martedì 10 settembre 2013

il Fatto 10.9.13
Riforma P2
Assalto alla Carta, oggi alla Camera c’è l’ultimo atto
In aula voto finale sul Ddl costituzionale
Bocciati tutti gli emendamenti di 5stelle e Sel
di Luca De Carolis


Assalto alla Costituzione, fine del primo atto. Oggi pomeriggio la Camera approverà il ddl costituzionale 813, che stravolge l’articolo 138 e prevede un comitato di 42 parlamentari che potranno riscrivere almeno 62 articoli su 139 della Carta. E così la maggioranza pro-riforma, dal trittico di governo Pd, Pdl e Scelta Civica sino a Lega Nord e Fratelli d’Italia, avrà portato a casa la prima lettura del testo. Per chiudere la partita, dovrà nuovamente approvare il ddl in entrambe le Camere. Se andranno di corsa, come fatto in prima battuta, il ddl sarà legge entro fine dicembre. E allorà sarà il via libera definitivo alla deroga al 138, con tempi dimezzati per l’approvazione della futura riforma (da tre mesi a 45 giorni d’intervallo tra le due letture alle Camere).
IERI, come venerdì scorso, l’aula ha bocciato tutti gli emendamenti di Cinque Stelle e Sel. Sarebbe bastato approvarne uno e il testo sarebbe tornato in Senato, rallentando di un mese la marcia a tappe forzate. Risultato, no a tutte le proposte, nell’emiciclo dove spiccavano le magliette bianche dei deputati di M5S, con impressa la stessa scritta dello striscione srotolato venerdì sul tetto di Montecitorio: “La Costituzione è di tutti”. Nella tagliola del voto sono caduti anche gli emendamenti di M5S e Sel che chiedevano la diretta web per i lavori del comitato dei 42. Sul punto, il renziano Roberto Giachetti aveva sollecitato una “soluzione politica”, che spiega così: “L‘idea della diretta era condivisibile, così come l’esigenza della maggioranza di non rallentare i tempi. Così ho chiesto di ritirare gli emendamenti per sostituirli con un ordine del giorno condiviso”. Ovvero, con un testo che rappresentasse un impegno non vincolante per il Governo. Per discuterne si è riunito il comitato dei nove, l’organo della commissione competente (in questo caso, quella degli Affari Costituzionali) che esamina preventivamente gli emendamenti. Ma la quadra non si è trovata. “Gli ordini del giorno sono solo una presa in giro, non possiamo fidarci di questo governo” riassume Riccardo Fracasso (M5S). Mentre Nazzareno Pilozzi (Sel) osserva: “Approvando l’emendamento avrebbero rasserenato il clima, ma vanno avanti sempre a colpi di maggioranza”.Intervento di Rocco Buttiglione (SC) contro “l’onorevole Grillo”, a suo dire reo di “voler mantenere in vita il Porcellum”. Pioggia di repliche da Cinque Stelle, tra cui quella di Giuseppe D’Ambrosio: “Buttiglione ha votato contro la mozione Giachetti sulla riforma elettorale (il testo prevedeva il ritorno al Mattarellum, ndr), comunque mi fa piacere che si dia a Grillo dell’onorevole...”. In serata, tweet di Roberta Lombardi: “Tutti gli emendamenti respinti senza dibattito nel merito. Era meglio rimanere sul tetto che partecipare a questa farsa”. Oggi, voto finale.

il Fatto 10.9.13
“Enrico fermati” l’appello di Libertà e Giustizia sul 138


UN APPELLO al premier, affinché non insista nell’assalto alla Carta. È la nota di Libertà e Giustizia a firma della presidente Sandra Bonsanti. Prende spunto dall’assemblea di domenica scorsa a Roma sulla Costituzione, organizzata dalla Fiom, a cui hanno partecipato proprio la Bonsanti, Stefano Rodotà, don Luigi Ciotti, Gustavo Zagrebelsky e Lorenza Carlassare: i firmatari del manifesto in difesa della Carta “La via maestra”. Bonsanti scrive: “Quella di domenica è stata una giornata importante, con il passare delle ore mi è parso di vedere la vera posta in gioco: approfittare di una crisi tremenda per blindare l’imposizione di una nuova Carta legandola alla sorte di un governo che non può cadere, pena l’abisso”. La riforma, continua Bonsanti, “è un atto con cui il governo ha espropriato il Parlamento di scelte che la Costituzione gli ha riservato. Vorrei dirgli: Enrico, fermati. Ma lui non mi sentirebbe. Sentirà forse la voce del 12 ottobre”. Ovvero, della manifestazione contro la riforma. LaPresse

Repubblica 10.9.13
Libertà e Giustizia
“Enrico fermati bisogna difendere la Costituzione”


ROMA — L’associazione Libertà e Giustizia torna a chiedere al governo di fermare la riforma della Costituzione e prepara la manifestazione del 12 ottobre. «La Carta nata dalla Resistenza sta per essere sostituita, nel nome del decisionismo, dalla Costituzione delle Larghe intese - scrive la presidente di LeG, Sandra Bonsanti - Stanno impiegando tutto il potere governativo e privato mediatico per propagandare qualcosa di assolutamente incostituzionale ». Bonsanti si appella al premier: «Vorrei dirgli: Enrico, fermati. Vorrei dirgli: gli aggiustamenti che potrebbero essere fatti, a cominciare dalla diminuzione del numero dei parlamen-tari, non si fanno così e non toccano al governo».

l’Unità 10.9.13
Tempi e regole, Pd ancora senza intesa
I renziani restano contrari a separare le figure di segretario e candidato premier
Cuperlo: c’è bisogno di un congresso libero e di verità
Finocchiaro: scelgo lui, al partito serve un segretario dedicato
di Simone Collini


L’obiettivo è arrivare all’Assemblea nazionale con un accordo condiviso sulle regole del congresso e anche sulla data delle primarie per eleggere il nuovo segretario. Ma il tempo inizia a scarseggiare, i nodi da sciogliere restano intatti e alcuni retroscena giornalistici riguardanti un’ipotetico slittamento della sfida nazionale all’anno prossimo, smentiti dai vertici del partito ma comunque agitati dai renziani, rendono tutto più complicato.
La commissione congressuale incaricata di trovare una mediazione su tempi e modi di svolgimento della sfida interna al Pd dovrebbe tornare a riunirsi venerdì. Il condizionale è d’obbligo perché se gli incontri preparatori di questi giorni non dovessero produrre risultati, la riunione sarà convocata per la prossima settimana. Roberto Gualtieri, che ha ricevuto dalla segreteria l’incarico di scrivere delle norme che mettano tutti d’accordo, ha incontrato il bersaniano Nico Stumpo e il renziano Lorenzo Guerini per cercare di individuare un punto d’intesa e analoghi incontri riservati si stanno svolgendo con altri esponenti della commissione. L’obiettivo di superare le divisioni, però, ancora non è stato raggiunto. I problemi restano la coincidenza della figura del segretario con quella del candidato premier (che i renziani vogliono mantenere e i bersaniani superare) e la contemporaneità tra le sfide per eleggere i segretari regionali e quella per il segretario nazionale (idem come sopra).
Non vogliono però arrivare a una conta all’Assemblea nazionale del 20 e 21 né i sostenitori di Matteo Renzi né quelli di Gianni Cuperlo, tra i quali c’è anche Anna Finocchiaro, che in un’intervista alla “Gazzetta del Mezzogiorno” ha detto lo voterà perché «corrisponde di più» alla sua idea del Pd, perché al partito «serve una guida dedicata» e Renzi «non vuole fare della segreteria la sua attività politica» e perché la piattaforma del sindaco «non è compatibile con la promessa fatta agli elettori con la nascita del Pd»: «Ho una altra idea di partito, dei rapporti tra Stato e mercato, della sinistra, del valore del lavoro».
È interesse di tutti arrivare all’appuntamento che si svolgerà a Roma la prossima settimana con un accordo condiviso perché per chi vuole introdurre delle novità per dare il via libera alle nuove norme serve il sì del 50% più uno dei membri dell’Assemblea nazionale (i due terzi se si vuole evitare che qualcuno chieda un referendum confermativo tra gli iscritti di quanto approvato). E per chi vuole la certezza che la sfida nazionale si giochi il 24 novembre è importante trovare un accordo perché altrimenti a statuto invariato e con un congresso che si svolge secondo le modalità tradizionali, potrebbe effettivamente essere necessario più tempo prima di arrivare alla sfida ai gazebo.
I renziani lo sanno, ed è bastato che qualche retroscena giornalistico ipotizzasse lo slittamento del congresso al 2014 perché infuriasse la polemica. «Chi pensa una cosa del genere sta fuori dal mondo, vive in un pianeta diverso», ha detto Angelo Rughetti, seguito da diversi altri deputati e senatori vicini al sindaco di Firenze. «Faremo il congresso nei tempi stabiliti e con regole condivise», è stata la rassicurazione data in Transatlantico ai parlamentari renziani da Davide Zoggia. «Sentiamo la responsabilità del momento e il Pd è una forza responsabile verso il Paese, per cui il congresso si fa nei tempi stabiliti e con regole condivise e sarà un momento nel quale parleremo più dell'Italia che delle regole interne». Ha aggiunto il responsabile Organizzazione del Pd: «Io stesso come tutto il partito, voglio essere garante che questo accada e le parole di Epifani a Genova sono state inequivocabili».
I sospetti reciproci però si sprecano, il clima rimane teso e uscite di sostenitori di Renzi riguardanti il premier Enrico Letta come quella del sindaco di Bari Michele Emiliano, secondo il quale «dopo l’esperienza al governo dovrebbe tornare a lavorare perché la politica non può essere una professione o un mestiere dove si arriva fino a settant’anni» offrono argomenti a chi teme che una vittoria del sindaco di Firenze possa avere ripercussioni sulla tenuta del governo (ma anche uno che guarda con interesse all’operazione avviata da Renzi, come Francesco Boccia, parla di «caduta di stile degna del peggior qualunquismo verso un bersaglio completamente sbagliato»).
Schermaglie da cui si tiene a distanza Cuperlo, spiegando che per lui le regole «vanno bene tutte» e che adesso bisogna fare «un congresso libero, partecipato e di verità»: «Va affrontata una discussione seria sulla natura, sul profilo, sull'identità, sulla cultura politica di questo Pd, e soprattutto sull’idea che abbiamo del Paese». E se il deputato triestino, che ieri ha fatto tappa proprio nella sua città, dice che in ogni caso «il partito deve essere capace di valorizzare una popolarità di questa natura» come Renzi, un altro sfidante del sindaco come Pippo Civati dice parlando a una Festa a Sesto San Giovanni: «Stimo molto Renzi, ha tante qualità ma il segretario è proprio il posto in cui lo vedo meno».

il Fatto 10.9.13
Il Giornale. Renzi fa paura, ecco il riciclo

La pensione di Matteo Renzi diventa una notizia anche per Il Giornale che ieri titola in prima pagina: ‘Renzi si fa già la pensione a spese dei suoi cittadini’. Il Fatto aveva svelato la storia il 27 marzo del 2013. Per nove anni il Comune di Firenze e la Provincia “hanno versato alla società di famiglia dei Renzi i contributi previdenziali per Matteo”. La notizia fu ignorata allora da Il Giornale dei Berlusconi. Oggi Renzi è il rivale delle prossime elezioni che sovrasta il Cavaliere nei sondaggi. Ecco che Il Giornale rispolvera le inchieste del Fatto e se ne appropria.

La Stampa 10.9.13
Partito democratico
Civati: “Secondo me Renzi non ha le qualità per fare il segretario”
intervista di R. I.


«Stimo molto Matteo, ha tante qualità, ma il segretario è proprio il posto dove lo vedo meno». Una bocciatura alquanto prevedibile per il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, alla segreteria del Pd, da parte del deputato Giuseppe Civati, anche lui in lizza per la carica di segretario del partito.
Intervenendo alla festa del Pd al Carroponte di Sesto San Giovanni, Civati invita a riflettere sul «fenomeno» del momento: «adesso siamo tutti renziani, se magari discutessimo anche di politica e anche del perché abbiamo cambiato idea... » sarebbbe meglio.
Civati parla poi dei suoi progetti: «voglio recuperare Sinistra ecologia e libertà - ha detto - e vorrei fare un lavoro politico che prescinde dalle convenienze. Questo dibattito sulle convenienze ci sta devastando». Quanto all’esecutivo guidato da Letta, chiarisce che non ha certo l’intenzione di farlo cadere ma «un Governo con Berlusconi andava fatto per poco tempo e su priorità ben definite. Non lo si fa di legislatura».
Civati poi attacca anche Franceschini che ha fatto l’endorsement per il sindaco di Firenze: «Ho grande stima per coloro che si candidano. Mi spaventa un po’ - prosegue Civati - questo schierarsi sulla base del “richiamo della foresta” quando la foresta non c’è più. Gli elettori si riconquistano con un messaggio molto chiaro, non con gli slogan».
Il candidato alla segreteria è poi convinto che «il popolo del Pd è molto preoccupato: non ha capito la questione Imu, non ha compreso il senso della misura adottata dall’esecutivo e molte altre cose. C’è un corto circuito tra toni retorici sulle larghe intese, sulla loro durata infinita da un lato e dall’altro la sensazione che tutto sia precario».

Corriere 10.9.13
Bersani verso l’appoggio a Cuperlo
I renziani: no a nuovi rinvii «per crisi»
di Tommaso Labate


ROMA — L’appuntamento era fissato al centro di Roma per le 20. Alla sede del «Nens», acronimo di «Nuova economia nuova società», l’associazione fondata da Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco. E così ieri sera, mentre al Senato infuriava la guerra su Berlusconi, l’ex leader e la sua cerchia ristretta si sono visti per mettere forse la parola fine al tormentone sul loro posizionamento congressuale. Individuando quello che probabilmente sarà lo sbocco definitivo. E cioè il sostegno alla corsa di Gianni Cuperlo. Nonostante le perplessità di chi tra i bersaniani sostiene «la difficoltà di portare i nostri voti su Gianni», il dato dovrebbe essere tratto. O quasi.
Ma il dibattito sul congresso rischia di essere oscurato dai venti di crisi che, ieri sera, al Nazareno soffiavano fortissimi. Guglielmo Epifani, in costante contatto coi gruppi parlamentari, se l’è sentito dire più volte: «Berlusconi potrebbe provocare una crisi di governo a strettissimo giro». Per cui, è l’annotazione conseguente su cui il segretario ha discusso con i vertici del partito, «se così fosse, il Cavaliere farebbe dimettere i ministri dal governo e aprirebbe una nuova partita a scacchi col Colle».
Dentro il Pd, l’accelerazione verso la possibile rottura da parte di Berlusconi sta già dividendo il partito. Il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti ha confidato agli amici della mozione Cuperlo che «non possiamo ripetere sempre le stesse cose. Si dica chiaro e tondo a Berlusconi che, se vuole rompere, si assume la responsabilità. E che noi siamo pronti a sfidarlo subito». Anche alle elezioni, è il sottotesto.
Al contrario, Beppe Fioroni, che rappresenta l’ala «governista» del Pd, è preoccupato per il possibile scivolamento verso le urne. E sceglie l’ironia: «Bene, diamo pure una mano a Berlusconi a staccare la spina. Tanto il Cavaliere è politicamente morto. E magari non vede l’ora di dimostrarci che, anche ridotto a una salma, è in grado di battere tutti, Renzi compreso». D’altronde, è l’annotazione dell’ex ministro, «questo film l’abbiamo visto anche nel 1994, no?».
Se si va verso la resa dei conti Pd-Pdl, l’ala governista dei Democratici punterà a congelare il dibattito sul congresso previsto nell’assemblea del 21. Mentre Renzi è concentrato sul suo ruolo da sindaco, i suoi fedelissimi lanciano l’altolà contro il possibile rinvio del congresso. E anche Gianni Pittella, in campo per la segreteria, avverte: «I vecchi dirigenti non sperino di sfruttare l’irresponsabilità del Pdl per congelare la democrazia interna. Il congresso si deve fare entro novembre». Ma c’è un altro allarme che riguarda l’assemblea del 21. Il segretario dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini individua una trappola in cui potrebbe cadere tutto il Pd: «Serve un largo accordo sulle regole. Se non lo troviamo, visto che per cambiarle servono i due terzi, rischieremmo un impasse pericolosa per tutti». E insiste sull’aggettivo, «pericoloso».

Repubblica 10.9.13
Il fronte anti-Renzi in affanno
Bersani: molti dubbi su Cuperlo
I fedelissimi del sindaco: congresso a novembre, niente rinvii
di Giovanna Casadio


ROMA — Bersani ha chiamato a rapporto la sua corrente per spiegare cosa non lo convince della candidatura di Gianni Cuperlo alla guida del Pd. «Ho molti dubbi»: ha detto l’ex segretario ieri sera. Stesso scetticismo di Vasco Errani. Mentre Stefano Fassina, vice ministro all’Economia, ha già annunciato che sta «con Gianni». A patto però, ha spiegato nella riunione dei bersaniani, che si esca dalla ridotta della tradizione post comunista e si allarghi l’alleanza: «Ci vuole una squadra con personalità di spicco e di varia provenienza». Una squadra anti Renzi, il sindaco di Firenze è super favorito.
Il congresso del Pd è ormai iniziato, anche se la data ancora non c’è. I “frenatori” - quelli cioè che preferirebbero eleggere il nuovo segretario il prossimo anno, e intanto prorogare il “traghettatore” Epifani - se ne dovranno fare una ragione: il congresso non si può congelare, a meno che non cada il governo e allora si preparerebbero le primarie per Palazzo Chigi. Uno slittamento delle assise al 2014 richiederebbe una maggioranza nell’Assemblea del 20 e 21, che per ora non c’è. I renziani sono sulle barricate: «Il congresso va fatto e subito, a novembre come è stabilito, nessun traccheggiamento».
Nel clima di attesa legato alla decadenza di Berlusconi, si affilano le armi. L’endorsement del ministro Franceschini per Renzi ha provocato una reazione a catena di posizionamenti, rotture e ricomposizioni. Franco Marini ad esempio, ha incontrato il suo “pupillo” Franceschini venerdì e gli ha detto che «no, Renzi non lo voto». Ma il ministro, leader dei cattolico democratici, alla festa di Bologna (nel cuore della regione che è stata bersaniana) ha rilanciato: «Tra le candidature in campo, sono convinto che Renzi sia la migliore per rispondere alla domanda di cambiamento del paese. Non critico gli altri per chi decidono di votare». La mossa di Franceschini ha preso in contropiede la sua stessa corrente, Areadem. Anche qui sono previsti confronti e scontri. Niente è pacifico nel Pd provato dalle larghe intese e alla ricerca di una identità. Bersani ha chiesto a Enrico Letta un incontro per discutere di tutto, partito incluso. Anche se il premier continua ripetere che dalle vicende del Pd intende tenersi lontano, e che nessuno lo tiri per la giacca nell’agone.
D’Alema lamenta «scarsa par condicio» nella sfida congressuale: «Il povero Cuperlo fa fatica a farsi sentire, però — è l’affondo contro Renzi — penso che questo candidato imposto dai media creerà quasi una ferita nel partito. Renzi guidi la coalizione, non faccia il segretario, non è la persona giusta, smetta di credersi Gianburrasca». Con Renzi si schiera il cattolico Castagnetti; Anna Finocchiaro appoggia Cuperlo, ex segretario della Fgci. Intanto Robero Gualtieri prova a trovare un accordo sulle regole. La patata bollente sembra ora diventata la questione dei segretari regionali: eleggerli prima o dopo le primarie nazionali? Renzi non ne vuole sapere di essere un segretario “isolato” dai territori. Civati, che conferma la sua candidatura, attacca: «Stimo Renzi ma non ha le qualità per fare il segretario».

