose che dice mi trovano d’accordo, come la necessità di cambiare il partito, sradicare le correnti che si saldano sulla fedeltà a questo o a quel dirigente. Vorrei che facessimo un congresso in cui ci si divida sulle posizioni politiche e basta. Noi abbiamo una candidatura alternativa a Renzi, Gianni Cuperlo, che ha presentato delle note politiche in cui dice che partito e che Italia ha in mente, e sulla base di questo chiede sostegno al congresso. Renzi ancora non ha spiegato cosa vuole fare del partito e del Paese».
Si riferisce a Dario Franceschini?
«Mi riferisco a quanti con molta leggerezza, senza alcuna spiegazione politica, solo per mantenere il proprio grumo di potere, passano da un candidato all’altro. Renzi vuole davvero cambiare il Pd e superare il correntismo? Allora dica no ai trasformisti della politica, altrimenti dire di voler rivoluzionare il partito è solo propaganda e si riavvia il sistema degenerativo delle correnti. Basta dire “no grazie”».
Ma anche voi che appoggiate la mozione Cuperlo state creando alleanze, o no? «Ovvio che le alleanze siano naturali in un congresso, ma allora Matteo si allei con chi condivide la sua visione politica e non con chi fino a ieri lo ha combattuto e oggi lo sostiene».
In queste ore sono in corso contatti diplomatici con Bersani e i bersaniani. Si può riallacciare un rapporto che sembrava ormai incrinato?
«Cuperlo ha presentato il suo progetto politico sul quale si ritrovano coloro che, come Bersani, in questi anni sono stati più vicini a quelle battaglie. Ma è una proposta rivolta anche a quella parte del mondo cattolico che sente di più di dover dare una risposta alla crisi. Non penso che la tradizione del cattolicesimo democratico possa essere rappresentata dal doroteismo deteriore di chi si schiera per ragioni di potere con Renzi. La storia del cattolicesimo democratico è molto più nobile di chi oggi vorrebbe rappresentarla». Fioroni dice che tutti gli altri candidati contrapposti a Renzi non raggiungono, insieme, neanche il 20%.
«Questo lo lascerei decidere agli elettori. Noi poniamo un’alternativa a Renzi e crediamo in una sfida vera. Ricordo che anche le elezioni politiche sembravano già scritte e poi è andata come andata. Non do affatto per scontato il risultato del congresso». Oggi la sinistra viene considerata una forza conservatrice. Sarà per questo che si guarda a Renzi?
«Mi sembra una descrizione caricaturale della sinistra. Non vedo quale conservatorismo ci sia nel dire che dobbiamo stare dalla parte dei più deboli, respingere le derive plebiscitarie, sostenere che è stato sbagliato togliere l’Imu a tutti».
Anche Renzi sostiene che è stato un errore togliere l’Imu.
«Già, peccato che poi si allei con chi, come Franceschini, dice che aver tolto l’Imu è di sinistra. Attenzione, noi abbiamo perso le elezioni perché i ceti popolari hanno votato Grillo. Mi chiedo cosa c’è di conservatore nel dire che noi dobbiamo rendere quella parte della società protagonista, senza riprodurre quel rapporto plebiscitario tra leader e popolo?».
Se l’aspettava l’endorsement di Gennaro Migliore a Renzi?
«Mi sembra che in Sel ci sia una certa ansia del futuro. Ricordo bene le parole di Vendola durante le primarie contro Renzi. Prendo atto che anche lì è nato un certo trasformismo, credo che faranno fatica a spiegarlo agli elettori».

il Fatto 4.9.13
L’amaro Bersani: “Sì, sono un po’ retrò ”
Il rivale lo definisce “spompo”, lui alla festa Dem lo attacca, ma non gli contrappone né candidati né progetti
di Wanda Marra


“Sì lo so, sono un po' retrò”. Il dibattito volge alla fine, la luce si fa sempre più crepuscolare, e sul palco Pier Luigi Bersani si lascia andare a un’ammissione. Alla Festa Democratica di Genova si porta in forma di colonna sonora uno slogan di sinistra (“Libertà è partecipazione”, cantata da Gaber), una claque in parte organizzata, con l’aiuto del segretario cittadino, Lunardon. E un’amarezza che gli si legge sul volto. La gente c’è, ma è meno di quella che ha accolto Enrico Letta e neanche paragonabile a quella che è venuta a sentire Matteo Renzi. Molto affetto per l’ex segretario (applauso caloroso all’inizio), nessun entusiasmo. Va in scena il passato.
D’ALTRA PARTE, se qualcuno si aspettava un rigurgito di orgoglio ex comunista, un colpo di coda, una mossa spiazzante, dopo la disponibilità di Renzi a guidare il partito, e il relativo endorsement di Franceschini, non arriva. “L’operazione di Renzi e Franceschini non mi convince. Non ha contenuti. Sa di riposizionamenti". Poi, gli attacchi sono tutti per il sindaco di Firenze. Con il quale polemizza appena messo piede alla Festa. In un fuorionda alla Festa di Bologna Matteo lo definisce “spompo” durante la campagna elettorale, forse per colpa della battaglia delle primarie. E lui, al solito, nega: “Spompo, mi vedete spompo”, dice ai giornalisti. Il clou dell'incontro con Michele Serra è tutto per il giovane Matteo. Dalla battuta a effetto con la quale chiude il dibattito: “La bandana poteva evitare di metterla, quella starebbe meglio a me, lui ha i capelli”. Come dire: almeno in questo poteva differenziarsi da Berlusconi. E poi, un excursus storico-sociologico sulle democrazie occidentali, allo scopo di ribadire un suo vecchio pallino: “Non bisogna identificare il partito con il suo leader, il leaderismo è una malattia”. Concetto che poi si aggancia a un altro: “Non possiamo solo organizzare tifoserie e plebisciti”. Ma oltre ad attaccare il nemico numero uno, Bersani dice poco. “La sinistra non è una componente del partito (riferimento a D'Alema, ndr), ma il suo lievito”, avverte. Un candidato, espressione di quel lievito? L’ex segretario non ce l'ha.
A proposito di sinistra, ieri i Giovani turchi si sono dati un gran da fare per cercare di contrapporsi a Renzi. “Insomma siamo passati dalla rottamazione al riciclo. Una scelta ecologica”, lo slogan di Matteo Orfini. Il tentativo è quello di stringerlo all'angolo, magari provocarlo, chiedendogli di rinunciare ai vecchi capi corrente. Per adesso, Renzi incassa gli appoggi e tace. E se a sostegno degli ex colleghi di corrente arriva l’endorsement del bersaniano Stefano Fassina per Cuperlo, Bersani non converge. Evidentemente spera ancora in un’altra opzione che non lo costringa a schiacciarsi sul candidato di D'Alema. Il fido Di Traglia spiega che i tempi sono lunghi, che le candidature definitive si avranno verso fine ottobre. Barca? Per ora sembra ipotesi remota.
PER IL RESTO, l’intervento di Bersani va avanti secondo modalità che ricordano quelle della campagna elettorale. Appelli alla responsabilità e al buon senso, raccomandazioni (“Il conflitto è importante. Non possiamo dire che un proprietario e un inquilino sono la stessa cosa”), recriminazioni e rimpianti (“Napolitano aveva già gli scatoloni pronti. Ci siamo affossati da soli, non deve accadere mai più”). Poi mentre dice che “Letta sta facendo più del possibile”, ritira fuori “il governo del cambiamento”. In quanto a Letta, la vulgata di ieri alla Festa Dem, riportata sia da lettiani che bersaniani, vorrebbe il presidente del Consiglio arrabbiato con Franceschini per le modalità del suo endorsement a Renzi. Comparire come componente del patto al premier non può andare giù. Un po' di verve in fine di giornata la tira fuori Rosy Bindi: "Renzi? Non lo voto. Se manifestasse le sue idee perderebbe un po' di consensi, per questo non lo fa". Poi, annuncia la sorpresa: un candidato suo con abilità di governo.

Corriere 4.9.13
«Era spompo». «Fa solo battute» Renzi-Bersani, battaglia nel Pd
L’ex segretario: non ha contenuti, per lui il partito è un taxi
di Francesco Alberti


DAL NOSTRO INVIATO GENOVA — Una standing ovation per «lo spompato». Pier Luigi Bersani non ha le maniche arrotolate, non ha più giaguari da smacchiare, nemmeno una leadership da difendere o un Palazzo Chigi da sognare, ma quando si affaccia sotto il tendone della Festa democratica nazionale sul Porto antico di Genova scopre che, pur se nel ruolo di ex da tutto, ci sono ancora tanti cuori che battono per lui. La sala è piena. Tutti in piedi. Avrebbe potuto essere un pomeriggio da via crucis per l’ex segretario. Qui, domenica sera, erano in 6 mila ad osannare Matteo Renzi: Bersani ne mette insieme un migliaio, che non è la stessa cosa, ma neanche poi così male. E a peggiorare la situazione ci si è messa anche una battuta, intercettata lunedì sera alla festa pd di Bologna dal sito di Repubblica , nella quale Renzi, parlando con alcuni volontari, ha detto di Bersani: «Durante le primarie è stato perfetto, non ha sbagliato una mossa. Poi negli ultimi mesi era spompo. L’ho visto a febbraio a Palermo, era distrutto…».
Figurarsi. Neanche il tempo di uscire dall’auto, e tutti a chiedere all’ex segretario quanto si sentiva spompato. Lui, sorridente, parte lento («Io spompo? Ma se sono abbronzato! Farò flessioni»), poi dal palco, intervistato da Michele Serra, va all’attacco di Renzi: «Non vedo contenuti, sono contrario ai plebisciti, non bastano solo le battute». Approfondisce, tono pacato, critica pesante: «Non capisco la sua idea di partito. Ho l’impressione che abbia del Pd l’idea di un qualcosa che a volte gli serve e a volte è un fastidio. E anche il concetto di sinistra non mi convince: la sinistra non è un abbellimento della destra: “merito” e “opportunità” sono due termini bellissimi, ma se non vengono coniugati con il termine “uguaglianza”, diventano un imbroglio».
Sarà anche ruzzolato dalle scale del potere («C’è stato un incidente di percorso: mi sono dimesso, ma non mi sarei ricandidato»), ma Pier Luigi Bersani da Bettola (Piacenza) non ci sta a passare per un voltagabbana. Ha sconfitto Renzi alle primarie e ora, da antirenziano, si prepara a un possibile ruolo di minoranza. Non la manda a dire a chi è già pronto a salire sul carro del vincitore («Questa cosa di Franceschini non è convincente, assomiglia molto a un riposizionamento») e ce n’è pure per Beppe Fioroni («Ha fatto una simpatica curva sovietica sul candidato unico»). Più che Renzi, è la sua idea di politica che non piace all’ex segretario, spaventato di ricadere nella spirale degli ultimi 20 anni, «con partiti che diventano una sorta di protesi dei leader, anziché formazioni stabili: non abbiamo bisogno di profeti». Anche per questo, è meglio «celebrare prima i congressi provinciali e nazionali e poi pensare alle candidature nazionali, altrimenti si finisce con le tifoserie senza contenuti».
La platea apprezza. Ma al solo sentire il nome Berlusconi rumoreggia. Bersani coglie il disagio. Il Pd salverà il Cavaliere? «Me l’ha chiesto anche un volontario, mostrandomi con fare minaccioso una grande padella…» scherza. Poi, serio: «Le leggi vanno rispettate e applicate. Punto». E se il Pdl stacca la spina al governo? «In questa malaugurata ipotesi la palla passa a Napolitano e al Parlamento, che va messo alla ricerca di soluzioni che consentano di fare la legge di stabilità e la riforma elettorale». L’ultimo pensiero è per il premier Letta: «Sta facendo più del possibile in una situazione come questa. E non se l’è cercata lui…».

