mercoledì 11 settembre 2013

il Fatto 11.9.13
Agli ordini del Colle
di Antonio Padellaro


Atteso, puntuale il monito dell’uomo del Colle sui “pilastri della convivenza nazionale” da “tenere fermi e consolidare” ha dato la linea ai pd della Giunta del Senato: prendere tempo e perderlo meglio ancora. Con il beneplacito del presidente ‘de sinistra’ Stefàno (Sel), le larghe intese hanno dunque accantonato ogni proposito di votare subito la decadenza di Berlusconi pensando bene di dedicarsi alla più rilassante pratica dei preliminari che si preannunciano lunghi e approfonditi. È vero che solo gli ingenui potevano pensare a una rapida e indolore applicazione della legge Severino nei confronti del condannato per frode fiscale, ma l’intervento di Napolitano lascia francamente sconcertati, pur se scaturito dalla esigenza di tenere in piedi il governo Letta. A questo punto, infatti, c’è da domandarsi se ai 23 membri della Giunta se ne sia aggiunto un ventiquattresimo che conta più di tutti gli altri messi insieme. I berluscones hanno ragione a esultare poiché ieri sera il loro padrone ha dimostrato ancora una volta la forza del suo potere ricattatorio. Quante altre interferenze dobbiamo aspettarci prima che la legge possa essere finalmente rispettata?

il Fatto 11.9.13
Bagarre a Montecitorio sulla controriforma dell’art. 138
Il primo colpo alla Carta. Sì della Camera alla riforma P2
L’aula approva il Ddl costituzionale, contrari solo M5S e Sel
Il testo ora torna al Senato per la seconda lettura: la maggioranza vuole chiudere in tre mesi
di Luca De Carolis

  
Primo colpo alla Carta, nell’aula arroventata. Come previsto, ieri pomeriggio la Camera ha approvato in prima lettura il ddl costituzionale 813, che stravolge l’articolo 138 e istituisce un comitato di 42 parlamentari che potrà riscrivere quasi metà della Carta. In un clima da corrida, con Cinque Stelle a protestare con manifesti, mani alzate e interventi al vetriolo, e tanto Pdl a sbraitare e (in qualche caso) a minacciare, il conto finale è di 397 sì, 132 contrari e 5 astenuti. Ha stravinto la maggioranza che vuole la riforma semi presidenziali-sta, larghissima: dal trio di governo Pd, Pdl e Scelta Civica sino a Lega Nord e Fratelli d’Italia. Tenacemente contro, solo M5S e Sel.
MA LA PARTITA non è ancora chiusa, perché come ogni legge costituzionale il ddl 813 dovrà essere nuovamente approvato dalle due Camere. Terminata la prima lettura, ora il testo ripartirà dal Senato, per poi tornare a Montecitorio. L’obiettivo della maggioranza è arrivare al sì definitivo appena possibile, ossia entro fine dicembre (dalle 2 letture devono trascorrere almeno 3 mesi). Obiettivo alla portata, visto la fretta con cui hanno chiuso la prima fase (il sì della Camera è arrivato in luglio).
Va di corsa anche la commissione dei saggi, che dovrà consegnare al Parlamento una relazione con proposte per la riforma prossima ventura. Proprio ieri, il “saggio” Violante ha fatto sapere: “Chiuderemo i lavori entro la fine di questa settimana, con un mese di anticipo”.
Non casuale, probabilmente, che l’abbia detto nel giorno del via libera al ddl. Per di più, poche ore prima della seduta della giunta delle elezioni sul caso Berlusconi, su cui Violante si era schierato con il suo presunto lodo pro-B. Quel che conta però resta il primo sì a un testo che dimezza i tempi dell’articolo 138, la “valvola di sicurezza” della Carta, riducendo da 3 mesi a 45 giorni l’intervallo tra le due letture delle Camere sulle leggi costituzionali. Una deroga, precisa il ddl. Ma un precedente pericoloso. Di certo, uno “sconto” più che utile alla maggioranza. Il testo prevede (ma non impone) di varare la riforma entro 18 mesi dall’entrata in vigore del ddl. Ossia, almeno entro metà del 2015. Calcoli ancora ipotetici, a fronte di rischi concreti. Come quello di affidare a 42 parlamentari (20 deputati e 20 senatori, più i presidenti delle commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato) il compito di riscrivere i titoli I, II, III e V della seconda parte della Carta: Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Regione, Province e Comuni. Il successivo iter in Parlamento potrebbe solo limitare i danni (eventuali). Ma la maggioranza è andata dritta ugualmente.
Il motivo lo ha riassunto Gennaro Migliore (Sel): “Il comitato dei 42 serve a tenere insieme dei dissensi che sono emersi in maniera strisciante, eppure sarebbe doveroso dire che la materia di riforma costituzionale non è materia di governo”. Duro Antonio Ingroia (Azione Civile): “Il Pd è complice dello stravolgimento della Carta e spiana la strada a una revisione in senso presidenzialista, esattamente il piano piduista di Licio Gelli”.

il Fatto 11.9.13
5Stelle: “Il Pd è peggio del Pdl”, Boldrini: “Non offendete”


A ddl costituzionale appena approvato, il 5Stelle Di Battista punge: “Il Pd è peggio del Pdl”. E la presidente della Camera Boldrini interviene: “Non offenda”. Il senso di una giornata, di un governo e forse di una stagione politica si rintraccia in questo scambio di battute, con la terza carica dello Stato che, complice la tensione, commette l’autogol: ritenere un’offesa essere peggio del Pdl. Vale un sorriso a margine di un isterico pomeriggio, finito poco dopo le 16 con la sospensione dei lavori nell’aula che era tutto un insulto. La miccia è stato (anche) Di Battista, che all’aula ha mostrato il segno delle manette. Ed è stato caos, con i grillini a sorridere ironici (e a mostrare ancora manette metaforiche), e mezzo Pdl a riversargli contro parolacce e insulti in serie. Il Pd ha talvolta applaudito gli alleati. Solo per un pelo non è degenerato tutto in rissa.
LA CRONACA dalla Camera impazzita parte dal voto del ddl, con i grillini che alzano i manifesti “No alla deroga 138”. I commessi accorrono, li tolgono, il resto dell’aula rumoreggia. I 5Stelle non mollano, alzano le mani con la scritta anti-riforma. Il renziano Roberto Giachetti, che pure ha fama di dialogante con i grillini, ironizza con un tweet: “M5S fa braccia alzate come al-l’asilo”. Il ddl passa. È il turno degli interventi dei parlamentari. La parola va ad Alessandro Di Battista, 34 anni, romano, giornalista. Era uno dei 12 saliti sul tetto di Montecitorio, venerdì scorso. Afferma: “Siamo andati contro il regolamento, salendo sul tetto. Però il male dell’Italia oggi è l’ipocrisia. Quando noi sosteniamo che il Pd è uguale al Pdl non è vero, ci siamo sbagliati. Il Pd è peggio del Pdl”. Boldrini è fulminea: “Non offenda”. Di Battista continua: “Puniteci, sanzionateci se ce lo meritiamo, ma prima sbattete fuori dalle istituzioni i ladri che rappresentano il Popolo della libertà”. E la presidente: “Basta, lei non può usare toni offensivi”. Il clima si fa incandescente. Simone Baldelli, vicecapogruppo Pdl, noto per la bravura nelle imitazioni, se la prende con la Boldrini: “Questo non è un asilo infantile, l’aula va presieduta con serietà e fermezza”. Attorno ai grillini si fa ressa. Giulia Di Vita twitta in diretta: “Antonio Leone del Pdl ci dà dei pezzi di merda”. Di certo Leone urla parecchio. In serata replicherà: “Da M5S solo calunnie, Boldrini intervenga”. La Camera è ormai un catino di rabbia.
SI VEDONO parlamentari fermati a braccia dai commessi, mentre inveiscono contro i 5Stelle. In un video sul blog di Grillo, si ascoltano i seguenti epiteti: “Stronzo, pezzo di merda, coglione”. C’è chi propone: “Venite fuori”. Angelo Cera dell’Udc viene fermato da Rocco Buttiglione, prima di andare alla battaglia. In una nota precisa: “Non ho partecipato ad alcuna rissaverbale, ho solo risposto alle proditorie e irresponsabili provocazioni provenienti dai banchi dei Cinque stelle”. Contro i grillini arriva l’ironia del fuoriuscito Adriano Zaccagnini, ora nel Gruppo Misto: “Quest’aula è diventata uno stadio, M5S fa qui quello che non sa fare in piazza”. Roberta Lombardi risponde via Twitter: “Zaccagnini applaudito in massa dal Pd, mo’ gli facciamo un fiocchetto e glielo regaliamo”. Boldrini sospende la seduta: “Così non si può andare avanti, convoco la capigruppo”. La Camera riprenderà i lavori questa mattina. “Non è dando spettacolo che si rinsalda il prestigio delle istituzioni” si lamenta la presidente con i capigruppo. In serata, Boldrini convoca i 12 grillini saliti sul tetto per l’ufficio di presidenza di domani, che deciderà eventuali sanzioni. Probabilmente gli chiederanno i danni, possibile una sospensione. Di Battista è comunque sereno: “Ho fatto in modo che il Pd applaudisse il Pdl, meglio di così... ”.
ldc

il Fatto 11.9.13
Elisabetta Gualmini, Presidente del Cattaneo
Il Pd non può lasciare a M5S la battaglia sulla decadenza
di Wanda Marra


Il Pd è in una sorta di vicolo cieco. La legge impone una scelta e i Democratici non possono che prenderne atto, votando la decadenza di Berlusconi”. Elisabetta Gualmini, presidente dell’Istituto Cattaneo, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna, parla da un osservatorio privilegiato. E spiega: “L’elettorato è molto mobile, volatile. Non esistono più i criteri di fedeltà di una volta, per cui si tende a votare sempre lo stesso partito”. Uno scenario, dunque, molto poco prevedibile. “I sondaggi, con due partiti senza leader (Berlusconi è praticamente in esilio, e Renzi non è stato ancora eletto) sono del tutto inaffidabili”.
Professoressa, in una situazione come questa una mossa sbagliata sembra particolarmente grave, potenzialmente letale.
Il Pd non può sbagliare. E questa volta sembra averlo capito.
Si va verso un allungamento dei tempi. Non è un errore?
Sì, se i tempi si dilatano troppo, e questo rinvio è solo l’inizio di altre giravolte, si avrebbe subito l’impressione che il Pd sta tergiversando.
I Democratici sentono anche elettoralmente il fiato sul collo dei Cinque Stelle?
Nella Giunta il Movimento sta dicendo che “il re è nudo”. Il Pd non può perdere la faccia di fronte ai grillini. E rispetto alla base a questo punto dovrebbe votare la decadenza di Berlusconi. Di fronte al suo elettorato deve giocare la carta della coerenza.
Che senso ha questo continuo alzare il tiro da parte del Pdl, se poi il 19 ottobre comunque arriva l’interdizione dai pubblici uffici a Berlusconi?
Il Pdl continua a fare minacce sapendo di non poterle mantenere. È un modo per allungare il brodo: non sanno se far saltare il banco, o stare lì senza Berlusconi. Tra l’altro, la questione dell’eccezione di costituzionalità sulla legge Severino non sta in piedi, visto che loro non solo l’hanno votata, ma hanno anche insistito per accelerare.
Il governo quante possibilità ha di resistere?
Premetto che per me la stabilità non può essere un alibi. Sono tre settimane che un giorno sì e un giorno no si dice che il governo deve cadere. È evidente che non viaggia su basi solide, e non è certo in grado in questa situazione di fare le grandi riforme istituzionali. Trovo paradossale anche il fatto che il Pd dica che le vicende giudiziarie di Berlusconi vanno distinte da quelle del governo.
Come si incrocia la situazione del governo con quella del congresso?
Mentre sulla decadenza di Berlusconi il Pd è stranamente compatto, rispetto al congresso le cose sono più complesse. a data ancora non c’è. Nonostante il salto collettivo sul carro del vincitore, Matteo Renzi, assuma fattezze tragicomiche. È abbastanza normale che alcuni vedendo la possibilità di vincere cambino bandiera, ma questi voltafaccia di 360 gradi sono pericolosi per chi li fa e per lo stesso Renzi.
Il congresso alcuni vorrebbero evitarlo.
C’è una parte del partito che spera si arrivi alle elezioni, così si saltano le primarie per la segreteria e si arriva direttamente a quelle per la premiership. Questo sarebbe un boomerang, dopo il risultato elettorale che c’è stato.
Qual è lo scenario che lei vede più probabile?
Il voto subito mi sembra un’ipotesi remota. La possibilità più concreta mi pare - se questo esecutivo cade - un altro governo del Presidente, un governo di scopo, non guidato da Enrico Letta. Napolitano per le larghe intese si è speso moltissimo, non permetterebbe maggioranze diverse. Le urne si aprirebbero in primavera.
E questo converrebbe al Pd e a Renzi?
Questo sarebbe per loro lo scenario migliore: permetterebbe ai Democratici di fare un congresso vero e a Renzi di stabilizzarsi alla guida del partito. Non fare il congresso sarebbe sbagliatissimo.

