lunedì 9 settembre 2013

l’Unità 9.9.13
«Vogliamo cambiare il Paese ripartendo dalla Costituzione»
Rodotà, Zagrebelsky, Landini, Don Ciotti e Carlassare contro la riforma dell’articolo 138
Il 12 ottobre la protesta in piazza a Roma
di Andrea Carugati


Per il momento si sa che si troveranno in una grande piazza di Roma il 12 ottobre. E che l’obiettivo è riempirla di centinaia di migliaia di persone, un po’ come quella piazza San Giovanni dei girotondi nel 2002. Per stoppare il processo di revisione della Costituzione, innanzitutto. Per dire no alla guerra in Siria e soprattutto per rianimare una sinistra dispersa, che non si riconosce nel Pd e neppure nel M5S, ma che è pure stufa dei fallimenti come l’Arcobaleno e la Rivoluzione di Ingroia.
Alla guida di questo nuovo movimento, che non vuole farsi partito, ma diventare una «massa critica», sono in cinque: Stefano Rodotà, Maurizio Landini e la professoressa Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky e don Luigi Ciotti (gli ultimi due assenti ieri). «Nessuno di noi ha ambizioni politiche», mette subito in chiaro Carlassare, seguita a ruota dal leader Fiom che, quanto a candidature, punta solo a quella per succedere a se stesso alla guida dei metalmeccanici. La folla radunata al centro congressi Frentani di Roma, è quella dei grandi occasioni: sala strapiena, maxischermi, gente in piedi. I reduci non mancano, da Ingroia a Ferrero e Cesare Salvi, Casarini e Agnoletto. Vendola fa un salto, con Fratoianni e Migliore, ma più per un gesto di cortesia: Sel non è in prima fila in questa operazione. «Ma siamo attenti a quello che succede», dice il governatore pugliese. Corradino Mineo e Vincenzo Vita sono i due dem che tentano di fare da pontieri: ma basta che Vita citi il Pd che partono i fischi. E non è un caso che l’applauso più fragoroso arrivi quando Paolo Flores D’Arcais spiega che «come Blair è stato la vera vittoria della Thatcher, così se Renzi sarà l’unica alternativa Berlusconi avrà vinto ancora».
Rodotà tra le righe benedice i grillini sul tetto di Montecitorio, e se la prende con chi «li accusa di eversione e intanto cerca di sabotare lo Stato di diritto per salvare Berlusconi». Il riferimento è al Pdl, ma nel mirino ci sono le larghe intese, il governo e anche il Quirinale quando, come dice Guido Viale, «c’è uno scambio tra la manomissione della Costituzione e il tentativo di garantire stabilità a questo governo».
Rodotà non usa giri di parole: «Questa maggioranza non ha legittimità per cambiare la Costituzione. E il governo stesso è figlio di un grave azzardo politico. Il fatto che si stia proponendo una sospensione temporanea del 138 non è un’attenuante. Di sospensione in sospensione non si sa dove si arriva. Chi poi invoca il cronoprogramma sulle riforme istituzionali mi fa sorridere. Qui non si sa neppure se il governo arriva a domani...». «No, non si può più girare la testa dall’altra parte», spiega il Professore, fotografato come una star, «ci vuole coraggio e dobbiamo prenderci qualche rischio: dobbiamo rimettere in moto la politica, che può voler dire anche preparare il terreno per un nuovo soggetto, senza ripetere gli errori della Sinistra Arcobaleno e di Ingroia, come la lottizzazione dei posti».
Per il momento, l’obiettivo minimo è «indurre a un ripensamento» il Pd che vuole cambiare la Costituzione. «La Carta va cambiata, non deve prevalere lo spirito conservatore», manda a dire il premier Letta da Cernobbio. E Rodotà replica tra gli appalusi: «Qui da noi non troverà conservatori, semmai nella sua maggioranza. E se l’obiettivo è cambiare il bicameralismo non c’è bisogno di stravolgere il 138». Insiste Rodotà: «Non saremo una zattera per naufraghi, ma una casa per una sinistra vincente su temi come i referendum sui beni comuni».
«Un soggetto politico? La nostra ambizione è molto maggiore», dice Landini. «È cambiare questo Paese ripartendo dalla Costituzione. Ci sono milioni di persone che non votano più e si sentono sole. Vogliamo costruire un movimento di pressione». Il leader Fiom va ben oltre lo stop alle modifiche alla Carta. «Non siamo più disponibili a firmare accordi che chiudano le fabbriche», dice dal palco tra gli applausi. «Metteremo in campo gesti di difesa totale delle fabbriche e dei posti di lavoro. Se necessario, anche con l’occupazione delle fabbriche». «Il lavoro deve avere una nuova rappresentanza politica», incalza il giuslavorista Piergiovanni Alleva.
Dal palco Carlassare parla di un «risveglio delle coscienze» e dice che «a qualcuno fa comodo guidare un gregge ignorante». Flores parla di un «golpe bianco strisciante» in corso e avverte: «Nelle prossime settimane ci giochiamo la chiusura del ventennio berlusconiano. E se la piazza sarà inferiore a quella del 2002 saremo sconfitti». Si parla anche dell’ipotesi di grazia per il Cavaliere, «un insulto alla democrazia», secondo Landini. Ingroia è in prima fila: «Sono con i partigiani della Costituzione».

il Fatto 9.9.13
Rodotà e Landini, il “partito” della Carta
Insieme a don Ciotti, Carlassare e Zagrebelsky danno appuntamento al 12 ottobre: Tutti in piazza a Roma
di Sandra Amurri


Il primo intervento in una sala gremita è di Stefano Rodotà, promotore assieme a Maurizio Landini, don Luigi Ciotti, Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky dell’assemblea in difesa della Costituzione “La via maestra” svoltasi ieri a Roma, presieduta da Sandra Bonsanti. “Questa giornata non è una zattera per profughi, e non è la conclusione ma l’inizio di un lungo cammino che avrà come tappa la manifestazione del 12 ottobre a Roma. Le quasi 500 mila firme raccolte da Il Fatto raccontano un forte bisogno di partecipazione. Dobbiamo essere tutti meno autoreferenziali contro il vuoto di una politica appesa ad una dichiarazione che da un momento all’altro può far cadere il Governo”. Per Carla Carlassare l’emergenza è la crisi di valori: “Oggi assistiamo ad un disastro morale, deve tornare in primo piano l’art. 54 della Costituzione: coloro a cui sono affidate pubbliche funzioni debbono esercitarle con disciplina ed onore. Deve emergere la presenza di un’altra Italia che non sta in queste miserie indecenti. Costituzionalismo vuol dire porre limiti e regole al potere e noi siamo qui per imporgliele”. Raniero La Valle cita il digiuno contro la guerra in Siria promosso da Papa Francesco: “Quelle 1000 persone ieri a Piazza San Pietro, in silenzio nella società del rumore, difendevano la Costituzione oltraggiata da governanti infedeli come ricorda l’art. 11 scritto su un capitello: l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli....”. Antonio Ingroia ricorda che il piano di Licio Gelli “viene attuato paradossalmente con una maggioranza di governo e il garante della manomissione della Costituzione è il Presidente della Repubblica”. Dice no all’autoreferenzialità, invoca la costruzione di un movimento dal basso, aperto. “Le tante presenze qui oggi, le quasi 500 mila firme de Il Fatto chiedono che venga restituito l'onore alla nostra Carta”. La partita cruciale si giocherà a breve ricorda Paolo Flores d'Arcais “l'establishment ha creato una situazione manichea: due prospettive, affossare la Costituzione come vuole il Governo o realizzarla. La manifestazione di piazza deve essere così grande da determinare un nuovo protagonismo per dare voce ad una politica di realizzazione della Carta”.
NICHI VENDOLA resta fuori dalla sala, rilascia interviste, stringe mani come quella che gli porge con un sorriso una signora arrivata da Taranto: “Ci ha traditi, abbandonati, l’Ilva ci ucciderà tutti”. Vendola spiazzato: “Ci penso sempre” La signora: “Sì ci pensi, mi raccomando” e se ne va. Ad Enrico Letta che da lontano definisce i difensori della Carta “i nuovi conservatori”, senza citarlo risponde Maurizio Landini: “Il 12 ottobre la manifestazione ci sarà a prescindere da ciò che accadrà nel frattempo”. E se c’è chi dice che per uscire dalla crisi bisogna cambiare la Costituzione “noi diciamo che per uscire dalla crisi bisogna applicare la Costituzione. Non vogliamo sostituirci alla politica ma riportare le persone alla politica affinchè i principi costituzionali tornino ad essere la guida del-l’agire. Crediamo che il Paese si possa cambiare rimettendo al centro la partecipazione. Questo è il momento della responsabilità soggettiva, ognuno deve fare ciò che dice”.

Corriere 9.9.13
Rodotà e Landini: la Carta va difesa


ROMA — Stefano Rodotà e Maurizio Landini insistono con la «via maestra» che è la Costituzione per orientare la politica e rispondere ai problemi sollevati dalla crisi dei partiti. Lo hanno ribadito ieri in un’assemblea a Roma in cui si è parlato più volte anche del «caso» Berlusconi. «Di fronte a dichiarazioni e comportamenti veramente eversivi da parte sua, tutte le alte cariche dello Stato hanno il dovere di avere una parola più forte in questo momento», ha avvertito Rodotà citando esplicitamente il presidente della Repubblica ed esprimendo un giudizio positivo sul comunicato del Quirinale del 13 agosto. Ma ha difeso i Cinquestelle. Per il giurista infatti le proteste sul tetto di Montecitorio dei deputati di M5S potranno essere «discutibili» nelle modalità, ma sono «comprensibili». Ed Enrico Letta avrebbe «travisato» le posizioni di quanti si oppongono alle riforme costituzionali proposte dall’esecutivo.
All’assemblea in difesa della Costituzione, alla quale ha partecipato anche il leader di Sel, Nichi Vendola, oltre al segretario nazionale di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, e, appunto, il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, Rodotà ha aggiunto che «nel corso di quest’ultimo mese è scomparso anche il senso dello Stato di diritto». Il giurista ha quindi ricordato la manifestazione che si terrà a Roma il prossimo 12 ottobre in difesa della Costituzione avvertendo che l’iniziativa non deve essere percepita «come una zattera per naufraghi ma come l’inizio di un lavoro». La «via maestra» è anche il titolo di un manifesto che, oltre ai nomi di Rodotà e Landini, porta la firma di Lorenza Carlassare, don Luigi Ciotti e Gustavo Zagrebelsky. Ieri ha aderito ufficialmente anche Rita Borsellino con il suo movimento «Un’altra storia».

Repubblica 9.9.13
l giurista replica a Letta sulle riforme e guida l’assemblea a difesa della Carta convocata insieme a Zagrebelsky
Rodotà: “Conservatori? Sulla Costituzione sì”
E Landini minaccia l’occupazione delle fabbriche
di Mauro Favale


ROMA — «Né una zattera per naufraghi né un onorato rifugio per reduci di battaglie perse». Stefano Rodotà lo mette in chiaro da subito: davanti a 300 persone stipate in una sala congressi romana a metà strada tra la stazione Termini e l’università La Sapienza, il giurista battezza così l’assemblea “aperta” convocata insieme al presidente di Libertà e Giustizia, Gustavo Zagrebelsky, al leader della Fiom, Maurizio Landini, alla costituzionalista Lorenza Carlassare e al fondatore di Libera, don Luigi Ciotti.
E se il Professore sa bene come non dovrà concludersi il percorso tracciato ieri, più difficile è immaginare l’approdo finale. Quel che è certo, per ora, è che la bussola sarà la Costituzione e la prima tappa è già fissata: appuntamento il 12 ottobre a Roma per una manifestazione. Per adesso c’è un documento, “La via maestra”, che nel frattempo verrà dibattuto in varie città mentre si apre la discussione in Parlamento sulle riforme costituzionali. Un disegno di legge che preoccupa i 5 firmatari del manifesto,convinti che la Carta vada «applicata e non modificata». E pazienza se si passa per «conservatori», come ieri Enrico Letta ha definito quelli che non vogliono mettere mano al bicameralismo o al numero di deputati e senatori.
«L’argomento del premier è capzioso — contrattacca Rodotà — perché si poteva iniziare da lì, senza puntare alla tortuosa modifica del 138 (l’articolo che determina le possibili revisioni della Carta, ndr). Ma se si tratta di difendere i principi della Costituzione allora sì, siamo assolutamente conservatori». Ad ascoltarlo, in platea, c’è soprattutto la sinistra rimasta fuori dal Parlamento. C’è il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e il leader di Azione Civile Antonio Ingroia. In due punti distanti della sala ci sono anche gli ex portavoce del Genoa Social Forum per il G8 del 2001, Vittorio Agnoletto e Luca Casarini. Passa Nichi Vendola che, però, resta defilato e non interviene.
Per il Pd si vedono Corradino Mineo e Vincenzo Vita. Quando tocca a quest’ultimo spiega di essere ancora «iscritto al Pd» e in tanti rumoreggiano. «Un errore — dirà poi Rodotà — non dobbiamo chiuderci nella nostra autoreferenzialità ». Al contrario, si applaude quando Landini avverte: «Non siamo più disponibili a firmare accordi che chiudano le fabbriche. Metteremo in campo gesti di difesa totale dei posti di lavoro. Se necessario, anche con l’occupazione delle fabbriche».
L’altro applauso fragoroso lo incassa Paolo Flores D’Arcais, fondatore di Micromega: «Se fra qualche mese l’unica alternativa elettorale si chiamerà Matteo Renzi, allora vorrà dire che Berlusconi avrà vinto». Nella sala si vedono molti capelli bianchi, diversi trentenni, qualche maglietta di Che Guevara e tanti che 2 anni fa hanno partecipato alla vittoria dei referendum sull’acqua. «È da lì che bisogna ripartire — ricorda Rodotà — per fare “massa critica”. Parlare adesso di struttura organizzativa sarebbe letale e intempestivo. Sinistra Arcobaleno e Rivoluzione civile sono stati due fallimenti. Noi ci proponiamo di incidere sulla politica in modo diverso ». In platea sono avvisati.

l’Unità 9.9.13
La sinistra con Cuperlo
Barca: serve la squadra
A Genova la «Costituente delle idee» Damiano, Chiti, Folena, Lucà applaude lo sfidante di Renzi
Un contestatore lancia acqua contro Violante
L’ex ministro: no a leader carismatici
di Simone Collini


Dicono che per ora non si schierano con nessuno dei candidati in campo, ma la sintonia con le posizioni di Gianni Cuperlo è evidente. A Genova è il giorno della «Costituente delle Idee», operazione avviata da Cesare Damiano, Vannino Chiti, Pietro Folena, Mimmo Lucà e alla quale hanno finora aderito firmando un documento programmatico una sessantina di parlamentari del Pd, una ventina di ex ministri e deputati e senatori delle passate legislature, centinaia di iscritti e militanti, di rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni sindacali e della società civile.
«Nel Pd non si è mai veramente discusso di una linea politica, ma adesso è ora di invertire la rotta e di costruire un partito aperto ai militanti 365 giorni l’anno, non solo nei pochi giorni delle primarie», dice Vannino Chiti arrivando al Porto Antico per presentare l’iniziativa. Un centinaio di persone rimane ad ascoltare gli interventi alla Festa nazionale del Pd, che chiude oggi, ma altri incontri seguiranno in tutta Italia (sono già passati per Firenze e Campobasso, nelle prossime settimane saranno a Salerno, Torino, Napoli) fino all’incontro clou a Roma nel mese di ottobre.
Lì ufficializzeranno il loro sostegno a uno dei quattro candidati in campo, ma a leggere il documento programmatico con cui sono entrati nella partita congressuale si può prevedere che convergeranno su Cuperlo, che ieri era presente all’iniziativa ed è stato anche molto applaudito. «Abbiamo chiesto a tutti i candidati un incontro spiega Damiano, Cuperlo ci ha dato subito la sua disponibilità ma ora vedremo anche Civati e Pittella, l’unico che non si è ancora fatto sentire è Renzi». L’impostazione del documento alla base dell’operazione è molto distante dalle posizioni espresse dal sindaco di Firenze, a cominciare dal no al pensiero liberista e al presidenzialismo, dalla centralità di lavoro e impresa, dalla convinzione che si debba difendere lo stato sociale e correggere il sistema pensionistico targato Fornero.
«Vogliamo che i nostri contenuti abbiano un riconoscimento e una dignità congressuale spiega Damiano vogliamo attivamente partecipare, non staremo alla finestra». Per il presidente della commissione Lavoro della Camera adesso bisogna discutere di temi concreti, di programmi più che di leadership, perché «altrimenti facciamo scelte mediatiche mentre noi dobbiamo fare delle scelte politiche». Un ragionamento fatto anche da Chiti, per il quale «vanno privilegiati i contenuti perché la scelta dei candidati non può essere fatta a prescindere dai temi dell'impostazione politica». Di temi concreti, e in particolare di uno, vorrebbe si discutesse anche Gianni Pittella: «Io voglio riportare la cultura della legalità e la lotta alle mafie al centro del dibattito congressuale», dice l’europarlamentare che in questi giorni si è mosso tra Palermo, Catania, Bari, Caserta, Napoli e Reggio Calabria con il suo tour della legalità, «servito per ascoltare e avanzare proposte sullo sviluppo del sud e sul riutilizzo dei beni confiscati».
Ma poi c’è anche un altro esponente del Pd, a lungo corteggiato da bersaniani e da Rosy Bindi perché scendesse in campo, a chiedere una discussione programmatica e a mettere in discussione l’idea che quello che serve ora al partito per un rilancio sia dotarsi di una leadership carismatica. Quell’esponente è Farbizio Barca, che non si candida e fa capire che non andrà a nutrire la già nutrita pattuglia dei sostenitori di Renzi (a cui si è aggiunto il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni). «Quante volte abbiamo sentito dire che ci voleva un leader unico con forti poteri circondato da tecnici capaci di soluzioni straordinarie e risolutive?», si domanda l’ex ministro ripercorrendo nel suo blog sull’“Huffington Post” quanto sentito e quanto visto negli ultimi 25 anni: le leggi elettorali per dare stabilità al governo, i «partiti» della società civile affidati «a un "proprietario", a un mattatore, a un tecnico». I risultati? «Pari a zero». «Non sorge il dubbio che stiamo sbagliando e che bisogna cambiare rotta? Che, certo, ci vogliono leader carismatici, ma dietro devono avere una squadra e una strategia frutto di fatica e dibattito? Che la squadra, la strategia e la partecipazione hanno bisogno di un partito-palestra, innovativo, strumento della società?».
A Genova si parla anche di questo, e quando arriva per discutere di legge elettorale, Luciano Violante invita tutti ad affrontare con serenità la fase congressuale: «Ci sarà chi vince ma non siamo in Nicaragua dove chi vince fa fuori tutti gli altri. Siamo una forza democratica. Non c’è un meccanismo per cui chi vince caccia gli altri. Chi vince governa. Gli altri faranno opposizione ma con l’obiettivo di far vincere il Pd alle elezioni». E la stessa serenità l’ex presidente della Camera la dimostra mentre è al Porto antico a parlare con dei giornalisti e una persona da dietro gli lancia dell’acqua da una bottiglietta (l’autore del gesto viene poi identificato dalla Digos e risulta che già in precedenza aveva accolto personalità politiche a Genova con gesti simili). Violante ai giornalisti, con calma: «Non preoccupatevi, sono cose che succedono».

il Fatto 9.9.13
Santoro: meglio Renzi che niente. Mieli: B. finito
di Silvia Truzzi