Repubblica 4.9.13
Bersani contro Renzi e Franceschini “La loro operazione è senza contenuti trattano il partito come una protesi”
E il sindaco lo attacca: “Dopo le primarie era spompo”
di Wanda Valli


GENOVA — E’ un botta e risposta a distanza con Matteo Renzi, quello che vede protagonista ieri alla Festa democratica di Genova, Pierluigi Bersani, l’ex segretario Pd, intervistato da Michele Serra. Un Bersani deciso a difendere la sua idea di Pd: un partito per niente leaderista, coraggioso nell’avere e proporre e idee per il paese, un Pd di sinistra che ha nel concetto di “uguaglianza” il suo lievito.
Certo non si aspettava un accoglienza così calda alla Festa democratica, Pierluigi Bersani.Mentre gli altri dirigenti del Pd continuano a esternare la loro fiducia in Renzi, mentre Gianni Cuperlo ribadisce che lui, comunque, non intende fare passi indietro, alla Festa dem è standing ovation per l’ex segretario. Che prima risponde alla battuta di Renzi su di lui a proposito della campagna elettorale, «negli ultimi mesi era spompo», con un sorriso («Sono sereno, perfino abbronzato. Ma ora vado a fare delle flessioni»), poi sotto il tendone della sala delle feste, ribadisce la sua idea di politica e Pd. A partire dal leaderismo nato in Italia, ragiona Bersani, dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, «quando i partiti furono travolti», leaderismo che ha avuto in Silvio Berlusconi il principale esponente, per poi passare da destra al centro, fino a debordare a sinistra, come a dire da Berlusconi aGrillo.
Bersani non perde l’occasione di replicare a Renzi: «Ci sono cose di lui che non mi convincono», poi spiega: «Alcuni concetti mi sono parsi molto legati agli Anni 80, idee come merito e opportunità ». Manca il collante, secondo Bersani, vale a dire «l’uguaglianza che regge merito e opportunità», l’uguaglianza che costituisce «il lievito di un partito di sinistra democratica come il Pd». Negli ultimi 20 anni «i partiti e le formazioni politiche sono state delle appendici, delle specie di protesi deileader». Ci vuole invece un partito dove «ognuno ha il diritto-dovere di combattere per far vincere le sue idee, per poi rimettersi al collettivo».
Certo non assomiglia al Pd, partito leggero, tutto da rinnovare, che immagina Matteo Renzi, l’ex segretario lo sa bene, ma non arretra. A partire dal congresso. Si farà, si discuterà, a Renzi manda a dire: «Non possiamo solo organizzare tifoserie e plebisciti senza contenuti. Renzi dice, via le correnti? Benissimo e il resto?». Il resto forse, suggerisce Michele Serra, è l’idea di un partito che fa tornare in mente la sinistra di un tempo, ma la realtà segnala che il giovane Renzi ormai è quasi alla meta senza aver neppure iniziato a correre. Bersani a proposito di endorsement illustri, come quello di Dario Franceschini, precisa: «E’ un’operazione che non mi quadra, si ha l’impressione, non buona, di un posizionamento» Ancora su Renzi: «è giusto chiedergli la sua idea di partito, aspettarsi risposte e non battute, è giusto sapere come vede il Pd. Per me è un partito di sinistra e attenzione a non trasformarlo in un abbellimento della destra».
Gianni Cuperlo, per nulla spaventato dall’affollamento dei nuovi renziani, conferma aRepubblica Tvdi essere deciso a essere della partita. Sul congressoricorda: «ora c’è una data possibile, il 24 novembre, rispettiamola, abbiamo perso alle ultime elezioni 3 milioni di voti, Renzi sostiene che si deve andare a recuperare consenso anche tra i moderati, bastava avere quei voti perduti e Bersani sarebbe al governo». Lui, comunque, si dichiara «fiducioso » di poter vincere contro la corazzata Renzi. Lo sosterranno Stefano Fassina e Matteo Orfini, che twitta «siamo passati dalla rottamazione al riciclo. Meglio Cuperlo». Resta in corsa l’europarlamentare socialista Gianni Pitella che manda a dire a Renzi «si guardi dai nuovi amici».
C’è chi, come Leoluca Orlando, sindaco di Palermo decreta «la fine dei partiti di anime morte» e aggiunge «con un partito leggero Renzi può fare sia il segretario che il leader», starà con Renzi anche Marina Sereni, vice presidente dell’assemblea nazionale Pd. Il sindaco di Firenze oggi andrà in giro in bicicletta per Roma con il sindaco Ignazio Marino, una delle sue tappe di confronto con chi ha il suo stesso ruolo. Sono già della partita Orlando, il sindaco di Catania, Piero Fassino. La valanga non si ferma.

Repubblica 4.9.13
E l’ex Ppi Marini va su Cuperlo “Di certo io non voterò Matteo”
Patto del “tridente” con il rinato asse tra D’Alema e Pierluigi
di Giovanna Casadio


PER un ex Popolare, cioè il ministro Franceschini, che sta con Renzi, ce n’è un altro (che del Ppi è stato pure segretario), disposto ad appoggiare l’ex comunista Cuperlo. Il colpaccio, in una contesa iniziata nel Pd a colpi diendorsement,Cuperlo lo ha quasi messo a punto: è andato a Palazzo Giustiniani e ha bussato allo studio dell’ex presidente del SenatoFranco Marini.
CUPERLO ha chiesto a Marini fino a che punto ha a cuore il partito e in antipatia il “rottamatore” e se davvero prenderà le distanze dalla corrente Areadem dei franceschiniani. Risposta incoraggiante: «Io di certo non voto Renzi», e si è preso qualche giorno per decidere. Anche se le parole aggiunte poco dopo portano ad una sola conclusione: l’ex presidentedel Senato appoggerà proprio lo sfidante di Renzi.
E infatti il candidato da sempre vicino a D’Alema è convinto che la ruota sta cominciando a girare dalla sua parte: «Il risultato del congresso democratico non è scontato», ripete. Non è detto che Renzi vinca a man bassa insomma, dipende dalla regia politica. E spera nella potenza di fuoco di un asse che di fatto si sta ricostituendo, tra D’Alema-Bersani e, appunto, Marini. Il “tridente” in campo per battere Renzi.
D’Alema del resto l’aveva detto al sindaco fiorentino che, se avesse corso per la segreteria del Pd invece di starsene buono e aspettare la sfida per la premiership, avrebbe avuto in lui un osso duro: «Ricordati che io non ho mai perso un congresso», aveva avvertito. Ora ci proverà il «lìder Maximo» a vincere con Cuperlo. Che intanto ha incassato l’appoggio dei bersaniani Stefano Fassina, Antonio Misiani, Alfredo D’Attorre, Davide Zoggia. Bersani li ha mandati a fare da staffetta, e intanto il “segretario emerito”, deluso e amareggiato dalla svolta di Franceschini, pondera le varie possibilità. Ha però posto una condizione. E haaffidato a Fassina il compito di discuterla con Cuperlo: non ci sia l’ombra di ficcarsi con la candidatura di Cuperlo in una «ridotta di ex Pci-Pds-Ds». «No, faremo una squadra ampia, che coinvolga cattolicodemocratici, associazioni»: ha garantito il candidato della sinistra, dei dalemiani, dei “giovani turchi”. Per ora il gelo tra Bersani e D’Alema non si è sciolto; i due neppure si salutano. Ma la prossima settimana i bersaniani hanno organizzato una manifestazione di “Fare il Pd”, la loro corrente, alla quale è invitato D’Alema. Sarà ufficializzato lì probabilmente l’appoggio a Cuperlo. Anche se Fassina l’ha anticipato su Twitter coniando anche l’hashtag #controcorrente, che è sia il capitolo conclusivo del documento di “Fare il Pd” che il titolo dell’ultimo libro di D’Alema. «Coincidenza... il punto è andare contro l’onda mediatica, gli opportunismi », spiega Fassina.
Gli anti renziani sono convinti che la nomenklatura pronta a saltare sul carro di Renzi nuocerà, e molto, al “rottamatore”. «Matteo rifiuti il sostegno di questa gente. Finora c’è stato un patto di sindacato, ora si affaccia l’offerta di un patto di potere - attacca Matteo Orfini, leader dei “giovani turchi”- Vuole cambiare il Pd nei comizi oppure nella realtà?». Per battere Renzi gli avversari interni contano sugli autogol del sindaco fiorentino, sugli abbracci dell’apparato che rischiano di ingabbiarlo. Bindi a Franceschini: «Tutti vanno in soccorso del vincitore per soccorrere se stessi». Cuperlo sta sondando anche lei per vedere se può reclutarla alla sua candidatura, dal momento che pure Bindi ha dichiarato non voterà Renzi segretario. «La vera debolezza di Matteo - ragiona il bersaniano D’Attorre - è nella dinamica che si sta scatenando: è la stessa che accompagnò Veltroni nel 2007, forza mediatica e un caravanserraglio a sostegno, privo però di un impianto politico comune... mi sembra lo stesso film e ha vita breve. D’altra parte ci sono a disposizione gli stessi registi, come Goffredo Bettini».
La partita per la leadership del Pd è cominciata e senza esclusione di colpi. Non si giocherà più di “fioretto”, ammesso che finora lo si sia fatto. Epifani, il traghettatore, ha il compito di mantenere lo scontro dentro gli argini mentre i militanti nelle feste democratiche ogni sera, e dappertutto, chiedono conto dell’alleanza con “il Caimano”, vogliono sapere quando sarà votata la decadenza da senatore di Berlusconi e non sono disposti a traccheggiamenti da vecchia politica. Vorrebbero la riscossadel Pd.

il Fatto 4.9.13
Rottamati e riciclati. Fassino & c. Folgorati da Renzi
Li chiamavano rottamati, l’alfabeto dei convertiti a Matteo
Tutti sul carro di Renzi, ma anche pronti a scendere
D come D’Alema, V come Veltroni, F come Franceschini. I neorottamatori Pd somigliano ai rottamati
di Antonello Caporale

   .
Pier Luigi Spompo no, ma Nico Stumpo? Chi potrà negare anche a un fedelissimo dell’ex capo Bersani – appena ritargato da Renzi come signor Spompo (da spompato, consumato, diesilizzato, dunque finito), come Nicola il calabrese, pancia dell’apparato del Pd, calcolatrice vivente di Pierluigi, una improvvisa ma legittima crisi di coscienza? Se persino la F di Fioroni si rial-loca e si riadegua, con la V di Veltroni già stabile e posizionata a fianco di Matteo, e la D di D’Alema, dopo un periodo interrogativo (“Volevo conoscere che libri leggesse, quale fosse il suo pensiero. Non l’ho capito”), sembra essersi adagiata nei pressi del sindaco, sta per concludersi la più riuscita operazione di salita sul carro. Con le migliori o peggiori intenzioni, la fila indiana s’ingrossa e il carro già è diventato treno. Tempo qualche settimana che sarà bastimento e per Renzi il Sol dell’avvenire s’alzerà dietro casa senza un filo di nebbia o una nuvola a fargli ombra.
NON SARÒ Brontolo e non voglio il partito dei sette nani”, assicura lui. Si dimenerà, proverà a ri-rottamare, fuggirà dall’abbraccio mortale che i dirigenti, d’ogni specie e colore, sentono di offrirgli. Sarà fatica indicibile, operazione complessa, fattore di rischio. Perché è davvero tanto l’entusiasmo e largo il consenso, che la dirigenza del Pd – connessa al cuore della base – ha deciso di elargigli ogni solidarietà. Vecchi e nuovi amici. Nuovi e nuovissimi. Stamane Matteo bicicletterà ai Fori Imperiali con una vecchia conoscenza: Ignazio Marino. Sono tante le città di Matteo, ma Roma è la capitale e, nel-l’alfabeto del potere del Pd, con la M di Marino siamo ai vertici. Lasciamo pure da parte la F di Franceschini, perché non si è capito bene se sta con lui per davvero o per finta, se è andato a dichiarargli l’amore su mandato di Enrico Letta, se insomma è tutta una fregatura o è cotta sincera, esplosiva. Resta l’intesa profonda con la F di Fassino, presidente dell’Anci, dunque suo successore e collega sindaco di Torino e anche predecessore alla guida del partito. Non c’è possibilità di fuga, l'abbraccio è totale, finale, finanche compulsivo. Renzi ha fatto il pieno alle feste dell’Unità dell’Emilia, tra le cucine, i tortellini e ogni tipo di militante: l’anziano, lo studente, la professoressa, l’antico e il moderno. E pensare che l’anno scorso si erano quasi dimenticati di invitarlo. Il tempo passa e porta consiglio: con i display giganti di Bologna, Reggio Emilia, Genova tutti hanno capito che il vento è cambiato.
RESTA LA B di Bersani fuori dal campo, ma – come le C di Cuperlo e di Civati – sembrano lettere inutili. A parte che, solo volesse, Matteo potrebbe esporre, a suo favore, la B di Bianco (Enzo) dominus di Catania, antico repubblicano, moderato, equilibrato, saggio. Non c’è partita e da qualunque posto in tribuna la si guardi, il risultato con cambia. Per uno Zoggia, deputato semplice, che parla contro, Matteo, anche se siamo alla fine dell’alfabeto e potrebbe pure sorvolare, ha due zeta a suo favore. Secondo voi Zanda (Luigi), capogruppo al Senato, chi voterà? E un altro rilevantissimo supporter, il signor Zambuto, sindaco di Agrigento, ha già scelto. Bisogna ascoltare anche le voci della periferia, le anime del territorio. Questo Zambuto ha radar di elevata capacità selettiva: stava col Pdl, poi ha capito e ha fatto un salto nell'Udc. Non si è fermato, non si è acquietato. Dall’Udc ha spiccato il volo verso il Pd. Da lì a Renzi il passo è stato semplice, da finale atteso. Congratulazioni. Come nelle squadre di calcio, il problema della rosa però, quando è troppo ampia, è sfoltirla. É sempre un’operazione delicata, è chirurgia selettiva, ha bisogno di mano ferma e larga esperienza di mercato. Come general manager della sinistra italiana Renzi promette bene: sfoltirà e tanto. Perchè alla fine di questa torntata di comizi elettorali troverà la sua corrente (“Una super-corrente”, secondo Bersani) gonfiata come la pancia di una rana. S
SAREMO alle liste d'attesa, all'over booking, con un plotone di amici-nemici. Sul tavolo fritture miste, quei piatti pieni di spine. Cosa mangiare e cosa scartare? In effetti ai suoi fedelissimi la fifa è comparsa: vuoi vedere che? Paolo Gentiloni è super prudente perché ha capito che la questione dal cuore scivola lentamente verso il portafoglio. E se persino la Alessandra Moretti (alla M c’è davvero una fila paurosa), ex valletta televisiva bersaniana, sembra oramai decisa a completare l’autocritica, non c’è più ragione o rottamazione che tenga. Gli applausi non finiscono più. I guai sono appena iniziati.

