domenica 8 settembre 2013

Repubblica 8.9.13
L’iniziativa
Questa mattina a Roma l’iniziativa di Zagrebelsky, Rodotà e Landini: “Le riforme devono servire per applicare la Carta”
“La via maestra è ripartire dalla Costituzione”
di Mauro Favale


ROMA — Il riconoscimento di uno «spazio pubblico informale » più che il primo passo verso un nuovo partito. Anche perché, sostiene Maurizio Landini, leader della Fiom, «di partiti ce ne sono già troppi e non funzionano ». Sta di fatto che stamattina il segretario dei metalmeccanici Cgil, insieme al presidente di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky, al giurista Stefano Rodotà, al fondatore di Libera Don Luigi Ciotti e alla costituzionalista Lorenza Carlassare, si ritroveranno a Roma (Centrocongressi Frentani dalle 10.30) per discutere della nostra Carta fondamentale a partire da un documento firmato dai 5 organizzatori.
Si chiama “La via maestra” e rappresenta una sorta di manifesto attorno al quale chiamare a raccolta forze politiche (ci saranno il leader di Sel, Nichi Vendola, e il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero), movimenti (i trionfatori del referendum sull’acqua pubblica di due anni fa), associazioni (Emergency) e sindacati. Ripartendo, appunto, dalla Costituzione proprio alla vigilia dell’approdo in Aula del ddl sulle riforme. «Si è fatta strada — scrivono i 5 firmatari del documento — l’idea che questa Costituzione sia superata; che essa impedisca l’ammodernamento del nostro Paese; che i diritti individuali e collettivi siano un freno allo sviluppo economico; che il governo debba essere solo efficienza della politica economica al servizio degli investitori; che la vera costituzione sia, dunque, un’altra: sia il Diktat dei mercati al quale tutto il resto deve subordinarsi. Così, si spiegano le “ineludibili riforme” per passare dauna costituzione all’altra». Per gli organizzatori, invece, (dei quali fa parte la Carlassare, giurista dimessasi dal comitato dei 40 saggi voluto dal capo dello Stato), le «ineludibili riforme sono quelle che servono per attuare la Carta, non per cambiarla ». Probabile che, dopo l’assemblea di questa mattina, la mobilitazione prosegua. Il prossimo appuntamento è una manifestazione fissata il 5 ottobre a Roma. «Perché — recita il manifesto — strade e piazze hanno offerto straordinarie opportunità di incontro ed è lì che si è immaginata una società diversa».
 
Epifani non dice “No”!
Epifani ieri alla Festa di Genova, alla domanda che Lucia Annunziata si tiene per ultima “Se Berlusconi dovesse ricevere la grazia?” mentre il «noooo» sale forte dalla platea risponde soltanto: «È una prerogativa del Capo dello Stato. Ho fiducia in quello che ha fatto, che sta facendo e che farà il nostro Presidente della Repubblica».
dall’Unità di oggi

Porta aperta
Il Partito democratico, dal canto suo, non pare volersi intromettere tra il Quirinale e lo scomodo alleato di governo. Anzi, per quanto può facilita le cose: dopo aver ribadito che la legge è uguale per tutti e verrà applicata in Giunta con tempi regolamentari, il segretario Guglielmo Epifani ieri ha lasciato la porta aperta su un provvedimento di clemenza. La grazia, ha detto, è una “prerogativa che spetta al capo dello Stato e tocca al capo dello Stato valutare. Io ho fiducia in quello che ha fatto, sta facendo e che farà”.
da il Fatto di oggi

L’Huffington Post 8.9.13
A Genova la base Pd ascolta e applaude le parole del segretario Epifani ma esprime la sua esasperazione a ogni semplice menzione di clemenza per Silvio
di A.Mauro

qui

La Stampa 8.9.13
Casson: “Niente pregiudizi ma non siamo disposti a tollerare nessuna strategia dilatoria”
“Il ricorso è ininfluente sui lavori della Giunta”
intervista di Gui. Ruo.


È la prima volta che vedo un ricorso preventivo La revisione del processo richiede tempo e non penso che la Giunta debba congelare i lavori Felice Casson Senatore Pd e componente della Giunta per le elezioni Senatore Casson, domani alle 15 la Giunta delle elezioni si riunisce per ascoltare la relazione Augello.
«Ed è quello che conta. Sentiremo, approfondiremo e poi voteremo. Nessun pregiudizio ma non tollereremo nessuna strategia dilatoria».
Ieri mattina il senatore Berlusconi ha depositato per conoscenza all’Ufficio di presidenza della Giunta il ricorso spedito alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
«Per conoscenza, ha detto bene. Dunque è del tutto ininfluente per i lavori della Giunta. Tra l’altro, non so quale sarà la reazione della Corte di Strasburgo che a norma di Statuto interviene su provvedimenti definitivi e in questo caso, come è noto, la Giunta prima e l’Aula di Palazzo Madama poi devono ancora esprimersi».
Questo da un punto di vista formale. E nel merito?
«La questione della retroattività non si pone perché la normativa europea come quella italiana prevede il divieto di irretroattività delle norme sanzionatorie. E nel nostro caso la decadenza non è una sanzione penale».
Un ricorso, dunque...
«... Un ricorso preventivo. Mai visto prima. Gli avvocati di Berlusconi ci hanno provato».
Senatore, lei ha letto il ricorso?
«Certo, proprio nello spirito di mettere da parte pregiudizi e di approfondire la materia. Il ricorrente contesta l’applicazione della legge Severino perché violerebbe il principio costituzionale della non retroattività di una legge penale. Ma intanto il senatore Berlusconi è ancora senatore, l’Aula di Palazzo Madama non ha approvato la sua decadenza. E poi la decadenza è un istituto giuridico previsto da moltissimi Stati europei, già valutato da Strasburgo che consente agli Stati di fissare i requisiti di dignità anche morale delle persone per poter essere elette al Parlamento. Tra i requisiti, oltre ad esempio la cittadinanza, c’è anche quello di non essere stati condannati per reati gravi».
Il relatore Augello potrebbe sollevare il problema che la Giunta dovrebbe rivolgersi alla Corte europea di Lussemburgo per la violazione del diritto comunitario che recepisce i diritti fondamentali dell’uomo.
«Mi chiedo: siamo di fronte a un altro ricorso preventivo? » I legali del senatore starebbero studiando la possibilità di proporre la revisione del processo.
«Ho letto. Stanno studiando? Le novità sarebbero rappresentate dalla vicenda Agrama? Che producano il ricorso e le prove poi spetterà alla Corte d’appello di Milano valutarle. Ma anche in questo caso bisognerà aspettare molto tempo. In ogni caso non capisco perché la Giunta dovrebbe congelare i lavori per anni, in attesa che i legali di Berlusconi decidano se chiedere la revisione del processo».
Domani cosa accadrà?
«Sentiremo le proposte di Augello. Naturalmente chi ritiene di intervenire lo potrà fare. Dubito che la discussione si esaurisca in serata per cui a un certo punto dovremo discutere quando riconvocarci».

Corriere 8.9.13
Sondaggio: Renzi al 78 %. Civati , l’ipotesi del ritiro
Timori tra i sostenitori di Cuperlo
Il sindaco di Firenze non cede: non tratto né poltrone né seggiole
di Maria Teresa Meli


ROMA — È una percentuale, adesso, a turbare i sonni già non propriamente tranquilli di quel che resta della maggioranza del Pd. L’ha rivelata un sondaggio riservato che è girato sulle scrivanie di alcuni dirigenti del Partito democratico. Un sondaggio che non lascia spazio ai dubbi, tant’è vero che ha convinto più d’uno a saltare in corsa sul carro di Renzi e ha spinto altri, come D’Alema, per esempio, ad ammettere pubblicamente, davanti a militanti e iscritti, che il sindaco di Firenze vincerà.
Quel numero che ha convinto molti e infastidito tutti i bersaniani ha due cifre: 78 per cento. Sì, è proprio questa la percentuale che il sondaggio dà a Renzi in caso di primarie per il segretario. È chiaro che si tratta di una rilevazione fatta a bocce ferme, quando ancora Gianni Cuperlo non è entrato nel pieno della sua campagna elettorale. Al candidato di D’Alema (e ora anche di Bersani e di Marini) mancano ancora degli «endorsement» eccellenti, come quello che gli verrà a tempo debito dall’ex ministro Fabrizio Barca. Il quale, ancora fino a pochi giorni fa, ha subito il pressing di Rosy Bindi che lo vorrebbe candidato alla leadership.
Ma per il momento Barca non si muove. È convinto che sia da «presuntuosi» aspirare a quel ruolo quando si è iscritti al Pd solo da quattro mesi. L’ex ministro intervistato l’altro ieri alla Festa di Genova da uno dei volti più noti di La 7, Alessandra Sardoni, è stato prodigo di apprezzamenti nei confronti del documento di Cuperlo. Del resto, per uno come Barca, che non nasconde le proprie tradizioni («sono un socialcomunista» ha detto) è naturale che l’approdo sia quello e non il porto renziano. Che, peraltro, è molto affollato. Tanto da suscitare in Beppe Fioroni un interrogativo:«Non è che siamo passati dal collante dell’antiberlusconismo a quello del vincerismo? Non è, cioè, che si va tutti solo con chi vince senza pensare ai programmi e alle politiche?». Fioroni è uno di quelli che, probabilmente, si schiererà con Renzi, ma, come ha detto a qualche amico vuole farlo «a schiena dritta» e per questo intende prima capire quali siano le intenzioni del sindaco.
Renzi, com’è ovvio, non può non essere soddisfatto dello smottamento della maggioranza del Pd, però teme che ci sia chi voglia condizionarlo e chi punta ad avere un posto di dirigente anche nel dopo-Bersani. Perciò continua a dire a tutti: «Io non intendo trattare non dico le poltrone, ma nemmeno le seggiole».
Nel frattempo gli avversari del sindaco masticano amaro. Il terrore è quello di non riuscire a coagulare attorno a Cuperlo un congruo numero di consensi. Tant’è vero che già il 30 per cento viene considerato una vittoria. «Gianni — spiegava giorni fa Davide Zoggia — non è abbastanza conosciuto e dovremo assolutamente porre rimedio a questo problema». L’ipotesi, circolata in questo ultimi giorni alla Festa di Genova, che Pippo Civati possa alla fine stipulare un patto con Renzi e non candidarsi più (come Pittella, del resto) è vista come un’ulteriore conferma del fatto che ormai il sindaco di Firenze non ha avversari.
Anche quella sulle regole, del resto, sembra una partita persa. Infatti è impossibile per i bersaniani ottenere il quorum per cambiare lo statuto. Quindi tutto potrebbe restare tale e quale (proprio come vuole Renzi): la platea elettorale delle primarie, il fatto che segretario e candidato premier coincidano e la norma secondo la quale i segretari regionali vanno eletti insieme al leader nazionale.
I bersaniani, quindi, non hanno la forza per imporre le loro condizioni. Perciò hanno a disposizione una sola strada, fin quando saranno comunque loro a dirigere il Pd, cioè quella di applicare pedissequamente — e lentamente — lo statuto per la convocazione del Congresso. Potrebbero così ottenere di far svolgere le assise nazionali a cavallo tra febbraio e marzo. E di qui a quella data possono accadere molte cose. La seconda operazione per tentare di bloccare Renzi è quella, già messa in cantiere, di indire un referendum in tutti i circoli del Pd (cioè, tra gli iscritti) in cui si chiede la distinzione tra le figure di segretario e candidato premier.
Ma altre strade a disposizione degli avversari del sindaco non ci sono. E soprattutto non c’è un altro nome vero da contrapporgli al di là di quello di Cuperlo.

Repubblica 7.9.13
L’intervista
“Basta col partito fatto solo di dirigenti voglio un Pd che sia forza popolare per combattere la politica plebiscitaria”
La sfida di Cuperlo: “Bucare il video? Meglio le coscienze”
di Alessandra Longo


ROMA — Gianni Cuperlo ci vuole un certo coraggio ad affrontare la corazzata Renzi. Ma chi glielo fa fare? C’è chi l’ha definita un “irriducibile”.
«Direi che il coraggio è quello dell'esodato che ha viaggiato vicino a me verso Genova. Andavamo alla stessa festa, io per parlare, lui a chiedere rispetto per la sua dignità. Chi me lo fa fare? Me lo fa fare la passione per il Pd e l'idea che la storia più bella ce l'abbiamo davanti. No, non mi sento un irriducibile perché non ho la testa nel passato».
Perché l’ anima di sinistra del Pd è diventata improvvisamente minoritaria? Colpa dell’ultimo che ha chiuso la porta, cioè di Bersani?
«Il Pd resta la vera speranza che da una crisi così profonda di economia, Stato, moralità, l'Italia possa uscire con più democrazia e non precipitando ancora una volta in una infelicità pubblica. Ma cos'altro deve accadere per capire i rischi terribili di una perdita del senso di questo Paese? Il punto è che da sempre una parte delle élite ha pensato che il solo modo per drizzare la schiena a una nazione “storta” fosse un'azione dall'alto, sbattere il pugno. Ecco, noi siamo nati per rovesciare questa logica, per cambiare a fondo tutto ciò che va cambiato ma con la forza del consenso. Bersani tutto questo lo ha compreso benissimo».
In che cosa la sua idea di partito e società è diversa da quella di Renzi?
«Dovremmo calare valori e principi nell'Italia che immaginiamo. Prima di tutto con una rivoluzione della dignità. E poi sul contrasto alla povertà. Sul modello di sviluppo, una vera green economy. Sui diritti umani universali. Su un patto fiscale che premi la lealtà e sposti il peso da lavoro e produzione alla rendita. Sulla rivoluzione dentro lo Stato e su un Paese che attragga risorse e cervelli. Sull'equità rimasta sepolta per troppo tempo. Voglio parlare di suolo, cultura e beni comuni, di limiti morali del mercato, e dignità della persona nella sfera della vita, del legame, mai così violato, tra identità, reddito e valore sociale del lavoro. Per fare questo serve un partito che non può ridursi solo a bravi amministratori e parlamentari. Serve una forza popolare dove a un iscritto non chiedi solo di montare il gazebo delle primarie, ma gli offri uno spazio di decisione e democrazia. Gli offri una comunità di senso e, se ne siamo capaci, una profezia che scuota gli animi».
Veltroni dice: Renzi mi ricorda il mio Lingotto. Lei a chi si rifa, a Bersani, a D'Alema?
«Faccio parte di una generazione che ha rischiato di finire schiacciata tra fratelli maggiori poco generosi e fratelli minori molto ambiziosi. Ho rispetto verso entrambi ma sento che è il tempo di dire ciò che siamo noi. Siamo troppo cresciuti per chiedere battesimi e non così consunti da rinunciare a batterci per una buona causa. E questa causa adesso è opporsi a una concezione plebiscitaria della politica, a una democrazia privatizzata. La destra su questo piano ha una responsabilità enorme.Io dico, guai a noi se questo clima di larga intesa ci fa smarrire il dramma di un ventennio segnato più del precedente da una divorante questione morale che ha aggredito i capisaldi della Costituzione e dello stato di diritto. Vedo troppo tatticismo anche al nostro interno. Mentre il cuore di tutto sta nella nostra capacità di costruire un centrosinistra che possa prevalere prima di tutto nelle coscienze di milioni di elettori delusi e sofferenti per le vicende di questi mesi».
Renzi annuncia: elimineremo le correnti...
«Dice così e i renziani si spellano le mani. Se vuole dire basta con una logica che premia la fedeltà anziché il merito, porte aperte ma lo si faccia e non lo si dica solamente. Se invece si allude all'idea di un uomo solo al comando io dico attenzione, perché qui non si scherza più, non è in ballo la conferma in Parlamento di tre o quattro padri nobili del Pd. Qui entra in gioco la natura di un partito, il suo pluralismo. Nemmeno Obama ce l'ha fatta da solo. E non vedo ancoraun Obama tra noi».
Vendola è “conquistato” da lei ma guarda anche a Renzi. Il grande soggetto di sinistra è ancora possibile?
«Non mi arrendo alla divisione con Vendola e credo in un campo largo, di forze moderate, associazioni, movimenti per il civismo e la legalità. Molto di buono vive fuori da noi, dobbiamo andarlo a cercare».
Da un mese è il destino di Berlusconi a tenere banco. La sinistra non sembra mai in grado di imporre la sua agenda.
«Sulla decadenza di Berlusconi la posizione è netta. Se prendi un sacco di voti, per ciò stesso non sei esente dal rispetto della legge. Detto questo penso che noi dobbiamo avere la nostra agenda fondata su tre obiettivi: aiutare chi è caduto a terra a rialzarsi subito. Redistribuire il peso della crisi e la speranza di uscirne non con l'elemosina ma con dignità. Rimettere carburante nella domanda perché solo così riparte l'economia».
Segretario e premier. Due figure distinte per lei, la stessa figura per i renziani. In realtà dipende molto dalla durata del governo Letta.
«Non è una questione di regole o di durata del governo Letta, che spero prosegua la sua azione facendo le cose che servono. Io penso che al Pd serva un segretario e una classe dirigente che si dedichino a costruire il partito. E lo penso perché solo il governo non basta. Solo se ricomponi il legame tra le riforme che cambiano la vita a milioni di persone e il consenso dal basso verso quelle scelte, la politica e la sinistra sono in grado di ripartire».
Che giudizio dà dell’esperienza governativa di Letta?
«Enrico sta mostrando saggezza e capacità in un passaggio drammatico. Va sostenuto con lealtà e su molti temi il governo va incalzato. Noi la spina non la staccheremo, ma se saranno loro a farlo, faremo ogni cosa per cambiare la legge elettorale prima di tornare al voto».
Ma è ipotizzabile, al caso, un Letta bis con il voto di Scilipoti?
«Non scherziamo. Dobbiamo recuperare anche una dignità della politica».
Ieri D’Alema l’ha definita l’uomo giusto per fare il segretario.
«Lo ringrazio. Mi auguro che abbia ragione».
Se Renzi la batte cosa fa?
«Avrò perso se non riusciremo a fare un congresso di libertà e a raccontare a tanti la nostra idea del Pd e del Paese. Dicono che “non buco il video”, ma la mia angoscia è che da tempo non buchiamo le coscienze e pensiamo che basti il video a salvarci. Siccome non è così è giusto mettersi in cammino».

Repubblica 7.9.13
La strategia del ricatto per blindare il Porcellum
di Gianluigi Pellegrino


Senza il Porcellum, il caimano non avrebbe il pantano dove minacciare il suo ultimo disperato colpo di coda. L’estorsione istituzionale di Berlusconi (salvacondotto personale o niente governo) una quintessenza della concussione, già sin troppo tollerata, sarebbe un’arma del tutto spuntata.
Un’arma inefficace se non ci fosse la legge porcata da lui del resto a suo tempo voluta e approvata. Con un qualsiasi decente sistema di voto, il Paese avrebbe poco da temere dalla restituzione della parola ai cittadini, e già solo per questo il Cavaliere e la sua corte avrebbero altrettanto poco da minacciare.
Invece tornando al voto con il Porcellum non solo tutto il peggio è possibile ma bene che vada il caos è garantito e il risultato incostituzionale pure. Per non dire che tra gli obbrobri di quella legge c’è anche che un condannato, interdetto dai pubblici uffici e da ogni incarico di governo, parlamentare decaduto e incandidabile, possa ugualmente figurare al centro della scheda nel ruolo a quel punto sovversivo di capo e padrone della sua squadriglia.
Berlusconi tutto questo lo sa e quindi brandeggia la sua ultima disperata minaccia di provocare immediate elezioni ancora deturpate dal Porcellum se Pd e capo dello Stato non gli abbuonano sentenze e reati.
Da qui due immediate e stringenti conclusioni. La prima è quanto miopi siano state le titubanze e le ipocrisie con cui anche il governo e i democratici hanno fatto melina sulla riforma elettorale che pure avevano promesso come primo improcrastinabile impegno. Lo hanno fatto nella malcelata paura, quasi il terrore, che cambiare il sistema di voto avrebbe accelerato la fine di esecutivo e legislatura che evidenterealizzamente si volevano tenere in piedi a prescindere dalla loro utilità per il Paese, secondo l’immarcescibile comandamento del “tirare a campare che è sempre meglio che tirare le cuoia”. E così fingendo confronti e approfondimenti si rinviava tutto nel tempo, giungendo persino ad inserire in un disegno di legge costituzionale la blindatura del Porcellum sino alle calende greche di riforme che non hanno le condizioni minime per essere varate. Questo giornale aveva più volte evidenziato quanto la scelta di rinvio fosse sleale nei confronti del Paese ed ingiusta sul versante istituzionale. Le direttive europee ammoniscono come il tempo migliore per approvare nuove regole elettorali sia l’immediato inizio della legislatura, perché più avanti si va, più il merito della riforma viene inquinato dalle necessità di posizionamento delle forze politiche in vista del ritorno alle urne.
E comunque la presenza di una praticabile legge elettorale costituisce ogni giorno il polmone essenziale per l’agibilità democratica di una repubblica costituzionale.
Oggi quelle ipocrisie che imploravamo di abbandonare, si ritorcono contro chi l’ha praticate perché è proprio il Porcellum l’ultima arma disperata che consente a Berlusconi il suo estremo ricatto contro governo e Paese, per le incognite che aprirebbe un ritorno alle urne inquinato dalla legge porcata. E così la nemesi si con l’esecutivo e le larghe intese che speravano di blindarsi dietro alla sopravvivenza del Porcellum e invece rischiano di finirne fagocitati. Come apprendisti stregoni di una scellerata politica del rinvio.
Allora, ed è qui la seconda conclusione, oggi sono proprio Pd e governo che devono rompere gli indugi e varare una legge di urgenza di riforma elettorale. Adottando nel merito una soluzione che nessuno può contestare: primo turno di collegio come vogliono Pd e cittadini, ma ballottaggio nazionale di coalizione come preferisce il centrodestra. Con un quota proporzionale per le piccole formazioni e il diritto di tribuna. Si garantirebbe così in un colpo solo governabilità, rappresentanza e restituzione della scelta ai cittadini. Chi potrebbe credibilmente protestare?
I democratici quando su questo tema (rigettando la mozione Giacchetti) hanno affermato un sorprendente principio di “solidarietà” con il Pdl, hanno rischiato di cambiare natura alla cosiddette larghe intese: da convergenza su un esecutivo di necessità, a un patto di complicità tra i gruppi dirigenti che è quanto di più paludoso e nefasto per il Paese. Complicità che non a caso oggi Berlusconi richiama nel pretendere i voti per un eversivo salvacondotto.
Si spezzi quindi il circuito vizioso non solo votando la decadenza come impone la legge e la Costituzione, ma anche paralizzando il ricatto ritorsivo del Cavaliere, proponendo subito la riforma elettorale con procedura di urgenza e sulla sua approvazione se del caso mettendo anche la fiducia. A quel punto sì il re sarà nudo e chiare le responsabilità di ciascuno; Cinquestelle compresi.


il Fatto 8.9.13
Furio Colombo
Rispondere prego: resterà senatore?