Marina di Pietrasanta (Lucca) Se esistesse un antidoto all’amore, non staremmo qui a parlare delle sue conseguenze. Qui – dopo la pioggia, in attesa di un arcobaleno che non arriverà – c’è l’Italia in lacrime, ancora scossa dai fremiti di una passione (è il caso di dirlo) travolgente. Sul palco dell’incontro di chiusura della festa del Fatto si danno la mano Paolo Mieli e Michele Santoro. E si parlano d’amore, in una conversazione incrociata sugli effetti della freccia di Cupido sui popoli che sono stati folgorati da Hitler, Stalin, Mussolini. E da B. Per prima cosa – chiariscono i due ospiti – il paragone non riguarda il modo con cui i quattro hanno gestito il potere. “Nei vent’anni di berlusconismo, l’Italia non ha vissuto un regime”, spiega Santoro. “Un regime è un’altra cosa”. Ciò di cui ci si occupa questa sera è la capacità d’irretire, sedurre, persuadere. Intanto – spiega il conduttore di Servizio pubblico - “nelle dittature quelli che s’innamorano sono una minoranza. Molto più numerosi sono i conformisti, i vili, gli opportunisti”. E comunque – rimbalza Mieli – “state tranquilli che anche domani, quando Berlusconi sarà finito, non troverete nemmeno un berlusconiano. Tutti a scuotere la testa e a bisbigliare parole amare di condanna e sdegno. È stato così dopo Tangentopoli: impossibile incontrare uno che fosse stato socialista o democristiano. L’Italia, da quando è nata, si basa su una memoria truccata”.
Un Paese senza identità (e qualità?) che non ha mai fatto i conti con il passato. Ma siamo davvero sicuri che in questo teatrino parlamentare di giunte convocate e grazie invocate, B. sia davvero finito? “Io non ho dubbi”, spiega Mieli. “Andrà in carcere o ai domiciliari o ai servizi sociali. Però è finito. State attenti, non è detto che la storia finisca con la sua fine”. Ci saranno ancora echi del suo passaggio, in questa opacità diffusa dove tutti sono amici e nemici contemporaneamente, “per il bene del paese”. “Perché – spiega il presidente di Rcs libri – con Berlusconi c’è stato un doppio amore. Quello dei suoi, ed è scontato. Ma anche l’amore di chi avrebbe dovuto osteggiarlo”.
E LUI, COME ha fatto: quali arti, quali filtri d’amore ha usato? Non parliamo di dove ha preso i soldi, ma di come ha preso il cuore degli italiani. “Cominciamo a sfatare un mito”, spiega Santoro. “Berlusconi è un grande seduttore? Falso. La prima volta che lo incontrai, ricordo che per i primi venti minuti lui fece uno show ad uso e consumo mio. Chiamò l’allenatore del Milan per digli di cambiare terzino, Boncompagni per spiegargli che la ragazza della seconda fila aveva le tette troppo piccole. Poi cominciai a parlare io. E lui fece una cosa che mi stupì molto. Mi ascoltò. Berlusconi la televisione la guardava per davvero. Cercava di capire cosa voleva la gente. Gli altri, i Prodi, i D’Alema, la televisione la guardavano come si fa con uno specchio, cioè solo quando ci andavano loro. Non è un seduttore e non è nemmeno un grande cantante che incanta le folle”.
“LA STORIA la scrivono i vincitori”, ricorda Mieli. “E dunque la storia non ci racconta che l’amore per Stalin e Hitler portò ad un’identificazione da parte del popolo tedesco e del popolo russo. Ma come è stato possibile? La Germania di Weimar era un posto dove se andavi a cena fuori, mentre mangiavi il cameriere cambiava il prezzo delle portate, tanto l’inflazione galoppava. Tra Lenin e Stalin, la Russia era ridotta alla fame. I due dittatori rappresentavano la promessa di un riscatto. E da lì, l’amore. Dopotutto i sentimenti si accomodano dove ci sono posti vuoti. E così ha fatto Berlusconi, parlando alle periferie del Paese “dove la sinistra non metteva piede da anni”, dice Santoro. Morte le ideologie, le idee non sono sopravvissute. E ora? “Lo dico con trasparenza: se vince Renzi sono contento. Almeno si volta pagina”. La speranza di un amore, o almeno di un calesse.

Corriere 9.9.13
L’arma finale degli anti-Renzi: il Congresso dopo le Europee
Cuperlo non ha i numeri: l’unica strada è allungare i tempi
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Non sono mai finito in minoranza in un Congresso»: è la frase che Massimo D’Alema amava ripetere fino a qualche tempo fa. Ed è sempre questa la frase che ultimamente ha accompagnato la sua domanda di rito ai maggiorenti passati e presenti del Pd: «Ma volete che il partito finisca nelle mani di Renzi?».
Come evitare entrambe le prospettive? Cioè quella di far finire in minoranza un pezzo del Pd che per ora ha sempre viaggiato in maggioranza e quella di consegnare il partito nelle mani del sindaco di Firenze. D’Alema fa sapere che non si sta occupando del problema: «Veramente ho la testa rivolta allo scenario internazionale», spiega ai compagni di partito, preannunciando che lui, all’Assemblea nazionale, non ci sarà per precedenti impegni all’estero.
Ma se l’ex premier si divide tra la vigna umbra e lo scacchiere internazionale, c’è chi provvede per lui agli «affari domestici». Del resto, nell’apparato, nei gruppi dirigenti e in quelli parlamentari i nemici del sindaco di Firenze non sono pochi. È di ieri, per esempio, l’ufficializzazione del «no» di Anna Finocchiaro a Renzi. La presidente della commissione Affari costituzionali del Senato non ha perdonato al sindaco di Firenze la bocciatura come candidata al Quirinale.
I nemici di Renzi in questi giorni hanno quindi cercato di darsi da fare anche con una campagna acquisti nei sindacati. Operazione che si è rivelata più difficile di quello che sembrava. La Cgil, per storia e cultura, è più vicina a Gianni Cuperlo, ma non sono più i tempi del sindacato di Sergio Cofferati, schierato nella lotta interna ai Ds. Come tiene a precisare Massimo Gibelli, che per la Cgil cura la comunicazione, non vi sarà nessun endorsement ufficiale e univoco: «Siamo un soggetto autonomo, anche se non indifferente». La caccia al voto nella Cisl non è andata meglio. È vero che Franco Marini e Sergio D’Antoni, due ex segretari di quel sindacato, si sono schierati apertamente contro Renzi. Ma è altrettanto vero che Raffaele Bonanni, attuale segretario della Cisl, non ha nessuna voglia di cadere nella trappola del «chi sta, con chi». Anche perché dall’altra parte l’unico candidato credibile è Gianni Cuperlo, ma schierarsi con lui e con la sua impostazione socialdemocratica per Bonanni sarebbe una pratica impossibile.
Dunque, la caccia al voto nei sindacati di riferimento del Pd non ha portato grandissimi risultati: solo singole adesioni, per quanto importanti. Non bastano per sperare che Cuperlo prenda un significativo numero di consensi. E secondo tutte le rilevazioni fatte finora anche se tutti gli altri candidati cedessero il passo, lasciando in campo solo al sindaco di Firenze e al candidato di D’Alema, la situazione non muterebbe di tanto. Favorirebbe sì Cuperlo che così vedrebbe aumentati i suoi consensi, ma non gli servirebbe di sicuro a battere Renzi.
Si torna allora all’unica strada possibile. Sempre la stessa, quella dell’allungamento dei tempi del Congresso. Dietro alla quale si nasconde un piano azzardato, smentito da tutti ufficialmente e da tutti sussurrato a mezza bocca.
Basta mettere in fila le date del prossimo anno per capire che cosa potrebbe veramente accadere se le assise dovessero essere rinviate al 2014. Per l’anno prossimo, infatti, ci sono degli appuntamenti a cui il Partito democratico non può sottrarsi e a causa dei quali il Congresso potrebbe slittare ulteriormente. Uno di questi lo ha evocato Stefano Bonaccini, che guida il Pd emiliano, di fronte ad altri segretari locali, preoccupati come lui per lo slittamento dei tempi: «A gennaio-febbraio dovremo tenere le primarie per i candidati sindaci». Svolgere il Congresso in quei due mesi potrebbe quindi essere complicato. Ma potrebbe essere altrettanto difficile, se non di più, indirlo durante la campagna elettorale per le amministrative di primavera. È infatti il caso di mandare in scena un Pd diviso tra Cuperlo e Renzi proprio quando tutto il partito ha bisogno di essere unito per prendere il maggior numero di consensi in quella tornata elettorale? Che, sia detto per inciso, non è la sola, visto che c’è anche l’improcrastinabile appuntamento con le Europee.
Insomma, per farla breve, tra fibrillazioni politiche, crisi perennemente minacciata ed elezioni, i tempi del Congresso potrebbero slittare all’infinito...

Repubblica 9.9.13
Pd senza regole. E il congresso può slittare al 2014
Cuperlo: primarie per il segretario non per la premiership. Bersani: nessun trucco
di Giovanna Casadio


ROMA — Epifani l’ha ribadito in chiusura di festa del Pd a Genova, e ci torna di nuovo Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi alla segreteria: «Le primarie? Sono per il segretario non per il candidato premier». Quindi bisogna cambiare le regole: separare leadership del partito dalla premiership, e cominciare dai congressi locali. Ma l’accordo sulle regole del congresso non c’è: i renziani non vogliono modifiche; la sinistra, a partire da Bersani, sì.
Per il Pd comincia una settimana decisiva. Roberto Gualtieri è stato incaricato di scrivere una bozza d’accordo sulle regole entro venerdì, quando si riunirà il “comitatone”. Ci sta lavorando. Mentre i bersaniani hanno due appuntamenti per decidere chi appoggiare nella corsa alla segreteria. Sono rimasti isolati, dopo l’endorsement di Franceschini a Renzi. Si stanno spostando su Cuperlo, anche se la decisione vera e propria dovrebbe arrivare in una riunione, mercoledì. Sospettato di ordire trappoloni al sindaco di Firenze, Bersani contrattacca: «Basta dire che qualcuno fa trucchi, siamo un partito, un collettivo, non c’è nessuno che ha in mano le chiavi delle regole». E insomma, deciderà l’Assemblea nazionale convocata per il 20 e il 21 settembre. I renziani accusano di traccheggiamenti, di non avere indicato la data del congresso nella speranza che possa slittare al prossimo anno, a gennaio, febbraio. Bersani garantisce che non è così. Annuncia cheappoggerà il candidato che assomiglia alla sua idea di partito e che comunque non intende fare il «team maker».
Però a temere un rinvio del congresso ora ci sono anche i “giovani turchi”. «Se si tiene questo schema di cominciare dai congressi locali, si rischia di non fare le primarie entro novembre o al massimo l’inizio di dicembre». Ragiona Francesco Verducci, che è nel comitato per le regole. Le sfide locali in pratica, così come le immagina Epifani, porterebbe a svolgere le primarie nazionali non prima di gennaio. I “giovani turchi” proporranno quindi di congelare i congressi regionali. Non la sola novità. «Per combattere davvero il correntismo che affligge il partito, basta un rimedio intanto - spiega Verducci - che ciascun candidato sia sostenuto da una sola lista, non come accade ora. Se tutti ci stanno, si può fare; vedremo così chi è contro le correnti a parole, e chi lo è nei fatti». Due idee e visioni di Pd si confrontano e si scontrano. «Serve un segretario che rinunci alla ribalta mediatica », bacchetta il ministro Andrea Orlando, supporter di Cuperlo, che chiede a chi è passato con Renzi: «Ne spieghino i motivi».
Fabrizio Barca, l’ex ministro della Coesione territoriale, impegnato per una riscossa del Pd (però non vuole candidarsi alla segreteria), ha lanciato un questionario: «Il partito ha davvero bisogno di un leader carismatico? ». Barca nei mesi passati ha girato per i circoli del Pd, e appoggia le iniziative di Pippo Civati. Civati è l’altro candidato alla segreteria, più che mai determinato - ribadisce - a correre alla primarie. «Sono molto felice di non ritirarmi, al massimo mi ritiro in una festa del Pd». E stigmatizza i posizionamenti già in corso: «... sembra un calciomercato ». Fuori dalla mischia del partito vuole restare il premier Letta. Punta alla navigazione del governo, e non vuole farsi strattonare: «Mi dedico completamente alla missione di governo. Del partito, il Pd, a cui sono affezionato, non posso e non voglio occuparmi,e non me ne occuperò».

il Fatto 9.9.13
Matteo Renzi
Si crede Obama, ma ricorda di più i suoi “nemici” Veltroni e D’Alema
di Giampiero Calapà

LA SIGNORIA FIORENTINA di Matteo Renzi si concluderà nel maggio 2014. Difficilmente vorrà continuare a fare il sindaco, sempre che lo abbia mai fatto fino in fondo. Quasi mai presente in Consiglio comunale, sarà ricordato solo per la pedonalizzazione di piazza Duomo. Divorato da un’ambizione sfrenata, il boy scout di Rignano sull’Arno – “n u ovo” ma nell’apparato politico fiorentino (Ppi, poi Margherita e Pd) dall’adolescenza – già sconfitto alle primarie dello scorso novembre da Bersani, vuole ritentare l’assalto al palazzo romano. Potesse farci un pensierino non disdegnerebbe neppure il Soglio Pontificio. Vuole vincere sotto le insegne del Pd, prendendosi anche i voti di destra e con idee molto lontane da quelle della sinistra tradizionale, a partire dalle ricette economiche di Pietro Ichino (nel frattempo passato a Scelta Civica di Monti). Nonostante questo pare un predestinato alla vittoria, in un panorama arido di attori di livello (ma chi è Cuperlo?). Si propaganda come una via di mezzo tra Kennedy e Obama, ma “l’a m e r i ka n o” a cui somiglia di più è Walter Veltroni, simile la retorica, anche se con una base culturale decisamente inferiore a quella dell’ex sindaco di Roma. Altre somiglianze: antipatia e insofferenza verso chi non la pensa come lui, stile D’Alema. Sì, proprio Veltroni e D’Alema. Viva la Rottamazione.

Corriere 9.9.13
Civati e le alleanze: no alle regole del calciomercato
di T. Lab.


ROMA — «Mi creda, i numeri sono questi. Migliaia», dice Pippo Civati. «Alle iniziative a cui partecipo e ai comizi che faccio, vedo migliaia di persone. Un patrimonio di tutto il Pd. Soprattutto nel momento in cui il congresso del nostro partito è passato dalla padella del dibattito sulle regole alla brace del calciomercato del “chi va con chi”», aggiunge.
Il deputato lombardo, in campo per la segreteria del Pd, sfida Matteo Renzi e Gianni Cuperlo su due fronti. Uno è quello, appunto, «della sfida al calciomercato che s’è aperto». I nomi sono fin troppo scontati. «Dario Franceschini s’è schierato con Renzi, Cuperlo è il candidato di Massimo D’Alema. Che qualcuno di questi signori venga col sottoscritto», sorride, «è escluso». Ma «il dramma», aggiunge, «è che si sta determinando, negli schieramenti che sostengono quei due candidati, la vecchia dinamica tra la Margherita e i Ds. La prima con Renzi, i secondi con Cuperlo».
L’altro fronte, che per Civati «è quello decisivo in un congresso come questo», riguarda il rapporto tra il Pd e il governo. «Rispetto all’esecutivo, Renzi e Cuperlo hanno una posizione che li porta verso lo stesso punto. Il primo, per adesso, ha paura di inimicarsi Letta e si terrà alla larga da qualsiasi intervento. Il secondo ha detto chiaro e tondo che il governo deve durare fino al 2015». Per cui, è il sottotesto, l’unica linea ufficiale contro le larghe intese, è quella sua. «Io l’ho detto chiaramente e lo ripeto. Per quanto mi riguarda, il governo deve approvare la legge di Stabilità e cambiare la legge elettorale. Dopodiché, la parola andrebbe subito restituita agli elettori».
Questa piattaforma, giura Civati, è quella che fino ad adesso gli ha consentito di raccogliere - in vista dell’inizio del congresso - «un 20 per cento di consensi che mi attribuiscono alcune rilevazioni riservate e molto attendibili». Obiettivo? «Io parto da questo 20 per cento, che considero come la mia base di partenza. Dopodiché, puntiamo ad arrivare più in alto possibile».
Nessun timore reverenziale nei confronti dei due sfidanti. Al punto che, tanto per dirne una, Civati ha promosso proprio a Firenze, in casa di Renzi, una «scuola di politica alla quale hanno partecipato, negli ultimi giorni, duecentocinquanta ragazzi». Una struttura che, aggiunge rispondendo a una domanda sul parallelo con la vecchia scuola quadri dei comunisti italiani, «è una via di mezzo tra la Frattocchie del Pci e una scuola americana». E conclude: «La mia idea è quella di un congresso-campagna su cosa recuperare del Pd attuale e su come rilanciarlo. Abbiamo un obiettivo: dare a questo partito una nuova spinta. E questo è il momento della mobilitazione. Una mobilitazione che Fabrizio Barca chiamerebbe “cognitiva”».

Corriere 9.9.13
Il Pdci post-Diliberto riparte da un summit con i comunisti cinesi

Il nuovo corso del Pdci riparte da un summit con una delegazione del Partito comunista cinese, in visita in Italia. I Comunisti italiani, ora guidati dal nuovo segretario Cesare Procaccini dopo la lunga leadership di Oliviero Diliberto, incontreranno domani a Roma una delegazione dei comunisti cinesi. La task force del Pdci sarà guidata da Procaccini e ci sarà anche Diliberto, che al congresso straordinario dello scorso luglio ha lasciato la guida del partito. Dopo il flop alle ultime elezioni nella lista Rivoluzione civile guidata dall’ex pm Antonio Ingroia, ai Comunisti italiani non dispiace l’idea di potenziare le relazioni internazionali. In parallelo ai contatti politici con la delegazione di Pechino, mercoledì è in agenda un confronto tra i rappresentanti di alcune aziende italiane e i colleghi cinesi della provincia costiera di Fujian.
L’obiettivo? Esplorare possibili canali di cooperazione economica, in particolare nei settori food e del marmo. La situazione economica italiana e la possibilità di sviluppare eventuali relazioni commerciali saranno illustrate da Paolo Marini, consigliere regionale Pdci della Toscana.

Repubblica 9.9.13
Il democratico Giuseppe Cucca, capogruppo in Giunta
“In giurisprudenza, per cambiare una prassi consolidata servono argomento fondati che al momento non vedo”
“Non accettiamo tattiche dilatorie la Severino ci impone rapidità”
di A. Cuz.


ROMA — Il capogruppo pd in giunta per le immunità, Giuseppe Cucca, assicura: «Nessuno ha intenzione di tirarla per le lunghe» sulla decadenza di Silvio Berlusconi in attuazione della legge Severino.
Nessuno tranne il Pdl.
«L’accordo in commissione è stato questo. Si va avanti veloci. Anche perché la legge dice, due volte, che bisogna procedere “immediatamente”».
Oggi cosa accade?
«Il senatore Augello ci presenterà la sua relazione, vedremo quali saranno gli argomenti giuridici che ha intenzione di portare alla nostra attenzione. Poi si aprirà la discussione, limitata a chi ritiene di dover intervenire subito».
Il ricorso in Europa può cambiare qualcosa nell’iter della giunta?
«Allo stato no. Lo stesso ricorso chiede solo la trattazione urgente, non la sospensione».
E la possibile richiesta di revisione
del processo?
«A norma di regolamento non può cambiare assolutamente nulla. Abbiamo davanti una sentenza passata in giudicato. La richiesta di revisione, in qualsiasi caso, non sospende mai l’esecuzione della pena, quindi neanche gli effetti di legge».
Sulla Consulta vi siete già
pronunciati a luglio.
«Non è la giunta che può sollevare dubbi da porre davanti alla Consulta. Noi fungiamo da pre-istruttoria, sarà l’aula a decidere. E il Pdl può appellarsi alla Corte costituzionale solodavanti a un’autorità giurisdizionale».
Ma lei sa che il Pdl cercherà di allungare i tempi.
«Non so quel che dirà Augello, che sta lavorando con grandissimo equilibrio. So però che per cambiare la prassi, in giurisprudenza, bisogna portare fondati argomenti giuridici, che allo stato non vedo».