Repubblica 10.9.13
Urla a Violante e frecciate a D’Alema ora alle feste i militanti zittiscono i big
“Fate parlare pure noi”. E la rabbia dei delusi scalda i dibattiti
di Michele Smargiassi


BOLOGNA — Sì, il dibattito sì. E se non ce lo danno, ce lo prendiamo. «Ma se continuate a parlare ogni trenta secondi non ci capiamo più...»: lunedì 2 settembre a Torino Stefano Fassina, di fianco a uno sconcertato Luciano Violante, fronteggiava così, più sovrastato che irritato, un  parterre ribollente. È il fenomeno di questa fine estate nelle feste di partito: il popolo Pd chiede la parola, anzi la pretende, la strappa ai suoi dirigenti. Li interrompe. Grida. Rimbecca. «Voi parlate due ore e non lasciate tempo a noi!»: era una signora con borsetta a urlare, non un no-Tav con l’orecchino, ed era spalleggiata dal pensionato col marsupio e da uno coi capelli bianchi e il programma della Festa arrotolato in mano. Gente da primarie, da antropologia classica del partitone: ma non vogliono più stare composti e zitti al loro posto. Vogliono proprio quei trentasecondi di parola e anche di più. E se li prendono.
Sta succedendo con intensità diverse, ma con una frequenza che non ha nulla dell’episodico. A Genova è toccato a Massimo D’Alema, mentre auspicava la «ricostruzione del centro-sinistra », sentirsi interrompere da una giovane signora ritta in mezzo alla platea: «E chi lo ha distrutto il centro-sinistra, Renzi? D’Alemaaaa, non sei più credibile». In una sede Pd a Torino, Violante ha visto dal podio una sui settanta con occhiali da zia e filo diperle alzarsi sbottandogli in faccia «no, io me ne vado!» e lasciare la sala. Ancora a Genova, un coro dalla platea ha strappato a Guglielmo Epifani la risposta alla domanda che gli aveva appena rivolto Lucia Annunziata («Napolitano può concedere la grazia a Berlusconi?» «Noooo!», e un uomo in seconda fila sventolava la Costituzione). Sempre a Genova, Debora Serracchiani che si lamentava «per venire qui da Trieste in treno ho dovuto passare per Monaco» è stata zittita da un «Allora potevi startene a casa! ».
Solo due anni fa la paura, alle Feste Pd, era per le aggressioni organizzate dal di fuori. A Torino, nel 2010, Piero Fassino aveva difeso Renato Schifani («Squadristi! ») dalle contestazioni di grillini e popolo viola, e sempre lì pochi giorni dopo il segretario Cisl Raffaele Bonanni era stato addirittura sfiorato da un fumogeno. Un anno fa anche Pierluigi Bersani venne circondato da grillini sbeffeggianti («Zombie!») a Bologna. In quelle occasioni, la platea militante difese i suoi dirigenti. Ora invece è fuoco amico. Dal di dentro. Meno violento. Più sorprendente. Moderatori e intervistatori ancora più a disagio dei dirigenti contestati: alla festa Pd di Roma, in luglio, Bianca Berlinguer ha fatto da scudo umano a Epifani, intercettando conun’intervista contropelo il militante OccupyPd salito sul palco con maglietta “Siamo più di 101” e una bandiera stropicciata del partito fra le mani.
Che succede dunque? «Nulla di preoccupante», non si scompone Lino Paganelli, responsabile delle feste del Pd. «Anzi. La nostra gente non è mai stata passiva. Vengono per discutere anche delle cose che non vanno. Se vogliamo riprenderci tre milioni di voti, forse è in queste platee che li ritroviamo. In ogni caso, qualche intemperanza dal pubblico è preferibile al silenzio degli uomini. E delle urne...». Ma i dirigenti sono pronti a sopportare? Con lo stoicismo di Violante sotto il gavettone dell’altra sera? «Quel gesto non fa testo, non avete visto Violante fermarsi a discutere a tu per tu coi militanti».
Una spinta che sta cambiando a furor di popolo lo stile dei dibattiti. «Abbiamo dovuto ripristinare gli interventi dal pubblico, aboliti da anni», ammette Stefano Bonaccini, segretario regionale Pd della regione che fa più feste, l’Emilia. «È capitato anche a me di imbattermi in platee vivaci, ma è naturale, siamo al governo col Pdl, il contrario di quanto dicevamo in campagna elettorale... Bisogna spiegare perché...». Consigli agli oratori? «Pazienza e poca puzza sotto il naso. Unico limite non tollerabile l’insulto, ma finora non ne ho sentiti».
Ma anche solo interrompere il discorso di un dirigente è stato fino a tempi recenti un gesto sconveniente, se non sacrilego. Fece scalpore l’epiteto «Abbronzato!» rivolto a Lucio Magri nel silenzio religioso di una tenda dibattiti a Bologna, negli Ottanta. Allora, ricorda Fausto Anderlini, sociologo bolognese, osservatore partecipante dell’animo militante, «la base gliele cantava spesso, ai dirigenti: ma dentro le sezioni. Fuori, si difendeva il partito». Le sezioni non ci sono quasi più, e i dibattiti pubblici sono diventati interattivi e vocianti. Come una discussione su Facebook? O forse a cambiare l’atteggiamento diffuso sono stati questi trent’anni di talk-show televisivi, con i militanti sul divano di casa a gridare inutilmente le loro impazienze ai politici dietro lo schermo di vetro?
«C’è un’altra spiegazione», suggerisce ammiccante Anderlini. Quale? «Le interruzioni irritate sono l’altra faccia delle ovazioni plebiscitarie». Parla di Renzi? È vero, il tasso di contestazioni ai suoi comizi (sugli apprezzamenti a Marchionne, sulla famigerata visita ad Arcore) è crollato da quando è il vincitore annunciato. «Le platee militanti insoddisfatte attaccano i leader al tramonto, deboli, perdenti, per sgombrare la strada a quelli che sperano vincenti. È una specie di rito antropofago propiziatorio». Chi sale su quei palchi è avvisato.

il Fatto 10.9.13
Occhetto e il male oscuro della sinistra: Massimo D’Alema
In uscita “La goiosa macchina da guerra”, il libro di memorie dell’ex leader che cambiò nome al Pci, dominato dall’ossessione per il nemico numero uno


“Cosa ne pensi se cambiassimo nome al Pci? ”. Chi parla è Enrico Berlinguer. Sono i tempi della campagna referendaria per il divorzio, e il segretario comunista è in Sicilia con Achille Occhetto, l’autore del racconto. L’episodio si legge nel libro “La gioiosa macchina da guerra” (in uscita per Editori Riuniti), una sorta di autobiografia di Occhetto. La figura di Enrico Berlinguer, tratteggiato con affetto e stima, è centrale. Ma in realtà, oltre al narratore, il vero protagonista è un altro: Massimo D’Alema, l’oggetto di un’autentica ossessione, il nemico di una vita, descritto come l’artefice primo della rovina di chi portò il Pci alla svolta della Bolognina. E di quella della sinistra italiana. Di seguito pubblichiamo alcuni stralci di queste memorie.
I funerali di Berlinguer e la fandonia del patto del garage
Al termine dei funerali di Berlinguer ero salito sulla macchina che mi attendeva dietro il palco e avevo dato un passaggio a Massimo D'Alema. Eravamo passati tra due ali di popolo che vedendomi cominciarono a gridare il mio nome “Achille, Achille” in modo ritmato e seguito da ovazioni. Quando poi arrivammo nel garage di Botteghe Oscure, ero visibilmente imbarazzato, colpito, e anche emozionato per quella imprevista manifestazione, e non sapendo come comportarmi chiesi a D'Alema, come per scusarmi di quanto era avvenuto: “Adesso che cosa devo fare? ” Lui, senza fare trasparire alcuna emozione, mi rispose seccamente: “Mi pare evidente che ti tocca fare il segretario”. Sorrisi, come dinanzi a una cosa del tutto improbabile, ci salutammo cordialmente. La nostra conversazione fu poi riportata da alcuni biografi di D’Alema come il patto del garage. Non ci fu nessun patto. Sono sempre stato contrario ai patti preventivi sugli organigrammi, e questo mio difetto mi ha procurato non pochi guai.
“Quella voglia inarrestabile di liquidarmi”
Più d'una furono le occasioni in cui D'Alema dette prova di volermi liquidare, anzi, di aspirare alla sua elezione a segretario di partito. E non mi riferisco solo aIla relazione che espose al Congresso di Rimini (...) ma anche a due colloqui che ebbe in due momenti diversi con Claudio Petruccioli (...): il primo, poco dopo la dichiarazione d'intenti del Pds, quando invitò Claudio a pranzo per fargli un discorso sulle mie presunte “incapacità” e “inaffidabilità” come segretario(...) ”; il secondo, in vista del Congresso di Rimini, quando Claudio gli presentò lo schema dei futuri organismi dirigenti del partito, che prevedeva anche l'elezione diretta del segretario nel corso del Congresso stesso: (...) fece capire che in caso di un'elezione diretta del segretario si sarebbe candidato e avrebbe avuto “almeno il 60 per cento dei voti”. Si trattava di un'evidente millanteria volta prevalentemente a intimorire quelli che mi appoggiavano, al fine di preparare, non tanto una mia immediata sostituzione, ma un mio assorbimento dentro un'oligarchia più forte che avrebbe dovuto tenermi prigioniero. Insomma movimenti, tensioni, cupidigie, aspirazioni, piccoli complotti burocratici del tutto inutili, ma che avrebbero avuto come unico risultato quello di indebolire l'insieme dell'operazione politica, di danneggiare, come avverrà sempre di più, anche dopo le mie dimissioni, l'insieme della sinistra.
Il Congresso di Rimini: “Due numeri uno”
D’Alema (...) fece quello stravagante discorso contro la mia segreteria proprio la sera prima della conclusione del Congresso. Ne parlarono tutti i giornali, mettendo l'accento sul fatto che oramai, avendo D'Alema messo fortemente in dubbio il mio ruolo di segretario, lasciando intendere che si sarebbe potuto trovare di meglio per il bene del partito, tra me e il mio vice non era più distinguibile una sana gerarchia: con i suoi atteggiamenti, il detto e il non detto, le mezze parole, lui cercava di fare intendere che non eravamo più il "numero uno" e il “numero due" del partito, ma due "numeri uno" uno di fronte all'altro, come due linee rette parallele che non avrebbero mai potuto convergere (...) Non riuscivo a credere di dovermi battere non solo con le innumerevoli resistenze provenienti dalle forze esterne ma anche, all'interno del partito.
Dalla Bolognina ai 101, un unico stile
La Bolognina fu interpretata e vissuta in due modi opposti che si sintetizzavano bene in due slogan chiave: il mio, quello del “nuovo inizio”, e quello di D'Alema della “dura necessità” (...) Due visioni politiche diverse. E in questo non c'è nulla di male.
Ma il male sorge quando la diversità non si esprime apertamente. Com'è avvenuto con il "voto dei 101" contro Prodi, candidato alla presidenza della Repubblica lo scorso aprile.   Com  'è avvenuto allora, quando in molti finsero di dimettersi sulla mia scia; oppure, ma siamo già dentro un'altra storia (...), quando si arrivò a sposare tutte e due le strategie, uccidendo con un colpo solo sia il partito che la coalizione.

l’Unità 10.9.13
Camusso ritrova l’unità per il congresso della Cgil
Parte il percorso che porterà alle assise di giugno
Primo incontro a Genova. La commissione politica sarà composta da tutti i segretari di categoria
Landini pronto a sottoscrivere la mozione unitaria
Si lavora a un testo breve per lasciare spazio al dibattito tra i lavoratori
di Massimo Franchi


Verso un congresso praticamente unitario. Fra poco più di una settimana parte il lungo percorso dell’assise della Cgil. Il 18 settembre si riunirà la Commissione politica che discuterà per la prima volta del documento congressuale che sarà la base del XVII congresso dell sindacato guidato da Susanna Camusso, che si terrà entro giugno 2014. A tre anni dal durissimo congresso di Rimini il parere condiviso da tutto il gruppo dirigente è quello di evitare una nuova esperienza di divisione, specie nei lunghi mesi di discussione delle mozioni. Il documento quindi sarà sottoscritto da tutte le categorie, sarà un testo breve che affronta tutte le questioni in gioco, lasciando il massimo spazio alla discussione nei luoghi di lavoro tra i quasi 6 milioni di iscritti. E che si presti ad essere discusso anche all’esterno: ribadirà la centralità della Cgil sulle questioni del lavoro. Una discussione approfondita e franca che permetta anche di ridiscutere del ruolo stesso del sindacato in un quadro sociale e politico in costante cambiamento.
CONFRONTO SULLE PROCEDURE
Il tutto è già stato discusso nel seminario con i segretari generali di categoria e di territorio tenutosi lunedì e martedì scorso a Genova. Una riunione in cui Susanna Camusso ha concordato con l’intero gruppo dirigente questo percorso unitario, ricevendo adesione praticamente totale nella due giorni di discussione.
Una data (e un luogo) per il congresso non c’è ancora. Ma si punta a tenerlo entro giugno, rispettando le scadenze statutarie e permettendo un’ampia discussione sui luoghi di lavoro e dando tempo ai vari territori e categorie di tenere le loro assise.
In questi mesi di preparazione i 155 componenti del Direttivo vengono divisi in tre commissioni: quella Regolamento, quella Statuto e, appunto, quella Politica. Sarà quest’ultima, formata da tutti i segretari di categoria e delle principali Camere del lavoro, a mettere a punto il documento di discussione. Qui si giocherà gran parte del percorso congressuale, qui si dovrà trovare il punto di equilibrio tra le varie posizioni. Un equilibrio che andrà trovato anche riguardo alle procedure di voto, con Maurizio Landini che continua a chiedere di far partecipare e votare il maggior numero di persone.
Il cambio di prospettiva rispetto all’ultimo congresso di Rimini è comunque totale. Quella volta le mozioni presentate furono due e la battaglia, specie procedurale, fu fortissima. E continua a segnare la composizione degli organi direttivi della Cgil.
CREMASCHI UNICO OPPOSITORE
La mozione «La Cgil che vogliamo», che raccolse il 18%, in questi anni si è praticamente sfarinata, lasciando il solo Giorgio Cremaschi ad annunciare la volontà di raccogliere le firme per un documento alternativo. Per molti in procinto di lasciare la Cgil per approdare all’Usb, Cremaschi ha invece rinnovato la sua sfida: raccogliere il 3% di firme dentro il Direttivo per dar vita ad una mozione di opposizione. Gli servono 5 firme sui 155 componenti del parlamentino Cgil (che è stato convocato per il 23 settembre, ma non avrà ancora all’ordine del giorno il congresso). Cremaschi è ottimista: «Le firme le abbiamo e andremo oltre la Rete 28 aprile (la sua storica corrente, ormai all’opposizione anche in Fiom, ndr) trovando consenso sul territorio anche tra i delegati di Lavoro e società (l’area guidata da Nicola Nicolosi, attuale segretario confederale Cgil, ndr). Se Camusso e Landini sono d’accordo su tutte le scelte strategiche, come l’accordo sulla rappresentanza di maggio, c’è la necessità di una piattaforma strategica alternativa per un documento contrapposto a quello di maggioranza», chiude Cremaschi.
Il vero spartiacque della ricomposizione interna alla Cgil è stato infatti proprio l’accordo sulla rappresentanza. In molti pensavano che la Fiom fosse contraria all’intesa. Ma quell’accordo viene invece considerato positivo da Landini perché prevede «una consultazione certificata» sugli accordi nazionali, un voto dei lavoratori per validare i contratti, da sempre cavallo di battaglia della Fiom.