l’Unità 11.9.13
Buone riforme e manipolazioni
di Stefano Rodotà


Nei giorni in cui si compie il secondo passaggio parlamentare del disegno di legge sulla revisione costituzionale, mi pare opportuno cercar di evitare o dissipare alcuni equivoci. Il primo, e il più vecchio, riguarda la contrapposizione tra conservatori e riformatori. Questa è assai spesso una contrapposizione ambigua.
Che diventa addirittura distorcente quando si parla della Costituzione. Difendere principi e diritti in essa affermati, impedire manomissioni di suoi aspetti essenziali, significa certamente voler «conservare» qualcosa. Che cosa, però? Esattamente quello che costituisce il fondamento stesso della nostra democrazia repubblicana. Nel 1998 la Corte costituzionale ha stabilito che i principi supremi dell’ordinamento costituzionale non possono «essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Una sorta di conservatorismo «obbligato», dunque. In questa direzione, la difesa intransigente della Costituzione non è conservatorismo, ma resistenza necessaria.
Chiarito questo punto essenziale, bisogna considerare un altro tipo di critica, emersa proprio nelle ultime giornate. Si dice, infatti, che l’opposizione al disegno di legge che impone modalità di revisione costituzionale diverse da quelle fissate dall’articolo 138, finisce con l’impedire l’attuazione di riforme necessarie e largamente condivise, quali sono quelle riguardanti la riduzione del numero dei parlamentari e l’abbandono del bicameralismo perfetto. Così ragionando, tuttavia, si sfugge in primo luogo alle argomentate osservazioni dei molti studiosi che hanno messo in evidenza come il ricorso a quella procedura eccezionale, ennesima variazione della pericolosa logica dell’emergenza, sia essa stessa in contrasto con la ragione profonda dell’articolo 138, norma di salvaguardia, garanzia contro le strumentali manomissioni della Costituzione.
È bene sapere, inoltre, che l’opposizione all’attuale pretesa di revisione costituzionale è stata accompagnata dal riconoscimento che, in casi specifici e ben individuati, una «buona manutenzione» di alcune norme della Costituzione sia necessaria. E tra le norme indicate compaiono appunto quelle riguardanti i due casi prima ricordati. Ma questa buona manutenzione può essere effettuata senza stravolgere l’assetto costituzionale in materia di revisione. Già molte volte, e di nuovo in occasione della nascita del governo Letta, si era suggerito di ricorrere a due disegni di legge, sì che Senato e Camera avrebbero potuto lavorare contemporaneamente su riduzione dei parlamentari e bicameralismo perfetto, nei tempi rapidi consentiti dal largo consenso già esistente su quelle riforme e senza bisogno di alterare la procedura di revisione costituzionale. Se fosse stata seguita questa strada, oggi saremmo alla vigilia della seconda lettura di quei disegni di legge, dunque al concreto approdo ad una importante e non traumatica revisione della Costituzione. Non è vero, quindi, che i critici dell’attuale pasticcio costituzionale fossero ignari di questi problemi, dei quali, al contrario, hanno proposto una più rapida e accettabile soluzione.
Perché questo non è avvenuto? Provo ad indicare due possibili ragioni. La prima riguarda una piccola astuzia: mettendo al traino di due riforme condivise altre ipotesi di riforma, assai controverse e persino pericolose, si sarebbe occultata la realtà vera della riforma complessiva, la sua vocazione accentratrice e riduttiva degli equilibri democratici. La seconda è stata rivelata da dichiarazioni di massimi rappresentanti del governo, ed è persino più inquietante. Poiché sono grandi le resistenze parlamentari e burocratiche ad una vera riforma del Senato, l’unico modo per raggiungere l’obiettivo era quello di imporre una procedura costrittiva, grazie alla quale sarebbe stato possibile domare quelle resistenze. Una difficoltà tutta politica, quindi, non viene affrontata attraverso la logica della politica, mettendo a nudo quali siano gli interessi reali che si oppongono alla buona manutenzione. Viene trasferita nel sistema istituzionale, pagando il prezzo di una sua manomissione. Così l’uso strumentale della Costituzione emerge nettamente. E la vera contrapposizione non è quella, fittizia e ingannevole, tra conservatori e innovatori, ma tra chi vuole la buona riforma costituzionale e chi ne persegue la manipolazione.
Al di là di queste ultime considerazioni, mi sembra necessario ricordare alcune questioni più generali. Pd e Pdl, le due forze costitutive dell’attuale maggioranza, sono in questo momento profondamente e platealmente divise proprio dal modo di guardare alla Costituzione, a partire dal tema fondamentale dell’eguaglianza davanti alla legge. Come si può ragionevolmente ritenere che la riforma costituzionale annunciata possa avvenire in condizioni diverse da quelle, miserevoli, che caratterizzano oggi la discussione pubblica su questi temi? E, seconda questione, è davvero possibile invocare l’urgenza di approvare alla Camera in prima lettura il disegno di legge sulla riforma perché così vuole un «cronoprogramma» del governo che non ha più alcuna relazione con la realtà dei fatti? Non perdiamo altro tempo e, invece, lavoriamo insieme per una vera politica costituzionale.

La Stampa 11.9.13
Se la politica abdica non è colpa dei giudici
di Vladimiro Zagrebelsky


Che la magistratura abbia esorbitato dal suo ruolo, assoggettando la politica e impedendole di svolgere il suo, è ormai quasi un luogo comune, che nemmeno deve essere esplicitato, tanto è acquisito. Il corollario è che un potere democraticamente legittimato sarebbe sotto il tallone di un potere burocratico (con tutto il carico negativo che il termine porta con sé in Italia). Crisi della democrazia, quindi, e bisogno di un «riequilibrio». Lo si pretende nell’affanno di casi eclatanti, ma lo si cerca anche in sedi meno occasionali, studiando artifizi legislativi o costituzionali. Disinformazione, ingenuità, cattive intenzioni si mescolano a riflessioni serie, nel commentare un fenomeno che è italiano solo in alcuni aspetti, ma che nel profondo è da tempo caratteristico delle società democratiche occidentali. Il crescente ruolo del potere giudiziario è studiato da decenni, inizialmente in ambito anglosassone. La causa originaria del fenomeno non si trova banalmente nell’arroganza di un giudice o di un pubblico ministero, oppure nelle pretese corporative di un ceto professionale, ma piuttosto nell’indebolirsi strutturale dell’azione politica. I luoghi e le persone della politica mostrano sempre minor capacità di fare ciò che loro in teoria apparterrebbe, effettuando scelte tra programmi e valori diversi, così guidando la vita e l’evoluzione della società. Gli esempi sono infiniti. Per l’Italia è certo l‘intervento della magistratura penale a fornire le maggiori occasioni di tensioni e proteste. Ma quanti processi penali nascono perché, per negligenza o connivenza, i controlli amministrativi, che fanno capo ad autorità politiche, non sono stati attivati preventivamente? L’irruzione della magistratura penale nella vicenda dell’Ilva, con le sue rigidezze, ne è esempio evidente. E le radici di «Mani pulite» con le sue conseguenze, non stanno forse nella massiccia corruzione di partiti e uomini politici, che si espandeva senza contromisure politiche?
Ma ciò di cui stiamo parlando va oltre l’area penale. Basta ricordare la vicenda della legislazione sul fine-vita. Sull’onda della morte di Eluana Englaro, l’orgoglio del nostro Parlamento l’ha spinto addirittura a sollevare davanti alla Corte Costituzionale un conflitto tra poteri dello Stato contro la Cassazione, che, decidendo un ricorso, avrebbe espropriato il legislatore della sua competenza. Cosa ne è seguito? La tesi del Parlamento è stata respinta, il Parlamento dal 2009 a oggi non è stato in grado di approvare una legge e la magistratura intanto dovrà ancora esaminare e decidere i ricorsi che le saranno presentati. Poiché la vita continua e la morte continua a porre problema.
In realtà la politica e il Parlamento, che ne è il luogo massimo, devono prendere atto della difficoltà di operare in società pluralistiche, ove visioni del mondo diverse si contrappongono legittimamente, interessi di gruppi si confrontano e diritti delle minoranze si oppongono alla pretesa di una risolutiva egemonia della maggioranza. Il principio contro-maggioritario entra in gioco in aree sempre più vaste, restringendo l’ambito di strumenti che, come la legge, pretendono di essere generali e astratti. Le norme si frazionano e le decisioni caso per caso si fanno frequenti e necessarie. Così i temi «divisivi», anche oltre l’area dell’eticamente sensibile, sono abbandonati. La politica dimentica le sue orgogliose rivendicazioni e rimane paralizzata. Ma la realtà continua a produrre controversie individuali, presentate ai giudici che le devono decidere.
La questione riguarda l’assetto dei poteri pubblici e la loro evoluzione storica. Non può essere affrontata ragionando per categorie generali, attribuendo all’una o all’altra l’inadeguatezza o la devianza di questo o quel magistrato oppure di questo o quel personaggio o partito politico. Ci sono anche queste, naturalmente, sotto gli occhi di tutti. Un fenomeno strutturale merita però una ricostruzione che prescinda da casi singoli. Questi non sono irrilevanti, ma sono casi di cui occorre discutere la significatività, la capacità esplicativa del fenomeno.
Vorrei proporre due esempi di debolezza – meglio dire di abdicazione – della politica, che trasferisce potere e responsabilità ai giudici, salvo poi aggredirli per le conseguenze che ne derivano. Il primo esempio è italiano e attuale, in corso di svolgimento. Vediamo le manovre e le strategie, da più parti immaginate per dilazionare nel tempo una decisione del Senato sulla decadenza di Berlusconi, che la legge dice dover essere «immediata», dopo la condanna per frode fiscale che ha riportato. Bloccata la deliberazione della Giunta delle elezioni sulla proposta che deve fare al Senato, la legge Severino sulla decadenza dei condannati dal Parlamento, rimarrebbe in sospeso. Tuttavia giungerà necessariamente tra poco la decisione giudiziaria sull’interdizione dai pubblici uffici: decisione obbligata per legge, salva la determinazione della durata. Berlusconi decadrebbe quindi in forza della sentenza e non per la deliberazione del Senato. Nessuna forza politica assumerebbe la responsabilità dell’applicazione della legge a Berlusconi e, almeno per un po’ tornerebbe a regnare una seppur coatta armonia. La decadenza sarebbe opera (colpa) della magistratura. Il golpe giudiziario sarebbe denunziato, la soggezione della politica alla magistratura sarebbe lamentata (ad alta o a bassa voce, con lo stile di ciascuno), la Politica si terrebbe al riparo. Naturalmente in una vicenda come questa, gli intendimenti, i protagonisti e i responsabili sono numerosi; l’attribuzione di responsabilità alla magistratura invece che alle scelte operate dalle sedi politiche, può non essere l’interesse principale, ma per così dire un effetto collaterale. Le conseguenze sono però significative quando è posta la questione del rapporto tra magistratura e politica.
Sembra ora che le forze politiche si siano schierate con chiarezza sulle loro posizioni in vista del voto sulla proposta che farà la Giunta e poi del voto in aula del Senato. Ma la storia è in pieno sviluppo e resta comunque emblematica del problema della coerenza della politica, che chiede rispetto per la propria funzione e le proprie prerogative, ma troppo spesso cerca di evitare di assumere le responsabilità che ne derivano, lasciandole ad altri.
Il secondo esempio è di ambito europeo, a dimostrazione della natura del fenomeno. Nel sistema di protezione dei diritti umani in Europa l’organo che deve sorvegliare l’esecuzione da parte degli Stati delle sentenze della Corte europea dei diritti umani, è un consesso politico, il Comitato dei ministri degli Esteri dei Paesi membri del Consiglio d’Europa. Politicamente incapace di imporsi agli Stati e di costringerli ad adottare le riforme che impedirebbero continue violazioni di diritti fondamentali, da qualche tempo il Comitato ha preso atto della propria insufficienza e ha chiesto alla Corte – ai giudici, quindi – di indicare essa stessa nelle sentenze le riforme e i provvedimenti (spesso altamente politici) che gli Stati devono introdurre nel loro sistema. E’ più che discutibile che la Corte abbia le conoscenze necessarie e che il suo modo di agire giudiziario sia adeguato al nuovo ruolo, ma quel che conta qui è l’esempio delle dimissioni di un organo politico. L’effetto è quello noto: le polemiche si trasferiscono sulle decisioni dei giudici, i politici ne rimangono al riparo e, alzando gli occhi al cielo, indirizzano verso di loro le proteste.il Fatto 11.9.13 Caso Berlusconi Napolitano monita e il Pd s’ammoscia Il capo dello Stato entra a gamba tesa nel dibattito sulla decadenza del pregiudicato invocando l’unità nazionale La Giunta s’inchina e prende altro tempo. B. se la ride: “Se la sono fatta sotto” di Fabrizio d’Esposito
Il governo di Enrico Letta non avrà il suo Undici Settembre. Semmai, se ne parlerà tra sette, massimo dieci giorni, persino di più a sentire le colombe più ottimiste del Pdl. La trattativa, oppure la mediazione secondo un linguaggio più aulico, iniziata nella notte tra lunedì e martedì scorsi ha salvato tutti, per il momento. Esecutivo e Cavaliere. Sotto la vigilissima sorveglianza del Colle che proprio ieri, prima che scattasse la fatidica ora X nella giunta del Senato, ha ricordato che “se non consolidiamo i pilastri della nostra convivenza nazionale tutto è a rischio”. Che tradotto molto crudamente, secondo lo stile realista, cioè togliattiano, di Giorgio Napolitano vuol dire: il Pd deve convivere con il Pdl del Condannato di Arcore. Il quale Berlusconi, quando ha saputo del vittorioso congelamento per almeno una settimana, ha commentato soddisfatto coi falchi del Pdl: “Il Pd si è genuflesso, se la sono fatta sotto”. Ad Arcore, infatti, l’uscita di Napolitano è stata interpretata come un richiamo diretto soprattutto al Pd. E ambienti del Quirinale non nascondono la “sorpresa” e “l’irritazione” del capo dello Stato per la posizione del Pd dell’altra sera. Questo è il risultato politico della infinita giornata di ieri. Sospiro di sollievo. Domani è un altro giorno e, aggiunge, un ministro berlusconiano, “ogni giorno ha la sua pena”.
I DUE MAGGIORI partiti delle larghe intese è come se avessero azzerato il tragico, per loro, lunedì della giunta e fossero tornati al punto di partenza, il patto con il Pd per allungare la discussione sulla decadenza di B. e guadagnare tempo in vista del fatidico ottobre, mese in cui il Cavaliere dovrà scegliere se fare i servizi sociali per la condanna Mediaset oppure ritagliarsi un ruolo da ayatollah agli arresti domiciliari. In merito, chi lo ha sentito ieri sera, quando la giunta si era già messa disciplinatamente sul binario dello slittamento, ha parlato di “un prossimo colpo geniale del presidente nei prossimi giorni”. Quale? Mistero assoluto. Fatto sta che per il Quirinale le condizioni per la grazia sono sempre le stesse, garanti le colombe del Pdl (Fedele Confalonieri, la figlia Marina, Gianni Letta, a seguire Alfano e gli altri): passo indietro da senatore, per evitare il voto sulla Giunta, e accettare il percorso della condanna con i servizi sociali. Altre opzioni potrebbero portare di nuovo al muro contro muro di questi giorni. Con la trattativa riuscita di ieri, il Cavaliere ha dato di nuovo credito alle colombe del suo partito. Ovviamente, il tempo è limitatissimo. B. vorrebbe avere un segnale ancora più forte dal Pd entro venerdì, comunque per la fine della settimana. Altrimenti si tornerà agli ultimatum, come quelli pronunciati fino a poche ore fa da Schifani e Brunetta: “Se il Pd vota per la decadenza la maggioranza si rompe”.
Altro grande protagonista della trattativa è stato lo stesso premier Letta, in contatto costante con il Colle e con lo Zio, alias Gianni, ambasciatore del centrodestra. Fino all’ora di pranzo, Letta ha pure confermato la sua partecipazione, insieme ad Alfano, a un convegno a Frascati, organizzato dalla scuola estiva di Magna Carta, la fondazione del ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello. Quindi il forfait. Il suo e quello di Alfano. Segno che si rimaneva a Roma a trattare. Il segretario del Pdl ha riunito i ministri del suo partito nel pomeriggio, per reiterare la minaccia delle dimissioni e fare un po’ di scenari (Letta bis, appoggio esterno). Poi Alfano ha visto “l’amico Enrico” e quest’ultimo ha sentenziato, in nome della responsabilità: “Si può andare avanti”.
IL PUNTO DI SVOLTA è stato però l’ennesimo intervento di Napolitano, in occasione del-l’incontro con una delegazione di Barletta, guidata dal neosindaco Pasquale Cascella, già portavoce del capo dello Stato nel primo settennato. Tempo di un’ora e Berlusconi ha dato ordine di “sconvocare” l’assemblea dei gruppi parlamentari del Pdl prevista per oggi alle tredici. Chiaro sintomo di disgelo delle tensioni e congelamento della situazione allo stesso tempo. Tra soddisfazione provvisoria e rabbia per la condanna, il Condannato adesso ha una finestra di “riflessione” di almeno una settimana. L’altro giorno, di fronte alla quasi rottura, le colombe sono diventate falchi gridando al tradimento. Ieri è stato al contrario. Si aspetta “il colpo geniale”. Se verrà.