CARO COLOMBO, sono un antiberlusconiano viscerale nel senso che mi rendo conto che tutta la nostra vita italiana (collettiva e personale) sarebbe stata diversa e normale (che non vuol dire bella, vuol dire, come per i francesi o gli olandesi, normale). Ora mi domando: quanti dei 101 parlamentari del Pd che hanno liquidato Prodi saranno al lavoro in Senato il 9 settembre?
Benedetto

LA DOMANDA È SENSATA e purtroppo vi sono molte prove. Ricordate la questione, presto e furtivamente accantonata, della ineleggibilità di Berlusconi per clamoroso conflitto di interessi, in base alla legge 663 del 1957? L'argomento era: quella legge è troppo lontana, tutto, anche tecnologicamente, è mutato da allora, per non parlare della ambientazione politica del fenomeno e dei famosi 10 milioni di voti. Certo che si dovrà parlare di conflitto di interessi, ma alla luce dei giorni nostri e di una nuova legge che corrisponda a tutti i fatti nuovi accaduti da allora. Interessante, no? Tenetela in mente quando ascoltate quest'altra serie di ponderati e ponderosi giudizi giuridici di costituzionalisti dei nostri giorni. La legge Severino, che prescrive l'espulsione da Senato o Camera del parlamentare condannato in via definitiva a quattro o più anni di prigione (legge approvata quasi all'unanimità un anno fa) adesso necessita di una “profonda riflessione” perché tante cose sono cambiate. Prima di tutto: si riferisce al reato o alla sentenza? Qualcuno di voi dirà che la domanda è frivola. Una sanzione che è legata alla portata (lieve o pesante) di una sentenza non può, per ovvie ed elementari ragioni, che riferirsi alla data della sentenza, e non del reato. Raramente deputati e senatori restano in Parlamento per 20 anni e più, anche quando delinquono. Dunque, nei casi previsti dalla legge Severino, è impossibile che conti la data del reato. La legge, chiarissima, punta alle conseguenze della sentenza, che potrebbe essere diversa, per esempio più mite, e dunque non idonea a far scattare la sanzione. Eppure fior di giuristi, come Violante, sono “perplessi” e chiedono tempo. Voi non credete che il dubbio, stranamente, si diffonderà in Commissione parlamentare il 9 settembre e richiederà una lunga, lunga meditazione dei senatori scelti ad hoc con il “Porcellum” per dirimere quesiti come questi?

il Fatto 7.9.13
Trattativa tra Colle e Silvio: grazia contro dimissioni?
Napolitano ha aperto alla cancellazione anche delle pene accessorie ma B. mentre aspetta vuole restare senatore
di Marco Palombi


Serve senso di responsabilità da parte di tutti i giocatori ossia i partiti di maggioranza. E giocatore e arbitro è Napolitano”. Renato Brunetta, da Cernobbio, riassume così i termini della questione nel giorno in cui sembrano di nuovo prevalere i toni calmi dell’appeasement istituzionale. Fedele Confalonieri, infatti, dopo la sua visita al Quirinale di giovedì, ieri s’è presentato a pranzo a Villa San Martino, Arcore. Come per incanto, in attesa di capire come andrà a finire, i canti di guerra del centrodestra si sono placati. Nelle stesse ore Giorgio Napolitano sbarcava a Venezia per la Mostra del Cinema: “Ritiene che il clima politico si sia rasserenato? ”, gli chiede un cronista. Lui, serafico: “Mi fa piacere che lei lo veda rasserenato”. Tanta gentilezza ha una sua ragione, spiegano fonti di maggioranza (tanto di area Pd che Pdl): il capo dello Stato avrebbe “aperto” alle richieste di Silvio Berlusconi su una grazia “esaustiva” (copyright di Sandro Bondi) ed escluso il suo appoggio a “governicchi” tipo il Letta bis con “responsabili” annessi.
E QUI IL TERRENO si fa più scivoloso. Per un motivo piuttosto semplice: non è chiaro se le due parti si siano capite davvero. Napolitano non si è mosso dalla linea illustrata nella sua nota di agosto: è disposto a lavorare sulla “agibilità personale” del Cavaliere, cioè sulle condanne, su quella politica se questo significa riconoscerne anche pubblicamente la leadership sul centrodestra, ma la carriera da parlamentare e uomo di governo del tycoon di Mediaset è finita. Un riflesso di questa posizione del capo dello Stato si coglie nelle parole di ieri di Massimo D’Alema: “Uscire di scena? Berlusconi può uscire dal Parlamento, ma fino a quando lui mantiene un consenso e una presa sul suo partito continuerà ad esercitare un ruolo politico. Certo la sua stagione volge al declino”. Non a caso, il Colle – a quanto pare – starebbe consigliando al capo del centrodestra di non andare nemmeno allo scontro sulla decadenza: cominci a pensare alle dimissioni, piuttosto, che sono la strada meno traumatica per dare a questa partita un finale che accontenti tutti.
La trattativa, insomma, gira attorno alla rinuncia di Berlusconi ad un ruolo attivo da un lato e dall’altro a una concessione piena della grazia da parte di Napolitano, cioè anche sulla pena accessoria dell’interdizione ai pubblici uffici che arriverà però solo quando la Corte d’appello di Milano l’avrà ricalcolata: metà ottobre, se fa in fretta. È a questo incrocio di decisioni e desideri che la faccenda rischia di finire in un incidente mortale.
La trattativa, infatti, è un fiore delicato e rischia di appassire al primo scroscio d’acqua o giornata di sole. “Confalonieri non ha portato a casa nulla”, dicono infatti quelli che vogliono andare al voto subito e lo stesso Berlusconi sarebbe molto scettico sui risultati della missione sul Colle del suo amico più fidato e massimo manager di Mediaset. “Napolitano fa bene a fidarsi di noi”, si fa coraggio Alfano.
IL FATTO è che il Cavaliere vuole restare in Senato almeno fino a un minuto prima che il capo dello Stato gli abbuoni i quattro anni di galera e quelli di interdizione. Niente fretta sulla decadenza: “Se lunedì la Giunta accelera non ci sarà altra discussione”, scolpisce ancora Brunetta. “Un mese se ne va anche solo a termini di regolamento”, aprono fonti del Pd. Si potrebbe arrivare, in sostanza, a quella metà ottobre in cui tutti i destini dovrebbero compiersi: la Corte d’Appello quantificare l’interdizione, Silvio Berlusconi cominciare a scontare la pena, il Colle a preparare la grazia “esaustiva” di cui sopra, l’interessato gentilmente a dimettersi da senatore.
MA A COSA SERVE tutto questo marchingegno al Cavaliere? Gli serve perché è convinto di poter fregare tutti ancora una volta, di potersi permettere comunque un ultimo rodeo elettorale, quando sarà, nonostante la legge Severino lo renda incandidabile per i prossimi sei anni. Il meccanismo è semplice quanto, per così dire, berlusconiano: si tratta semplicemente di forzare le regole del gioco.
Berlusconi si candida, l’Ufficio elettorale lo cancella dalle liste, lui fa ricorso al Tar con annessa cagnara mediatica sui giudici antidemocratici e se gli riesce di rimanere in lista anche in via cautelare il gioco è fatto: riparte la grancassa sui milioni di voti espropriati, negati, stracciati. “Stavolta però non ce la fa - prevede uno dei suoi, specie ‘falco’ - Tra Renzi e la sua incandidabilità rischiamo di uscirne completamente devastati”.

il Fatto 7.9.13
La condanna non basta, B. resta Cavaliere
di Daniele Martini


Il Cavaliere resta Cavaliere. Nel senso che nonostante la condanna definitiva per frode fiscale, il dottor Silvio Berlusconi conserva il titolo onorifico che gli fu attribuito nel lontano 1977, che lui esibisce con orgoglio e che è stato assunto dai giornali come una specie di alias, un secondo nome con annessa qualifica di probità e operosità meneghina. Chi avrebbe il potere di avviare le pratiche perché l'onorificenza gli venga tolta se ne guarda bene dal farlo. Non ci pensano i ministri competenti, comprensibilmente bloccati, dal loro punto di vista, dall'idea che qualsiasi soffio possa stendere il governo. Ma non ci pensa neanche il prefetto di Milano a cui pure la legge concede una facoltà di iniziativa.
INSEDIATOSI il 19 agosto, il prefetto Francesco Paolo Tronca sembra non avere alcuna intenzione di prendere in considerazione la faccenda. Preferisce prendere tempo, in perfetta sintonia con il governo delle larghe intese che lo ha nominato l'8 agosto e con il segretario pdl e ministro dell'Interno, Angelino Alfano, suo referente diretto. Conoscendo bene le norme, non può negare che l'ipotesi della revoca del titolo e del ritiro della croce d'oro con collare sia campata in aria. Ma da alto rappresentante delle istituzioni di questa Italia che pare incapace di far rispettare le sentenze quando di mezzo c'è un cittadino considerato di fatto più uguale degli altri, sa che quando si tratta di Berlusconi perfino la revoca di un titolo onorifico diventa un casus belli. Preferisce quindi esercitarsi nella nobile arte della non decisione. A precisa domanda del Fatto, fa sapere che “il quadro complessivo non è chiaro, bisogna approfondire, devono essere messi a fuoco gli aspetti giuridici e procedurali”.
Eppure la legge sull'attribuzione e l'eventuale revoca del cavalierato appare lineare sia nell'elencazione dei meriti richiesti per la concessione dell'onorificenza sia nello stabilire i motivi che possono causare la sua perdita e i soggetti che la possono reclamare. È una norma ormai consolidata, risalente a 27 anni fa e applicata altre volte per stabilire la decadenza degli interessati, come successe, per esempio, con Calisto Tanzi della Parmalat. Essa stabilisce che per quanto riguarda i meriti, l'aspirante Cavaliere deve dimostrare di “aver tenuto una specchiata condotta civile e sociale” e di “aver adempiuto agli obblighi tributari”. Il prefetto riceve le proposte di candidatura e avvia un'istruttoria che tiene conto sia delle informazioni possedute dalla stessa Prefettura, sia di quelle fornite dalla Camera di commercio, dall'Ispettorato del lavoro, dall'Intendenza di finanza e dall'autorità giudiziaria.
QUALI INFORMAZIONI FORNIREBBERO oggi al prefetto Tronca gli uffici fiscali e l'autorità giudiziaria a proposito del cavalier Silvio Berlusconi? Anche per quanto riguarda la revoca, la legge è chiara: “Incorre nella perdita dell'onorificenza l'insignito che se ne renda indegno”. Sostenere che un condannato in via definitiva per frode fiscale conservi integro il requisito dell’onorabilità è come dire che Cristo fu ucciso dal sonno. Del prefetto Tronca che si manifesta dubbioso ritenendo indispensabili “approfondimenti”, in passato si sono già occupati i giornali. Per esempio due anni fa venne fuori che suo figlio fu accompagnato a una partita di calcio con un autista e un mezzo di soccorso dei Vigili del fuoco di cui il dottor Tronca a quei tempi aveva la guida. Era l'11 maggio e all'Olimpico la Roma ospitava l'Inter.

il Fatto 8.9.13
No, il dissenso no: sipario sulla festa Pd
La polatea applaude tutto e tutti. Renzi e Letta ma anche D’Alema
Vendola, ma anche Quagliarello
di Wanda Marra


“We are the champions”. Mentre Matteo Renzi saliva sul palco di Genova, domenica scorsa, risuonavano le note dei Queen. Folla curiosa e osannante. Sogni di vittoria alle porte. È la Festa Democratica 2013. Ma come, non è l’anno della “non vittoria” del Pd alle elezioni, più tragica di una sconfitta? I Democratici non sono alleati di governo di Berlusconi, dopo aver inutilmente provato a batterlo per vent’anni? E il Pd non è il partito dove si annidano 101 traditori che in un colpo solo hanno fatto fuori il fondatore Prodi e il segretario Bersani senza colpo ferire? A Genova non c’è dissenso, non c’è mobilitazione, non c’è neanche critica argomentata. Qualche brusio, quando Zanda invoca l’“orgoglio democratico”, qualche epiteto alla volta di Renzi e D’Alema, ma poi applausi per tutti. Ovazioni per Vendola che invoca la patrimoniale e lungo tributo a Enrico Letta, che l’unica forma di patrimoniale, l’Imu, per ora l’ha tolta. Un po’ più caldi, un po’ più freddi, un po’ più amichevoli, un po’ più formali. Ma comunque applausi. Con un premier “solido” che viene dal Pd, un “fenomeno” come potenziale segretario e qualche vecchio big a guardia delle antiche radici, sembra di assistere a una sorta di rimozione collettiva. O forse, a una base stremata e provata da troppi compromessi. Per la quale, ormai va bene così. Attenzione però, la platea un sussulto ieri l’ha avuto. Mentre Epifani chiudeva la Festa col solito stile piano di chi dice poco e non scontenta nessuno (il perfetto reggente) alla sola evocazione della “grazia a Berlusconi” (che “è prerogativa di Napolitano” e bla bla bla) un brusio decisamente polemico lo interrompeva. C’è un limite a tutto. Almeno per ora.
Ecco allora il racconto della kermesse, in qualche flash.
Sangue nelle vene. Enrico Letta ruba la colonna sonora a Jovanotti (sua la scelta del brano) ed entra a braccia alzate sul Palco di Genova, inaugurando la festa. È il premier delle larghe intese. La platea lo applaude: in fondo viene dal Pd.
L’alieno. Arriva il ragazzino che faceva la Ruota della Fortuna da Mike Bongiorno, quello che è andato ad Arcore a incontrare Silvio Berlusconi, quello che nessuno sa come la pensa davvero. Però Matteo è un vincente. Tanto vale credergli.
La guerra, questa sconosciuta. Mentre Obama in conferenza stampa mondiale annuncia l’intenzione di chiedere all’Onu il permesso per l’intervento in Siria, sul palco c’è il ministro della Difesa, Mario Mauro. Disinteresse alle stelle.
“Mi vedi spompo? ”. Un segretario è per sempre: Pier Luigi Bersani arriva preceduto dall’ultima definizione che gli regala il sindaco di Firenze. Ha perso (pardon “non vinto”) le elezioni, non sembra avere una chiara strategia per il futuro, neanche nel partito, ma gli si tributa un abbraccio di stima
La colomba. Quagliariello, è quasi un habituè alle feste del Pd. E a Genova spiega le motivazioni giuridiche del perché Berlusconi secondo il Pdl ha ancora diritto alla difesa. Lo ascoltano e lo applaudono pure.
Voltagabbana. Dario Franceschini mentre annuncia il suo endorsement a Matteo Renzi ha l’aria grave, contrita. All’ennesimo cambio di bandiera della sua carriera, non è esattamente a suo agio. In rete gli insulti si sprecano. Dal vivo no.
Un volto per un candidato. Gianni Cuperlo lo riconoscono in pochi: e così quando si sparge la voce che è arrivato alla festa, ecco tutti in fila per fotografarlo. Ironia della sorte per uno che ha appena trovato uno slogan polemico: “Quello fotogenico è l’altro” (Renzi, ndr).
La vocazione minoritaria. Il peso Massimo, D’Alema, arriva alla festa per dichiarare guerra a Renzi con tutta l’artiglieria di cui dispone. Troppo poca per vincere. Ma non fa niente: l’importante è la battaglia, non il risultato.
Sul lettino. Nel giorno in cui arriva Veltroni, c’è pure un ospite ad hoc, Massimo Recalcati, lo psicanalista che da un po’ viene spesso invitato alle feste democratiche. Consapevolezza o inconscio in azione?
L’abiura. Moreno, il rapper vincitore di Amici, viene invitato a cantare come ospite di rilievo. Ma ci tiene a dire: “Io col Pd non c’entro niente”
Grandi assenti. Qualcuno si aspettava i no Tav, i grillini, o una qualsiasi forma di contestazione: niente di tutto questo. Ogni tanto qualche isolato cartello ricordava che in Italia ci sono una serie di questioni sociali irrisolte.
Volontari. Operosi e disponibili, sorriso sulle labbra, pronti ad appoggiare Renzi e Letta. Persone “responsabili”, fedeli alla linea. E per la maggior parte pensionati. Gente che evidentemente ne ha viste davvero troppe. Ma poi ogni tanto si coglieva lo sguardo preoccupato di qualche dirigente. “Che succede? Per domani, ci manca qualche volontario”.

il Fatto 9.9.13
In tre giorni vogliono stracciare la Carta: dal Fatto 426 mila NO
Al via le votazioni in aula, ma cresce il fronte che si oppone
No alla riforma della P2. 430mila


Sempre più firme, sempre più voci contro l’a t ta cco alla Carta. Ieri la petizione del Fatto contro la riforma della Costituzione ha superato quota 430mila firme. E così si avvicina sempre di più l’obiettivo delle 500mila sottoscrizioni, lanciato dal direttore Antonio Padellaro all’inizio della raccolta. Una sfida partita lo scorso 26 luglio sul sito del Fatto, www.ilfattoquotidiano.it  , e ora più che mai attuale e viva. L’adesione di tante personaggi noti, dalle storie e dai profili più diversi, conferma l’importanza di questa battaglia di democrazia. Una battaglia per fermare la riforma della Carta in senso presidenzialista. Proprio quella auspicata da Licio Gelli, il fondatore della loggia massonica P2, nel suo famigerato Piano di rinascita nazionale. Nonché un eterno obiettivo di Silvio Berlusconi. Ma sono davvero tanti i rischi che si annidano nelle pieghe del ddl costituzionale 813. Dalla delega a un comitato di soli 42 parlamentari del compito (potere) di riscrivere quasi tutta la seconda parte della Costituzione (i titoli I,II, III e IV), allo stravolgimento del 138, la “valvola di sicurezza della Carta”, come hanno ricordato tanti costituzionalisti. La vera faccia della riforma è riassunta anche da un passaggio dell’appello del Fatto: “Non si tratta di un intervento di manutenzione ma di una riscrittura radicale della nostra Carta fondamentale non consentita dalla Costituzione, aperta all’arbitrio delle contingenti maggioranze parlamentari”. Maggioranze che, in nome delle larghe intese, vanno avanti senza fermarsi. Sulla Costituzione, la base della nostra democrazia.

il Fatto 8.9.13
“La Costituzione possono cambiarla solo i cittadini”
di Davide Vecchi


I nostri Padri costituzionali hanno detto e scritto bene: la Carta si può e si deve cambiare solo se c'è il consenso dei cittadini, quindi senza un referendum conservativo questa idea di fare le riforme nelle segreterie dei partiti è già un colpo di Stato bello e buono”. Antonio Di Pietro parte leggero: anche soltanto la volontà di cambiare la Costituzione per salvare un “pregiudicato piduista” è un colpo di Stato. “Ma non avranno i numeri per riusciurci”, rassicura Lorenza Carlassare, costituzionalista ed ex componente del comitato dei Saggi (“era una stortura”). “Dovranno rendere conto ai cittadini ed è per questo che oggi è fondamentale mobilitarsi, informare: serve una grande mobilitazione per salvare la Costituzione”. Carlassare, senza volerlo, ieri, nel corso di un dibattito dedicato alla nostra Carta (che si è svolto nel Parco della Versiliana a Marina di Pietrasanta durante la tre giorni di festa de Il Fatto Quotidiano), ha fatto propria la campagna lanciata dal nostro giornale per salvare la Costituzione: “Non vogliamo la riforma della P2”.
IN POCO PIÙ di un mese sono state raccolte circa 430 mila firme. “L’obiettivo è raggiungere 500 mila firme”, ha spiegato ieri il direttore Antonio Padellaro introducendo l'incontro. “Le porteremo al Capo dello Stato e ai presidenti di Camera e Senato e anche se non gli stiamo proprio simpatici, non potranno rifiutare di riceverci perché non ricevono noi ma ricevono 500 mila cittadini italiani”, ha aggiunto. “Vogliono salvare Berlusconi da una condanna e cambiare la Costituzione: da questo dobbiamo ribellarci usando gli strumenti della democrazia, perché è giusto ribellarci”.
Con Carlassare e Di Pietro (in collegamento), al dibattito di ieri in difesa della Costituzione hanno preso parte anche Furio Colombo, Paolo Flores d’Arcais e Antonio Ingroia, oltre al giornalista del Fatto, Antonello Caporale, moderati da Silvia Truzzi. E se Di Pietro ha parlato di colpo di Stato, Furio Colombo ha ricordato chi sono i personaggi che siedono in Parlamento e vogliono cambiare la Carta. E lui, senatore del Pd, li conosce bene. “Vorrete far scrivere la Costituzione a Brunetta e Quagliariello? Ricordate quando sbattendo il microfono al Senato, Quagliariello ha accusato tutti gli altri presenti di essere gli assassini di Eluana Englaro, dopo che quella povera ragazza aveva avuto finalmente pace? Quello è Quagliariello”. Ancora: “O Schifani? Quello che chiamava ‘ladra’ Rita Leva Montalcini che votava per i sussidi alla ricerca scientifica. Questo è accaduto in Italia e per questa ragione niente di quello che ci propongono di fare con loro può essere fatto, non poco, non qualcosa: niente. Soltanto l'estraneità assoluta con questo magma di alieni”. E certo, aggiunge Ingroia, “proviamo a paragonare questo Parlamento con quello che scrisse la Carta? Meglio evitare. Questo governo si sostiene anche grazie a un partito che ha per leader un pregiudicato piduista che ricatta. A costo di apparire conservatore, dico teniamoci questa Costituzione”.
CARTA che potrebbe avere bisogno su alcuni punti di essere aggiornata, sostiene Carlassare. “Le riforme assolutamente necessarie – dice la costituzionalista – sono alcune, ma la prima che farei è cambiare la norma che attribuisce alle Camere il diritto di giudicare sulla eleggibilità, sulla ineleggibilità, sulla incandidabilità dei propri membri. Basterebbe questo e oggi saremo a posto”.
Tra le leggi da cambiare, a prescindere dalla Costituzione, c’è “l’urgenza di mettere mano a una legge elettorale seria”, dice Colombo. “Una legge civile, decente, democratica che consenta ai cittadini di scegliere chi eleggere”. Ma intanto “dobbiamo fermare il tentativo di cambiare la nostra Costituzione, non possiamo permetterlo”. Raggiungere 500 mila firme (basta andare sul sito internet del Fatto) è il primo passo: poi, una volta portate anche al Capo dello Stato, toccherà a lui. Chissà che effetto gli farà.

per Carlo Galli, contro Rodotà Landini e tanti che hanno firmato l’appello “In difesa della Costituzione” -, che questa maggioranza voglia imporre la deroga all’articolo 138 della Costituzione non costituirebbe un “vulnus drammatico”
l’Unità 8.9.13
Chi non vuole le riforme
di Carlo Galli


LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE STA COMINCIANDO A MUOVERE VIVACEMENTE LE ACQUE DELLA POLITICA. Ma in direzioni ben diverse. Da una parte, c’è la gazzarra del Movimento 5 Stelle, con quanto di goliardico, di provocatorio, di consapevolmente propagandistico vi è connesso. L’occupazione del tetto del Parlamento con i deputati virtuosi vicini al Sole, mentre l’Aula soffoca, laggiù, nella palude partitica è uno scadente gesto di dannunzianesimo in ritardo. La lotta politica si può svolgere durissima dentro le istituzioni; si può anche svolgere fuori dalle istituzioni, nelle piazze e nelle fabbriche; ma non si può svolgere contro le istituzioni. Non può ridicolizzare né offendere il Parlamento, nel quale, piaccia o no, proprio a norma di Costituzione si rappresenta la sovranità del popolo con il corollario conseguente del mandato libero -. L’amore per la nostra Carta (anche se professato da una forza politica che si dichiara esterna al moderno principio di rappresentanza), è certamente lodevole; ma si richiederebbe un po’ più di coerenza: il Parlamento è parte integrante della democrazia repubblicana disegnata dalla Costituzione. Mentre la forma di certe proteste spettacolare, allarmistica, disperata come se Annibale fosse alle porte vuol far passare l’idea falsa che nell’Aula non si possa parlare liberamente, o l’idea sbagliata che sia stia assassinando la Carta. Con il risultato di accreditare ulteriormente la sciagurata opinione tanto lungamente ribadita dai poteri forti di questo Paese, e tanto prontamente ripresa da alcuni giornali che la politica sia nel suo complesso una pagliacciata, degna di essere abolita. Il velleitario rivoluzionarismo populistico e anti-istituzionale è, come sempre, funzionale a disegni non democratici. Tutt’altra cosa, e di ben diverso spessore è invece il Manifesto dell’Assemblea per la Costituzione, in cui alcuni illustri costituzionalisti democratici, insieme ad alcune personalità di primo piano nella società civile, richiamano con forza il valore simbolico e politico della Costituzione in particolare dei Principi fondamentali e invitano il Parlamento a pensare di attuarla piuttosto che di riformarla.
C’è da essere d’accordo con loro quasi su tutto: la cultura, l’impegno, la passione che esprimono non possono non essere condivisi da una forza di sinistra democratica. C’è semmai da ricordare che i Principi e la Prima parte della Costituzione non sono coinvolti in nessuna revisione; e che le revisioni che si faranno saranno funzionali al programma di meglio realizzare, appunto, lo spirito della Costituzione. Si può polemizzare sulle deroghe all’art. 138 che dovrebbero rendere più spedito, ma certo non facilissimo, l’iter di revisione: ma non si tratta di un vulnus drammatico, perché l’essenza dell’articolo la sede parlamentare della revisione, e la piena tutela delle minoranze non è toccata. Si può temere, legittimamente, il semipresidenzialismo e battersi contro di esso: ma finora non si è entrati nel merito, e gli argomenti su questo punto vanno tenuti per quel momento. Si può sostenere, giustamente, che il primo problema del nostro Paese è la riforma del sistema politico (ridare vita ai partiti, insomma, per renderli più forti rispetto ai nuclei di interessi opachi che da molto tempo hanno il sopravvento) più che la riforma della Costituzione. Ma non si negherà che interventi volti a eliminare il bicameralismo perfetto e a semplificare i livelli amministrativi all’interno del modello parlamentare, e senza che si preveda un drammatico rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio possano dare alla politica maggiore speditezza. La quale non è un male in sé, e non risponde necessariamente a un disegno aziendalista ed efficientista; anzi serve proprio a rilegittimarla agli occhi dei cittadini, a far vedere che la politica è un’attività importante, e quindi, sia pur indirettamente, aiuta anche i partiti a ri-costituirsi, a prendere sul serio la propria insostituibile azione politica. Per non parlare della legge elettorale di per sé estranea alla materia costituzionale che è da riformare subito, per motivi che è perfino inutile elencare. La Costituzione va amata di un amore sincero, non superstizioso né strumentale; e va responsabilmente riformata perché sviluppi appieno il proprio potenziale democratico. Con la consapevolezza che la riforma della politica è, certo, un obiettivo più impegnativo; e che, nondimeno, la sinistra riformista non può sottrarsi al compito di iniziare col mettere in sicurezza le istituzioni dalla marea populista che le sta per sommergere. E con l’auspicio la certezza che le forze migliori e più appassionate della società civile non faranno mancare a quest’opera il loro sostegno critico.

l’Unità 8.9.13
Bobo non vota Renzi
Staino: l’Unità presidio per la sinistra

di Simone Collini

Bobo non vota Renzi. Quando si capirà che quel carro è in «overbooking», il problema non lo riguarderà. Però Bobo è preoccupato, perché vuole bene al Pd. «Se uno ti dice di voler fare sia il segretario che il sindaco di Firenze t’ha bell’e detto che tipo di segretario vuole essere». E però Bobo è anche arrabbiato col Pd, parecchio. «Dopo quello che è successo alle elezioni del Capo dello Stato tutto il gruppo dirigente doveva dimettersi».
Sergio Staino arriva a Genova per la chiusura della Festa nazionale del Pd e per incontrare i lettori dell’Unità insie-
me al direttore Claudio Sardo. Per oltre un’ora e mezza si parla dell’attuale situazione politica, della crisi siriana («Sono strani momenti, se m’avessero detto che saremmo stati con Putin e contro il premio Nobel per la Pace Obama..».) e del nostro giornale, alle prese con una crisi che investe l’intero settore dell’editoria ma anche con le sfide e le opportunità delle nuove tecnologie. Sardo parla dell’Unità come di uno «strumento indispensabile per la sinistra italiana, presidio di un’autonomia politica e culturale». Bobo arrivò sulle pagine del nostro giornale con Emanuele Macaluso direttore: «Quando me lo propose gli dissi di no: vi conosco voi comunisti, mi impedirete di fare libera satira. Alla fine mi convinse e mandai una decina di strisce particolarmente cattive col partito, pronto alla prima che incassava un rifiuto a dire “visto? Bobo e l’Unità sono incompatibili”. Ma me le pubblicarono tutte. Emanuele mi chiamava 007, un militante con la licenza di uccidere. E ancora oggi è così, sono libero di sparare in tutte le direzioni. In nessun altro giornale potrei farlo». Ed è inevitabile, in giornate come queste, parlare del congresso del Pd.
Il papà di Bobo giudica «molto negativa» la possibilità che Renzi vinca la sfida ai gazebo (che per Staino andrebbe ristretta ai soli iscritti) e con la promessa di una «scorciatoia per andare al governo» porti piuttosto a quel «partito liquido» non solo teorizzato dal sindaco, ma in qualche modo anche da lui annunciato con alcune dichiarazioni, come quella del doppio incarico. Si entra così nel tema del congresso. Claudio Sardo spiega che l’Unità seguirà «con grande apertura» il confronto, «cercando di raccontare il meglio di ogni candidato». Staino insiste con le critiche a Renzi: «Se il sindaco può diventare segretario del Pd «è perché cavalca l’idea di far fuori tutti quelli che ci sono ora. Poi li rimbarcherà perché è un cencelliano nato, ma il gruppo dirigente del Pd ha sbagliato, si doveva dimettere tutto dopo la vergognosa vicenda dei 101 alle elezioni per il Quirinale, non solo Bersani». Su questo il pubblico dimostra di condividere con applausi, sulle critiche a Renzi c’è invece chi non apprezza.
Quando il microfono passa a chi vuole fare delle domande, c’è chi dice che comunque col sindaco ci sono più chance di vittoria e maggiori possibilità di rinnovamento. Tutti, in ogni caso, chiedono un cambio al Pd. Tanto che due signore sedute in quinta fila dicono che si stupiscono sempre a vedere come siano rappresentati nelle vignette di Bobo i loro pensieri, i loro sentimenti, e propongono a Staino di tenere un corso accelerato al gruppo dirigente del partito. Risposta: «Ci vuol poco, basta obbligarli ad andare a lavorare in autobus».

l’Unità 8.9.13
Ma è moderno un leader separato dal popolo?
di Michele Ciliberto


DA TEMPO SI DISCUTE DI LEADER E DI LEADERSHIP, E SI CAPISCE CHE QUESTA DISCUSSIONE SI STIA ACCENTUANDO IN VISTA DEL CONGRESSO DEL PD. Vorrei cercare di sgombrare il terreno da una serie di equivoci sia storici che politici. Dico però subito che trovo esagerato presentare questo problema, certo rilevante, come una novità, e vedere nella figura del leader un elemento, in quanto tale, di modernità. Tutto il Novecento è caratterizzato dalla presenza di leader: leader, fuhrer, duce sono termini che rientrano nella stessa costellazione linguistica e concettuale. Chi può mettere in discussione che Hitler, Stalin o Mussolini siano stati dei leader? Ma anche nella seconda metà del Novecento cioè nel tempo della democrazia ci sono stati grandi leader: Alcide de Gasperi o Aldo Moro; Palmiro Togliatti o Enrico Berlinguer. Nel caso di quest’ultimo, perfino la sua morte può essere interpretata come un gesto, e una affermazione, di leadership.
Naturalmente, i leader del tempo della democrazia erano strutturalmente diversi da quelli del tempo del totalitarismo. Ma avevano un tratto in comune, che rimanda a un carattere morfologico della politica del Novecento: la sua dimensione di massa. Quei leader, così diversi e anzi opposti, avevano questo dato essenziale in comune: erano in rapporto organico con la massa, ne erano espressione e ad essa si riferivano come fondamento del loro potere con veri e propri riti (adunate, marce, comizi, cerimonie) in cui si intrecciavano motivi laici ed elementi religiosi, unificati da un linguaggio attraverso cui si stabiliva una comunicazione diretta fra il leader e il suo popolo. Ma tutto questo era reso possibile, ed anche necessario, dalla dimensione di massa della politica, dalla centralità della politica nell’esperienza individuale e collettiva, dal fatto che la politica, proprio per questa sua natura, era un eccezionale strumento di attivazione e di partecipazione al vivere civile. Poteva svolgersi in senso totalitario oppure democratico, ma il ruolo che essa svolgeva, a livello di massa, era decisivo su ogni piano.
Oggi quella figura di leader è sparita perché è venuta meno la dimensione della politica cui era intrecciata: non ci sono più «masse», non c’è più alcun primato della politica, i cerchi della vita individuale si sono profondamente trasformati. E sono, di conseguenza, radicalmente mutati le forme della comunicazione e i linguaggi della politica. In breve: la politica è uscita dai canali classici, si è disseminata in luoghi estranei ai canoni tradizionali. Oggi faccio un esempio triviale un talk show è un evento assai più rilevante, sul piano politico, di qualunque comizio. Oggi la politica è, in modo immediato, teatro: da un lato si è ritratta; dall’altro, paradossalmente, in forma di spettacolo si è espansa in modi mai visti. Ma è diventata altro, rispetto a quello che era. E questo ha cambiato la figura del leader rispetto ai modelli novecenteschi; e ha mutato il rapporto tra il leader e la sua gente. La massa è diventata pubblico, è uscita di scena, non ha più ruolo; il leader non ha riferimenti esterni, se non in forma subordinata e passiva; è l’unico titolare della scena, in una sorta di spazio vuoto nel quale sviluppa, e afferma, il suo potere. Opera, si potrebbe dire, in assenza di gravità. Due esempi per chiarire il ragionamento: in questi giorni il fondatore del Pdl insiste nelle sue minacce senza render conto ad alcuno. Per questo tipo di leader non è, infatti, accettabile alcun sistema di controllo; anzi, il controllo è considerato una indebita invasione di campo. Ma il quadro non cambia se si pensa al rapporto tra Grillo e il M5S: la «democrazia informatica» si è risolta nel potere incontrollato e incontrollabile del leader.
Questa è oggi la situazione. Pongo perciò questo problema: è modernità una figura di leader di questo tipo? È in questa direzione che deve andare la democrazia italiana? E porre questi problemi significa essere retrivi e antimoderni? Vorrei essere chiaro: non nego la funzione, oggi, del leader. Non avrebbe senso: ci sono trasformazioni morfologiche che spingono in questa direzione. Il problema che pongo è un altro: riguarda il terreno su cui deve essere oggi collocata la funzione e il potere del leader. Concerne cioè una questione di «sistema». In quale contesto si inserisce la figura del leader, se vuole essere uno strumento di crescita, e non di regressione della democrazia come è avvenuto negli ultimi venti anni? Se questo è l’obiettivo, il problema del leader non può non incrociare quello della funzione e del ruolo dei partiti. A differenza di quanto sostenga la vulgata neo-conservatrice, proprio quando si impone il problema di una nuova figura di leader, sono necessari partiti forti e strutturati che complichino e sostanzino lo spazio politico, impedendo derive di carattere personalistico o addirittura autoritarie. In linea di principio, non è scontata in democrazia l’ opposizione tra grandi leader e una forte presenza dei partiti. Ma devono essere coordinati e relazionati in un sistema in grado di riconoscere, e potenziare, le reciproche funzioni, ma senza l’assorbimento e la dissoluzione degli uni negli altri. Finché si voglia restare in una democrazia di tipo liberale, naturalmente.

il Fatto 8.9.13
Casaleggio corteggia i poteri forti
Il guru al workshop Ambrosetti
di Stefano Feltri


Oggi a Cernobbio arriva Gianroberto Casaleggio, per vivacizzare un evento che tutti i partecipanti definiscono “in tono minore”. L'ultima volta che gli avvocati dello studio Ambrosetti cercarono di cooptare un corpo estraneo nel loro salotto riservato, tra i velluti di Villa d'Este, per il “workshop”, non andò bene. Era il 1996, l'anno del boom della Lega Nord. Umberto Bossi arrivò sul lago di Como commentando: “Mi sembra di stare in un film di Buñuel: qui a Cernobbio vedo il transatlantico che affonda, va giù, va giù, e intanto le cariatidi parlano, parlano”. Questa almeno la sintesi dell'Ansa, chi gli era vicino racconta un commento più bossiano: “Tutti massoni”. E quando Gianni Agnelli fece il suo tradizionale ingresso dall'alto: “Il massone con l'elicottero”. Bossi si era dimenticato le scarpe nere, “quelle eleganti”, spedì il suo amico Giuseppe Babbini a Gemonio per recuperarle. Ma era un’altra epoca, a metà degli anni Novanta l'Italia era in una parentesi di prosperità. E Cernobbio serviva ad aiutare i piccoli imprenditori lombardi a incontrare i grandi nomi della politica e del business e a permettere a ministri e finanzieri di incontrare omologhi internazionali, quando non c'era Internet e i summit globali erano meno frequenti. “Era l'occasione per gli industriali di esibire la nuova amante in società dopo l'estate”, racconta uno degli storici frequentatori del workshop.
DOPO ANNI DI INCERTEZZE, nel 2012 il workshop Ambrosetti ha celebrato Mario Monti, abituale partecipante, allora premier di un esecutivo che al salotto comasco piaceva molto. E Giulio Tremonti duellava con Niall Ferguson, rockstar della ricerca storica di Harvard. “Oggi sono tutti pensionati”, raccontano da Cernobbio: Mario Monti è un senatore a vita, Jean Claude Trichet è un quasi dimenticato ex presidente della Bce, del profeta della crisi, di Nuriel Roubini, si commenta più la sua jacuzzi abusiva nel loft a Manhattan che le teorie economiche. Quest’anno manca anche il presidente di Israele, Shimon Peres, che di solito partecipava sempre. Difficile aspettarsi una Cernobbio frizzante e dinamica mentre il Paese langue tra recessione e grandi intese. Evento più eccitante dell’edizione 2013: il premier Enrico Letta prova ad andare a messa nella chiesa del Santissimo Redentore, a Cernobbio e, inseguito dai cronisti, perde una scarpa. Brividi d’emozione.
Non resta che la chioma di Gianroberto Casa-leggio a rompere la monotonia. Lo studio Ambrosetti avrebbe dimostrato maggiore fiuto invitandolo nel 2012, ma meglio di niente. Da tempo il co-fondatore del Movimento Cinque Stelle sta cercando di coltivare i rapporti con le imprese, sia per raccogliere idee ma soprattutto per offrire loro la versione raffinata degli slogan di Beppe Grillo. Nei mesi scorsi si è appoggiato a Massimo Colomban della Confapri e perfino al salottiero Arturo Artom, sedicente imprenditore grillino. A Cernobbio arriva ufficialmente per discutere di nuovi media con Michael Slaby, che ha lavorato con Barack Obama nell’ultima campagna presidenziale. Ma è chiaro che Casaleggio, sia nel dibattito riservato sia nei corridoi, discuterà anche di altro. Negli ultimi mesi ha incontrato, privatamente, analisti delle grandi banche, molto interessati alle tesi di Casaleggio sulla crisi dell’euro. E se i grillini in Parlamento hanno sempre meno fascino, dispersi tra scontrini ed espulsioni, un pezzo del mondo di Cernobbio guarda con interesse alle idee di Casaleggio (anche se in pubblico non lo ammetterebbe).
Il problema è che all’elettore medio del M5S, i raduni elitari a porte chiuse, da Cernobbio al club Bilderberg alla Trilaterale, non piacciono. Tanto che lo stesso Casaleggio, qualche mese fa, si sentì in dovere di precisare: “Mi hanno attribuito dei legami con i cosiddetti poteri forti, dalla massoneria, al Bilderberg, alla Goldman Sachs con cui non ho mai avuto nessun rapporto, neppure casuale”. L’invito a Cernobbio, però, è tutto tranne che casuale.

Corriere 8.9.13
Un esercito di aspiranti medici, il fascino intramontabile della cura
di Luigi Ripamonti


Domani negli atenei italiani 84.165 candidati (il 25% per cento in più rispetto all'anno scorso) si misureranno con il test di ammissione alla facoltà di Medicina. Solo 10.157 potranno accedere al corso di studi che, fra sei anni, dovrebbe permettere loro di indossare l'agognato camice bianco.
Una sproporzione fra domande (di ammissione) e offerta (di posti) che non può non colpire. Fra le possibili spiegazioni del successo di Medicina la prima può essere di natura economica. Nel corso degli ultimi anni, dopo l'introduzione del numero chiuso, le facoltà di Medicina hanno cessato di essere una «fabbrica di disoccupati» e sono, anzi, diventate appetibili per le prospettive di impiego. Ma l'impressione è che non si tratti solo di questo. Anche altre facoltà, infatti, offrono probabilmente possibilità paragonabili in termini di occupazione e remunerazione. Perché, quindi, un giovane (o un meno giovane visto che pare non manchino i cinquantenni fra gli iscritti ai test) dovrebbe puntare per mero calcolo proprio su una professione che si prospetta irta di rischi legati alle responsabilità che comporta anche sul piano economico, vista la sempre maggiore diffusione delle cause legali nei confronti dei medici?
E perché, ancora, un giovane dovrebbe desiderare notti insonni, stress, necessità di prendere decisioni rapide, spesso con quasi nessun margine di errore? Perché incaponirsi in un mestiere nel quale, più che in altri, non si può mai finire di imparare, nel quale il progresso scientifico cambia le carte in tavola con una rapidità impressionante?
Ai sociologi l'onere di una risposta informata dai dati. In assenza di questi si può azzardare l'ipotesi, e l'auspicio, che il fascino di una delle professioni d'aiuto per eccellenza sia davvero inossidabile. La sensazione, e la speranza, è che a motivare almeno una buona parte dei candidati che affronteranno il test domani, sia l'idea di poter essere davvero utile, di poter spendere la propria vita e le proprie energie per qualcosa cui si attribuisce un vero valore, di poter scommettere su un progetto di sé che non abbia come unità di misura e confronto solo il fixing sul mercato del successo e del riconoscimento sociale.

Mario Tronti saluta Pietro Barcellona: entrambi collaboratori nel Centro studi conosciuto come il covo “marxisti ratzingeriani” che tanta di portare alla sinistra la così detta “antropologia cristiana”
l’Unità 8.9.13
Addio a Pietro Barcellona intellettuale militante che incontrò la religione
La visione antagonista e la scoperta della psicoanalisi dopo il 1989
di Mario Tronti


All’età di 77 anni si è spento la notte di venerdì Pietro Barcellona, docente di Diritto privato e di Filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza di Catania. Nato nel capoluogo etneo il 12 marzo 1936 è stato componente, dal 1976 al 1979, del Csm. Nel 1979 fu eletto deputato del Pci.
PIETRO BARCELLONA ERA UN INTELLETTUALE MILITANTE: UNA SPECIE CHE HA COSTITUITO A SINISTRA UNA NORMA E ORA È UN’ECCEZIONE. Di essere questa eccezione, ha avuto piena consapevolezza fino agli ultimi giorni. Era anche uno studioso di specialissima qualità culturale. Di formazione giuridica, aveva allargato i suoi interessi ai più vari campi del sapere, dalla filosofia, non solo del diritto, alla sociologia, all’antropologia, alla teologia. Da decenni coltivava una vera passione per la psicanalisi. Confessò che il passaggio politico dell’89 gli aveva procurato una seria depressione, che curò con quegli strumenti terapeutici, e di lì rimase per sempre coinvolto in quegli studi di introspezione nei lati oscuri della mente.
È stato un affascinante docente d’università, nella sua Catania, con molti allievi, ma sempre in giro, disponibile a parlare con tutti e dovunque. Era uno straordinario affabulatore, brillante, ironico, tagliente, dissacrante. Sorrideva mentre parlava, e diceva spesso il contrario di quello che ci si aspettava di ascoltare. Praticava la politica, anche di base, da convinto comunista, parlamentare del Pci, vicinissimo collaboratore di Pietro Ingrao, animatore della rivista Democrazia e diritto e presidente del centro per la riforma dello Stato, in uno dei momenti di maggiore vivacità di ricerca e di dibattito. Ancora oggi era una presenza amata e cercata nel Crs, e ne sentiremo dolorosamente la mancanza.
L’ultima occasione di incontro d’anime, come si dice, era stata l’iniziativa di quella lettera sull’emergenza antropologica che avevamo redatto insieme a Beppe Vacca e a Paolo Sorbi. Si era appassionato all’argomento con un entusiasmo che direi quasi infantile. Ci credeva che quello fosse un problema. Del resto, da qualche anno si era introdotto
in quel sentiero di confine, che va sotto il nome di post-umano. In una Lectio per l’occasione di un compleanno di Ingrao, aveva scelto di trattare proprio questo tema. La sua critica, a volte con toni apocalittici, di una manipolazione tecnologica del corpo, e dunque della vita, lo impegnava in prima persona. Aveva, in tarda età, incontrato sul suo cammino la dimensione religiosa, in primo luogo cristiana. Incontro con Gesù, è uno dei suoi ultimi libri. Aveva scritto sempre molto. Fitta la sua bibliografia, vasta, come dicevamo, di argomenti.
Ma era la sua simpatica, aperta, gioviale, estroversa, capacità di contatto con gli altri che più si ricorda e che più rimpiangeremo. Si spendeva nelle più diverse iniziative, sempre pronto a partire ad ogni invito di discussione. Dalla Sicilia, fino all’anno scorso ad esempio dalla sua Sicilia saliva, in pieno agosto, verso le montagne del nord-est per partecipare agli annuali incontri dell’associazione Macondo, con rivista Madrugada, su invito di quella straordinaria figura che è don Giuseppe Stoppiglia. Aveva colto, recentemente, con la sua acuta percezione degli slittamenti interiori provocati dall’attuale disagio di civiltà, che accanto al ragionare, al pensare, andava ritrovata e coltivata la necessità del sentire, accanto alla mente la psiche, possibile motore di riconoscimento reciproco e anche occasione di una nuova possibile volontà di ribellarsi. Soffriva a volte per il suo forzato isolamento. Avrebbe voluto essere di più coinvolto nelle battaglie del presente.
Pietro era uno di quegli uomini, preziosi, che la politica alternativa, antagonistica, come voleva lui che fosse, ha colpevolmente dimenticato, con grave danno per sé e per tutti. Dovremo tornare non solo a ricordarlo ma a studiarlo, a ripercorrere le traversie della sua ricerca purtroppo interrotta.
È un impegno che prendiamo come Crs, la sua vecchia casa, dove oggi gli amici e i compagni lo piangono.

l’Unità 7.9.13
La Politica necessaria
Cacciari: restituiamole la sua autonomia per superare l’impasse di questo presente
Grandi leader e organizzazioni di massa fatte di interessi valori e competenze: ecco la «ricetta» del filosofo che respinge la parola «sinistra»
«Meglio partito del lavoro, che deve funzionare come una multinazionale, che sa dove e come investire»
Questo Papa: «Grande eredità di un grandissimo predecessore»
intervista di Bruno Gravagnuolo