Corriere 4.9.13
La «rivoluzione» del sindaco per rottamare la parola «ex»
Segnali dall’area di D’Alema
L’ipotesi di un avvicinamento del leader
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Chissà che faranno quando scopriranno che c’è da lavorare e non ci sono poltrone da occupare»: Matteo Renzi decide di entrare in modo lieve — e ironico — nel dibattito politico che si è aperto all’interno del Partito democratico. La sua linea l’ha già dettata: «Voglio fare una rivoluzione, dolce, ma una rivoluzione. Questa storia della battaglia tra ex democristiani ed ex ds non ha senso. Io sarò il primo segretario che non ha avuto e non ha legami con il passato: non voglio più sentire le lamentele su chi era che cosa».
Renzi, com’è nel suo stile, esagera. Ma fino a un certo punto. Effettivamente è vero che la conta interna contro di lui diventa sempre più difficile. Se non altro perché, come ricorda lui stesso, parlare di ex dc ed ex pci non ha senso quando gli ultimi due segretari dei Ds, Walter Veltroni e Piero Fassino, sono schierati con lui.
Ancora più complicato è immaginare per Renzi un futuro lontano da Franceschini e Letta. Il premier ha tutto l’interesse a saldare i rapporti e il capo delegazione del Partito democratico nel governo spera di ritagliarsi un ruolo importante proprio grazie a Renzi. Infatti il ministro per i rapporti con il Parlamento annuncia urbi et orbi la sua adesione al sindaco rottamatore. Ma gli esiti non sono sempre scontati. Il tam tam del partito racconta le battute d’arresto: «Che vuole fare, Renzi?», si chiede Zoggia, «è sempre più irrequieto e complicato». Sarà così, ma lui, il sindaco di Firenze, va avanti comunque: «Prendo atto del malessere di tutti quelli che sono qui con me». E poi punto e basta, perché lui non vuole andare oltre.
Non più in là dei suoi amici, che ora dicono e implorano: «Basta operazioni d’urgenza». Se mai ve ne sarà il bisogno Renzi è pronto. I riflessi vengono a mancare se si segnala la fuoriuscita di pezzi del Pd. La preannunciano i franceschiniani, per far capire che non si sono arresi a costo zero, e la propagano per tutta la Camera dei deputati. È il loro modo per dire addio al «Partito».
Ma in realtà, al di là e al di sotto delle storie che il Pd si racconta, Renzi è per l’ennesima volta solo. E non perché non ci sia la corsa al carro del vincitore. Per carità, ci sono tutti. Il problema è sempre il solito: che cosa ci stanno a fare i gruppi dirigenti e i vertici? Il sindaco sorride e fa finta di credere alla vulgata del Pd. E svuota il campo da gioco, lasciando capire a tutti che è in grado di giocare ancora al gioco della rottamazione.
Insomma, in questo anticipo di autunno, il primo cittadino di Firenze non ride. E, almeno all’apparenza, non scende neanche a trattare con avversari interni, interlocutori e amici. È stufo della vulgata bersaniana, suffragata dai franceschiniani (un po’ provati per il repentino cambio di schieramento del loro leader), secondo cui soffiano venti di scissione. «Cos’è questa storia?», chiede ai collaboratori. «Cos’è questa storia?», è l’eco dei tam tam del Pd. D’Alema fa mostra di non crederci. Secondo lui è l’ennesima «cavolata dei giornali». Tutti lo immaginano in partenza per chissà quali lidi. E con lui tutti i dalemiani di prima e seconda generazione. Peccato che non sia così. Anzi. La verità la detta il tam tam interno a largo del Nazareno, quello sconosciuto ai più e temuto da molti. E quel tam tam racconta che D’Alema potrebbe compiere l’ultimo strappo. Posizionandosi su Renzi e lasciando Cuperlo al suo destino. E, soprattutto, consentendo ai suoi giovani — da Enzo Amendola a Michele Bordo — di giocarsi la loro partita nella nuova classe dirigente.
Difficile? Sì, ma non impossibile dicono al Pd. Ma se ne dicono tante nel Partito democratico. Proprio tante. Renzi ascolta tutti e aspetta. Perché a lui come ad altri esponenti del Pd è stato detto che il governo regge, ma l’elettorato del Pd no.

Corriere 4.9.13
«Congresso già finito? Allora è finito il partito»
Chiti: no all’idea di strutture plebiscitarie come quelle di Berlusconi e Grillo
Bisogna discutere di valori e di socialismo
di Andrea Garibaldi


ROMA — Adesso che Franceschini appoggia Renzi e che ogni giorno crescono le file dietro al sindaco di Firenze, si dice che il congresso sia già finito...
«Diamine! Se il congresso è finito prima di cominciare, allora è finito il Partito democratico».
Cosa vuol dire?
«Da anni il Pd non discute di valori, di socialismo, di come stare in Europa, di che partito intende essere, di regole. Spero sempre che questo torni ad avvenire, almeno al congresso».
Renzi sembra lanciato verso la segreteria.
«Se non si torna a discutere di politica, può diventare segretario anche Leonardo da Vinci, ma non si fa nessun passo avanti».
Vannino Chiti, già presidente della Toscana, ministro con Prodi, vicepresidente del Senato. Dirigente del Pci, poi pds, ds, pd. Toscano come Renzi, però di Pistoia. Non apprezza «chi salta sul carro del probabile vincitore», né «chi vorrebbe la morte politica di Renzi».
Teme che gli ex pci, pds, ds perdano la segreteria, diventino minoranza nel partito?
«Non è questa la mia paura. Sono con Renzi anche importanti esponenti ex comunisti come Fassino e Marina Sereni. La questione di fondo è quale partito si vuole. Un partito personale plebiscitario come tutti gli altri esistenti — da Berlusconi a Grillo — con superamento delle correnti...».
Oppure?
«Un partito della sinistra plurale, moderno ed europeo. Il Pd è nato con il sogno di costruire la casa comune dei riformisti: socialisti, cattolici, ecologisti».
In questo momento Renzi suscita grandi entusiasmi fra i militanti Pd.
«L’entusiasmo naturalmente non è negativo. Ma non è chiaro che idea di partito ha Renzi. Forse vincerà, ma non grazie alla sua linea politica. D’altronde, è ciò che accadde anche con Veltroni e con Bersani: furono scelte le persone. Ma perseverare è diabolico!».
Quali contenuti dovrebbe avere il Pd?
«Priorità a lavoro e occupazione, un patto tra dipendenti e imprenditori, equilibrio fra sostenibilità e sviluppo, welfare basato su scuola e sanità, governo parlamentare e non presidenzialismo, Europa democratica sovranazionale».
E i contenuti di Renzi?
«Non mi pare che abbia espresso un programma organico. Ha parlato di Tony Blair, ma è un modello fermo al 1997. Ha detto che vuole un premier eletto come “sindaco d’Italia”. Lo disse anche Mario Segni, ma l’idea continua a non convincermi».
Renzi dice che non vuole prendersi il partito, ma restituirlo ai militanti.
«Questa frase mi è piaciuta molto. Ma cosa vuole restituire ai militanti, che oggi non hanno sedi per discutere né peso? Io so che Renzi chiede primarie aperte per tutte le cariche. Come vede dunque i militanti? Lavoratori volontari e marginali?».
Meglio Renzi premier che segretario del Pd?
«Credo che abbia maggiori attitudini a guidare il governo che il partito. Ma senza un partito vero alle spalle non si può governare, non si sconfiggono le forze corporative e conservative».
Chi è il suo candidato per la segreteria?
«Non conta il nome. Vorrei un candidato in grado di assicurare una leadership forte con un gruppo dirigente forte, basata su militanti ed elettori».
Ci sarà scontro tra ex ds ed ex dc?
«Lo scontro sarà tra chi vuole una forza progressista di sinistra e chi preferisce il partito di un capo».
Fra Renzi e Letta il suo timore è che il Pd «muoia democristiano»?
«Il Pd non muore né con Renzi né con Letta. Muore se tradisce il sogno di unire i riformisti» .

Corriere 4.9.13
L’ironia di Sposetti: «Sono sereno perché non sto con Franceschini»
di A. Gar.


ROMA — «Oggi è un giorno felice. Sono contento, sereno, tranquillo» Perché? «Perché Franceschini si è schierato con Renzi e quindi so che non starò dalla sua stessa parte». Parola di Ugo Sposetti, dna comunista, tesoriere dei Ds dal 2001 fino allo scioglimento nel Pd. Sostenitore strenuo del finanziamento pubblico ai partiti. Vicino a D’Alema. «Dicono che i giochi siano già fatti? Ha vinto Renzi? Chissà... Devono stare attenti, perché su quel bus si sale finché ci sono i biglietti. Però, non ci sarà posto per tutti, a un certo punto faranno scendere». E chi non è renziano? «Siamo qui, eccoci, e qui si lotta». Con l’avvento di Renzi il patrimonio Pci-Pds-Ds rischia l’estinzione? «Io il patrimonio Pci-Pds-Ds l’ho messo al sicuro...». La domanda era sul patrimonio culturale, Sposetti, invece, si riferisce alle decine di fondazioni da lui create, prima della nascita del Pd, per «mettere al sicuro» e non trasferire alla nuova formazione, i beni immobili della militanza comunista, oltre duemila sedi e sezioni.

il Fatto 4.9.13
Roma bene. Lo rivela ”Presa diretta”
Epifani imbarazza il Pd: frequenta un circolo esclusivo “Solo qualche volta”
Il segretario democratico ha subito inviato una secca smentita al programma di Iacona sulla sua iscrizione (30 mila euro) al club romano “Antico Tiro al Volo”
Ma al Fatto risulta (e lui alla fine conferma) che proprio lì festeggiò i suoi 60 anni e va spesso a cena con la moglie
di Carlo Tecce


Quando il pungente vento di tramontana scuote la collinetta stesa ai piedi dei Parioli, nobile quartiere romano fra sfarzi di attici e cortili, il presidente Michele Anastasio Pugliese, avvocato, ordina i biscotti di pasta frolla che mani sapienti sfornano per le occasioni speciali e i languori improvvisi.
Al circolo Antico Tiro al Volo, dove trent'anni fa smisero di impallinare piccioni e piattelli, un desiderio corrisponde a un dovere, dei commessi, dei camerieri e dei massaggiatori che servono seicento selezionate famiglie. A un prezzo, però, preciso: 30.000 euro per l'iscrizione, 3.500 l'anno cadauno.
E così il buon Pugliese, impeccabile in giacca e camicia azzurrina, tenuta ideale per una battuta di caccia a cavallo, durante la trasmissione Presa diretta, cita l'ex sindacalista Guglielmo Epifani fra i soci illustri.
LA REAZIONE di Epifani è immediata, sintetica e si presume furente. Riccardo Iacona la legge in diretta: “Non faccio parte di questo circolo né di altri”. Epifani non ha pagato la quota, non può definirsi compagno di Tiro al Volo di Gianni Letta o Antonio Catricalà (anche Ciampi è un onorario), ma quel circolo, un'oasi metropolitana, orizzonte da foresta brasiliana e addobbi con piscine olimpioniche e vasche idromassaggio, lo conosce e lo frequenta. Il Fatto Quotidiano ha scoperto che il segretario del Pd festeggiò in questi luoghi incantati e non proprio sobri, non certo da fabbrica di periferia, i suoi sessant'anni (marzo 2010) e ci è tornato, almeno un paio di volte a stagione, per pranzare o cenare con la moglie. L'ha raccontato il medesimo Pugliese, che s'è scusato per l'errore a Presa diretta. E l'ha confermato Epifani, che ci tiene a precisare, per far intuire la distanza che lo separa da un gioiello (di lusso) simile, che un pasto può sforare i 35 euro: “Ma non faccio sport, ci vado qualche sera. Cercavo un posto a modo per un rinfresco con gli amici”. Piccolo glossario Antico Tiro al Volo: l’accesso è libero, ma – appena oltrepassato il portone scuro in un gomito dei Parioli – soltanto i soci possono sfruttare le meraviglie che offre e soltanto i soci, ancora, qualificati di sicuro, possono presentare un aspirante nuovo entrante.
L'ingresso da esterno di Epifani non avrà scatenato un vortice di raccomandazioni, l'uomo è molto referenziato, anche se Pugliese rivendica la consumata amicizia e simpatica con la moglie del capo democratico. Per meriti familiari o politici, chissà se sindacali, Epifani può ammirare un panorama talmente inebriante che fa scomparire il cemento che sbuca, certo che sbuca, tra il giardino botanico e la palestra coperta. E ha potuto, il rosso che per anni ha battagliato accanto ai metalmeccanici, celebrare il compleanno in una piazza che non era San Giovanni: gli hanno concesso la vista, lui ha pagato le consumazioni. Il Circolo fa beneficenza, giurano. Spalanca i cancelli ai ragazzi, aggiungono; istruisce i tennisti più promettenti, insistono. Ma non vuole – anzi teme tanto – che sia contaminato.
PERCHÉ negli spogliatoi potresti incontrare un ministro, un giudice o un presidente emerito della Consulta: “Li abbiamo avuti tutti”, giura Pugliese. Da Piero Alberto Capo-tosti a Giovanni Maria Flick. Iacona ha scostato quella tendina, sempre più spessa, che divide l'Italia dei poveri e l'Italia dei ricchi. L'Italia dei mutui e l'Italia di Marisela Federici, che per (far) apparecchiare la tavola dispone di tre stanze: piatti, posate e bicchieri. E fra l'Italia dei ricchi c'è finito pure l'ex sindacalista Epifani.

l’Unità 4.9.13
Scene di divorzio in streaming fra i parlamentari a 5 stelle
Tesa assemblea dei senatori: «Siamo divisi in due»
Orellana: «Le alleanze non sono un tabù»
La replica: «Fuori chi dialoga con questi partiti»
Grillo lancia il nuovo V-day: «Ormai è guerra»
di Andrea Carugati