Repubblica 11.9.13
Un compromesso antidemocratico
di Nadia Urbinati


Si invoca in queste ore convulse il “compromesso” per non applicare la legge Severino. Gli esponenti del Pdl lo auspicano, accusando di intransigentismo chi si ostina a lasciare che quella legge valga per il condannato illustre Silvio Berlusconi come per chiunque altro si trovasse al suo posto. Se non che, Berlusconi non vuole essere considerato “come” qualunque altro, nonostante la legge “uguale per tutti” lo voglia. La legge non rende tutti uguali; ma si impegna (con il nobile patto costituzionale) a trattare tutti, diversi e diseguali, con le stesse procedure e le stesse regole che presiedono al giudizio; e tutto questo perché quel patto dà a ciascuno un voto e uno solo. Uno stesso peso di potere decisionale, nonostante i pesi sociali ed economici siano molto diversi e perfino sproporzionati. Proprio per questo, il nobile patto costituzionale promette a tutti che la legge sarà applicata ugualmente. Il criterio del “come se” è l’anima della norma e governa l’articolo 3 della Costituzione. Esso limita e regola ogni possibile “compromesso”.
Pensatori e leader politici, a destra come a sinistra, hanno nei secoli criticato questa fictio del “come se”, dell’immaginaria uguaglianza che, come un velo nemmeno troppo spesso, pretende di coprire corpi solidamente piantati in società con le loro diseguaglianze irrisolvibili. A sinistra, la soluzione radicale prospettata è stata l’eliminazione anche forzata delle disuguaglianze economiche per realizzare compiutamente l’eguaglianza della legge. A destra, la soluzione proposta nei secoli è in pratica la stessa di quella che sentiamo ripetere oggi dagli esponenti del Pdl: non illudiamoci di essere tutti uguali, nonostante la legge lo dichiari e lo prometta; la realtà è quella che è; e che ci piaccia o no noi siamo tutti diversi e, inoltre, alcuni di noi sono molto più importanti e rappresentativi, e non possono essere piegati alla stessa procedura giudiziaria, alla stessa legge. Forse hanno sbagliato; ma sono così forti nella sfera della società e dell’opinione da dover essere trattati diversamente per il bene di tutti. La democrazia costituzionale non si piega però né all’egualitarismo della sinistra radicale né ai ricatti della destra oligarchica.
Nella democrazia antica, gli oligarchi consideravano la legge uguale come la vendetta dei molti contro i pochi; segno di invidia e di desiderio di livellamento. Nell’Italia democratica questa idea ritorna: Berlusconi, si pensa, è così potente e rappresentativo da non poter essere condannato a subire le conseguenze della legge. Fino a quando non tocca i potentissimi, la legge è elogiata proprio perché promette di non guardare in faccia nessuno (Berlusconi stesso ha sostenuto con forza la legge Severino). Ma quando si volge ai potenti, allora questi reclamano un diverso trattamento e vogliono che la legge riverisca la loro diseguaglianza di condizione. Essi dicono, inoltre, che anche volendo non possono essere trattati come gli altri, perché la loro forza sociale è così imponente che una loro rovina rischierebbe di trascinarsi dietro l’ordine costituito. Quindi, ai molti conviene scendere a patti con i pochi.
Questo è l’argomento che torna oggi sotto le sembianze del “compromesso”. La soluzione invocata è l’eccezione: si dice che occorre che i protagonisti politici, se vogliono continuate nella loro collaborazione di governo, accettino di mettere un velo sulla legge invece che sulle diseguaglianze sociali. Ecco allora l’invocazione del “compromesso” per il bene del paese: proprio perché il cittadino Berlusconi è così potente da poter portare, con la sua rovina politica, grave rischio alla stabilità occorre agire con prudenza. Si tratta dello stesso ragionamento degli oligarchi del passato: chi non è mai stato uguale può, se incorre nella legge uguale, rivoltarsi e reagire duramente con grave danno di tutti. È in questa ottica che viene oggi invocato il compromesso– il quale, come si intuisce, non è un compromesso vero e proprio ma una sfida dell’oligarchia alla democrazia.
Qualche settimana fa il ministro Quagliariello ha comparato l’attuale situazione di crisi a quella che soffrì l’Italia dopo la Prima guerra mondiale, quando i due maggiori partiti – i popolari e i socialisti –, interstarditi sulle rispettive posizioni, non si avvidero che il vero nemico del bene del paese stava nella loro incomprensione della situazione di necessità nella quale si trovava; una situazione che avrebbe richiesto un coraggio supplettivo. Scriveva Quagliariello, perorando la causa di un “alto compromesso” per salvare Berlusconi, che l’ultima volta in cui “le parti in campo rifiutarono il coraggio di un alto compromesso (...) quelle parti erano i socialisti e i popolari e si era agli inizi degli anni Venti del secolo scorso. Sappiamo com’è andata a finire. Evitiamo che la storia si ripeta, anche perché la situazione dell’Italia è tale che ilrefrain non avrebbe nemmeno la levità di una farsa”. Non è chiaro in quest’analogia chi svolga oggi il ruolo che allora copriva Benito Mussolini e il suo Partito fascista, il pericolo rispetto al quale popolari e socialisti avrebbero dovuto siglare quell’alto compromesso.
Nel primo dopoguerra, i protagonisti erano tre – popolari, socialisti e fascisti – e il fallito compromesso tra i primi due favorì il terzo. Ma oggi i protagonisti sono due. A meno che il partito di Berlusconi non copra due ruoli: quello di contraente dell’ipotetico compromesso e quello di portatore del ricatto del danno estremo di instabilità.
L’alto compromesso sarebbe una Caporetto per la democrazia costituzionale. “Alto” sarebbe per una parte, che otterrebbe un guadagno della cui portata c’è da temere (e che alimenta l’idea sotterranea di una riforma in senso semi-presidenziale della forma di governo). La soluzione non sarebbe un compromesso, in quanto un accordo tra i due partiti che sostengono il governo per salvare la vita politica di un condannato in terzo grado di giudizio risulterebbe in una vera e propria dichiarazione di disuguaglianza della legge. Perché chiamarlo “compromesso” se favorisce sproporzionalmente una parte imponendo all’altra di accettare quelle condizioni, prendere o lasciare, pena l’instabilità dell’ordine costituito? Nella vita politica delle democrazie, il compromesso è pane quotidiano: la trattativa tra partiti per formare un governo o quella per siglare un’alleanza di governo sono esempi di compromesso. Ma stravolgere la legge affinché un oligarca sia esonerato dal rispettarla non sarebbe un compromesso; sarebbe una capitolazione per la democrazia, un velo sull’articolo 3 dellaCostituzione.

l’Unità 11.9.13
La sinistra e la funzione del leader
di Mario Tronti


Come si esce dal ventennio berlusconiano? La domanda corretta è: come si «deve» uscirne? Va presentata una proposta di percorso, che si proponga di eliminare la causa e però anche le conseguenze di una lunga fase di crisi della politica. SEGUE A PAG. 16
Non basta abbattere la statua del profanatore, perché tutto ritorni a posto. Il berlusconismo è la veste antropologica di tutto quanto è stato definito seconda Repubblica, nell’età neoliberista: populismo privatistico, individualismo possessivo e quel grido «maledetto sia il pubblico», che è risuonato dall’alto e si è diffuso in basso. Le formule le conosciamo: «ci penso io», di un uomo solo al comando; e la risposta corrispondente della folla solitaria: «mi salvo da solo» e tutti i mezzi sono leciti. Come dice il poeta, attenzione, il ventre che ha generato tutto questo è ancora fecondo. Stia in guardia il campo antiberlusconiano a non produrne una variante progressista.
Quando si tratta di voltare pagina, vengono sempre avanti i più realisti del re: così va il mondo, non c’è che adattarsi, i segni dei tempi vanno ubbiditi, non contrastati. La «gente» vuole un capo che parli direttamente al popolo, senza di mezzo il disturbo di un partito. Che cos’è infatti un partito? Una fastidiosa sede di mediazioni politiche, con il peso di una memoria, di una storia, di una tradizione, di una cultura, o anche di più culture, tutte vecchie cose da rottamare. Vogliamo dirlo, vogliamo farlo capire, che anche questo è frutto di berlusconismo? C’è un punto da prendere in considerazione seria, da assumere come problema, che vuole una soluzione. La domanda politica che sale dal Paese è confusa. L’instabilità di governo, e delle istituzioni in genere, è il riflesso di un’instabilità dell’opinione, in gran parte subalterna a ondate mediatiche, niente affatto spontanee, anzi ben dirette. Un’opinione deviata da due decenni di lotta politica personalizzata, che riproduce personalizzazione allargata, a sempre più alto livello demagogico. Questa volatilità di massa, qualunque sia l’occasione elettorale, non da una posizione all’altra, ma da un personaggio all’altro, è un tema critico da porre a tutte le forze politiche. Si sconta qui oggi il devastante azzeramento di riferimenti forti, sociali, culturali, ideali. A chi giova questo, se non a chi se ne sta tranquillo in questo modo nelle più tradizionali posizioni di vero potere?
Quello che voglio dire è che, a questo punto, la cosa importante, non è certo quella di correre dietro a una domanda confusa, piuttosto quella di presentare un’offerta chiara. Va riordinata, ricostruita, rimotivata l’offerta politica. Ecco il tema vero del congresso di un partito di popolo. Certo che ci vuole la figura del leader. E bene ha posto la questione su queste colonne Ciliberto. Nessuno vuole negare la necessità della figura che fa sintesi di un gruppo dirigente e identifica, anche a livello di opinione, l’immagine di un soggetto politico. Ma qual è il leader necessario? Quello che mostra di saper rappresentare una storia, di saper guidare una comunità, di saper tenere in pugno la complessità dei problemi, di saper progettare l’agire di migliaia di militanti, e questo per qualità, per competenza, per esperienza? O è quello che i sondaggi dicono che potrà vincere alle prossime elezioni?
Un grande discorso strategico, costruttivo, mobilitante, sarebbe una critica di queste democrazie contemporanee, ridotte a puro rito elettorale. È proprio impossibile introdurre democrazia, cioè cura dell’interesse pubblico e gestione comune dei beni, che sia attraente, e coinvolgente e conveniente, nella vita quotidiana dei rapporti sociali, dei rapporti civili, dei rapporti di lavoro, delle relazioni di genere, delle relazioni con la natura? Non può diventare questa l’identificazione della sinistra da parte del suo popolo, invece di questa ricerca ossessiva di quello lì con cui «si vince», personaggio contro personaggio? Questo è un tempo in cui è saltata la differenza tra la chiacchiera e il pensiero. Non solo politica-spettacolo, ma cultura-spettacolo. Si spendono risorse per festival di piazza su qualunque cosa, per soddisfare la domanda di ceto medio riflessivo, e non c’è un euro per far vivere centri studi e di ricerca per la formazione di una nuova generazione di intellettuali politici, investimento per la produzione di vere, serie preparate classi dirigenti. Non c’è consapevolezza che l’uscita dalla crisi politica è altrettanto drammaticamente urgente dell’uscita dalla crisi economica.
Non sono da sottovalutare le ragioni del consenso. Ma si vorrebbe un consenso, e la richiesta di consenso, su motivazioni di ragioni collegiali e non di emozioni individuali. Queste vanno e vengono e, ripeto, sono pericolosamente esposte alla manipolazione interessata di chi ha la proprietà che oggi più conta, in questo campo, quella dei grandi mezzi di comunicazione. Una distorsione emotiva, basata su messaggi demagogico-plebiscitari, avveniva di solito nelle competizioni generali, nella moda del direttismo democratico. Si sta introducendo, a forza, nella competizione di parte, di partito. Perché ora l’ultima ridotta da conquistare è l’ultimo partito politico rimasto. E per come era cominciata la narrazione del dopo ’89, sembra proprio che si sia trovato il lieto fine.