Repubblica 10.9.13
Anticapitalsmo termale
di Alessandra Longo

Quando il gioco si fa duro ecco che arriva il momento di «Sinistra Anticapitalista». Che cos’è? Per ora una sigla cui è associata «un’assemblea fondativa». Appuntamento a Chianciano Terme dal 20 al 22 settembre per quello che i promotori, tra i quali l’indimenticabile Franco Turigliatto (suo il no alla fiducia del Prodi Due), definiscono «un avvenimento da non perdere, unico nel panorama politico italiano». Sinistra Anticapitalista nasce sulle ceneri di Sinistra Critica ma si dichiara più ambiziosa, vuol essere «un nuovo inizio». Per essere più chiari: «Lavoriamo sul progetto di una nuova organizzazione politica rivoluzionaria, ricercando la maggior proiezione pubblica possibile e perseguendo la ricomposizione delle forze anticapitaliste del movimento operaio...».

l’Unità 10.9.13
Il ritorno dei fascisti
L’Anpi: il 12 ottobre una marcia contro il raduno di Casa Pound


«Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del neofascismo e del neonazismo». Inizia così il comunicato stampa dell’Anpi (l’associazione partigiana) che prende posizione contro i raduni fascisti di Forza nuova e Casa Pound a Como e Revine Lago . «In Italia e in Francia, in Ungheria, in Svezia e in Germania si legge camicie nere, brune, verdi odiano la democrazia, celebrano la lugubre Repubblica Sociale Italiana e i massacri del Terzo Reich. La loro ricetta per uscire dalla crisi è diseguaglianza e discriminazione per tutti i diversi. Non sono solo nostalgici: sono fascisti e nazisti del XXI secolo. Razzisti, xenofobi e omofobi. Fanno proselitismo e propaganda. Indicono adunate e manifestazioni nazionali ed europee». Il 12 a Como Forza Nuova e l’estrema destra europea darà vita al un «festival» mentre a Revine Lago in provincia di Treviso Casa Pound Italia farà la sua festa nazionale. «L’Associazione Nazionale Partigiani - continua il comunicato dice NO! Chiediamo a tutti/e cittadini, forze politiche, associazioni, sindacati, enti locali di non sottovalutare il pericolo neofascista. Chiediamo alle autorità preposte alla difesa dell’ordine democratico di vietare il raduno di Casa Pound a Revine Lago». Per questo l’Anpi del Veneto organizza per sabato 12 ottobre una marcia da Vittorio Veneto a Revine Lago «Torniamo sui luoghi della Resistenza e della sofferenza popolare».

l’Unità 10.9.13
Su Casaleggio a Cernobbio l’ultimo scontro a 5 Stelle
Il senatore Campanella: «Che c’entriamo noi? Io ci sarei andato, ma coi cartelli di protesta»
Dario Fo: «Alleanze da imbecilli» Orellana: resto nel gruppo
di Andrea Carugati


Sto in un Movimento che non ama i potenti e si tiene lontano dalle loro stanze dorate. A Cernobbio uno di noi non c’entra nulla. Chi va al mulino s’infarina». Francesco Campanella, senatore a 5 stelle da tempo catalogato tra i critici della linea ufficiale, spara a zero sulla visita a Cernobbio del vice-leader e guru del M5S Gianroberto Casaleggio. «Nessuna polemica personale, ma io ci sarei andato con fischietti e cartelli».
Domenica la «lezione di web» sul lago di Como al gotha dell’economia e della politica, premier compreso. Ieri la reazione del senatore, che non è isolato in questa critica. Anche il deputato Tommaso Currò, nei giorni scorsi, aveva ironizzato su Casaleggio a Cernobbio, citando un durissimo post del capo della comunicazione Claudio Messora in occasione della scorsa edizione del Forum Ambrosetti, additato al pari del Club Bilderberg come l’esempio di un potere «poco trasparente» e inviso ai grillini. Il guru ieri ha preso la parola direttamente sul blog di Grillo, annunciando che «a giorni pubblicherò il mio intervento di Cernobbio sul blog». «Al Forum ho detto che i giornali e le televisioni sono gli strumenti del potere in Italia. Ho ribadito che la diffusione dell’informazione grazie a Internet renderà possibile la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e la diffusione di strumenti di democrazia diretta», spiega. «In Italia però la democrazia è ancora una parola vuota. I referendum abrogativi, come quello sul finanziamento pubblico dei partiti, sono ignorati, la legge popolare Parlamento Pulito firmata da 350.000 cittadini non è stata neppure discussa, e lo stesso Parlamento è esautorato dal governo con i decreti legge e formato da nominati dai partiti». Casaleggio poi se la prende con i giornali, che hanno raccontato il suo atteggiamento ostile verso i cronisti presenti: «Io non ho vietato l’ingresso di fotografi o giornalisti in sala, non ne avevo comunque la facoltà».
L’incursione nel cuore dell’establishment, in queste ore, sta diventando l’ennesima occasione di scontro tra le due anime del M5S, i due partiti che convivono sempre più a fatica. «Il portavoce Campanella non è d’accordo con Messora, non è d’accordo con Casaleggio, non è d’accordo con Beppe, ma è d’accordo col Pd?», scrive su Twitter il professor Paolo Becchi, vicinissimo al comico genovese e prontamente rilanciato da Messora. Una guerriglia sui social network che va avanti da tutto agosto, da quando cioè la condanna la condanna di Berlusconi e i venti di crisi hanno riaperto la situazione politica. Ma sul tavolo c’è anche la leadership di Grillo e Casaleggio, che viene digerita sempre più a fatica, soprattutto per le modalità con cui si esprime.
In Senato la linea eretica, anche grazie alla compostezza di Orellana, sta facendo proseliti, anche tra molti che non vogliono esporsi. Campanella fa un esempio che riguarda la prima querelle tra i grilllini, tra chi voleva votare Grasso e chi lo riteneva uguale a Schifani: «Immaginate la situazione in cui ci troviamo in giunta per le elezioni con Schifani presidente del Senato...».
E se Orellana, e con lui altri senatori e deputati, insiste nella necessità di un dialogo con altre forze politiche «perché è l’unica strada per avere un governo a 5 stelle in questa legislatura», Grillo sul blog replica con un video firmato Dario Fo. «Non credo assolutamente che ci sia una disponibilità da parte dei deputati e dei senatori M5S a far parte di un governo che finora non ha dato garanzie», dice il Nobel. «Nessuno ha proposto di ricominciare tutto da capo. Per andare a vedere ci dovrebbero essere delle garanzie, che questi non sono in grado di dare. E senza garanzie sei imbecille». «Questi giocano a poker col morto. Fanno i trucchi avverte Fo -. Il Pd dice: “dobbiamo accettare un compromesso su cui non siamo d’accordo per salvare la nazione”. Questo è indegno. Non puoi giocare su un ricatto di questo genere». Il senatore Lorenzo Battista posta su twitter un video del conduttore di Mtv Pif, che ricorda le dimissioni di Fo dal consiglio comunale di Milano, subito dopo l’elezione nel 2006. Il titolo: «Ecco perché, quando Fo parla di politica, mi girano le scatole...».
Il caso Orellana intanto sembra andare verso una soluzione. Il senatore, definito il «nuovo Scilipoti» dal Capo, ha deciso di non uscire dal gruppo M5S: «Non lascio il movimento. Voglio dialogo, non alleanze. Fare proposte, non solo attenderle. Pragmatismo, non bigottismo».

il Fatto 10.9.13
M5S, chi tocca Casaleggio rischia
Web contro Campanella, critico sul guru a Cernobbio
Lui e Battista verso l’espulsione
di Emiliano Liuzzi


Due mesi di silenzio, giusto un po’ di tintarella, e i dissidenti del Movimento 5 Stelle sono tornati a farsi sentire in maniera quotidiana. Consapevoli di poter scatenare un putiferio. Protagonisti della giornata due senatori pentastelluti. Uno si chiama Francesco Campanella, crampi allo stomaco da mesi, oggi critico sulla partecipazione di Gianroberto Casaleggio al workshop Ambrosetti di Cernobbio, frequentato dai mammasantissima dell’industria e della finanza italica. “Sto in un movimento che non ama i potenti e si tiene lontano dalle loro stanze dorate. A Cernobbio uno di noi non c’entra nulla”, ha scritto su Facebook. Nel senso che il movimento sta alla larga anche dai workshop. L’altro, anche lui senatore, Lorenzo Battista, cita il rapper Pif per dire che “quando parla Dario Fo” a lui “girano le palle”. Tradotto, per chi avesse perso le puntate precedenti, viene imputato a Fo un disimpegno, visto che anni fa si dimise da consigliere comunale a Milano e alla festa del Fatto Quotidiano alla Versiliana il premio Nobel ha spiegato al pubblico che “non avrebbe mai accettato la nomina a senatore a vita”. Lo ha fatto con motivazioni chiare: “Franca, mia moglie, c’è stata in quei palazzacci, e sarebbe fare un torto a lei, a tutto quello che ha creduto, alle dimissioni date prima che le regalassero una pensione, alle ruberie e angherie che le sono passate sotto gli occhi se accettassi tale carica”. “Per tutto questo”, ha detto Fo, “avrei detto no. Il M5S? Credo che appoggiare il Pd, per tutti questi e altri motivi, sarebbe da fessi”. Apriti cielo. Meglio: apriti Battista.
UNA MOSSA, quella dei due senatori, che alza il tiro, e su questo dubbi non ce ne sono. Per ora la linea da Genova e Milano, cioè da casa Grillo e dalla sede della Casaleggio Associati, è lasciare che la rete se li sbrani. Ma c’è chi parla di espulsioni in viaggio. Perché toccare a Grillo due persone come Fo e Casaleggio è molto rischioso. E impone una reazione. Per il momento ci hanno pensato i militanti del Movimento 5 Stelle, la cosiddetta base che abita sulla rete, in particolare i social. Con Campanella, reo di strizzare l’occhio alle stanze del potere politico, il gioco è stato facile. I modi sono quelli a cui ci hanno abituato gli attivisti a 5 Stelle, che, come il loro leader, non sono mai andati per il sottile. “Hai una tua opinione? Benissimo. Tienitela per te o al massimo valla a dire a Casaleggio di persona. Finiamola un po’ con questi protagonismi che fanno solo del male al movimento”, è il suggerimento che un militante, Stefano D’Onofrio, fa a Campanella via Facebook. E poi insulti a non finire, qualche critica costruita e un coro che dice “alla fine io sto con Grillo e Casaleggio”. Come Paolo Falbo, elettore del Movimento 5 Stelle, che giudica “assurde” le affermazioni del senatore sulla partecipazione del guru alla covention di Cernobbio. “In Senato non riuscite ad avere una linea comune si favoleggia di alleanza e poi fai il pelo alla partecipazione che ha uno scopo divulgativo di Casaleggio che ha parlato alla feccia della politica? Sei stato ridicolo, conta fino a cento prima di parlare”.

La Stampa 10.9.13
Lo scontro fra i 5 Stelle colpisce anche Casaleggio
Il parlamentare Campanella: che ci fa uno di noi tra i potenti di Cernobbio?
di Andrea Malaguti e Giuseppe Lami


«Io Casaleggio non lo conosco. Mi limito a giudicare i fatti. Non le persone». E qual è il giudizio sui fatti? «L’ho scritto su Facebook: sto in un MoVimento che non ama i potenti e si tiene lontano dalle loro stanze dorate. Il Forum Ambrosetti è una realtà che manca di trasparenza. E la trasparenza è la nostra stella polare. Al massimo mi sarei presentato per protestare. Non per partecipare». Diretto allo stomaco. Altri cazzotti verbali sull’instancabile ring Cinque Stelle. Ogni giornata ha il suo ferito. Spesso più di uno. Ieri, per esempio. Un calvario.
Alle sei di sera, in piazza San Luigi de’ Francesi, il senatore siciliano Francesco Campanella dice di sentirsi in uno stato di equilibrio. Né gradevole né sgradevole. Solido. Sceglie le parole con cautela. Col suo passato da sindacalista non ama lo scontro frontale. Ma stavolta la reazione del Guru se l’aspetta. Arriverà. Presumibilmente sul blog di Grillo. Magari già stamattina. Scrolla le spalle. «Per me il confronto è sempre una cosa sana. E ripeto che uno di noi a Cernobbio non c’entrava niente». Uno di noi o uno di Lui? È questo il grande dibattito. Perché la testa del MoVimento immagina un futuro che non sembra combaciare con quello di una parte piuttosto larga del suo corpo parlamentare. A cominciare dal rapporto col Pd. Ma come, non vuoi parlare con Bersani, e neppure con Renzi o Civati, e poi vai a farti applaudire da Monti e dalle banche?
La partecipazione al Forum Ambrosetti. Un flash. Il Guru arriva, lasciando soltanto intuire il profumo della sua vita segreta, per poi perdersi nella folla come la coda di una balena quando si immerge. È quello il momento esatto in cui i sentimenti perdono di lucidità e definizione e si trasformano in qualcosa di grossolano e arruffato dalla rabbia. Qualcosa che ha un sapore sgradevole. Campanella attacca. Casaleggio reagisce con la stessa delusione dell’orso Yoghi che ruba il cestino del picnic e lo trova vuoto. E chiarisce ai suoi fedelissimi di averne abbastanza di questo senatore irrequieto (e dei suoi amici: Battista, Bocchino, Molinari) che prima vota Grasso alla presidenza di Palazzo Madama, poi parla di alleanze possibili partecipando alle assemblee siciliane e infine si dissocia da Lui. L’affronto non può passare impunito.
Il primo a farsi portavoce del disagio casaleggese è il professor Becchi, che sul blog di Grillo scrive. «Il portavoce Campanella non è d’accordo con Messora, non è d’accordo con Casaleggio, non è d’accordo con Beppe, ma è d’accordo col Pd? ». Campanella glissa. Però osserva: «Mi limito a una riflessione: provate a immaginare la situazione in cui ci troviamo in giunta per le elezioni con Schifani presidente del Senato». Traducendo liberamente la sua visione: gli accordi spesso salvano il Paese. Come diceva Blake? «L’immaginazione non è uno stato mentale, è l’esistenza umana stessa». Il punto è che nel Movimento le fantasie apparentemente non sono più le stesse. Il percorso è diventato improvvisamente a zig zag. Dichiarazioni. Ritrattazioni. Allusioni. Cambiamenti di idee. Insulti e perdoni. Qual è la linea? E, soprattutto, chi la dà? La Rete? Il tandem genovese-milanese? Il Movimento più intransigente del mondo fatica a capire a chi dare retta. «Non credo assolutamente che ci sia una disponibilità da parte dei deputati e dei senatori M5S a far parte di un governo che non ha dato garanzie. Senza garanzie sei imbecille», scrive Dario Fo.
«Ecco perché quando Dario Fo parla di politica mi girano le palle», replica quasi in tempo reale il senatore Battista. Mentre l’eretico collega Orellana - dopo avere teorizzato in streaming la necessità di consultare la rete sul tema alleanze - si cosparge in parte il capo di cenere spiegando di avere semplicemente detto che «il Movimento deve diventare propositivo» e annunciando di non avere nessuna voglia di lasciarlo. Più o meno nelle stesse ore l’onorevole cittadino Alessio Villarosa, futuro capogruppo Cinque Stelle alla Camera (entrerà in carica il 15 settembre) dichiara che «oggi alle alleanze dico di no, ma ogni settimana le cose cambiano. E se dovesse cadere il governo sarà l’assemblea a decidere come comportarsi». Chi si deve ascoltare, allora? Casaleggio («Se il Movimento fa alleanze me ne vado»), Grillo, Orellana, Villarosa, Campanella, Battista, Becchi o Fo? Chi lo sa? Nel frattempo rimangono aggrappati uno all’altro. Non per amore. Piuttosto per salvarsi la vita.

Repubblica 10.9.13
Il senatore critica la partecipazione del “guru” del Movimento a Cernobbio. Orellana: “Sull’apertura al dialogo non torno indietro”
M5S, Campanella attacca Casaleggio e finisce nel mirino dei “talebani”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Stavolta non basta salire sul tetto. Non basta nascondere sotto le giacche, per poi mostrarle in aula, magliette con scritto «la Costituzione è di tutti». Non basta se il tuo «guru politico», il fondatore del Movimento di cui fai parte e che ripete ossessivamente di essere contro tutti i poteri, fatto salvo quello della Rete, si presenta sul lago nel salotto buono del workshop Ambrosetti per svelare la sua idea di mondo.
Il fuoco covato sotto la cenere domenica ha preso ad ardere lunedì. La prima fiamma è un post su Facebook del senatore Francesco Campanella: «Sto in un Movimento che non ama i potenti, si tiene lontano dalle loro stanze dorate. A Cernobbio uno di noi non c’entra nulla». Apriti cielo. L’attacco piomba sulla scrivania di Gianroberto Casaleggio mandando in aria tutti i report della settimana. A chi lo avvisa di averla fatta grossa, il senatore risponde con ironia: «Non posso dargli torto... a causa di Internet ora chiunque può dire la propria. Non c’è più religione!». È il lancio di un guanto, che a Milano e Genova hanno tutta l’intenzione di raccogliere. Si mettono in fila i fatti: «Campanella è uno di quelli che ha votato Grasso, è colui che in Sicilia ha detto che la questione delle alleanze deve essere discussa dagli attivisti (informazione arrivata aipiani alti grazie a un prontissimo report del capogruppo alla Camera Riccardo Nuti). Insomma, il senatore dalla barba bianca e i modi cortesi è l’indiziato numero uno. Colui per il quale potrebbe arrivare presto una nuova scomunica. Le cose non vanno meglio per Luis Orellana. Tornato da Vilnius, il senatore ha deciso di restare nel Movimento, ma — secondo i fondatori — dovrà fare pubblica ammenda. Rimangiarsile parole dette in diretta streaming.
Difficile che accada. Difficile che questo continuo ping pong talebani- dissidenti finisca presto (da registrare ieri anche l’attacco del senatore Lorenzo Battista a Dario Fo che aveva appena scritto sul blog: «È da imbecilli pensare di allearsi con il Pd»). Difficile perché — come spiega Campanella — «Noi rimaniamo perché viviamo il Movimento come una cosa che ci appartiene. In campagna elettorale è stata decisa la rotta, ma durante una navigazione servono piccoli correttivi per poter evitare gli scogli. Su quelli, deve decidere la base». Più in concreto: «Dovremmo avere un’ipotesi di governo della società civile che sia una garanzia per noi, per gli attivisti, per tutti». È quello che spiega anche Orellana, appena uscito dall’ufficio di Nicola Morra, il capogruppo che in questi giorni aveva tentato di contattarlo invano: «Ho sbagliato facendo l’esempio della Sicilia, lì non c’è un’alleanza, ma quello che proponevo è aprirsi al dialogo “con chi ci sta”. Certo, in campagna elettorale abbiamo detto “Tutti a casa”, ma abbiamo soprattutto promesso 20 punti di programma. Per me no ad alleanze significava non presentarsi con altre forze politiche, non evitare di lavorarci insieme per fare qualcosa di buono». Quanto agli attivisti, «Morra mi ha spiegato che non li consulteremo perché è tutto già deciso ». Eppure, neanche i “talebani” hanno idee molto chiare: «Oggi dico no ad alleanze — spiega Alessio Villarosa — ma ogni settimana le cose cambiano. Se dovesse cadere il governo, sarà l’assemblea a decidere cosa fare». Poco distante, in un capannello di “dissidenti conclamati”, il fuoriuscito Adriano Zaccagnini finge stupore: «Non era quello che dicevo anch’io?».

il Fatto 10.9.13
Istruzione, la mancia di Letta
Borse di studio, formazione e libri
Il governo stanzia 400 milioni. Ma entro il 2015


L’aveva detto appena nominato premier, l’ha ribadito ieri come punto fermo nel tremore continuo cui è sottoposto il suo governo: Enrico Letta ha stanziato 400 milioni di euro per la scuola perchè “dalla scuola riparte il futuro del Paese”. Ieri il decreto denominato “L’istruzione riparte” ha introdotto contributi e benefici in base a tre parametri: l’esigenza di alleggerire la spesa delle famiglie per pasti e trasporti, le condizioni economiche dello studente sulla base dell’Isee, il merito negli studi in base alla valutazione scolastica.
CRITERI NOBILI e condivisibili, soldi che contano quando si riesce finalmente a stabilizzare 26mila insegnanti di sostegno e a immettere in organico i precari del personale Ata (bidelli, amministrativi, tecnici). Segnali di stile cui Letta fa volentieri riferimento: chi insegna potrà entrare gratis nei musei statali, perchè occorre ridare statura e decoro alla funzione docente. Adeguandosi alle dinamiche del sapere odierno: cambia la procedura di assunzione dei dirigenti scolastici (selezionati annualmente attraverso un corso-concorso di formazione della Scuola Nazionale dell’Amministrazione) e si assumono 57 dirigenti tecnici, i cosiddetti ispettori (l'obiettivo è porre rimedio alla scopertura in organico che è di circa l’80%).
Arrivano 15 milioni di euro per il wi-fi in aula e mutui agevolati per l’edilizia: le Regioni che vogliono ristruttrare, mettere in sicurezza o costruire nuove scuole potranno contrarre mutui trentennali, a tassi agevolati, con la Banca Europea per gli Investimenti, la Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa, la Cassa depositi o con istituti bancari. Gli oneri di ammortamento saranno a carico dello Stato.
E un po’ di risorse anche a chi insegna: 10 milioni (per il 2014) per “il rafforzamento delle competenze digitali, della formazione in materia di percorsi scuola-lavoro e la preparazione degli studenti nelle aree ad alto rischio socio-educativo”. Altri 15 milioni contro la dispersione scolastica e 100 milioni sono invece destinati a borse di studio universitarie: per ottenerle bisognerà essere bravi e avere un reddito familiare basso. Inoltre il bonus della maturità (punteggio di accesso al numero chiuso legato semplicemente al voto in uscita) non sarà più il criterio utile, servirà una valutazione complessiva dell’allievo.
INFINE C’È LA QUESTIONE dei testi scolastici: nel decreto si autorizzano i dirigenti scolastici a utilizzare testi autoprodotti o stampati negli anni scorsi, purchè “conformi” alle prescrizioni nazionali. Passaggio non semplice, che premierà gli istituti meglio gestiti cui i genitori iscriveranno più volentieri i figli. Il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza s’è detta entusiasta delle novità, ma la scansione del cronoprogramma ha smorzato l’ottimismo: grazie alle accise su alcol e fumo (approposito: niente sigaretta elettornica dentro le scuole italiane) nel 2013 il decreto prevede uno stanziamento di fondi pari a 13 milioni. Che saliranno a 305 nel 2014 e a 400 nel 2015.
Chissà chi ci sarà a governare la scuola nel 2015.