«Tra noi in questa stanza c’è molto astio, sembra che siamo già divisi in due gruppi. O forse anche tre», scandisce il toscano Maurizio Romani nel bel mezzo dell’assemblea dei senatori grillini.
La giornata di psicodramma a 5 stelle, l’ennesima, sta tutta qui. Non c’è più solo Grillo che dal blog invita i potenziali disertori ad andarsene. Non ci sono più solo i giornali cattivi a raccontare le crepe che dividono la truppa parlamentare. Le scene da un divorzio che sono andate in onda ieri mattina dal Senato in diretta streaming parlano da sole. Di fronte a Luis Orellana, che ha dato voce alle ragioni del fronte aperturista, spiegando che «le alleanze non sono un tabù, in fondo in Sicilia ne stiamo già facendo una», che «il governo della società civile non lo possiamo fare da soli in 50» e che «potremmo avere un potere contrattuale fortissimo», si è scatenata la contraerea dei falchi. Da Paola taverna a Carlo Martelli fino a Vito Crimi, la tesi del dialogo possibile è stata rasa al
suolo. «Il governo con questi partiti qua? Non va neppure messo al voto». «Cosa ce ne frega della forze politiche? Che si ammazzassero tra loro», ha rincarato Barbara Lezzi.
Sul tavolo anche il famoso post agostano del portavoce Claudio Messora, che aveva definito «piccoli onorevoli» quelli che si affannano per scongelare il M5S nelle aule parlamentari e non si limitano al «tutti a casa». «Messora è solo un dipendente che ha scritto sciocchezze che ci offendono, non ha più la mia fiducia», ha tuonato Orellana. Molti altri l’hanno accusato di avere la «coda di paglia»: «Si è offeso solo chi si sente onorevole, noi siamo cittadini». Paola Nugnes ha risposto sul punto: «I partiti non sono cambiati e l’abbiamo verificato sul campo. Pensare che loro vengano a noi è una ingenuità assoluta». Molti hanno citato gli «insulti» che il gruppo si è scambiato in agosto sulla Rete. «Una cloaca massima», secondo Carlo Martelli. «Ciascuno dovrà rendere conto di quello che ha scritto. E dovete smetterla di leggere nei post di Grillo quello che vi pare».
Con Orellana si sono schierati, tra gli altri, Fabrizio Bocchino, Francesco Campanella, Alessandra Bencini e Romani. Tra i falchi si è fatto notare Sergio Puglia: «Alleanze con questi signori, che vogliono solo distruggerci? Noi dobbiamo conquistare la libertà, anche con la forza». Senatori con l’elmetto, in perfetta sintonia con il post di Grillo uscito mentre l’assemblea era in corso: «Siamo in una guerra che deciderà il destino del Paese, il Parlamento è solo una scatola di tonno vuota, bisogna tornare nelle piazze, stiamo preparando un nuovo V-Day». «Chi vuole guardarsi l’ombelico si tiri fuori. Il M5S non è il suo ambiente». Un concetto ribadito anche dal capogruppo in Senato Nicola Morra: «Orellana sbaglia, sono sicuro che riconsidererà le sue parole, perché altrimenti dovrà prendere atto che le strade divergono». E Nugnes rincara: «Chi pensa che la linea di partenza della campagna elettorale sia cambiata si alzi e lo dica, altrimenti ci portiamo una serpe in seno che non ci farà andare avanti».
La logica della guerra non consente di tenere in trincea soldati titubanti. Men che meno caporali in odore di intelligenza col nemico. Il conto alla rovescia per le nuove espulsioni sembra già partito. Per Grillo però sarà difficile costruire nuovi casi personali, come fu Adele Gambaro. I movimenti ormai sono due, e la coabitazione è sempre più difficile. In gioco non c’è solo una singola scelta politica, ma la natura stessa del movimento, la sua mission, la sua ragione d’essere in Parlamento. «Talebani» e «riformisti» si guardano in cagnesco, entrambi sono convinti di rappresentare la vera linea del M5S: da una parte si invoca la democrazia diretta e si insiste per «coinvolgere i cittadini in tutte le decisioni», dall’altra si osserva fideisticamente il «Tutti a casa», e le parole d’ordine del Capo.
Nel pomeriggio senatori e deputati si sono ritrovati alla Camera per una ennesima assemblea, stavolta congiunta. Bocciata dalla maggioranza dei presenti l’ipotesi della diretta streaming. «Non vogliamo alimentare il gossip», ha spiegato Riccardo Nuti. All’incontro non erano presenti Orellana e molti dei dissidenti. Argomento: legge elettorale e riforme costituzionali, con la battaglia annunciata nel prossimo finesettimana contro la riforma dell’articolo 138 della Costituzione. «Stiamo per presentare la nostra proposta di riforma elettorale», ha annunciato Luigi Di Maio. Dopo il voto degli eletti, la bozza passerà al vaglio della Rete. «Entro settembre saremo pronti», assicurano i grillini.

Repubblica 4.9.13
Il senatore grillino Campanella: l’obiettivo di cambiare il sistema politico è giusto, ma io non ho capito come vogliamo conseguirlo
“Caro Beppe, essere duri e puri non basta”
di A. Cuz.


ROMA — «Questo metodo del taglia e purifica quando finisce? Qual è il livello di purezza ottimale del Movimento?». Francesco Campanella ha letto il nuovo post di Grillo dopo la riunione che doveva fare chiarezza tra i senatori, ma che alla fine si è rivelata uno sfogatoio di dubbia utilità. I “prendere o lasciare” non gli piacciono, «la politica dev’essere inclusiva, persuadere, convincere».
Sul blog Grillo invita chi guarda il proprio ombelico ad andare via.
«Allora dovrebbe parlare con chi si guarda l’ombelico, attività con la quale non mi diletto. Tutto può dire tranne che io sia autoreferenziale».
Eppure sembrava parlare a lei, e a chi come lei in questi giorni ha osato dissentiredalla sua linea.
«Il punto non è la linea, il punto è come ci si arriva. Sono d’accordissimo con l’obiettivo di cambiare il sistema politico, ma qual è il modo? E chi lo decide? Il come è il grande assente nelle discussioni diquesti mesi».
Stando al blog, bisogna fare la rivoluzione. Andare in guerra.
«E questa rivoluzione come si fa? In modo pacifico immagino, grazie a Dio
nessuno ha parlato d’altro».
Veramente il suo collega Sergio Puglia ha detto: «Riprendiamoci la libertà, anche con la forza».
«Voglio sperare siano parole scappate lì. Comunque, fermi restando gli obiettivi, io non ho capito il percorso che si propone ».
È semplice: elezioni, vittoria, tutti a casa, cambiare tutto da soli.
«E se votando con questa legge ci fosse un risultato analogo a quello dell’inverno scorso? Se non fosse possibile un governo monocolore?».
Mi sembra che il ragionamento di Grillo non accetti subordinate.
«Ho lavorato molto accanto a programmatori informatici, l’opzione “e se” va sempre contemplata. Soprattutto perché stiamo parlando del governo di un Paese. Io dico solo che c’è la necessità diinteragire di più con la base, e anche con Grillo. Visto che le metafore guerresche piacciono tanto, se siamo reparti di uno stesso esercito, dobbiamo coordinarci».
I senatori più “ortodossi” hanno chiesto a chi non si allinea di andar via. Teme nuove espulsioni?
«Mi sembrerebbe inopportuno, un’operazione debole. Noi abbiamo un regolamento, bisognerebbe essere espulsi in base a quello, non aggiungendo ogni volta un motivo nuovo. E poi mi chiedo, a forza di tagliare e purificare, dove si arriva? Qual è il livello di purezza ottimale?».
Eseguire il volere del blog, schiacciare bottoni in base a quel che viene ordinato?
«Voglio credere che nessuno ci chieda questo».

il Fatto 4.9.13
Contro l’immunità mediatica di Pannella
di Dino Giarrusso


Il livello di devastazione dei media italiani si nota osservando come tutti commentino le firme di Berlusconi ai referendum radicali, guardando sempre e solo al Cav. Vogliamo ricordarci accanto a chi stava Berlusconi? Pannella dirige da decenni un partito pieno di adepti che sarebbero capaci di dirti “È giusto allearsi con Zingaretti” alle 17.12 e poi “È giusto allearsi con Storace” alle 17.13 perché il loro guru ha cambiato idea. Pannella ha dato alla politica italiana Capezzone, Vito e Quagliariello; ha stretto alleanze coi leghisti, coi fascisti, con Sgarbi, con Berlusconi, coi comunisti, con l'Ulivo, con Casini, con Fini, con Storace, con Prodi. Rivendica ancora i referendum sull'aborto e il divorzio, che è come se Zoff pretendesse di giocare in porta nella nazionale perché 31 anni fa ha vinto il mondiale. Pannella è da decenni il dittatore di un partito che ha campato di denaro pubblico elargito alla sua radio senza concorsi né appalti, pur essendo da sempre contrario al finanziamento pubblico ai partiti. I soloni del commento politico soppesano “l’ennesima geniale mossa politica” di B, mentre su Pannella non hanno niente da dire. E magari il centrosinistra (coi suoi strateghi infallibili) lo corteggerà alle prossime elezioni.

Repubblica 4.9.13
Il disprezzo per le donne e quella vita che non nascerà
di Michela Marzano


ANCORA una donna uccisa. Ancora una vittima della violenza maschile. Questa volta, però, forse non si tratta di un dramma senza movente. La giovane brasiliana ammazzata a Brescia dall’amante aspettava da lui un bambino.
UNA storia di tradimento che finisce male come tante, ma che questa volta, però, con la morte di Marilia e del bimbo di cinque mesi che la donna portava in grembo, si trasforma in una vera e propria tragedia. Come se uccidere una donna incinta potesse cancellare ogni traccia di quello che è successo, potesse far ricominciare a vivere come se niente fosse mai accaduto, potesse permettere di riprendere in famiglia il corso normale della propria esistenza. Quale esistenza? Quale normalità? Quale famiglia?
Ognuno, nella vita, cerca di districarsi come può, scegliendo di essere o meno fedele, accontentandosi di una moglie oppure accumulando avventure successive. Nessuno, però, dovrebbe immaginare che i propri gesti non abbiano alcuna conseguenza e che, se l’amante resta incinta, ci si possa poi sbarazzare di lei come di un oggetto di cui ci si è ormai stancati. Considerazione ovvia per chiunque. A meno di non illudersi che l’unica cosa che conti sia il proprio ego, un “io” sempre più ingombrante e sempre meno in empatia con gli altri:ioho un’avventura, iodecido di interromperla, iomi libero di ogni presenza ingombrante … “I, me, and myself”,come scriveva Salinger nelGiovane Holden. Solo che questa volta il protagonista del dramma non è un adolescente alla ricerca di se stesso, ma un uomo che, uccidendo l’amante incinta, mette in luce l’ennesima sfaccettatura della violenza maschile. Quali che siano le circostanze precise di questo delitto, non siamo più solo di fronte ad una forma di disprezzo nei confronti delle donne, ma anche di fronte ad un disprezzo generalizzato nei confronti della vita umana: quella di un bimbo che non nascerà mai, ma anche quella dei due figli già nati e della moglie. Un crimine terribilmente banale, squallida espressione dell’iperindividualismo contemporaneo.

l’Unità 4.9.13
A Roma niente scontrini. Sette su dieci non lo fanno
Controlli straordinari in tutta la provincia: 552 violazioni in due giorni
In Italia record dell’evasione fiscale
Nei primi sei mesi il dato di infrazioni riscontrate su tutto il territorio è superiore al 60%
L’economia sommersa rappresenta il 21% del Prodotto interno lordo
di Vincenzo Ricciarelli


Lo scontrino? Non è un’usanza romana. O almeno così sembrerebbe a giudicare dai dati del «Piano straordinario di Controllo Economico del Territorio» che la Guardia di Finanza capitolina ha attuato durante lo scorso fine settimana. E il risultato più eclatante è che sette negozianti su dieci del territorio di Roma e provincia non emettono il regolare scontrino. L’attività di controllo ha visto impegnati circa 370 uomini, ed è stata studiata per «tutelare gli operatori regolari dalla concorrenza sleale dei venditori abusivi ha spiegato la Guardia di Finanza e dalla scorrettezza di quegli esercenti che omettono di certificare i propri incassi». In materia di contrasto all’abusivismo e alla vendita di prodotti contraffatti, nei due giorni dell’intervento sono stati sequestrati 7.500 «pezzi», delle più diverse categorie merceologiche, e denunciati all’autorità giudiziaria 25 venditori. Oggetti che vanno ad aggiungersi agli oltre 16 milioni di «pezzi» contraffatti o pericolosi già sequestrati dalle Fiamme gialle capitoline nei primi otto mesi del 2013 di cui 6 milioni solo tra luglio e agosto sul territorio dell’intera provincia, per il cui commercio sono state denunciate 527 persone e multate altre 211.
In particolare, in materia di emissione di scontrini e ricevute fiscali, sono stati eseguiti, in due soli giorni, 779 controlli, da cui è scaturito il rilevamento di 552 violazioni per mancata o irregolare emissione dei documenti fiscali. «L’elevata percentuale di irregolarità che ne consegue sottolineano le Fiamme gialle conferma la validità del metodo di selezione degli obiettivi». I soggetti controllati delle più svariate categorie di commercianti sono stati, infatti, «preliminarmente individuati incrociando numerosi elementi, sia appresi in via diretta nell’ambito delle ordinarie investigazioni tributarie che pervenuti, in forma di segnalazioni, sul numero di pubblica utilità 117». L’analisi incrociata delle risultanze ed il profilo ricavabile dalle banche dati dell’Anagrafe Tributaria hanno, infine, permesso di redigere «una lista di potenziali evasori nei cui confronti eseguire un’attività ravvicinata diretta a riscontrare gli indizi emersi e dirottare, se del caso, la conseguente strategia operativa verso forme ispettive più incisive». Anche in questo caso, le irregolarità rilevate vanno ad aggiungersi alle 6.678 violazioni in materia di certificazione dei corrispettivi
già individuate dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma sul territorio dell’intera provincia nei primi otto mesi dell’anno, con una percentuale di irregolarità che, a fronte di 10.613 controlli eseguiti, si attesta, invece, sul 62,92%.
L’operazione di Roma conferma quindi che l’evasione fiscale in Italia resta una piaga che non conosce differenze di latitudine o rivali in Europa. Secondo un’indagine dell’Associazione Contribuenti Italiani, infatti, il nostro paese nel 2012 si è riconfermato maglia nera d’Europa per l’evasione fiscale con una crescita del 15,3% e punte record nel Nord dove ha raggiunto il 16,1%. Secondo la ricerca l’Italia presenta un economia sommersa del 21,4% del prodotto interno lordo, pari a 346 miliardi di euro l’anno. Le imposte sottratte all’erario sono
nell’ordine dei 181,7 miliardi di euro l’anno conteggiando sia quelle dirette che indirette. Situazione che non sembra migliorare visto che nei primi sei mesi del 2013 la Guardia di Finanza ha scoperto quasi cinquemila casi di evasione fiscale: in 1.771 casi, addirittura, la persona individuata non aveva mai presentato nemmeno una dichiarazione dei redditi. Per questo sono stati denunciate dalle Fiamme Gialle per omessa dichiarazione dei redditi. «Si tratta di soggetti che, pur svolgendo attività imprenditoriali o professionali, erano completamente sconosciuti al Fisco ha spiegato la Guardia di Fiananza ed hanno vissuto alle spalle dei contribuenti onesti, usufruendo di servizi pubblici che non hanno mai contribuito a pagare, intestando spesso beni e patrimoni a prestanomi o a società di comodo».