Repubblica 9.9.13
Il giurista Pd alla festa di Genova. Un mitomane gli versa addosso una bottiglietta d’acqua
Violante boccia il Cavaliere “Ricorso a Strasburgo infondato”


NADIA CAMPINIGENOVA — Il ricorso dei legali di Berlusconi alla Corte di Strasburgo è «infondato». Lo ha detto ieri pomeriggio alla festa democratica di Genova l’ex presidente della Camera Luciano Violante, dopo che nelle scorse settimane si era attirato le critiche del centro-sinistra, perché aveva difeso la possibilità per la giunta della decadenza di sollevare la questione di costituzionalità della legge Severino. Per quanto riguarda invece il ricorso a Strasburgo Violante è stato subito netto: «Secondo me il ricorso è infondato - ha spiegato ieri a Genova - perché per essere fondato dovrebbe presupporre che la decadenza sia stata applicata. In questo caso non è stata applicata e quindi non credo sia ammissibile il ricorso».
L’ex presidente della Camera ed ex magistrato ha precisato poi che secondo il suo parere non si pone neppure il problema della retroattività della legge Severino nella vicenda di Berlusconi, ma ha ribadito che tocca alla giunta decidere. «Aspettiamo che decida la giunta tranquillamente», ha confermato, e si è anche detto fiducioso sulla tenuta del governo perché altrimenti «sarebbero vanificati tutti i sacrifici che il paese ha fatto fino ad ora. Francamente non credo.Sarebbe molto irresponsabile».
Mentre rispondeva alle domande di giornalisti all’Expò di Genova Violante è stato anche innaffiato in testa con una bottiglietta d’acqua da un contestatore, che non è nuovo a questi gesti. Si tratta di un trentaquattrenne che in passato aveva già tirato una torta in faccia all’ex sindaco di Genova Marta Vincenzi, era stato protagonista di un’incursione in casa di Beppe Grillo e pochi mesi fa aveva anche dato uno scappellotto all’attuale sindaco Marco Doria. Ieri è toccato a Violante. «Ho voluto rinfrescargli un po’ le idee - ha detto l’uomo quando è stato fermato dalla Digos, pochi metri più in là - L'ho visto confuso in questo periodo... ora però vorrei che sia garantista con me come è stato con Berlusconi. E mi aspetto che non mi denunci per un semplice gavettone».
L’ex presidente della Camera per altro non si è scomposto più di tanto, si è limitato ad asciugarsi con un fazzoletto e ha poi proseguito il colloquio con i giornalisti, prima di salire sul palco del dibattito per parlare di politica e legge elettorale.

Repubblica 9.9.13
L’ultimo grado di giudizio
di Ilvo Diamanti


OGGI si riunisce la Giunta per le elezioni del Senato per deliberare sulla decadenza – o sulla permanenza – di Silvio Berlusconi. Il quale, nel frattempo, ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo.
Silvio Berlusconi, dunque, invoca l’intervento di un tribunale europeo per contrastare le sentenze di altri tribunali, che rischiano di comprometterne il ruolo politico (e non solo). La sentenza dei giudici di Milano, d’altronde, è la prima che abbia esito definitivo, per Berlusconi. Per questo Berlusconi, i suoi consulenti legali e parlamentari, che in buona parte coincidono, si battono perché venga sospesa, derogata, rinviata. Perché il caso sia riaperto. Com’è normale, in questa Repubblica, nata vent’anni fa per effetto dell’azione dei magistrati. I quali, da allora, hanno mantenuto un ruolo di primo piano. Nella vita pubblica e in quella politica.
In realtà, le inchieste dei magistrati investirono un sistema politico e istituzionale largamente delegittimato. Privo di fondamenta e di consenso, come dimostrarono, da ultimi, i referendum del 1991 e del 1993. Il muro di Berlino era crollato e l’anticomunismo non era più in grado di giustificare il sostegno ai partiti di governo. Così, alle elezioni politiche del 1992 tutte le forze politiche tradizionali, di governo e di opposizione, persero voti e consenso, in ampia misura. Solo la Lega Nord si impose. A testimonianza che la Prima Repubblica era finita. I magistrati, allora, apparvero come eroi popolari. Più che al servizio della giustizia: giustizieri. Al servizio del popolo, che voleva voltar pagina. Uscire dal dopo-guerra fredda.
Più di tutti e per primo ne approfittò proprio Silvio Berlusconi. Che si presentò come l’Uomo Nuovo. Estraneo rispetto ai politici e ai partiti tradizionali. Li rimpiazzò con un partito personale. Un’azienda-partito. Impose la politica come marketing. Ma i magistrati non uscirono di scena. In parte, perché l’intreccio tra interessi privati e ruoli pubblici, e quindi tra affari e politica, divenne più stretto, se possibile. Impersonato, per primo, dallo stesso Berlusconi. Ma non solo da lui. In secondo luogo, perché il deserto politico prodotto da Tangentopoli, dalla scomparsa dei leader e dei partiti della prima Repubblica, non è mai stato colmato. Abbiamo assistito, negli ultimi vent’anni, al succedersi di leader senza partito, oppure di sedicenti partiti incapaci di esprimere leader forti e duraturi. Di certo, la politica è scomparsa dalla società, dai luoghi di vita quotidiana. Si è riprodotta sui media e soprattutto in televisione. Negli ultimi anni, ha conquistato nuovi spazi attraverso la rete e i nuovi media. Tuttavia, non vi sono più soggetti politici in grado di suscitare passione e sentimento. Semmai, protesta e risentimento. Mentre lo spazio pubblico è stato occupato da altri soggetti.
In particolare: il presidente della Repubblica. Ma anche i magistrati. Il cui peso “politico” si è riprodotto e moltiplicato anche dopo e oltre Tangentopoli. Antonio di Pietro per primo. Leader di un partito che, negli ultimi dieci anni, ha conosciuto il successo e la crisi. I magistrati hanno occupato parte dello spazio lasciato vuoto da partiti scomparsi dal territorio e dalla società. Sono divenuti “garanti della pubblica virtù”, per usare una formula efficace di Alessandro Pizzorno. Le loro iniziative, le loro sentenze, veicolate dai media, hanno contribuito a sostenere o, più spesso, a delegittimare un leader o un partito. Berlusconi, in particolare, dopo aver beneficiato dell’azione dei magistrati, negli anni Novanta, ne è divenuto, in seguito, l’antagonista.
Più che tra Destra e Sinistra, la frattura che ha attraversato la Seconda Repubblica richiama l’opposizione fra Berlusconi e i Giudici. Le Toghe Rosse, nella semplificazione di Berlusconi. Che, in questo modo, ha riassunto e assimilato i due mitici nemici: i Comunisti e, appunto, i Giudici. Quelli che si occupano di lui. Naturalmente “di sinistra”. I Magistrati, peraltro, negli ultimi anni hanno allargato di nuovo il loro grado di considerazione sociale. Trainati dal ritorno della “questione morale” – o, forse: “immorale” – nella politica italiana. Dopo le inchieste – non solo giudiziarie, ma anche giornalistiche – contro la Casta dei politici, degli amministratori. Che, negli ultimi anni, si sono moltiplicate e hanno enfatizzato la delegittimazione dei partiti e delle istituzioni. Al punto che la maggior parte degli italiani oggi ritiene che la corruzione politica in Italia sia maggiore che ai tempi di Tangentopoli. Se quasi metà degli italiani esprime grande fiducia verso i magistrati, tuttavia, fra gli elettori del Pdl e della Lega questo orientamento scende a meno del 20%.
Più che garanti della giustizia e della legalità, dunque, agli occhi di molti italiani, essi appaiono un freno allo strapotere della classe politica. E, in particolare, di Silvio Berlusconi. Ma, per questo, sono divenuti – o, comunque, vengono percepiti –attori politici anch’essi. Mentre la vita politica e pubblica appare incatenata, più che intrecciata, ai diversi processi e alle molteplici indagini giudiziarie che si susseguono. In diversa direzione.
Così, l’Italia appare un Tribunale Permanente. Dove i processi proseguono e si riproducono. Uno dopo l’altro. Un grado di giudizio dopo l’altro. Da vent’anni e oltre. Con il rischio, davvero, che lo spazio della politica si minimizzi e scompaia. Naturalmente, non per colpa dei magistrati che fanno il loro mestiere e, comunque, tutelano il proprio spazio. Il proprio potere. Ma per i limiti della politica. Che latita. Si comprende bene, in questo scenario, lo sconcerto di Silvio Berlusconi, di fronte a una sentenza “definitiva”, che lo inchioda “definitivamente” alle proprie responsabilità. E rischia di comprometterne “definitivamente” il ruolo politico. Berlusconi: non si rassegna. Per questo chiede, anzi rivendica ed esige: un’altra opportunità. Cioè: un altro grado di giudizio. Se in Italia non è possibile, in Europa. Contro l’Italia. Colpevole di tradire la propria storia e la propria vocazione. Perché in Italia, echeggiando il grande Eduardo De Filippo, non solo gli esami, ma anche i processi, non finiscono mai. In questo modo Berlusconi insegue l’appello dell’unica Corte a cui riconosca legittimità. L’ultimo grado di giudizio. Il voto.

Repubblica 9.9.13
L’estate dei partigiani
di Alessandra Longo


In uno Stato di diritto «non c’è spazio per salvacondotti ». L’Associazione nazionale partigiani vive come un incubo la vicenda Berlusconi. Mettetevi nei panni degli ultimi sopravvissuti e dei loro figli ed eredi. «Riteniamo di non poter tacere - scrive in una nota l’Anpi - Nel corso di questa “calda” estate 2013 si sono sentite parole come “salvacondotto”, che sanno di Medioevo e parole come “agibilità politica”, di senso quanto meno oscuro. E’ tempo di dire con chiarezza che tutto questo non ha nulla a che fare con i valori e i principi per i quali ci siamo battuti combattendo per la libertà e che sono stati recepiti nella Costituzione ». Quasi si giustificano, i partigiani: «Non possiamo tacere di fronte a questa situazione politica ».

il Fatto 9.9.13
Siamo pronti a vivere senza B.?
di Ferruccio Sansa


Berlusconi decaduto, fuori dal Parlamento". Sii sincero: se domani i giornali titolassero davvero così, saresti pronto? A che cosa? A ricominciare ad essere cittadino. A riprendere in mano la tua vita.
Sono vent'anni che sei oppresso da scandali e inchieste. Che ti alzi al mattino e inghiotti polemiche ancora prima del cornetto. Che la rabbia e l'indignazione ti circolano nelle vene come i globuli rossi. E oggi sei qui ad aspettare che la Giunta del Senato si prenda le sue responsabilità. Che Berlusconi risponda finalmente delle proprie. Ma adesso che l'orizzonte potrebbe davvero liberarsi ti prende un dubbio: che il berlusconismo, giorno dopo giorno e senza che te ne accorgessi, ti abbia condannato alla rassegnazione diventando alibi – perfino oltre le sue enormi colpe – per non reagire, non elaborare un progetto.
Pensaci davvero: sei pronto a prenderti di nuovo le tue responsabilità? Mentre ti interroghi qualcuno per te già prevede un futuro ancora democristiano, dove ci divideremo tra renziani di sinistra, centro e destra, tutti pronti a correre in soccorso del vincitore, come diceva Ennio Flaiano.
Berlusconi, Napolitano, Letta, Renzi, interroghi la sfera di cristallo mentre magari scrivi l'articolo. Ormai il pensiero si impiglia, non sa più andare lontano. Ma è questo che hai aspettato per due decenni? Guarda oltre. Ma no, non le elezioni anticipate, proprio oltre. Leggiti l'appello di Daniel Cohn-Bendit e Felix Marquardt (pubblicato su Repubblica). Non parla di schieramenti, coalizioni, forse per questo ti disorienta e ti pare astratto. Il prossimo anno, ti ricordano, mezzo miliardo di persone votano per l'Europa. Che non deve essere un approdo momentaneo per chi poi, appena può, ritorna in patria a cercare i riflettori. Che non è solo la contabilità dell'euro e deve andare ben al di là della votazione diretta del presidente della Commissione. L'Europa , dicono Cohn-Bendit e Marquardt, può essere un luogo dove "i finlandesi ci svelino il segreto del loro sistema educativo; i francesi quello dell'assistenza sanitaria; i tedeschi del lavoro flessibile e della promozione delle piccole e medie imprese; gli svedesi dell'uguaglianza di genere; gli italiani della qualità del prodotto e della valorizzazione delle specificità regionali". Pensa a che cosa potrebbe diventare l'Europa. E quindi la tua vita, quotidiana. Concretissima. Questo dovrai decidere nei prossimi mesi. Il berlusconismo oggi potrebbe finire. Noi italiani – non solo i Cicchitto e i Gasparri che temono di dover tornare a casa – siamo allergici a chiudere un'epoca. Non per sentimentalismo. Non per istinto conservatore o innata moderazione. Forse perché stentiamo a immaginare un futuro. Ad accettare che sia nelle nostre mani.

Repubblica 9.9.13
“Pronti a un governo di scopo per cancellare il Porcellum”
Vendola: questo esecutivo è solo un incubo
di Giovanna Casadio

ROMA — «Sarà obbligatorio cercare in Parlamento una nuova maggioranza se il governo Letta cadrà». Nichi Vendola, il leader di Sel, parla di «un passaggio stretto che non riguarda solo l’uscita dalle aule parlamentari di Berlusconi, ma anche l’effettività del principio di uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge e la supremazia della legge, che non può essere aggredita e mutilata neppure in nome del consensopopolare».
Vendola, siamo alla vigilia del voto sulla decadenza da senatore di Berlusconi, cosa si aspetta?
«Mi aspetto la decadenza di Berlusconi».
Subito?
«Me l’aspettavo ieri. L’anomalia è il fatto che - nonostante i rapporti con Cosa Nostra, con ambienti della massoneria deviata e nel frattempo le vicende di fanciulle, faccendieri, stallieri - un protagonista come Berlusconi abbia potuto calcare la scena pubblica per oltre un ventennio, cosa che non sarebbe stata possibile in nessuna altra parte del mondo civile e democratico».
Pensa che si farà melina in Senato?
«Le mosse dilatorie del Cavaliere sono piuttosto ininfluenti dal punto di vista dei compiti della giunta del Senato e questa volta non funzionano. Le modalità con cui Berlusconi ha rinviato o impedito i conti con la giustizia, sono la storia di questo ventennio. Una destra con l’orticaria nei confronti dei nostri principi costituzionali ha attaccato l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario, ha trasferito in Parlamento interi studi legali, portandoli nelle commissioni giustizia. Se Berlusconi vuole presentarsi come Silvio Pellico o Luigi Settembrini è un’immagine che vacilla di fronte alla qualità e alla quantità delle imputazioni di reato e delle condanne».
Decadenza di Berlusconi e tenuta del governo sembrano legate a doppia mandata. Se si aprisse una crisi, lei sarebbe disponile a entrare in un nuovoesecutivo?
«Se il governo Letta cade, è obbligatorio cercare dentro le aule parlamentari una nuova maggioranza per chiudere alcune delle partite più drammatiche aperte: esodati e cassintegrati, e per cancellare l’attuale legge elettorale, il Porcellum».
Appoggerebbe anche un Letta- bis con i transfughi del Pdl?
«Qui si esercita la fantapolitica che include una sorta di “civilizzazione” del governo Letta, una specie di chirurgia estetica. Penso che dobbiamo togliere di mezzo il veleno dell’attuale legge elettorale, così da tornare alle urne. Le ferite della democrazia si curano con la democrazia».
Cosa immagina, quindi?
«Un tipico governo di scopo con un mandato limitato. Le condizioni per un governo organico di cambiamento oggi non ci sono. Grillo ha congelato la sua rappresentanza parlamentare nel nome di un cinismo politico che fa impallidire il peggio della vecchia politica. Un governo di scopo traghetterebbe l’Italia verso elezioni democratiche che ci restituiscano la normalità».
A Berlusconi potrebbe essere concessa la grazia?
«Di grazie politiche gliene sono state concesse troppe. La grazia come prerogativa del capo dello Stato non andrebbe usata come una palla da ping pong nella polemica».
E della sfida nel Pd in vista del congresso cosa pensa?
«La discussione si è svolta su Marte: mi aspetto che i Democratici tornino sulla terra. Trovoche ci sia una rimozione della realtà. Quando vedo i critici di Renzi evocare le parole-chiave della sinistra sono suggestionato. Ma quegli stessi compagni, un secondo dopo, si fanno sentinelle del governo in carica. Beh, la discussione su quanto è importante l’eguaglianza mentre cresce la diseguaglianza, produce effetti paradossali. Dov’è il Pd? Il governo Letta è un incubo e una palude. Ci vuole un riformismo audace. Non quello falso che dice “cambiamo la Costituzione” per consentire incursioni piratesche. Mentre bisogna mettere mano alla Carta per realizzare quei principi sacrosanti».
Non le dispiace che finisca l’egemonia post comunista nel Pd, dal momento che Renzi èdato per vincente?
«La discussione sugli album di famiglia produce strani effetti... quella tradizione deve chiedersi perché si trova a rischio marginalità. Picasso al generale che gli chiedeva davanti al dipinto Guernica: “Ha fatto lei questo orrore?”, rispondeva: “No, l’avete fatto veramente voi”».

l’Unità 9.9.13
La banalità di Casaleggio
Si crede una pop star. Ma è troppo banale
di Sara Ventroni

Una pop star. In completo blu e cravatta a pois, Gianroberto Casaleggio deve difendersi dalla plebaglia. Finge di prendere un ascensore. Poi chiama la sicurezza a Villa D’Este, a Cernobbio. Il nerd incarognito vieta le foto in sala. Se la prende con i paparazzi e le citazioni via twitter: è volgare, e plebeo, qui e ora, invocare uno streaming in diretta. Non stiamo mica in Parlamento.
Qui c’è il Gotha dell’economia. E Gianro è l’incubatore del futuro. Il verbo fatto carne. «Ci salverà il web», profetizza il guru, pensando di sorprendere la platea. Qualcuno si accende un sigaro ma, di fatto, nessuno gli dà credito. Nemmeno Brunetta.
Siamo al workshop Ambrosetti a Cernobbio. Un appuntamento d’obbligo per le strategie economico-comunicative internazionali. Il tema di quest’anno è «lo scenario di oggi e di domani per le strategie competitive». I cittadini devono sapere. Non tutto, si capisce. Giusto un accenno di glamour.
E dunque Casaleggio, novizio del meeting, parla a nome del Movimento, e spaccia anticaglie tecnologiche come novità mondiali. «Siamo a un tipping point». Al punto di svolta, dice il guru.
E purtroppo, Casaleggio è troppo vecchio per fare il nerd. Troppo rigido, e imbalsamato, perfino come consulente esterno del Mossad.
I tempi sono ruffiani: il millantatore della rivoluzione della Rete riceve un credito superiore all’intelligenza media dei suoi elettori, per rendita dei risultati elettorali. Che sono già preistoria, per gli osservatori più cattivi.
Ma tutto si tiene. E forse questo è il bilancio. Nonostante il Movimento goffamente starnutisca contro il sistema internazionale delle multinazionali, degli otto milioni e passa di votanti, o dei quarantottomila iscritti al sito di Grillo, pare possiamo farcene
beffa: Gianro, come Beppe, controlla le azioni; un indotto di ripiego chiamato in causa, tutt’al più, per espellere un onorevole colpevole di errata comunicazione stampa. Niente di più. Questo è lo schema partecipativo, in assenza di liquid feedback.
Liberi sono gli otto milioni di elettori. Loro sì, per fortuna, senza vincolo di mandato. Non sono invece liberi gli eletti (fuori dal Porcellum valgono come puppi, anche se srotolano stendardi per la Costituzione, ma non capiscono cosa significa, politicamente, il non vincolo di mandato): mentre gli italiani si preoccupano del destino del Paese, la vocazione istrionica del Movimento Cinque Stelle, illustrata come una strategia da vangelo perduto, con i dodici apostoli inviati in nome di nessuno sopra il tetto di Montecitorio (con l’imperdibile gaffe di una deputata: «I nostri rappresentanti non fanno niente»): sì, certo, dobbiamo tutti meditare del risultato delle scorse elezioni.
Ma alle porte della villa d’Este non c’è nemmeno un militante. Non c’è un cittadino pentastellato ad allungare la spina di una pen drive per scaricare in mp4 le verità del guru brizzolato.
Dal 1975 il forum di Cernobbio invita le menti migliori. La presenza di Casaleggio è solo un evento bizzarro, e mondanissimo. Gianro è un fenomeno prevedibile. Ma non ditegli che non sarà mai una rock star.