«C’È BISOGNO DI POLITICA. ANZI DI GRANDE POLITICA E GRANDI LEADER, NON DI OCCASIONALISMO E IMPROVVISAZIONI, IN UN MONDO DOVE LA GERMANIA MONETARISTA TAGLIA IL RAMO DOVE È SEDUTA E GLI STATI CHE CONTANO SI FRONTEGGIANO COME IMPERI». Messaggio forte e «classico» quello di Massimo Cacciari (geofilosofo, studioso di teologia politica, pensatore della «Krisis») dal «Festival della Politica» di Mestre, rassegna della Fondazione Pellicani che chiude domani (con Carlo Sini, Gustavo Zagrebelski, Giulio Giorello, Ilvo Diamanti, Marco Revelli, Tito Boeri e tanti altri). E il cuore del messaggio inatteso, visto il recente rifiuto della parola «sinistra» da parte del filosofo è appunto: restituire al Politico la sua «autonomia». Ma innervata su organizzazioni di massa, fatte di interessi, valori e competenze. Dunque, niente populismi e logiche di marketing («Renzi è bravo e piace dice Cacciari si è fatto da sé, ma non si cura del partito, il che è pazzesco. Né si capisce che paese ha in mente...»). Niente populismi. E niente «nostalgie». Sentiamo:
Cacciari, il destino della Politica è ormai segnato, nella tenaglia di populismo, economia globale e fondamentalismi?
«No, la Politica è ancora centrale e irrinunciabile nel mondo globale. Purché si torni a pensarla come fulcro autonomo di una complessità più vasta. Come sintesi di sistema. Il vero punto è un altro. È il Potere, divenuto poroso e inafferrabile, sfuggente. Fatto di mille variabili e interessi. Ma è proprio per questo che c’è bisogno di politica, anzi di Grande Politica, guidata da grandi leader all’altezza della complessità e degli interessi in gioco».
Lei parla di «leader». Ma, oltre i sogni di Max Weber, ne abbiamo visti tanti e sempre votati al populismo, feroce oppure light...
«Leader e leaderismo possono essere regressivi e spoliticizzanti. È stato spesso così nel ‘900. Ma il vero leader non è uomo solo al comando, bensì il capo di un’organizzazione, che a sua volta è involucro di interessi e valori. Obama e Blair non sono stati dei simulacri di opinione. Si sono fatti strada dentro un apparato di partito. E se ne sono impadroniti con battaglie politiche fortissime. Sono il frutto di una dura selezione»
Ceti, classi e interessi materiali restano essenziali per animare un «partito»?
«Il dato materiale degli interessi è cruciale, come base concreta e criterio di orientamento in avanti: per spostare le compatibilità date un partito è una parte, capace di orientarsi verso il tutto. E in grado di trasformare i suoi ancoraggi materiali in punti di vista generali e praticabili. È un’attitudine che un tempo si chiamava egemonia, ma sembra dissolta». Come è possibile far valere un’egemonia dei dominati quando il vincolo finanziario e di mercato è l’imperativo chiave, pena la catastrofe?
«Quel vincolo c’è sempre stato, ma la sua cogenza non è mai stata assoluta. Ci sono faglie e contraddizioni da percorrere. E alleanze da tessere. Ecco quel che dovrebbe saper fare un partito con visione ampia. Altrimenti si ricade in uno gnosticismo da bottega: il bene contro il male, a giochi chiusi e impenetrabili. Viviamo invece in un mondo policentrico, non diviso tra una moltitudine sfruttata e indistinta, e un capitale finanziario altrettanto indistinto e invincibile. La politica di massa dovrebbe avere un punto di vista scientifico, strategico. E un partito deve funzionare come una multinazionale economica, che sa dove investire e come».
La sinistra che lei non ama più chiamare così schiacciata da mercatismo, edonismo, «valori» e «diritti», è priva di protagonismo e soggettività...
«Sì, ma perché? Perchè è saltato il nesso tra la parte e il tutto, fra interessi da privilegiare e valori da propugnare. Tra particolare e generale. Alla fine la sinistra si è dissolta nel cielo dei diritti individuali. Vero: non amo più la parola sinistra. Evoca uno smottamento, un fallimento. Un vecchio blocco sociale. La vecchia sinistra non c’è più, quel mondo non c’è più. Il nome evoca l’antico». Ma come chiamarlo quel soggetto, che pur ferito e incerto esiste ancora?
«Come vogliamo: forza del lavoro o partito del lavoro. Persino partito democratico poteva andar bene. Purché si fossero messi a fuoco i tratti del nuovo lavoro, e il nesso tra democrazia e lavoro. Parlo delle mille forme materiali e immateriali che ha assunto il lavoro, incluso il lavoro di impresa. Abbiamo fallito, perché è mancato un partito. Un apparato di conoscenze specializzato e radicato sugli interessi».
Si chiamava Pci, ma piaccia o meno siamo arrivati al Pd, da lei voluto fortemente. Lo rinnega?
«Il Pci andava superato, ma fu una grande realtà. Ha ancora qualcosa da insegnarci sul funzionamento dei partiti. Il Pd non ha funzionato, e tra i colpevoli mi ci metto anche io. Lo abbiamo pensato come esile agenzia di opinione e confluenza di apparati. Prima però c’è stata l’imprevedibile vittoria di Berlusconi del 1994 e siamo rimasti ipnotizzati dal “nemico”: dal punto di vista organizzativo e dell’agenda politica. Si è giocato di rimessa, senza progetto: su spesa pubblica e clientele, giustizia, istituzioni, politica industriale, banche, fisco. Forse una chance c’è stata, nel 2008 con Veltroni, ma lui stesso non ha saputo convertire il risultato elettorale in un vero partito».
A suo avviso è la Chiesa di Francesco, con la sua teologia politica, l’unico canale di difesa dei ceti subalterni nel mondo?
«Coniugare terra e cielo, miseria e redenzione, è da sempre nei fini della Chiesa. Per questo le è più agevole voltare pagina nei momenti di crisi, come ha fatto in modo stupefacente con Francesco. La teologia di questo Papa per ora è fatta di gesti e di accoglienza. Di innovazione nella Curia. Il punto vero è il rapporto con la modernità, il modo in cui intende “tenerla a freno” o trasformarla. Questo Pontefice per ora mi sembra un erede della Rerum Novarum di Leone XIII, cardine della dottrina sociale della Chiesa. Grande eredità di un grandissimo predecessore.

Siria
il Fatto 8.9.13
Il poeta Adonis
Non è con le armi che si pacifica la Siria
di Roberta Zunini


Capri (Napoli) La forza del suo artiglio poetico è inversamente proporzionale al modo di dialogare: pacato e semplice seppur venato di ironia. Incontriamo il più grande poeta arabo contemporaneo, Ali Ahmad Said Esber, conosciuto come Adonis, a Capri, dove è venuto a ritirare l'omonimo premio internazionale di poesia. La Siria, il suo paese d'origine, che ha lasciato nella seconda metà degli anni Cinquanta per Beirut e quindi Parigi, oggi gli manca come se se ne fosse andato ieri. Ma Adois non è un intellettuale che vive nel passato: “Se potessi fare qualcosa per aiutare i siriani tornerei a Damasco, ma noi singoli non possiamo fare nulla e pertanto dobbiamo lasciare la parola agli organismi internazionali”.
PAROLA DOPO PAROLA si crea il dialogo, l'unica arma che secondo lui sarà in grado di riportare la pace nel paese dove nacque 83 anni fa. “I rappresentanti della comunità internazionale che hanno più potere dovrebbero impegnarsi a scongiurare la ‘punizione’ preparata dal presidente Obama e promuovere un'iniziativa che spinga gli attori del conflitto a incontrarsi. Non c'è altra strada perché un attacco potrebbe avere conseguenze inimmaginabili, tutte negative. Escludo che porterà la pace, anche se l'uso di armi chimiche è ovviamente da condannare, così come la guerra in tutte le sue articolazioni e con qualsiasi arma venga combattuta”. L'intellettuale, che nei suoi versi ha spesso riflettuto sui cambiamenti politici prodotti dal “grande gioco” delle varie potenze, per espandere o cambiare le aree di influenza e accaparrarsi le risorse energetiche del Medio Oriente, ritiene che la posizione di Vladimir Putin invece sia quella corretta. “Ha ragione a chiedere prove certe per individuare l'autore dell'attacco con il sarin. Mi pare logico. E ha ragione quando si dice contrario alla guerra e a favore dell'iniziativa diplomatica”.
Avendo lasciato la Siria quando era ancora giovane, prima di laurearsi in Filosofia, Adonis non ha fatto in tempo a sperimentare od osservare da vicino la brutalità degli Assad. “Non ho conosciuto personalmente nemmeno Hafez, il padre di Bashar, ma comunque non ho mai nutrito alcuna stima né simpatia nei suoi confronti”. Ma non la prova nemmeno per i ribelli che combattono per creare un califfato islamico. Una volta arrivato in Libano, Adonis conobbe il poeta iracheno Badr Shakir al-Sayyab e il palestinese Jabra Ibrahim Jabra con i quali fondò il gruppo Tammuzi, dal nome della divinità babilonese della fertilità.
IL LORO OBIETTIVO principale era infatti far rinascere la cultura araba allontanandola dal nazionalismo e dalla religione. “La fede appartiene alla sfera privata, non deve essere istituzionalizzata e inserita nel dibattito politico. Ma la religione è un alibi di ferro e molte nazioni l'hanno usata e la usano con finalità geopolitiche. Non possiamo ignorare che in questi due anni e mezzo di conflitto siano subentrati attori, come l'Arabia Saudita sunnita, che usano le insegne religiose apparentemente per aiutare i ribelli siriani (sunniti, ndr), in realtà per depotenziare l'altra grande potenza, l'Iran sciita alleato di Assad. Anche i cosiddetti jihadisti stranieri che combattono in Siria, non sono a mio avviso solo e soprattutto estremisti islamici ma, piuttosto, mercenari al soldo dell'Arabia Saudita e del Qatar”. Un'ingerenza che Adonis considera grave perché sta facendo mutare il Dna laico delle istituzioni e della società. “In Siria finora hanno convissuto senza problemi venti diverse confessioni. Anche questa pluralità contribuiva a fare della Siria un paese ricco sotto il profilo culturale e affascinante. La religione serviva al massimo per arricchire il dibattito culturale”. Adonis, candidato più volte al premio Nobel, più si guarda intorno e più si rattrista. “La crescita economica scorre sui binari del consumismo e della militarizzazione che spesso si sovrappongono. Il mondo ha quindi finito per essere in stato di guerra permanente. Ciò che non si presta a diventare merce non viene preso in considerazione. Per questo la poesia è stata emarginata. La poesia però aiuta a ricercare la libertà, ad amare la vita, ad agire sulla base dell'amore”.
Secondo Adonis, il presidente Obama non è stato spinto dall'amore per i bambini e i civili siriani soffocati e bruciati dai gas e dalle bombe incendiarie quando ha pianificato l'attacco ai siti miltiari di Assad. “L'amore non giustifica mai l'uso di armi. In nessun caso”. Nella poesia Oriente e Occidente, Adonis sintetizza così la situazione: “L'Oriente e l'Occidente sono una tomba sola, raccolta dalla sue ceneri”.

il Fatto 8.9.13
Crisi siriana
Per eccesso di forza la guerra è sempre inutile
di Furio Colombo


Guerra e pace. C’è altro? No, ti dicono alcuni, anche molto potenti, che intendono imporre un principio o una osservanza o un dovere. L’antica persuasione dei secoli è che senza il sangue non ci sono vittorie. Se il reprobo non si consegna, non resta che infliggere la pena. In questa visione, il Papa resta il Papa – ti dicono – buono ma non utile per risolvere grandi misfatti che meritano grandi punizioni, anche per ragioni esemplari. E i non combattenti appaiono rinunciatari, indifferenti o paurosi. Questa è l’immagine di un mondo in cui la terza via (oltre l’interventismo e la esecrata decisione politica di non combattere) è il pacifismo. Il pacifismo è l’opposto simmetrico dell’interventismo: di fronte alla persuasione che solo le armi alla fine decidono, il pacifismo è la certezza di dover star lontani dalle armi sempre e comunque, perché sono disumane e immorali. Così è stata tutta la storia umana.
Eppure, questa contrapposizione non descrive i giorni che stiamo vivendo. Per esempio, il Papa non esorta (non solo) alla preghiera e all’amore. Pensa, e lo dice, a un attivismo realistico e possibile. Sembra ispirarsi non tanto al concetto che la guerra è male quanto all’altro, molto più moderno e ancora poco diffuso e non capito: che la guerra è inutile per eccesso di forza. Ecco il punto, che non esisteva nei secoli che hanno formato la nostra cultura: la forza della guerra. Un clamoroso e persino inatteso salto tecnologico, ha portato la potenza degli strumenti di guerra a una misura molto superiore a ogni possibilità di controllo. Questo ha ridotto drasticamente le opzioni dei governi che devono rispondere ai propri popoli. Infatti, anche se usata solo in parte, solo per poche volte, la potenza si rivela subito sproporzionata, causa danni collaterali impressionanti, qualcosa che appare molto simile al crimine che si voleva punire. E, allo stesso tempo, rende impossibili le conseguenze politiche desiderate.
IN ALTRE PAROLE, il più forte può distruggere molto ma non vince mai, come dimostrano, di seguito, Vietnam, Iraq e Afghanistan. Oppure, come ammonisce il Papa, si può precipitare in un caos distruttivo non più controllabile. Resta la domanda a cui finora anche i “coraggiosi” che si sono disposti intorno al ring e tifano per la guerra, non hanno voluto rispondere. Perché non usare la politica e la diplomazia (non nel senso di buone maniere ma nel senso di strategia vasta e coordinata fra tanti) per mettere alle corde il portatore di morte e di pericolo, sotto la bandiera del “no all’indifferenza, no al massacro”?
Si direbbe che si stia verificando una confusione fra l’insidia del terrorismo, difficile da afferrare perché non ha Stato e che, per questo, ha la capacità, a momenti, di disorientare sul come combatterlo. E uno Stato bene identificato come la Siria, di cui si sa tutto (compresa l’inclinazione criminale dei governanti verso la sua stessa popolazione) e che, a differenza della ex Jugoslavia, continua ad avere un forte punto di controllo statuale. Nonostante la pretesa di sicurezza e di sfida, uno Stato risente per forza di una coalizzata pressione di altri Stati (tutti, se possibile). È bene ricordare che Assad ha varcato la “linea rossa” molto prima delle non ancora accertate, ma certo letali, armi chimiche. La striscia rossa è stata passata con il sequestro e la tortura sistematica dei bambini, catturati dovunque, dentro le dimostrazioni e nelle case. È stato il modo barbaro e odioso di aprire la lotta contro i ribelli.
La rispettabilità internazionale di Assad doveva finire a quel punto, con il ritiro immediato di tutti gli ambasciatori e l’inizio di un isolamento che equivale a un mandato di cattura. Fino alle dimissioni o all’esilio, senza accostarsi all’indimenticabile orrore delle esecuzioni di Saddam e Gheddafi. Quando, a uno a uno, importanti personaggi del regime siriano hanno cominciato a disertare, hanno tentato di dare un segnale che nessuno ha raccolto. Adesso il Papa, sempre rispettoso dei non credenti, non si ferma al pur appassionato invito alla preghiera. Sta chiedendo il digiuno, grande segno laico di nonviolenza. Intende aprire una riflessione che potrebbe screditare in modo limpido e logico la vecchia, spaventosa cultura della guerra. In un mondo globalizzato non serve imporre sofferenza per punire sofferenza.
A meno di scegliere di uccidere e di morire, tutti dipendiamo da tutti. Dobbiamo passare parola. Dobbiamo a tutti i costi far capire che non fare la guerra è diventata, prima ancora che una scelta morale, una necessità pratica e realistica per salvare tutti. Non è accettazione del male, è il solo modo per vincerlo.

l’Unità 8.9.13
Il coraggio di fermarsi
di Carlo Sini


Manifestazioni, marce, digiuni, cortei per la pace: ognuno di noi quanti non ne ricorda e ne ha visti nel corso degli anni?
L’esperienza insegna che della loro efficacia pratica possiamo dubitare con ragione, ma questo non significa che le iniziative pacifiste siano inutili e che non abbiano alla lunga un peso non soltanto morale. Ben pochi, però, credono davvero che le campagne pacifiste cancelleranno, in un futuro prevedibile o ragionevole, la guerra dalle vicende mondiali e mi metto anch’io tra gli scettici e tra i più. Le guerre accompagnano la storia umana da tempo immemorabile e ogni spiegazione economica, psicologica, antropologica, biologica o altro, sembra sempre e da sempre insufficiente a darcene una comprensione definitiva ed efficace. Forse, se ne fossimo capaci, le nostre sensatissime aspirazioni pacifiste ne troverebbero conforto e magari qualche suggerimento più efficace. Intanto però tutti sappiamo che i conflitti presentano sempre ragioni di facciata e ragioni più profonde e nascoste delle quali ben pochi sono in grado di sapere davvero qualcosa. Le ragioni di facciata servono appunto a salvare, con l’impiego di molta retorica, la faccia pubblica dei contendenti: solo gli ingenui se ne fidano totalmente. Qui tutti sembrano avere ragione ed è spontaneo pensare che abbiano invece ognuno una parte, sia pure non uguale, di torto. Poi ci sono le ragioni nascoste, quelle che conoscono solo i servizi segreti, le agenzie militari, i consiglieri politici ufficiali e non, in una parola i governi nella loro azione mai apertamente dichiarata e per niente pubblica. Tutti facciamo in proposito molte supposizioni: sarà il petrolio, sarà lo scacchiere medio-orientale, sarà il problema delle armi atomiche, sarà la questione palestinese e così via: tutti ci improvvisiamo strateghi della storia mondiale, con scarsa fortuna e ancor minore competenza. Nel caso attuale, chi solo legge e si informa un po’ più a fondo, misura poi i limiti della sua ignoranza circa la complessità del mondo arabo e delle sue interne divisioni. Una cosa però credo che sia chiara a molti per non dire ai più: la fragilità della posizione americana relativamente alle ragioni di un intervento bellico in Siria e la sostanziale inutilità pratica di tale eventuale attacco, unitamente alla sicura pericolosità delle conseguenze su scala mondiale che potrebbero derivarne. E allora l’opinione pubblica davvero non capisce. Si può accettare, sia pur senza condividere, la cinica necessità delle azioni di forza nello scacchiere internazionale: è parte della politica «reale», che di certo non è modificabile dalle nobili e sagge ragioni delle cosiddette «anime belle». Ma non si può accettare che l’uso della forza appaia addirittura e persino sprovvisto di ogni razionalità coerente ed efficace. Si dice: gli Stati Uniti, il loro Presidente, devono intervenire per una ragione di prestigio, per tener fermi i propositi a suo tempo annunciati e perché bisogna creare un deterrente all’uso delle armi chimiche, che tutti condannano. Si può rispondere che non si salva il prestigio con azioni inutilmente distruttive, non sorrette dal diritto internazionale e dall’Onu e con esiti contrari agli scopi stessi che si proclamano, poiché il riaprirsi degli scenari della guerra fredda reca minacce, pericoli e costi di ogni genere che nessun cosiddetto prestigio potrebbe giustificare. Da tempo il prestigio mondiale degli Stati Uniti d’America è in serio declino; tutti poi ricordano le menzogne relative alle armi di distruzione di massa di Saddam (un precedente sul quale la Russia e i suoi alleati possono oggi giocare abilmente). D’altra parte,l’amministrazione Obama non è quella di Bush (anche questo lo sanno tutti). E allora chiedo se un gesto capace di rigenerare almeno in parte il prestigio internazionale perduto non potrebbe essere quello di ammettere francamente la ragionevolezza quanto meno di sospendere l’attacco, in attesa di più ampie consultazioni, di ulteriori prove, di ulteriori tentativi diplomatici. Io credo che non sia del tutto ingenuo pensare che un gesto di franca consapevolezza e di sottesa e sia pur sommessa autocritica aumenterebbe immensamente quel prestigio personale e mondiale che si dice Obama vorrebbe difendere. Se è così, avanti a tutta forza, certo, con le iniziative e le manifestazioni pacifiste in ogni paese e sede pubblica; ma nel contempo si continui a rivolgere un invito pressante alla diplomazia europea (e italiana in particolare) perché trovi i canali efficaci al fine di convincere gli Stati Uniti che al momento attuale un rinvio nessuno lo avvertirebbe davvero come una sconfitta, ma anzi come un prova di maturità e di reale forza nella condivisione e nella conduzione della vita politica sul pianeta.

La Stampa 8.9.13
La Russia al bivio
Navalny all’assalto di Mosca “Farò crollare il sistema-Putin”
Oggi si vota. Escluso dalla tv, il blogger candidato sindaco ha fatto 3 comizi al giorno
di Mark Franchetti


Per strada «Ho incontrato e parlato direttamente ad almeno l’un per cento dei moscoviti». Fanno 100 mila persone L’avversario Sobianin ha cercato di inseguirlo sul suo terreno. Ma quando ha sostenuto di aver preso la metro,tutti si sono messi a ridere

Il palco è una piccola pedana messa fuori da un grigio centro commerciale di epoca sovietica, in uno dei più poveri quartieri operai di Mosca. I pensionati e passanti presenti non raggiungono i duecento. Ma quando Alexei Navalny, il leader dell’opposizione più in vista in Russia che si candida a sindaco di Mosca, comincia a parlare si capisce subito che c’è qualcosa di nuovo.
Vestito casual, jeans e maglione, il blogger e attivista anti-corruzione parla con passione, denunciando la corruzione endemica, i vertiginosi tassi di criminalità, le scarse condizioni delle abitazioni e l’immigrazione illegale che affliggono la capitale. Parla chiaro, ha la battuta pronta e mostra sicurezza quando risponde alle domande del pubblico, prima di venire sommerso da decine di sostenitori che gli chiedono di posare per una foto e lo supplicano di dargli l’autografo. «Vai, Alexei, vai, siamo tutti con te, fino al Cremlino», grida uno dei fan.
«Mosca è la città con il terzo budget per grandezza al mondo, ma per gli standard di vita siamo al 154° posto», dice Navalny, che cova ambizioni presidenziali. «Perché? A causa della spudorata corruzione dei grassi gattoni corrotti che rubano il futuro, mio, vostro e dei nostri figli. Voglio mettere fine a questa ruberia. Vivo nella strada accanto, in un piccolo appartamento. Conosco i vostri problemi di tutti i giorni, perché sono anche i miei».
Avendo avuto l’accesso alla tv di Stato sbarrato, perseguitato dal Cremlino e a corto di fondi, il 37enne Navalny è andato a conquistare gli elettori per strada e in Internet. In un mese ha tenuto 80 incontri per strada con moscoviti comuni e ha coinvolto 14 mila volontari, soprattutto giovani liberali a loro agio con Internet, nella sua campagna. Per la prima volta in Russia, la sua campagna elettorale viene finanziata con donazioni pubbliche e ha raggiunto il record di 3,2 milioni di dollari di raccolta.
«Cerco di incontrare più elettori possibili», racconta in mezzo al casino del suo quartier generale, stipato di gente, con decine di giovani volontari che lavorano sui portatili. «Qualcuno può ridere, ma alla fine della campagna conto di aver parlato faccia a faccia con l’un per cento degli elettori moscoviti. Che hanno tutti famiglie e amici, e quindi alla fine riuscirò a raggiungere un mare di gente. Nessuno l’ha mai fatto prima nella politica russa».
La tattica di Navalny è in netto contrasto a quella del suo principale rivale, il sindaco uscente Serghei Sobianin. Fedele alleato del presidente Putin, Sobianin ha un accesso quasi illimitato alla tv nazionale, fondi abbondanti, un nutrito staff e l’appoggio incondizionato del Cremlino. I suoi assistenti hanno dichiarato che ha preso la metropolitana per evadere i famigerati ingorghi della città: una dichiarazione talmente improbabile che è stata accolta da risate. Il 55enne Sobianin si è rifiutato di partecipare a dibattiti tv con Navalny e gli altri candidati. Navalny, le cui denunce di corruzione hanno fatto infuriare il Cremlino, ha pubblicato il mese scorso documenti su appartamenti milionari posseduti apparentemente dalle due figlie del sindaco.
«La Russia sta assistendo alla prima campagna elettorale di stampo occidentale», ha scritto Yulia Latynina, una delle più acute commentatrici politiche russe. «La campagna di Navalny ha creato un precedente. Incontra gli elettori tre volte al giorno per spiegargli perché dovrebbero sostenerlo. La campagna di Sobianin invece è tipica di tutti i candidati del Cremlino, evita i dibattiti. E ora le autorità sono nel panico».
Sobianin è certo di vincere. Ma Navalny, che in poche settimane ha superato tutti gli altri candidati ed è ora il principale rivale del sindaco, potrebbe ottenere fino al 20%. Un risultato importante per un outsider. Considerato la figura politica più interessante emersa in Russia nell’ultimo decennio, ha avuto il permesso del Cremlino di correre alle elezioni di oggi per dare al voto un’apparenza di legittimità. Ma il successo della sua campagna, nonostante le difficoltà e gli ostacoli, si è rivelato il test più importante per il Cremlino dalla rielezione di Putin, più di un anno fa. Il sindaco è sceso drasticamente nei sondaggi nelle ultime settimane. «Ovviamente queste elezioni non sono oneste né libere», dice Navalny mentre batte sui tasti del suo portatile, decorato con l’adesivo «Putin ladro». «Non ho accesso alla tv, non ho i fondi e le risorse di cui dispone Sobianin. La gente viene ammonita di non affittarsi sale per gli incontri e di togliere i nostri manifesti. In queste condizioni, quello che abbiamo ottenuto è già una vittoria».
Il futuro di Navalny non potrebbe essere più incerto. Nel luglio scorso è stato condannato a 5 anni di carcere per appropriazione di fondi statali. La maggioranza degli esperti ritiene che le accuse fossero state montate e politicamente motivate. Navalny, padre di due figli piccoli, è stato arrestato in aula, mentre 10 mila suoi sostenitori invadevano le strade del centro di Mosca per protestare. In una sorprendente svolta, è stato rilasciato il giorno dopo, in attesa del processo di appello, alla fine di questo mese. Se la sentenza venisse confermata resterebbe dietro le sbarre fino al 2018. La decisione, dicono gli informati, verrà presa solo da Putin, e dipenderà sul risultato che la sua nemesi otterrà nelle elezioni di oggi.
«Non ho idea di quello che accadrà», commenta Navalny, che ha definito il processo «una farsa». «Un buon risultato elettorale può rafforzare come indebolire l’intenzione di Putin di mettermi dentro. Non ho paura, sono sempre stato pronto alla prigione, se è il prezzo per le mie idee. Per ora mi concentro sulle elezioni. Cosa mi aspetta dopo è un altro problema. Una cosa è certa: non mi arrenderò».