l’Unità 4.9.13
Massimo D’Alema
«Obama sbaglia, la soluzione è solo politica»
«L’attacco punitivo mirato è inutile e dannoso. In Siria c’è un groviglio che appare inestricabile, la strada obbligata è una conferenza di pace»
«Mi stupisce il paragone con il Kosovo: lì c’era un obiettivo politico chiaro che qui manca»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«In Siria non servono bombardamenti mirati, ma una forte iniziativa politica internazionale che costringa le parti al cessate-il-fuoco, dispieghi una forza di interposizione sotto l’egida delle Nazioni Unite e promuova una conferenza di pace che metta fine alla guerra in corso. Sono, in sintesi, i passaggi individuati dall’ex premier e ministro degli Esteri Massimo D’Alema, che all’Unità definisce come «inutile e dannoso» l’eventuale intervento armato nel martoriato Paese mediorientale e si augura che il prossimo G20 contribuisca alla ricerca di una soluzione del conflitto.
In Siria la situazione è sempre più tragica. I rifugiati hanno superato i 2milioni, i morti sono oltre 110mila. La Santa Sede evoca il rischio di una guerra mondiale. Sul tappeto c’è il ventilato attacco mirato e ristretto da parte americana.
«Credo che un attacco punitivo “mirato” nei confronti del regime di Bashar al-Assad non consenta di procedere verso la soluzione del conflitto. Sarebbe, a mio parere, una iniziativa inutile e dannosa, perché rischierebbe di alimentare tensioni con la Russia e altri Paesi della regione. Al di là della comprensione verso la giusta esigenza del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e del Presidente francese François Hollande di fare qualcosa di fronte alla tragedia dell’uso delle armi chimiche, questa operazione militare si presenta come non risolutiva e probabilmente molto rischiosa. Mi ha colpito l’accostamento con il Kosovo...».
Una vicenda che l’ha vista protagonista, come premier italiano.
«Un accostamento sballato, che non c’entra nulla. Nei Balcani fu condotta un’azione militare risolutiva, anche perché aveva uno scopo che non era soltanto quello, umanitario, di porre fine alla pulizia etnica, ma di indurre le truppe serbe a ritirarsi dal Kosovo al fine di favorire una soluzione politica attraverso le Nazioni Unite. Tanto è vero che il conflitto si concluse con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu e il dispiegarsi di una forza internazionale, che vide una presenza importante dell’Italia. L’intervento in Kosovo, per quanto doloroso, pose fine alle guerre civili balcaniche. Insisto su questo punto: l’operazione militare aveva una finalità chiara, a sostegno di una iniziativa politica chiara. E l’obiettivo fu raggiunto. In Siria, invece, l’obiettivo politico dell’iniziativa statunitense non è chiaro, non si capisce quale possa essere e quali passi in avanti possa effettivamente far compiere per risolvere la situazione».
Partendo da questa considerazione critica, come giudica la decisione del presidente Usa di legare l’azione militare in Siria al via libera del Congresso?
«Penso che nella condizione di isolamento internazionale in cui si trovano a operare gli Stati Uniti, il Presidente Obama voglia contare almeno sul consenso interno. Una posizione di saggezza, di rispetto delle regole democratiche e, sotto questo profilo, apprezzabile. Ma alla base c’è un vizio di origine, una lettura a mio avviso errata da parte dell’intero Occidente delle vicende che negli ultimi due anni hanno sconvolto non solo la Siria, ma una parte importante del mondo arabo».
Qual è questa lettura sbagliata?
«Gli eventi di questi ultimi due anni inducono a riflettere su una drammatica carenza di analisi e di visione da parte degli Stati Uniti. Per non parlare dell’assenza o, nel migliore dei casi, della debolezza dell’Unione Europea per le divisioni fra i suoi Stati membri. L’Occidente ha interpretato un moto, pur importantissimo, di portata storica, come rivolte di popolo contro i dittatori. Ora, c’è stata certamente questa componente, ma in realtà quello che è emerso è anche la fragilità di questi Paesi, alcuni dei quali sono delle costruzioni post coloniali. E i recenti conflitti hanno preso spesso la forma di scontri etnico-religiosi, in alcuni casi di natura tribale, che
non possono essere ricondotti semplicisticamente allo schema “popolo in rivolta contro il dittatore”. Non avendo le giuste chiavi culturali interpretative e muovendosi in ordine sparso l’Occidente non ha saputo e non sa come intervenire. Emblematico è il caso della Libia: noi abbiamo aiutato il popolo a liberarsi dal dittatore, ma la guerra civile continua, e i morti si contano ancora in molte migliaia. A queste osservazioni aggiungo che, a mio parere, era evidente come un moto di partecipazione, di protagonismo popolare nel mondo arabo avrebbe portato in primo piano le componenti islamiste».
E l’Occidente?
«L’Occidente ha avuto il timore dell’islamismo politico e non ha compiuto quella analisi necessaria delle diversità presenti all’interno di questo mondo, che è così complesso. Così si è infilato in una serie di paradossi. È paradossale, ad esempio, che in Siria si sostengano le componenti più estremiste del fronte anti-Assad, financo Al-Nusra, legato ad al Qaeda, mentre in Egitto si siano avallati il colpo di Stato militare contro i Fratelli musulmani, l’arresto del primo presidente eletto democraticamente, lo scioglimento del suo partito, le morti di centinaia, forse migliaia di persone, come se nulla fosse. Il quadro confuso e contraddittorio che emerge, supporta la sensazione di un Occidente che persegue più i suoi interessi geopolitici, che non una presenza coerentemente ispirata ai valori democratici, ai diritti umani e civili. E questo ci ha fatto perdere enormemente di credibilità in un mondo che non era pregiudizialmente ostile. Mi sembra che a prevalere sia la logica della convenienza e non certo quella della coerenza». Come rientra in questo scenario la vicenda siriana?
«Essa si iscrive pienamente in questo quadro. È una vicenda complessa, sul piano interno e internazionale. Quella della famiglia Assad è una dittatura feroce, e non da oggi. Ma noi non comprenderemmo le ragioni per cui questa dittatura ancora esiste, e anzi sembra quasi prevalere sul piano militare, se applicassimo lo schema, a cui accennavo prima, di “un popolo che insorge contro il dittatore”. Se fosse stato così, infatti, lo avrebbero spazzato via da tempo. Invece, è evidente che in Siria c’è una guerra civile. Ed è altrettanto evidente che nella società siriana ci sono componenti importanti che magari non hanno particolare simpatia per il regime di Assad e tuttavia lo sostengono perché sono piuttosto impaurite di ciò che potrebbe avvenire. La maggioranza sunnita, in particolare la componente più radicale che anima la rivolta sul terreno, è vista con timore dagli alawiti, dagli sciiti, dai curdi, dai cristiani. Quest’ultima è tra le componenti che, di fatto, sostengono di più il regime di Assad. Quello in atto in Siria è un processo di frammentazione che mette a rischio perfino l’unità del Paese, in cui l’elemento dello scontro etnico-religioso s’intreccia con la lotta contro il regime. E proprio perché questo groviglio appare inestricabile, sembra difficile pensare a una soluzione che non passi attraverso una Conferenza di pace. Un’iniziativa che riunisca attorno a un tavolo tutte le diverse componenti, con l’obiettivo di arrivare a un punto di sintesi, il quale, a mio avviso, dovrebbe portare alla liquidazione della dittatura attraverso la formazione di un governo di unità nazionale. Ma la premessa di tutto questo è una tregua e poi il dispiegarsi di una forza internazionale di interposizione, sotto l’egida dell’Onu e della Lega araba, che contribuisca alla pacificazione del Paese. Non vedo un’altra via. In quello che sta accadendo credo ci siano diverse responsabilità: quella della Russia, che appoggia Assad dal punto di vista politico e militare, alimentando in lui la convinzione di poter vincere la guerra, e quella del fronte occidentale, a partire dagli Stati Uniti, e di quei paesi arabi, come Arabia Saudita e Qatar, che non hanno immaginato altra soluzione se non la vittoria militare dei sunniti».
Con quale risultato?
«Devastante. I fronti internazionali contrapposti anziché spingere le parti a ricercare un compromesso e una soluzione di pace, hanno alimentato la guerra, rafforzando la convinzione degli uni e degli altri di poter vincere sul campo. Ma se ciò avvenisse, il rischio sarebbe una disgregazione della Siria, che si ripercuoterebbe sull’intero Medio Oriente. Altro che bombardamenti mirati, qui ci sarebbe bisogno della politica. E il prossimo G20, come giustamente ha detto il Presidente del Consiglio Letta, potrebbe essere l’occasione per recuperare un intento comune nell’elaborazione un piano che ponga fine al conflitto. Bisognerebbe avviare una manovra a tenaglia su tutte le parti in causa. Una manovra che non potrebbe non coinvolgere la Russia e, per certi aspetti, anche l’Iran. Una manovra che imponga alle parti un cessate-il-fuoco e l’avvio di un processo politico che possa portare la Siria fuori da questa tragica situazione».

Corriere 4.9.13
«L’America, poliziotto assente. Ecco perché la rimpiangeremo»
Joschka Fischer e le sfide del mondo post-occidentale
Gli Usa non vogliono e non possono più assolvere a un ruolo globale
di Paolo Valentino


Rimpiangeremo lo sceriffo del mondo? Ci mancherà la «indispensable nation », giusta la celebre definizione che dell’America diede Madeleine Albright?
Non sono più solo quesiti retorici, di fronte al dipanarsi violento della crisi siriana, che tocca il nervo scoperto di un Presidente, e di un intero establishment, costretti a misurarsi con un dilemma esistenziale: se gli Stati Uniti debbano e possano continuare a garantire e sorvegliare in qualche modo l’ordine globale.
«Il mondo post-americano sta prendendo forma sotto i nostri occhi ed è caratterizzato da ambiguità politica, instabilità e caos. È una situazione molto pericolosa, così pericolosa che alla fine anche i più accaniti antiamericani potrebbero finire per rimpiangere il secolo in cui l’America è stata il guardiano del mondo».
Joschka Fischer chiama le cose per nome, indica rischi e pericoli, ma nelle crisi e nei cambi di stagione intravede anche inaspettate opportunità.
Non c’è alcun dubbio, spiega l’ex ministro degli Esteri tedesco, che «oggettivamente e soggettivamente gli Usa non vogliano e non possano più assolvere a un ruolo globale». Le cause sono note. L’emorragia «di sangue e denaro» provocata dalle avventure in Afghanistan e Iraq, la crisi economica e finanziaria, il debito pubblico, le nuove priorità interne, la necessità di concentrarsi sulla sfida che viene dal Pacifico, dove si misura il declino relativo dell’America di fronte alle potenze emergenti.
E anche se gli Stati Uniti, spiega Fischer, riusciranno prima o poi a ridefinire la loro posizione nel mondo, sulla base dei nuovi equilibri, è chiaro «che il peso relativo e l’estensione del loro potere ne usciranno ridimensionati». Ma l’attesa e il cammino verso il nuovo assetto strategico «sono densi di rischi e carichi di potenziali di conflitto dalle conseguenze incalcolabili».
Nulla lo dimostra meglio delle crisi mediorientali e in particolare di quella in Siria, dove finora l’importanza del ruolo americano è «diventata evidente in absentia di leadership». Osservava ieri sul Financial Times Gideon Rachman, che lo stesso intervento limitato con i missili cruise lanciati dalle navi, per il quale il presidente Obama ha chiesto l’autorizzazione del Congresso, non può mascherare il fatto che Washington al momento non abbia una vera e propria strategia per il dramma in corso a Damasco.
Ma è proprio questa, secondo Fischer, la ragione per cui siamo destinati a rimpiangere il buon tempo antico, quando l’America, secondo la celebre frase di John Kennedy, era pronta a «pagare ogni prezzo, assumersi ogni peso, far fronte a ogni avversità, sostenere ogni amico, combattere ogni nemico per assicurare la sopravvivenza della libertà».
«Ciò che impariamo oggi dalla crisi in Medio Oriente — dice Fischer — è che potenze regionali (Iran, Turchia, Arabia Saudita) stanno cercando di sostituirsi agli Usa come garanti dell’ordine. Ma ciò produce altro caos e combustibile per nuove violenze. Primo, perché nessuna di queste nazioni è forte abbastanza per rimpiazzare da sola l’America. E inoltre perché la frattura sciiti-sunniti produce politiche contraddittorie: così in Egitto i sauditi sostengono i militari contro la Fratellanza, mentre in Siria appoggiano i salafiti contro i militari, che a loro volta ricevono aiuti dall’Iran e dai loro accoliti libanesi dell’Hezbollah».
Eppure, secondo l’ex capo della diplomazia berlinese, la battaglia per il potere nella regione mediorientale e l’antagonismo ideologico che la caratterizza «possono creare opportunità di cooperazione prima considerate impossibili». Da questo punto di vista, «i colloqui Usa-Iran sul nucleare persiano, alla luce dell’elezione a presidente di Hassan Rouhani, potrebbero assumere un significato più ampio».
Quanto all’Europa, il riallineamento e le più contenute responsabilità che gli Stati Uniti saranno disposti ad assumersi nel nuovo mondo, le pongono una domanda precisa: «Potrà concedersi il lusso di essere incapace di difendersi senza l’aiuto americano?». La garanzia di Washington dentro la Nato non verrà meno, ma non basterà più. E allora, di fronte ai rischi di caos e crescente instabilità alle porte di casa, «forse l’Europa capirà che è il caso di smetterla di continuare ad avanzare sulla strada dell’autosmantellamento».