il Fatto 9.9.13
Esordio a Cernobbio
Ecco Casaleggio tra web, Kennedy e “psicostoria”
di Gianni Barbacetto

Era il giorno di Enrico Letta e del ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni al forum Ambrosetti di Cernobbio, tradizionale rito d'inizio anno politico. Ma è arrivato Gianroberto Casaleggio a occupare la scena. Insieme a Michael Slaby, uno dei guru del presidente Barack Obama, Casaleggio era stato invitato ad affrontare il tema: “New media and the politics of the future” (i nuovi media e la politica del futuro). La polemica l'ha scatenata però ancor prima di parlare, per il suo rifiuto di rispondere ai giornalisti che l'hanno assediato al suo ingresso e ancor più per il divieto imposto a fotografi e cameramen di entrare per qualche minuto prima del suo intervento nella sala dove si tiene il forum, tradizionalmente aporte chiuse. Il permesso di scattare foto e riprendere come di consueto la sala è stato accordato solo dopo le proteste degli operatori. Poi, a porte chiuse, il fondatore con Beppe Grillo del Movimento 5 stelle ha iniziato la sua relazione, impostata attorno al tema della rete web come supermedium che si avvia a surclassare tutti gli altri media. Non senza conseguenze per la politica, che si è nutrita finora soprattutto di tv e giornali. In platea, ad ascoltare Casaleggio c'erano, tra i politici, Enrico Letta, Angelino Alfano, Anna Maria Cancellieri, Mario Monti, Flavio Zanonato, Renato Brunetta; tra i big dell'economia e della finanza, l'ad di Intesa Sanpaolo Enrico Cucchiani e quello di Unicredit Federico Ghizzoni.
LA PRIMA SLIDE proiettata da Casaleggio ha mostrato un'immagine di John Kennedy e Richard Nixon prima di un dibattito televisivo: si sfidavano per la presidenza degli Stati Uniti, erano gli anni Sessanta e apparivano visibilmente impacciati. Da allora, però, la conquista della Casa Bianca è sempre stata decisa in tv. Solo con Obama il baricentro ha cominciato a spostarsi verso la rete. Oggi siamo a un “tipping point”, dice Casaleggio, un punto di non ritorno: negli Usa il web ha già superato i media mainstream, con gli utenti che dedicano in media 5 ore e 9 minuti alla rete, contro le 4 ore e 31 minuti dedicati alla tv. In Italia siamo ancora indietro (1 ora e 20 contro le oltre 4 ore per la tv), ma ormai la strada è segnata. La televisione declina come strumento del consenso di massa. Declinano anche i giornali: nel 2005, i 25 giornali più importanti degli Stati Uniti vendevano 15 milioni di copie al giorno; oggi sono ridotti a 8,8 milioni. Cresce invece la rete. Questo provoca una rivoluzione nella politica. Il web accresce la trasparenza e produce un crollo dei mediatori e delle mediazioni: compresi i partiti. Nella rete, protagonisti sono direttamente i cittadini, senza più bisogno del politico che li rappresenta e parla a loro nome. Nascono comunità virtuali che sostituiscono la mediazione, si fanno direttamente politica. Al politico, che prima parlava in nome dei cittadini, non resta che diventare un semplice esecutore della loro volontà. Vita dura, per i politici tradizionali: perché se non hanno reputazione e credibilità, in rete sono subito smascherati. Infatti la tv è un meccanismo one-to-many (uno che parla a molti), il web è invece many-to-many (tanti che comunicano a tanti). Tutti possono avere accesso all'informazione e l'organizzazione piramidale si trasforma in organizzazione a stella. I movimenti s'impongono sulla politica. Casaleggio cita gli Indignados, Occupy Wall Street, i Pirati tedeschi. Evoca la “psico-storia” di Asimov e prefigura un mondo in cui i sondaggi (che dicono quello che la gente dice di voler fare) saranno sostituiti dall'analisi dei Big Data, le tracce che ciascuno di noi lascia in rete: così si potrà sapere non che cosa forse pensiamo, ma che cosa davvero facciamo.
In Italia siamo ancora indietro in questa storia, ma la strada è segnata. Segnata anche la strada della politica: nel nostro Paese, sostiene Casaleggio, non è possibile partecipare alla vita politica. Non c'è democrazia diretta, anzi, non c'è democrazia. Le leggi le fa il governo e non il Parlamento. I referendum (quello vecchio contro il finanziamento ai partiti, ma anche quelli nuovi proposti da M5S) sono disinnescati. I cittadini non possono neppure più scegliere con il voto i loro rappresentanti, perché il Porcellum crea un Parlamento di nominati. Resta la rete, che scardinerà tutto ciò e restituirà, ha concluso Casaleggio, informazione e potere ai cittadini.

Repubblica 9.9.13
I politici in fila da Casaleggio

Casaleggio dà lezione ai politici “Così internet vi distruggerà”
Debutto a Cernobbio dell’ideologo di Cinque Stelle
di Federico Fubini

CERNOBBIO È QUANDO appaiono sullo schermo di Cernobbio i volti impacciati di Richard Nixon e John Fitzgerald Kennedy che la sala capisce che qualcosa sta per accadere.

GIANROBERTO Casaleggio, 59 anni, consulente di strategie di mercato con sede a Milano vicino a Mediobanca, vegetariano, ispiratore di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle, è arrivato fra i suoi avversari al Forum Ambrosetti a spiegare come si fa a batterli.
Quell’istantanea di Nixon e Jfk al loro primo dibattito televisivo è l’inizio di un’era della comunicazione, dice, che ora sta tramontando. In platea ascoltano il premier Enrico Letta, il suo predecessore Mario Monti, il presidente del Consiglio Ue Herman van Rompuy, almeno quattro ministri e tutti i banchieri più importanti del paese. Un’ampia selezione del ceto che M5S vuol spazzare via prende appunti di fronte al guru di Grillo.
Politici e banchieri hanno molto da segnare sui taccuini, in verità. Casaleggio sa di cosa parla. «Internet non è un nuovo media ma il punto di svolta di un cambiamento sociale — dice — Le organizzazioni politiche diventano da piramidali, gerarchiche, a stella e con molteplici interconnessioni». Secondo i dati della presentazione, negli Stati Uniti internet ha già superato la tivù perché l’americano medio passa in media 5 ore al giorno sul primo equattro e mezzo sul secondo. Casaleggio riconosce che in Italia non è ancora così, perché la televisione cattura ancora quattro ore, mentre il web meno di una e mezza. «Ma la tendenza è ineluttabile — afferma — . Mostratemi un candidato che non capisce internet e io vi farò vedere un perdente».
In platea Angelino Alfano, il ministro dell’Interno con un eloquio da avvocato d’altri tempi, non si perde un colpo. Sia Letta che Monti, altri due leader dotati di Twitter ma decisamente di vecchia scuola, seguono con attenzione e poi dichiarano il rapporto di Casaleggio «molto interessante». Meno chiaro è se si riferiscanoanche al momento in cui il guru di Grillo cita il “Contratto Sociale” di Jean-Jacques Rousseau nel passaggio sui rappresentanti eletti che «diventano oligarchia e i cittadini sono sempre più alienati». O se adinteressare la rappresentanza del governo, da Fabrizio Saccomanni e Flavio Zanonato, è il richiamo di Casaleggio all’istituzione americana del “recall”: l’opzione di sfiduciare un rappresentante eletto. «Pensate a come lo strumento del recall cambierebbe la politica in Italia», dice l’ideologo dei Cinque Stelle.
Non che Casaleggio si conceda facilmente. Nell’arrivare a Villa d’Este, poco prima delleotto, aveva accuratamente evitato le domande dirette di giornalisti in carne ed ossa, dichiarandoli obsoleti. Per sfuggire ai taccuini, forse troppo low tech, stava perfino per infilarsi nella sala delle cassette di sicurezza dell’hotel. Poi si è rivolto agli uomini della scorta per farsi proteggere. Non per la prima volta Villa d’Este diventa così un castello dei destini incrociati, in cui l’élite di Cernobbio plaude al guru di M5S e questi si affida allo status symbol ultimo della casta, la scorta pagata dai contribuenti per difendersi i cronisti. Del resto Cernobbio esiste forse proprio perché è una specie di mondo a parte, in cui si finge per un po’ che le leggi del mondo di fuori siano sospese.
Non devono averlo detto a Michael Slaby, consigliere Internet delle campagne di Barack Obama, perché è il solo che risponde colpo su colpo a Casaleggio. L’italiano annuncia la fine irreversibile dei media tradizionali (“strumento del potere”) e l’americano avverte: «I giornali non sono più il martello pneumatico che erano, ma contano ancora». L’italiano avverte che il web sta soppiantando gli altri mezzi di comunicazione, e l’americano nota: «Non è un gioco a somma zero, oggi i giovani stanno sui social network e davanti a giornali o tivù allo stesso tempo». E mentre Casaleggio si irrita per i tweet inviati dalla sala sul suo intervento, rifiuta i fotografi in sala e ignora i cronisti, l’americano controbatte: «Dobbiamo accettare che non abbiamo più il potere di controllare l’informazione».
Ma in fondo a Cernobbio la coerenza degli argomenti non conta poi molto. L’importante per una mattina è incrociare l’avversario e farlo proprio. I banchieri Enrico Cucchiani (Intesa Sanpaolo) e Federico Ghizzoni (Unicredit) esprimono il loro apprezzamento per Casaleggio. Solo Renato Brunetta ha qualcosa da eccepire: «Niente di nuovo», brontola il capogruppo del Pdl alla Camera.
Forse lui sospetta che Casaleggio per un giorno all’Ambrosetti si è calato nel ruolo che un tempo qui spettava a Fausto Bertinotti: il nemico ideale, benvenuto fra gli avversari perché in fondo innocuo nella sua radicalità. E chissà che l’anno prossimo anche il guru di Grillo si ammorbidisca un po’ e si lasci fotografare. Magari accanto alla scorta.

Repubblica 9.9.13
Michael Slaby
Il guru di Obama lo promuove: “Idee chiare”
di Eugenio Occorsio


CERNOBBIO — «Abbiamo creato, mettendo insieme i migliori talenti, qualcosa di molto simile ad una start-up dedicata a concepire e mescolare twitter, email, post su Facebook, articoli sul web. E ce l’abbiamo fatta». Michael Slaby è un ragazzone biondo che più americano non si può. Atletico, sorridente, cordiale. E potente: è stato l’anima («Ilchief technology officer», precisa) dell’aspetto multimediale, quello decisivo, di tutte e due le campagne di Obama. Il coordinatore di una macchina che è riuscita a raccogliere online 500 milioni di dollari nel 2008 e 690 nel 2012 (su un miliardo di costi complessivo), di cui metà in donazioni inferiori ai 200 dollari, ma soprattutto a pilotare il consenso «nella direzione giusta». Ha perfino inventato un sistemaper fare mini-pagamenti dal telefonino con un solo pulsante. Vederlo a fianco di Casaleggio, cupo e scontroso, fa un curioso effetto. «È bravo, ha le idee chiare», ci dice dopo il dialogo al Forum Ambrosetti che li ha visti protagonisti. «Chissà, forse ha un carattere difficile, ma non posso giudicare. Però ha imposto anche in Italia le potenzialità della rete, e non è poco». Solo su Facebook, racconta «abbiamo messo al lavoro (volontario) 600mila amici-supporter e abbiamo convinto 5 milioni di americani incerti a votare Obama». Ma non c’è pericolo, chiamiamolo così, di plagio delle coscienze? «Non in misura maggiore di quanto accade con qualsiasi altro medium.
La rete bisogna saperla usare con buon senso, e lo Stato deve saperla controllare. Non spiare intendiamoci, solo prevenire gli abusi, le frodi e le forzature».

l’Unità 9.9.13
Integrazione, ma davvero gli italiani sono razzisti?
Ci siamo disabituati da secoli all’integrazione tra diversi: forse la dovremmo reimparare
di Giuliano Amato


In un articolo dedicato agli insulti scagliati contro la nostra ministra per l’integrazione, Cécile Kyenge, l’Economist ci svela che gli italiani contrari ad avere vicini di altre razze sono oltre l’11%, contro il 4,9% degli inglesi e il 6,9% degli spagnoli.
Ma come, noi ci siamo sempre considerati immuni dal razzismo. Ci sbagliavamo? Ha ragione chi dice che anni fa non c’erano manifestazioni di razzismo in Italia semplicemente perché eravamo noi ad emigrare e non gli altri a venire da noi?
Un fondamento di verità la nostra convinzione di non essere razzisti lo possiede senz’altro e riguarda il nostro passato non prossimo, ma remoto, quando l’Italia era terra di insediamento per popoli e tribù provenienti da altri Paesi e da altri continenti e quando la vita italiana era la vita delle sue repubbliche marinare, la classica vita dei porti di mare. Eravamo abituati a vivere fra diversi e ad integrarci fra diversi. Non a caso italiani sono divenuti nei secoli gli etruschi, i latini, i franchi, i normanni, gli arabi, i goti e gli ostrogoti. E a differenza che in altri Paesi, nessuno da noi si è mai lamentato perché il sangue della stirpe originaria è stato contaminato dai sopravvenuti.
Poi però sono subentrati dei fattori che hanno sedimentato una cultura, e quindi una percezione di noi stessi, più chiusa e più esclusiva. Il primo è stato indubbiamente il processo di unificazione nazionale, che ha fatto crescere l’identificazione dell’identità nazionale con quella di una stirpe, di una etnia italica. Non furono pochi i padri fondatori che espressamente la negarono e dettero della italianità una nozione storico-culturale e non etnica. Ma è innegabile che nella retorica risorgimentale l’unità di sangue, vera o presunta che fosse, è stata fatta giocare e ha piantato il suo seme, che nel ventesimo secolo, col fascismo, ha dato poi i suoi frutti più robusti e perversi. A quel punto inoltre, con l’avventura coloniale, con altre etnie abbiamo instaurato il pericoloso rapporto del padrone coi servi e questo, quando ce ne sono le premesse, è da solo un veicolo di razzismo.
C’è stata poi la solidificazione delle nazionalità separate che è insita nella formazione e nell’affiancamento degli Stati nazionali. Ciascuno Stato aveva la sua comunità nazionale, i suoi cittadini, diversi da quelli degli altri. Alberi diversi, ciascuno con i suoi rami. E chi arriva è altro rispetto a un precostituito «noi». Non sottovalutiamo, infine, l’effetto del welfare, che è per definizione nazionale, perché i cittadini di ciascuno Stato pagano il proprio. Capita allora che ci siano «contribuenti» scontenti quando il diverso che arriva viene reso partecipe di un sistema di tutele sociali e sanitarie , che non ha contribuito a pagare. Le Corti Costituzionali fanno fatica a far accettare che i diritti della persona sono eguali per tutti, e non solo per i cittadini. E non meno facile è far capire che gli stessi cittadini, da giovani, usufruiscono di servizi che ancora non hanno contribuito a pagare.
Su queste premesse e in questo contesto, l’accettazione dei diversi non viene necessariamente da sé. E tanto meno viene quando la prima reazione all’immigrazione è la paura, o perché si temono dei concorrenti per il lavoro, o semplicemente perché non si capiscono i nuovi arrivati, non se ne capiscono né la lingua né le abitudini.
All’integrazione fra diversi ci siamo disabituati da secoli e molti di noi, forse tutti noi, la dobbiamo reimparare. È questo il nostro problema e ha ragione Cécile Kyenge che la mette proprio in questi termini. È fondamentale la scuola, perché abitua i bambini a vedersi eguali al di là delle differenze di abbigliamento o di pelle ed è inoltre un formidabile polo di attrazione, e quindi di educazione, per i loro genitori. È fondamentale poi il luogo di lavoro, così come sono fondamentali i mezzi di comunicazione, ad una condizione, alla quale i bambini arrivano di istinto, mentre gli adulti imparano a praticarla e non mi pare che noi italiani lo abbiamo fatto abbastanza: quella di considerare il vivere insieme fra diversi una cosa normale e non il frutto della particolare bontà di qualcuno. Chi scrive fiction che pretendono di insegnare l’integrazione farebbe bene a tenerlo presente.
Lo può aiutare una storiella che circola fra quanti si occupano di queste cose. È quella di un bambino che ha, fra gli altri, un compagno di classe nero e che, all’inizio dell’anno scolastico, mostra al padre una foto di gruppo. Il padre punta il dito sulla foto e gli chiede: «Come si chiama quello?». E il figlio, a sua volta: «Chi, quello nero?». Qualche mese dopo mostra al padre una foto scattata nella ricreazione e il padre, puntando il dito sullo stesso bambino, chiede: «Ma gioca bene a pallone anche lui?». E il figlio: «Chi, quello col maglione rosso?»