Repubblica 10.9.13
L’intervista
Emanuele Macaluso: il Colle è stato chiaro, il Pdl tenta ricatti sul governo ma sbaglia
Berlusconi è destinato a uscire comunque dalla scena politica quando verrà ricalcolata la sua interdizione
Per me la Severino è costituzionale, ma il Pd non deve dare l’impressione di una decisione già presa
“Napolitano sarà coerente niente grazia tombale né voto con il Porcellum”
di Umberto Rosso


ROMA — Le eccezioni sollevate in Giunta dal Pdl? «Possono anche essere approfondite, così il Pd non offre l’alibi del plotone di esecuzione già schierato. I tempi non sono poi così essenziali. Vedrete, Berlusconi all’ultimo istante si dimetterà ». Il Cavaliere che spera sempre nel Quirinale per la grazia tombale? «Tutte balle. Napolitano è stato chiarissimo: niente clemenza sulle pene accessorie». E i falchi berlusconiani che vogliono rovesciare il tavolo del governo? «Nessuno si illuda. Il decreto di scioglimento delle Camere non lo firmano certo nè Brunetta ne la Santanchè. Napolitano non scioglierà finché resta in piedi il Porcellum ». Emanuele Macaluso, grande vecchio del Pci e grande amico del Colle, osserva il braccio di ferro e va controcorrente.
Senatore, il Pdl non sta cercando di far saltare le decisioni sulla decadenza?
«Battaglia persa. Lo ha spiegato perfino l’ex avvocato di Berlusconi, Pecorella, e ormai c’è anche la data per il processo: il 19 ottobre a Milano sarà ricalcolato il “quantum” di interdizione dai pubblici uffici per Berlusconi. E a quel punto finirà comunque fuori dalla scena politica».
E la guerra scatenata nella giunta per le elezioni?
«Una campagna politica. Una dichiarazione di esistenza in vita. Berlusconi spedisce l’ultimo messaggio ai suoi elettori: ci sono ancora, sono qui. Poi, un attimo prima che il presidente apra le votazioni, il Cavaliere si dimetterà».
Ne è sicuro?
«Berlusconi non darà mai al centrosinistra la soddisfazione di finire sotto i colpi di una votazione che lo dichiari incandidabile».
Il Pd fa muro contro le richieste del relatore Augello.
«Io penso che, se non servonosolo a perdere tempo, le questioni si possano discutere e approfondire. Compresa la storia della retroattività. Per me, che non sono giurista ma ho 41 anni da parlamentare sulle spalle, la Severino è pienamente costituzionale. Ma visto che ci sono illustri giuristi che sollevano dubbi... Sono d’accordo con Violante: consentire a Berlusconi di difendersi, non dare l’impressione di una decisione già presa».
Al Cavaliere non resta che insistere con Napolitano per un atto di clemenza tombale. Può ottenerla?
«No. Il capo dello Stato, nella sua nota del 13 agosto scorso, lo ha spiegatocon estrema chiarezza. In quella dichiarazione, reagendo anche ad una campagna di falsificazioni e illazioni in cui si è distintoil Fatto, Napolitano ha spiegato che lui una grazia estesa anche alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, non la concederà mai. Non è materia di discussione. Una eventuale valutazione sarebbe circoscritta, quando e semmai dovesse arrivare una domanda di Berlusconi al Quirinale, alla condanna principale».
Il capo dello Stato «confida» nel sostegno dichiarato da Berlusconi al governo.
«Un riconoscimento alle parole pronunciate dal leader del Pdl, alle assicurazioni che sono state fornite al Colle, e di cui evidentemente è stato preso atto».
Però nel Pdl sono pronti ad affondare Letta se passa la decadenza.
«Un ricatto al Pd, ma sbagliano. Nel Pd sono divisi su tutto ma nel mettere fuori gioco il Cavaliere dentro il partito, dal “fiorentino” al “piacentino”, si ritrovano in totale sintonia».
Ma se Letta cade?
«Il decreto di scioglimento delle Camere non lo firmano certo i falchi del Pdl. Il presidente della Repubblica seguirà sempre gli interessi generali del paese, e non scioglierà mai senza una riforma del Porcellum».
Troppo alto il costo politico di tenere in vita il governo?
«Le larghe intese sono uno stato di necessità. Vittorio Sermonti ha torto nella sua lettera a Napolitano sul costo della difesa del governo, sono d’accordo con quel che gli ha risposto Scalfari».

Repubblica 10.9.13
E il Pd prepara la linea dura “Ormai nulla ci farà cambiare idea”
Il premier: io non posso intervenire, seguo il mio partito
di Goffredo de Marchis


ROMA — «Il Pd non può più fermarsi », dicono a Palazzo Chigi condividendo la linea del partito. Non ci sono spiragli per concedere tempo e fiato ai ricorsi di Berlusconi, alle manovre dilatorie del Pdl nella giunta del Senato che decide la decadenza del Cavaliere. «L’unica preoccupazione è non commettere errori — spiega Guglielmo Epifani ai suoi collaboratori —. Non dobbiamo dare l’idea di strappi giustizialisti e non dobbiamo accettare le strategie messe in atto dai berlusconiani per far slittare il voto. L’importante è mantenere un atteggiamento coerente, senza accettare provocazioni e senza dare pretesti». È questa la strada scelta da Largo del Nazareno per salvare il Pd ed Enrico Letta dalla possibile “rissa” innescata da Berlusconi. Non ci sono margini per allungare il brodo. E non è possibile aspettare che siano i giudici della Corte di appello di Milano a decidere sull’interdizione dai pubblici uffici scongiurando il cortocircuito dentro le larghe intese.
Letta ha seguito l’evoluzione della discussione a Palazzo Madama da Bruxelles. Gli altri dirigenti democratici hanno continuato il loro giro per le festesparse in Italia sentendo il polso del popolo del Pd. Popolo che non accetterebbe mai una sponda del centrosinistra alle manovre di Berlusconi. Nemmeno in cambio di qualche garanzia per il governo. Il sentiero è tracciato, «separazione netta tra l’azione dell’esecutivo e le libere decisioni parlamentari su una questione giudiziaria», come ripete il premier anche in queste ore. E se qualcuno, dentro il governo, ha pensato che si potessero concedere alcuni giorni di confronto nella giunta, ieri ha capito che il Pdl vuole subito vedere le carte. Così è stata interpretata la richiesta di tre pregiudiziali di costituzionalità avanzata dal relatore Andrea Augello. Una mossa che ha irrigidito Pd, Sel e 5stelle. Che accelera le votazioni nella giunta anziché rallentarle. Se non è un’ingenuità tattica, allora davvero Berlusconi si prepara alla crisi.
Il momento delle verità dunque è vicinissimo. Letta pensa di esserci arrivato nelle condizioni migliori possibili. Con i risultati del governo che «in quattro mesi hanno cambiato l’Italia», disinnescando la mina dell’Imu, con il suo partito, il Pd, che ha compreso il senso e lo sforzo delle larghe intese, come ha capito alle festa nazionale di Genova. Insomma, il premier avrebbe adesso le carte in regola per una eventuale candidatura alla premiership nel campo del centrosinistra, se si dovesse andare velocemente alle elezioni. Il Letta bis è una soluzione evocata solo di sfuggita a Palazzo Chigi. Potrebbe vedere la luce solo nel caso fosse legata «aun nuovo progetto politico che nasce nel centrodestra». Cioè, a uno smottamento da quella parte che conduca a qualcosa di più profondo del voto di un pugno di transfughi. Avrebbe un senso soltanto se fosse chiaro che siamo giunti al bivio finale tra i destini di una forza politica e quelli del suo leader.
Questa è la base su cui Letta e i suoi collaboratori ragionano quando immaginano la possibilità di un bis. Tolto l’alibi principale dell’Imu, le colombe e i “governisti” del Pdl dovrebbero compiere una scelta pensando al futuro. In quel caso, un nuovo esecutivo sorgerebbe su fondamenta diverse, ma politiche. Senza affidarsi al semplice voto degli Scilipoti di turno. Le premesse non sono buone. Berlusconi ha già incassato la garanzia di dimissioni immediate dei suoi 5 ministri e 18 sottosegretari. Palazzo Chigi ha già spiegato che non batterà ciglio, accoglierà le dimissioni e tornerà in Parlamento a chiedere la fiducia delle Camere. Sono mosse plausibili ma finora tutte scritte sulla carta. Gli effetti di una crisi aperta da Berlusconi su se stesso, sulla sua condizione di condannato in via definitiva sono ancora da misurare nel concreto. Con la variabile decisiva delle decisioni di Giorgio Napolitano, sempre più arbitro del futuro.

l’Unità 10.9.13
Folla e polemiche per il test di Medicina
84mila studenti per 10mila posti. Quiz tra Don Chisciotte e chimica
Alla Sapienza flash mob contro il numero chiuso
Gli studenti del Link: «Nel 2018 in Italia ci saranno pochi medici»
L’Associazione nazionale docenti universitari boccia i test e li definisce «una inutile violenza»
di Silvia Gigli


In oltre 84mila per 10.771 posti disponibili nelle facoltà di medicina di tutta Italia. Solo alla Sapienza di Roma le aspiranti matricole di medicina e chirurgia erano 7101 per 998 posti. Un fiume di studenti hanno preso parte ieri alla prova che deciderà il loro futuro e che tutti vivono come un diabolico terno al lotto. I quiz hanno toccato temi diversissimi, come ad esempio il Fondo monetario internazionale, l’autore del don Chisciotte, le ere geologiche, la storia dell’arte (musei), la filosofia e addirittura la vita pratica dell’automobilista (inversione delle gomme, scelta del percorso più veloce e media oraria). Ma le domande più ostiche, è stato sottolineato da molti candidati, sono risultate essere quelle di chimica e biologia; e in molti casi segnatamente per gli studenti provenienti da scuole a indirizzo tecnico e scientifico quelle di logica e di cultura generale.
In generale, comunque, i ragazzi hanno lamentato troppo pochi posti. «Ci si diploma ha diritto a frequentare la facoltà per cui si sente portato e per cui si vuole impegnare sintetizza Liliana Armento di Link coordinamento universitario -. E invece solo uno studente su 8 oggi (ieri ndr) riuscirà ad avere accesso a Medicina». Eppure, continua Armento, «da un nostro studio è emerso che dal 2018 ci sarà in Italia il problema della carenza dei medici. Nel 2020 ce ne saranno circa 50mila in meno. Questo perché le barriere all’accesso sono troppo strette». Un paradosso, stando ai numeri che si sono visti ieri mattina alla Sapienza. Il test che hanno dovuto sostenere glia spiranti medici è durato 100 minuti ed era identico per tutte le università italiane: 60 quesiti con 5 opzioni di risposta su argomenti di cultura generale, ragionamento logico, biologia, chimica e fisica matematica. Una massiccia scrematura che, secondo il preside di farmacia e medicina della Sapienza Eugenio Gaudio, permette di «selezionare i ragazzi migliori». Il numero chiuso, secondo Gaudio, «è stata una conquista difficile in Italia, che ha migliorato molto la qualità degli studi, la qualità dei nostri futuri medici e la possibilità di arrivare alla laurea». Di diverso avviso l’Associazione nazionale docenti universitari (Andu) che non esita a definire il numero chiuso «una inutile violenza». È una lotteria, spiegano i docenti dell’Andu, soprattutto perché «il futuro di migliaia di giovani dipende da prove inaffidabili, le cui regole cambiano continuamente». I docenti dell’Andu, nel sottolineare i dubbi di costituzionalità di questa norma, chiedono alla ministra Carrozza perché, se le ragioni del numero chiuso sono gli sbocchi professionali e la qualità dell’insegnamento, allora non si estenda questo principio «a tutti i corsi di studio per assicurare a tutti gli studenti sbocchi e qualità degli insegnamenti». Non hanno forse tutti i corsi di studio pari dignità?
Carrozza, interrogata ieri sull’argomento in occasione del decreto sulla scuola varato dal governo che prevede tra l’altro l’eliminazione del bonus maturità fin da quest’anno, ha spiegato che l’eventuale eliminazione del numero chiuso nelle università è un «problema che non si può affrontare in un decreto, il tema dell’accesso programmato è un problema complessivo che necessita di una riflessione». Intanto Codacons ha promosso un ricorso collettivo al Tar del Lazio contro il numero chiuso, al quale possono aderire (su www.codacons.it) tutti gli studenti che ieri hanno sostenuto le prove d’ingresso.

La Stampa 10.9.13
Io, candidata al test di Medicina Uno slalom che diventa lotteria
La giornalista de “La Stampa” ha partecipato alla selezione con altri 7.100 iscritti
di Flavia Amabile


È stata questione di un istante. Ero appena entrata nell’aula, per prima, visto il cognome e il destino che mi accompagnano fin dai tempi della scuola e degli elenchi in ordine alfabetico. Ho lasciato il documento, firmato la presenza, ritirato il mio bustone ancora chiuso con il test, un’assistente della commissione mi ha chiesto di sedermi in ultima fila, ma la presidente l’ha corretta: «No, iniziamo dalla prima fila». È partita così la mia avventura fra i 7.101 iscritti al test di Medicina e Chirurgia alla Sapienza di Roma. Con una imprecazione sottovoce per la sfortuna. D’altra parte agli slalom e alle lotterie bisogna essere preparati, se si decide di partecipare alla selezione per diventare matricola di Medicina.
Lo slalom inizia già a luglio, quando ci si iscrive. La procedura è complicata, piena di siti a cui iscriversi, password da creare, server sovraccarichi perché nello stesso momento decine di migliaia di persone stanno provando a fare quello che vuoi fare tu e, quindi, sei costretto a ripetere l’operazione per più giorni senza capire che cosa esattamente non funzioni, finché, senza un motivo apparente, a un certo punto premi il tasto «Invia» e la tua domanda viene davvero inviata. Sei iscritto.
O perlomeno speri di essere iscritto. Di ufficiale hai solo una mail che prova che hai pagato i 35 euro di tassa (ma in altri atenei costa di più), un altro foglio che certifica l’iscrizione al portale Universitaly da cui si deve iniziare la procedura, e nient’altro. Non una comunicazione che dica: sei iscritto, ci vediamo il 9 settembre. O che ti dia qualche certezza in più. Nulla. Ed è fine luglio.
Se fossi stata una diciottenne con un futuro legato al test avrei avuto serie difficoltà ad addormentarmi ogni sera. La conferma che tutta la fatica fatta tra i server universitari aveva un senso arriva il 5 settembre. Una mail della Sapienza comunica il numero dell’aula e allega il link di una mappa decisamente utile per un ateneo in cui ci sono 91 aule usate per i test. Con una seconda mail arriva l’elenco dell’assegnazione delle aule: siamo divisi per età.
Sono con i vecchietti, quindi, gli over-40, quelli che provano e riprovano ogni anno e sperano di imparare dagli errori degli anni precedenti, e che una volta o l’altra sia quella buona.
In totale siamo in 47. C’è una suora di origini africane, un’inglese che si ostina a parlare inglese, mandando su tutte le furie la presidente della commissione. Ci sono gli iscritti a scienze infermieristiche che sperano di fare il salto, ci sono quelli che da una vita sognano di diventare medici e non hanno intenzione di abbandonare il loro sogno.
A qualsiasi costo. E non c’è minaccia che tenga. La presidente di commissione è durissima. Ci avverte dal primo istante: non vuole ricorsi nella nostra aula. Divide, separa, ordina la disposizione dei posti, pone il divieto assoluto di andare in bagno durante il test mentre in altre aule c’è maggiore elasticità. Vorrebbe anche silenzio completo durante le due ore di attesa, quando il test ancora non è iniziato.
Non otterrà nulla. In due arrivano in forte ritardo e con alcuni pezzi della registrazione mancanti: non vengono ammessi, ma minacciano ricorso. Quando alle 11 viene dato il via al test, persino io, che sono in prima fila e ho tutti e tre i componenti della commissione schierati davanti a me, riesco a fotografare e filmare il mio compito e parte di quello che avviene intorno. A fatica, approfittando dei pochi momenti di distrazione, ma qualcosa riprendo. Non invio nulla dall’aula in rete per evitare di invalidare la prova.
Nelle ultime file c’è più libertà. I componenti della commissione salgono fino agli ultimi banchi solo quattro o cinque volte nei cento minuti della prova. Spesso l’aula resta con due sorveglianti, mentre il terzo va in bagno. E quando sono lì, sono soprattutto seduti alla cattedra (davanti a me) a redigere i verbali nel tentativo di arginare i due probabili ricorsi.
Ci vuole una buona dose di autocontrollo per concentrarsi. Mentre dovremmo avere la tranquillità necessaria per ragionare su complessi quesiti di Logica, di Matematica, di Chimica, arrivano telefonate alla presidente per decidere come comportarsi con i due ritardatari. Non ascoltare è impossibile: mentre la prova è in corso veniamo chiamati a fare da testimoni di quanto accaduto.
Alle 12,40 si consegna. Qualcuno lo fa subito. Qualcun altro aspetta. Mentre i componenti della commissione passano tra i banchi i veterani dei test sanno che c’è modo di controllare qualche risposta, di passarsi gli ultimi suggerimenti. E, quindi, sì, ai test si può copiare e si copia, ma ci vuole fortuna e impegno: siamo proprio sicuri che non sia più utile utilizzare lo stesso tempo per studiare?