Repubblica 4.9.13
Germania pallida madre
di Barbara Spinelli


UNA potenza egemone, ma timorosa di dominare perché memore della propria storia. Volitiva, ma temporeggiatrice fino all’abulia. Difficile afferrare la Germania, alla vigilia delle elezioni, e per questo abbondano i luoghi comuni, le definizioni elusive.
Sono i tentativi di psicologizzare un potere evidente, invadente, che Berlino dissimula con cura e che nelle capitali dell’Unione non si sa come contrastare. L’Europa intera si nutre di questi stereotipi, da quando la crisi l’ha assalita, e aspetta ammaliata, inerte, l’esito del voto. Spera che tutto cambierà dopo il 22 settembre, ma il tutto che promette lo affida a Berlino. Il rinnovo del Parlamento tedesco precede di pochi mesi le elezioni europee. Nell’Unione è vissuto come il primo atto di un dramma che concerne il continente, e che ha per protagonista la malata democrazia d’Europa.
Grazie ai luoghi comuni il dramma si tramuta in fiaba, che i tedeschi stessi coltivano in parte per capire dove vanno, in parte per giustificarsi. La fiaba narra una Germania – pallida madre ancora e sempre, come nella poesia di Brecht – ansiosa di non esser più, «in mezzo ai popoli, derisione o spavento». Devota all’Europa con lucido raziocinio, ma ostacolata dal nazionalismo dei paesi vicini, Francia in testa. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble fa parte della generazione europeista del dopoguerra, e in un lungo articolo del 19 luglio sul Guardian ha avvalorato l’immaginario racconto: «L’idea che i tedeschi ambiscano a un ruolo speciale in Europa è un malinteso. Noi non vogliamo un’Europa tedesca. Noi non chiediamo agli altri di essere come noi».Invece i tedeschi hanno volontà forti, molto più di quanto dicano. E chiedono, con l’impeto di chi difende non solo dottrine economiche, ma solenni visioni morali (il debito come colpa). Schäuble invita i partner a non usare stereotipi nazionali, ma anche il suo ragionare, minimizzare, sta divenendo uno stereotipo, un sintagma cristallizzato che la realtà smentisce ogni giorno. L’attesa inerte del voto tedesco – attesa addirittura miracolista in Italia – suggella un potere egemonico dato per immutabile, senza alternative: come immutabili, indiscutibili, sono le politiche di austerità che Berlino impone parlando, da sola, in nome di tutti i popoli dell’Unione.
I più lucidi sono gli intellettuali di lingua tedesca – i filosofi Jürgen Habermas e Ulrich Beck, lo scrittore Robert Menasse, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Dagli esordi della crisi, denunciano con severa insofferenza l’involuzione nazionalista del proprio paese. Fra i partiti, solo i Verdi fanno proprie le loro diagnosi. Fischer, che è un loro dirigente, accusa il governo di aver riacceso dopo più di sessant’anni l’antico assillo della questione tedesca.Stessi toni in Jürgen Trittin, ex ministro dell’ecologia: «C’è una divisione netta fra quel che i Verdi vogliono e quel che Berlino sta facendo. Il Cancelliere ha sempre desiderato un’Europa intergovernativa, mentre noi vogliamo rafforzare le istituzioni europee, dunque i poteri della Commissione e del Parlamento europeo ». La Merkel è sospettata di voler tornare a un’Europa degli Stati sovrani: quella stessa Europa fondata sull’equilibrio-competizione fra potenze (la balance of power),che si squassò nelle guerre dei secoli scorsi e contro cui fu alzato, negli anni ’50, il baluardo della Comunità europea.
Non sono sospetti infondati. Piano piano, il capo del governo ha abbandonato l’europeismo che aveva professato nel febbraio 2012, e le porte che aveva socchiuso le ha per ora chiuse. Ha sentito crescere attorno a sé i neo-nazionalisti (l’appena nato partitoAlternativa per la Germania recluta a destra e sinistra) e rapida s’è adeguata. Nei suoi discorsi come nei suoi atti «manca qualsiasi nocciolo normativo», dice Habermas. Per questo s’è alleata all’Inghilterra, quando Cameron ha messo un veto a qualsiasi aumento del bilancio comunitario: assieme, hanno detto no a politiche europee che controbilancino le austerità nazionali. E ha benignamente taciuto, quando il Premier olandese Mark Rutte ha decretato, lo scorso febbraio: «L’era dell’Unione sempre più stretta è finita». Il 13 agosto, alla Tv tedesca, s’è come liberata d’un fardello: «L’Europa deve coordinarsi meglio, ma credo che non tutto debba esser fatto a Bruxelles. Va considerata l’ipotesi di restituire qualcosa agli Stati.Dopo il voto ne discuteremo».
Secondo lo scrittore austriaco Menasse, la malattia dell’euro ha proprio qui le sue radici, politiche e democratiche assai più che economiche: nel potere che gli Stati vanno riprendendosi, non da oggi ma da quando nacque, al posto di una Costituzione federale, il Trattato di Lisbona del 2007 (Der europäische Landbote-Il messaggero europeo,
Zsolnay 2012). È da allora che gli Stati – Consigli dei ministri, vertici dei leader nazionali – hanno ricominciato a prevalere, accampando sovranità illusorie ma non meno tronfie, erodendo sempre più le istituzioni sovranazionali. I difetti di costruzione dell’euro sono noti: mancanza di unione politica e economica. Ai difetti si sta rispondendo dilatandoli anziché riducendoli.
In un’Europa dove regnano di nuovo gli Stati – è fiaba anche questa, ma ci son fiabe più reali del reale – è ineluttabile che comandi il più potente economicamente. E comanda non senza astuzie, al punto che Beck parla dimodello Merchiavelli, quando descrive l’impero accidentale messo su da Berlino: «Proprio come Machiavelli, Angela Merkel ha sfruttato l’occasione che le si è presentata (la crisi) e ha trasformato i rapporti di potere in Europa». Lo avrà fatto controvoglia ma lo ha pur sempre fatto, e con effetti visibili: l’Unione non è più comunità, quando i paesi debitori-peccatori vengono umiliati col soprannome diPeriferia-Sud.Non si spiegano altrimenti l’evaporare d’ogni «nocciolo normativo», la volatilità delle posizioni tedesche: sui poteri da rimpatriare nelle capitali, sull’Europa-federazione, o sull’unione bancaria prima voluta, poi respinta per meglio tutelare gli interessi delle banche tedesche. Ascoltiamo ancora Beck: «Il principe, dice Machiavelli, deve attenersi alla parola politica data ieri solo se oggi gli porta vantaggio» (Europa tedesca,Laterza 2012).
Fischer sostiene che per la terza volta, la Germania rischia di distruggere l’Europa. Il pericolo è reale, ma stavolta è nel perfezionismo della sua democrazia che perversamente s’annida la minaccia. È nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento nazionale, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo in Europa è iperdemocratico. O meglio: siamo alle prese con prassi istituzionali che Menasse giudica antiquate perché «non ancora sorrette da una democrazia postnazionale ». La voglia isolazionista diAlternativa per la Germania accelera la regressione. Se Alternativa entra in Parlamento il paese muterà volto, ma non mettendosi ai margini come l’Inghilterra: la sua Costituzione le prescrive l’Europa (art. 23, riscritto nel ’92), ma l’Europa voluta non è federale.
L’ultimo luogo comune riguarda la memoria. L’Italia ha poco da criticare, essendo abituata all’oblio di sé. Ma la politica della memoria ha in Germania singolari lacune. Si ricorda l’inflazione di Weimar, ma non la deflazione e l’austerità adottata nel ’30-32 dal Cancelliere Brüning, che assicurò trionfi elettorali a Hitler. Si ricorda il nazionalsocialismo, ma non quel che accadde dopo: il taglio del debito tedesco generosamente accordato nel ‘53 da 65 Stati (tra cui la Grecia). Anche il mito della Germania che impara dalla storia va in parte sfatato, se non si vuol dividere l’Europa tra centro e favelas: tra santi e peccatori che al massimo «si coordinano», dimenticando strada facendo il nome solidale –Comunità– che un tempo si erano dati e che troppo spensieratamente hanno abbandonato.

Corriere 4.9.13
Caccia grossa a Pechino Xi ha imbracciato il fucile
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Si è aperta la stagione della caccia grossa nella giungla politica di Pechino. Nel giro di pochi giorni sono stati accusati di «gravi violazioni disciplinari» quattro alti dirigenti di China National Petroleum Corporation, la prima azienda petrolifera cinese, la seconda al mondo. Ieri è stato rimosso dall’incarico il capo della Commissione di controllo delle aziende statali: Jiang Jiemin, 57 anni, il primo membro del Comitato centrale del partito, che raccoglie i 200 funzionari di grado più alto del Paese, a cadere da quando è salito al potere il nuovo gruppo dirigente nel novembre scorso. Anche per lui l’accusa è di «gravi violazioni disciplinari», la formula rituale per la corruzione. Il nuovo leader Xi Jinping aveva promesso di «schiacciare le mosche», i piccoli burocrati corrotti, e «combattere le tigri», i grandi personaggi della nomenklatura che gestiscono immensi patrimoni pubblici. Evidentemente Xi ha imbracciato il fucile.
Jiang è un personaggio davvero importante, la sua carica prevedeva il controllo di un centinaio delle più grandi aziende statali. Ed era stato presidente di PetroChina. Un altro uomo dell’oro nero. Questa inchiesta sembra nascondere (e neanche tanto) una resa dei conti sul fronte delle industrie di Stato che in Cina possono contare su condizioni di monopolio, prestiti a basso interesse e privilegi vari e sono il principale ostacolo sulla via di quelle riforme di mercato che Xi Jinping e il suo premier Li Keqiang pare vogliano seguire per consolidare l’ascesa della Cina come seconda economia del mondo.
Mettere sotto inchiesta la cupola della potentissima società petrolifera è un segno di forza della leadership, che per tradizione agisce secondo la regola del consenso e del compromesso. Un altro segnale di forza viene dalle voci che danno per certa un’indagine per corruzione su Zhou Yongkang, 70 anni, fino a marzo capo dei servizi di sicurezza della Repubblica popolare e membro del Comitato permanente del Politburo. Anche lui era passato dal ramo petrolifero e lì aveva cominciato a tessere la sua rete di conoscenze e connivenze, che in cinese si chiama guanxi . Se Xi Jinping dà la caccia alla tigre Zhou, che in cassaforte deve avere parecchi segreti di Stato, vuol dire che la lotta si fa sanguinosa.

Corriere 4.9.13
Perché siamo irrazionali con i nostri soldi
Il nostro cervello e le difficoltà a valutare rischi e benefici
di Massimo Piattelli Palmarini


Molti esperimenti di laboratorio e una robusta teoria, chiamata «teoria del prospetto», che è valso allo psicologo cognitivo Daniel Kahneman il premio Nobel per l'economia nel 2002, confermano che la perdita di una somma, quale che sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, assai più della vincita di quella stessa somma. Che cosa significa? Che il nostro cervello non è fatto per le scelte economiche. Lo sostiene lo studio di otto neuroscienziati del San Raffaele di Milano pubblicato su The Journal of Neuroscience.