Corriere 7.9.13
“Oltre il cristianesimo”
Il saggio di Marco Vannini sulla mistica
Oltre la soglia del cristianesimo
di Armando Torno


Il lavoro di Marco Vannini è prezioso per la cultura italiana, anche se nel Paese che ha avuto come nessun altro umanisti, santi e mistici oggi si preferisce la frivolezza alle riflessioni, la chiacchiera alla meditazione. Dopo aver riportato alla luce autori quali Meister Eckhart o Taulero, Margherita Porete o Jean Gerson, Sebastian Franck o Angelus Silesius, Vannini ha scritto diversi libri degni della massima considerazione. Di quest'anno segnaliamo Lessico mistico. Le parole della saggezza (pubblicato da Le Lettere); ora esce da Bompiani Oltre il cristianesimo (pp. 320, 14), un saggio in cui non soltanto scava nella tradizione occidentale ma si rivolge anche a quella dell'Oriente.
Dopo un capitolo su Meister Eckhart, autore al quale ha dedicato la vita, Vannini si concentra sul mondo che ha dato allo spirito umano le Upanishad o la Bhagavadgita; esamina il buddhismo, chiude con la straordinaria figura di Henri Le Saux, sacerdote, liturgista, esperto di canto gregoriano. Di lui scrive semplicemente, con sintesi che ne tratteggia l'opera: «Quel passaggio in India che Plotino non riuscì a compiere lo ha compiuto ai nostri giorni Le Saux». Era un monaco cristiano-hindu che poteva cercare, al pari di Eckhart, Dio e l'anima attraverso quei percorsi che dall'oracolo di Delfi giungono ad Agostino. Il «Conosci te stesso» diventa essenziale per accostarsi alla soglia di Dio: è una sorta di passaggio obbligato, presente nelle spiritualità più elevate; anzi questa massima, come una cupa solfa, rimbomba senza requie negli animi che hanno veramente cercato le dimensioni divine. «Il primo compito dell'uomo — scrive Le Saux — è rientrare all'interno e incontrare se stesso. Chi non ha incontrato se stesso come potrà incontrare Dio? Non si incontra il Sé indipendentemente da Dio. Non si incontra Dio indipendentemente dal Sé».
Nella parte su Eckhart, Vannini offre preziosi rimandi a Friedrich Nietzsche, filosofo «non certo sospetto di simpatie cristiane e tanto meno agostiniane»: i due, a distanza di mezzo millennio, convengono «sulla necessità di liberarsi anche della verità, ovvero del preteso possesso di essa». Mirabili le osservazioni sul «distacco». In tal caso Vannini parte da Plotino con il suo invito che si perde negli orizzonti più luminosi: «Afele pànta», ovvero «distaccati da tutto»; è questa l'«essenza delle religioni spirituali», brahmanesimo, buddhismo, cristianesimo. Eckhardt lascia proprio nelle sue Istruzioni spirituali parole che chiudono il senso di questi nostri semplici cenni: «Vigila dunque su di te, e, non appena trovi te stesso, rinuncia a te stesso; questa è la cosa migliore che tu possa fare».
Il libro di Vannini reca riflessioni che non lasciano indifferenti e crea un abbraccio tra Oriente e Occidente, quasi desideri evocare il sogno di Plotino. L'antico filosofo, maestro della mistica classica, seguì — narra Porfirio — la spedizione di Gordiano contro i persiani cercando di conoscere la loro filosofia e quella «che predominava tra gli indiani», ma non riuscì. In queste pagine l'autore lo fa amare, giacché colui che chiedeva di far «risalire» il divino che è in noi al divino che è nell'universo diventa l'ospite fisso delle meditazioni più alte. Un passo delle Upanishad ci aiuta a chiudere i diversi percorsi: «Chi venera una divinità considerando che essa sia altra da sé: "Altri è il Dio, e altri sono io", costui non sa. Per gli dei egli è come una bestia».

Corriere 7.9.13
Luzzatto e il segreto di Levi, polemica a Mantova
di Cristina Taglietti


MANTOVA — Alla vigilia dell'8 settembre al Festivaletteratura di Mantova si parla di scrittori e partigiani. A cominciare da Beppe Fenoglio, al centro di una serie di incontri che celebrano i cinquant'anni della morte. Se oggi e domani quattro autori si concentreranno sulla sua scrittura scegliendo ciascuno un'opera e una parola per definirla (questa sera Eraldo Affinati parla di energia, Marcello Fois di sobrietà; domani Paolo Giordano di natura, Davide Longo di gesto), ieri Piero Negri Scaglione ha messo a fuoco la redazione de Il partigiano Johnny come momento chiave per comprendere la personalità dello scrittore.
Ma ieri si è tornati a parlare anche dell'esperienza nella Resistenza di un altro scrittore piemontese, Primo Levi, al centro di Partigia (Mondadori), il libro dello storico Sergio Luzzatto che prima dell'estate ha suscitato un acceso dibattito sulle pagine culturali, riproponendo le contrapposizioni tra destra e sinistra. Contrapposizioni a cui lo stesso Luzzatto aderisce quando dice che la sua sconfitta è stata vedere che «Partigia è stato accolto dai fascisti come un libro pieno di meriti e dagli antifascisti come un libro pieno di peccati. Il che è un paradosso perché io sono più vicino ai secondi». Luzzatto ha paragonato il nuovo libro a quello (molto critico) su Padre Pio: «Partigia è scritto con buone intenzioni, come l'altro. Perché allora da una parte, dalle stesse persone, ci sono stati elogi e qui anatemi?».
Ieri si è tornati sul tema con Marco Belpoliti, studioso di Primo Levi, che da subito ha dichiarato di essere critico con l'opera di Luzzatto. Partigia ruota intorno al cosiddetto «segreto brutto» (essere stati «costretti dalla nostra coscienza a eseguire una condanna») cui Primo Levi fa riferimento nel racconto Oro del Sistema periodico. Che sarebbe, secondo Luzzatto, l'esecuzione, nell'autunno del '43, di due giovani partigiani da parte di alcuni compagni, tra cui lo stesso Levi. «Un libro che la struttura narrativa, da romanzo, rende ambivalente, se non ambiguo, dal punto di vista della ricerca storica» dice Belpoliti. Il critico si addentra in una puntuale analisi filologica, attraverso le opere di Levi, per sostenere che non ci sono le basi per inserire, come fa Luzzatto, un brano di Se questo è un uomo o la poesia Partigia, o una lettera scoperta dall'autore, nel recinto del «segreto brutto». Non ci sono elementi, secondo Belpoliti, per dire se Levi partecipò o no all'esecuzione. «Perché allora coinvolgerlo? — si è chiesto il critico — perché Levi è un mito. Ma questo è un libro a metà, che si ferma sulla soglia».
Luzzatto non segue Belpoliti sul terreno filologico («Tra poco c'è Grossman e voglio lasciare al pubblico la possibilità di andare a sentirlo») ma spiega che Partigia voleva raccontare tutta (o quasi) Resistenza. «Che sia stato ridotto solo al "segreto brutto" è deludente, ma forse è giusto perché questo è il cuore di tenebra del libro. La verità è che prima di me nessuno si è sprecato ad andare a cercare negli archivi, nessuno ha riletto l'opera di Levi alla luce di quella frase del Sistema periodico».
La verità, secondo Luzzatto, è che una figura come quella di Levi non guadagna dall'essere mitizzata. «Il segreto brutto è la spia della zona grigia dentro la Resistenza — dice lo storico —. Levi, che non ha mai smesso di approfondire il tema della deportazione, non ha mai voluto dire di più sulla Resistenza, perché farlo, soprattutto negli anni in cui i fascisti mettevano le bombe, erano incistati nel cuore dello stato, era troppo scabroso».
Partigia inizia con l'immagine dell'autore bambino a cui la madre legge le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. «Vorrei regalarlo ai miei figli — conclude Luzzatto — ma solo quando saremo pronti a guardare questa storia fino in fondo e tutta la verità verrà fuori».

Corriere 7.9.13
Il breve concordato tra l’ebraismo e il fascismo
risponde Sergio Romano


Un recente catalogo di monete offre una medaglia recante al dritto (scritta in carattere maiuscolo): «Vittorio Emanuele III Re/Benito Mussolini Capo del Governo/Le Comunità ebraiche d'Italia a ricordo della/ legge 30 X 1930 IX» e al rovescio: «Senza/ la legge/ cielo e terra crolle/rebbero» (Incisore Arrigo Minerbi). Potrebbe illustrare l'occasione, i fini, all'origine di questa legge del 1930? Testimonia un accordo e interesse del regime verso le comunità ebraiche o si trattò di propaganda?
È un episodio noto e ben studiato?
Roberto Costanzo

Caro Costanzo,
Qualche parola, anzitutto, sull'autore dell'incisione. Arrigo Minerbi fu uno degli artisti più noti della prima metà del Novecento. Nato a Ferrara nel 1881, fu allievo di Giovanni Fattori all'Accademia di Firenze, ma scelse la scultura e si fece presto conoscere per opere religiose, funerarie e patriottiche in uno stile dapprima simbolista, poi classicheggiante. Scolpì tra l'altro un trittico in bronzo e marmo di Cesare Battisti, che fu comperato da casa Savoia e donato al Castello del Buon Consiglio di Trento, dove il patriota era stato impiccato. Nel 1943, mentre amici e parenti della comunità ebraica ferrarese venivano deportati, trovò rifugio nella casa Opera Don Orione di Roma. Prima della morte, nel maggio 1960, portò a termine un'opera iniziata alla fine degli anni Trenta: una porta bronzea del Duomo di Milano dedicata all'Editto di Costantino. È sepolto nel cimitero israelitico di Ferrara.
La legge e il conio della moneta celebrativa appartengono alla «luna di miele» che segnò i rapporti fra le comunità ebraiche e il fascismo all'inizio degli anni Trenta. Nei mesi precedenti vi erano state in Italia manifestazioni sioniste che avevano suscitato critiche antisemite e reazioni negative dello stesso Mussolini. Che cosa è l'ebraismo italiano? Una religione o una nazionalità? Erano queste le domande che alcuni ambienti del regime indirizzavano polemicamente alle comunità ebraiche. Mussolini sembrò dapprima condividere quelle critiche, ma aveva almeno due motivi per desiderare un clima diverso. In primo luogo, come ricorda Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, si proponeva di usare il sionismo per contestare la presenza britannica in Palestina. In secondo luogo sapeva che gli ebrei italiani godevano di molto prestigio nelle comunità ebraiche del Levante e riteneva che sarebbero stati utili alla politica estera dell'Italia nel Mediterraneo.
Non esisteva allora una legge nazionale che riconoscesse l'esistenza delle comunità, le loro prerogative, i loro diritti. Quando il rabbino di Roma Angelo Sacerdoti ricordò al governo che i loro statuti erano ancora regolati dalle leggi degli Stati preunitari e potevano variare considerevolmente da una città all'altra, il ministro della Giustizia Alfredo Rocco nominò una commissione per predisporre un progetto che fu approvato nel giro di sei mesi e divenne legge nel 1931. Le nuove norme prevedevano, tra l'altro, la tassazione obbligatoria di tutti gli iscritti alle singole Comunità e garantivano in tale modo la loro autonomia finanziaria. La legge non piacque agli antifascisti e Filippo Turati scrisse al rabbino Sacerdoti: «Come il Papa è Papa perché vescovo di Roma, così Ella, come Rabbino Maggiore, sarà il Papa degli israeliti d'Italia con l'approvazione del governo». Alla maggioranza dell'ebraismo italiano, invece, la legge parve invece una sorta di utile Concordato. Ma la luna di miele, come sappiamo, durò purtroppo soltanto sino alla Seconda metà degli anni Trenta.

La Stampa TuttoLibri 7.9.13
Le illusioni della mente
Quando Sacks scambiò il canyon per i suoi genitori
Dalle «stranezze» dei vecchietti a quelle di Giovanna d’Arco, alle visioni estatiche di Dostoevskij Tutto cominciò nel 2006 quando una donna cieca «vide» persone con abiti orientali per le scale
Il neurologo inglese “celebra” gli ottant’anni con un catalogo di casi clinici e confessa le proprie esperienze allucinogene
di Marco Belpoliti


Oliver Sacks «Allucina­zioni» Adelphi pp. 330, € 19

Nel novembre del 2006 il dottor Oliver Sacks riceve una telefonata dalla casa di riposo presso cui lavora. Una delle ricoverate, Rosalie, ha delle visioni, allucinazioni che la tormentano, da lei ritenute reali. La donna, come scopre il dottore, è cieca, tuttavia «vede» cose di fronte a sé: persone con abiti orientali, che salgono e scendono le scale. La cosa strana è che, seppur priva di vista, quando ha queste allucinazioni Rosalie muove gli occhi avanti e indietro. Sacks, gran lettore di casi clinici, decifra subito il disturbo: sindrome di Charles Bonnet. Bonnet era un naturalista svizzero del 700; ci ha lasciato una descrizione completa delle «visioni» del nonno, Charles Lullin, in un taccuino di 18 pagine andato perso per centocinquant’anni, poi ricomparso e pubblicato: le visioni – un fazzoletto azzurro con un cerchio giallo in ogni angolo – duravano qualche mese e poi scomparivano.
Partendo dal caso di Rosalie, Sacks descrive il gran pelago delle allucinazioni che tormentano, a volte con esiti infausti, le persone per periodi più o meno lunghi. Un catalogo impressionante. La parola «allucinazione» è entra nell’uso corrente nella seconda metà del Cinquecento. In Italiano compare solo nel 1569 con un significato riguardante la vista: abbagliare, confondere. Il termine latino, da cui proviene, attiene invece la voce, il discorrere: vaneggiare, parlare vanamente.
Secondo Oliver Sacks, grande specialista di stati alterati, raccontati con dovizia di dettagli nei suoi libri, in particolare in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), avrebbe in origine un significato diverso: «mente errante», «apparizione». Negli anni Trenta dell’Ottocento, ci ricorda Sacks, il celebre psichiatra Jean-Etienne Esquirol diede infine al termine il significato che ha attualmente: allucinazione, illusione. Avere delle allucinazioni significa vedere o sentire cose che sembrano reali, ma non lo sono: oggetti, persone, mostri, fantasmi, animali, spazi che si di-
latano o si restringono, voci, e persino esperienze tattili. Insomma, un catalogo di azioni imprevedibili, inattese, angoscianti. Tutto avviene nel nostro cervello, ma al tempo stesso si ha la sensazione di qualcosa di «reale», di presente, tangibile.
Sacks nel corso della sua lunga carriera di neurologo – in luglio ha compiuto ottanta anni – ha accumulato un vero e proprio regesto di allucinazioni, casi clinici, che riguardano sindromi visive e auditive: illusioni, epilessia, deliri, stati ipnotici, narcolessia, «doppi», «arti fantasma». Naturalmente ci sono anche gli stati indotti da droghe o sostanze; nel 1954 Abram Hoffer e i suoi collaboratori usarono per primi il termine hallucinogens («allucinogeni») per indicare sostanze che producevano stati alterati della mente e della coscienza.
Come nel precedente libro, L’occhio della mente (2011), le parti più appassionanti sono quelle in cui Sacks racconta di sé, delle proprie malattie o, come in questo caso, le proprie allucinazioni. Alla metà degli anni Sessanta, quando risiedeva sul bordo di un canyon in California, Sacks ingerì varie sostanze che gli provocarono allucinazioni visive di diversa natura, come l’apparizione di un elicottero con i genitori a bordo che scendeva a fianco della casa. Chi conosce i suoi libri – undici dal 1970 – sa che le patologie sono tra le cose che più lo interessano. Le sa ascoltare con un’attenzione e una memoria considerevoli. Sfilano così davanti agli occhi dei lettori sconosciuti e personaggi famosi, vivi e morti.
Il neurologo s’interessa alle allucinazioni di vecchietti come a quelle di Giovanna d’Arco; argomenta sulle visioni estatiche di Dostoevskij, che influenzarono suoi romanzi, dove si trovano un numero incredibile di epilettici e di visionari; e poi gli diagnostica la sindrome di Geschwind: personalità interictale, ovvero grande interesse per la religione insieme a comportamenti scrittori compulsivi. Le descrizioni delle visioni di cui soffrono i suoi pazienti sono dettagliate e sovente spaventevoli; aprono squarci sul cervello umano che lasciano basiti e fanno pensare che la normalità sia in effetti uno stato parziale e per lo più eccezionale.
Sacks, raccontando i casi clinici e le varie sindromi (straordinarie le pagine sull’arto fantasma), ci fa capire che lo stato di salute è solo un’isola nel mare procelloso delle tempeste prodotte dal nostro cervello a causa di una caduta, di un tumore, dell’invecchiamento o di malattie encefaliche. Leggendo vecchi libri di medicina Sacks scopre personaggi eccentrici che hanno individuato sindromi che prendono il loro nome, come esempio la narcolessia, «inventata» da Jean-Baptiste-Edoard Gélineau, medico francese dell’Ottocento, che studiò il caso di un vinaio.
Sacks ci fornisce ipotesi sul funzionamento del nostro cervello usando le sue vaste conoscenze di neurologia e le recenti scoperte intorno alle aree del cervello, ma il suo racconto non appare mai un arido resoconto clinico. È uno scrittore e possiede anche un’umanità calorosa, che probabilmente gli deriva dai suoi stessi problemi psicologici, dalla capacità di utilizzare la sua natura timida, pasticciona e imbarazzata, come ha raccontato lo scrittore Paul Theroux in un suo libro. Alla fine di Allucinazioni ci si familiarizza con le patologie più strane, pronti ad affrontare eventuali «apparizioni» visive o auditive che potrebbero capitarci, anche con la speranza di trovare un «neurologo da strada» come Oliver Sacks, che sappia ascoltare. Esiste il malato, non la malattia.

La Stampa TuttoLibri 7.9.13
L’intervista a Will Self
I personaggi: Ronald Laing, Oliver Sacks
“Il mio è un viaggio al centro della follia”
“Mi misuro con Joyce sul filo della follia”
"Un medico «risveglia» una donna colpita da encefalite letargica e ricostruisce destini incrociati"
Un viaggio nella coscienza del ’900 tra guerre, femminismo e psichiatria
di Egle Santolini


Will Self «Ombrello» Isbn pp. 386 € 26,50

Lo scrittore inglese Will Self (52 anni) è tra gli ospiti del Festivaletteratura di Mantova: i suoi ultimi libri tradotti in Italia sono «Una sfortunata mattina di mezza estate» (Fanucci); «Dr. Mukti e altre sventure», «Dorian», «London. Appunti da una metropoli» (Mondadori); «Grandi scimmie» (Feltrinelli)

Polemista, giornalista, narratore seguitissimo in Gran Bretagna, l’ex ragazzo terribile Will Self ha scritto un libro decisivo, Ombrello , che l’anno scorso è entrato tra i finalisti del Man Booker Prize e che ora esce per Isbn nella traduzione degli ardimentosi Gaja Cenciarelli, Andreina Lombardi Bom e Daniele Petruccioli. Alternando tre piani temporali, Self ricostruisce la figura di Audrey, una ragazza di Londra prima operaia in una fabbrica di ombrelli e poi «munitionette» nell’industria bellica, socialista e suffragetta, che subito dopo la Grande Guerra viene colpita dall’encefalite letargica. Alla sua s’intrecciano le vite dei fratelli Albert e Stanley e quella dello psichiatra che, negli Anni Settanta, propizia il suo «risveglio». Alle enormi ambizioni del libro corrisponde, per fortuna, un risultato sorprendente. Signor Self, «Ombrello» co­stituisce una vera sfida per l’autore e il lettore. Lei ne parla in termini di assoluta necessità, come di un libro che implorasse di essere scritto. Come si è formata l’idea nella sua testa? «Di certo ero interessato all’impatto della tecnologia sulla psiche umana, e a quello della Prima guerra mondiale sulla civilizzazione europea. Poi mi sono trovato a considerare, data la mia passione per l’urbanistica e la psicogeografia, come Londra all’inizio del Novecento fosse al culmine della propria modernità: il secolo che è seguito non è stato altro che un lento declino, nel 1900 avevamo già una metropolitana completamente elettrificata… A quel punto ho riletto Risvegli di Oliver Sacks e tutte queste idee si sono coagulate in un “e se?”. E se un singolo soggetto patologico potesse sostanziare un’intera evoluzione socioculturale? Il materiale psichico del romanzo, cioè i Death, sono stati forniti dalla mia famiglia. Albert Death è mio nonno, Samuel Rothschild Death il mio bisnonno, ed è ovvio il nesso fra i cognomi Death, morte, e Self, sé stesso. Ho scoperto un prozio, Stanley, del quale non avevo mai sentito parlare, ed ecco la linea narrativa sul fratello perduto». A proposito di necessità, lei ha dichiarato che la tec­nica del flusso di coscien­za per entrare nella testa dei suoi personaggi, e il ri­ ferimento alla loro quoti­ dianità, le è sembrata l’unica via possibile. La forma joyciana dopo qua­ si un secolo è ancora insu­ perata? «Non so dire se Ombrello sia joyciano in senso stretto. Certo alcuni passi dell’ Ulisse utilizzano quel misto di narrazione totalizzante, discorso libero indiretto e stream of consciousness che impiego anch’io: ma Joyce fa tanto di più, e in lui molto è parodia. In Ombrello di parodia non ce n’è. Quando è uscito in Inghilterra ho suggerito che fosse un omaggio allo stile modernista, per dare un aiutino ai critici che in fondo adorano roba come l’intertestualità… Ma in realtà non mi è mai importato molto della relazione con il modernismo: Ombrello è un libro su personaggi reali, non su altri libri. Non riesco più a scrivere del vissuto semplicemente usando il tempo passato, e la vita non ha paragrafi». E appunto nella man­canza joycia­na di paragrafi sta una delle difficoltà più evidenti per il lettore. Ma le parole in cor­sivo? «Esprimono i pensieri dei personaggi nel momento strano e nebuloso in cui diventano parole. Per la maggior parte, naturalmente, i nostri pensieri sono sensoriali e preverbali. Ma qualche volta le parole sono pensieri». Dietro la sua scrittura si in­tuisce una profonda opera di documentazione. Come lavora? «Leggo, penso, guardo molte immagini. I miei personaggi edoardiani, pur non essendo illetterati, appartengono a una nuova cultura estremamente visuale: spero di essere riuscito a renderne il modo sensuale di percepire il mondo. Credo che troppi libri siano stati scritti da gente che ha letto troppi libri. Nessuno sa davvero come si parlasse verso il 1900: ci resta soltanto la versione letteraria dell’inglese colloquiale, edulcorata e censurata. Volevo superare la versione scritta, dare un tono gestuale e non verbale alla pagina».
Che cosa significa il personaggio dello psichiatra Zack Busner, ricorrente nei suoi libri? «È sempre stato ispirato a RD Laing e agli antipsichiatri degli Anni Sessanta, una corrente di pensiero che mi ha influenzato profondamente. Da ragazzo (e anche da grande!) ho avuto problemi di salute mentale. Laing, Thomas Szasz, Michel Foucault mi hanno soccorso quando la follia mi sembrava inventata da chi pretendeva di “curarmi”. Quando ho cominciato a scrivere narrativa, fabbricarmi uno psichiatra anticonformista mi è sembrato ovvio: una specie di gerofante, un sommo sacerdote scismatico della religione della sanità mentale e del suo credo farmacologico. Sono stato influenzato anche dal dottor Benway, personaggio del Pasto nudo di William Burroughs, e da alcuni psichiatri di J.C. Ballard. In alcuni casi, soprattutto in Grandi scimmie , Busner ha preso i connotati di Oliver Sacks. Poi ha continuato a evolversi, incorporando tratti narrativi dei vari terapeuti che ho frequentato. È stato uno strumento satirico, un modo di parodiare i medici dell’anima. E infine, in Ombrello , l’ho rivoltato completamente. Sono penetrato nella sua vita interiore, ho cercato di capire chi fosse mettendolo a confronto con i suoi pensieri. Ho trovato questo fatto molto commovente: finalmente ho fatto la conoscenza di una persona che frequentavo superficialmente da vent’anni». A proposito di Sacks, ha discusso con lui il ruolo che l’epidemia di encefalite letargica e i «risvegli», hanno nella trama di «Om­brello»? «L’ho conosciuto quando avevo forse 17 anni, perché mia madre lavorava per il suo primo editore. Non l’ho contattato prima di pubblicare Ombrello , ma quando ho letto il suo libro di memorie Zio Tungsteno ho scoperto che, come Zack Busner, aveva avuto anche lui un fratello schizofrenico. Allora gli ho scritto: non volevo che pensasse che avessi sfruttato la sua vita. Mi ha risposto con cordialità e da lì è cominciata una corrispondenza».