Repubblica 9.9.13
Il partigiano Johnny nella notte di Allende
Quarant’anni fa il golpe militare che depose il leader socialista
Luis Sepúlveda racconta i martiri del 1973, che conobbe da vicino
di Luis Sepúlveda


IL GIORNO più nero della storia del Cile spuntò coperto di nuvole. La primavera alle porte, atterrita dall’orrore che si avvicinava, aveva deciso di negarci i primi tepori. Alle sei del mattino Salvador Allende, il Compagno Presidente, ricevette le prime informazioni sul golpe imminente e diede ordine alla scorta, al Gap, di lasciare la residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo de La Moneda. Un contingente del Gap – Gruppo di Amici Personali – rimase a garantire la sicurezza della residenza e il resto si mise in marcia armato di kalashnikov. Fra i Gap che uscirono insieme al Compagno Presidente c’erano tre ragazzi molto giovani: Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, studente; Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni, studente e dipendente del palazzo presidenziale e Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, studente e operaio in un’azienda agroalimentare.
Tutti e tre erano militanti della Federación Juvenil Socialista. E oggi, a quarant’anni dal colpo di stato che ha messo fine al più bel sogno collettivo, voglio parlare di uno di loro, di Óscar, un ragazzo cileno pieno di coraggio e generosità.
Óscar era più giovane di me, ci separavano solo due anni, ma visto quanto era intenso il nostro impegno per la Rivoluzione cilena, visti la dedizione totale e il rigore con cui affrontavamo i mille compiti del Governo Popolare, quei due anni scarsi di differenza mi conferivano una certa anzianità.
Anch’io avevo avuto l’onore — il più grande onore che mi sia stato concesso in vita — di far parte del GAP, ma dopo aver trascorso quattro mesi nella scorta del Compagno Presidente erostato chiamato a maggiori responsabilità. Così, a ventidue anni, mi ero ritrovato supervisore di un’azienda agroalimentare a sud di Santiago. Là avevo conosciuto un giovane socialista che si chiamava Óscar Reinaldo Lagos Ríos e che combinava il suo lavoro di meccanico nell’azienda agroalimentare con gli studi in un istituto industriale e con la militanza socialista. Óscar amava il tornio e la fresatrice. Tra i suoi progetti c’era quello di diventare un buon tornitore, un operaio specializzato. Fin dal primo momento si trasformò nel mio braccio destro e più volte respingemmo insieme gli attacchi del gruppo fascista Patria y Libertad, che voleva assassinare i dirigenti sindacali e incendiare i nostri posti di lavoro.
Spesso Óscar portava a passeggio mio figlio Carlos Lenin, che cominciava allora a camminare, e ogni due o tre giorni prendeva in prestito un libro, un romanzo, una raccolta di poesie, qualche saggio sociopolitico. Un pomeriggio, mentre facevamo il nostro turno di guardia, lo vidi leggere e piangere senza nascondere le lacrime. Stava leggendo
La sangre y la esperanza di uno scrittore cileno ormai dimenticato, Nicomedes Guzmán. All’improvviso chiuse il libro, si asciugò gli occhi ed esclamò: «Compagno, ora sì che ho capito perché facciamo la rivoluzione».
Óscar si era sempre distinto come lavoratore, per il senso dell’umorismo che traspariva dalle canzoni degli Iracundos che cantava mentre riparava i macchinari e per l’esemplare solidarietà (era sempre l’ultimo al momento di comprare gli alimenti che trattavamo e che la borghesia si accaparrava per far mancare i rifornimenti), ma si distingueva anche come militante, acuto nelle sue analisi e convincente grazie ad argomenti ancora più acuti. E poiché il GAP era formato dai militanti migliori, un giorno parlai di lui raccomandandolo e ricevetti l’ordine di addestrarlo. Così Óscar imparò a usare un’arma, a pulirla, ricevette i primi rudimenti di difesa personale e di procedure di sicurezza. Quando entrò a far parte del GAP, il più grande onore per un militante, festeggiammo a casa sua, con la sua famiglia umile e generosa.
Poi ci perdemmo di vista perché i tanti compiti della Rivoluzione Cilena ci tenevano molto occupati e la giornata era sempre troppo breve, dormivamo poco, ma non perdevamo mai di vista l’importanza di quel che facevamo. Non avevamo diritto né alla stanchezza né allo scoramento. Stavamo costruendo un Paese giusto, fraterno, solidale, seguendo una via cilena, rispettando tutte le libertà e i diritti. E per di più avevamo un leader che ci dava un grande esempio con la sua statura morale.
Un giorno incontrai Óscar a El Cañaveral, una residenza di campagna sulle pendici della cordigliera delle Ande dove il Compagno Presidente andava a riposare. Insieme ad altri due GAP sorvegliava l’ala nord. Ci abbracciammo e quando gli chiesi il nome di battaglia — io ero e continuo a essere Iván per i GAP sopravvissuti — lui rispose: «“Johny”, è quello il mio nome di battaglia, Johny, ma non l’ho scelto io: me l’ha dato il dottor Allende un giorno che mi ha sentito cantare».
Quell’11 settembre 1973, poco prima delle sette di mattina, Salvador Allende e la sua scorta formata da tredici membri del GAP entrarono alla Moneda. Il golpe fascista era iniziato, truppe e carri armati accerchiarono il palazzo, riecheggiarono i primi spari tra difensori e golpisti, le forze aeree bombardarono le antenne delle radio finché ne rimase soltanto una, quella di radio Magallanes, grazie alla quale ascoltammo e avremmo ascoltato le ultime parole del compagno presidente, quel «metallo tranquillo della mia voce».
Con la Moneda assediata, Allende diede ordine di far uscire chiunque lo desiderasse, lui sarebbe rimasto a baluardo della Costituzione e della legalità democratica. In mezzo ai colpi d’arma da fuoco e ai proiettili esplosivi del-l’artiglieria, un pugno di poliziotti socialisti decise di restare, e anche i GAP dissero chiaramente che la guardia non siarrendeva né abbandonava il Compagno Presidente. Fra Allende, i poliziotti rimasti fedeli, il medico del presidente, il giornalista Augusto Olivares e i tredici GAP non erano più di ventidue, ma affrontarono migliaia di soldati golpisti.
Quando era quasi mezzogiorno, le forze aeree bombardarono la Moneda, le fiamme cominciarono a divampare nel palazzo ma il GAP non mollò. Rimane per sempre un’immagine di quel momento: il GAP Antonio Aguirre Vásquez, un patagone eroico, che spara dal balcone principale con la sua mitragliatrice calibro 30 finché le bombe non cancellano completamente la facciata della Moneda. Il simbolo della democrazia cilena, la cosiddetta casa di Toesca bruciava, Allende era morto e Óscar Lagos Ríos, Johny, era stato colpito da due pallottole, ma era ancora vivo.
Alle due del pomeriggio, ormai senza più artiglieria, con le munizioni esaurite, i sopravvissuti di quel pugno di poliziotti e uomini del GAP uscirono dalle macerie e furono immediatamente fatti salire su un camion militare con destinazione ignota. I poliziotti riuscirono a salvarsi la vita, passarono attraverso atroci torture ma sopravvissero. I tredici GAP scomparvero.
In Cile, tuttavia, la terra parla e così è stata scoperta una fossa comune clandestina in un campo militare abbandonato, Fuerte Arteaga, e in quella fossa c’erano più di quattrocento pezzi di ossa umane, alcuni lunghi meno di un centimetro, e quei pezzetti minuscoli hanno raccontato che i tredici GAP erano stati torturati, mutilati, assassinati dalla soldataglia in un’orgia di sangue, durata vari giorni, a cui avevano partecipato ufficiali e truppa del reggimento Tacna. I GAP erano stati sepolti nella caserma, ma quando alcuni testimoni avevano dichiarato di poter indi-care il luogo dell’occultamento, i resti degli eroici combattenti della Moneda erano stati trasferiti a Fuerte Arteaga, gettati in una buca profonda dieci metri, fatti saltare in aria con la dinamite e infine coperti di terra.
È impossibile ridurre al silenzio la voce dei combattenti e le loro ossa minuscole hanno rivelato i loro nomi, hanno detto: «Io sono ciò che resta di Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, nome di battaglia Johny, GAP, assassinato il 13 settembre 1973».
Una mattina del 2010, un corteo con in testa tre carri funebri è passato davanti al palazzo della Moneda. A scortarli c’erano uomini e donne di oltre sessant’anni che al braccio sinistro esibivano con orgoglio un nastro rosso con la sigla GAP. Scortavamo Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni e Óscar, quel Johny che aveva preso il fucile quando bisognava farlo.
I nostri compagni oggi riposano nel mausoleo degli eroi, accanto alla tomba del Compagno Presidente. Il GAP non si arrende.
Onore e gloria ai combattenti della Moneda. Viva i compagni!
Traduzione di Ilide Carmignani

il Fatto 9.9.13
Io c’ero
Luis Sepúlveda ricorda le ultime ore con il Presidente
I miei ultimi giorni con Allende
“Quel giorno uccisero Allende e la mia gioventù”
di Marino Sinibaldi


È stato il giorno più terribile della mia vita perché è stato la fine di una forma dell’essere. L’11 settembre ’73 ero un giovane di 23 anni. Alle cinque di sera la giovinezza era sconfitta”. Sepulveda racconta la morte di Allende. Lui era una guardia del presidente.

Anticipiamo parte dell’intervista di Marino Sinibaldi a Luis Sepúlveda che andrà in onda nel corso di Fahrenheit, su Radio3, mercoledì pomeriggio, a quaranta anni dal golpe di Pinochet in Cile

Luis Sepúlveda, iniziamo dal ricordo di quelle ore. A mezzogiorno dell’11 settembre viene bombardato il Palazzo della Moneda. Tu e gli altri membri del gruppo delle guardie del corpo più vicine ad Allende dove eravate?
Con altri due compagni del Gap, del gruppo di amici personali ossia la guardia del corpo di Allende, eravamo responsabili della sicurezza di una installazione che dava l’acqua potabile a Santiago perché il fascismo, la controrivoluzione cilena, finanziata dagli Stati Uniti e gruppi paramilitari avevano intentato azioni per eliminare l’acqua. Poi una parte del gruppo stava nella residenza di Allende, altri alla Moneda con lui.
E quando hai saputo del Golpe?
Il primo desiderio è stato di andare alla Moneda. Però già la resistenza dei quartieri popolari era forte, come nei settori industriali della città. Siamo arrivati a un ospedale del Sud di Santiago dove i soldati avevano ammazzato dottori, pazienti, gente che ci lavorava. Qui abbiamo sentito le ultime parole di Allende da Radio Magallanes, l’ultima al servizio del governo democratico, con le istruzioni del presidente di non lasciarsi matare, non morire, sopravvivere e organizzare la resistenza.
Cosa ricordi di quelle ore?
È stato un giorno particolare, strano, non solo terribile e doloroso. Era settembre, l’inizio della primavera, un mese di sole, con la temperatura che aumenta tutti i giorni. Quell’11 di settembre è stato un giorno di pioggia; una pioggia che dava alla città un colore stranissimo, un colore di penombra che era una sorta di premonizione del tempo che si avvicinava.
La cornice al dramma...
I morti, i tanti compagni visti per l’ultima volta, altri li ho incontrati anni dopo nell’esilio, altri in carcere, altri sono scomparsi. È stato il giorno più lungo e terribile della mia vita perché era la fine di una forma dell’essere. Da un punto di vista io, l’11 settembre del ’73, ero un giovane di 23 anni. Alle 5 della sera di questo giorno già la giovinezza era passata, era sconfitta.
Improvvisamente adulto, cosa hai fatto?
Sopravvivere. Organizzare la resistenza, il movimento popolare.
Nei mesi precedenti, cosa vi aspettavate? C’è stata una incapacità di capire cosa stava accadendo?
Sentivamo un profondo rispetto per l’esperienza di altri paesi dove era possibile una rivoluzione armata ma sapevamo che il Cile era diverso. Avevamo una particolarità, una singolarità nel continente americano che rendeva il Cile un paese dove era possibile arrivare a un socialismo democratico per la via pacifica.
Perché?
La nostra tradizione democratica era la più lunga di tutto il continente americano se si pensa che il Parlamento cileno, fino all’11 settembre del ’73, è stato il parlamento più antico del mondo dopo quello britannico.
Ma c’erano stati segnali prima dell’11 settembre?
A giugno un primo tentativo di golpe militare, soffocato grazie a un generale leale ad Allende, Carlos Prats, poi ucciso in Argentina.
Avete sottovalutato la situazione?
Quando l’insurrezione militare di giugno era stata già sconfitta, 100 mila operai si concentrarono di fronte alla Moneda al grido: “Armi, armi, armi! ”. Allora il generale Prats disse ad Allende: “Presidente, se mi dà l’ordine io apro gli arsenali di guerra e armo il popolo”. E Allende: “No. Questa è una rivoluzione democratica, pacifica, con pieno rispetto delle istituzioni”.
Poi c’è stato un crescendo...
Sì, come lo sciopero dei trasporti finanziato dagli Stati Uniti: se si guadagnava 100 per un giorno di lavoro, l’ambasciata americana pagava 1.000 per stare fermi.
E voi?
Consegnavamo tutto: medicine, alimenti. E grazie ai camion dei compagni militanti dell’Unità popolare, ai taxi, alle biciclette. Utilizzavamo tutto per non paralizzare il paese. E la guerra che combattevamo si chiamava guerra della produzione. La ricchezza del Cile è il rame, lo avevamo nazionalizzato, e lo esportavamo non solo come una materia prima, ma lavorato, manifatturato. Il rame significava lavoro per quasi 300 mila operai. Inoltre avevamo un grande potenziale agricolo ed energetico e la fiducia nella nostra capacità di frenare la controrivoluzione.
Però...
Abbiamo sottostimato il ruolo degli Stati Uniti. Il presidente Nixon decise di eliminare il governo come una questione personale, Kissinger fece di tutto per finanziare la controrivoluzione anche con l’arruolamento di mercenari, di criminali che arrivarono nel Cile a seminare il terrore.
Gli Stati Uniti non potevano permettere un’altra Cuba.
Penso che il grande peccato sia stato sottostimare l’importanza crescente dell’esempio della rivoluzione cilena perché era perfettamente imitabile in altri paesi che avevano una traiettoria politica democratica che si avvicinava alla nostra, come l’Uruguay, per esempio. Anche l’importanza internazionale della nostra rivoluzione era crescente. Nel 1972, al-l’assemblea generale delle Nazioni Unite, Allende ha fatto un discorso che ha prefigurato i grandi poteri delle compagnie multinazionali, dell’impresa anonima in quanto alla nazionalità (perché non si sa che paese rappresenta il consiglio degli azionisti per esempio di una grande multinazionale). Allende disse che queste grandi compagnie cominciavano a rimpiazzare la sovranità dello stato.
Andare in esilio dopo quattro anni è stato l’esito di una considerazione realista o portava anche un senso di sconfitta?
No, era inevitabile. Sono stato quasi tre anni in prigione e, dopo una farsa di giudizio, condannato prima alla pena capitale poi a 28 anni. I prigionieri politici non avevano diritto a un difensore, ma a un avvocato militare che era nominato dalla stessa giustizia militare. Un giorno il mio mi disse: “Ho una buona notizia”. E io: “Non mi ammazzano con la forca, mi fucilano? ”. “No, ti cambiano la condanna di morte con 28 anni di carcere”. Pensai: bene, ne ho 23. Sarò libero a 51. Mi resta tempo per vivere...
E invece...
Quando stavo per entrare in carcere, una ragazza di Amburgo che non conoscevo, attivista di Amnesty Internationall, che incredibilmente aveva letto due miei racconti pubblicati nella Ddr, ha cominciato la campagna che ha portato Amnesty a reclamare la libertà di un prigioniero di coscienza. Con un risultato: mi hanno applicato un famoso decreto della dittatura, il numero 501: da 28 anni di carcere all’esilio.
Destinazione Germania?
No, la Svezia. Ma il volo faceva scalo a Buenos Aires e qui ho deciso che volevo restare vicino al Cile, in Sudamerica.
Nonostante il pericolo.
Sì, ma era impossibile la permanenza a Buenos Aires perché c’era una dittatura terribile. Dall’Argentina sono andato in Uruguay ma era la stessa storia. Ho ritrovato vecchi compagni o famiglie di compagni che mi hanno detto: “Per noi sei il benvenuto però la situazione è questa”. Quindi il Brasile. Lì ho cominciato a lavorare in un teatro di cui era direttore un mio ex compagno della scuola di teatro dell’università del Cile, un brasiliano. Tre settimane, ma un giorno è arrivata la polizia politica brasiliana e in 48 ore ho dovuto abbandonare il paese.
A quel punto?
Il Paraguay e poi la Bolivia. Avevo tanti amici anche in Bolivia ma era la stessa situazione.
Tutto il Sudamerica.
Sì, poi il Perù. Un giorno casualmente un grande scrittore ecuadoriano, Jorge Enrique Adoum, mi ha falsificato un documento per visitare e lavorare in Ecuador. E in Ecuador ho fatto tante cose: ho lavorato nella stampa, sono stato proprietario di un piccolo caffè-teatro, poi una spedizione in Amazzonia che dopo mi ha dato il materiale per la scrittura de “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”.
Torniamo a quei momenti. Nelle ore successive, nei giorni successivi cosa facevate? Quanto contava la solidarietà del mondo?
Abbiamo scoperto la solidarietà dal primo giorno. Non c’era internet, l’unica possibilità di sapere era la radio e le trasmissioni a onde corte. Ricordo che la prima grande dimostrazione di solidarietà arrivò attraverso Radio Nederland, nella trasmissione in spagnolo della radio olandese che parlava di grandi manifestazioni di gente ad Amsterdam, a Berlino, a Roma eccetera. Non eravamo soli. La solidarietà internazionale stava funzionando. Poi Radio Mosca cominciò con una trasmissione che si chiamava “Escucha Chile”, tre volte al giorno.
Come vi organizzavate?
Sapevamo che la nostra capacità non era la stessa della forza armata però sapevamo che la simpatia popolare permetteva piccole azioni. Già il 15 di settembre il primo atto operativo militare della resistenza: l’assalto a tre camion del pane e la distribuzione in un quartiere popolare. Poi le prime pubblicazioni di una sinistra clandestina, distribuite alla fermata del bus, nella stazione del metro, lanciate nella strada da un edificio, nell’università. Alla dittatura, che diventava più brutale, più forte, la risposta era sempre uno sforzo immaginativo per conservare la resistenza. La differenza tra socialista, comunista, Mir era scomparsa: tutti compagni, tutti nella stessa tragedia. Nei sedici anni della dittatura, Pinochet e i suoi uomini non hanno conosciuto un solo giorno di pace: tutti i giorni hanno avuto un’azione della resistenza, due azioni. Esecuzioni dei criminali della dittatura.
Cosa resta di allora?
Provo una rabbia enorme nel vedere che l’attuale dirigenza politica cilena della destra e del centro-sinistra che ha governato venti anni ha dimenticato questo, ha dimenticato lo sforzo che ha significato mantenere una resistenza.
Pensavate che la dittatura sarebbe durata così a lungo?
No, no. Questa è una cosa che è comune a tutti i popoli. Nessuno pensa che la dittatura durerà tanti anni. I vecchi spagnoli dicevano sempre: “No, in questo anno Franco cade”. Ma c’erano cose difficili da capire. Per esempio che un paese comunista come la Repubblica popolare cinese fosse stato il primo paese, ancora prima degli Stati Uniti, ad avere rapporti diplomatici e commerciali con la dittatura di Pinochet; che la ex Unione sovietica, affratellata con il Partito comunista cileno, non avesse interrotto le relazioni con la dittatura e anzi le coltivasse. Per noi la solidarietà più importante è giunta dai discorsi di Willy Brandt in Germania e Olof Palme in Svezia.
Quarant’anni dopo, che cittadino si sente Luis Sepùlveda?
Di tanti paesi. Il mio è un passaporto tedesco e ringrazio la Germania perché mi ha dato la possibilità di girare il mondo senza problemi. Vedi, per un lungo periodo sono stato un apolide, ed è terribile avere il passaporto che ti danno le Nazioni Unite, un passaporto blu. Sei sempre l’ultimo nell’aeroporto, sempre sospetto. Ti lasciano o non ti lasciano salire sull’aereo: tutto dipende dalla volontà del comandante del-l’aereo. Ti lasciano o non ti lasciano entrare in un paese: tutto dipende dal poliziotto che guarda il tuo passaporto. Sei un uomo di quarta categoria.
Tutte le dittature lasciano un frutto e questo frutto è un frutto terribile, è un frutto ideologico. Non si finisce con questo frutto ideologico della dittatura in maniera veloce perché è una questione culturale che si installa nella società. È l’individualismo, la negazione della cultura, la negazione della memoria, la negazione della storia anche. Però una parte importantissima della società cilena ha cercato di recuperare tutta la memoria, tutte le storie e di contribuire al racconto della nostra società in una maniera completa. E curiosamente la gente più entusiasta di questo sono i giovani del Cile.
Con un’eredità terribile...
Certo, se poi si pensa che la dittatura è finita nel 1990, non si capisce come nel 2013 il paese abbia la stessa costituzione lasciata da Pinochet, scritta per Pinochet, in favore della dittatura e della gente affine al dittatore.
Che ne pensa del governo attuale?
Sebastián Piñera è un uomo di evidenti limiti intellettuali, il poverino non è incolpabile di questo, ma Piñera e tutto il suo corpo di ministri è tutta gente che ha fatto fortuna con la dittatura. Sono stati complici della violazione dei diritti umani.

il Fatto 9.9.13
Per l’America latina la data più dolorosa


L’UNDICI SETTEMBRE segna indelebilmente la storia degli ultimi decenni del ‘900. Anche se l’attentato alle Torri Gemelle nel 2011 potrebbe confondere la memoria, il golpe cileno resta tragicamente fissato nella storia dell’America latina. Quel giorno il generale Pinochet, capo di Stato maggiore, organizzò il golpe che uccise nel palazzo presidenziale Salvador Allende e diede vita a una serie di eccidi e a un periodo tra i più duri della storia del sub-continente. Allende aveva vinto regolarmente le elezioni nel 1970 a capo di un’alleanza denominata Unidad popular. Una vittoria sull’onda di grandi mobilitazioni nel Paese, eppure avvenuta su misura con circa il 37% dei consensi.
Allende caratterizzò il suo governo per un massiccio piano di nazionalizzazioni, soprattutto quella della produzione di rame, nevralgica nel Paese, in cui risaltavano gli interessi degli Stati Uniti.
Il governo così si trovò di fronte a una forte opposizione, sostenuta dagli stessi Usa, che contribuì a destabilizzare la situazione interna. L’imminente crisi economica internazionale influì sulla situazione del Paese. Alla fine del ‘71 si moltiplicarono le manifestazioni di protesta fino allo sciopero dei camionisti che paralizzò il paese.
Fu paradossalmente lo stesso Allende a rivolgersi al generale Pinochet affidandogli il comando delle forze armate.
Il ruolo degli Stati Uniti è stato ampiamente documentato, a partire dalle prime riunioni avvenute alla Casa Bianca tra lo stesso presidente, Richard Nixon, e il Segretario di Stato di allora, Henry Kissinger. Anche grazie a loro il Cile conobbe una dittatura militare che è durata quasi venti anni, che ha prodotto decine di migliaia di morti, centinaia di migliaia di esiliati e il cui protagonista, Pinochet, è morto senza essere mai stato condannato.