Per meglio comprendere l'importanza e l'originalità di un lavoro scientifico pubblicato ieri sul prestigioso The Journal of Neuroscience da otto neuroscienziati cognitivi dell'Università San Raffaele di Milano, occorre fare qualche passo indietro. È ovvio che contabili, ragionieri, commercialisti e amministratori sempre calcolano il risultato finale di guadagni e perdite mediante somme e sottrazioni. Un introito di 10 e una perdita, o spesa, di 2, rappresentano un guadagno netto di 8. Le cose, però, non vanno così nella nostra testa. Innumerevoli esperimenti di laboratorio e una robusta teoria, chiamata «teoria del prospetto», che è valsa allo psicologo cognitivo Daniel Kahneman il premio Nobel per l'economia nel 2002, confermano che la perdita di una somma, quale che sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, assai più della vincita di quella stessa somma.
Poniamo che al mattino ci si sia accorti di aver perso, non si sa come, 100 euro. Il nostro stato psicologico di sconforto non verrà veramente cancellato anche se poi, nel pomeriggio, ci cadono dal cielo 100 euro inaspettati. Per la maggioranza di noi, la bilancia soggettiva torna all'equilibrio, cioè ritroviamo la serenità economica, per questa particolare vicenda, solo se la somma piovuta dal cielo è tra 225 e 250 euro. In circa 35 anni di ricerche nelle scienze cognitive applicate all'economia, questo dato, cioè un'asimmetria di un fattore tra 2,25 e 2,50 tra guadagni e perdite, è tra i più consolidati. Il fenomeno psicologico va sotto il nome di «avversione alle perdite» (loss aversion). Si noti, nessuno psicologo, nemmeno un premio Nobel, sarebbe autorizzato a criticarci per il fatto che perdere denaro «fa male» e che vincere denaro, invece, «fa bene». L'intoppo, cioè l'irrazionalità economica, si manifesta nella nostra tendenza a rifiutare una scommessa nella quale c'è il 50% di probabilità di perdere 10 e il 50% di guadagnare 15 o 18 o perfino 20. Eppure così siamo fatti. Le dinamiche dei mercati internazionali di investimenti, ritorni e aspettative mostrano molti comportamenti poco razionali. Non è un caso, quindi, che la ricerca del San Raffaele sulle basi cerebrali dell'avversione alle perdite ha avuto il supporto finanziario della Schroders, il più grande gruppo al mondo di fondi di investimento e risparmio gestito, con sede nella City di Londra. Da alcuni anni si è cominciato, infatti, a sondare i processi cerebrali fondamentali che sorreggono e producono le scelte (o le non-scelte) economiche. Spiega uno dei principali autori del lavoro, Matteo Motterlini, fondatore e direttore del Centro di ricerche Cresa di psico-economia al San Raffaele: «Il nostro cervello non traffica con guadagni-perdite allo stesso modo. Li tratta come fenomeni distinti. Non è "progettato" per fare quello che vuole la teoria economica neoclassica, cioè soppesare razionalmente la combinazione di probabilità, in particolare di rischio, e rendimenti attesi. Il cervello non fa naturalmente tale tipo di operazione, ma tratta il rendimento come anticipazione di guadagno — il centro cerebrale responsabile è il nucleo accumbens —; e elabora il rischio con altre aree, tipicamente aree della corteccia frontale e l'incertezza con l'insula».
In ogni processo psicologico legato al timore, o addirittura alla paura, spicca come protagonista un'area cerebrale molto antica chiamata amigdala. La ritroviamo molto attiva, ora, anche nell'avversione alle perdite. Recentemente un neuropsicologo italiano emigrato prima al California Institute of Technology e poi all'University College a Londra, Benedetto de Martino, ha esaminato due soggetti che avevano subito una lesione focale, simmetrica e bilaterale all'amigdala. Tali pazienti fanno scelte economiche diverse da voi e me. Uno di questi era incline a mosse economicamente rischiose, mostrando un tipo inverso di irrazionalità. Il primo autore dell'articolo, Nicola Canessa, ricercatore al Centro di Neuroscienze cognitive del San Raffaele, spiega il coinvolgimento dell'amigdala registrato nei (sanissimi) soggetti sperimentali: «Il sistema dopaminergico si attiva per anticipare i guadagni e si deattiva per anticipare le perdite, mentre un sistema "emotivo e somatosensoriale" centrato sull'amigdala si attiva per le perdite e si deattiva per i guadagni. A parità di somma in gioco, le risposte associate alle perdite sono più intense di quelle associate alle vincite, e la forza di questa asimmetria, che varia da persona a persona, riflette la propensione individuale all'avversione alle perdite. Ma quest'ultima è anche correlata al volume di materia grigia nell'amigdala. Le differenze individuali nella dimensione dell'amigdala, invisibili a occhio nudo, emergono con le analisi assai sofisticate che abbiamo condotto». Canessa illustra anche la storia evolutiva di questo organello cerebrale, simile a una mandorla: «L'amigdala è una struttura cerebrale profonda, essenziale per le capacità di apprendere i pericoli intorno a noi, riconoscerli e preparare l'organismo a una risposta, ad esempio "combatti o scappa". Oggi sappiamo che l'amigdala riconosce anche i possibili pericoli insiti nelle nostre stesse azioni, e che la sua attivazione ci spinge, più spesso di quanto sarebbe razionale, ad evitare di agire. Questo "freno" al comportamento ci può salvare la vita, ma se non è a sua volta tenuto sotto controllo ci impedisce di cogliere le opportunità offerte dall'ambiente».
Negli esperimenti i soggetti, tutti volontari, venivano posizionati nell'apparato di risonanza magnetica funzionale ed erano liberi di accettare o rifiutare, una dopo l'altra, numerose lotterie simili a un «testa o croce». Quelle accettate avrebbero portato a vincere o a perdere, con probabilità 50%, somme di denaro. Poiché queste somme variavano tra le diverse lotterie, le scelte dei soggetti hanno consentito di stimare un indice individuale di «avversione alle perdite» che rivela quanto ciascuno, nel prendere decisioni, sovrastima il peso delle possibili conseguenze negative rispetto a quelle positive. Questo indice è stato messo in relazione all'intensità dell'attività cerebrale «anticipatoria» durante la scelta e al volume di materia grigia nelle singole regioni cerebrali, in particolare quelle cruciali per le emozioni, come l'amigdala. In altre parole, si sono misurate le differenze individuali nell'avversione alle perdite e nella stima (direi piuttosto il timore) del rischio. Motterlini è lapidario: «I presupposti dell'economia della razionalità sono neurobiologicamente falsi o irrealistici. Possiamo imparare a essere razionali nelle scelte economiche, ma non lo siamo naturalmente, quando si attivano i processi automatici e in larga parte inconsci. Ciò non può non avere conseguenze su come progettiamo interventi di politica economica e sulle nostre istituzioni finanziarie».
L'autore senior del gruppo, il neurologo clinico e neuroscienziato cognitivo Stefano Cappa, sottolinea: «Il nostro studio mette su basi solide la ricerca sulle differenze individuali. Il futuro è la comprensione dei fattori genetici, epigenetici e dell'apprendimento nel modulare i profili di attivazione e la macro e micro anatomia e le loro conseguenze su scelte e comportamenti: il tutto con misure obiettive». Per concludere, un piccolo consiglio: se vi offrono una scommessa in cui si perde 10 ma si vince anche solo 11 o 12 con la stessa probabilità, mettete a tacere la vostra amigdala e accettate.

Corriere 4.9.13
Lombroso, una scienza senza libertà
Reale: la sua teoria materialista non regge ma appartiene alla storia del pensiero
di Antonio Carioti


Cesare Lombroso non è finito nel dimenticatoio. Esiste anche un aggettivo d'uso comune, «lombrosiano», che richiama le sue teorie, secondo cui gli individui con tendenze criminali sarebbero contraddistinti da peculiari tratti somatici. È però un autore che suscita tuttora discussioni aspre, nelle quali orientarsi non è facile. Può senz'altro aiutare, a tal proposito, la riedizione del suo libro L'uomo delinquente, un ponderoso volume che esce oggi nella collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani (pp. XXIII-2138, € 40).
«Questa opera di Lombroso — spiega il direttore della collana, Giovanni Reale — ha avuto ben cinque edizioni, con successivi cospicui ampliamenti e arricchimenti: dalla prima edizione del 1876 di 256 pagine alla quinta del 1897 in quattro volumi, ormai irreperibile sul mercato e difficile da trovare anche in biblioteca, che ora abbiamo raccolto in un volume unico di oltre duemila pagine. Il testo è corredato da una preziosa presentazione di Armando Torno, che, con grande perizia di bibliofilo, ha descritto le singole edizioni e ha indicato la straordinaria diffusione del pensiero di Lombroso, giunto fino all'Istituto del cervello di Mosca».
Eppure può sembrare discutibile riproporre oggi L'uomo delinquente, in cui Lombroso, nota Reale, «porta alle estreme conseguenze i caratteri strutturali della "fisiognomica", per spiegare i criminali nelle loro diverse forme». Infatti quelle teorie sono da tempo ritenute inservibili da criminologi e antropologi. Ma Reale difende la scelta compiuta: «Scientificamente la costruzione di Lombroso non regge: lui stesso, a un certo punto, ne attenua molto la portata, quando riconosce l'incidenza dell'ambiente sociale nei comportamenti umani. Ma storicamente il suo contributo resta importante. La pubblicazione di questa opera, che ha richiesto un lavoro assai complesso, fa onore all'editore Bompiani, che con grande coraggio l'ha resa accessibile a tutti, e colma un vuoto culturale. Finora era stato riedito solo il volume della prima esile edizione, oltre a brani compresi in raccolte antologiche».
Non si rischia di provocare polemiche con questa riedizione? Lombroso è stato accusato di aver alimentato pregiudizi razzisti contro gli italiani del Sud e il riallestimento a Torino del Museo di antropologia criminale, a lui intitolato, ha suscitato reazioni negative. «L'opera di Lombroso può dare adito a critiche del genere. Ma il criminologo veronese esamina la caratteristiche fisiche dei vari gruppi etnici e ne studia le differenze con metodo scientifico, senza farne derivare l'inferiorità morale di un popolo rispetto a un altro. Il suo non è un rifiuto della diversità: esprime giudizi di natura analitica, non etica. Quanto al Museo di Torino, se presenta Lombroso come punto di riferimento storico che va conosciuto, non vedo obiezioni. Diverso sarebbe se volesse riproporre le sue teorie come tuttora valide o comunque accettabili».
Tra l'altro va sottolineato che in campo filosofico Reale, cattolico e attento studioso del pensiero di Platone, si colloca agli antipodi del materialismo positivista di Lombroso: «La collana ha un orientamento a 360 gradi, nel senso che comprende opere di tutti i filoni di pensiero, anche in netta opposizione reciproca. C'è posto per il positivismo come per la mistica. La contraddizione in quanto tale non è un dramma: è tipica dell'uomo ed è sempre uno stimolo a guardare oltre gli orizzonti consueti, a interpretare la realtà in termini dialettici. Molti errori sono stati compiuti nella storia per non aver tenuto conto di quanto sia complesso il mondo e di quanto sia contraddittorio l'uomo».
D'altronde la fisiognomica, «dottrina secondo la quale i caratteri psicologici e i comportamenti morali delle persone derivano dalle loro caratteristiche fisiche, e soprattutto dai tratti del loro volto e dalle espressioni che assumono», non è nata con il positivismo ottocentesco. Le sue origini risalgono all'antica Grecia. «Il primo personaggio che si è presentato come esperto in materia — ricorda Reale — è Zopiro. In una riunione ad Atene, basandosi sui tratti caratteristici del volto di Socrate, trasse le conclusioni che doveva essere affetto da vizi di vario genere, suscitando grandi risate di dissenso. Socrate, invece, lo difese, dicendo che egli era per natura veramente così, prima che la ragione, con la filosofia, lo trasformasse».
Poi la questione è stata ripresa in epoche successive, ma raggiunge una forma precisa, rileva Reale, proprio con gli studi di Lombroso. «È lui che fornisce a tale indagine una vera e propria sistemazione metodologica e scientifica ad alto livello. L'epistemologo americano Thomas Kuhn ha dimostrato che il fulcro delle teorie scientifiche consiste in un "paradigma", ossia in una sorta di modello ideale, in funzione del quale si guarda la realtà e si praticano le ricerche. Le osservazioni e le varie esperienze degli scienziati sono fatte sempre e in prevalenza in funzione di un paradigma. In tal senso si può dire che nessuno prima di Lombroso aveva fatto un lavoro così rigoroso e sistematico sulla fisiognomica e aveva raggiunto i suoi livelli. Pertanto, L'uomo delinquente si impone, dal punto di vista dell'ermeneutica, come un punto di riferimento».
Colpisce soprattutto il carattere fortemente deterministico di questa visione: «Il pensiero di Lombroso — osserva Reale — si fonda su un materialismo positivistico, che considera la psiche umana e il comportamento dell'uomo dipendenti in larga misura dal corpo e dalla struttura del fisico. Afferma senza mezzi termini che "uomini con tipo craniometricamente e fisiognomicamente criminale, lo devono essere anche moralmente". Di conseguenza, Lombroso ritiene che per chi ha una certa struttura fisica il delitto diventi necessario: a suo avviso esso "appare, così dalla statistica come dall'esame antropologico, un fenomeno naturale, un fenomeno, direbbero alcuni filosofi, necessario, come la nascita, la morte, i concepimenti"».
Ma se i delinquenti nati non possono evitare di commettere delitti, come vanno trattati in sede di processo penale? Devono essere assolti? «Secondo Lombroso — risponde Reale — non sono persone moralmente responsabili, in quanto sono uomini condizionati dalla loro natura fisica, e nei quali il libero arbitrio non gioca alcun ruolo, però sono socialmente pericolosi proprio in quanto tali, e vanno trattati con "una perpetua detenzione"».
Insomma, l'ergastolo anche per il colpevole di reati lievi, nel momento in cui lo si bolla come appartenente a un certo tipo umano in base al suo aspetto esteriore. Qui emerge con chiarezza, secondo Reale, il grande limite del pensiero di Lombroso: «In lui manca l'idea della libertà, la quale, tranne che nei casi in cui la delinquenza coincide con la follia, ha, in ogni caso, un ruolo assai importante. Fëdor Dostoevskij sosteneva che la libertà costituisce l'essenza dell'uomo. Albert Camus diceva che la libertà è innegabile, ma che proprio questo costituisce il grande dramma dell'uomo: non poter non essere libero, e dover decidere ogni giorno e ogni momento sul da farsi nel corso della vita. Ma ciò che rende l'uomo veramente tale sta proprio in questo: nella capacità di scegliere fra il bene e il male».
Del resto lo stesso Lombroso, aggiunge Reale, finì per attenuare la radicalità delle sue tesi: «In un testo del 1893, L'eziologia del delitto, riconosce l'importanza che, oltre ai caratteri somatici, hanno i fattori ambientali e sociali nel comportamento dell'uomo e della spiegazione della delinquenza. Un'ammissione che però lo costringeva a modificare, e non poco, il quadro del suo paradigma di base. Più in generale su diversi temi il buon senso di Lombroso lo porta al di là del materialismo positivistico».
Per esempio? «Richiama a più riprese l'importanza della scuola e della famiglia nell'educazione dei minori. Lombroso non avrebbe potuto neppure alla lontana pensare a che punto oggi siamo giunti. Molti insegnanti mi dicono che, quando si lamentano con i genitori che i loro figli non si vogliono impegnare a studiare e imparano assai poco, si sentono rispondere che la colpa non è dei ragazzi, ma è della scuola e dei professori che non sanno stimolare né insegnare in modo adeguato».
Un altro punto caro a Lombroso era l'etica del lavoro. «Vedeva l'ozio — ricorda Reale — come il padre del crimine, perché aveva notato in molti condannati un autentico odio per il lavoro. Era convinto che annoiati e sfaccendati fossero dei potenziali delinquenti. È un'osservazione che mi è tornata alla mente quando ho appreso con sgomento, qualche tempo fa, la notizia di tre giovani americani che hanno ucciso un altro ragazzo semplicemente perché si annoiavano».