l’Unità 11.9.13
Bersaniani verso Cuperlo «Ma va allargato il fronte»
L’ex segretario: «Gianni? Non faccio il king maker, ma ho una certa idea di partito e quindi...»
Speranza: «Non mi piacciono le giravolte»
Convocata l’assemblea: al primo punto la data
di Vladimiro Frulletti


Appoggiare Cuperlo con l’obiettivo di ampliarne sia la proposta programmatica che il recinto di sostenitori, evitando così che l’ex segretario della Fgci sia il rappresentante solo di un pezzo del Pd. È questa la decisione che hanno preso i bersaniani per il congresso. «Ho fatto il segretario spiega Bersani dalla festa del Pd di Firenze, intervistato dal direttore de l’Unità Claudio Sardo e non ho intenzione quindi di fare il king maker di nessuno. Però è noto che ho una certa idea del Pd e quindi sosterrò il candidato la cui proposta di partito più assomiglia a questa idea». E certamente l’idea di Bersani non è quella che ha in testa Renzi.
E che l’ex segretario e i dirigenti più vicini a lui andranno su Cuperlo l’ha confermato indirettamente lunedì sera (sempre dalla festa del Pd di Firenze) anche il capogruppo alla Camera Roberto Speranza, spiegando di non gradire «i tripli salti mortali». «Renzi è una risorsa del Pd è il ragionamento di Speranza -, ma non credo che sarò fra quelli che lo potrebbero sostenere. Non farò capriole. La mia storia dovrebbe far capire per chi voterò». E la storia di Speranza dice che da giovanissimo segretario del Pd della Basilicata ha guidato la campagna di Bersani alle primarie contro Renzi dello scorso autunno, e che poi è stato Bersani a volerlo alla guida dei deputati democratici.
Insomma la decisione di Speranza significa che pur fra mille cautele i cosiddetti bersaniani hanno fatto la propria scelta. Del resto già il 3 settembre il viceministro Stefano Fassina (sul cui nome per qualche tempo i bersaniani avevano cercato di far confluire tutto il fronte anti-Renzi) aveva indicato la sua scelta «controcorrente» per «Gianni». E nei territori la candidatura Cuperlo è già stata accolta di buon grado fra le file dei bersaniani. Così non stupisce che lunedì notte, alla fine del vertice romano con Bersani, sia emersa la decisione di stare dalla parte di Cuperlo. L’ipotesi è che i bersaniani da una parte forniranno a Cuperlo un proprio documento programmatico e dall’altra cercheranno di recuperare consensi al di là degli ex Ds. E da questo punto di vista verso Cuperlo potrebbero andare non solo Franco Marini e Sergio D’Antoni rimasto (non felicemente, ma è un eufemismo) sorpreso dalla scelta di Franceschini pro Renzi, ma soprattutto vari esponenti ex Dl nei vari territori. Dirigenti locali, amministratori, consiglieri e assessori regionali che pur avendo avuto una storia nella Dc e pur avendo votato allo scorso congresso per Franceschini non hanno condiviso l’endorsement renziano del ministro. È su questo che i bersaniani sono pronti a scommettere che Cuperlo, quando si tireranno le somme del congresso, sarà «la vera sorpresa».
Operazioni che lasciano perplesso Cesare Damiano: «è vecchia politica scegliere prima i candidati senza conoscere i loro programmi». E che preoccupano Goffredo Bettini, uno dei padri fondatori del Pd del Lingotto veltroniano, che legge negli abbracci (di Franceschini) a Renzi e (dell’«ala di Bersani») a Cuperlo altrettante zavorre al rinnovamento. Sempre che, ovviamente, il congresso si faccia. Ieri sono partite le lettere per la convocazione dell’assemblea nazionale: l’appuntamento è per venerdì pomeriggio 20 settembre (con possibile prolungamento al sabato) all’auditorium della Conciliazione a Roma. Al primo punto all’ordine del giorno la convocazione del congresso (in applicazione «dell’articolo 5 comma 2 dello Statuto»). In pratica sarà lì che i vicepresidenti Marina Sereni e Ivan Scalfarotto comunicheranno le date senza metterle in votazione perché tocca a loro stabilire quando si farà il congresso. «Per me è quella del 24 novembre» taglia corto Scalfarotto. Anche se l’altro giorno Sereni ha ipotizzato un possibile slittamento al 1 dicembre e il responsabile organizzazione Davide Zoggia ha indicato l’8 dicembre. Poi all’assemblea verrà presentata la proposta di regolamento congressuale (ma la sua approvazione formale spetta alla direzione) e infine saranno discussi e votati eventuali emendamenti allo statuto. Al momento l’intesa sulle regole non c’è. Ma per far partire il congresso «dal basso», cioè prima i circoli e i segretari di federazione poi le primarie per il segretario nazionale e quelli regionali, come chiede Epifani, un accordo serve. Altrimenti rimarrà tutto com’è ora, col ri-
schio, fanno notare alcuni, che seguendo il percorso fatto ai tempi della sfida Bersani-Franceschini-Marino si slitti a gennaio-febbraio. Il sostegno di Franceschini garantisce ai renziani che blitz in assemblea non saranno possibili. Ma se lo statuto non sarà ritoccato, sottolinea un dalemiano doc come il segretario del Pd toscano Ivan Ferrucci citando l’articolo 15 comma 7, i segretari regionali andranno eletti due anni dopo quello nazionale.
Tutto questo in assenza, ovviamente, di crisi di governo. Perché se davvero il Pdl farà cadere Letta allora si aprirà un’altra partita. E se poi ci sarà il voto anticipato (ma Napolitano potrebbe anche dimettersi prima) il congresso sarebbe rinviato a data da destinarsi. Ipotesi che non turbano i sonni dei renziani perché, dicono, Renzi vincerà comunque. In caso di congresso diventerà segretario del Pd, in caso di elezioni farà il premier. «È già pronto per la leadership», assicura Roberto Giachetti.

l’Unità 11.9.13
A proposito del dibattito all’interno del Pd

risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Sono sempre stata di sinistra, così come la mia famiglia fin dai tempi del fascismo. Un mio zio lo hanno mandato al confino a Lipari, tanto per dare l’idea. Scrivo per dare la mia opinione sui candidati alla segreteria. Io non voterò mai Renzi. Ma come si permette di criticare tutti, di dire quelle parole su Bersani?
M. RITA REBECCHI

Quello che si sta delineando all’interno del Partito democratico, a mio avviso, è qualche cosa di più che uno scontro fra correnti. La divisione che si sta determinando, infatti, è una divisione che fa capo alle diverse tradizioni dei due partiti che al Partito democratico hanno dato vita: gli ex comunisti che hanno creduto nel compromesso storico di Enrico Berlinguer e gli ex democristiani che hanno seguito la lezione di Aldo Moro. Due gruppi di dirigenti e di militanti che, alla ricerca di un dialogo costruttivo fra di loro, hanno portato avanti separazioni dolorose con quelli che, a sinistra e a destra del futuro Partito democratico, alla fecondità di questo dialogo non credevano e che, pur essendo divenute oggi due «anime» di uno stesso partito, sembrano muoversi ancora oggi all’interno di quelle «convergenze parallele» di cui parlava allora Moro: capaci di intese forti e convinte, dunque, su passaggi cruciali (della politica estera, in particolare e del bisogno di rinnovamento nella trasparenza della politica) ma profondamente influenzate, nello stesso tempo, dalle tradizioni culturali, dai luoghi di pensiero e dalle collocazioni sociali differenti da cui provengono. È di queste differenze che si sente l’eco ancora in lettere come questa e nella polemica fra Renzi e Bersani o fra Fassina e Franceschini. Sta nella capacità di portarle a sintesi sul piano dei contenuti di ordine sociale ed economico il futuro del Partito democratico. E del Paese intero.

Corriere 11.9.13
I democratici si spaccano sulla «gestione» della crisi E Renzi: voglio il congresso
Il sindaco contro l’ipotesi dell’annullamento
di Maria Teresa Meli


ROMA — La politica italiana si sta affacciando sull’orlo della crisi: al Pd ne sono quasi tutti convinti, anche se ieri sera i venti di guerra berlusconiani sembravano scemare. Perché allora questa convinzione sembra accomunare molti dirigenti del Partito democratico? Per un motivo che Beppe Fioroni illustra con l’abituale — e brutale — franchezza: «Stavolta Berlusconi non può fare pippa». Il che, tradotto in italiano, significa che il leader del Pdl non può continuare a gridare al lupo al lupo.
E allora? E allora a Largo del Nazareno cercano di prevenire e di capire tutti i possibili scenari. Incluso il più insidioso di tutti. Ossia quello della crisi pilotata, ovviamente da Berlusconi, con il Pd nel ruolo di comprimario. È un’ipotesi a cui accennavano ieri alcuni bersaniani: «Il Cavaliere potrebbe far dimettere i ministri e poi farli rientrare, una volte poste le sue condizioni». Condizioni esose per i Democratici: «Mettiamo — spiega ancora Fioroni dando voce alle preoccupazioni dello stato maggiore del partito — che Berlusconi dica: “io mi dimetto, i miei ministri rientrino al governo, a patto che, per il bene del Paese, questo esecutivo destinato a fare grandi cose duri fino alla fine della legislatura”. A quel punto noi che facciamo? Chi ha l’autorevolezza di dare una risposta a Berlusconi? Che fa Epifani, dice sì alle larghe intese di legislatura e magari dopo mezz’ora si fa smentire dal sindaco di Firenze? E il nostro popolo come reagirebbe all’idea di andare avanti con il Cavaliere?».
Sono tanti gli interrogativi che angustiano gli animi dei dirigenti del Partito democratico. Dice Davide Zoggia a un compagno di partito: «Una cosa è certa, se si apre veramente la crisi, il Letta bis non lo si può fare, ci comprometterebbe troppo. Piuttosto ci vuole un governo di scopo, presieduto da una personalità riconosciuta da tutti, che duri giusto il tempo per fare la riforma elettorale e il patto di Stabilità e poi a febbraio si va a votare». Peccato che Letta, suppergiù nelle stesse ore, stia dicendo l’esatto contrario ad alcuni emissari del Pd: «Se sarà crisi, andrà parlamentarizzata, così chi vuole staccare la spina se ne prenderà la responsabilità davanti al Paese e agli italiani». Ossia, se Berlusconi vorrà rompere, il governo tornerà alle Camere per chiedere la fiducia del Parlamento. Uno scenario che però non piace a mezzo partito: il timore è che ancora una volta sia il Pd a pagarne le conseguenze in termini di consensi e di simpatie dell’elettorato.
La confusione avvolge i deputati e i senatori del Partito democratico, dove c’è chi ritiene che si potrebbe andare a votare addirittura il 24 novembre e chi, invece, è convinto che Berlusconi non farà mai cadere il governo. «Berlusconi non aprirà la crisi, vedrete», assicura Massimo D’Alema, parlando con alcuni compagni di partito. Per una volta tanto la pensa nello stesso identico modo anche Matteo Renzi, che spiega ai suoi: «Vedrete che non succederà niente». Lo fa per scaramanzia il sindaco o per non farsi accusare di tifare per la caduta del governo Letta? Chissà, ma lo fa anche per un’altra ragione. Il primo cittadino del capoluogo toscano teme che i suoi avversari interni usino l’arma delle fibrillazioni governative per annullare il congresso, «e io, invece — dice — lo voglio fare».
Effettivamente i sospetti di Renzi non sono proprio peregrini. Basta prestare un orecchio a quanto vanno dicendo in queste ore i bersaniani: «Come si possono tenere le assise nazionali quando non sappiamo se la situazione precipita? È veramente difficile muoversi in queste condizioni». Ironizza Fioroni: «Vedrete che ci sarà chi proporrà di fare il congresso alla fine della legislatura». Una battuta, ovviamente, perché il responsabile organizzativo Zoggia, spiega che «in caso di crisi e di elezioni subito è ovvio che le assise vengono rinviate ma se il voto è a marzo si possono tenere». Un modo per rassicurare i renziani, probabilmente, che sono più che mai sul chi vive. Osserva Angelo Rughetti: «Rinviare il congresso è come giocare a tennis senza la pallina, non si può fare».
Il timore del sindaco di Firenze e dei suoi sostenitori è che l’ala bersaniana possa approfittare del caos per mandare le pratiche per le lunghe, anche con l’appoggio di altre componenti del partito. In questo modo, se veramente si arrivasse al voto, le liste elettorali le deciderebbero il segretario Guglielmo Epifani e il suo predecessore. Certo una parte in commedia spetterebbe anche a Renzi, ma solo una parte. E il sindaco di Firenze, senza le leve del partito in mano correrebbe veramente il rischio di fare la fine di Prodi, quella fine che lui vuole a tutti i costi scongiurare.

il Fatto 11.9.13
Io mi sa che non me la cavo: il day-after dei test a Medicina
di Alessio Schiesari