Repubblica 9.9.13
Un Paese che cerca la rinascita all’ombra dell’anniversario
L’analisi del dopo Pinochet, tra ricordi, retroscena e speranze di una nuova politica
di Paolo Hutter


A 40 anni di distanza si possono ancora imparare cose nuove dall’11 settembre del 1973 e dal Cile. Scompongo in tre elementi questo anniversario visto dall’Italia: l’impatto del golpe di Pinochet nell’Italia del 1973, che fu enorme, forse il più alto nel mondo, la curiosità di sapere cosa è diventata oggi quella terra, cosa ci può dire politicamente, e la presenza di aspetti poco noti di quella vicenda, ma fondamentali per una coscienza della democrazia. La mia vicenda personale di ragazzo italiano di sinistra arrestato per 21 giorni a Santiago del Cile era e fu poca cosa rispetto all’enormità del golpe. Ma quando si torna a parlare di quel capitolo di storia lo status di unico ex arrestato italiano mi dà una strana forza dentro. Molte sono le commemorazioni nei prossimi giorni, soprattutto a Milano, ma il rischio in Italia è che ci si fermi a un dato autoreferenziale, come se ci fosse solo da ricordare quanto siamo stati giusti, e niente da imparare.
Il Cile oggi è un paese dove si possono trovare tutte o quasi le questioni che agitano la nostra modernità e al quale capita, talvolta, di nuovo di essere avanti. Sarà una coincidenza ma val la pena far sapere che nel centro di Santiago – ora per la prima volta condotto da una sindaca di centro sinistra, Carolina Tohá – il seminario internazionale sulla figura di Allende è stato introdotto dalla presidente uscente della Camera, Isabel Allende, figlia di Salvador e grande politica e concluso dalla ex Presidente e di nuovo candidata favorita alla Presidenza Michelle Bachelet. Mentre il sindacato CUT diretto dalla sua neo-presidenta Figueroa ricordava i 43 anni dalla vittoria di Unidad Popular. È tale questo momento femminile cileno che anche la destra schiera una candidata, Evelin Matthei, per la sfida presidenziale di novembre.
Una delle donne della squadra di Allende,Patricia Espejo, ora presidente della Fondazione Allende, sta pubblicando le sue memorie. Ricorda che nel pomeriggio del 10 settembre il “doctor” convocò alla Moneda i vertici di Forze Armate e Carabinieri per comunicare la decisione di indire un referendum sulla legittimità del suo governo che era in minoranza al Parlamento. L’avrebbe annunciato il giorno dopo, 11 settembre, al paese con un discorso dalla Università Tecnica dello Stato. 40 anni dopo non è un’eresia ragionare sul fatto che Allende era arrivato primo per un pelo alle presidenziali, e che lo scontro istituzionale che ha generato il golpe era nella impossibile “coabitazione” tra un Presidente di sinistra e un Parlamento di destra, che però non aveva i due terzi per sfiduciarlo. Rodrigo Andrea Rivas, economista e storico cileno ormai italianizzato, ricorda nello stesso 10 settembre una riunione in cui Allende annunciò il referendum ai dirigenti della sua coalizione, per la metà contrari al “cedimento”, aggiungendo che prevedeva di perderlo ma di salvare così la democrazia e la forza futura della sinistra. Perché se n’è parlato così poco? Ma soprattutto: i militari fecero ugualmente il colpo di stato perché non si fidavano del referendum di Allende? Probabilmente erano ormai lanciati nell’impresa di volere il potere tutto per sé, eliminando fisicamente la sinistra ma mettendo alla porta o in anticamera anche la destra civile. Ci poteva essere un esito diverso?

La Stampa 9.9.13
Sorpresa Navalny Il blogger anti-Putin vicino al ballottaggio
In bilico l’uomo del Cremlino, smacco per lo Zar
di Lucia Sgueglia


Appena chiuse le urne a Mosca in Vicolo Lialin, quartier generale del candidato sindaco Alexei Navalny, la sorpresa è così grande tra sorrisi e occhi sgranati, che i volontari piazzano due grosse stufe a gas in mezzo al cortile tra l’assedio dei giornalisti: la notte si prospetta lunga, «non andate a dormire», twitta lui da chissà dove. I primi exit poll, persino quelli filo governativi, danno il sindaco uscente Serghiei Sobianin, uomo del Cremlino, a poco più del 52%, e il blogger anti Putin oltre il 30%: un risultato assolutamente imprevisto, inatteso persino per l’oppositore che prevedeva al massimo un 25% (i sondaggi ufficiali gli assegnavano fino al 18%). Un punteggio di misura che all’improvviso rende reale il rischio ballottaggio, escluso da tutti gli esperti alla vigilia. E fa vacillare il potere di Putin a Mosca, la capitale che già alla presidenziali del 2012 gli aveva assegnato il minimo nazionale. Poi i primi dati, molto più sbilanciati a favore di Sobianin, ed è caos sui numeri. Ma mancano i dati dell’affluenza, alle 18 era del 26%. Un fatto sospetto e inaccettabile per l’attivista anti corruzione che appare e attacca: «Il voto si è concluso da due ore, un voto molto semplice, con una sola scheda. Riteniamo quello che sta succedendo sia una falsificazione di per sé. Non cederemo nemmeno un voto», e battagliero chiede che si vada al secondo turno.
In centro, sulla via Tverskaya, raccontano due supporter allegre reduci dai seggi, ha vinto Alexei. Il caos nei numeri a sera inoltrata è ancora totale. Ma un dato è certo: l’opposizione apartitica è sdoganata, con Navalny entra nel gotha della politica russa e il blogger si afferma come l’avversario numero uno di zar Putin.
L’incognita vera è un’altra: cosa deciderà di fare il Cremlino? Non tutti là dentro appoggiano Sobianin, si sa: qualcuno vorrebbe costringerlo al ballottaggio. Ma il primo cittadino di Mosca che sperava in un’affermazione più piena, è anche tra i nomi ipotizzati per la successione a Putin alla presidenza, dunque identificato con lui. Altro dato certo: a favore del blogger ha giocato la scarsa affluenza, dunque i sostenitori dell’opposizione hanno votato in massa, disciplinati e bulgari, mentre i filo governativi hanno disertato, per indifferenza o certezza della vittoria. Un voto che il Cremlino voleva pulito il più possibile, almeno a urne aperte. «Sono le elezioni più competitive in tutta la storia della Russia contemporanea», azzarda il vice capo della Commissione Elettorale Centrale. E forse si allontana un po’ la prigione per Navalny, quella condanna per frode che lo minaccia da luglio. O forse è più vicina. Su internet i dissidenti che per tutto il giorno hanno postato orgogliosi foto delle proprie schede in cabina con la X sul nome del loro beniamino, si scatenano.
In periferia, nel call center degli osservatori dell’opposizione, Roman Udot dell’associazione Golos, famosa per aver rivelato i brogli di massa alla Duma nel dicembre 2011 interpreta: «A Mosca non è più possibile usare i vecchi sistemi, Putin l’ha capito già con il voto presidenziale. Qui diversamente dalla provincia la gente sta attenta, la società civile è più sviluppata», pur parlando di «violazioni non di massa». Ma il destro per dare sfogo alla piazza è servito: oggi l’opposizione ha convocato una manifestazione, autorizzata, in piazza Balotnaya, dove tutto cominciò due anni fa. Navalny dovrà scegliere se fare il capo popolo o il politico.

Repubblica 9.9.13
Germania
Sale la Spd, Merkel in difficoltà “Il risultato non è scontato”


BERLINO — Il risultato delle elezioni del 22 settembre in Germania non è scontato e Angela Merkel non esclude di poter essere sconfitta. A dirlo è la stessa cancelliera al domenicaleBild am Sonntag invitando i suoi elettori a mobilitarsi anche se i sondaggi sono favorevoli alla Cdu. «Chi crede che rimarrò cancelliere», spiega la Merkel, «potrebbe risvegliarsi dopo il voto con un governo rosso-rosso-verde (con anche la Linke). A contare sarà ogni singolo voto. Sarà un risultato di misura». Intanto, secondo un sondaggio Emnid, il candidato socialdemocratico Peer Steinbrück è in rimonta con un balzo di sette punti al 35% mentre la Merkel ne perde due e scende al 50%.

il Fatto 9.9.13
La lotta dei simboli
Un monumento per gli atei: “Non vogliamo restare soli”
di Martina Castigliani


Come simbolo hanno scelto una panchina. Se ne sta nel centro della piazza di Bradford, scritte scolpite nella roccia e colore granito. Lì si fermano gli atei. Basta sedervisi sopra per bere un po’ di riposo ed è come avere imbracciato una bandiera e scelto una comunità .
IL PRIMO MONUMENTO a chi non crede in una divinità è stato eretto in Florida, a pochi passi dalla statua che celebra i dieci comandamenti della religione cristiana. John Adams, Benjamin Franklin and Madalyn Murray O’Hair, fondatore degli Atei Americani nel 1963, le voci scelte. Recitano di laicità e di culti che rispettano la libertà dei cittadini. “Per noi è un segno”, hanno fatto sapere i promotori. E s’intendeva un abbraccio, un grido che rompe un silenzio e li fa comunità. Perché di mille battaglie e certezze tagliate con l’accetta, resta il vuoto quando si spegne la luce la sera ed è ora di dormire. Di tutto quel non credere in nulla resta una solitudine e la ricerca di una spalla a cui aggrapparsi quando sembra essere arrivata la fine.
La rivolta è cominciata nel maggio 2012: un gruppo cristiano locale ha fatto erigere un monumento dedicato ai dieci comandamenti davanti al tribunale della contea di Bradford. Negli Stati Uniti sono a decine: istituiti tra gli anni Cinquanta e Sessanta da un gruppo per la carità, il Fraternal Order of Eagles. Ma l’ennesima statua religiosa non è piaciuta a molti. Ci sono volute due settimane e gli atei locali hanno organizzato una protesta in nome del primo emendamento della costituzione che ribadisce la “terzietà della legge rispetto ad ogni culto”. All’inizio la contea gli ha dato ragione. Ma i cristiani sono passati al contrattacco ribadendo che se non poteva il governo sponsorizzare quel monumento alla fede, ci avrebbe pensato un privato. Così è arrivata la mediazione ed è stata creata una “free speach zone”, una zona per la libertà di parola. Chiunque avrebbe potuto avere il suo monumento. “God worked this out”: i cristiani hanno ringraziato Dio. Gli atei hanno scelto un sorriso: “Era una necessità per noi”, ha commentato il presidente David Silverman. A inizio luglio 2013 è nato così un secondo monumento. Alla memoria, al ricordo.
Disegnato da mister Loukinen e Todd Stiefel, sono 700 chili di granito con in fondo un mucchio di scritte. E ci sono già alcuni visitatori che lo vanno a cercare. Prendono treni e aerei solo per dire che l’hanno visto e che anche loro non credono in Dio. “Il predominio del cristianesimo è un’ingiustizia, un’imposizione, un razzismo insopportabile”, l’associazione degli atei americani ha cominciato da una piazza e da una panca di pietra la sua rivolta. “Il cristianesimo ha goduto di ingiusti privilegi per oltre 150 anni. Vogliamo strappargli questa conquista, così che per una volta possano essere uguali agli altri”.
QUESTIONE di principio, ma anche di comunità. Perché se bisogna parlare di rappresentanza, anche loro vogliono dire di esserci. Un baluardo contro la solitudine, la frontiera che resiste di una società che obbliga a credere. La panchina degli atei americani grida esistenza. Concretezza di un esserci e non essere soli al mondo. Sono il 20% della popolazione americana. Meno che in Italia, Francia o Russia. Il numero maggiore di persone che negano l’esistenza di una divinità, secondo uno studio del 2008 dell’Università di Chicago è nella Germania dell’Est. Sono gli Stati Uniti però ad aver fatto di questi principi una battaglia da prima linea. Così è nato il Religious Freedom Education Project: realizzato dentro un museo, parla della libertà dei cittadini dell’America del Nord. Ma soprattutto cerca di appellarsi al Primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti e distruggere il mito di una nazione cristiana. “Il nostro”, spiega il presidente Charles C. Haynes sul sito internet con un video che è un manifesto, “è un progetto per educare sull’importanza della libertà dalla religione”.
La caccia è ai pregiudizi e all’esclusione di chi la pensa diversamente dalla corrente principale, di chi si è perso in rivoli e non ha intenzione di ritrovarsi. Gli dicono che non è solo. Può sedersi in una piazza e dirlo a gran voce. Di vergogna non avrà bisogno, resterà lo spazio di un dubbio o di un cesto di paure. Nessuna verità tagliata a pezzetti, nessuna sconfitta. Atei e liberi, recitano insieme. E possono. Non c’è più sguardo che metta in un angolo. Non quello di Dante Alighieri che per la religione perde pure un amico, il poeta Cavalcanti, che ebbe a disdegno Dio e non poté così accompagnarlo nel viaggio da inferno a paradiso. Qualcuno ha messo in guardia sui pericoli: “Ora si riempiranno le piazze di simboli. Chiunque vorrà essere rappresentato”.
Saranno in tanti, ma almeno non si sentiranno soli e anche l’eco dei propri passi quando scende il sole dietro l’orizzonte farà un po’ più rumore. Così il burrone nero di nulla davanti a sé avrà avuto un qualche senso perché diviso con chi viaggiava al fianco.

il Fatto 9.9.13
Il giurista laico
Rodotà: “Un modo civile di esprimere la propria paura”
intervista di Mart. Cast.


Credente della religione della libertà, scritta e teorizzata da Benedetto Croce e mattone fondante di una società del rispetto. Stefano Rodotà, giurista e politico italiano, è l’ateo che professa la possibilità di non avere una fede e di riconoscere le voci di chi ha un’opinione diversa dalla sua. In una quotidianità dove nessuna concezione dovrebbe avere supremazia sulle altre. Negli ultimi mesi è stato al centro della cronaca politica per la sua mancata elezione a Presidente della Repubblica, candidato dal Movimento 5 Stelle. Scelto come simbolo di una battaglia per il rispetto dei diritti, dall’acqua pubblica fino alla libertà d’espressione, è autore del libro “Perché laico”. In quelle pagine, dice che è arrivato il momento di chiedere una “laicità democratica”, che sia forte e decisa e che non si nasconda dietro travestimenti.
Lei da uomo di ragione, si riconosce nel bisogno di costruire una statua per essere rappresentati come è stato fatto dalla comunità di atei di Bradford?
E’ un fenomeno particolare, di per sé molto isolato. Credo però che sia importante cercare di analizzarlo, senza dargli troppa importanza, e al tempo stesso senza sottovalutarlo.
Gli atei hanno bisogno di difendersi dalla religione o da chi crede?
No, è sbagliato vederlo in questi termini. Io penso che i problemi siano fondamentalmente due. Quando il proselitismo dei credenti diventa aggressivo e quando la religione si impone attraverso le norme di legge e le istituzioni.
Sarebbe a dire quando si varca la soglia tra la sfera pubblica e quella privata?
Penso alla legge sulla procreazione assistita e a tutti i guai che ha portato per le donne. La religione ha un limite che non dovrebbe superare. Fermo restando che tutti possono professare il proprio culto, la sfera pubblica non dovrebbe mai essere assoggettata alla religione.
Solo così si può parlare di società laica?
Io penso a una condizione in cui tutte le opinioni sono su di un piano di parità. Il cattolicesimo è parte integrante della nostra storia ad esempio. Non dico che bisogna dimenticarlo, ma che nessun punto di vista dovrebbe avere supremazia sugli altri.
Vorrebbe dire ad esempio che non c’è problema se il Papa parla di bioetica?
In una società laica no. Perché l’importante è che non abbia una posizione più forte delle altre. Ma sia una voce tra tante. E poi ognuno ascolta quella che preferisce. Di rispetto. Io accetto chi crede e riconosco il suo culto. Chiedo altrettanto per la mia condizione di persona che non pensa esistano divinità da seguire. Penso a Benedetto Croce e a quella che lui chiama “religione della libertà”. Io mi riconosco in quel sentire.
Un credente potrebbe dirle che in realtà gli atei hanno solo molta paura di essere soli, lei cosa gli risponderebbe?
Perché no? Non c’è niente di male nell’avere paura. E costruire una statua è un modo civile per esprimerlo. Temo invece le reazioni più aggressive di culti che al giorno d’oggi reagiscono alla perdita di centralità con la violenza. Sono le religioni a sentirsi minacciate.
Andiamo verso un futuro laico?
Non lo so, sono previsioni difficili da fare. Quello che vedo è un bisogno di sacro sempre più diffuso che certamente è un’altra cosa rispetto al professare una religione. E la fede ha avuto un forte ridimensionamento. Mi auguro però che si parli di laicità sempre di più e che lo si faccia per tutelare la nostra democrazia.

il Fatto 9.9.13
Barack Obama
“L’America confessionale. E quella laica”


POLITICA E RELIGIONE “Vorrei discutere con voi il nesso tra religione e politica, e magari offrire qualche spunto su come districarci tra alcune delle tante diatribe, spesso molto aspre, apertesi in questi ultimi anni. Lo faccio perché possiamo asserire l’importanza della povertà nella Bibbia e discutere la vocazione religiosa alla missione nel mondo quanto vogliamo, ma tutto questo non avrà effetto alcuno se non affrontiamo di petto il sospetto reciproco che talvolta esiste tra l’America religiosa e l’America laica. Nella mia storia personale, questa necessità è emersa durante la campagna per l’elezione al Senato, nel 2004. L’altro candidato, Alan Keyes, era portato per quello stile retorico alla Jerry Falwell o Pat Robertson che bolla i progressisti come immorali e senza Dio. Verso la fine della campagna Keyes disse: “Gesù Cristo non voterebbe per Barack Obama. Cristo non voterebbe per Barack Obama perché Barack Obama ha tenuto un comportamento impensabile per Cristo”.
Penso che sia un errore non riconoscere la forza della fede nella vita degli americani e non addentrarsi in un dibattito su come conciliare la fede e la nostra democrazia moderna e pluralistica. Il 90 per cento di noi crede in Dio, il 70 si inserisce in una religione organizzata, il 38 per cento si definisce “cristiano impegnato” e in sostanza ci sono più persone che credono negli angeli che non persone che credono nell’evoluzione. Questa tendenza non è il risultato di una campagna pubblicitaria riuscita ad opera di predicatori capaci, né il traino di popolari megachiese. In realtà, si rivolge a una fame più profonda, una fame che va oltre ogni questione o causa specifica... Perciò hanno bisogno di essere certi che qualcuno, là fuori, si preoccupi di loro, li ascolti; hanno bisogno di essere certi che non stanno discendendo una lunga autostrada verso il nulla”.
* Barack Obama, 28 giugno 2006 (all’epoca era senatore) alla conferenza “Call to renewal” a Washington

il Fatto 9.9.13
Il sorpasso
2041, Dio resta indietro
di Alessandro Oppes


Sarà poi vero che, fra meno di trent'anni, saremo più atei che religiosi? C'è anche chi fissa una data precisa il 2041, per questo ipotetico "sorpasso" che, viste le cifre attuali (secondo l'ultimo "indice globale" pubblicato da Gallup tre quarti della popolazione mondiale si dichiarano ancora, in qualche modo e con tutte le sfumature possibili, credenti) appare come una previsione azzardata o prematura. Ma il "veggente" di turno, lo psicologo Nigel Barber, che prospetta questo scenario nel libro Why Atheism Will Replace Religion, è fermamente convinto che il declino inarrestabile della religione sia direttamente legato allo sviluppo economico e culturale di ogni paese. La fede, insomma, va a picco quando migliora la qualità della vita. Questo non significa che, nei paesi sviluppati, il soprannaturale non continui a risultare attraente. A provocare sempre maggiore diffidenza sono, al contrario, "le chiese, il clero e i dogmi".
A conclusioni in parte simili è arrivato, negli Stati Uniti, uno studio del Pew Research secondo il quale, nonostante l'incremento delle persone che affermano di non appartenere a nessuna affiliazione religiosa, questo non significa che il paese sia diventato "più secolare" di prima. In pratica, sono sempre meno quelli che dubitano dell'esistenza di Dio, ma aumentano quelli che preferiscono allontanarsi dalle strutture ecclesiastiche di vario segno: l'impressione ormai dominante è che le organizzazioni religiose siano troppo preoccupate per il denaro e il potere.
Magari non sarà un cultore dei sondaggi e delle percentuali ma, sul fronte cattolico, attraverso i suoi clamorosi gesti di rottura con un passato troppo spesso imbarazzante, Jorge Mario Bergoglio sa di aver intrapreso l'unico cammino possibile per invertire una tendenza che sembrava inarrestabile: quella alla fuga dalla Chiesa di Roma.
Francesco è un Papa che parla anche agli atei, pochi avevano fatto lo stesso in passato.