Corriere 10.9.13
«Tra me e i malati un quiz anonimo Ma che senso ha?»
di Luca Dodet


Le formule sono una brutta bestia, o le sai o non le sai. Per me che sono uscito dal Classico le domande di biologia e chimica sono state davvero toste. Sapevo che Cervantes è l'autore del Don Chisciotte e cos'è l'empirismo: ma il quesito sulla struttura degli isomeri l'ho lasciato in bianco... Le domande di logica, poi, erano diverse da quelle che mi aspettavo: più lunghe, con calcoli difficili. Però su queste, almeno, ero preparato. I test dovrebbero essere basati quasi solo sulla logica. In tre mesi non riesci a farti una cultura generale e, alla fine, alle domande rispondi solo se hai fortuna. Io ho preso 80 alla maturità e avevo solo un punto di bonus. L'annullamento non mi tocca più di tanto, ma non credo sia giusto. Immagino chi ha fatto il test pensando di poter contare su un tesoretto e poi si è reso conto che non lo aveva più. Qui alla Sapienza, poi, ne entra solo uno su otto: quasi una lotteria. Io ho già provato il quiz alla Cattolica e al Campus Biomedico: non è andata. Sono entrato alla Luiss, invece: giurisprudenza, è la mia alternativa. Se il camice bianco proprio non arriverà sarò un avvocato del settore no-profit internazionale. Ma io a medicina voglio entrare, è una missione. Vorrei aiutare le persone che hanno bisogno, in ogni parte del mondo. Tra me e loro c'è questo ostacolo del numero chiuso, una cosa che non capisco. Non ha senso sbarrare la strada in modo così perentorio. Lo so che non si può far accedere tutti, non ci sono abbastanza fondi. Ma perché non fare come la Francia, programmare un numero più ampio all'ingresso? A medicina la selezione è naturale. Già al primo anno si capisce chi va avanti e chi no. Sarebbero le capacità e l'impegno di ognuno a scegliere i nuovi medici e non un test anonimo.

il Fatto 10.9.13
Ostaggi di un frodatore
Scalfari ha scelto (e non è Sermonti)


La lettera aperta al presidente della Repubblica è su ‘Repubblica’ di sabato. Parole dure di un intellettuale, Vittorio Sermonti, che “non sopporta più di vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco”. Il fondatore del quotidiano, Eugenio Scalfari, non ha gradito l’affronto. E nel suo editoriale di ieri ha risposto ai “nobili intenti” dello scrittore, che ha dimostrato una “mancanza di realismo estremamente pericolosa”. Terza puntata: Sermonti replica sul giornale di ieri, cercando di spronare Scalfari a tirare fuori quell’ “orrore morale” che alberga “nel fondo di te”. Niente da fare. Scalfari chiude lo scambio di vedute: “Sermonti si dice sicuro che ho anch’io ho in cuore il desiderio che questo governo finisca al più presto. Purtroppo per lui si sbaglia”.

l’Unità 10.9.13
Perché la sinistra ignora McLuhan
Non capisce la comunicazione moderna. E ciò pregiudica la sua stessa politica
Il Pd ha perso elezioni che parevano vinte. È successo ancora una volta
Quando si metteranno a tema le trasformazioni anche sociali indotte dai nuovi media?
Il ritardo è già molto grave...
di Mauro Calise


È in edicola il numero di settembre di «Italianieuropei». Nel fascicolo il «Laboratorio partito», focus sul Pd che si accinge a una difficile fase congressuale per ridefinire profilo e strategie. Tra i saggi pubblicati proponiamo ai lettori de l’Unità quello di Mauro Calise.

COME È POSSIBILE, COME È SPIEGABILE CHE IL PD CI SIA RICASCATO ANCHE STAVOLTA? CHE ANCHE QUESTA CAMPAGNA GIÀ VINTA SIA STATA PERSA SULLO STESSOFRONTE,per lo stesso tallone d’Achille per il quale la sinistra, da almeno vent’anni, cede il passo al centrodestra? Per quale atavica maledizione la cultura degli ex comunisti e degli ex democristiani resta ostile, anzi addirittura estranea, alle regole anche le più elementari della comunicazione, che si tratti di vecchi o nuovi media?
Tra tutte le democrazie occidentali, i leader e i militanti del Pd sono i soli che si ostinano a credere che McLuhan fosse un parolaio. Ciò che conta è il contenuto del messaggio, non il contenitore e la sua forma: in barba a cinquant’anni di storia, i democratici restano convinti che the message is the media. Non si tratta solo di fare il processo a proposito, non l’ho ancora letto alla peggiore campagna elettorale italiana di questo secolo. Né di prendersela basta e avanza Crozza con i limiti di un candidato premier che, almeno, ha avuto sempre l’onestà di ribadire di non voler cambiare la propria personalità e il proprio stile. Il nodo è più radicale. Riguarda la profonda incomprensione, ai vertici come alla base del partito, del ruolo che la comunicazione svolge come vero e proprio codice genetico della società contemporanea. Per cui non è più uno dei canali attraverso cui la politica funziona, ne è diventato il motore. O, se preferite, il corpo. E, al tempo stesso, le ha rubato l’anima.
Il successo strepitoso di Grillo suona, per il Pd, come una riedizione riveduta e corretta e tecnologicamente aggiornata dello stesso meccanismo che aveva consentito a Berlusconi di sbaragliare in pochi mesi la «gioiosa macchina da guerra» con cui Achille Occhetto si era illuso di poter vincere le elezioni. Ancora una volta una vittoria certa si trasforma in bruciante sconfitta per l’emergere di una leadership carismatica che crea, quasi dal nulla, un ingentissimo seguito elettorale affidandosi allo sfruttamento strategico di un canale di comunicazione mediatica.
In questo caso, l’amarezza dell’occasione mancata è aggravata dal fatto che Grillo solo in parte ha attinto al serbatoio della destra qualunquista e conservatrice che si era precipitata al seguito del Cavaliere. Una parte molto consistente del voto ai cinquestelle documentano Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini proviene dall’elettorato di sinistra e da una quota predominante delle fasce più giovani.1 E un’ulteriore e peggiore aggravante viene dal fatto che la televisione, dopotutto, era il dominio – anche privato – del Cavaliere. Ma come è stato possibile farsi prendere in contropiede sul web, che dovrebbe rappresentare il terreno naturale di coltura e di crescita di una organizzazione come il Pd, che ha alla base del proprio programma il cambiamento della società?
LA SOCIETÀ DELLA E-DEMOCRACY
Rosanna De Rosa nel libro che fa il punto sulla cittadinanza digitale ci ricorda che, quando Berlusconi scese in campo, gli utenti Internet erano solo lo 0,4% della popolazione mondiale; ma già nel 2000, con l’esplosione della blogosfera, «la percentuale era salita al 5,9%, e oggi un quarto della popolazione mondiale è in rete, un miliardo dei quali ha un profilo su Facebook». Nel frattempo, la e-democracy, rimasta per un ventennio poco più che un laboratorio di promesse non mantenute, diventava la nuova frontiera per conquistare la Casa Bianca. Nelle primarie del 2003-04 c’è l’exploit di Howard Dean, un outsider che sfiora un successo clamoroso grazie all’uso sistematico per la prima volta della rete in una campagna presidenziale. Facendo da apripista a Barack Obama che, quattro anni dopo, dovrà la propria vittoria all’appoggio di Move On, coi suoi tre milioni di iscritti, e alla straordinaria capacità di intercettare finanziamenti da una amplissima platea di simpatizzanti, quotidianamente sensibilizzati sui temi chiave della sfida con i repubblicani. Riversando poi gran parte dei fondi nell’acquisto di spazi televisivi costosissimi nei momenti di massima audience. Questo schema sarà ripetuto e perfezionato per le elezioni del 2012, anche grazie alla possibilità di utilizzare i database di alcuni dei più importanti motori di ricerca per sofisticatissime operazioni di targetting. Facendo già intravedere la fusione tra la capacità di diffusione virale della rete con la centralizzazione carismatica del messaggio da parte del leader.
Questo nuovo know-how tecnologico della strategia elettorale era, dunque, ben conosciuto, ottimamente documentato e a disposizione di chiunque volesse farne una leva di intervento. Durante un intero decennio, per il Pd è come se il tutto fosse avvenuto su un altro pianeta, inaccessibile e incommensurabile. Ma non per Grillo e il suo mentore telematico Casaleggio. Nel volgere di cinque anni, un bravo comico che era solito chiudere i suoi spettacoli fracassando un computer sul palcoscenico diventa il leader di un nuovo monstrum politico: un partito superpersonale virtuale. A conferma che la comunicazione oggi, ancor più di ieri, è il presupposto oltre che il volano dell’organizzazione. Oltre, ovviamente, che il requisito per la comprensione e la gestione dei processi di innovazione tecnologica grazie ai quali il popolo della rete non è imploso, vittima della propria crescita esponenziale.
Sono due i principali meccanismi o, più precisamente, ambienti procedurali e regolativi che impediscono la frammentazione del mondo che ruota intorno a internet. Come i grandi motori di ricerca prima Aol, poi Yahoo! e Google avevano, coi loro algoritmi e cookies, messo ordine nella galassia infinita delle informazioni in rete, così spetterà ai blog e ai social network trasformare l’anomia della rete in un ambiente ricchissimo di legami sociali e capace di esprimere opinioni collettive. In alcuni aspetti salienti, la nascita della blogosfera ricalca in pochissimi anni il percorso habermasiano che aveva portato, nell’arco di due secoli, alla formazione della moderna opinione pubblica. I blog rappresentano, infatti, la crescita di una nuova élite culturale e, al tempo stesso, l’affacciarsi e il consolidarsi di un rapporto sempre più dinamico con i media tradizionali. Non appena i blog riescono a far emergere, dall’oceano indistinto della rete, le notizie e i temi più trendy, la stampa si affretta a rilanciarli, soprattutto attraverso le proprie testate online (...).
Qualsiasi sforzo di aggregazione delle opinioni quasi pubbliche espresse attraverso il web sarebbe, nondimeno, inimmaginabile senza il lavoro sotterraneo di creazione di un vero e proprio tessuto sociale della rete. La dimensione social introdotta dai network personalizzati, come Twitter e Facebook, non ha niente a che vedere con la categoria di società che è a fondamento dell’organizzazione moderna della vita. Anzi ne rappresenta, per molti aspetti, la sua crisi e destrutturazione. Al posto di classi e ruoli che hanno reso funzionante, gerarchicamente ripartita e, in qualche misura, prevedibile la società sviluppatasi intorno al macchinario satanico della rivoluzione industriale, i social network fanno emergere un infinito reticolo di molecole che si attraggono o si respingono in modo del tutto spontaneo (...).
Ricalcando il percorso aristotelico da cui nasce l’idea stessa di politica, anche la politica in rete prende forma e trova ancoraggio nello sviluppo della socialità. Così come nella lezione sartoriana lo zoon politikon di Aristotele era, in primis, un animale sociale, così anche il netcitizen comincia a prendere forma solo dopo essere riuscito a inserirsi e immedesimarsi nei nuovi circuiti social. Mentre per oltre trent’anni lo sperimentalismo democratico via Internet era rimasto confinato agli spazi e agli effetti di piccole eutopie, con la nascita e la fulminante espansione dei social network l’e-democracy trova finalmente un suo zoccolo duro, un radicamento, una prassi ben collaudata da cui cercare di spiccare il salto alla conquista del politico.
SE NE PARLI AL CONGRESSO PD
A quest’appuntamento, la sinistra italiana è clamorosamente mancata. E il vuoto è tanto più profondo perché la rivoluzione di Internet interseca tutti i settori più vitali della società. Per limitarsi all’esempio più importante, l’intero percorso formativo si sta digitalizzando. Ma lo fa su scala globale, rischiando di lasciare al palo quei contesti geoculturali che continuano a opporre resistenze. Nelle nostre scuole medie, i libri di testo solo ora stanno cominciando ad adeguarsi ancora lentamente e con una qualità quasi sempre scadente alle pratiche connaturate alla generazione dei nativi digitali, improntati alla sindrome di amazoogle: cercare e trovare online i materiali che ti servono. Resistenze, se possibile, ancora maggiori si riscontrano all’interno delle università, dove i ministri di centrodestra con la complicità di quelli di sinistra sembrano aver risolto il problema dividendolo in due campi separati: da un lato, le cosiddette «telematiche», aziende private con licenza di laureare, che erogano corsi a distanza lautamente retribuiti; dall’altro, le statali, che non hanno risorse e stimoli per affrontare la sfida che, tra pochi anni, rischia di metterle fuori mercato.
Il nuovo format dell’educazione in rete, l’insegnamento in modalità Mooc (Massive open online courses), ha reclutato, nel 2012, oltre venti milioni di studenti. Coinvolgendo i principali e più prestigiosi college americani, ma anche molte università di taglia media che cercano di rimanere a galla sperimentando un modello di business misto, in cui i corsi a distanza integrano quelli molto più onerosi in presenza (...). Per chi scrive, resta un mistero doloroso come mai la sinistra, e in primis il suo maggior partito, non sia schierata per fare di Internet e del suo rapporto con la scuola la sua testa possibilmente pensante di ponte in un ambiente sociale fertilissimo di stimoli e avidissimo di una rappresentanza che continua a essergli negata. O meglio, che è riuscito a trovare, in extremis e spesso in modo confuso, nella disponibilità del M5S. Una disponibilità non limitata ai contenuti e alla libera espressione, ma che ha investito anche il nodo più delicato: il reclutamento di un nuovo ceto politico.
Nessuno pensa che Internet possa essere la panacea per la crisi politica profondissima in cui il Paese si dibatte. Né una scorciatoia palingenetica per l’iter complesso e faticoso di selezione di una classe parlamentare in grado di governare processi deliberativi e decisionali sempre più complessi. Ma non v’è dubbio che l’ingresso in Camera e Senato dei cittadini venuti dal web abbia, per il Pd, il gusto amaro di un’occasione mancata. Ancor più visti i profili di neodeputati e neosenatori, molti dei quali sono apparsi fin dagli esordi dotati di una propensione all’autodeterminazione non facilmente conciliabile con il dirigismo autocratico che caratterizza gli interventi di Grillo. La partita, tuttavia, non è chiusa. Si va ai tempi supplementari. E possiamo ancora sperare che al centro del prossimo congresso non ci sia solo la discussione su «cosa» dire, ma anche una riflessione su «come» (...). Visto dall’esterno, il ritardo potrebbe apparire incolmabile. Ma, dall’interno, non si può mollare. Provaci ancora, Pd.

La Stampa 10.9.13
Quanta rabbia si sfoga in una stanza
Bottiglie e mobili da fracassare con mazze da baseball, tutto fornito in un capannone per 35 euro l’ora
di Franco Giubilei


L’idea è di un giovane che ha visto «camere» simili in Messico e Stati Uniti Ora pensa di lanciare un franchising I clienti Uomini e donne: alcuni entrano in gruppo.C’è chi viene a scaricare lo stress e chi a festeggiare un addio al celibato
L’armatura In dotazione scarpe antinfortunio, ginocchiere, gomitiere e guanti. Più maschera ed elmetto da soft air di colore nero La battaglia La stanza è attrezzata con pareti metalliche e soffitto speciale con una rete. I mobili vengono rimpiazzati con altri usati

La «Camera della rabbia» dove sfogare i miei furori mi aspetta in un capannone immerso nella campagna forlivese. Cristian Castagnoli, il titolare 35enne, sulle pareti ha fatto disegnare delle immagini in stile street art, con un tizio barbuto dall’aria arrabbiata per evocare meglio lo spirito della cosa. Il soffitto è ricoperto da una rete, onde evitare che cocci e frammenti saltino nella stanza vicina.
«Qui viene gente dai 18 ai 40 anni, uomini e donne in egual numero, ma le ragazze sono le più scatenate», racconta Cristian, che ha aperto la prima «Camera della rabbia» italiana tre mesi fa, sul modello di esperienze simili nate fra Messico, Usa, Inghilterra e Francia. «C’è chi viene a scaricare lo stress di una giornata di lavoro, chi è arrabbiato perché è in cassa integrazione o disoccupato, ci sono addii al celibato o al nubilato, a volte vengono in due-tre e si sfidano a chi fracassa più roba. Per un’ora si spendono 35 euro, compreso il filmato».
Nello spogliatoio comincia la vestizione, anche perché non si può frantumare a colpi di mazza bottiglie e mobili senza una corazza adeguata: Cristian mi fa indossare scarpe antinfortunio, ginocchiere, protezioni per le braccia, gomitiere e guanti. Il tocco finale sono maschera ed elmetto da soft air di colore nero. Simile all’incrocio fra un black bloc e Darth Fener, entro nella stanza dell’ira, un ambiente arredato con vecchi mobili a scaffale, una sedia, due vetrinette, un paio di damigiane di vetro, una ventina di bottiglie e un sacco da pugilato. Allineata, una fila di mazze in ordine distruttivo crescente: quella da baseball per le bottiglie, quella media metallica da 3,5 kg e quella più pesante da 5 chili e mezzo, per fare a pezzi i mobili.
La porta si chiude dietro di me, la calura sotto l’elmetto è notevole, mentre l’impianto stereo spara un vecchio brano rap che mi sembrava il giusto accompagnamento per l’occasione. Impugno per prima la mazza da baseball e comincio a far fuori le bottiglie. Mi sento vagamente ridicolo, ma al terzo vetro in frantumi ci prendo gusto e proseguo metodicamente a spaccare tutte le bottiglie. Quelle di dimensioni normali esplodono senza problemi, ma uno stramaledetto magnum fa resistenza, quindi decido di passare alle maniere forti e vado alla mazza da cinque chili: macché, il magnum sguscia via, allora mi rivolgo al mobilio e qui la lotta si fa dura. Già, perché un conto è spaccare bottiglie, che danno soddisfazione andando in mille pezzi col minimo sforzo, e tutto un altro è sfasciare una libreria costruita come le facevano una volta. Un colpo la incrina, il secondo fa volare le prime schegge, finché non diventa una prova di forza fra me e il mobile. Uno dopo l’altro gli scaffali cedono. Il pavimento è un tappeto di cocci di bottiglia: avrò pure le ginocchiere, ma la prospettiva di scivolare sui frammenti taglienti mi agghiaccia. All’improvviso mi ricordo delle damigiane e vibro una serie di bastonate, con scoppi coreografici di vetri verdi. Che mi resta? Ah già, la sedia. Alzo la mazza a due mani e la vibro sullo schienale. Il caldo e la fatica stanno per avere il sopravvento. Dopo un quarto d’ora di bastonate - il tempo medio di permanenza nella camera - mi arrendo alla fatica e al non senso. Fuori dal capannone una catasta di mobili usati attende i prossimi clienti.