Per gli 80mila aspiranti medici che hanno provato il test di ammissione, ieri è stato il giorno dei primi bilanci. Come sarà andata? E, soprattutto, che fare nella malaugurata di ipotesi di non rientrare tra i 10mila futuri camici bianchi? Giorgia Lanfranchi di Castelmassa (Rovigo) ha le idee chiare sul suo futuro. Da quando sua madre, a quindici anni, l’ha portata nello studio di un’amica dentista, lei non ha dubbi: “Voglio fare l’odontoiatra”. Il problema è che i risultati del test arriveranno solo il 30 settembre, quando le iscrizioni di tutte le altre facoltà saranno già chiuse. Lei ha già pensato un piano B: ingegneria civile e ambientale. Per questo, nell’attesa di sapere se il suo sogno sarà coronato, dovrà spendere 200 euro per iscriversi a ingegneria. Soldi che nessuno le rimborserà se potrà invece iscriversi a odontoiatria.
CON LEI A PROVARE l’esame c’era Giorgio Mantovani. Lui non si scompone per la ressa davanti ai padiglioni dell’Università di Ferrara: 1.154 ragazzi per 218 posti. “Siamo arrivati alle 8 e mezza. Ci hanno diviso in gruppi da 200 e l’esame è cominciato solo alle 11. Abbiamo aspettato tanto, ma tutto sommato erano organizzati”. Il suo esame è andato bene: non poteva essere altrimenti con una maturità scientifica da 100 e lode conquistata solo due mesi fa. “Però non si sa mai, prima di festeggiare aspetto”. E, nonostante il curriculum invidiabile, a qualche domanda non ha potuto rispondere. “Troppe domande di logica. Per rispondere a una domanda di biologia ci vuole un attimo, con la logica invece ci si mette molto di più”. In compenso però quest’anno c’era meno cultura generale: niente Vasco o grattachecca della Sora Maria. “Leggendo i test degli scorsi anni ero preoccupato: perché dovrei sapere dove è morto lo scopritore del dotto pancreatico principale? ”.
Lara Manganaro di Meda è un’altra diplomata con 100. Lei ha provato il test per professioni sanitarie e vorrebbe fare la fisioterapista: “In Statale a Milano eravamo 5mila, tutti schiacciati uno contro l’altro. Non credo che copiare fosse difficile, ma io non ne ho approfittato”, spiega. “Certo faccio fatica a capire perché mi hanno chiesto quale, tra lucertola, salamandra, coccodrillo e camaleonte, non sia un rettile”. Anche lei rischia di non conoscere il risultato prima della chiusura degli altri corsi che le interessano e che non hanno il numero chiuso. Per questo ha pagato 1.200 euro di immatricolazione allo Iulm, dove le iscrizione sono aperte da giugno e “c’era il rischio di non trovare più posto per il corso che mi interessava”.
Denise Vecchiato invece è già un’universitaria. “L’anno scorso ha provato odontoiatria, ma non è andata bene - racconta -. Ho ripiegato su farmacia, ma quest’anno ci ho riprovato. E, come me, la metà dei mille studenti che hanno fatto il test. E ce n’erano tantissimi che erano al quarto o quinto tentativo”. Denise è una delle poche ad essere felice dell’abolizione del bonus maturità in corso d’opera. Con 75 alla maturità classica, qualche punto l’avrebbe preso. “Comunque non è giusto equiparare un liceale a qualcuno che ha fatto un’altra scuola, magari meno impegnativa”, spiega. Sono in molti però a pensarla diversamente. Sui social network sorgono come funghi gruppi e petizioni contro la decisione che ha scompaginato i calcoli di migliaia di studenti. In totale, circa 3mila adesioni in poche ore. Se si considera che sono 80mila gli studenti che hanno sostenuto il test, si capisce quanto la questione sia sentita. Cristian Bivolaru si sfoga così: “Ho preso circa 45 punti, ma con il bonus maturità sarei arrivato a 52. Che amarezza” Non è possibile che la tua intera vita sia decisa da 3 o 4 punti in più o in meno”.
“VOGLIONO PRENDERCI in giro e non possiamo permetterglielo! ”, gli fa eco Emanuela Trecca. Ancora più netta la posizione di Chiara Candela sul gruppo Ricorso con l’abolizione del bonus maturità: “Non è possibile partecipare ad un concorso con delle regole e, appena finisco di fare il test, mi dicono che è tutto cambiato! È uno schifo! ”. In molti però, prima di fare ricorso, vogliono attendere le graduatorie. C’è da scommettere che tra due settimane ci saranno 10mila studenti dalla parte del governo e 70mila ragazzi arrabbiati.

il Fatto 11.9.13
Letta: “Più prof”. Ma sono meno della Gelmini
Le assunzioni dei docenti previste dalla ministra erano 20mila l’anno, il premier ora ne promette 14.122 , da qui al 2015
di Salvatore Cannavò


Il piano per la scuola, deliberato lunedì dal Consiglio dei ministri, sembra un passo avanti nel sostegno all’istruzione. Così dicono i sindacati e i principali partiti a eccezione, come vedremo, del Movimento 5 Stelle. Circa 69 mila docenti in ruolo in tre anni, di cui 27 mila per il sostegno, 8 milioni per l’acquisto dei libri di testo, 100 milioni per le borse di studio universitarie, 13 milioni per rafforzare l’insegnamento della geografia, sostegno all’edilizia scolastica al wireless, e altre piccole misure costituiscono un’inversione di tendenza. In parte è vero anche se a una lettura attenta colpisce l’estrema varietà dei finanziamenti, quasi a voler rincorrere, uno a uno, i tanti problemi della scuola italiana per dare la sensazione che ci si è occupati di tutto.
In realtà non è così e, come dice uno scrittore e insegnante, Girolamo De Michele, “sembra come nell’affondamento del Titanic, quando ci si preoccupava di rassettare le sedie a sdraio”. Anche perché i 400 milioni, spalmati su più anni, sono poco di più di un lenitivo per una scuola stremata da tagli pluriennali.
LE IMMISSIONI IN RUOLO. L’assunzione dei docenti di sostegno era una misura lungamente attesa visto che, oggi, quelli di ruolo coprono solo il 50 per cento dei posti disponibili. Il governo ha così deciso di arrivare al 100 per cento dell’organico di diritto in tre anni, periodo sul quale vengono spalmati i 26.634 insegnanti da assumere. Nel 2013 ne entreranno in ruolo 4.447 mentre 13.342 lo saranno nel 2014 e i restanti 8.845 nel 2015. Un passo avanti, quindi, ma che non risolverà nell’immediato problemi gravi visto che ieri, giorno di avvio dell’anno scolastico in tante Regioni, a mancare all’appello erano proprio i docenti di sostegno.
L’effetto annuncio delle misure presentate lunedì è più evidente nel caso delle assunzioni dell’intero corpo docenti: 69 mila compresi quelli di sostegno. Si tratta di 42.366 immissioni in ruolo in tre anni, 14.122 l’anno. Il piano triennale di Mariastella Gelmini, vituperata ministra dell’ultimo governo Berlusconi, ne prevedeva ventimila l’anno. Il secondo governo Prodi, quando cercò di dare una sterzata al problema-scuola, ne programmò 50 mila l’anno. Insomma, siamo molto al di sotto delle necessità. Da segnalare, poi, che la ministra, e il governo, sorvolano sul sostanziale fallimento del “concorsone” ideato dall’ex ministro Profumo che ha immesso in ruolo meno di 4000 docenti. “Si tratta di un proclama di facciata” sostiene il M5S, visto che i 69 mila è una “ cifra di poco superiore ai pensionamenti previsti nei prossimi tre anni”.
QUOTA 96. I deputati pentastellati sottolineano, poi, un secondo aspetto del tutto sorvolato dal Decreto, il problema della “quota 96”. Si tratta degli insegnanti che avevano maturato il diritto alla pensione nel 2012 ma che, per effetto della riforma Fornero, indebitamente applicata retroattivamente, si sono visti scippare un loro diritto, sancito poi da diverse sentenze giudiziarie. Si tratta di 9.000 persone, stimate in 3.000 dal ministero. E che se la prendono soprattutto con il Pd il quale si era impegnato nei loro confronti senza però onorare la promessa.
GRATIS NEI MUSEI. Infine, a conferma delle scarse risorse, l’ingresso gratis nei musei è previsto solo per i docenti di ruolo, ma non per i precari. In compenso, per effetto dei vecchi tagli di Gelmini, i nuovi docenti di ruolo percepiranno un primo stipendio inferiore a quello di quando erano precari.

l’Unità 11.9.13
«A Bolzaneto fu sospeso lo Stato di diritto»
Le motivazioni della Cassazione per le violenze del G8 nel 2001: ignorati principi-cardine del diritto
di Massimo Solani


Un «completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto». La vergogna del G8 di Genova del 2001 e delle torture ai manifestanti fermati sta scritta anche nero su bianco nelle motivazioni con cui la Cassazione il 14 giugno scorso ha confermato le sette condanne e le quattro assoluzioni nei confronti di poliziotti, carabinieri, agenti e medici penitenziari responsabili delle violenze perpetrate a carico dei fermati nella caserma Bolzaneto. E sono proprio i racconti di quanti trascorsero i giorni successivi nel centro di detenzione, secondo i giudici della Cassazione, a delineare un «trattamento» dei detenuti «contrario alla legge» e «gravemente lesivo della dignità delle persone» perpetrato attraverso «vessazioni continue e diffuse in tutta la struttura». «Non risulta scrivono i giudici della V sezione penale della Cassazione che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso i bagni o gli uffici) con le modalità vessatorie e violenze riferite dai testi». Nella sentenza si ricorda, ad esempio il caso di una ragazza accompagnata in bagno, costretta a mantenere il «capo chino all’altezza delle ginocchia» con la «torsione delle braccia dietro la schiena», mentre, al suo passaggio «poliziotti ai lati» continuavano con «percosse e insulti». L’agente donna che accompagnava la detenuta non fece desistere i colleghi, ma invitò la ragazza a «stare attenta a non cadere quando un agente le aveva fatto lo sgambetto».
Secondo i magistrati della Cassazione chiunque si sia trovato a prestare servizio in quei giorni a Bolzaneto non poteva non essere perfettamente al corrente di quanto stava accadendo. Le violenze infatti «producevano fonti visive, sonore e olfattive del tutto inequivocabili per chi, operando in quel ristretto ambito spaziale e muovendosi al suo interno, in quegli stessi eventi si trovava immerso alla stregua di un testimone oculare». Secondo i magistrati, infatti, era di fatto impossibile che «all’interno della struttura potessero sfuggire a chicchessia le risonanze vocali (cioè gli ordini, i pianti, le grida, i lamenti, i cori), le risonanze sonore (cioè i transiti, le cadute, i colpi), le percezioni olfattive (cioè la puzza dell’urina, l’odore del gas urticante spruzzato, l’odore del vomito, del sudore e del sangue) e le tracce lasciate sui volti, sugli abiti, negli sguardi, negli ansiti e nella voce delle vittime». La colpa degli imputati, poi, sta anche nell’«avere avuto consapevolezza di tutto ciò» e «nell’avere omesso di impedirlo».
È un vero e proprio «catalogo degli orrori» quello ricostruito dai giudici: «lesioni con gas urticante», «percosse con calci, pugni schiaffi e colpi di manganello», «minacce» di vario tipo: una «chiara visione» di quello che stava accadendo non poteva non emergere dall’«aspetto atterrito e sanguinante degli arrestati», dal «modo in cui venivano apostrofati e trattati dai loro seviziatori», dalle «urla di dolore delle vittime» e appunto, da «canti e suoni inneggianti al fascismo che provenivano ora dall’esterno della caserma, ora dal corridoio». Ai no-global fermati poi, ricostruiscono i magistrati della Cassazione, furono «negati cibo e acqua» mentre a «diversi detenuti» venne anche imposto di «orinarsi addosso per essere loro vietato l’accesso al bagno». Un «contesto di ingiustificate vessazioni», conclusono i magistrati, «non necessitate dai comportamenti» dei fermati e «riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no-global».

Repubblica 11.9.13
Aborto, alla Camera flop della 194 i medici obiettori negano la pillola
Stop a una deputata. Il Pd: sconfessate le mozioni per la legge
di concetto Vecchio


ROMA — Niente “pillola del giorno dopo” all’ambulatorio della Camera dei deputati, sono tutti obiettori. Ore 10,30 di lunedì scorso, una parlamentare si presenta al presidio sanitario di Montecitorio, chiede al medico di turno la prescrizione della capsula abortiva, ma si sente rispondere di no per un fatto di coscienza: «Anche il medico del turno successivo è obiettore, così come tutti gli altri colleghi qua dentro», le viene detto. «Ho incontrato la giovane collega all’uscita dell’ambulatorio — denuncia in serata in aula Pia Elda Locatelli, deputata socialista — era sorpresa, stupita, ma anche piuttosto arrabbiata. E, ovviamente, la vicenda ha colpito anche me». Appena tre mesi fa la Camera aveva denunciato la dismisura dell’obiezione di coscienza. «Un fenomeno che mediamente è attorno al 70 per cento in Italia, con punte estreme dell’80 per cento, ma non del 100 per cento come qui», puntualizza Locatelli.
La notizia si diffonde a macchia d’olio tra le parlamentari. Un gruppetto decide di fare un piccolo esperimento sul campo e prova a chiedere la pillola nelle farmacie del centro di Roma. Per tre volte di fila si sentono rispondere che non ce l’hanno, il quarto tentativo è finalmente quello buono. «E siamo nel cuore dellaCapitale, pensiamo quanta strada deve percorrere una donna in una valle di montagna», commenta una deputata democratica. Lo scorso 11 giugno la Camera ha approvato sette mozioni nelle quali, pur con sfumature e sensibilità diverse, si invitava il governo a dare piena applicazione alla legge 194 «da parte di ogni struttura pubblica o del privato accreditato». Un allarme che hacementato destra e sinistra. I medici obiettori sono in aumento, lo spirito originario della norma del 1978 vacilla. E ora la scoperta che Montecitorio è peggio del Paese reale. «Ora proprio qui risiede la contraddizione: non solo non funziona per i cittadini, ma non funziona neppure in Parlamento, dove solennemente lo chiediamo e lo votiamo», fa notare l’onorevole democratAlessia Rotta, una delle fondatrici di “Se non ora quando” a Verona.
Annuisce Simona Malpezzi, Pd: «Non segnaliamo l’episodio per un fatto di casta, ma semplicemente per invocare la piena applicazione della legge a partire dal Parlamento, né abbiamo nulla contro gli obiettori, è un diritto che va preservato, ma le opzioni devono essere garantiteentrambe». Quindi racconta che la Regione Lombardia, per superare il veto degli obiettori, è spesso costretta a ricorrere ai medici contrattisti, con un aggravio di costi di 300 mila euro annui. Rotta aggiunge: «I medici obiettori hanno più chance di fare carriera: questo è stato appurato da molte indagini». «Il diritto e il principio dell’obiezione — è il ragionamento di Locatelli — va difeso quando nasce da un vero convincimento morale e, però, in aula abbiamo ribadito che l’esercizio dell’obiezione di coscienza non deve impedire l’applicazione della legge in tutte le sue parti, a partire dal diritto di ogni giovane donna alla salute e all’autodeterminazione, come nel caso della nostra collega». È così che matura la decisione di far scoppiare il caso.
Pioveranno interrogazioni parlamentari. La vicepresidente Marina Sereni ha informato la presidente Laura Boldrini. I questori apriranno un’istruttoria. «Paghiamo un servizio, dev’essere conforme alla legge», precisa Sereni. «I funzionari mi hanno detto che il medico rianimatore, che però non fa parte del presidio ambulatoriale, avrebbe potuto redigere la prescrizione». Alla fine la giovane parlamentare si è dovuta arrangiare: è stato un medico deputato a scriverle la ricetta.