Repubblica 8.9.13
Il legno storto che vorremmo raddrizzare
di Eugenio Scalfari


IL LEGNO con il quale siamo costruiti è storto, lo disse Kant e lo riprese Isaiah Berlin titolandoci un suo libro. Il legno è storto ma guai a tentare di raddrizzarlo perché è impossibile, bisognerebbe cambiare la natura stessa della nostra specie che sta a metà strada tra l’animale che vive di soli istinti e l’uomo animato da istinti ma anche da pensieri.
Di qui, da questa duplice natura di scimmia pensante nascono le nostre contraddizioni, le storture del nostro legno, ineliminabili perché connaturate, nostra disperazione e insieme nostra ricchezza. Le storture connaturate sono ineliminabili, ma spesso impongono una scelta e quindi una sfida perché ogni scelta comporta una sfida e noi, cittadini di questo mondo gremito di contraddizioni, viviamo a tal punto incalzati dalla necessità di scegliere che sempre più spesso precipitiamo nell’indifferenza, vedendo soltanto il nostro interesse immediato e particolare. Farò qui l’elenco di alcune di queste contraddizioni che ci riguardano da lontano, da vicino e da vicinissimo. Julia Kristeva, intervistata ieri da Franco Marcoaldi, ha ricordato che la radice dalla quale sono germinate negli ultimi due secoli sta nell’Illuminismo e nel suo confronto con la cultura dell’assoluto, il potere assoluto, la verità assoluta, cui l’Illuminismo oppone il soggetto individuale, la verità soggettiva e quindi relativa.
Di qui nascono le contraddizioni moderne, la prima delle quali, che ha dominato l’attualità dei giorni scorsi e di quelli che verranno, sta nel dramma siriano e nei due contrastanti modi di risolverlo.
Ovvero la punizione di Assad per le stragi delle quali è imputato e il pacifismo invocato e promosso da papa Francesco che ha toccato il culmine con la giornata di preghiera e digiuno in cui il capo della cristianità cattolica ha coinvolto le religioni di tutto il mondo e i laici non credenti che non condividono “la guerra che chiama la guerra”.
Papa Francesco non ignora ed anzi censura con la massima severità le stragi di civili e di bambini innocenti, attribuite al regime siriano, addirittura con bombe al gas nervino vietato da convenzioni internazionali, ma esclude, il Papa, che la forza delle armi sia lo strumento idoneo; spera che la pressione del pacifismo da lui promosso induca le parti a cercare un compromesso e che il regime siriano dal canto suo cessi ogni repressione e convochi le parti in contrasto a discutere e a provare il passaggio dalla dittatura tribale ad un regime di libertà e di pacifica convivenza controllato da osservatori internazionali.
Se questa iniziativa avesse successo, le sue ripercussioni potrebbero servire di esempio per altri Paesi del Medio Oriente a cominciare dall'Iran, dall'Egitto, dall'ormai secolare conflitto tra Israele e Palestina, dal Kurdistan, dal Libano.
La visione del Papa è altissima e non utopica, potrebbe funzionare qui e ora, ma deve misurarsi con interessi di potere difficilmente permeabili.
Obama, che sogna anche lui la pacificazione del Medio Oriente e la convivenza pacifica dell'Occidente con l'Islam, ritiene però che per demolire le posizioni di potere tribale e fondamentalistico in Siria sia necessaria una prova di forza. La visione pacifista non è utopica ma è o può essere velleitaria. Perché il pacifismo abbia successo ci vorrebbe una mobilitazione tenace e duratura di tutte le piazze siriane, un rifiuto delle truppe di Assad a sparare sui cittadini dissidenti, un disarmo controllato bilaterale e totale, che lascerebbe però campo libero ai terroristi di Al Qaeda.
Insomma l'iniziativa 'francescana' non basta, può contribuire ma va rafforzata da una punizione esemplare.
Quanto all'Onu, essa non autorizza l'operazione di forza perché il veto russo e cinese blocca il Consiglio di sicurezza. Questa è un'altra intollerabile stortura: i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza non rappresentano più il mondo di oggi e si sono collocati al di sopra di ogni principio democratico. In un organo mondiale dove l'Europa, l'India, il Brasile, l'Africa non sono rappresentati e il diritto di veto supera ogni maggioranza alternativa, la stortura è evidente.
Come si vede, queste diverse posizioni sono molto difficilmente conciliabili. «Tra un giorno, una settimana, un mese» vedremo col fiato in gola che cosa accadrà. Se debbo esprimere un'opinione personale dico: non sono affatto indifferente, mi sento coinvolto nel dilemma, temo una guerra che chiama la guerra, ma credo anche che l'incolumità e i diritti dei cittadini siriani vadano difesi. Conclusione: non so scegliere tra Francesco e Obama.
***
Il tema siriano è al tempo stesso lontano e vicino, ma ce n'è un altro che è vicinissimo, è in casa nostra anche se le sue ripercussioni possono estendersi a tutta l'Europa.
Si chiama Berlusconi, la sua condanna, il suo partito, il governo Letta, il Partito democratico, il Movimento 5Stelle, la magistratura, il capo dello Stato. Insomma l'Italia e le sorti della democrazia italiana la cui fragilità sta attraversando una delle fasi più inquietanti della sua tormentatastoria. Se Berlusconi seguisse il consiglio che alcuni dei suoi collaboratori e familiari gli hanno dato e gli danno, dovrebbe dimettersi da senatore.
Guadagnerebbe un merito, agirebbe per il bene di un Paese che lui ha amato soltanto perché un vasto settore di opinione pubblica lo ha appoggiato e ancora l'appoggia da quasi vent'anni.
Le dimissioni da senatore e l'accettazione della condanna, l'abbandono della vita politica sarebbero il primo e solo merito, tutti gli altri vantati da lui e dai suoi fedeli sono assolute bugie. Questo però sarebbe un merito notevole e denso di conseguenze positive: renderebbe necessaria la costruzione di una destra moderata e liberale rafforzando la democrazia; assicurerebbe il percorso del governo per il tempo necessario per l'adempimento del compito ricevuto a suo tempo dal capo dello Stato che l'ha nominato e dal Parlamento che l'ha fiduciato.
Penso, ma ovviamente esprimo anche in questo caso un'opinione personale, che se a quel punto e nelle forme dovute chiedesse un provvedimento di clemenza, forse l'otterrebbe. Temo però che le cose non andranno in questo modo. Temo che i suoi legulei tentino di sollevare un processo di revisione della sentenza della Cassazione interpellando la Corte d'appello di Brescia.
Per guadagnare tempo, giorni o settimane o mesi qualora il ricorso fosse accettato.
C'è poi la tentazione della sinistra movimentista e para-grillina di buttar giù il governo e andare alle elezioni.
Perfino, come vorrebbe Grillo, col “Porcellum”.
Tentazione molto pericolosa, che troverebbe però, come da lui più volte dichiarato, l'opposizione di Napolitano che non scioglierà mai le Camere se il “Porcellum” non sarà abolito e non prima comunque che sia approvata la legge finanziaria. Cioè non prima del febbraiomarzo 2014.
Se questo fosse l'esito, la “tentazione movimentista” avrebbe come risultato quello di riprecipitare l'Italia nel girone dei dannati, dei sorvegliati speciali, dei peccatori congeniti. Ho apprezzato i nobili intenti espressi dall'amico Vittorio Sermonti nella lettera aperta dai noi pubblicata, ma vedo anche lì una mancanza di realismo estremamente pericolosa. Se Berlusconi riuscisse a non andare in galera, dobbiamo rispondere nei prossimi giorni buttando giù il governo Letta. Questa è la tesi di Sermonti, che mi consentirà però di ricordare le vicende di Abelardo ed Eloisa che immagino lui conosca benissimo.
Questo discorso, inutile dirlo, vale anche per il Partito democratico nelle sue varie componenti, correnti, fazioni.
Il Congresso va certamente fatto,ma la questione preliminare è se l'appoggio al governo Letta si limiti a “qualche cosuccia” cui deve provvedere nel giro di pochi mesi, oppure alla durata almeno fino al semestre europeo con presidenza italiana, cioè il tempo minimo per la realizzazione degli obiettivi che gli sono stati affidati.
Se il Congresso non risolverà preliminarmente questo problema, sarà certo importante per ricostruire l'identità d'un partito ancora molto ammaccato e scegliere un leader che la impersoni nel quadro d'una nuova ed efficiente struttura organizzativa, ma affiderà al prescelto una cambiale in bianco su un tema che condiziona la posizione internazionale, sociale ed economica del Paese. Non mi sembra il momento delle cambiali in bianco quando si percorre un sentiero accidentato che attraversa precipizi nei quali si può cadere. Ci pensino bene le componenti, le correnti, le fazioni del Pd e chi le rappresenta. La scelta che sono chiamati a fare li rende corresponsabili di cambiali in bianco rilasciate senza aver chiarito la questione preliminare ed essenziale.
***
C'è un’ultima contraddizione,attuale ma storica perché vecchia di secoli: come mai gran parte degli italiani è politicamente indifferente e perché un quarto almeno dei non indifferenti vota da vent'anni per Berlusconi? La risposta l'abbiamo data già molte volte ma è bene ripeterla in un Paese di corta memoria: indifferenti o berlusconiani o grillini, odiano lo Stato, le istituzioni, la politica. Per secoli hanno visto la loro terra governata da Stati stranieri e tirannici, Signorie, altrettanto tiranniche, una borghesia inesistente, una cultura ristretta a ceti privilegiati, un'economia di rapina.
Di qui il ritrarsi nel proprio interesse particolare, il disprezzo dell'interesse pubblico, la fragilità d'ogni tentativo di modernizzazione affidato ad élite presto trasformatisi in caste.
Questa è stata la storia del Paese e di questa paghiamo il prezzo, sperando in una svolta che ci consenta di uscirne.
Talvolta queste svolte ci sono state, ma sono durate poco e il vecchio andazzo è ricominciato. Speriamo che il buon momento stia arrivando anche se i presagi sono ancora tempesta.

Repubblica 9.9.13
Solo la testimonianza di un orrore morale
di Vittorio Sermonti, risponde Eugenio Scalfari


CARO Eugenio, se letta come lezione al Presidente della Repubblica su come dovrebbe comportarsi nella concretezza del suo ruolo istituzionale, non c'è dubbio – come tu dici – che la mia lettera aperta di sabato scorso conterrebbe una «mancanza di realismo estremamente pericolosa ». La mia lettera è semplicemente la testimonianza di un orrore morale (e culturale), che so condiviso da milioni di persone singole senza voce e senza speranza, e che ho considerato impellente rappresentare apertamente a Giorgio Napolitano con la libertà che mi garantisce un Presidente come lui. Mi auguro e immagino che, responsabilizzato a distinguere analiticamente e pragmaticamente dal tuo sacerdozio laico di opinionista, tu stesso condivida nel fondo di te questo orrore muto e disperato. Quando parlo di mettersi in piazza, mi rivolgo a ogni italiano che esiga di riprendersi la NOSTRA REPUBBLICA DI NUOVO. Con antica amicizia.

Ringrazio Vittorio Sermonti per la sua gentile risposta ma ad un certo punto della sua lettera si dice sicuro che anch'io ho in cuore il desiderio che questo governo finisca al più presto. Purtroppo per lui si sbaglia e evidentemente non ha letto il mio articolo di ieri nel quale dicevo che questo governo deve durare, per il bene del nostro Paese e dell'Europa, fino al semestre europeo presieduto dall'Italia e cioè fino al 2015. Questo dunque è il mio pensiero in proposito.
Eugenio Scalfari

Repubblica 9.9.13
FestivalFilosofia
Analfabeti d’amore
Siamo diventati tutti degli incompetenti affettivi?
Consumisti di sentimenti usa e getta figli dell’epoca dei social network?
I maestri del pensiero ne discutono a Modena, Carpi e Sassuolo dal 13 settembre
Per spiegare le cause della nostra incapacità di esprimere quello che abbiamo nell’anima
di Laura Laurenzi


È “Amare” il tema dell’edizione 2013 del Festival Filosofia, che si svolge a Modena, Carpi e Sassuolo dal 13 al 15 settembre.
In 40 luoghi diversi delle tre città, si alternano lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche.
Gli appuntamenti sono quasi 200 e tutti gratuiti. I maestri del pensiero che il festival porta nelle piazze e nei cortili si confrontano con il pubblico sulle varie declinazioni contemporanee dell’amore. Le piste di lavoro battute nel programma includono le “potenzedell’anima”, l’amore “transitivo” o “intransitivo”, le “politiche dell’amore” e le “figure dell’amore”: miti, racconti e immagini sull’esperienza amorosa. Senza dimenticare che la filosofia in quanto tale è essa stessa una forma d’amore. Il festival è promosso dal Consorzio per il Festival Filosofia, i cui fondatori sono i comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la provincia di Modena, la Fondazione Collegio San Carlo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. www.festivalfilosofia.it

È figlio del nostro tempo l’analfabetismo amoroso, figlio della velocità con cui si comunica, ci si scopre, ci si lascia. Tutto, o meglio quel poco che è rimasto, è da consumarsi presto, anzi subito. Fast food e fast love. Attesa, emozione, batticuore sono sensazioni cadute in disuso, o che durano solo pochi istanti. C’è troppa offerta, non si aspetta più: troppa fatica. Progettare un futuro insieme è una montagna ripida da scalare. I sentimenti esistono solo in superficie, i rapporti anziché gioia e sorpresa generano persino malessere, per i nativi digitali ma anche per i loro genitori, teenager di ritorno. Il sesso è ginnastica, culto del corpo e dell’apparire, l’amore è un miraggio perduto nello spazio, il rapporto di coppia una gimkana. Chi non si sente all’altezza ritorna nel buio. Tutti incompetenti sentimentali, analfabeti emotivi, maleducati affettivi.
Di analfabetismo amoroso si discuterà a fondo durante il Festival Filosofia. Uno degli interventi più attesi è certamente quello di Alessandro D’Avenia, autore del bestseller Bianca come il latte, rossa come il sangue, ma anche professore di latino e greco a stretto contatto quotidiano con gli adolescenti: «Bisogna distinguere fra emozioni e sentimenti. I ragazzi di oggi vivono di emozioni, di ciò che sollecita l’epidermide e fa schizzare l’adrenalina a mille. È la cultura di internet, che si ferma alle sensazioni e alle immagini. Non si cercano le parole per dire ciò che si prova, tanto ci sono le faccine degli emoticon per questo. Si può raccontare una storia attraverso Facebook e WhatsApp, ildifficile è insegnargli a viverla quando questa storia si fa carne e loro non sanno come comportarsi. Le farfalle nello stomaco, la pelle d’oca sono passeggere; i sentimenti invece rimangono, sono più profondi, hanno a che fare anche con il raziocinio, vanno elaborati e insegnati».
Ma non riguarda solo i giovanissimi l’analfabetismo amoroso, secondo la sociologa Gabriella Turnaturi: «È un fenomeno diffusissimo anche nel mondo adulto questa incompetenza sentimentale, questa apatia, questa afasia. Talmente grande è la dose di amore di sé, di narcisismo, di individualismo che una relazione profonda con l’altro è vista come un impedimento, un ostacolo anziché come un completamento. In un mondo sempre più selvaggio e feroce ognuno avverte il bisogno di essere rassicurato. E qui scatta la contraddizione fra la grande attesa di essere amati e il volere a tutti i costi conservare la propria autonomia. Si ha paura a dire “ti amo”o anche solo “ti voglio bene” in un mondo che ci vuole forti e coraggiosi. L’interdipendenza, essere dipendenti uno dall’altro, è vista come un segnale di debolezza. Invece è una bellissima necessità».
Autrice diTradimenti, Turnaturi mette in luce un paradosso: «Mai come in questi tempi si è fatto un gran parlare di emozioni, mai le si è esibite così tanto, in tv, nei talk show, nei reality, ovunque, mercificandole per vendere un prodotto. E questo proprio quando le emozioni non si è in grado di viverle fino in fondo, e di esprimerle».
Ma quanto influisce su questo progressivo inaridimento l’uso el’abuso della rete? Se lo chiede la sociologa Maura Franchi, relatrice del Festival con un intervento intitolato “Internet love”: «Internet ha trasformato l’antropologia dell’amore, oppure è solo uno strumento di comunicazione che lascia inalterata, nella sostanza, la dinamica delle relazioni sentimentali?». Complesso darsi una risposta: «La grammatica dell’amore è profondamente influenzata dalla rete, ma la rete non è l’unico fattore di cambiamento: abbiamo più libertà e più autonomia rispetto alla nostra vita sentimentale di quanto mai ne abbiamo avuta in passato, e la rete amplifica questa maggiore libertà, nonché l’irreversibile parificazione dei comportamenti sessuali fra uomo e donna». Certo i social network cambiano i tempi e i modi del corteggiamento (termine patetico ormai tramontato): «Cambiano la gestione della relazione, le ragioni della gelosia e dei conflitti, le emozioni che accompagnano il gioco amoroso», sottolinea Maura Franchi. Non per questo però azzerano i sentimenti: «Se un legame su Facebook si spezza in una frazione di secondo, ciò non significa che questo gesto non produca emozioni e sconforto, sentimenti di rabbia e delusione». Sbagliato demonizzare la rete. Né con te né senza di te. Sulla superficialitàma anche sulla difficoltà con cui ci si dice addio interverrà l’antropologo Franco La Cecla, autore, fra l’altro, diLasciami, ignoranza dei congedi: «L’analfabetismo amoroso ha molto a che fare con il cambio del desiderio, la libido non è più quella che pensavamo, le identità vengono completamente rimesse in ballo, il concetto stesso di seduzione subisce una sorta di restringimento ». Ecco che sempre più coppie scoppiano: «Bisogna trovare un modo adeguato per lasciarsi o viceversa per accettare di essere abbandonati. Un modo che non laceri la nostra identità» .