La Stampa 10.9.13
Lo psichiatra
“Attenti alle reazioni infantili: è più maturo elaborare la tristezza”
di Nadia Ferrigo


Alzi la mano chi può giurare di non aver mai desiderato prendere a pugni l’automobilista che, dopo non aver rispettato la precedenza, sfreccia via senza accennare un gesto di scusa. Alla guida, in ufficio o in coda alla posta, poco cambia: mantenere la calma a volte è difficile. «La rabbia è un sentimento che da sempre fa parte di noi, una delle possibili reazioni di fronte alle difficoltà - spiega Eugenio Torre, già direttore della clinica psichiatrica dell’ospedale di Novara e professore all’Università del Piemonte Orientale -. Non credo che l’uomo delle caverne fosse più tranquillo degli uomini di oggi: tra non arrivare a fine mese perché non si è cacciato abbastanza o perché i soldi finiscono troppo in fretta non c’è poi questa gran differenza».
La rabbia non è solo un male dei nostri giorni?
«È un sentimento che si acuisce nelle situazioni in cui la collettività prevale sull’individualità, come sul luogo di lavoro, ma è non solo questo. La rabbia è un reazione istintiva e infantile alle difficoltà, che usiamo quando non abbiamo la forza di essere depressi».
Meglio tristi che furiosi?
«Quando dobbiamo affrontare una delusione, non è utile spaccare tutto. La tristezza è un sentimento maturo: la delusione va affrontata, rielaborata e superata, così da trovare la forza e le motivazioni per ripartire da capo. Sfogarsi può far bene, ma non risolve i problemi».
Quando bisogna iniziare a preoccuparsi?
«La rabbia diventa patologica non in base all’intensità, ma in relazione al nostro carattere. La prima distinzione è tra la rabbia rivolta contro se stessi e quella che sfoghiamo contro gli altri».
La più pericolosa?
«Per la salute, la prima. Se non viene sfogata, la rabbia repressa si può trasformare in ulcera, asma o in una delle malattie che hanno origine psicosomatica. In questo caso impugnare una mazza e distruggere tutto può essere d’aiuto».
E che dire della rabbia nei confronti degli altri?
«Se dovessi individuare un male dei nostri tempi, è l’incapacità di accettare che le cose accadono. Dobbiamo a tutti i costi trovare i colpevoli».
Che si dovrebbe fare invece?
«Il destino accompagna chi lo segue e travolge chi gli resiste. È utile ricordare questa massima: “Ci lamentiamo perché vorremmo cambiare il mondo, ma non ci viene mai in mente la cosa più importante: prima dobbiamo riuscire a cambiare noi stessi”».

Corriere 10.9.13
«Ateismo anonimo dei cristiani milanesi» I timori del cardinale
Reale: dilaga. Giorello: non è un male
di Paolo Foschini


MILANO — «Ateismo anonimo», è la formula con cui lo indica questa volta. Ma continua a trattarsi sempre della stessa cosa vale a dire, in concreto, del «vivere di fatto come se Dio non ci fosse». Ed è in questo che il cardinale Angelo Scola continua a indicare, praticamente dal suo insediamento arcivescovile a Milano ormai due anni fa, una delle insidie più pervasive del mondo occidentale contemporaneo: a cui la realtà ambrosiana — ha sottolineato ieri — non fa eccezione.
Per capire quanto il tema gli stia a cuore basta richiamare il titolo del volume — Non dimentichiamoci di Dio, Rizzoli — da lui interamente dedicato all'argomento lo scorso aprile. Ci è tornato appunto ieri presentando in Duomo la lettera che con altro titolo significativo, «Il campo è il mondo», prospetta ai fedeli della sua Diocesi le «vie da percorrere» in vista del nuovo anno pastorale.
È un testo lungo e parla quasi per cenni di molte cose, di crisi, di fame, di lavoro, di Expo, di Europa, di radici cristiane. E ripete che in questo senso Milano continua comunque a essere un punto di riferimento: «La Chiesa ambrosiana può ancora contare — insiste Scola a messa finita — su una realtà popolare viva, c'è ancora un buon numero di persone che partecipa alla messa domenicale e che dà una mano seriamente all'edificazione di una vita cristiana...». Però.
«Però il cristianesimo sta diventando culturalmente una minoranza anche nella nostra Diocesi — prosegue il cardinale — ed è qui che si insinua questo atteggiamento che ho chiamato ateismo anonimo». Insomma «l'uomo cresce armonicamente — conclude Scola — quando ha un rapporto equilibrato con se stesso, con Dio e con gli altri»: il problema è che «soprattutto alle generazioni dei 25-50enni Dio sembra non interessare più».
Parlare di «ateismo» in questi termini «non ha alcun senso» secondo il filosofo Massimo Cacciari, già rettore dell'Università Vita-Salute San Raffaele: «Dio non è un oggetto di dimostrazione né di sapere e non mi ritrovo assolutamente nell'uso della parola». Il problema tuttavia esiste, a suo avviso, ed è «il vecchio discorso della vita o delle vite che non sentono il bisogno di confrontarsi con le cose ultime, di una società attuale che non si pone più domande sul senso profondo dell'esistenza: e questo altroché se è un problema. Ma riguarda tutti, credenti e non».
Per lo scrittore cattolico Luca Doninelli «non è una faccenda solo di oggi, penso al ricco del Vangelo che rispettava i comandamenti eppure "non era felice"... Però io non credo che la domanda di senso da parte della gente si sia spenta, è che occorre insistere a proporre risposte più profonde».
Dall'altra parte c'è Giulio Giorello, filosofo della scienza che sul Buon uso dell'ateismo ha incentrato tutto un libro: «Penso che una società matura — dice — possa vivere benissimo senza Dio. Il vero rischio attuale è quello contrario, a mio avviso, e cioè dei fondamentalismi. Di tutti i tipi: ideologici, religiosi, e anche ateisti. Direi che di laicità vera e serena, anzi, ce n'è ancora poca: possibile che per riempire le piazze di gente contraria alla guerra ci fosse bisogno del richiamo di Bergoglio?».
Sconforto uguale e contrario a quello dell'altro filosofo Giovanni Reale: «L'indifferenza dilagante, purtroppo, io la vedo tra i miei studenti. "Pseudoproblemi con cui non voleva riempirsi la testa", mi ha detto uno. La teorizzazione dell'indifferenza: l'ultimo stadio».
Per Rav Giuseppe Laras, storico punto di riferimento della comunità ebraica milanese e italiana, anche «nella tradizione biblica il fare e l'essere sono inscindibilmente intrecciati» e «pensare di poter prescindere dalla dimensione verticale trascurandola o ignorandola è la premessa per indebolire lo slancio etico, il bene-agire». E conclude: «Il problema esiste a tanti livelli, se lo sforzo di andare oltre il contingente fosse più diffuso e condiviso il mondo sarebbe migliore di come è».

Corriere 10.9.13
Uguaglianza tra sessi e no ai simboli, la Carta della laicità
di Stefano Montefiori


PARIGI — Il compito della scuola non è solo fornire un'istruzione, ma educare e formare dei buoni cittadini della République. Questa è la convinzione di fondo del ministro Vincent Peillon, che sta preparando dei corsi di «morale laica» a partire dal 2015; intanto, Peillon ha presentato una Carta della laicità che dovrà essere affissa — «con una certa solennità», chiede il ministro — in tutte le scuole pubbliche di Francia.
I 15 articoli della nuova Carta sono stati illustrati ieri in un liceo della regione parigina, tra mille rassicurazioni sul fatto che mirano a migliorare l'armonia nelle classi e non certo a puntare il dito su una religione in particolare. Ma tutti — specialmente i musulmani — pensano che si è voluto tracciare una linea, per quanto in modo piuttosto vago e generico, per contenere le rivendicazioni degli allievi islamici più radicalizzati. La legge sulla laicità del 1905 venne approvata per allentare la presa del cattolicesimo sulla società francese; oggi serve a separare lo Stato non più dalla Chiesa ma dall'islam.
Il primo articolo della Carta ricorda che «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Assicura l'uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini e rispetta tutte le fedi». «La laicità garantisce agli allievi l'accesso a una cultura comune e condivisa», si legge all'articolo sette. Il nove stabilisce: «La laicità implica il rigetto di tutte le violenze e di tutte le discriminazioni, garantisce l'uguaglianza tra maschi e femmine e riposa su una cultura del rispetto e della comprensione dell'altro».
Questo, in particolare, è un passaggio delicato: ribadire l'uguaglianza tra maschi e femmine sembra un richiamo verso la comunità musulmana, giudicata sospetta di sessismo. L'altro articolo importante è il numero 12, dove si chiarisce che «nessun allievo può invocare una convinzione religiosa o politica per contestare a un insegnante il diritto di trattare un tema che fa parte del programma»: molti professori hanno denunciato negli anni scorsi la difficoltà di affrontare questioni come il conflitto arabo-israeliano o il darwinismo, per le proteste di alcuni allievi seguaci dell'islam radicale. L'articolo 14 ricorda che «è proibito portare segni o abiti attraverso i quali gli allievi manifestino in modo ostentato un'appartenenza religiosa»: in pratica, si ribadisce il no al velo islamico già contenuto nella legge del 2004. L'articolo conclusivo invita gli allievi a «contribuire a fare vivere la laicità all'interno di ogni istituto, con le loro riflessioni e attività»: la laicità sembra così un valore in sé, e non uno strumento per fare convivere valori diversi.
«Il 90 per cento dei musulmani avranno l'impressione di essere il bersaglio di questa Carta, quando nel 99 per cento dei casi non pongono alcun problema alla laicità», ha commentato Dalil Boubakeur, presidente del Consiglio francese del culto musulmano (l'istituzione voluta da Sarkozy 10 anni fa per favorire il dialogo tra Stato e comunità islamica). «E perché ricordare il no ai segni religiosi? — continua Boubakeur — O l'uguaglianza tra maschi e femmine? Ci siamo capiti...».
Il ministro Peillon invece pensa che la scuola debba coraggiosamente assumersi la responsabilità di lottare contro le derive settarie della società francese. «La laicità è una battaglia — ha detto ieri — non contro alcuni ma a favore di tutti».

Corriere 10.9.13
Quella carta francese della laicità che ferisce i principi liberali
di Giovanni Belardelli


Ieri mattina è stata affissa in tutte le scuole francesi, in forma solenne, la Carta della laicità fortemente voluta dal ministro dell'Istruzione Vincent Peillon. Chi ne scorra gli articoli avrà forse difficoltà a comprendere subito la ragione delle polemiche che la Carta sta suscitando in Francia. Accanto ad affermazioni piuttosto ovvie relative all'eguaglianza tra maschi e femmine o al rispetto e comprensione dell'altro, il documento ripropone quell'idea della laicità come divieto di ogni simbolo religioso che sarà pure discutibile, ma certamente non è nuova. In realtà l'iniziativa va letta alla luce del più generale progetto politico-pedagogico del ministro, quello di dar vita a una vera e propria «religione repubblicana». Secondo Peillon si tratterebbe niente di meno che di completare la Rivoluzione francese: se questa aveva dovuto arrestarsi alle trasformazioni politiche e sociali, ora la nuova scuola laica dovrebbe finalmente realizzare una profonda trasformazione morale e spirituale. A dire il vero, la «filosofia» che ispira il ministro sembra poco laica e poco liberale. Poco laica, almeno per chi ritenga che la laicità non implica l'assenza o il divieto di manifestare la propria fede religiosa (è ben nota la questione della proibizione del velo nelle scuole per le giovani di religione islamica), ma si accompagna al libero manifestarsi di tutte le credenze — religiose o meno — su un piano di eguaglianza. La laicità del ministro francese è invece fondata su un principio di esclusione, giustificato dall'idea che la religione sia incompatibile con la libertà umana: «Non si potrà mai costruire un Paese libero con la religione cattolica», ha sostenuto il ministro Peillon presentando il suo libro La Révolution française n'est pas terminée (il relativo video su YouTube è stato ampiamente citato da Giulio Meotti sul Foglio del 29 agosto). Si tratta dunque di una concezione attivamente antireligiosa della laicità, che ha profonde radici nella storia francese degli ultimi due secoli e mezzo. In ogni caso è un'idea che contiene un concreto rischio di discriminazione: non a caso l'ultimo Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, redatto da una commissione federale americana a carattere bipartisan, ha criticato la «laicità troppo aggressiva» della Francia, che non permette alle persone di esprimere pienamente la propria fede.
È altrettanto evidente che si tratta di un progetto ben poco liberale, perché animato da un'idea troppo vasta dei poteri dello Stato, certamente invasiva della libertà di individui e famiglie. Secondo il ministro, infatti, la scuola «deve strappare il bambino da tutti i suoi legami prerepubblicani per insegnargli a diventare un cittadino». È un'idea che si afferma soprattutto con la Rivoluzione francese, che vedeva tra i suoi compiti principali quello di «rigenerare» i cittadini, di rieducarli politicamente e soprattutto di renderli eticamente migliori. Ma è un'idea che è stata anche ripresa dalle dittature di massa del Novecento, animate da una analoga concezione pedagogico-autoritaria dei compiti dello Stato; uno Stato cui ad esempio Giovanni Gentile (riferendosi a quello fascista) assegnava la funzione di «educatore e promotore di vita spirituale». È ovvio che l'idea di cittadinanza di Peillon è diversa da quella di Gentile e che diversi sono gli strumenti cui intende far ricorso. Ma che ci sia dietro, anche nel caso del ministro socialista, un rischio autoritario pare innegabile.
Tutto questo, però, non toglie che la questione che cerca di affrontare (male) la Carta della laicità abbia un fondamento reale. Riguarda il fatto che una democrazia non può vivere soltanto dell'accettazione di procedure e norme giuridiche fondamentali, come sono gli articoli di una costituzione, ma ha bisogno anche che i suoi cittadini condividano alcuni valori. Ne sappiamo qualcosa in Italia, dove tutti riconoscono l'assenza o la debolezza di valori comuni, anche in conseguenza di decenni di modernizzazione e secolarizzazione che hanno incrinato o forse distrutto l'antica struttura etica della società senza che ne emergesse una nuova. Il punto è se questi valori debbano essere comunque cercati nella società, rispettandone le peculiarità storiche e il pluralismo, o se invece vengano attivamente promossi attraverso forme pedagogico-autoritarie, che in qualche modo rieduchino i cittadini. Questa seconda via, criticabile in sé, ha oltretutto una potenziale, ulteriore conseguenza negativa: mutato magari il governo dopo nuove elezioni, un altro responsabile del ministero dell'Istruzione potrebbe voler cambiare tutto da capo, consegnando agli insegnanti — a quel punto ormai ridotti a meri funzionari-esecutori — nuove direttive per una diversa «religione repubblicana».

La Stampa 10.9.13
Le tavole della laicità nelle scuole di Francia
Le 15 regole “repubblicane” affisse negli istituti Un modo per arginare l’islamismo nelle banlieue
di Alberto Mattioli


Liberté, égalité, fraternité, d’accordo. Ma anche «laïcité», laicità, il «valore repubblicano» da inculcare agli studenti di tutte le scuole francesi per fermare i progressi dei comunitarismi religiosi. L’idea è del ministro dell’Educazione nazionale, il «philosophe» Vincent Peillon, che prosegue così la sua crociata della laicità iniziata con l’annuncio di corsi di «morale laica» a scuola, poi ribattezzati più modestamente «insegnamento morale e civico» e infine rimandati al 2015, quando debutterà la revisione generale dei programmi scolastici.
Da ieri, invece, in tutte le scuole francesi, dalle elementari ai licei, ma solo in quelle pubbliche, è esposta una «Carta della laicità» cui insegnanti e studenti sono tenuti a conformarsi (i primi riceveranno anche a un «kit pedagogico» di prossima distribuzione). Il decalogo è in realtà in quindici punti e debutta con la definizione costituzionale della Francia: «Una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale». Segue una lezione di democrazia in pillole.
I punti dolenti vengono dopo. Per esempio, il sesto, dove si spiega che la laicità protegge gli alunni «da ogni proselitismo e da ogni pressione che impedirebbe loro di fare le proprie scelte». E poi, punto 12, «nessuno studente può invocare una convinzione religiosa o politica per contestare a un insegnante il diritto di trattare un argomento», quindi per esempio un eventuale creazionista non potrebbe rifiutarsi di studiare Darwin. Quindi, punto 13, «nessuno può far valere la sua fede religiosa per rifiutare di conformarsi alle regole», con il che si taglia corto alle rivendicazioni per il menu halal alla mensa o contro le palestre unisex. E il punto 14 vieta «di portare dei segni o delle tenute con le quali gli allievi manifestano ostentatamente un’appartenenza religiosa», tipo il velo o la kippah: un divieto peraltro già previsto dalla contestatissima legge del 2004. Garantita anche l’eguaglianza fra femmine e maschi.
Nella sua offensiva repubblicana, Peillon ha dato anche ordine che tutte le scuole espongano la bandiera francese, quella europea, il motto «Liberté Egalité Fraternité» e la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino. Il ministro parla di una laicità «che unisce e non divide, un’arma di inclusione e non di esclusione». E nega che la sua rivendicazione della laicità sia fatta soprattutto contro quelle islamiche, sempre più presenti e pressanti. Ma i musulmani sono convinti che la Carta sia piena di «allusioni» a loro: «Il 90% avrà l’impressione di essere preso di mira da questa Carta», accusa Dalil Boubakeur, presidente del Consiglio francese del culto musulmano.
Viene da chiedersi se ci fosse davvero bisogno di scatenare nuove polemiche per ribadire l’ovvio. Secondo Iannis Roder, coautore di un bestseller sui «Territori perduti della Repubblica», cioè le banlieue dove la vera legge è quella coranica, sì: «Se c’è bisogno di affiggere la Carta, vuol dire che ci sono delle difficoltà. Per certi studenti, che riflettono ciò che vivono, a scuola la legge religiosa ha la precedenza su quella della République».