Repubblica 11.9.13
Femminicidio, critiche alla legge avvocati e magistrati: “Da ripensare”
Via alla discussione. Snoq: “Riduce la violenza sulle donne a problema di ordine pubblico”
di Maria Novella de Luca


ROMA — Tempi strettissimi e un testo in gran parte da rivedere. È iniziato tra i dubbi e le critiche il percorso di conversione in legge del decreto sul femminicidio approvato dal Governo, in tutta fretta, nell’agosto scorso. E che approderà in aula per la votazione il 20 settembre prossimo. Decreto che voleva essere (ed è) una risposta urgente e dura al bollettino senza fine di donne uccise ogni giorno, quasi sempre per mano di mariti, fidanzati, compagni, amanti ed ex amanti. Se dauna parte le forze dell’ordine hanno finalmente gli strumenti, con l’arresto in flagranza, per fermare stalker e potenziali assassini, dall’altra avvocati e magistrati avanzano dubbi proprio sul garantismo di queste norme. E gli stessi centri anti-violenza, pur condividendo buona parte delle norme, sottolineano che non bastano le sanzioni, ma sono necessarie misure di sostegno alle vittime. A partire, come dichiara la rete “Dire”, dal rafforzamento dei centri stessi, a oggi uniche realtà che non solo proteggono le donne in pericolo, ma le aiutano a reinserirsi nella società.
Al centro delle critiche ci sono comunque due punti del decreto: l’irrevocabilità della querela (la donna non potrà più ritirare la sua querela verso chi la perseguita), e i nuovi poteri delle forze di polizia. Sostiene con chiarezza che il decreto sul femminicidio «va profondamente ripensato » il presidente dell’Unione Camere Penali Valerio Spigarelli. Nel dettaglio, criticando l’irrevocabilità della querela, il leader dei penalisti ha spiegato che la norma «produrrà paradossalmente effetti antitetici rispetto alle intenzioni del legislatore», in una «via senza ritorno ». Per l’Anm, associazione nazionale magistrati, i punti critici del testo riguardano «l’appesantimento di alcune procedure» e la previsione di aggravanti solo per alcuni reati e non per altri. Donata Lenzi, capogruppo Pd in commissione Affari sociali della Camera, sottolinea invece quanto sia stato importante e positivo l’intervento del Governo, affermando però che «punire non basta». «Bisogna sostenere i centri: la rete di assistenza e presa in carico delle donne vittime di violenza e dei loro figli è fondamentale per mettere al riparo le vittime». Dalle donne di “Se non ora quando” arriva invece una critica dura e globale: «Il testo riduce la violenza contro le donne a un problema di ordine pubblico e la mette sullo stesso piano della violenza negli stadi o dei furti di rame... ». È poi «rischioso», sostengono, prevedere l’irrevocabilità della querela e la procedibilità d’ufficioper i casi di violenza domestica, «in assenza di sostegni per poter accompagnare le donne nella denuncia, nella separazione dal coniuge, nella costruzione di nuovi percorsi di vita». E anche nei casi di allontanamento d’urgenza dall’abitazione familiare, « chi proteggerà la donna da partner o ex disposti a tutto pur di conservare il possesso di lei? Dove andranno gli uomini allontanati? Saranno affidati ai servizi?».
Ragiona Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera. «I punti critici — dice Ferranti — sono diversi, ma l’impianto è efficace. Di certo statoprivilegiato l’intervento di ordine pubblico rispetto, ma non dimentichiamoci che ci voleva una misura forte di fronte ad un femminicidio al giorno. E oggi le forze dell’ordine hanno finalmente gli strumenti per intervenire tempestivamente. L’irrevocabilità della querela è invece fondamentale: chi lavora in prima linea sul femminicidio ci ha spiegato che i maschi violenti continuano ad intimidire le proprie vittime pur se reclusi in carcere, e che migliaia di donne revocano la querela per paura. Questa norma potrà invece sostenerle».


Corriere 11.9.13
«Il celibato non è un dogma» Apertura di Parolin sui preti
Il nuovo segretario di Stato: una sfida per Francesco
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Il celibato sacerdotale? «Non è un dogma della Chiesa e se ne può discutere perché è una tradizione ecclesiastica». Le parole dell'arcivescovo Pietro Parolin, neo Segretario di Stato vaticano in carica dal 15 ottobre, non significano certo che la Chiesa stia pensando di abolire quella tradizione che «risale ai primi secoli» e della quale lo stesso Parolin difende il valore, «non si può dire, semplicemente, che appartiene al passato». Però è importante il fatto stesso che il suo più stretto collaboratore parli di «una grande sfida per il Papa», poiché «egli possiede il ministero dell'unità e tutte queste decisioni devono essere assunte per unire la Chiesa, non per dividerla». Che dica: «È possibile parlare e riflettere e approfondire quei temi che non sono articoli di fede e pensare ad alcune modifiche, però sempre al servizio dell'unità e secondo la volontà di Dio».
Con i tempi (lunghi) della Chiesa, l'idea di «modifiche» non è più un tabù. Parolin, nunzio a Caracas, parlando al quotidiano venezuelano El Universal pondera le parole. Dice che si tratta di seguire «la volontà di Dio e la storia della Chiesa» così come «l'apertura ai segni dei tempi», ad esempio «la scarsezza del clero». Di per sé che il celibato non sia un dogma è un dato di fatto. Eppure, nel 2006, bastò che il cardinale Cláudio Hummes ricordasse la stessa cosa perché dal Vaticano fioccassero precisazioni imbarazzate. Era stato appena nominato prefetto del clero e la cosa, si disse, gli costò un certo isolamento in Curia. Ma i tempi cambiano, il cardinale cappuccino è un grande amico di Bergoglio (fu lui ad abbracciarlo nella Sistina e dirgli: «Ricordati dei poveri!») e chi dice queste cose non rischia più l'isolamento.
Del resto il neo Segretario di Stato parla di riforme, dei cambiamenti che riprendono il Concilio e trovano «resistenze» ma «non possono mettere in pericolo l'essenza della Chiesa»: e dice che se la Chiesa «non è una democrazia» — alla fine decide il Papa — «è una buona cosa che in questi tempi ci sia spirito più democratico, nel senso di ascoltare attentamente», una «conduzione collegiale dove possono esprimersi tutte le istanze». Propri ieri il Papa a riunito i capi dicastero in vista della riunione del «gruppo» cardinalizio che a ottobre affronterà la riforma di Curia.
Ma quali potrebbero essere le «modifiche» da discutere sul celibato? C'è un'idea che si fa strada da quando nel 2009 Benedetto XVI istituì degli «ordinariati» per gli anglicani che tornavano nella Chiesa cattolica, compresi i sacerdoti sposati. Di per sé, non una novità assoluta: nella Chiesa cattolica esistono già dei preti sposati. La disciplina del celibato vale per la Chiesa latina, ma in quelle cattoliche orientali non c'è obbligo. C'è quindi la possibilità che in futuro si vada verso una doppia disciplina anche nella Chiesa latina. Magari con le stesse regole: solo i celibi possono essere vescovi.
Del resto grandi voci nella Chiesa hanno aperto il tema. Il cardinale Carlo Maria Martini parlò del celibato come di «un grande valore e un segno evangelico» ma diceva: «Non per questo è necessario imporlo a tutti». Propose «la possibilità di ordinare viri probati», ovvero «uomini sposati che abbiano esperienza e maturità». L'ipotesi era stata bocciata nel sinodo del 2005, altre voci importanti si aggiunsero. Lo stesso Bergoglio parlò del tema da cardinale, nel libro Papa Francesco. Un testo in cui afferma d'essere «pienamente convinto» che "il celibato vada conservato». Ma dice anche che «se la Chiesa dovesse rivedere tale norma» non lo farebbe «spinta dalla scarsità» di vocazioni e comunque «non sarebbe una regola valida per tutti»: «Tratterebbe la cosa come un problema culturale di un luogo specifico, non in modo universale ma come un'opzione personale».

Corriere 11.9.13
Celibato
La norma nel IV secolo, ma ai preti orientali fu concesso di sposarsi
di Armando Torno


Si consiglia il celibato nelle Scritture, non lo si obbliga. Questa libertà fu seguita nei primi tempi della Chiesa. La disciplina in materia prende forma nel IV secolo nelle legislazioni conciliari; tuttavia, nel regolarla, Occidente e Oriente (dove era concesso a coloro che non sentivano la vocazione del celibato di usare i loro diritti coniugali) si dividono. Le storie indicano come prima legge in materia il canone 33 del Concilio di Elvira (intorno al 300), il quale obbligava gli ordinati in sacris alla continenza assoluta; inoltre, nel concilio romano del 386, papa Siricio promulgava una norma analoga, con l'intenzione di diffonderla in tutta la Chiesa latina. Il problema è più complesso di quello che oggi sembra: la Chiesa latina ha sempre scelto i preti tra coloro che erano celibi; quella orientale, invece, ha mantenuto la possibilità di trovarli anche tra gli sposati. Ma soprattutto il tema del celibato si presenta — evidenzia Gianantonio Borgonovo, biblista e arciprete del Duomo di Milano — «per la celebrazione dell'eucarestia». Nella tradizione orientale rimaneva un evento settimanale, in quella occidentale dopo l'VIII secolo si andava normalizzando come appuntamento quotidiano. Siccome «nella prassi della Chiesa non si avevano rapporti il giorno precedente la celebrazione eucaristica, si capisce come la tradizione occidentale si sia sempre più orientata a scegliere i propri ministri (eccetto i diaconi) tra coloro che avevano fatto la scelta della verginità». Fu soltanto con il Concilio di Trento (XVI secolo) che il celibato ecclesiastico divenne effettivamente obbligante e vincolante per tutti i ministri ordinati nella Chiesa latina (l'orientale ha, invece, mantenuto la prassi antica). Tale normativa, aggiunge Borgonovo, «non è estrinseca al ministero presbiterale, ma aiuta ad affermare la testimonianza di tutta la vita impegnata nel sacerdozio». Nella Chiesa milanese ci fu sino all'XI secolo un ministero «concubinario», cioè preti con moglie, ma non ufficialmente sposati. Sant'Arialdo combatté proprio tale usanza. E ci lasciò le penne.

l’Unità 11.9.13
La Norvegia in balia del populismo
La vittoria dei conservatori apre la strada per la guida del Paese al «Partito del Progresso»
Nelle sue file militò l’estremista Anders Breivik, autore della strage di Utoya nel luglio 2011
di Sonia Renzini