Corriere Salute 8.9.13
L'allievo di Pasteur che scoprì il bacillo della peste nera
di Ruggiero Corcella


«Cara madre sono certo che siate piuttosto ansiosa di ricevere questa lettera, poiché sono consapevole di trovarmi in un luogo dove non ci si reca esattamente per un viaggio di piacere!».
Alexandre Emile John Yersin (nato il 22 settembre 1863 a Lavaux, vicino ad Aubonne, sulle rive del lago Lemano in Svizzera, e morto il 28 febbraio 1943 a Nha Trang in Vietnam) usa l'arma dell'ironia per descrivere la situazione ad Hong Kong. Alexandre scrive alla madre Fanny due volte la settimana, costantemente, da quando ventenne è andato a studiare Medicina prima a Marburgo, poi a Berlino, a Jena (qui, da Carl Zeiss acquista il microscopio migliore, che porterà sempre con sé in giro per il mondo e grazie al quale farà le scoperte più importanti) e a Parigi. È il 24 giugno 1894 e da nove giorni il medico trentunenne, allievo di Louis Pasteur, sta combattendo la battaglia contro il morbo che da lui prenderà il nome, Yersinia pestis, e che lo innalzerà fino all'Olimpo della scienza.
Sul terreno dell'ex colonia britannica, il giovane svizzero naturalizzato francese deve misurarsi non solo con la «Morte nera» (così veniva definita la peste), ma anche con il collega-rivale giapponese Shibasaburo Kitasato, discepolo di Robert Koch ed elemento di spicco dell'Institut fondato dal Premio Nobel tedesco a Berlino.
La lotta è senza esclusione di colpi: Yersin accusa Kitasato e il suo team di accaparrarsi l'esclusiva sui cadaveri da sezionare, a colpi di «mazzette». Lui però farà lo stesso aiutato da Padre Viganò, un missionario italiano francofilo. Il confronto tra i due microbiologi fa da spartiacque del racconto in «Peste & colera», il libro di Patrick Deville sull'«ultimo dei pasteuriani», nelle librerie dal 6 settembre (Edizioni e/o).
L asciamo all'autore descrivere l'esito della disputa: «Viganò unge le ruote dei marinai inglesi in servizio all'obitorio dell'ospedale dove sono accatastati i cadaveri in attesa del rogo o del cimitero e gliene compra qualcuno. Yersin lavora di bisturi ... "Il bubbone è ben evidente. Lo estraggo in meno di un minuto e salgo nel mio laboratorio. Faccio rapidamente un preparato e lo metto sotto il microscopio. Al primo colpo d'occhio riconosco un purè di microbi tutti simili fra loro. Sono piccoli bastoncini tozzi dalle estremità arrotondate". Tutto è già stato detto. Nessun bisogno di scrivere un libro di memorie. Yersin è il primo uomo a osservare il bacillo della peste ...».
Nonostante le polemiche a suon di pubblicazioni su riviste internazionali, alla fine il mondo scientifico dichiarerà vincitore Yersin (anche se qualcuno continua a reclamare almeno un ex aequo...). Alexandre chiamerà il bacillo Pasteurella pestis, in onore del suo mentore. Sarà ribattezzato Yersinia solo nel 1944. Non è falsa modestia, quella di Yersin. Al «grande vecchio» fondatore della moderna microbiologia, deve molto. E non solo dal punto di vista professionale.
Alcune biografie riportano che nel 1886 Yersin, ancora studente, si infetta durante un'autopsia sui cadaveri dei pazienti di Pasteur all'obitorio dell'Hotel Dieu e viene salvato dal siero antirabbia. Ad iniettarglielo sarebbe Émile Roux, il più famoso dei «pasteuriani». Nel suo libro, Deville sorvola sull'episodio. Racconta solo che Yersin manda i risultati delle analisi batteriologiche sulle salme a Roux. Entrambi orfani di padre, Yersin e Roux si conoscono all'obitorio «in mezzo ai cadaveri morti di rabbia, e la loro vita ne viene sconvolta». Comunque sia andata, continua Deville, «Roux presenta Yersin a Pasteur. Il giovane timido scopre il luogo e l'uomo, e in una lettera a Fanny scrive: "Lo studio di Pasteur è piccolo, quadrato, con due grandi finestre. Sopra a un tavolino vicino a una finestra ci sono dei calici che contengono il virus da inoculare". Di lì a poco Yersin si stabilisce in rue d'Ulm». Lavora sui pazienti colpiti dalla rabbia, ma assieme a Roux scopre anche la tossina della difterite. Alexandre non è però un «topo» da laboratorio. Fin da piccolo coltiva la passione per le esplorazioni.
Già ai tempi del suo breve soggiorno di studio a Berlino scrive alla madre: «Mi rendo conto che giungerò fatalmente all'esplorazione scientifica. Ho troppa passione per questa cosa, e tu ricorderai come sia sempre stato il mio intimo sogno quello di ripercorrere da lontano le tracce di Livingstone». Eccolo dunque nel 1890 imbarcarsi sulla nave Oxus, in partenza per l'Estremo Oriente. La lettera di presentazione di Pasteur gli ha spalancato le porte della compagnia Messageries Maritimes come medico di bordo: prima sulla linea Saigon-Manila e poi Saigon-Hanoi. Da allora il Vietnam gli entra nel sangue. A 29 anni, Yersin si stabilisce a Nha Trang. È il primo medico occidentale della regione. Gli abitanti del posto lo chiamano con affetto dottor Nam, «lo zio Cinque, in onore dei cinque galloni dorati sull'uniforme bianca», spiega Deville, che Yersin portava quando era medico di bordo. Sul «promontorio dei Pescatori» il medico svizzero si fa costruire una baita di legno dove cura gratuitamente i poveri.
N ha Trang diventa il campo base delle esplorazioni che nei due anni successivi Yersin condurrà anche in Cambogia e Laos, scoprendo terre vergini e inaugurando così nuove vie di comunicazione. I suoi resoconti sono pubblicati nella rivista della Société de Géographie. È la sua consacrazione al rango di esploratore internazionale. Assieme a Paul Doumer, allora governatore generale dell'Indocina francese e futuro presidente della Francia, fonda anche una città: Da Lat.
Ma il genio multiforme di Yersin trova modo di esprimersi anche nel campo dell'agricoltura e dell'allevamento. Nel 1899 introduce l'albero della gomma in Indocina. Nel 1915 apre una stazione agricola attorno al suo chalet di Hon Ba. Conduce esperimenti per acclimatare le piante di Cinchona, dalle quali si ricava il chinino necessario a tutta l'Indocina. Anche per questo Yersin, quasi sconosciuto in Svizzera e Francia, è invece venerato come un bodhisattva (cioè, un saggio illuminato buddista) nella pagoda di Suoi Cat a Nha Trang e la sua tomba è meta di pellegrinaggio.
P atrick Deville racconta un particolare curioso e sconosciuto. Nella fattoria di Suoi Giao (dove è sepolto), Yersin fa piantare «anche piante medicinali, fra le quali mille gambi di Erythroxylum coca per la preparazione della cocaina, a quel tempo utilizzata in farmacia».
«Yersin incrementa la produzione e immagina un concentrato liquido, che avrebbe potuto fare di lui il miliardario inventore di una bibita nera e frizzante, se solo ne avesse depositato il brevetto. Dà a quella cosa il nome di Kola-Cannelle, che potrebbe abbreviare in Ko-Ca.
Da Nha Trang scrive a Roux: «Vi ho spedito, per pacco postale, una bottiglia di Kola-Cannelle. Ne prenda un centimetro cubo e mezzo circa in un bicchiere d'acqua zuccherata quando si sentirà affaticato. Mi auguro che questo "elisir di lunga vita" abbia su di lei la stessa azione ricostituente che ha su di me».

Corriere La Lettura 8.9.13
Il paradosso del porcospino
In amore se stai (troppo) vicino ti ferisci, se stai (troppo) lontano senti freddo L'incapacità di accettare la fine di una storia
di Silvia Vegetti Finzi


Una decina di anni fa, riflettendo sulle testimonianze che compongono il libro Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli, mi sembrava evidente che la grandezza di un amore si misurasse dall'imponenza delle sue rovine. Ma ora il mondo è così cambiato che quella metafora mi appare improponibile: nella società liquida in cui viviamo, tutto scivola via e la crisi degli affetti, anche i più cari, lascia dietro di sé una scia di detriti poco visibili e difficilmente valutabili. Significa forse che erano inconsistenti? Che i legami amorosi si dissolvono nell'indifferenza generale? Che il collante che ci tiene emotivamente uniti non funziona più e che ciascuno di noi procede nella corrente del tempo nella solitudine dell'abbandono? Non credo. Penso piuttosto che la fine di una relazione venga spesso dimenticata, sottratta alla riflessione e alla condivisione ma che, come un grumo opaco, continui a interferire sulle nostre vite e a condizionare le nostre scelte. Amore e odio costituiscono da sempre i poli energetici che alimentano la nostra vita e quando l'odio prevale, l'amore si inabissa, ma non scompare. Nonostante ogni tentativo di normalizzare l'abbandono e di considerare irrilevanti le sue conseguenze, lasciarsi non va da sé.
La separazione muta il copione della nostra vita, ma gli attori dello spettacolo precedente permangono sullo sfondo come presenze incancellabili. Nulla, infatti, va perduto e, negli archivi della memoria profonda, giacciono tanto le storie concluse quanto quelle interrotte, quelle che per certi versi continuano come quelle che avrebbero potuto accadere e non sono mai accadute, pronte a ricomparire nella forma ipotetica del «se». Ogni ricordo è correlato dalle emozioni corrispondenti, ma è raro che prevalgano quelle positive. Come sanno gli psicoterapeuti, nel ricordo prevale il dolore, quasi le esperienze infelici fossero scritte nella mente con un inchiostro indelebile e quelle felici con una sostanza volatile. Scoperchiare il passato vuol dire affrontare stati d'animo più o meno penosi, come la nostalgia, il rimorso, il rimpianto. Eppure non vorremmo distruggere l'album dei ricordi, che raramente sfogliamo, perché sentiamo che racchiude la trama della nostra identità e che quanto accadrà non può essere disgiunto da quello che è stato. Nella separazione degli affetti sono contenuti tutti i temi della nostra vita: il passato, il presente e il futuro, correlati dal filo della narrazione con cui cerchiamo di conferire continuità e senso al mero succedersi degli avvenimenti. La motivazione che ci spinge a eseguire questo compito è l'amore, l'amor proprio innanzitutto nel senso di affermazione e valorizzazione di sé, e l'amore per gli altri in quanto coautori e interpreti della nostra storia.
Al «cogito ergo sum» di Cartesio aggiungerei la più impegnativa dichiarazione «amo ergo sum»: io sono la forza dei miei sentimenti.
Questa formula contiene due princìpi importanti: la relazione fonda l'identità (non c'è io senza l'altro); amore e odio coesistono. Dal loro impasto nasce l'armonia, dalla loro contrapposizione il conflitto. Mentre l'amore unisce l'odio divide, ma se amo in modo assoluto provoco una adesione fagocitante, se odio senza condizioni, una contrapposizione evitante. Come esemplifica efficacemente Schopenhauer, noi siamo come i porcospini: se stiamo troppo vicini ci pungiamo, se stiamo troppo lontani abbiamo freddo. Ogni relazione comporta di stabilire la giusta distanza, di trovare una mediazione tra la paura di perdere l'oggetto d'amore e il timore di esserne invaso.
Il primo amore, quello materno, è totalizzante, possessivo, un amore calibrato in modo da avvolgere e proteggere l'essere più indifeso del mondo, il neonato. Un amore al tempo stesso necessario e oppressivo dal quale il figlio cerca progressivamente di allontanarsi. Ma che lascia dietro di sé una scia di timore e di rimpianto. Scrive Fromm: «Non si può comprendere la vita di un uomo se non si capisce quanto oscilli tra il desiderio di ritrovare la madre in un'altra donna e il desiderio di allontanarsi dalla madre trovando una donna che sia il più possibile diversa da lei».
Vi è timore nell'amore perché, osserva Donald Winnicott, ci ricorda ciò che vorremmo dimenticare: di essere stati, nei primi tempi della nostra vita, assolutamente dipendenti da qualcuno, per lo più la madre. Senza la disponibilità e la dedizione di un altro, di un'altra, non avremmo potuto sopravvivere. Ma i nostri figli, prosegue Winnicott, crescono e diventano a loro volta padri e madri senza riconoscere quanto devono a una figura materna, senza dire «grazie» alla madre.
L'incapacità di provare gratitudine genera, negli uomini, paura delle donne, timore di sottostare al loro potere come è accaduto all'alba della vita. E, nelle donne, difficoltà di accettare la gerarchia femminile, di inscriversi in una genealogia materna. Eppure nell'innamoramento cerchiamo proprio l'assoluto del primo amore, l'esclusività del primo legame. La contraddizione tra riconoscerci dipendenti dal partner e affermare la nostra libertà è presente sin dalle prime mosse, ma non ce ne accorgiamo, presi da un sogno o meglio da un'illusione destinata a svanire... E pronta a risorgere perché l'amore, sin dall'infanzia, dice «ancora».
Come sottolinea provocatoriamente Freud, la scelta dell'oggetto d'amore si regge sull'inganno, sulla sopravvalutazione del tutto arbitraria della persona amata. Una esaltazione che lascia l'amante privo delle qualità che ha proiettato sull'altro, esposto alle sue reazioni come un giocatore che punta tutta la posta su una roulette che non controlla. C'è rischio nell'innamoramento e, anche quando l'impresa va a buon fine, è poi difficile passare dall'illusione alla dis-illusione senza cadere nella de-lusione e non riuscire più a comprendere perché ci siamo lasciati coinvolgere in una relazione che ne esclude mille altre, perché si è scelto proprio quel partner tra i tanti possibili.
Dopo l'esaltazione dell'amore allo stato nascente, dovrebbe iniziare un percorso di fondazione della coppia, la condivisione di un progetto comune. Un tempo le tappe erano già fissate: fidanzamento, matrimonio, figli. Ma ora non ci sono indicazioni e ognuno procede cercando di tracciare da sé il proprio futuro. Impresa difficile, talora impossibile quando si vive in un presente destrutturato e precario, dove gli ideali sono collassati, il lavoro è stato sostituito dai lavoretti, la casa di proprietà è diventata una chimera e i ruoli familiari hanno perduto l'alta definizione che li caratterizzava.
In un mondo incerto manca all'amore una cornice sociale che lo confermi e lo stabilizzi.
Anche i bambini sanno che l'unione dei loro genitori ha fondamenta instabili e basta che mamma e papà, discutendo, alzino un po' la voce perché temano che la loro famiglia si frantumi.
Amarsi per sempre sembra una pretesa assurda e, come si suole dire con un certo cinismo, l'amore è eterno finché dura. Eppure il desiderio di prolungare all'infinito l'incanto dell'innamoramento rimane nella penombra della mente, incapace di giungere sulla scena della coscienza per due motivi: perché manca il copione per recitarlo, le parole per dirlo, e perché si ha paura del fallimento. Si preferisce allora non giocare per non perdere. È significativo che le coppie di conviventi, che non intendono certificare la loro unione, tendano costantemente ad aumentare e che, nello stesso tempo, chiedano di essere socialmente riconosciute e parificate nei diritti e nei doveri. Ciò che rifiutano è allora l'atto istituzionale, la cerimonia delle nozze, vista come una formalità esibizionista e consumistica.
In realtà, nonostante l'apparenza, cercano, nel rito religioso o civile che sia, di rispondere all'esigenza, tipicamente umana, di elevarsi sopra la contingenza del presente, di uscire dalle strettoie del qui e ora per acquisire il respiro ampio della perennità.
Come osservavo ne Il romanzo della famiglia, nel momento del «sì» e dello scambio degli anelli persino la coppia più scettica, quella convinta di «sposarsi per allegria», colta da un nodo di commozione, avverte il desiderio di superare la caducità dell'esistenza conferendo continuità alla spinta vitale che anima l'amore. «L'amore per la vita — scrive Erich Fromm — è il nocciolo di ogni tipo di amore».
Ma come dicevo, i modelli imposti dalla dimensione spettacolare della tarda modernità non confermano questo anelito, anzi sostituiscono l'erotismo all'amore, la sessualità ai sentimenti, la superficialità alla profondità, il corpo all'anima.
Walter Siti, nel suo ultimo disperato romanzo constata con rammarico: «L'umanità non vuole accettare quello che lei stessa ha scoperto: che la vita non dipende dall'amore, che i sentimenti sono essudati della biologia, che l'individuo non è più laboratorio di nulla e che il mercato è in grado di fornire l'intero kit per una individualità fai-da-te». Ma è vero che l'Eros si è ridotto a secrezione ormonale e il desiderio è diventato una merce di scambio? No, non è vero, non può essere vero, altrimenti non saremmo più umani.
Ben lo sanno gli adolescenti, a ogni generazione pronti a rivivere, come canta d'Annunzio, la «favola bella che ieri ti illuse, che oggi mi illude». Ma, mentre nella scena profonda della mente tutto si ripete, è mutata la rappresentazione delle passioni, il lessico dell'amore, la musica delle emozioni.
Calato il sipario sul teatro della tragedia, finiti i romanzi d'amore, ridotta a puro spettacolo l'opera lirica, soffocata la poesia, non resta che raccontarci da soli, cercando, più che di raggiungere la felicità, di evitare il dolore. L'amore viene considerato una pretesa assurda, un gioco pericoloso da lasciare all'incoscienza degli adolescenti, prima che rinsaviscano occupandosi di ciò che conta davvero: il fare e l'avere.
L'amore ci spaventa perché non è un sentimento tenero e delicato ma una passione, con tutta la complessità e il rischio che questa esperienza comporta. Come dice l'etimo stesso, vi è pathos, cioè dolore, nella passione. Rinunciando alla passione amorosa impoveriamo la nostra vita, rendiamo più piatta e banale la nostra storia. In compenso evitiamo, almeno si spera, di soffrire, di affrontare stati d'animo penosi, come il riconoscimento della dipendenza, le ferite dell'incomprensione, il gelo della solitudine, lo sconforto dell'abbandono. Senza una narrazione della relazione, senza il sostegno di un'autobiografia, alla prima difficoltà si reagisce con la svalorizzazione del rapporto: «non ci siamo mai capiti», «non siamo mai andati d'accordo», «ti voglio bene ma non ti amo». Ma una volta recisi i legami affettivi, la barca della nostra vita procede priva di ormeggi, col rischio di ricominciare una nuova storia senza aver fatto i conti con la precedente, o di lasciarsi trascinare verso il nulla dalla corrente del tempo. Eppure tutto sembra meglio che riflettere sulla relazione, ammettere le proprie responsabilità, recuperare il senso di responsabilità che il «fare famiglia» comporta e soprattutto affrontare il dolore della separazione.
Nella società delle assicurazioni, dove la sicurezza è un bene inestimabile e il dolore sembra aver perso senso e valore, si vorrebbe barattare l'amore con una supposta autonomia narcisistica, con la pretesa di bastare a se stessi e di sostituire il partner difettoso. So bene che esistono separazioni necessarie, che talora è meglio dividersi che procedere nello sconforto. Che si deve stare insieme per convinzione e non per convenienza, ma ciò che mi preoccupa è la meccanicità di questa decisione, il fatto che la si dia per scontata, che la divisione incrini sin dall'inizio l'unione, che non se ne valutino le conseguenze per sé e per gli altri.
Membri anonimi di una folla solitaria, di una «società degli individui» dove si è sempre insieme e sempre soli, ci si avvicina e ci si allontana come in discoteca, seguendo un ritmo personale che non cerca l'unisono. Ma i sentimenti non detti e le emozioni soffocate permangono nell'anima come un potenziale energetico che, buttato fuori dalla porta della coscienza, rientra dalla finestra dell'inconscio. All'incapacità di vivere l'amore fa seguito la difficoltà di accettarne la fine, di elaborarne il lutto. Nella indistinzione tra il bene e il male, la sofferenza viene sostituita dalla insofferenza. «È l'indifferenza — scrive Fromm — il nuovo disumano». Una disumanità che si esprime, nel modo più tragico, nel «femminicidio», nella strage delle donne uccise, come sostengono i loro assassini, per «amore», dove il farmaco si traduce in veleno e la vita precipita nella morte. Se quegli uomini avessero saputo amare, sarebbero stati capaci di sopportare il dolore della perdita, la ferita inflitta dal «non più». Invece quell'esperienza mancata ha esasperato le componenti più pericolose della relazione tra i sessi, il possesso e il potere, sino a farla esplodere nell'omicidio e talora nel suicidio. In questi casi, che costituiscono un'angosciante epidemia, la passione vitale dell'amore è stata sconfitta dalla coazione mortale dell'odio. Sono certamente gesti estremi, ma che dovrebbero farci riflettere sulla potenza insita nei legami di coppia, sulla complessità delle nostre relazioni, sull'afasia delle nostre interazioni, sulla solitudine che ci opprime.
Come insegna la psicoanalisi, la violenza nasce dalla morte del pensiero, dalla negazione del dolore mentale, sulla incapacità di esprimere e condividere le nostre emozioni. Nella vita quotidiana, nella cosiddetta normalità, possiamo riconoscere la fuga dalla sofferenza, la pretesa di vivere schivando il dolore, nella indifferenza che permea i nostri rapporti. La maggior parte delle persone finge di essere felice perché l'infelicità è un fallimento e dichiararla è inopportuno, sembra di trasgredire a una regola di galateo. Incontrando un conoscente è opportuno chiedere «tutto bene?», un modo per prevenire discorsi inopportuni, eventuali confidenze incresciose. Si accetta che vengano pubblicizzati i mali fisici (ora di «tumore» si può parlare), mentre vengono messi a tacere quelli morali. In questo contesto la separazione coniugale (più o meno certificata) diventa un evento irrilevante, un caso della vita come un altro, paragonabile a un furto in casa, allo smarrimento di un oggetto prezioso, a una vacanza mancata.