Repubblica 9.9.13
Pietro Barcellona fra diritto e passione
Il ricordo del giurista e filosofo scomparso sabato a Catania
di Massimo Cacciari


Un grande “specialista” era Pietro Barcellona, giurista e filosofo del diritto, e ancora più grande è stato nel “violare” quel divieto «di parlare fuori dagli specialismi» che è andato rendendo gli “specialisti” stessi incapaci di intendere questo mondo e tanto più di prevederne gli sviluppi. Da Oltre lo stato sociale,del 1980 (che si pubblicò in una collana che allora dirigevo con de Giovanni), fino ai numerosissimi libri dell’ultimo decennio, Barcellona ha esercitato il suo pensiero critico, fondato sulla competenza più profonda della storia del diritto e dello Stato moderno di diritto, nell’indagine appassionata del problema contro cui ci scontriamo quotidianamente, senza quasi mai saperne avvertire lo spessore e la complessità.
E il problema è questo: quale connessione è oggi possibile fondare tra produzione di norme e produzione di senso? Può la norma esprimere idee-valori orientanti il mondo della vita? E chi è il soggetto della norma? Il regime democratico non tende forse per sua natura a rendere evanescente, fino a farlo scomparire, un tale soggetto? La dis-misura sembra regnare ovunque, e così l’infondatezza della decisione “sovrana” e l’incapacità della norma che ne deriva a “contenere” in sé in qualche modo ciò che Barcellona chiama «l’irruzione dell’umano» (I soggetti e le norme,1984). Il dramma – poiché drammatico è il pensiero del giurista catanese – è quello stesso della forma-Stato, la cui ultima immagine, prima del suo de-formarsi nei processi attuali di globalizzazione, è lo Stato sociale keynesiano (Dallo Stato sociale allo Stato immaginario,
1994). Irreversibile il suo tramonto, tutt’uno col venir meno delle soggettività forti nel cui conflitto era maturato – ma in quale direzione se ne esce? nel senso del dominio delle “leggi naturali” del tecnico-economico, sostenute da grandi “volontà” imperiali? nel senso di una “razionalità formale” che si fa immanente alle stesse forme di vita, per cui il potere si riproduce attraverso i nostri stessi atti e comportamenti, confondendo così inestricabilmente libertà e sottomissione? Barcellona ha sofferto fino in fondo disagio e urgenza di questa interrogazione. Si è confrontato intorno al suo nodo con pensatori che non vedevano per essa alcuna possibile risposta politica – da Severino a Sgalambro.
Non ha cercato facili scorciatoie; l’ha affrontata, anzi, con totale disincanto, indagando paradossi e aporie dell’idea democratica e “ficcando lo sguardo” impietosa- in quella che di tale idea rimane la figura- cardine: l’individuo proprietario (L’individualismo proprietario,1987; L’individuo sociale,1996), il quale nella rimozione del con-essere e nell’orizzonte dell’indefinita crescita dei propri “appetiti” sembra trovare senso e soddisfazione. Soltanto questo “atomo” può essere ridotto alla razionalità funzionalistica del sistema tecnico-economico. Ma funziona essa davvero? Barcellona non lo crede – e lungo tutta la sua opera ha cercato di mostrarne l’ineffettualità. Non sulla base di qualche vaga speranza (i variI dream oggi tanto di moda), ma attraverso analisi concrete (fondamentali rimangono le sue critiche a Luhmann). Dobbiamo dirlo in breve: è scientificamente impossibile ignorare il carattere politico del nostro esserci; lo “spazio della politica” non è quello dove agiamo (o non agiamo), ma è in noi, iscritto nel nostro stesso corpo, nelle sue passioni. Diciamo pure: nella nostra anima (Politica e passioni, 1997; La strategia dell’anima, 2002).
Quello “spazio” va perciò radicalmente ripensato rispetto al Politico “al comando” proprio del Moderno e tragicamente manifestatosi nel Novecento (Lo spazio della politica, 1993). Qui la “proposta” di Barcellona si faceva antropologica addirittura, eccedendo da ogni parte il “suo” specialismo – e suscitando per questo, presso tanti “colleghi”, ogni sorta di perplessità. Ma in gioco per Pietro vi era ben più di qualche ossequio disciplinare – vi era la volontà di non arrendersi, mente e cuore, al “male” del mondo, vi era l’insopprimibile nostalgia (nostalgia di andare, non di fare ritorno!) a un vivere buono, in cui l’individuo sia per sé-ad altro, e trovi soddisfazione nel suo essere capace di svolgere l’attività che gli è propria, che per sé si è scelto, e che insieme riconosce come elemento e funzione del Comune, di quel bene, cioè, di cui è proprietario nessuno.

Repubblica 9.9.13
“Una pillola per curare la timidezza” così funziona la fabbrica delle malattie
Campagne mirate e terapie col trucco: Italia sesta al mondo per consumo di farmaci
di Michele Bocci, Fabio Tonacci


ROMA — Cos’è la timidezza? Una malattia o un normale aspetto del carattere di una persona? Il sesto mercato mondiale per consumo di farmaci, quello italiano, si alimenta anche di ambiguità. E si finisce a curare tratti della personalità e fasi fisiologiche della vita, come appunto la timidezza, il lutto, la gravidanza o la menopausa.
Tutti “problemi” a cui sono state dedicate intense giornate di sensibilizzazione. Che, dati alla mano, hanno portato all’aumento di psicofarmaci ed esami medici. E lo stesso effetto hanno i ritocchi al ribasso dei fattori di rischio, o le operazioni di maquillage su vecchi principi attivi: prassi che escono dalla catena di montaggio della fabbrica delle malattie.
In media un italiano si porta a casa 28 confezioni di farmaci all’anno. Dal 2005 a oggi il consumo di medicinali è cresciuto del 20 per cento e la spesa farmaceutica delle Asl nello stesso periodo è aumentata anche di più, cioè del 33 per cento (sul dato pesano i farmaci ospedalieri). È così che l’Italia, con un esborso pubblico e privato di 27 miliardi di euro all’anno, si piazza al sesto posto nel mondo per consumo di pillole, fiale, sciroppi e quant’altro, secondo l’ultima analisi di settore fatta da Federfarma. Anche prima del Brasile, che però ha 193 milioni di abitanti. O della Gran Bretagna, che ne ha 64 milioni.
Perché? Siamo forse un popolo più malato degli altri? No, siamo vittima più di altri del disease mongering, cioè della commercializzazione delle malattie. Ci fanno sentire tutti malati. E dunque, bisognosi della pillola giusta.
Ora, a meno di non essere un popolo di stitici a tempo determinato, è singolare che la “settimana nazionale della stipsi”, organizzata con grande enfasi e impegno in Italia per tre anni dal 2005 al 2007, si sia bruscamente interrotta quando la Pfizer, il colosso americano della farmaceutica, si è vista limitare l’uso del suo “tegaserod” a casi molto gravi. La decisione della Food and Drug administration americana significava per Pfizer non poter vendere il prodotto contro la stipsi al grande pubblico europeo. E, casualmente, la campagna si bloccò.
Del resto la legge italiana vieta di fare pubblicità ai farmaci di classe A, quelli per cui è necessaria la prescrizione e sono rimborsati dal sistema sanitario. Per le aziende è più conveniente girarci intorno. Infatti è legale “promuovere” la malattia o il disturbo. Con alcune accortezze, per evitare l’accusa di fare falsa informazione. Per esempio nell’ormai famoso spot di sensibilizzazione sul problema dell’eiaculazione precoce, quello con i due fiammiferi che si accendono sul letto (unomolto prima dell’altro), non si parla di malattia ma di «condizione medica», definizione volutamente generica. Sul sito organizzato per la campagna (www. benesseredicoppia. it),messo in piedi esplicitamente «con il supporto di Menarini » , c’è l’endorsement non solo delle società scientifiche di andrologi e urologi, ma anche di quella, potentissima, dei ginecologi, pur trattandosi di un problema maschile. E lo sponsor è proprio la grande azienda farmaceutica toscana, che ha acquistato i diritti per vendere l’unico farmaco esistente sul mercato per allungare i rapporti sessuali. Un caso?
A volte basta riuscire a ritoccare al ribasso i fattori di rischio di alcune malattie per vendere milioni di confezioni in più. Per esempio, negli anni Sessanta la soglia dell’ipertensione era fissata sopra 160-90, negli anni Novanta 140-90, oggi sopra i 120-80. Il valore di trigliceridi nel sangue considerato eccessivo nel 2003 è passato da 200 milligrammi per decilitro a 150. E il colesterolo? Da240 è sceso a 200. Ogni spostamento crea la domanda. Il trucco sta proprio nel confondere volutamente queste due condizioni, la malattia e il fattore di rischio. Come per l’osteoporosi. «Pochi sanno che in realtà non è una malattia — spiega Giovanni Peronato, reumatologo dell’associazione “No grazie pago io”, impegnata da anni nello smascherare i conflitti di interesse tra medici e industria — è un fattore di rischio, che può portare alla patologia, che in questo caso è la frattura. Lo stesso rapporto esiste tra colesterolo e l’infarto». Non è una roba solo per tecnici, perché uno degli effetti di questa confusione è che le soglie vengono abbassate o alzate senza troppi problemi o verifiche. Con il paradosso, infatti, che oggi curiamo la pre-ipertensione, il pre-diabete, la preosteoporosi.
Per vendere si fanno anche operazioni di svecchiamento su prodotti con brevetti scaduti: basta modificare leggermente le molecole del principio attivo, così si possono registrare medicine datate come fossero nuove. Altra prassi è quella di aggiungere un agente che ne rallenta l’assorbimento, trasformandolo così in “retard”e presentarlo come innovativo. Tutto pur di far crescere i fatturati. Perché la fabbrica delle malattie non chiude mai.

IL LIBRO INCHIESTA
Un’inchiesta lunga un libro, per raccontare “come e perché la sanità sia diventata il più grande affare d’Italia”. Ovvero, volume firmato da Michele Bocci e Fabio Tonacci (Mondadori, pag. 176, euro 17, in libreria dal 10 settembre)
Oggi su RNews (nell’edizione delle 13.50) il reportage video di Bocci e Tonacci

E l’Io che fine fa?
Repubblica 9.9.13
Il teorico dell’informazione ragiona sul nostro rapporto con le macchine e su come certi eccessi dell’innovazione finiscano per mettere a rischio la stessa individualità
Techno Logicus Homo
Longo: “Così diventeremo un’unica creatura planetaria”
di Franco Marcoaldi


GORIZIA Basta leggere uno dei tanti volumi di Giuseppe O. Longo, primo cattedratico italiano di Teoria dell’informazione, o trascorrere qualche ora in sua compagnia, per rendersi conto che lo spazio per la futurologia si sta erodendo in modo irrimediabile. Per restare all’incrocio tra informatica e biotecnologie, non c’è fantasia capace di stare dietro alla realtà. Forse per questo lo stesso Longo, che oltre ad essere scienziato, è anche scrittore, drammaturgo e attore, quando si dedica alla narrativa scrive racconti struggenti come ilRimpianto degli uomini.
Quasi che il narratore chieda al ricercatore di fermarsi a riflettere sull’idea di limite. La cui costante trasgressione, per contro, è da sempre alla base dell’impresa scientifica. «Non so se si possano salvare insieme capra e cavoli. Può darsi benissimo che ci sia una prevalenza sistematica della trasgressione, visto che chi la propugna ha i mezzi finanziari per farlo. Perché sa, al di là delle pulsioni dei singoli ricercatori e magari del loro altruismo nei confronti dell’umanità, poi esistono i profitti. E le grandi aziende utilizzano i ricercatori come api mellifere per incrementare gli utili. Se non teniamo conto di questo aspetto non capiamo nulla della cosiddetta big science,cheha bisogno di enormi finanziamenti».
Da quanto dice parrebbe comunque che le strade della scienza e della tecnologia non corrano in parallelo.
«La scienza mira ad affrontare i problemi, offrendo delle spiegazioni razionali, mentre la tecnologia non ha l’ambizione di spiegare, ma quella di fare. In quanto tecnologo, non mi interessa sapere perché uno strumento funziona, ma solo che funzioni. E questo, al fondo, è un atteggiamento antiscientifico».
Anche lei vede il rischio di una teocrazia tecnologica?
«Si dice spesso che la tecnologia disumanizza. Non sono d’accordo, per la semplice ragione che l’uomo è naturalmente tecnologico: ovvero concepisce degli strumenti che a loro volta retroagiscono su di lui cambiandolo. Da qui, anche, i problemi: perché di sicuro l’uomo col computer non è uguale all’uomo senza computer. La tecnologia non ci lascia indenni».
Lo si vede dal proliferare dei linguaggi digitali che si affiancano al linguaggio verbale e spesso lo soffocano.
«Il linguaggio verbale resta comunque il nostro strumento comunicativo principe.
Grazie al linguaggio, le menti individuali si sincronizzano e nasce l’intelligenza collettiva che oggi, grazie alle tecnologie, si è trasformata in intelligenza connettiva. Mediata dalle macchine, prefigura una mente globale».
È l’avvento di quella che lei chiama la “creatura planetaria”.
«La vocazione del computer è quella di mettere in comunicazione gli esseri umani. I quali finiscono per dare vita a un’unica creatura, onnipervasiva, un po’ come accade alle api con l’alveare. Ovviamente in misura più contenuta rispetto agli insetti, ma è come se ciascuno delegasse parte della propria attività mentale a tale intelligenza collettiva e connettiva. A questa nuova creatura planetaria. È una delle tante forme in cui si presenta il post-umano».
Proviamo a individuare altre forme…
«Le modifiche di carattere genomico, che hanno un duplice scopo. Da un lato riparare i guasti dovuti a menomazioni. Dall’altro gli impieghi di tipo migliorativo. Da qui il sogno: vorrei avere un figlio alto, biondo e con occhi azzurri. Ma chi mi assicura che quel figlio sarà contento? E poi, questi figli tutti uguali diminuiranno il patrimonio di variabilità genetica,mentre una specie è tanto più robusta, quanto più è varia».
Per non parlare del problema etico.
«Dal mito di Prometeo si ripropone lo stesso problema. Da una parte l’uomo trasgredisce, dall’altra ha il timore che così facendo venga punito il suo oltraggio alla sacralità: degli dèi o della natura. Ma la sacralità della natura viene a cadere non appena parliamo di post-umano. Perché esso postula l’insignificanza dei limiti naturali. Gli uomini hanno sempre tentato di trascendersi, solo che oggi la tecnologia è talmente pervasiva che questo oltrepassarsi è diventato traumatico. L’uomo, come scriveva Anders, è ormai antiquato. Non ce la fa a stare dietro a se stesso. La confusione tra naturale e artificiale dilaga perché la tecnologia ci invade. L’artificio entra nel corpo».
È quello che lei chiama “il simbionte”.
«Il simbionte è una creatura che ha una base biologica, che viene poi inzeppata di protesi tecnologiche: organi di senso, mani artificiali, chip inseriti nel cervello per contrastare malattie neurovegetative o per potenziare l’intelligenza o la memoria. Insomma, uomo e macchina in simbiosi. Beninteso, la simbiosi esiste in natura. Ci sono piante e animali che si scambiano favori reciproci. Però dal commensalismo si può anche passare al cannibalismo. Ecco allora il timore che il simbionte venga cannibalizzato dalla sua parte tecnologica».
Se si altera il corpo, si altera anche l’elemento ultimo dell’individualità.
«Questo è il punto cruciale del post-umano, perché il nostro corpo è anche il nostro simbolo identitario. Non esiste separazione cartesiana tra razionalità ed emozione. Noi siamo tutt’uno. Se a un individuo togli le emozioni, quell’individuo non sarà più capace di prendere decisioni razionali. Ecco perché andrebbe rivisto anche il concetto di neutralità della scienza e della tecnica, come se non avessero a che fare con le emozioni».
Non si potrebbe dire che oggi la massima trasgressione consiste nel riscoprire il valore di un limite invalicabile? La preservazione dell’umanità?
«Pascal diceva: il massimo trionfo della ragione è riconoscere i propri limiti. Affermazione di un’attualità sconcertante, trascurata in campo tecnologico e in particolare al di là dell’oceano. Gli europei sono cauti sulla strada del postumano, mentre gli americani vanno a rotta di collo, non avendo la sensazione che il rispetto del limite costituisca una garanzia di autenticità».
Così l’Homo technologicus comincia a immaginarsi come Homo immortalis.
«È l’antico sogno di bere l’ambrosia degli dèi, che ora si assume per vie surrogate. Ovvero, se io – come alcuni sostengono – coincido con l’insieme delle forme d’onda dei miei pensieri, con il collegamento tra le mie sinapsi e riesco poi a trasferire tutto questo in un supporto artificiale, allora ecco che quando muore questa mia macchina di carne, la mia mente potrebbe continuare a vivere in quel supporto artificiale».
E l’Io che fine fa?
«Ecco il problema. Io dove sono? Può darsi che sia morto col mio corpo, ma può anche darsi che riesca a vivere in questa forma succedanea. Senza contare che le tecnologie dell’informazione più avanzate consentono di superare anche la simbiosi uomo macchina. E in prospettiva ci promettono cose mirabolanti, sa? Ivi compresa la possibilità di codificare lo stesso corpo, di tradurlo in pura informazione. E poi esistono algoritmi evolutivi che si moltiplicano, si replicano, interagiscono tra loro e si selezionano: vengono eliminati i peggiori e accettati i migliori, come accade nella selezione naturale. E si finisce così per creare qualcosa che si autoevolve».
È uno scenario che lascia tramortiti. Qual è la via d’uscita?
«Non se ne esce. Perché l’ipertrofia cognitiva che stiamo perseguendo ha oscurato i problemi morali. Ma come diceva Gregory Bateson, ogni variabile, anche la più salutare, oltre un certo livello diventa tossica. Noi abbiamo ampiamente raggiunto la tossicità. Tossico in modo esemplare è il denaro, unico criterio essenziale ed esiziale che ha sostituito ogni discorso etico».

Repubblica 9.9.13
L’uomo a senso unico
Perché ragione e passione sono indivisibili
di Roberto Esposito


Com’è la situazione emotiva del nostro tempo? Calda, fredda, temperata? I segnali che vengono dallo scenario contemporaneo sono spesso contrastanti. Da un lato si ha l’impressione di un assopimento delle passioni comuni, di un’apatia che ci chiude sempre più ermeticamente in noi stessi. Tutto quanto accade nell’arena politica sembra interessare sempre meno i cittadini, stanchi e annoiati di rituali che si ripetono senza variazioni. Nulla sembra più in grado di suscitare entusiasmo e speranza, in una situazione in cui, come spesso si dice, pare ci venga sottratta addirittura la dimensione del futuro. Dall’altro, dal Nord Africa al Medio Oriente, ma anche, spesso, in America e in Europa, le piazze ribollono, sia pure con esiti incerti e ambivalenti, in preda a emozioni, sentimenti, risentimenti, di segno opposto. Come interpretare una fenomenologia così contraddittoria? Finché continueremo a contrapporre emozioni e passioni, non verremo a capo della questione. In realtà ragione ed emozioni fanno parte di un’unica costellazione di senso che si cerca invano di suddividere in zone contrapposte. Come ha sostenuto Remo Bodei, le passioni hanno pur sempre dentro di sé un nucleo di razionalità. Così gli atteggiamenti che si pretendono razionali hanno spesso delle motivazioni di carattere emotivo. Più che il contrario della ragione, la passione è la sua ombra. Essa è fin dall’inizio provvista di una propria intrinseca razionalità. Allo stesso modo, la ragione è di per sé appassionata, abitata dai medesimi affetti che vorrebbe bandire ed esiliare. Ragione e passione sono le due metà inseparabili di uno stesso intero, fornito di una struttura bilogica, di una logica bivalente, come del resto la stessa conformazione del nostro cervello.
La storia della filosofia ce lo conferma. L’homini lupus di Hobbes non è spinto ad assoggettarsi al Leviatano dall’emozione della paura? E l’homo oeconomicus di Mandeville e Smith non è egli stesso animato da una incontenibile passione acquisitiva? Del resto uno dei massimi esponenti dell’illuminismo è il passionale Rousseau. Non solo ragione ed emozione sono indisgiungibili, ma a volte, come accade in questa tormentata stagione, esse si generano l’una dall’altra, per contiguità o per contrasto. Ciò che in questi mesi spinge la gente in piazza, per ribellione o protesta, è il rimbalzo emotivo di quella stessa crisi economica e politica che sembra determinare apatia e rassegnazione. Che esito avrà tale dialettica non è dato ancora sapere. Quel che è certo è che quanto più compresse e negate, tanto più le passioni collettive reclamano il propriospazio di espressione.

*Roberto Esposito interviene a Modena venerdì 13 alle 15 in piazza XX settembre

Corriere 9.9.13
L’assenza di Marzullo che aggira la legge
di Aldo Grasso

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