È una svolta che fa trattenere il fiato quella della Norvegia perché le elezioni parlamentari di lunedì, le prime dopo il massacro di Utoya che costò nel luglio 2011 la vita a 77 persone con la fine del governo del liberale Jens Stoltenberg, aprono la strada per la guida del paese al partito della destra populista e anti-immigrazione del Partito del Progresso. Lo stesso che ha avuto tra i suoi militanti Andres Breitvik, autore proprio della strage di Utoya di due anni fa contro i partecipanti ad un campo estivo laburista e condannato a 21 anni di carcere.
Il centro destra vince con il 53.9% dei voti contro il 40.5% raccolto dalla coalizione dei laburisti. La leader dei conservatori Erna Solberg con i suoi 48 deputati se ne aggiudica 18 in più rispetto all’ultima votazione. Ha raccolto i suoi consensi con una campagna elettorale puntata sulla retorica delle tasse. Ora punta a cercare un’alleanza con il partito del Progresso, indispensabile per costruire una coalizione che le consenta di governare con l’appoggio esterno dei liberali e dei cristiano democratici che insieme arrivano a 19 seggi. C’è da credere che avrà il suo filo da torcere, visto che alcune divergenze erano emerse già prima del voto, a cominciare dai «campi di raccolta per richiedenti asilo» proposti dal partito del Progresso. Ma la Solberg, chiamata la «Merkel del Nord», sembra essere determinata. Già ieri ha incontrato i leader dei partiti alleati per trovare un’intesa sul nuovo governo. Ha incontrato anche la leader del partito del Progresso Jens Stoltenberg che dopo la strage di Utoya ha cercato di rifare il look del suo partito rendendelo meno estremista nei toni e cercando di spostare l’asse dalla parola d’ordine «dell’islamizzazione strisciante» a quello delle riforme economiche. Così potrà ottenere quei 29 seggi sui 96 di tutta la coalizione di destra a fronte dei 72 della sinistra. Anche se ha ottenuto 12 seggi in meno rispetto a quelli di 4 anni fa, ma pesano, visto che sono fondamentali per raggiungere la maggioranza minima necessaria di 85 voti in Parlamento per formare un governo di centro destra.
Dal canto suo il premier di centro sinistra uscente Stoltenberg, che per 8 anni è stato a capo della coalizione rosso-verde, non ha potuto che prenderne atto. Si è congratulato con la leader dei conservatori Erna Solberg e ha annunciato che si dimetterà dopo la presentazione del bilancio fissata per il 14 ottobre. Per ironia della sorte, il partito liberale, sconfitto nella consultazione, prende comunque il 30.9% dei consensi e 55 seggi (il 4.5% e 9 seggi in meno del 2009) e rimane il primo partito. Mentre dei suoi alleati di governo, la Sinistra socialista ha perso 4 degli 11 seggi che aveva, il partito di Centro uno dei suoi 11 deputati e i Verdi potrebbero entrare per la prima volta in Parlamento con un seggio.
Nessun dubbio per la vera vincitrice Erna Solberg, chiamata anche la «Erna di ferro» per la sua politica di rigore contro gli immigrati quando era al governo tra il 2001e il 2005. Lei stessa ha definito questa «una vittoria storica» che riporta il partito conservatore alla guida del paese per la prima volta dopo il 1990 e fa di lei la seconda donna primo ministro del paese dopo la laburista Gro Harlem Brundtland. «Ho lavorato duro per dare ai conservatori una nuova piattaforma», ha commentato a caldo.
C’è da dire che non si tratta di un fulmine a ciel sereno, il risultato delle urne era stato ampiamente previsto da tutti i sondaggi che hanno preceduto il voto. Colpa della crisi economica secondo molti analisti, nonostante che a guardare bene i numeri della «ricca» monarchia costituzionale che non fa parte della Ue c’è da sorridere. Tanto più se paragonati a quella dell’area euro. Niente debito pubblico, bassi tassi di disoccupazione e di inflazione e un’economia forte che può contare su grandi giacimenti petroliferi. A fare la differenza è stato, pare, il forte desiderio di cambiamento degli elettori e la defezione di molti laburisti che hanno scelto di non votare, non a caso l’affluenza del 71.4% è la più bassa per il paese dal 1927. Mentre sembra che le stragi di Oslo e di Utoya non abbiano influito più di tanto, dei 30 sopravvissuti al massacro candidati tra i laburisti solo in 4 sono entrati in Parlamento.

l’Unità 11.9.13
La sbandata di Oslo
di Paolo Borioni


QUESTA ELEZIONE NORVEGESE POTREBBE SIGNIFICARE l’ennesima perdita dell’innocenza nordica. La destra populista del Partito del Progresso sembra vicinissima ad entrare per la prima volta in un governo. In Danimarca dal 2001 e il 2011 i liberalconservatori hanno governato coi voti del Partito del Popolo Danese, che solo con l’attuale governo di centrosinistra sono stati messi ai margini. In Svezia un partito nazionalpopulista (gli Sverigedemokraterna) condiziona la risicata base parlamentare di centro-destra. Ad Oslo, oggi, la destra tradizionale e moderata avanza, ma senza aprire ai populisti rimarrebbe inferiore alla coalizione di sinistra, nella quale, con oltre il 30%, la socialdemocrazia perde il 4% ma rimane nettamente primo partito del paese. L’inclusione del Partito del Progresso (che peraltro arretra in voti attestandosi al 16%) appare quindi una reazione all’ultimo decennio di vittorie della sinistra. Nel 2003 la potentissima confederazione sindacale LO scosse l’andazzo centrista della socialdemocrazia norvegese, piombata al fondo storico del 24%. La LO indicò quindi il nuovo corso: avrebbe nel futuro appoggiato i socialdemocratici solo in coalizioni di sinistra-centro (con la Sinistra Socialista e il piccolo partito agrario detto Centro). La coalizione doveva impegnarsi ad arrestare la tendenziale privatizzazione di welfare e servizi, ed evitare che le entrate petrolifere venissero usate per sgravi fiscali indiscriminati anziché accumulate per assicurare il welfare e le politiche locali del futuro. In cambio, il sindacato si sarebbe impegnato a trovare le soluzioni per l’efficienza e la soddisfazione degli utenti. Ciò aveva condotto alla vittoria del 2005 in una Scandinavia che invece andava a destra. La coalizione ha poi efficacemente combattuto la disoccupazione derivante dalla crisi del 2008. La ricetta, fatta di pochissimi sgravi fiscali e di molti investimenti pubblici ad alta intensità occupazionale ha consentito di contenere al 1,2% la caduta del Pil nell‘anno peggiore (contro il -4,7 svedese e anche peggio nei paesi limitrofi) e riportare già nel 2010 al +2,8% la crescita (minore negli altri paesi nordici). Anche allora l’ispirazione della LO era stata importante, ma aveva contato anche la libertà rispetto alla austerità restrittiva UE, di cui la Norvegia non fa parte. Così, la coalizione di sinistra aveva rivinto le elezioni nel 2009, mentre i socialdemocratici stentavano ovunque. Ecco allora che il partito conservatore detto Destra ha sdoganato i nazionalpopulisti come partner di governo. Gli altri partiti in Scandinavia detti «borghesi» (oltre alla Destra anche democristiani e liberali) si sono fino a ieri opposti a questa inclusione. Essi hanno storicamente formato governi di minoranza (normali fra i nordici) che cercassero caso per caso accordi con la Socialdemocrazia, o addirittura hanno sostenuto quest’ultima. Per questo, fino all’epoca del puro e autosufficiente centro-sinistra (dal 2005 a oggi), nelle commissioni parlamentari partiti lontanissimi come Socialdemocrazia e Destra avevano votato in modo uguale nel 72% dei casi. Dal 2005 però questo è avvenuto solo nel 28% dei casi: una polarizzazione chiara, in cui i «borghesi» centristi come liberali e democristiani, oggi ridimensionati al 10% totale, non sono in grado di esercitare il ruolo di un tempo. Dovranno adattarsi, per quanto recalcitrando. D’altronde, è oggettiva la forza dei populisti del Partito del Progresso: alle elezioni del 2009, in cui la socialdemocrazia fu di gran lunga primo partito al 35%, essi furono secondi al 22%. Pur lontani oggi da quelle cifre, essi sanno efficacemente far pesare un mix di xenofobia e retorica anti-tasse. Quest‘ultima è per molti giustificata dalle immense ricchezze che vengono ai fondi sovrani norvegesi dalla estrazione petrolifera, e che i nazionalpopulisti impiegherebbero per abbassare un prelievo fiscale intorno al 45% medio. Per questo, a fare presa in campagna elettorale è stata la discussione sulla cospicua espansione del bilancio pubblico durante il governo di sinistra-centro. Di fronte ad essa la destra norvegese è riuscita a convincere i norvegesi che non era avvenuto un proporzionale aumento della qualità dei servizi. Molti esperti dubitano che il nuovo corso influenzato dai populisti possa avere serio impatto su un’alta burocrazia che tiene a prassi e obbiettivi consolidati, peraltro storicamente coronati da successo. Intanto, però, le tentazioni populiste arriveranno verosimilmente al governo. Includerle era indispensabile per lanciare una sfida al solido patto sindacale e socialdemocratico-progressista. Ed era forse socialmente inevitabile. Una svolta che turberà molti equilibri, non solo a sinistra.

La Stampa 11.9.13
Oslo, la generazione Utoya sfida gli eredi di Breivik
In Parlamento 4 superstiti della strage, ma è boom di xenofobi
La maggior parte dei giovani laburisti scampati al massacro ha deciso di lasciare la politica
Nella coalizione di destra entra il Partito del Progresso, quello dell’estremista omicida
di Monica Perosino


Fredric Holen Bjoerdal, 23 anni, e Vegard Grøslie Wennesland, 29 anni, erano con altri 600 giovani laburisti sull’isola di Utoya. Sono stati eletti deputati domenica scorsa

Anche la Norvegia, alla fine, è scivolata a destra, come la Svezia e la Finlandia. La socialdemocrazia scandinava è finita domenica. Dopo otto anni di governo laburista, i conservatori guidati da Erna Solberg, la «Merkel del nord», hanno vinto le elezioni, ma per formare la nuova maggioranza avranno bisogno del sostegno di liberali, Cristiano democratici e del Partito del Progresso, arrivato terzo con il 16,4% dei voti. Lo stesso in cui militò Anders Breivik, l’estremista di destra che il 22 luglio 2011 uccise 77 persone a Oslo e sull’isola di Utoya.
A due anni dal massacro sembra che i norvegesi abbiano dimenticato i proclami urlati in tribunale e i moventi di Breivik o che comunque siano stati convinti dalla retorica del populismo e dell’anti-immigrazione. Ma tra i seggi del Parlamento ci sarà qualcuno che ha già promesso di dare battaglia: «Noi non dimentichiamo i compagni massacrati in nome dell’odio». Sono la «generazione 22 luglio», i giovani laburisti sopravvissuti alla strage, 33 candidati nelle liste della coalizione di Jens Stoltenberg. Quattro di loro sono stati eletti domenica. «Ci spaventa che il Partito progressista entri in Parlamento - dice Vegard Grøslie Wennesland, 29 anni -. La loro campagna elettorale si è basata soprattutto sulla xenofobia: è così che si crea un Paese che ha paura, un Paese che odia».
Breivik aveva scelto come obiettivo proprio i laburisti, accusandoli di aver permesso alla Norvegia di diventare una società multiculturale.
Il neo eletto Fredric Holen Bjoerdal, 23 anni, è da ieri il più giovane deputato norvegese: «Mi dedico alla politica non per l’orrore che ho vissuto, ma nonostante questo». A Utoya, Bjoerdal aveva salvato un gruppo di compagni in preda al panico guidandoli da un nascondiglio all’altro mentre fuggivano dalla follia omicida di Breivik. «Dopo quello che è successo la maggior parte dei miei amici ha rinunciato alla politica. Io no. Io ho la sensazione di dover continuare la lotta per quelli che non possono più farlo».
Durante la campagna elettorale tutti i partiti avevano evitato l’argomento Utoya, nessuno voleva essere accusato di strumentalizzare la strage. Ma le allusioni si sprecavano, soprattutto sui mancati investimenti del governo per la sicurezza nazionale. Morton Höglund del Partito del progresso sosteneva che i laburisti avrebbero dovuto utilizzare i soldi ricavati dal petrolio norvegese per acquistare elicotteri alla polizia. Il giorno del massacro di Utoya l’unico elicottero disponibile non era pronto. «Sarà difficile sedere in Parlamento a pochi metri di distanza – dice Wennesland –. Noi, la generazione “22 luglio” e loro. Ma da quel giorno per me è tutto più chiaro: qualcuno ha cercato di uccidermi per quello in cui credo. Lo ha fatto perché pensava che la soluzione ai problemi politici fosse la violenza. Proprio questo ha reso più forte la mia motivazione a partecipare alla democrazia».
Mentre Breivik sparava, Wennesland si era barricato con altri compagni in una casetta di legno rossa. Lui si era nascosto sotto il letto. Il suo amico Haavard Vederhus, leader della sezione giovanile di Oslo, è stato ucciso. Dopo gli attacchi, Wennesland lo ha sostituito.
Gli analisti politici a più riprese hanno sottolineato che la vittoria della destra non va ricercata negli errori di Stoltenberg, ma nella voglia di cambiamento di un Paese immerso in una «noia nazionale», inconsapevole del benessere in cui vive la Norvegia, senza debito pubblico, con tassi di crescita (2,5%), di disoccupazione (3%) e di inflazione (1%) impensabili in Europa. «Diamo per scontato che possiamo fare liberamente politica - dice ha Wennesland -, ma non dovremmo farlo. Mai. Per questo noi sopravvissuti alla rabbia abbiamo il dovere di continuare a lottare».