nell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini
Corriere La Lettura 8.9.13
La danza, la musica (e i giochi con gli asini) per aiutare i pazienti
di Paola D’Amico


M urales dipinti sulle facciate di palazzine che un tempo ospitarono i malati psichiatrici; e poi una galleria di quadri, dove le firme d'autori famosi si mescolano a quelle di gente comune, tutti ex pazienti. L'insieme di queste opere è il Mapp, oggi museo d'arte a tutti gli effetti, nato nell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, che rimane la rappresentazione più evidente dell'arte-terapia introdotta trent'anni fa dagli stessi medici della mente incaricati di smantellare il grande manicomio alla periferia di Milano. Il Paolo Pini era arrivato negli anni Sessanta a ospitare 1.200 «matti». E Antonio Guerrini, psichiatra, fu l'artefice dell'una e dell'altra operazione. Il linguaggio del corpo è stato per lui uno strumento prezioso in più per «riagganciare» nel mondo i pazienti psichiatrici, per «riattivarli». E lo è tuttora. Da dieci anni, da quando ha lasciato le corsie degli ospedali, infatti, coordina l'ex Piano urbano per la salute mentale (esperimento tutto milanese) e dice: «Uso come palcoscenico per i miei matti la città intera, bar, teatri, cinema, campi da calcio». Cominciato come un esperimento, il progetto di far cadere due barriere (la paura che i matti hanno del mondo e la paura che il mondo ha di loro) è diventato quotidianità. «Facciamo fare loro le cose che facciamo tutti, inclusi danzare, suonare, giocare a calcio, fare teatro». L'arte-danza-musico-terapia è, spiega, «un grande strumento di riabilitazione. A noi può dare emozione calcare un palcoscenico o danzare o suonare o andare a teatro? Perché non dovrebbe essere lo stesso per loro?».
Lavorare sulle emozioni per riabilitare un corpo disabile ma anche una mente disabile è l'esperienza che Maria Fox, ballerina e coreografa argentina — la mamma della danzaterapia — per cinquant'anni ha portato nel mondo. Lei, che psichiatra non era, capì com'era più facile e immediata la comunicazione attraverso il corpo anche in quelle psicosi o nei ritardi mentali che non consentono una via dialettica. «Quando balliamo -— scrisse — non esprimiamo solo la bellezza, ma la rabbia, l'angoscia, il dolore. Sono un'artista che ha trovato non una cura ma un metodo che cambia la gente mediante il movimento». E non c'è cura senza cambiamento.
La psichiatria ufficiale, per anni, ha guardato con sospetto se non ignorato questo approccio umanistico. Eppure per convincersi che «dentro a ognuno c'è un potenziale autorigenerativo che va semplicemente stimolato e che l'arte permette un'espressione diretta, spontanea, arcaica e istintiva che non è mediata dalla ragione», come spiegano i suoi sostenitori, basta rileggere ciò che scrisse Edvard Munch nel suo diario dopo aver dipinto l'Urlo, icona delle ansie collettive: «Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere». Il pittore norvegese, precursore dell'Espressionismo, aveva studiato le teorie sulla psiche di Freud ed era convinto non solo che la pittura l'avesse aiutato a guardare dentro se stesso ma anche che fosse un «mezzo per esprimere le emozioni ed espiare i propri dolori». «L'arte — scriveva — è il sangue del nostro cuore». Era il 1885. Vent'anni dopo sarebbe diventato primario all'ospedale psichiatrico di Zurigo, Carl Gustav Jung, grande innovatore, che vedeva nell'inconscio «il serbatoio di tutte le risorse di guarigione» e sosteneva che l'arte fosse «la via regia» per accedervi. Una ripresa dell'antica tradizione greca, di cui era profondo conoscitore, che utilizzava il teatro e la musica per favorire la catarsi collettiva.
Oggi le neuroscienze gli danno ragione. «Hanno dimostrato che le nostre emozioni guidano i comportamenti più della razionalità — sintetizza la psichiatra e criminologa Erica Poli, che lavora con una allieva di Maria Fox, Federica Varone —. Hanno sede nel sistema limbico sottocorticale che non riconosce le parole ma il linguaggio del corpo. Se vuoi curare un trauma e non passi da qui, non curerai il nocciolo più duro del trauma. Tutte le terapie che, invece, passano per il corpo sono in grado oltre che di modificare i traumi anche di sviluppare l'area corticale della corteccia prefrontale, la stessa che si sviluppa in chi fa meditazione o prega e che permette funzioni superiori, fino al raggiungimento di uno stato di benessere pieno e incondizionato». Scienza e arte, filosofie antiche del benessere e medicina, si fondono.
L'arte-danza-musico-terapia si basa sul recupero della parte sana dell'individuo per scoprire, attraverso il movimento e la musica, le risorse che esistono in ognuno di noi. «Un movimento totale del corpo come la danza migliora le funzioni di molti sistemi fisiologici. Creare arte, visualizzarla, e parlarne fornisce alle persone l'opportunità di far fronte a conflitti emotivi, aumentare la consapevolezza di sé ed esprimere le preoccupazioni inespresse e spesso inconsce della loro malattia», conclude Poli. Queste terapie che attingono all'arte e integrano le terapie convenzionali, in sostanza, ci riconnettono all'emisfero del cervello (il destro), che è sede della creatività, della fantasia, dell'intuizione, delle percezioni sensoriali.
È lo stesso binario entro cui si muove da qualche anno e con sempre migliori risultati la psicologia assistita con animali. «Il setting terapeutico nel nostro caso si sposta da una stanza a un prato — racconta Beatrice Garzotto, laurea in Psicologia generale sperimentale a Padova e perfezionamento in Colorado —. Il contatto con l'animale è istintivo. Cavalli e asini codificano immediatamente le tue emozioni: sono prede e devono capire in fretta se è il caso di scappare o se possono fidarsi. La comunicazione è ben diversa dalla nostra, spesso ambivalente, ambigua e nevrotica. Gli animali non lasciano spazio alle ambiguità».

Trasformando il disagio, il disturbo della mente, in «materiale prezioso» con cui lavorare, «con gli scarti si possono creare capolavori». Gli attori pazienti sono malati psichiatrici
Corriere La Lettura 8.9.13
Riccardo III è ansioso e parla in siciliano. Ma l'arte non è mai un esercizio appagante
Successo del primo cast misto (malati e non) Insieme sul palco anche il disagio mentale
di Maria rosaria Spadaccino e Vincenzo Trione


Basterebbe la scena finale di Insanamente Riccardo III, l'alchemico respiro collettivo degli attori — che per osmosi supera il palcoscenico, si avvicina minacciosamente al pubblico e diventa il palpitare della stessa platea — per giustificare l'intero spettacolo. L'apoteosi conclusiva chiude il caos — il delirio del regnante shakesperiano e dei sudditi bramosi di potere — ma non ferma l'emozione, restituisce il senso — a chi ne avesse bisogno —, senza però appagare. La frenesia compulsiva di Insanamente Riccardo III lascia il desiderio di sé e il dubbio: ma allora «siamo tutti Riccardo III?».
Roberta Torre, regista milanese da anni trapiantata a Palermo, rivelatasi nel '97 con Tano da morire, insinua la domanda, turba il pubblico usando venti attori «pazienti» e cinque attori «impazienti». Trasformando il disagio, il disturbo della mente, in «materiale prezioso» con cui lavorare, «con gli scarti si possono creare capolavori». Gli attori pazienti sono malati psichiatrici, in cura presso il centro diurno Casa del sole dell'Asp6 (azienda sanitaria di Palermo), gli altri sono professionisti, «artisti molto fisici, che frequentano poco la prosa e la parola — spiega la regista —. Ho lavorato con tutti allo stesso modo, senza alcuna remora o ipocrita delicatezza. L'unica differenza l'ho riscontrata nella fisicità. I pazienti hanno corpi poco usati, guardati, strapazzati, quindi mi sono focalizzata molto sulla riappropriazione del corpo. Gli attori veri spesso sono impazienti, gli altri alla loro prima esperienza teatrale hanno dimostrato il desiderio spasmodico di darsi, con enorme generosità».
Come Emanuele Di Pace — Riccardo III — 39 anni, anglo-palermitano che sfoggia vere attitudini artistiche: recitando il monologo di Shakespeare in siciliano. «Soffro di ansie, di fobie di ogni tipo — racconta Emanuele-Riccardo III — la mia vita ne è stata condizionata, non ho mai lavorato davvero, non sono riuscito a diplomarmi. Recitando ho scoperto che riesco a guardare le persone negli occhi. Ho tirato fuori la rabbia, la frustrazione. Non sono più solo ora davanti allo specchio, qualcuno mi guarda e io stesso guardo gli altri senza più timore».
Nella tragedia suo padre è Giovanni Meldola, psichiatra (il suo) dell'Asp6, a cui Torre ha ritagliato una parte. «Durante le prove sono stati trattati da attori, non da malati, e i risultati sono stati notevoli, ora sono più propositivi, determinati. Dominano l'ansia, hanno meno paura di esporsi al mondo. Roberta non ha fatto riabilitazione, ha fatto la regista, ha ignorato lo "stigma". Io sono stato sempre con loro per sostenerli, avevo con me dei farmaci se ne avessero avuto bisogno durante le rappresentazioni o le prove, non li ho mai usati. È stato sufficiente il supporto umano».
L'effetto terapeutico sugli attori-pazienti che ha suscitato l'attenzione degli psichiatri palermitani («alcuni mi hanno chiesto di far entrare nella compagnia i loro malati»), non interessa la regista: «Io non faccio teatro sociale, la funzione terapeutica non mi riguarda, se non avessi raggiunto un risultato artistico di livello alto avrei smesso di lavorare con loro, che poi sia accaduto ben venga, ma non era nelle mie intenzioni».
Questo è il primo esperimento italiano di compagnia «mista», e si avvia a diventare una vera realtà culturale, «una compagnia Instabile» nata da un'idea «folle, quella di immettere accanto a veri attori un gruppo di pazienti, che potranno anche cambiare durante i prossimi lavori».
Lo spettacolo, prodotto dalla Compagnia della Torre, è stato un successo in questi mesi a Palermo, nato come laboratorio nella sala Perriera dei cantieri culturali della Zisa, si è trasferito al teatro Garibaldi (spazio recuperato da un gruppo di lavoratori dello spettacolo all'inizio di quest'anno), per cinque repliche da tutto esaurito. «Sono legata a quel teatro, negli anni 90 ho visto grandi Shakespeare di Cecchi», racconta Torre. «E continuo il mio lavoro di governo del caos, in fondo cos'è un'opera d'arte se non sistemazione del caos? Ci prepariamo a realizzare anche Insanamente Macbeth, interpretato sempre da una compagnia mista pazienti-impazienti».
In autunno l'«insano Riccardo III» sarà a Milano, il 2 novembre al Teatro Studio per l'Edge Festival, e sarà rappresentato anche in altri teatri della Lombardia. «Non sarà facile muovere questa compagnia — spiega Torre — perché è un lavoro che prevede trenta persone in scena e venti fuori». La complessità nasce dagli attori: molti soffrono di fobie, psicosi, tali da rendere non semplici gli spostamenti in aereo o in treno. «Io voglio continuare a recitare, andrò ovunque — dice Salouia Hamidi, 37 anni, italo-tunisina — voglio dimenticare i miei problemi». Salouia ha un fisico più che burroso, durante lo spettacolo danza con la leggerezza di una ballerina professionista, si avvicina al pubblico soave, quasi lo accarezza, come un'étoile. La spiegazione a tanto slancio la offre Gerardo Scalici, 50 anni — in arte Clarence — che si definisce, «paziente borderline, ansioso con forti scariche di adrenalina». Fornisce la sua profonda verità in poche parole: «Una cosa è stare chiusi dentro a rimuginare, un'altra cosa incontrarsi, discutere, parlare della rappresentazione: questa è vita».
Una delle principesse del regno di Riccardo III è Giuditta Jesu, 34 anni, attrice professionista con un passato televisivo. Lei è tra gli «impazienti», ma rifiuta la distinzione. «Siamo una compagnia di attori che ha lavorato bene ottenendo grandi risultati, anche io sono arrivata a inviare il mio curriculum su suggerimento del mio psicoanalista, stavo vivendo un momento di malessere, di chiusura. Ora grazie a questo lavoro sono di nuovo al centro di me».
Il Riccardo III è solo un pretesto per raccontare la mostruosità del potere e dell'essere umano che ne subisce il riverbero. Struttura portante della drammaturgia è la musica di Enrico Melozzi, compositore e sperimentatore di strumenti, da lui stesso creati. Suona il violoncello, seminascosto in un palco, improvvisando, guidato dalla regista attraverso una radio cuffia. La musica detta i tempi: incalza, prolunga o ferma. «Sostituisce le parole, diventa protagonista del rituale che va in scena — spiega il compositore — può essere modificata a seconda del comportamento del pubblico o degli attori». Il ritmo guida fortemente la regina aliena, una drag queen con smanie di regno, «un personaggio fuori contesto umano e storico, che deve creare scompiglio visivo e umorale», spiega Antonio Fester Nuccio, l'attore che la interpreta. Il travaso tra la follia e la normalità si compie, il vaso comunicante funziona quando il pubblico inizia a chiedersi chi siano i «veri» pazzi. «Molti indicano convinti lo psicoanalista e me. Sento i loro commenti quando mi avvicino», racconta l'attore professionista Rocco Castrocielo. La risposta arriva dal re: «Visto da vicino nessuno è normale», urla Riccardo III al pubblico, ormai completamente parte del caos collettivo. La frase non è di Shakespeare, ma di Franco Basaglia.

Repubblica 7.9.13
La psicanalista spiega perché il nostro senso morale ha perso ogni riferimento all’autorità
La fine del peccato
Kristeva: “Dobbiamo costruire una religione laica”
di Franco Marcoaldi


PARIGI Mentre varco il portone della casa parigina di Julia Kristeva, il pensiero subito va alla femminista ultrabattagliera, alla giovane redattrice della rivista d’avanguardia Tel Quel, alla inquieta psicanalista e studiosa di semiotica amica di Foucault, Barthes, Derrida... E poi mi trovo di fronte una bella signora settantenne che, senza rinnegare affatto quei trascorsi, sta percorrendo itinerari che si sono arricchiti di nuove sfumature.
«La nostra eredità culturale è doppia. Da un lato il cristianesimo, dall’altro l’illuminismo, rottura irreversibile della civilizzazione europea. Tanto più qui in Francia: patria della rivoluzione francese e dei diritti dell’uomo. Nel momento in cui la nozione di peccato perde senso per la parte secolarizzata della popolazione, resta la grande preoccupazione sul significato dell’etica laica. Ebene lo dimostra il dilemma dell’attuale governo francese, che si chiede se sia giusto insegnare una morale laica o propendere piuttosto per un insegnamento laico della morale. Perché un sistema di regole preconfezionato che vada bene per tutti ormai è impensabile. Si tratta allora di riconoscere la specificità della vita interiore di ciascuno e conseguentemente trovare la versione singolare, personale, di tali regole».
Dunque, a suo modo di vedere, l’idea di limite può essere salvaguardata solo grazie a un incrocio tra la tradizione religiosa e la modernità laica.
«Assolutamente. Il nuovo umanesimo passa attraverso una rivalutazione permanente di tutti i codici morali dell’umanità, ivi compreso quello della religione che ci precede. Quell’eredità non può essere lasciata in mano al Fronte nazionale o alle varie forme di integralismo. È necessario che nelle scuole si insegni storia della religione, per incamminarsi non verso un sistema di regole assolute, ma verso un’interrogazione ininterrotta della tradizione. Interrogazione che deve valere anche per i lasciti della rivoluzione dei Lumi. Quella stagione ha prodotto una nuova libertà, fino ad allora impensabile: sia del pensiero che del corpo, contro i differenti dogmatismi religiosi e di classe. Ma abbiamo potuto saggiare anche i rischi iscritti in tale libertà. Penso agli esiti di una liberazione borghese sfociata prima nel terrore e poi nel colonialismo; di un terzomondismo che spesso ha aperto le porte al fondamentalismo religioso. E penso anche a un femminismo su grande scala, quanto mai generoso, ma incapace di affrontare tante esigenze singolari, a cominciare dall’esperienza della maternità.
Nietzsche dice che bisogna mettere un grande punto interrogativo su tutte le questioni più serie che abbiamo di fronte. Per venire a noi: cos’è il peccato? Cosa la trasgressione? Cosa la negazione della norma? Cosa la rivolta? Così come bisogna tornare a interrogarsi sull’idea di autorità.».
Proprio questo è il punto. Chi oggi ha l’autorità per stabilire il limite oltre il quale non si può andare?
«Io non sono così sicura che il concetto di limite vada scomparendo. Le faccio un esempio concreto che riguarda proprio la figura dell’autorità. Viviamo in una sorta di entusiasmo romantico legato all’enorme sviluppo della scienza medica, in base al quale, ad esempio, la vecchia figura del padre sembra non essere più indispensabile. Bene. Ciò non toglie che un bambino, per crescere, ha comunque bisogno di separarsi passionalmente e sensorialmente dalla madre. E perché questo accada deve intervenire un’autorità che gli ponga dei limiti. Tale ruolo potrà essere giocato, che so io, dal padre genetico, dal nonno materno, da un istitutore… o da uno psicanalista, se quelbambino non apprende l’idea del limite. Per certo però quel passaggio non potrà essere eluso. Perché proprio noi, eredi dell’illuminismo e delle scienze umane, sappiamo bene che una persona, per diventare adulta, ha bisogno di essere “strutturata”, dunque di appoggiarsi a una norma. Non per ottemperare ai voleri di una chiesa o di qualunque forma di confessionalismo, ma per una necessità psichica. L’autorità a cui penso sarà fondata su un sapere plurale e su diverse forme diesperienza, quindi capace di adattarsi a ciascun individuo».
Forse per noi laici europei tutto si complica a causa del fondamento religioso della morale. Diverso è il caso di quelle società orientali che hanno autonomi fondamenti laici: penso al confucianesimo.
«Non sono così sicura che il mix dell’eredità greco-giudaico-cristiana combinata all’illuminismo ci renda più impotenti rispetto ad altre situazioni. Al contrario, penso che in questo crogiolo siano iscritte potenzialità di cui non andiamo abbastanza fieri. Se l’Europa è così in crisi e al fondo depressa è perché non ha utilizzato la carta migliore a disposizione: la cultura. Già Duns Scoto, nel XIII secolo, parlava della verità come di qualcosa che non appartiene né a categorie astratte né all’opacità della biologia, ma all’haecceitas, al “questo”. In ciascuno c’è un briciolo di eccezione: e qui va cercata la verità. Eccolo il vero messaggio europeo, estraneo sia alla cultura cinese che a quella araba.
Vede, sin dal ’68, dagli anni del maoismo, sono in costante contatto con la cultura cinese. Una cultura che grazie alla mescolanza di taoismo e confucianesimo ha prodotto una straordinaria adattabilità al cosmo, alla natura, al flusso della vita; una società in cui i migliori lasciti confuciani garantiscono il rispetto della tradizione. Di fronte però all’esplosione della richiesta di diritti individuali, sono loro a trovarsi in difficoltà. E a individuare nella cultura europea il modello da seguire».
Se si incrina l’idea di limite, finisce anche l’idea di trasgressione. A questo punto non perde di senso anche il classico mito del Don Giovanni?
«Tutti sanno che un certo femminismo, soprattutto americano, si è mobilitato contro l’uomo seduttore, a cui tutto è permesso, e che si richiama per l’appunto al mito del Don Giovanni. Per molti versi è stata ed è una battaglia assolutamente giusta, come dimostrano ancora troppi casi in cui uomini di potere impongono il loro desiderio alle donne con brutale aggressività. Ma due sono state le conseguenze: da un lato, una crisi sempre più evidente della virilità, con l’uomo occidentale che oscilla tra impotenza e violenza; dall’altro la negazione della seduzione, elemento imprescindibiledell’erotismo».
In questo scenario, quali sono le nuove “malattie dell’anima”, per usare una sua espressione di qualche anno fa?
«Quelle legate all’indebolimento della famiglia, della scuola, in genere dei luoghi di integrazione. Senza contare il ruolo crescente dell’immagine, che rimpiazza il linguaggio e rende l’uomo parlante sempre meno parlante. Mentre il sistema di comunicazione copre ormai l’intero campo visivo sotto un’immensa tela di superficie, a scapito della profondità, del foro interiore. È in questo vuoto crescente, in quella condizione di disadattamento definita in termini psicanalitici “de-liaison”, che si inserisce con successo ogni forma di integralismo, attraverso una sorta di capitalizzazione delle pulsioni di morte inviate ai ragazzi “malati di idealità”. I quali non riconoscono più non solo la differenza tra bene e male, ma anche quella tra dentro e fuori, il sé e l’altro. A quel punto, anche il limite della morte perde di senso».
Da una parte il tradizionalismo religioso, dall’altra il nichilismo avanzante: non sembra esserci tanto spazio per un nuovo umanesimo.
«Io penso invece che quello spazio ci sia. Nell’epoca della globalizzazione, non si confrontano soltanto diverse lingue e religioni, ma anche diverse morali. A noi il compito di intessere una sorta di mantello d’Arlecchino, una specie di passerella ideale tra i codici morali di ciascuno. L’umanità ormai non ci appare più come un universo, ma come un multiverso, e mi appoggio in questo all’astrofisica e alla teoria della proliferazione degli universi possibili. Ecco perché parlo del mantello d’Arlecchino come di una nuova veste sociale e normativa, a cui deve concorrere la stessa rilettura della tradizione e la sua concezione di limite. A conclusione della suaCritica della ragion pura,Kant intravede la possibilità di un
corpus mysticum di esseri razionali, in cui l’Io e il suo libero arbitrio si riuniscono con il totalmente altro da sé. È molto di più che il richiamo all’usurato concetto di solidarietà. È un incitamento a entrare in contatto con l’estraneo, a comprenderlo, salvaguardando la sua singolarità, la sua eccezione. Per riuscirci, occorre creare una nuova classe di pionieri dell’umanesimo, disposti a combattere la battaglia di una inesausta negoziazione tra differenze».