Corriere 10.9.13
Voto choc a Oslo. Il partito di Breivik verso il governo
Schiaffo ai laburisti, vince la destra
di Maria Serena Natale


È il giorno di Erna, la ragazza dell’Ovest che si avvia a diventare primo ministro. Ed è il giorno di Siv, la nemesi. La conservatrice Erna Solberg e la leader del Partito del Progresso Siv Jensen sono i volti della destra norvegese che ieri ha vinto le prime elezioni politiche dalle stragi del 22 luglio 2011. Un voto che segna la fine della coalizione rosso-verde guidata da Jens Stoltenberg e che sdogana definitivamente la formazione anti-immigrati alla quale nel 1999 aderì l’autore del doppio attacco di due anni fa, Anders Behring Breivik che osserva dalla cella del carcere di massima sicurezza di Ila, il suo ghigno come una condanna su un Paese che vuole dimenticare.
«Ho lavorato duro per dare ai conservatori una nuova piattaforma» dice Erna, l’inflessibile «Merkel del Nord» che ha incentrato il suo progetto su taglio delle tasse, innovazione, competitività e ha accettato il rischio di una pragmatica apertura ai populisti di Siv. Secondo le proiezioni, il blocco di centro-destra formato da conservatori, Partito del Progresso, liberali e cristiano-democratici conquista una maggioranza di 93 seggi su 169. Nei prossimi giorni saranno da definire gli equilibri di una coalizione dalla quale, dichiara Solberg, non sarà più possibile escludere la formazione della Jensen. Non sarà facile per Erna, decisa a costruire «un ponte» tra il centro e la destra populista, concordare una strategia di governo con Siv. L’alleanza necessaria a battere il centro-sinistra dovrà superare divergenze inconciliabili emerse già prima del voto, ad esempio sui campi per richiedenti asilo proposti dal Partito del Progresso. L’ultima speranza per i laburisti, primo partito, è che i rivali non trovino un accordo.
Malgrado quarant’anni di storia e un radicamento territoriale che ne fa una delle maggiori forze dell’arco politico norvegese, il Partito del Progresso era sempre stato tenuto fuori da coalizioni di governo per la sua identità troppo tagliata sulla difesa di un’originaria purezza culturale costruita su un mix di valori cristiani e umanitarismo. Negli anni la retorica di partito è scivolata su posizioni sempre più antimusulmane, fino al celebre discorso del 2009 nel quale la stessa Jensen metteva in guardia da un’islamizzazione strisciante. Toni che richiamano sinistramente i proclami affidati da Breivik al suo manifesto pubblicato poche ore prima di stroncare 77 vite nell’assalto al quartiere governativo di Oslo e al campo estivo della gioventù laburista sull’isola di Utoya. Un attacco pianificato per anni con l’obiettivo dichiarato di scuotere la classe dirigente e fermare le politiche multiculturaliste della sinistra che rischiavano di consegnare la Norvegia e l’Europa all’onda islamica. La preparazione dell’attentato cominciò nel 2002. Proprio quell’anno un ramo locale dell’organizzazione giovanile del Partito del Progresso scelse come presidente l’allora 23enne Breivik.
Dopo Utoya, il partito ha condannato senz’appello la peggiore strage sul suolo norvegese dalla Seconda guerra mondiale, rimosso i dirigenti più controversi, abbassato i toni sull’immigrazione e spostato il focus sulle riforme economiche e sul ridimensionamento del ruolo dello Stato. «Siamo un partito liberale» ripete Jensen, che ha sempre respinto l’etichetta di leader «populista», «a meno che populista non significhi risolvere i problemi quotidiani della popolazione«. Tra le sue proposte, la revisione della regola d’oro che stabilisce un tetto del 4% oltre il quale è proibito attingere al Fondo petrolifero sovrano da 750 miliardi di dollari, un limite per proteggere una ricchezza destinata alle generazioni future. Anche Erna Solberg ha puntato sul Fondo, proponendo di modificarne l’assetto amministrativo, curato sin dal 1996 da un ramo della Banca centrale norvegese: l’idea è assegnare settori diversi del Fondo a più soggetti, per favorire un management competitivo. Il nuovo governo sarà chiamato a un ripensamento complessivo di un sistema economico troppo dipendente dalle pur immense riserve petrolifere.
In lista con i laburisti, anche 33 sopravvissuti di Utoya che su quell’esperienza hanno fondato un rinnovato impegno politico, «la generazione 22 luglio».

Corriere 10.9.13
Allende, gli Inti-Illimani e Berlinguer Il golpe che spaccò la sinistra italiana
Le piazze cantavano «El pueblo unido», il leader pci lanciò il «compromesso storico»


Quell’11 settembre (quello cileno, non quello di New York) gli Inti-Illimani si trovavano in Italia per una tournée. Per il Cile di Salvador Allende, stuprato dal golpe di Augusto Pinochet, era il giorno della catastrofe. Per il gruppo di musicisti rivoluzionari cominciava invece l’interminabile liturgia delle Feste dell’Unità commosse dalla musica andina. L’epopea di Unidad Popolar, soffocata dai militari felloni l’11 settembre del 1973, quarant’anni fa, assumeva dimensioni mitologiche. E i combattivi democratici europei alzavano in alto i pugni chiusi dell’indignazione intonando bellicosi «El pueblo unido jamás será vencido», familiarizzandosi tra un inno e un altro con i ritmi languidi e malinconici della chitarra e del «quatro», del «charango» e della «pandereta».
La sinistra italiana raggiunse con il golpe cileno il diapason emotivo della protesta e della mobilitazione delle anime. Il cuore batteva all’unisono per i ragazzi che venivano trasportati sanguinanti e pesti sulle gradinate dello stadio di Santiago del Cile, per l’immagine eroica del presidente Allende che con le armi in mano moriva combattendo contro i truci golpisti, per gli oppositori uccisi, incarcerati o desaparecidos . Le emozioni sapevano riconoscere e distinguere il Bene dal Male: il Male era il volto repellente del generale Pinochet, con lo sguardo di ghiaccio nascosto dietro le lenti buie dei suoi occhiali da sole, simili a quelli indossati da tutti i gorilla sudamericani chiamati ad opprimere i loro popoli; il Bene era la democrazia calpestata, la libertà reclusa, il sangue che scorreva nelle città del Cile. Salvador Allende era il santo, Pinochet il demonio. Tra gli angeli, i suoi alleati del Mir e del Partito socialista di Carlos Altamirano, insieme, coralmente, a tutto «el pueblo» del Cile. Tra i diavoli Kissinger, la Cia, i camionisti che avevano spianato la via ai golpisti con i loro blocchi stradali, le massaie eterodirette che minacciavano il governo Allende con le loro casseruole. Le note andine degli Inti-Illimani erano la colonna sonora di questo caldo sentimento di unanimismo democratico, tanto che il loro successo così inarginabile mise in circolo una quantità di non sempre fortunatissime imitazioni. I «Finti-Illimani», si diceva quando negli anni si cominciò a percepire un sentimento di saturazione («la musica andina che noia mortale», copyright Lucio Dalla). E se da una parte gli Inti-Illimani scatenavano la commozione di tutti, dall’altra si replicava con gruppi musicali destinati a un successo incomparabilmente minore, ma pur sempre cospicuo sebbene effimero, come quello che arrise agli oggi non più ricordati Quilapayún. Sembrava tutto così chiaro. Chiaro come la guerra nel Vietnam: anche lì una netta linea divisoria a separare i grandi ideali dalle oscure macchinazioni manovrate dei loschi interessi dell’«imperialismo». E invece?
E invece, pur polarizzando le emozioni collettive con un’intensità mai più raggiunta in tutti gli innumerevoli colpi di Stato che avrebbero travagliato l’America Latina (persino gli orrendi gorilla argentini ebbero una sia pur imbarazzata quota di solidarietà internazionale quando la Thatcher l’«imperialista» mosse loro guerra per riconquistare non le «Malvinas», ma le «Falklands»), le reazioni italiane al colpo di Stato in Cile segnarono uno spartiacque profondo e incolmabile. Già nelle piazze si avvertiva qualche stridore, soffocato solo in parte dall’appello al popolo che unito «jamás será vencido», quando la sinistra «extra-parlamentare» rispondeva con un arcigno «Cile rosso» nei cortei dove i «revisionisti del Pci» si gridava «Cile libero». Ma c’era anche la campagna «Armi al Mir», si inneggiava al «Movimiento de Izquierda Revolucionaria», fautore della lotta armata, la componente più radicale e insurrezionalista dell’arcipelago che aveva sostenuto Allende, anche se con scontri cruenti con il super-moderato Partito comunista di Luis Corvalán. Si diceva che Allende aveva perso perché troppo «poco rivoluzionario», perché non aveva saputo dare il colpo di grazia alle forze «reazionarie» (a cominciare dalla Democrazia cristiana cilena), perché non aveva saputo raggiungere tutti gli obiettivi della rivoluzione socialista. Ma questa lettura si scontrò con la lezione, di segno completamente opposto, che ne avrebbe ricavato il segretario del Pci Enrico Berlinguer. E fu proprio infatti a partire dalle «considerazioni sul Cile» che il leader comunista propose la sua strategia del «compromesso storico».
Oggi si tende a ricordare molto di più il Berlinguer della «questione morale» di quello del «compromesso storico». E se in quegli anni fosse prevalsa la regressione culturale in cui piomberà più tardi l’odierna Seconda Repubblica, quella proposta sarebbe stata liquidata come un intollerabile «inciucio». Il terrorismo rosso fu più feroce e sbrigativo e lo definì piuttosto un «tradimento» da lavare con il sangue della lotta armata, ma dietro la riflessione berlingueriana traspariva una vena critica molto severa nei confronti di Allende e della sua Unidad Popular. Berlinguer sostenne infatti in quelle note che non si sarebbe potuto governare con «il 51 per cento», con una maggioranza risicata: giustamente le forze liberaldemocratiche e socialiste in Italia replicarono che invece sì, nelle democrazie si governa quando di conquista la maggioranza, non l’unanimità soffocante e monocromatica. Ma il bersaglio polemico di Berlinguer, certo mimetizzato dallo sgomento per le nefandezze della giunta golpista, era soprattutto la pretesa accarezzata dall’Allende al governo di imporre il socialismo con poco più del 30 per cento dei consensi. Era la linea estremista imboccata dal suo governo, anche sotto l’effetto delle spinte oltranziste dei socialisti di Altamirano, e che aveva portato a genuine sollevazioni popolari causate da una scatenata politica di espropri. L’idea di Berlinguer, ancora oggi confermata, malgrado le innumerevoli svolte della storia, è che è suicida per la sinistra governare «contro» la parte maggioritaria della società, che non si deve umiliare per dottrinarismo ideologico interi gruppi sociali, mortificare l’economia e il mercato, punire quella fetta consistente di opinione pubblica che non ha voluto dare il suo consenso alla sinistra stessa. L’idea era che non si potesse governare «contro le masse popolari cattoliche». Un’idea che si sarebbe realizzata molti anni dopo, quando le forze democratiche si unirono per condurre insieme la battaglia referendaria che avrebbe messo fine alla dittatura di Pinochet e restituito il Cile alla democrazia. Difesa non dai fucili della «lotta armata», ma dal consenso popolare. Dal consenso del «pueblo» reale, non quello immaginario.

Corriere 10.9.13
Il discorso amoroso scende in piazza
Da Reale a Bauman: lezioni, spettacoli e incontri nel segno di Platone
di Roberta Scorranese


L'amore ha un passato difficilmente prevedibile. Può scaturire da una tensione tra avere e non avere, come aveva intuito Platone (per il quale Eros era figlio di Astuzia e Povertà); può dilaniarsi in un conflitto di squisita natura proustiana, in cui si desidera non quello che è ma quello che si vorrebbe che fosse; può morire in uno sguardo di troppo, come nel mito di Amore e Psiche. Ecco perché il Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo (13-15 settembre, promosso dal Consorzio per il festivalfilosofia) intitola la sua 13esima edizione non all'amore, bensì all'«amare». Perché l'atto amoroso non si declina mai allo stesso modo.
«Tema rischiosissimo, lo sappiamo — commenta il direttore scientifico, Michelina Borsari —: basta poco per banalizzare. Ma, al contrario, questo è un tema complicato, poiché sfiora i lati più nascosti della nostra vita». E si lascia costantemente modificare da essa. Il discorso amoroso di barthesiana memoria, dunque, ha bisogno di un continuo aggiornamento: la crisi e la precarietà modificano le relazioni, un mondo che è sempre in versione «upload e download» — carica e scarica, prova e dimentica — porta a quello che il sociologo Zygmunt Bauman (a Carpi, sabato) definisce «amore liquido». Così il Festival sceglie approcci diversi: da quello analitico, con oltre 50 lezioni magistrali (Enzo Bianchi, Cacciari, de Monticelli, per fare alcuni nomi) a quello evocativo, con una trentina di mostre (interessante quella sull'agape contemporanea, con opere di Nitsch e Beuys tra gli altri) serate culinarie e spettacoli. C'è la musica, con le canzoni di Vecchioni e Capossela e le parole di un analista dei sentimenti: Giulio Rapetti, in arte Mogol. Mogol che nel 1969, insieme a Lucio Battisti, scriveva: «Mi ritorni in mente/ dolce come mai/ come non sei tu». Non sei tu: parole che centrano l'arteria vitale dell'amore, quella specie di aura mitologica della quale rivestiamo la persona amata, immaginandola come noi vorremmo, caricandola di significati. Proust ne ha fatto un gioiello della narrativa primo novecentesca, libro che compie cent'anni: Un amore di Swann, parte centrale del primo libro della Recherche. «Vedete — continua Borsari — non è facile parlar d'amore. Non basta la competenza nello scegliere i relatori o gli ospiti: occorre soprattutto un pubblico che si fidi».
Fiducia. Non è solo l'invisibile filo che lega (e separa, in un equilibrio instabile) gli amanti, ma anche un giusto approccio al tema. Dovranno aver fiducia quelli che si accosteranno alla lezione di Michel Maffesoli, incentrata sulla «prospettiva dionisiaca»; o quelli che ascolteranno Nicla Vassallo discutere dell'incerta corrispondenza tra sesso e genere. Bisogna avere fiducia per lasciarsi trasportare dalla bellezza incomprensibile eppure palpabile del Cantico dei Cantici (ne parlerà il priore di Bose, Enzo Bianchi) o da quella dolorosa, penitente, delle Confessioni di sant'Agostino (tema che verrà interpretato da Remo Bodei). «Siamo cresciuti insieme al nostro pubblico, dal 2001 a oggi — prosegue il direttore — e abbiamo imparato a modellarci con esso. Certi incontri sono nati da una precisa richiesta. Come le lezioni sui Classici: abbiamo visto che chi ci segue non è solo curioso, ma ha davvero voglia di conoscere temi complessi».
Ecco allora che si offre l'occasione per rispolverare Lacan e il suo celebre Seminario (lezione di Massimo Recalcati); per riprendere in mano la Storia della Sessualità di Michel Foucault. Oppure per conoscere un piccolo gioiello come la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, mirabile analisi dell'empatia. E poche cose sono moderne come la capacità di entrare in contatto con gli altri, «compatire» e «congioire», in un mondo ormai quasi del tutto costruito sulla (involontaria?) fiducia reciproca: chi investe in Borsa scommette su qualcun altro, chi mette online la propria privacy si affida agli altri e così via. Sembra incredibile, ma questo presente è sempre più fondato sull'eterocrazia. Imparare a conoscerlo attraverso l'amore non è una prospettiva sbagliata.