Repubblica 4.9.13
Democrazia o capitalismo?
Solidarietà, unione e diritti ecco come l’Europa può salvarsi
Un saggio contro le tesi nazionaliste e isolazioniste che si affermano in Germania
I partiti di sinistra si sono mostrati troppo timorosi e succubi davanti agli argomenti populisti della destra
di Jürgen Habermas


ANTICIPIAMO qui parte di un saggio di Jürgen Habermas che appare in versione integrale su Reset.it e rappresenta l’aprirsi di una Europa- Streit, di una polemica sull’Unione europea. Il filosofo tedesco accusa la sinistra di essersi fermata su posizioni “nostalgiche” e di ripetere l’errore nazionalista dell’inizio del XX secolo, che aprì la strada alla Prima guerra mondiale. L’attacco di Habermas prende di mira un libro del sociologo Wolfgang Streeck, Gekaufte Zeit, (Tempo comprato), Suhrkamp. Questi ha sostenuto, in una conferenza l’anno scorso e quest’anno nel libro, che l’Unione europea s’identifica oggi come l’epicentro del radicalismo neoliberale e che gli euro-idealisti di sinistra sono caduti vittime di un abbaglio, dando via libera alla costruzione di un edificio mostruoso. Queste tesi per Habermas riflettono un errore che nasce dalla timidezza della sinistra nei confronti delle tendenze populiste della destra e del centro. A chi lamenta l’assenza sulla scena pubblica tedesca di un dibattito aperto sull’Europa, Die Zeit fa notare in questi giorni che è assente solo dalle grandi tribune pubbliche di Stato e di partito. Su riviste e giornali la discussione divampa e non c’è dubbio che avrà un seguito.

Nella comunità monetaria europea è possibile osservare come i mercati limitino in forma perversa la capacità d’iniziativa politica degli Stati. Qui la trasformazione della Stato fiscale in Stato debitore costituisce lo sfondo del circolo vizioso tra il salvataggio di banche decotte da parte degli Stati i quali a loro volta sono spinti alla rovina da quelle stesse banche, con il risultato che il regime finanziario dominante mette sotto curatela le proprie popolazioni. Che cosa ciò significhi per la democrazia lo abbiamo potuto osservare al microscopio in quella notte del vertice di Cannes quando il premier greco Papandreu, fra le pacche sulle spalle date dai suoi colleghi, fu costretto a ritirare un referendum che aveva appena annunciato. Wolfgang Streeck ha il merito di aver dimostrato che la “politica dello Stato debitore”, che il Consiglio europeo porta avanti dal 2008 su pressione del governo tedesco, nella sostanza continua a seguire il modello politico favorevole al capitale che ha condotto alla crisi.
Wolfgang Streeck non propone di completare la costruzione europea, bensì di smontarla; vuole tornare nelle fortezze nazionali degli anni Sessanta e Settanta, al fine di «difendere e riparare per quanto possibile i resti di quelle istituzioni politiche grazie alle quali forse si potrebbe modificare e sostituire la giustizia del mercato con la giustizia sociale». Questa opzione di nostalgica chiusura a riccio nella sovrana impotenza di nazioni ormai travolte è sorprendente, se si considerano le trasformazioni epocali degli Stati nazionali che prima avevano i mercati territoriali ancora sotto controllo e oggi invece sono ridotti al ruolo di attori depotenziati inseriti a loro volta nei mercati globalizzati.(…) Evidentemente la capacità di intervento politico di Stati nazionali vigili custodi di una sovranità ormai da tempo svuotata non è sufficiente per sottrarsi agli imperativi di un settore bancario ipertrofico e disfunzionale. Gli Stati che non si associano in unità sopranazionali e dispongono solo dello strumento dei trattati internazionali falliscono di fronte alla sfida politica di rimettere questo settore in sintonia con i bisogni dell’economia reale e di ricondurlo a dimensioni funzionali adeguate. In particolare sono gli Stati della comunità monetaria europea a vedersi sfidati dal compito di ricondurre mercati irreversibilmente globalizzati nel raggio d’azione di un intervento politico indiretto ma mirato. Nei fatti la loro politica anticrisi si limita al rafforzamento di una esperto-crazia per misure che rinviano i problemi. Senza la spinta di una vitale formazione della volontà da parte di una società di cittadini mobilitabile al di là dei confini nazionali, all’esecutivo di Bruxelles resosi ormai autoreferenziale manca la forza e l’interesse a regolare in forme socialmente sostenibili mercati ormai abbandonati ai loro spiriti animali.
Wolfgang Streeck condivide l’assunto che la sostanza egalitaria dello Stato di diritto democratico sia realizzabile solo sulla base dell’appartenenza nazionale, e quindi solo entro i confini territoriali di uno Stato nazionale unitario, perché altrimenti sarebbe inevitabile la marginalizzazione delle culture minoritarie. Anche prescindendo dall’ampia discussione sui diritti culturali, questo assunto, considerato da una prospettiva di lungo termine, è arbitrario. Già gli Stati nazionali si basano sulla forma altamente artificiale di una solidarietà tra estranei generata dal costrutto giuridico dello status di cittadino. Anche in società omogenee sul piano etnico e linguistico la coscienza nazionale non ha nulla di naturale. È piuttosto un prodotto, valorizzato sul piano amministrativo, della storiografia, della stampa e del servizio di leva. (…) Wolfgan Streeck teme i tratti giacobini di una democrazia sovranazionale poiché questa, sulla via di una permanente marginalizzazione delle minoranze, non potrebbe che condurre a un livellamento delle comunità economiche e identitarie basate sulla vicinanza spaziale. In tal modo, però, egli sottovaluta la fantasia innovatrice e creatrice di diritto che si è già manifestata nelle attuali istituzioni e nelle regole vigenti. Penso all’ingegnosa procedura decisionale della “doppia maggioranza” o alla composizione ponderata del parlamento europeo, che proprio in vista di un’equa rappresentazione tiene conto delle forti differenze numeriche tra le popolazioni dei paesi più piccoli e dei più grandi.(…) Lo Stato federale è il modello sbagliato. Infatti le condizioni di legittimazione democratica possono essere soddisfatte anche da una comunità democratica sovranazionale ma sovrastatale che consenta un governo comune. In essa tutte le decisioni politiche sarebbero legittimate dai cittadini nel loro doppio ruolo di cittadini europei e di cittadini dei vari Stati membri. In una siffatta unione politica, chiaramente distinta da un “superstato”, gli Stati membri, in quanto garanti del livello da essi rappresentato di diritti e di libertà, conserverebbero un ruolo molto importante se paragonati alle articolazioni subnazionali di uno Stato federale.
Il blocco può essere forzato se i partiti europeisti si trovano insieme al di là dei confini nazionali per lanciare campagne contro questa falsa trasposizione di problemi sociali in problemi nazionali. La tesi che «nell’Europa occidentale di oggi il nazionalismo non è più il maggior pericolo, e meno che mai quello tedesco » la considero politicamente una stoltezza. Che in tutte le nostre sfere pubbliche nazionali manchino scontri di opinione su alternative politiche poste correttamente posso spiegarmelo solo con i timori dei partiti democratici nei confronti dei potenziali politici di destra. Le controversie polarizzanti sulla politica dell’Europa possono essere chiarificatrici piuttosto che sobillatrici solo se tutte le parti in causa ammettono che non ci sono alternative prive di rischi e nemmeno alternative gratuite. Invece di aprire falsi fronti lungo i confini nazionali sarebbe compito di questi partiti distinguere perdenti e vincenti della crisi per gruppi sociali che, indipendentemente dalla loro nazionalità, risultano di volta in volta più o meno colpiti.
I partiti europei di sinistra sono in procinto di ripetere i loro errori storici del 1914. Anche oggi essi indietreggiano per paura della propensione al populismo di destra presente nel centro della società. Poi in Germania un panorama mediatico incredibilmente succube alla Merkel incoraggia tutte le parti in causa a non toccare in campagna elettorale i fili elettrici della politica europea, e a stare al suo gioco furbesco della non tematizzazione. Per questo c’è da augurarsi che “Alternative für Deutschland”(il nuovo partito liberale ed euroscettico, ndr.) abbia successo. Spero che essa riesca a costringere gli altri partiti a spogliarsi della tuta mimetica che rende invisibile la loro politica europea. Così dopo le elezioni politiche tedesche si potrebbe profilare, per il prossimo necessario primo passo, una “grandissima” coalizione. Infatti, per come stanno le cose, solo la Germania può assumersi l’iniziativa diun’impresa tanto difficile.
(Traduzione di Walter Privitera)

Repubblica 4.9.13
Cacciari: “Niente politici al Festival della politica”
Il filosofo presenta la rassegna in programma a Mestre da domani a domenica
di Simonetta Fiori


Un festival della politica. Ma senza politici. In programma, filosofi ed economisti, sociologi e giuristi, giornalisti e costituzionalisti, letterati, interpreti teatrali, autori di satira, ma nessun parlamentare né leader di partito. «È un modo per ricordare che la politica è progetto, programma, conoscenza», spiega Massimo Cacciari, organizzatore della rassegna che apre domani a Mestre su iniziativa della Fondazione Pellicani. «Non si può fare politica se non si ha passione per il sapere, che è poi il significato ultimo della filosofia». Quattro giornate con settanta relatori – tra gli altri Ezio Mauro, Carlo Sini, Giulio Giorello, Gustavo Zagrebelsky, Tito Boeri, Ilvo Diamanti, Umberto Galimberti, Marco Revelli – per opporre al diffuso furore antipolitico una riflessione sulla politica ricondotta al suo antico alveo di analisi intellettuale e comprensione dei processi sociali.
Un festival che non asseconda lo spirito del tempo.
«Ci siamo chiesti come potevamo reagire dinanzi alla catastrofe italiana evitando di cade-re nell’emotività. Così abbiamo raccolto alcune delle figure più autorevoli del dibattito culturale».
Il tentativo è ripristinare quel nesso tra cultura e politica che s’è spezzato da decenni.
«Un binomio tragicamente saltato. Oggi in Italia chi sa non può. Ma la cosa ben più drammatica è che chi può non sa. Tra le cause dell’attuale crisi è che mancano i luoghi di formazione della classe politica, sedi dove affinare competenze e passioni analitiche. Sono completamente saltati i riferimenti materiali. Quali interessi rappresenti? Perchi parli? Sei partito perché sei parte di che? Ora i cosiddetti programmi sono appesi sul nulla».
Come spiega questo impoverimento?
«È difficile dare una risposta univoca. La politica oggi può sempre meno rispetto ad altre potenze come la tecnica o l’economia globale. Siamo di fronte a una sua obiettiva decadenza che accomuna diverse parti del mondo».
Però quel binomio cultura e politica in altri paesi sembra meno sfilacciato. Ad esempio negli Usa, dove il presidente non casualmente arriva da Harvard e da un insegnamento universitario alla Law School di Chicago.
«Ma quello è l’impero, e noi siamo ai margini della periferia. Fino a qualche decennio fa, chi faceva politica in Italia avvertiva come essenziale il nutrimento intellettuale. Ma allora avevamo un ruolo nella scacchiera internazionale, mentre oggi non contiamo più nulla. E la nostra classe politica ritiene inutilesapere».
Per questo lei chiama i filosofi, non i politici.
«Se chiamo un politico, mi dice che vuole “innovare”. O che ha fatto abbastanza elargendo i contributi per i cassintegrati. Ma qui non si tratta di una febbriciattola passeggera, da curare con l’aspirina. Quella che stiamo vivendo è una crisi profonda, che ci costringe a declinare in modo nuovo e con spregiudicatezza la nozione stessa di democrazia».
Cosa intende per “ripensamento spregiudicato”?
«Nell’era della tecnica e dell’economia globalizzata non può più funzionare il concetto di democrazia che abbiamo ereditato dai padri fondatori. E allora va ripensato, senza timori o prudenze. Il contributo dei filosofi servirà anche a questo: ripercorrerne la storia, vedere cosa è salvabile e cosa è superato».
La scelta della piazza di Mestre ha a che vedere con la sua storia?
«Sì, una grande storia industriale. Troppo spesso ci si dimentica che l’Italia è stata all’avanguardia nella chimica, nell’informatica, nella meccanica nucleare e nell’automobile. Ci siamo giocati tutto. E non certo per colpa della Merkel, ma per colpa di un’imprenditoria mediocre, di una sinistra inadeguata e di un sindacato reazionario».
Al Festival sarà messo in scena il testo di Savonarola sul buon predicatore: «Un buon predicatore dice la verità contra ciascuno e tutti, perché sceglie il bene comune».
«Le grandi trasformazioni avvengono sempre attraverso spiriti profetici. E anche il bene comune può essere inteso come un valore religioso, nel senso che trascende tutto. Non mi sembra inutile ricordarlo oggi».