Repubblica 8.9.13
Strette tra neuroscienze e “Big Data” sociologia, economia e psicologia rischiano di scomparire
È iniziata l’era dell’“oggettività assoluta”?
Scienze “A-sociali”
Sempre più spesso si vogliono motivare comportamenti e casi sulla base dell’attività di particolari aree del nostro cervello
Alcuni ricercatori di Google, analizzando sul motore di ricerca parole come “influenza” monitorarono il virus prima degli epidemiologi
di Massimiliano Bucchi


La fisica è l’unica vera scienza; tutto il resto è collezione di francobolli». Con questa frase sprezzante, più di un secolo fa il fisico Ernest Rutherford amava chiudere il conto dei rapporti, spesso competitivi, tra discipline diverse. Erano gli anni in cui fisica e chimica si contendevano, anche aspramente, fenomeni e oggetti di studio. Da sempre discipline “rampanti”, forti dei propri successi e del proprio riconoscimento pubblico, “colonizzano” territori tradizionalmente di pertinenza di altri settori. Nei decenni successivi alla tragedia di Hiroshima, i ricercatori del Department of Energy americano estesero gradualmente le proprie competenze all’ambito biologico con il mandato di monitorare gli effetti delle radiazioni atomiche sulla salute e sui geni, giungendo addirittura a un passo dall’aggiudicarsi il coordinamento del Progetto Genoma.
È in questa tradizione che può essere letta, da un certo punto di vista, l’attuale situazione delle scienze sociali, incalzate dalla pressione di almeno due settori “emergenti”. Il primo è quello delle neuroscienze: una pressione così forte dal punto di vista dell’appeal pubblico da essere stata definita “neuro-mania”, come recitava il titolo di un saggio di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà. Sempre più spesso, fenomeni e comportamenti tradizionalmente oggetto di studio da parte di psicologia, sociologia o economia (scelte di consumo, preferenze politiche, innamoramento) sono spiegati sulla base dell’attività di particolari aree del cervello. Così, in un recente libro di grande successo (Noi siamo il nostro cervello), ilneurobiologo Dick Swaab sostiene che è nel cervello che sono già fissati «l’orientamento sessuale, il livello di aggressività, il carattere, la religione». Studi e perizie basati su simili presupposti compaiono sempre più anche in ambito giudiziario. Negli Stati Uniti si è chiesta l’assoluzione o la riduzione di pena per giovani omicidi argomentando che «la corteccia prefrontale matura lentamente; in base alla neurobiologia la soglia di applicazione del diritto penale andrebbe alzata fino a 23/25 anni ».
Un’altra linea di pressione è legata al fenomeno dei cosiddetti Big Data: enormi quantità di informazioni raccolte grazie ai grandi archivi digitali ai quali offriamo i nostri dati in cambio di servizi quali email e social network. Un diluvio di dati che non minaccia solo le scienze sociali. Qualche anno fa ha fatto scalpore uno studio pubblicato su
Nature dai ricercatori di Google: analizzando sul motore di ricerca alcune parole chiave come “influenza” riuscirono a monitorare con accuratezza, prima degli stessi dati epidemiologici, la diffusione del virus. Tuttavia, è evidente che la potenza di questi archivi e dei colossi informatici ha particolare rilevanza per le scienze sociali. Fisico di formazione, Duncan Watts di Microsoft Research si presenta come “sociologo” in grado di elucidare, attraverso il trattamento sempre più sofisticato dei network informativi (ad esempio i messaggi su Twitter), fenomeni quali il cambiamento di opinioni, il “contagio informativo” e perfino la crisi finanziaria (!). La neonata computational personality recognition ricostruisce la nostra personalità analizzando con sofisticati software le conversazioni online («chi usa molta punteggiatura ha un basso tasso di estroversione, chi utilizza parole più lunghe di sei caratteri è di solito più introverso »).
Si potrebbero certamente sottolineare i limiti metodologici e gli eccessi di alcuni di questi studi, talvolta criticati dagli stessi colleghi. Raramente i solerti data miners sono sfiorati dal semplice sospetto, magari nutrito dalla lettura di autori come Goffmann o Turkle, che i contenuti postati su Facebook, blog e Twitter rappresentino un indicatore della rappresentazione di sé e soprattutto di come vorremmo apparire, più che della personalità o di altre dimensioni profonde. Oppure che i motori di ricerca registrino, oltre alle nostre malattie, le nostre paure: in tentativi successivi Google Flu Trends ha di gran lunga sovrastimato la diffusione delle patologie influenzali.
A rafforzare queste pressioni, secondo alcuni commentatori, contribuirebbe la seducente prospettiva (o pretesa) di poter finalmente ancorare ad elementi “materiali” – le immagini del cervello o i flussi di dati digitali – le interpretazioni di fenomeni e comportamenti sociali e psicologici, sottraendole così a discussioni spesso divisive anche sul piano sociale e politico. Non c’è dubbio tuttavia che simili tendenze invitino indirettamente a riflettere sullo stato delle scienze sociali e in particolare sulla loro attuale capacità di influenzare il dibattito pubblico e più in generale la cultura. Agli indubbi risultati ottenuti dalle neuroscienze e dalle tecnologie dell’informazione negli ultimi decenni, alla capacità crescente delle narrazioni costruite su questi risultati di intercettare bisogni e aspettative diffuse, pare infatti corrispondere una certa debolezza delle scienze sociali, non di rado sedotte dalla tentazione di imitare, perlopiù in modo formale e pedissequo, discipline considerate “più scientifiche”. Secondo la sociologa e presidente dello European Research Council Helga Nowotny, «questa competizione diventa una minaccia solo se le scienze sociali reagiscono in modo puramente difensivo. Bisogna entrare in dialogo critico con settori come le neuroscienze, e mostrare quanto siano incomplete e parziali le loro spiegazioni». Più preoccupante, secondo Nowotny, l’avanzata dei Big Data, e non solo per gli scienziati sociali: «Tradizionalmente i dati sociali erano raccolti perlopiù dalle istituzioni pubbliche; anche per ragioni finanziarie, oggi questi dati sono raccolti sempre di più dalle aziende private, che non hanno l’obbligo di metterli a disposizione. Questo sottrae materiale e rilevanza alle scienze sociali, con conseguenze negative per tutti noi».
Ma l’appeal di alcune di queste interpretazioni “concorrenti” agisce probabilmente anche a un livello sociale e culturale più profondo. Trasformare un bambino vivace in un caso patologico di “sindrome da iperattività e deficit di attenzione” o interpretarne l’aggressività su base neurobiologica solleva infatti genitori e insegnanti da parte delle loro responsabilità educative; attribuire complessi problemi sociali a processi cerebrali offre alla società un’appetibile alternativa al conflitto aperto tra diverse visioni delle loro cause e delle possibili soluzioni, e più in generale una comoda scorciatoia per evitare di interrogarsi su di sé e sul proprio futuro. In ogni caso, è sempre bene andare cauti nel giudizio sommario su intere discipline; Rutherford stesso dovette riconoscerlo quando, nel 1908, andò a Stoccolma per ricevere il premio Nobel proprio perla tanto vituperata chimica.

Repubblica 8.9.13
Bauman: “Non c’è spiegazione senza teoria il fattore umano sarà sempre necessario”
Ogni ricerca di verità si basa sulla distinzione cartesiana tra Io e Altro Non si può sopprimere l’Io Non è accaduto neanche ad Auschwitz
intervista di Riccardo Staglianò


L’ideatore della “modernità liquida”: “Un naturalista può descrivere l’albero ma non può sapere come si sente, questo è compito dell’esperienza soggettiva”
Il fattore umano spariglia ogni previsione. Quando entra in campo, i conti non tornano quasi mai. E non esistono computer tanto potenti da neutralizzare questa variabile. Per questo le scienze umane, sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, teorico della “modernità liquida”, sono e resteranno insostituibili.
Da una parte le neuroscienze spiegano ogni azione umana in termini di funzioni del cervello. Dall’altra i Big Data promettono di rendere computabile qualsiasi trend sociale. Professore, la sua è una disciplina in via di estinzione?
«Non direi. Le scienze sociali, o scienze della cultura, stanno a metà strada tra scienze e umanesimo. E oscillano tra due modelli teorici, quello di Emile Durkheim e quello di Max Weber, e le loro numerose riscritture».
Ci riassume le differenze?
«Durkheim, ardente positivista, proponeva il metodo scientifico universale e lo applicava al regno dei “fatti sociali”, che considerava realtà come le altre perché determinano i comportamenti. Weber, anti-positivista, riconosceva che la sociologia è una scienza, però diversa da quelle che si occupano della natura. Non per il terreno che coltiva, ma per il metodo di coltivazione. Nel senso che non si ferma alla spiegazione (trovare le cause) ma procede verso la comprensione (trovare il significato). Un naturalista può descrivere tutto di un albero ma non, ovviamente, come si sente. Questo è il lavoro del sociologo: cercare di capire gli oggetti del suo studio».
E in questo le neuroscienze non ci possono aiutare...
«L’oggetto della sociologia è l’esperienza umana. Che i tedeschi definiscono in due modi: Erfahrung, “qualcosa che mi è successo” ed Erlebnis,“qualcosa che ho vissuto”. Il primo può essere descritto dall’esterno, in termini oggettivi. Il secondo no, solo attraverso i racconti, pensieri e sentimenti del soggetto. E qui le neuroscienze si fermano, lasciando il posto alle scienze umane».
Riguardo ai Big Data, la quantità senza precedenti di dati digitali su ogni attività umana, dovrebbero essere una manna per uno scienziato sociale. O invece alimentano l’illusione informaticocentrica che tutto possa essere calcolabile?
«Già nel XVII secolo il grande matematico Pierre-Simon Laplace disse che se gli avessero fornito “tutti i dati” sullo stato del mondo avrebbe potuto predire ogni suo successivo stato. Sono ambizioni che ritornano. Tuttavia è una prospettiva impraticabile non acausa della scarsità di informazione quanto per l’essenziale e irreparabile contingenza del mondo e l’irremovibile presenza di accidenti che lo caratterizzano. Le possibilità sono infinite e l’infinito non può essere calcolato».
Stiamo sconfinando sul terreno della meccanica quantistica, o sbaglio?
«Esattamente. La “teoria dei molti mondi” propone che “ogni volta che si realizza un’azione subatomica l’universo si divide in multiple, differenti copie di se stesso, per cui ogni nuovo mondo rappresenta uno dei possibili esiti”. Un’ipotesi, questa degli universi costantemente proliferanti, rilanciata più di recente dalla “teoria delle stringhe”, che sostiene che esisterebbero 10.500 diverse possibilità della loro equazione, pari ad altrettanti universi. Un numero che nessun computer può gestire».
Tra i vari esempi di questa hybris epistemologica (tutto può essere calcolato) c’è quello dei rischi finanziari. Iquant di Wall Street presumevano di sapere quali mutui sarebbero stati ripagati e quali no. Che lezione possiamo trarne?
«Che l’unica verità ottenuta con criteri scientifici si basa sulla dicotomia cartesiana tra soggetto e oggetto. Nel caso delle scienze umane sarebbe raggiungibile se gli oggetti, gli esseri umani, fossero privati della loro soggettività, il che non era totalmente vero neppure nei casi più estremi come Auschwitz o i gulag. L’indisciplinato intruso tra la verità scientifico-naturale e quella scientifico-sociale è rappresentato proprio dalla soggettività umana».
Intanto Facebook ha assunto un sociologo che studia le tendenze a partire dal miliardo di suoi utenti. Ha un senso scientifico?
«Dipende da chi pretendono di rappresentare. Le grandi catene di supermercati usano già campioni del genere per predire, ad esempio, quanto l’aumento di un grado di temperatura incida sulla domanda di prodotti per il barbecue. Sono ricerche a fini commerciali, come i sondaggi tentano di strologare la politica. Ma se pretendiamo di ricavarne tendenze stocastiche nel comportamento umano generale possono rivelarsi pericolosamente fuorvianti. Vaclav Havel, vecchia volpe politica, era solito dire che per predire il futuro bisogna sapere “quali canzoni la nazione è disposta a cantare”, ma poi aggiungeva che “non c’è modo di conoscere cosa vorrà cantare l’anno prossimo”».
C’è chi azzarda che non ci sarà più bisogno di teorie, basterà dedurre la giustezza di un’idea dai dati. Che ne pensa?
«Che essa stessa è una teoria. Costoro non sarebbero in grado di provare ciò che fanno senza una teoria, basata come tutte su una serie di assunti condivisi».

Repubblica 8.9.13
Cosa ci insegnano le emozioni negative
di Roberto Esposito


Come mai, se non possiamo dire di amare la tristezza, ci piace talvolta ascoltare una musica triste? E perché non bisogna essere necessariamente masochisti per prediligere film che mettono ansia e paura? Quali stimoli o benefici ci procurano, insomma, emozioni che possiamo ben definire negative come la vergogna, il rimorso o il disgusto? È intorno a questa domanda che ruota a trecentosessanta gradi il volume curato da Christine Tappolet, Fabrice Teroni e Anita Konzelmann Ziv (Raffaello Cortina) con il bel titoloLe ombre dell’anima. Pensare le emozioni negative, presentato da Roberto Casati.
Che le emozioni in genere costituiscano risorse indispensabili per la vita individuale e collettiva è un dato ormai acquisito. Secondo le note tesi formulate da Antonio Damasio inL’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (Adelphi 1995), lungi da rappresentare un ostacolo, esse favoriscono il funzionamento della ragione. Già dopo Kant, che ancora le considerava “un cancro per la ragione”, autori come Tocqueville e Stendhal lamentavano l’eclissi delle grandi passioni nei regimi democratici moderni. In realtà anche i filosofi più razionalisti come Hobbes e Smith avevano rivendicato il ruolo decisivo della paura nell’esperienza politica o della passione acquisitiva in quella economica. Per non parlare di Rousseau, che inscriveva l’emozione al cuore della ragione illuministica, e Spinoza, che rinveniva l’apice della vita interiore nell’amor Dei intellectualis. Comprendere le emozioni, anziché tentare invano di imbrigliarle, èl’unico modo di salvaguardarsi dal loro ritorno violento, generato proprio dal tentativo di rimuoverle. Noi viviamo – si potrebbe dire – precisamente lungo il margine che contemporaneamente distingue e congiunge intelligenza e passione, senza che nessuna delle due possa mai escludere l’altra.
Ma se è così per le emozioni positive – come quella dell’amore, cui è dedicato il prossimo festival di filosofia di Modena – ciò vale anche per quelle negative? La risposta degli autori del libro è che intanto non è sempre facile distinguere le une dalle altre, visto il loro profilo spesso ambivalente. La tonalità della nostra vita affettiva, quello che chiamiamo l’umore, è assai spesso così oscillante da non consentirne una definizione netta. Non si tratta soltanto dell’alternanza di stati d’animo diversi, in base al volgere degli eventi. Ma del fatto che non di rado essi sono allo stesso tempo positivi e negativi in un viluppo insolubile. Anzi forse l’elemento più rilevante nella nostra psicologia è proprio la presenza di un nucleo positivo all’interno di un quadro negativo e viceversa. La commozione, per esempio, cui gli autori del volume prestano un’attenzione particolare, che non è né soltanto piacevole né semplicemente spiacevole, nasce appunto dall’emergere di significati positivi da una situazione avversa – come può essere l’incontro con una persona che si credeva perduta.
D’altra parte suscitare simili stati d’animo è proprio dell’espressione artistica riuscita. Essa non isola mai il bello in contrasto frontale col brutto, né libera la vita dalla tangenza inquietante con la morte. Ciò che colpisce, emozionando o commuovendo, è sempre il confronto, o addirittura la compresenza, dei due poli contrari. Nel romanzo di Albert Cohen Bella del signore, il protagonista Solal, guardandosi allo specchio nel boudoir dell’amata Ariane, si vede “bello da vomitare”. Come è possibile? Come la bellezza può generare una sensazione di disgusto? Ciò può accadere quando essa è troppo pura o perfetta – non sfigurata neanche da un minimo difetto. È allora, come osservano anche Mendelssohn e Lessing, che essa può essere causa di una sorta di scoramento. Cosicché l’unico antidoto è quello di corromperla in qualche misura, rendendola più umana. Del resto il termine francese usato da Cohen, écoeurement, non significa insieme scoramento e nausea?

LE OMBRE DELL’ANIMA a cura di C. Tappolet, F. Teroni, A. Konzelmann Ziv Raffaello Cortina pagg. 150 euro 16

Repubblica 8.9.13
Quella Madonna del popolo e la spiritualità senza retorica nel “miracolo” di Caravaggio
di Melana Mazzucco


Da 408 anni se ne sta nella penombra, sulla soglia di casa, col figlio in braccio. Paziente, indisturbata perfino quando la città che la circonda diventa una spiaggia per turisti assetati. Le chiese di Roma ospitano quadri che nei musei attirerebbero le folle. Forse li proteggono da una curiosità effimera e sciatta: per vedere un quadro in chiesa, devi cercarlo. LaMadonna dei Pellegrini di Caravaggio ti aspetta nella prima cappella a sinistra della chiesa di sant’Agostino, a due passi da piazza Navona. Molte pitture sacre di Caravaggio destinate a essere esposte in pubblico furono respinte o rimosse con clamore, precipitandolo nella disperazione (ilSan Matteo Contarelli, La morte della Vergine, laMadonna dei Palafrenieri, la Madonna del Rosario).
Non questa.
È l’unico quadro di Caravaggio, ammiratissimo dai collezionisti più raffinati e dai colleghi più giovani, di cui sappiamo che piacque anche ai romani qualunque. Lo testimonia un contemporaneo: Baglione, non certo favorevole al pittore – di cui anzi era fiero nemico e che aveva mandato in carcere per diffamazione. Quando fu mostrato in pubblico, i “popolani” del rione Campo Marzio – racconta – fecero “estremo schiamazzo”. Schiamazzo: scomposto, sguaiato strepito di approvazione.
Nell’autunno del 1603, gli eredi del bolognese Ermete Cavalletti acquistarono dai frati agostiniani una cappella, già consacrata a Maria Maddalena e appartenuta a una cortigiana amante di Cesare Borgia, per dedicarla alla Vergine di Loreto. Ma quando, intorno al 1604, commissionarono la pala d’altare a Merisi non si aspettavano che raffigurasse il miracolo della casa di Maria a Nazareth, traslata sulle ali degli angeli a Loreto e divenuta da allora mèta di pellegrinaggio, luogo di guarigioni e redenzioni. I suoi quadri sacri troppo profani erano già considerati stravaganti e pericolosi: la sua avventura romana stava per concludersi. Caravaggio dipinse laMadonna dei Pellegrini servendosi, come sua abitudine, di modelli dal vero, nel buio studio di vicolo san Biagio, a poca distanza dalla chiesa – nella casa cielo-terra che aveva affittato per 40 ducati annui. Doveva averla già ultimata nel luglio del 1605, quando al Corso aggredì il notaio Pasqualone di Accumoli, “per causa di una donna chiamata Lena”. Per scampare l’ennesimo arresto, dovette fuggire a Genova.
Non so se Caravaggio credesse nei miracoli. È rischioso attribuire a pittori vissuti secoli fa i nostri dubbi e la nostra incredulità. Certo è che il miracolo di Loreto non lo dipinse. La casa di Maria a Loreto per lui è un palazzo romano, con lo stipite di travertino e l’intonaco sfogliato dall’umidità a denudare i mattoni della fabbrica. Sulla soglia di uno di quei palazzi, secondo le parole del notaio, “in piedi a piazza Navona” se ne stava, evidentemente a battere, la donna per causa della quale il pittore l’aveva aggredito. Eppure la casa di Maria è proprio quella. Lì sono giunti, stremati, due pellegrini. La pregano, e lei appare, col figlio in braccio.
La Madonna, bruna, scalza,le gambe incrociate in un gesto di suprema naturalezza (il pupone che regge tra le braccia pesa, e lei deve tenersi in equilibrio), la testa reclina, la gola e il volto sbiancati dalla luce lunare che da sinistra taglia la tenebra e la rivela, non somiglia a nessuna delle Madonne dipinte fino ad allora nelle chiese di Roma. E nemmeno nei quadri di devozione privata nascosti nei palazzi. Benché nella posa classica di una statua, sull’alto gradino come su un palcoscenico, l’aureola diafana della luce arcana alle sue spalle, è una donna – non idealizzata, vera in ogni suo tratto. Il suo corpo proietta un’ombra nera sul portale – che la rende quasi tangibile. Ha un volto comune, italianissimo. Potreste ancora vederla a passeggio fra le strade di Roma. Anche Gesù benedicente non ha nulla di divino. Nudo e paffuto, è un bambino qualunque.
La gente di Campo Marzio, nel 1605, conosceva l’uno e l’altra. Secondo la tradizione (o la leggenda), lei era Lena Antognetti, aveva 23 anni, faceva la vita. Già amante di cardinali, viveva col notaio Pasqualoni. Ma era ancora “la donna di Michelangelo”. Il notaio cornuto si vendicava bastonandola e poi – forse geloso anche del quadro – la sfregiò. Il giorno dopo, Caravaggio lo aggredì al Corso. Lui invece si chiamava Paolo, aveva due anni e mezzo, era figlio di Lena e di un vagabondo condannato al remo. Anche sorvolando sulla novità dell’inquadratura, sulla mancanza di decoro dei protagonisti (forse i committenti stessi, trasformati in viandanti pezzenti), coi piedi “fangosi” in primo piano, l’identità e la riconoscibilità della donna che aveva prestato volto, corpo, veste di velluto rosso e gonna di seta blu cenerealla Vergine, rendeva la tela scandalosa e contraria a tutti i precetti. Motivo sufficiente a farla rimuovere dalla chiesa. Eppure non fu così. Come si è detto, il popolo vi si riconobbe. Ma la ragione di questa permanenza deve essere cercata altrove. Cioè nell’opera stessa.
Essa non ha nulla di blasfemo, o provocatorio. È anzi pervasa da un profondo sentimento religioso. Se quella donna qualunque, nemmeno perbene, è stata scelta da Dio per fargli da madre, essa sarà la madre di tutti. Nessuno sarà abbandonato. Lei saprà ascoltare, accogliere e perdonare. Così i due pellegrini cadono in ginocchio ad adorare la Madonna e il Bambino. Ci ignorano, offrendoci le spalle, i piedi e il deretano: nella gerarchia controriformistica dell’anatomia, le membra più ignobili del corpo umano. I bastoni, gli abiti rattoppati, i piedi zozzi dell’uomo e la cuffia sdrucita della vecchia raccontano la strada percorsa, la fatica e la tenacia della loro fede. Noi vediamo la loro visione: la luce che investe Maria, si riverbera su di loro. I loro visi brutti e rugosi sono illuminati dalla grazia. Essivedono la Vergine e il Bambino. Il miracolo non è una casa in volo sulle ali degli angeli. È la presenza del divino tra le cose, i gesti e i corpi di tutti i giorni.
Caravaggio abolisce la retorica dell’iconografia sacra. Niente angeli né trombe. Riconduce il pellegrinaggio a un’esperienza interiore, immerge la trascendenza nel quotidiano, nel “vero” che lo ossessionava come pittore e che gli sembrava discrimine di autenticità e valore di ogni artista. Eppure nessuna pala seicentesca riesce a comunicare altrettanta spiritualità. A ognuno: col linguaggio del realismo e la grammatica della luce. Per questo la
Madonna dei Pellegrini è sempre stata la Madonna di tutti – i devoti e i peccatori, i cristiani e i miscredenti – ed è ancora lì.

Caravaggio: Madonna dei Pellegrini Roma, Chiesa di sant’Agostino (olio su tela 260 x 150 cm)

Repubblica 8.9.13
La psicoanalisi ai tempi di Skype
di Luciana Sica


Internet sta cambiando anche la psicoanalisi, e molto più di quanto si creda. Ormai non sono le correnti che vogliono “storicizzare” Freud, ma è il cyberspazio a rivoluzionare il cuore della psicoanalisi: la sua clinica, la relazione inconscia tra analista e paziente... A meno che non si voglia sostenere che il setting con il divano e le analisi via Skype siano la stessa cosa.
Tutta la materia è incandescente, però tanto più interessante delle stucchevoli diatribe tra analisti di orientamenti diversi.
Ne parla - in modo approfondito - un bel libro a più voci, curato da Andrea Marzi e introdotto da Antonino Ferro. In bilico tra una iniziale presa di distanza e una sorta di entusiasmo anche un po’ ingenuo, la psicoanalisi non poteva rimanere estranea al cambio di marcia ancora caotico e confuso rappresentato dalla Rete, all’influenza che le nuove tecnologie hanno sulla vita reale dei soggetti e sul loro funzionamento mentale. La dimensione virtuale non cambia radicalmente soltanto i ritmi e i modi di vivere, ma anche quelli di pensare e di esprimere gli affetti. Di fronte a un fenomeno di questa portata, quanto appaiono datati e ridicoli certi anatemi che ancora vengono scagliati in nome della “vera” psicoanalisi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
PSICOANALISI, IDENTITÀ E INTERNET a cura di Andrea Marzi, Franco Angeli, prefazione di A. Ferro, pagg. 251, euro 30