Corriere 10.9.13
Eros. Perché la grande utopia emozionale è diventata un'ossessione da curare
L'età (e i dolori) dell'abbondanza
di Eva Illuoz


La forma sociale assunta dalla relazione amorosa moderna ha come tratto essenziale la figura della scelta, sessuale ed emozionale. Se nel passato l'amore veniva concepito come un «evento», ora si concepisce nella modalità della scelta. La questione della scelta amorosa diviene particolarmente insistente con l'avvento della modernità poiché è proprio attraverso di essa che si forma uno degli assi costitutivi dell'individuo moderno tanto nella sfera della politica (il voto), che in quello dell'economia (il comportamento dell'attore economico razionale che sa scegliere in funzione di preferenze debitamente e correttamente gerarchizzate), del consumo (scegliere in funzione dei propri gusti e interessi economici) e infine e soprattutto nella sfera emozionale (le relazioni sociali in generale sono concepite come relazioni definite da affinità elettive). La scelta è dunque una dimensione fondamentale del soggetto moderno. Mentre la sociologia si è tradizionalmente occupata di variabili come la classe, lo spazio o l'età per comprendere i vincoli che gravano sulle decisioni delle persone, io propongo di spostare leggermente l'asse di questa ottica: non sono interessata alle tradizionali variabili sociologiche che impattano sulla scelta, ma piuttosto al fatto che l'amore stesso venga concepito in termini di scelta e che le modalità e la struttura di questa scelta siano soggette a cambiamento.
I cambiamenti nell'ecologia e nell'architettura della scelta possono essere descritti nei termini di una «grande trasformazione» della relazione amorosa. La Grande Trasformazione, lo ricordo, è il titolo che lo storico Karl Polanyi ha dato al processo attraverso il quale il capitalismo ha sganciato le relazioni economiche dalle comunità. Si tratta del medesimo processo che vediamo all'opera nell'incontro amoroso e che ha per effetto di strutturare le relazioni amorose su un mercato degli incontri, privo di regolazione normativa e intensamente competitivo, dove si sono moltiplicate sia le scale di valutazione, sia le possibili finalità di incontro.
Queste trasformazioni delle modalità della scelta amorosa hanno avuto un impatto profondo sull'esperienza amorosa e più precisamente sulla sofferenza d'amore. Certo, le relazioni amorose sono sempre state fonte di sofferenza, ma si è convenuto di chiedersi se la trasformazione delle modalità di scelta non abbia comportato anche una trasformazione dell'esperienza stessa della sofferenza amorosa. Si possono articolare due aspetti di queste nuove forme della sofferenza.
La deregulation degli incontri e lo stato generalizzato di competizione hanno come effetto di accentuare l'incertezza che grava sul valore del soggetto amoroso. C'è una differenza fondamentale tra le società in cui lo statuto e la posizione sociale sono conosciuti in anticipo e sono relativamente non negoziabili e quelle in cui l'identità sociale è tutta da costruire. Nel primo caso l'identità è inscritta nella posizione sociale e la vita psichica, interiore, è uniformata a questa identità e a questo statuto. Si appare quel che si è, e si è come si appare. Ma la modernità ha condotto a una separazione tra lo statuto sociale e il rapporto con se stessi, tra posizione sociale e identità. Ciò significa che quel che si dice «senso del proprio valore» diventa instabile, negoziabile, tutto da provare e da acquisire. In tale contesto, la relazione amorosa diviene portatrice di quella che Anthony Giddens chiama «sicurezza ontologica»: essere amato, nella modernità, diventa un vettore di valore sociale. Essere amato e amare significa arrestare la competizione, essere stato eletto, scelto fra altri. La relazione amorosa può dunque colmare il deficit di riconoscimento che segna in modo cronico e strutturale uomini e donne. Ma come mostro in Perché l'amore fa soffrire (il Mulino, 2013) anche qui gli uomini e le donne non hanno la medesima posizione: gli uomini affrontano la relazione amorosa con minori aspettative di riconoscimento. È la sfera pubblica — più marcatamente maschile che femminile — a conferire loro il senso del proprio valore sociale e quindi una capacità di distacco dalla funzione di riparazione sociale che la relazione amorosa riveste invece per le donne.
Un secondo effetto della nuova struttura della scelta ha a che fare con quello che potremmo chiamare il cedimento dei meccanismi tradizionali della volontà: è la volontà stessa, la capacità di impegnarsi, a diventare un problema. Le trasformazioni nella modalità della scelta fanno sì che la deregulation morale del matrimonio e lo squilibrio economico tra uomini e donne producano asimmetrie tra donne e uomini, i quali controllano meglio i termini dell'incontro, sessuale o romantico che sia.
In Occidente, la passione amorosa ha coinciso con l'affermazione di una forma particolare di individuo, cosciente della propria singolarità e attento a gestire la singolarità di un altro. Mentre in India o in Cina l'amore è strutturato da ed entro un quadro religioso, in Occidente l'amore è stato un grande vettore di individualizzazione. È attraverso l'amore che il progetto dell'individuo prende senso e assume un valore morale. L'Occidente amoroso giustifica le rivendicazioni del singolo alla propria individualità attraverso la forza di una passione per definizione non istituzionale. Ci si può chiedere se quanto costituiva la forza morale dell'amore non sia ormai messo in discussione dalla moltiplicazione delle scelte amorose. Quando l'individuo si trova in situazione di abbondanza sessuale, è il fondamento stesso dell'individuo moderno che si trasforma e va fuori regola. La relazione con il proprio desiderio cambia: non si vive più nella chiarezza delle sue mire imperiose, ma nella confusione, nella moltiplicazione, nell'ambivalenza. Il desiderio non è più animato dal principio di rarità e, di fronte a una situazione permanente di abbondanza, il suo meccanismo si inceppa. Come si ama quando si ha la sensazione che un candidato migliore può sbucare da un momento all'altro, quando i campionari della scelta si allargano, quando la longevità fa sì che si rimanga sul mercato sessuale fino ad età avanzata? L'amore pre-moderno — proprio perché era l'affermazione di un punto di vista morale — aveva la forza di mettere in discussione le norme e le regole che lo limitavano. Ma ora, ad essere messo in discussione è proprio il fatto che l'amore sia una forza morale. L'amore ha giocato il ruolo di grande utopia emozionale nei secoli di gestazione della figura dell'individuo. Ormai, esso è divenuto un problema, preso in carico dalle istituzioni terapeutiche. Se l'amore è diventato un'ossessione culturale e psicologica, è perché è fatto a immagine e somiglianza della società che gli ha dato origine, l'esperienza emozionale e sessuale per eccellenza dell'abbondanza, dell'accumulazione e della scelta.

Corriere 10.9.13
Altro che scelta. Non c'è niente di più irrazionale
di Paolo Di Stefano


Alla teoria della scelta si potrebbe obiettare che non si conosce in natura niente di più irrazionale della passione: alzi la mano colui il quale (colei la quale) abbia «scelto» lucidamente, dopo un incontro (già in sé casuale), di mettere in moto la propria chimica erotica o sentimentale. Ma si può anche obiettare elencando i crescenti femminicidi. Sono i casi in cui il concetto di «scelta» si accende di una contraddizione esplosiva, come se dentro la modernità agissero ancora qua e là (ma purtroppo non di rado) residui arcaici tipicamente maschilisti che impediscono di cogliere la necessità di una condivisione. L'amore non consente unilateralità: io «scelgo» di amare, ma se il mio amore non è ricambiato? «L'amore è un desiderio irresistibile di essere irresistibilmente desiderati», diceva il poeta Robert Frost. Il «desiderio di essere desiderati», se assume forme patologiche, si può anche definire narcisismo, che è una delle malattie del nostro tempo. Certo, si potrà replicare che è difficile annoverare nella categoria dell'Amore i moventi che spingono tanti uomini a uccidere le loro fidanzate, mogli o ex mogli. In realtà è la ferita provocata dal non essere ricambiati che capovolge l'amore in odio. «L'odio — ha scritto Graham Greene — è soltanto un difetto dell'immaginazione». Il difetto frequente è nel non riuscire a immaginare che l'altro non abbia scelto di amare te come tu ami (ameresti) lui o lei. Il difetto, forse, è pensare che l'amore sia una scelta.

Corriere 10.9.13
Tra sensualità e sublimazione L'onnipresenza di Cupido indispensabile «dio minore»
di Francesca Bonazzoli


«Dardi d'amore», la piccola mostra allestita a latere del Festivalfilosofia, presenta una selezione di arte barocca emiliana — dipinti, grafiche, maioliche, sculture e volumi illustrati — che ha per soggetto Cupido e le vicende amorose dei personaggi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.
Le opere sono tutte testimonianze di un interesse per il tema amoroso cominciato molto tempo prima, nell'Accademia Platonica di Firenze animata da Marsilio Ficino (1433-1499) che riuniva praticanti di un culto quasi religioso per Platone. Nel primo quarto del XVI secolo la teoria platonica dell'Amore sviluppata da quel cenacolo si era già così diffusa che veniva orami volgarizzata attraverso un gran numero di libri e commenti ed era oggetto di ogni discussione alla moda nonché fonte di ispirazione per artisti e poeti. Scrive Erwin Panofsky in uno studio dedicato proprio al movimento neoplatonico: «Quella che era stata una filosofia esoterica divenne un tipo di gioco sociale, così che "infine i cortigiani ritennero parte indispensabile del proprio tirocinio conoscere quante e quali specie d'amore esistessero", per citare l'osservazione caustica di un filologo cinquecentesco».
A diffondere la moda neoplatonica contribuirono anche i numerosi repertori, stampati fra Cinquecento e Settecento, che offrivano agli artisti modelli per le raffigurazioni delle divinità pagane. Nelle pagine di tali «dizionari di iconografia», come quello presente in mostra, stampato a Venezia nel 1587 e compilato da Vincenzo Cartari, Cupido è presentato nelle sue numerose varianti: Eros che incorda l'arco; Eros dormiente, bendato, con la fiaccola accesa, con in mano fulmini o accanto a un favo di api e così via.
Non solo: pur essendo una delle figure minori del Pantheon greco e romano, Cupido fu molto rappresentato anche come presenza simbolica cioè in dipinti dove non aveva alcuna parte, ma con il solo scopo di indicare che la vicenda era di carattere amoroso, come si vede nella tela «Armida tenta di uccidere Rinaldo addormentato» di Marcantonio Franceschini. Qui il pittore bolognese inserisce infatti nella scena dei deliziosi piccoli Erotes, del tutto assenti nel racconto tassesco.
Proprio nell'arte barocca e rococò Cupido era tornato ad essere un putto, alato e grassoccio, come nell'antichità, mentre l'arte rinascimentale aveva preferito rappresentarlo come un fanciullo efebico. I suoi attributi più frequenti sono l'arco, la freccia e la faretra, le armi con cui colpisce e procura le ferite, che possono essergli sottratte da Diana e le sue ninfe, guardiane della castità, come nel delizioso quadro di Lorenzo Pasinelli. Ma mentre nell'arte classica non era mai stato cieco, nel Medio Evo Cupido cominciò a comparire anche bendato, con un'accezione negativa, col significato che Amore priva gli uomini del buon senso e della saggezza. Era insomma un riferimento all'oscurità associata al peccato.
Così anche una torcia spenta e capovolta, retta da un Cupido eventualmente dormiente, come nel dipinto di Guido Reni, simboleggia la caducità dei piaceri terreni. Quando invece Cupido era rappresentato con in mano il globo terrestre, si voleva indicare il carattere universale dell'Amore.
Nel gruppo marmoreo dell'allievo del Bernini, Ercole Antonio Raggi, invece due piccoli Cupido scolpiti litigano fra loro: si tratta di una rappresentazione dell'Amor sacro e dell'Amor profano, rielaborazione barocca degli antichi Eros e Anteros. Il mito raccontava che Venere, preoccupata perché il figlio non cresceva abbastanza, gli diede un fratello che avrebbe potuto aiutarlo. Anteros, per gli antichi, era dunque simbolo dell'amore reciproco, che cresce perché ricambiato. Ma gli umanisti platonici interpretarono la preposizione greca anti come «contro» anziché «in cambio di» trasformando così il dio dell'Amore reciproco in una personificazione della purezza dell'amore divino contro la passione sensuale.
Le immagini, dunque, potevano anche essere codificate in repertori e canoni iconografici, ma il loro significato cambiava e si modificava nei secoli.

Repubblica 10.9.13
Governare il mondo
Intervista allo storico che spiega la crisi delle organizzazioni internazionali tra populismi e fine dell’egemonia americana
Mazower: “Così tramonta un’utopia democratica”
di Lucio Caracciolo


Governare il mondo è la suprema utopia geopolitica. Alla storia di questa idea, alla sua concreta dialettica con il potere nelle sue variabili forme, è dedicata l’ultima fondamentale opera di Mark Mazower (Governing the World,New York 2012, Penguin Press), storico britannico noto anche in Italia per i suoi studi sull’Europa del Novecento (Le ombre dell’Europa, Garzanti).
Mazower analizza i tentativi di dare un ordine al mondo sia attraverso le intese fra le potenze sia stabilendo degli standard e delle organizzazioni internazionali – dalla Società delle Nazioni alle Nazioni Unite. Per scoprire che, alla fine, le grandi burocrazie internazionali diventano fini a se stesse, sicché la loro efficacia dipende dall’intesa fra le maggiori potenze, oggi più ardua che mai. Una lezione che la guerra di Siriasembra finora confermare.
Il suo libro Governing the World si conclude con una frase: “L’idea di governare il mondo sta diventando il sogno di ieri”. Può spiegarla?
«Noi abbiamo perso la fede nelle istituzioni e nella loro capacità di plasmare il futuro e di indirizzare la vita quotidiana. Proprio questa fede aveva permesso alle generazioni passate di costruire e tenere in piedi istituti di governo sia nazionali che internazionali. Oggi il loro posto può essere preso dai mercati, dalla Rete o da altre forme di relazioni tra gli umani, o almeno così sperano gli ottimisti. Ma non mi sembra che ne abbiano le potenzialità: nel migliore dei casi, possono essere sostituite da una sorta di expertise manageriale e tecnica».
A che punto è l’utopia dell’integrazione del nostro continente?
«Ha preso una brutta piega. Ai suoi albori, il processo d’integrazione ha conseguito risultati straordinari, contribuendo a rendere la guerra nel continente un’opzione quasi inimmaginabile. All’inizio degli anni Cinquanta del Novecento ha pure aiutato a rendere prosperi i paesi europei e a rigenerare la fiducia nella democrazia».
O a inventarla là dove non esisteva, come in Italia…
«Di certo, dalla seconda guerra mondiale la democrazia è uscita molto diversa, più popolare e accettata. Tuttavia, questo quadro roseo è stato intaccato dal progetto della valuta comune. Tra gli anni Ottanta e Novanta, gli europei e gli americani erano ammaliati dal verbo della finanziarizzazione dell’economia mondiale, all’epoca ritenuta il futuro. Così hanno ridotto ai minimi storici il controllo sul capitale. Ma la nuova utopia della globalizzazione, specialmente nella sua piega finanziaria, si è rivelata un calice avvelenato. In questo contesto rientra l’architettura dell’unione monetaria: all’epoca non c’è stato sufficiente dibattito sulla sua rigidità e sulla questione della crescita. Tutti a Bruxelles – e a Berlino – dovrebbero essersi ormai resi conto che, se la rotta non dovesse cambiare, l’euro rischia di sconquassare l’intero progetto europeo».
Quanto alle altre potenze mondiali, l’America continua a pensare in termini universali?
«Continua a credere di essere in possesso del messaggio per il mondo e per questo si pensa ancora intrinsecamente come la nazione eccezionale. La fiducia in se stessa della scienza sociale, in particolar modo dell’economia, è stata nonostante tutto intaccata e il dibattito accademico sulle lezioni da apprendere non si traduce in nuovi consigli pratici.
Eppure un dibattito sul mondo postamericano esiste.
«Riguarda più che altro la disillusione sulla promozione della democrazia liberale, riflesso dell’ansia di veder ridotta la capacità americana di farsi ascoltare all’estero. I più attivi sono commentatori come Fareed Zakaria o istituti come il Council on Foreign Relations che pressano l’amministrazione Obama per sostenere l’espansione della democrazia ma in modo più scaltro rispetto al passato – come se il problema fosse che lo si era fatto in modo stupido».
Quando parlano di democrazia universale gli americani hanno in mente la propria?
«Sì, vorrebbero veder replicata la loro versione, eccezion fatta per i lobbisti e per gli incredibili bisticci tra i decisori. Manca l’idea che la democrazia sia un patto sociale, non una mera tecnica di governo. Un processo storico, non unmodello astratto da applicare».
L’idea di governare il mondo implica che si creda nel concetto di sovranità. Al di là del fatto che non per tutti la sovranità abbia lo stesso significato, possono esistere sovrani internazionali?
«Il grande errore non sta nel ritenere che siano le nazioni i sovrani più appropriati ma che questo fattore sia un ostacolo per l’emersione di una sovranità internazionale. Storicamente, le architetture internazionali di successo erano quelle che riconoscevano la tenacia delle istituzioni nazionali e con esse lavoravano. L’Unione Europea ne è una prova lampante, in quanto i suoi ideatori erano degli statisti. Anche gli attuali pessimi sondaggi d’opinione in Europa suggeriscono questa correlazione: la gente perde fiducia in Bruxelles quando perde fiducia anche nei confronti delleproprie élite nazionali».
È possibile una democrazia internazionale?
«Alcuni teorici asseriscono la necessità di dissolvere ogni organizzazione nazionale o di creare un unico parlamento mondiale. Un progetto del tutto campato in aria, anche perché non c’è nessuna prova che qualcuno sia interessato. Al momento la gente non ha più fiducia nemmeno nel proprio parlamento, figurarsi in uno sovranazionale».
Quindi questa crisi delle istituzioni altro non è che una crisi della politica?
«Esatto, il problema è che nessuno crede più al carattere politico delle istituzioni, a cominciare dai politici stessi. Sembra che tutto debba essere depoliticizzato, che tutto debba risolversi in una mera questione di tecnicismi».
La tecnocrazia, appunto. Se nessuno crede più nella democrazia, si può immaginare la distopia di un governo tecnocraticomondiale?
«La gente comune dà ancora importanza all’appartenenza a un’ideale comunità politica. Paradossalmente sono proprio i politici ad aver perso fiducia nel concetto di politica. Anche perché la tecnocrazia rimuove il problema per i politici della ricerca del consenso. E sono sempre loro a farsi persuadere di essere costretti dai tempi a lasciare prerogative ai mercati o alle istituzioni finanziarie. Forse dovremmo osservare con maggiore attenzione chi decide di diventare un politico, la sua conoscenzadel mondo e il grado di consapevolezza di essere l’origine del problema».
Se questa nuova crisi europea scatenata dalla moneta comune continuerà, quale ne sarà il risultato in termini geopolitici?
«L’abbassamento delle barriere contro gli estremismi. L’Europa diventerà ideologicamente molto più incerta, instabile e indifesa. Basta guardare in Grecia: quando un partito compie gesti di violenza, fisica e verbale, il suo apprezzamento non scende, si mantiene. Come quello di Alba dorata, da mesi salda al 13%, terzo partito nazionale. Incidenti come quello del deputato che tenta di picchiare il sindaco di Atene sembrano giovare all’immagine del partito. Avremo sempre più partiti come questo. Anche in Germania. A quel punto, cominceremo a preoccuparci davvero».

La Stampa 9.10.13
Amsterdam, svelato un «nuovo» quadro di Van Gogh


Per la prima volta dal 1928 è stato scoperto un nuovo quadro di Vincent Van Gogh. Si intitola Tramonto a Montmajour e la sua attribuzione è stata annunciata dal museo di Van Gogh di Amsterdam, dopo tre anni di indagini condotte da due esperti che hanno esaminato la tecnica, la tela, lo stile e tutti gli indizi disponibili, comprese alcune lettere del pittore. Il quadro (nella foto) era stato scovato in una collezione privata in Norvegia. Rappresenta un paesaggio con alberi e arbusti della Provenza ed è datato 1888, il periodo di Arles di grande creatività in cui l’artista dipinse I girasoli . Tramonto a Montmajour misura 93,3 per 73,3 centimetri e sarà esposto nel museo Van Gogh a partire dal 24 settembre. Per il direttore del Van Gogh, Axel Ruger, «una scoperta di simile splendore non era mai accaduta nella storia del museo». «È una rarità che si possa aggiungere un nuovo dipinto all’opera di Van Gogh», ha spiegato, «ma è ancora più eccezionale il fatto che si tratti di un lavoro di transizione e di un dipinto “a grandezza intera” di quando l’artista era al culmine della carriera».