La Stampa 11.9.13
Allende, “esperanza” perduta dell’America Latina
Ricordi di un viaggio nel subcontinente nei mesi del golpe di 40 anni fa La febbre del socialismo umanitario aveva contagiato tutti
di Mimmo Càndito


Quarant’anni fa, l’11 settembre mi venne addosso in un mattino che traversavo le Ande. Ero in Perù, dalle parti di Arequipa, e il golpe di Pinochet lo ascoltai dal gracchiare d’una piccola radio verde, d’un incerto verde militare. La radio troneggiava sulla mensola d’una taverna semibuia da dove stavo per riprendere il viaggio che avevo appena cominciato, che era come un’esplorazione iniziatica delle terre che facevano il mondo dell’America Latina, da lassù del Rio Bravo fin giù alla Patagonia.
L’annuncio fu forte, brusco, anche emozionato. E fu come se nella taverna il tempo si fermasse. Tacquero tutti, lentamente, tacquero gli indios dei piccoli tavoli di legno nei loro dialetti quechua, e tacquero anche il padrone e i due campesinos che al banco si scambiavano in spagnolo fatti e storie comuni della loro povera vita senza domani.
Sentimmo da subito che le parole raccontavano proprio di noi, perché in quella storia che parlava del Cile, d’un generale fellone, di Allende che non si sapeva ancora se fosse vivo o morto, in quella storia c’era però dentro anche il Perù dei suoi generali «democratici» al potere e pure quella taverna semibuia di gente qualunque che ai generali di sinistra credeva sul serio, e c’era dentro l’America Latina tutta, gli indios, i campesinos, le loro rivoluzioni, le lotte e le leggende che, come aveva scritto Guillen in un suo poema, avevano fatto pensare che in quel continente potesse nascere forse l’«uomo nuovo / un uomo che trema della febbre della speranza».
«Esperanza», in spagnolo, è una parola molto ricca, significa, contemporaneamente, desiderio, illusione, e però anche attesa. E dal Cile di Salvador Allende, dal suo socialismo umanitario, l’America Latina ma non solo l’America Latina, in ogni suo angolo di vita - si era aspettata un segno forte di cambiamento, che rompesse gli schemi delle egemonie passate. Erano egemonie complesse, dove eredità coloniali, nazionalismi, la guerra fredda, si mescolavano intorbidando ogni tentativo di capir bene, ma dove, comunque, l’impronta forte degli interessi geostrategici che Washington coltivava all’ombra della Dottrina Monroe dominavano ogni processo politico che tentasse soluzioni altre.
E il Cile, e Allende, con quell’ombra ci cozzavano di brutto, perché Castro e il suo comunismo tropicale, ma anche Mosca e il suo comunismo reale, s’erano accomodati dietro i proclami di Unidad Popular, la riforma agraria, il radicalismo cieco del Mir, e dietro quel popolo unito che a gola spiegata si cantava «jamás sera vencido».
Il «pueblo unido» c’era anche nel Perù di quegli anni, che aveva appena avviato un illusorio esperimento di democrazia militare, certamente non allineata con Washington, come non era allineata con Washington la guerriglia sandinista che faceva tremare Somoza in Nicaragua (quel Somoza di cui il presidente Roosevelt aveva detto «sarà pure un figlio di puttana, ma è il ”nostro” figli di puttana»), e non era allineata la guerriglia dei Tupamaros in Uruguay, e non lo erano le lotte già da guerra civile del Salvador, e le azioni di rivolta contro la dittatura militare in Brasile, o lo stesso peronismo ch’era tornato a dominare l’Argentina.
Era l’intero subcontinente a essere traversato dalla «fiebre de esperanza», la febbre che il socialismo umanitario di Allende aveva riacceso; e dovunque io andassi, in quei quattro mesi che lo percorsi dal basso, da dentro, nelle sue strade, con la compagnia di solo uno zaino che teneva un po’ di libri e un maglione, camminando per ore sotto il sole della primavera nascente, schiacciato su vecchi autobus tra ceste di galline starnazzanti e indie prosperose, con indios che mi offrivano poveri piatti di manioca e guai se tentavo di resistere, dovunque incontravo e parlavo e vivevo con gente qualunque, mangiando il loro mangiare, sentendo i loro discorsi semplici e le loro «esperanzas» ingenue. E altro che il bolivarismo chavista di oggi.
Allende, anche con tutte le sue illusioni politiche, gli strumentalismi estremisti nei quali si lasciò trascinare, gli errori e i difetti d’una rottura sociale non controllabile, era comunque il catalizzatore d’una tensione che rischiava di mettere in crisi un intero sistema, «los yanquis» erano il lupo mannaro d’ogni latitudine. I forti finanziamenti della Cia agli oppositori (lo sciopero dei camionisti fece precipitare la crisi, in un Paese stretto e lungo come una lunga acciuga prosciugata) diedero spinta e forza alla rottura dell’ordine istituzionale, e i generali che erano passati per le aule della «Escuela de las Américas» a Panama – e ci passarono tutti, i cileni, i brasiliani, gli argentini d’ogni dittatura e d’ogni Junta militar - avevano ben imparato come si pratica un golpe e come si reprime una rivoluzione.
Cadde il Cile illuso di Allende, quell’11 settembre, e la «fiebre» si cancellò dalla vita della gente qualunque con la quale avevo vissuto quei miei lunghi giorni latinoamericani. La crisi del petrolio e le domeniche dell’austerità misero da parte l’attenzione mondiale verso il Cile di Pinochet; l’ordine riprese il suo posto.
Il mio itinerario dentro le strade del continente lo terminai due giorni prima del Natale, l’avevo cominciato che settembre era appena partito e Allende era presidente. Lo terminai a Cuba, dove volli anche provare a tagliare la canna della « zafra antimperialista». Fu una zafra fallimentare, a casa conservo il machete che volli portarmi via. Se ne sta in qualche cassetto, coperto della polvere delle illusioni perdute.

Corriere 11.9.13
«Il trucco di Pinochet per prendere il potere»
Italo Moretti, primo giornalista italiano in Cile, racconta il golpe del 1973
di Dino Messina


«Italo Moretti, Santiago del Cile. E questa è la residenza del dittatore». Chi non ricorda la sorta di firma con cui l’inviato della Rai chiudeva i suoi collegamenti, alle spalle il palazzo presidenziale, la Moneda, che fu bombardata per cacciare l’11 settembre 1973, quarant’anni fa, il presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, e poi, restaurata, divenne per diciassette anni la «residenza del dittatore».
Moretti, che il 29 ottobre compirà 80 anni, fu il primo giornalista italiano a sbarcare a Santiago del Cile dopo il golpe. Con memoria ferma ricorda: «Lavoravo per Radio Rai, in televisione approdai nel 1976. Il pomeriggio dell’11 settembre mi chiamò il direttore Vittorio Chesi, ex corrispondente da Londra, un galantuomo dai modi austeri e mi disse: hai pronto il passaporto? Partii il giorno stesso, via Madrid, accompagnato da un giovane fonico, Francesco Durante, che fece la nostra fortuna: non so come la notte riusciva a trasmettere brani dei servizi nascosti alla censura. Arrivati a Buenos Aires, il nostro punto di riferimento, e quello di tutti gli inviati, era il corrispondente del Corriere della sera Giangiacomo Foà, poi trasferitosi a Rio de Janeiro, che con generosità metteva a disposizione dei colleghi italiani la sua casa, il suo tempo e la sua professionalità. All’hotel Claridge incontrammo un gruppo di giornalisti americani che avevano affittato un charter e riuscirono a rompere l’embargo: pagata la nostra quota, il 14 volammo a Santiago. Con sorpresa vedemmo i tricolori esposti ai balconi delle case. Le bandiere ricordavano semplicemente l’indipendenza nazionale, che si festeggia il 18 settembre».
Moretti era già stato altre volte in Cile e gli era chiaro l’isolamento di Allende, il presidente martire, abbandonato dai socialisti massimalisti di Carlos Altamirano, dai rigidi comunisti di Luis Corvalan. E gli era evidente anche il motivo per cui al golpe non seguì una reazione popolare: «Non solo per l’atteggiamento dei leader politici, ma perché c’era una situazione sociale talmente difficile (iperinflazione, scarsità di beni nei negozi aggravata dallo sciopero dei camionisti) che la gente si era rassegnata a una svolta autoritaria».
Un’altra cosa che Moretti tiene a dire: «Quando si parla di golpe di Pinochet si afferma un falso. L’ideatore del colpo di Stato in realtà fu l’ammiraglio José Merino, coadiuvato dal generale dell’aviazione Gustavo Leigh. Pinochet aderì al progetto e con scaltrezza si mise al comando della giunta militare in base a una regola inventata su due piedi: leader doveva essere il capo dell’arma più antica, guarda caso l’esercito».
Uno dei primi servizi fu di raccontare la vicenda dei settemila prigionieri politici nello stadio nazionale dei Santiago: «Quando ci avvicinammo alle inferriate, i prigionieri ci chiedevano sigarette e ci davano i numeri di telefono delle famiglie. Qualcuno ci sussurrava: negli scantinati stanno torturando». I settemila prigionieri dello stadio, secondo Moretti, sono la cifra «del trionfalismo dei golpisti, che volevano far sapere a tutti che in Cile la musica era cambiata. Il contrario di quanto vidi nel 1976 in Argentina, all’inizio della dittatura militare di Jorge Videla: Buenos Aires sembrava una città normale, in realtà di notte avvenivano sequestri e omicidi degli oppositori. Anche in Cile il conto fu salato, perché vennero eliminati quattromila oppositori secondo le stime ufficiali, ottomila secondo altre valutazioni».
In Italia, dice Moretti, «sulla vicenda c’era una sensibilità particolare anche per il fatto di avere partiti gemelli, la Dc, i comunisti, i socialisti. Già dalla nostra sede diplomatica a Santiago partì una corsa alla solidarietà . Al momento del golpe l’ambasciatore italiano era assente, responsabile era l’incaricato d’affari Pietro De Masi, assieme al giovane Roberto Toscano. I cileni perseguitati scavalcavano il muro e chiedevano asilo politico ai nostri rappresentanti che si procuravano i visti per Roma. Fu un’opera rischiosa e straordinaria, soprattutto se paragonata alla scandalosa chiusura tre anni dopo della nostra sede a Buenos Aires. L’Italia fu il Paese europeo più ospitale con i profughi cileni, al punto che qualcuno ne approfittò. In casa mia a Roma capitarono un paio di artisti che colsero l’occasione per una lunga tournée in Italia. I due mi lasciarono conti telefonici stratosferici. Non tutti gli artisti fuggiti in Europa erano stati cantori del governo di Unidad popular come gli Inti Illimani o Victor Jara, il cantautore eliminato dai golpisti».
Italo Moretti tornò in Cile decine di volte, «talora inutilmente, perché si credeva che la dittatura potesse cadere dopo uno sciopero o una protesta. In realtà il regime crollò per l’unico errore commesso da Pinochet, che nel 1988 perse il referendum che aveva indetto per essere confermato al potere».
Moretti ha lavorato alla Rai, dove è stato anche brevemente direttore del Tg3, fino al 1998. Ha raccontato le sue esperienze di inviato in vari libri, tra cui «In Sudamerica» (Sperling & Kupfer 2000).

l’Unità 11.9.13
40 anni dopo. I fatti del Cile e Berlinguer
La proposta del compromesso storico non fu un effetto del golpe
di Francesco Giasi

vicedirettore Istituto Gramsci

ALCUNI MESI PRIMA DEL GOLPE CILENO BERLINGUER AVEVA GIÀ PRESENTATO IL NUCLEO DELLA STRATEGIA DEL «COMPROMESSO STORICO». Nel Comitato centrale del febbraio 1973 aveva parlato di «un programma di rinnovamento e risanamento nazionale» che comportava «l’incontro e la collaborazione di tutte le forze democratiche e anzitutto delle tre grandi componenti del movimento popolare italiano», cioè quella comunista, quella socialista e quella cattolica. La proposta del «compromesso storico» non nacque dunque dallo choc provocato dal golpe cileno e sarebbe riduttivo considerare le Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile (pubblicate su Rinascita del settembre-ottobre 1973) come una risposta alla tragica caduta del governo democratico guidato da Allende. Si può dire anzi che la elaborazione del «compromesso storico» iniziò quando Berlinguer venne eletto segretario del Pci, come si evince dalla lettura della sua relazione al XIII Congresso tenuto a Bologna nel marzo del 1972, e che interessò da subito una parte del gruppo dirigente comunista.
Certo i fatti del Cile contribuirono in maniera decisiva a definire quella proposta che scompaginò il quadro politico italiano. In Italia l’impatto del golpe cileno fu certamente più forte che altrove. Il Paese era già scosso da alcuni anni dalla strategia della tensione e la Repubblica italiana non era mai apparsa immune da rischi autoritari. Le preoccupazioni provocate dal golpe cileno erano dunque più che fondate e le analogie tra i due paesi erano ben evidenti. Eppure occorre ridimensionare il carattere contingente delle Riflessioni per valutarne appieno il significato.
Se fosse stata soltanto una risposta al pericolo fascista (in Europa e fuori) la proposta avrebbe perso presto gran parte della sua forza già dopo la caduta in sequenza dei regimi in Portogallo, Grecia e Spagna nel 1974, 1975 e 1976, evidente smentita delle previsioni intorno alla fascistizzazione. La proposta traeva invece origine da valutazioni legate alla storia di lungo periodo. Al fondo vi era una visione pessimistica dell’intera storia italiana segnata dalla fragilità delle istituzioni democratiche e dalla permanente forza esercitata dai gruppi conservatori. La difesa della democrazia contro l’aggressività delle forze conservatrici, sempre capaci di stringere larghe alleanze nei momenti del cambiamento, è uno dei temi ricorrenti in tutta la riflessione di Berlinguer. Ma la novità sta nel porre un duplice obiettivo allo schieramento democratico: l’«alternativa democratica» serve infatti non solo a rendersi immuni dal rischio di soluzioni autoritarie, ma per iniziare un nuovo cammino delle forze popolari con l’obiettivo di trasformare l’Italia.
La proposta di Berlinguer fu radicale perché mirò a scardinare l’equilibrio che generava il pericolo fascista e che aveva determinato irrimediabilmente l’isolamento del Pci. L’equilibrio da rompere era quello della guerra fredda che rendeva duratura la convergenza tra il centro politico e le forze conservatrici non solo in Italia. Per questo non si può comprendere il compromesso storico senza riferirsi alla prospettiva eurocomunista formulata di lì a poco. La ricollocazione del Pci rispetto a Mosca e al comunismo internazionale era pensabile entro certi limiti (nei termini già in parte emersi nel 1968 con le posizioni tenute in difesa della Primavera di Praga), ma era un modo per superare la logica della guerra fredda. Comunque la si voglia valutare la proposta dell’eurocomunismo fu di certo il più concreto tentativo di avere più autonomia da Mosca e una strada per avviare il dialogo con i partiti socialisti europei.
Una proposta profondamente innovativa quindi sia rispetto all’ordine internazionale sia rispetto all’immobile quadro politico italiano consolidatosi all’indomani dell’aprile 1948. Sulla «questione cattolica» (e Vaticana) e la particolare natura delle forze popolari in Italia, Berlinguer aggiornava la tradizione comunista italiana che ne aveva fatto il tema più ricorrente di riflessione, non accantonato negli anni del fascismo, divenuto centrale in Togliatti con la svolta di Salerno e ripensato alla luce dei Quaderni di Gramsci. Il paradigma offerto dai governi di coalizione antifascista del 1944-1947 fu esplicitamente richiamato da Berlinguer che rimase convinto che solo la difesa del sistema dei partiti nato con la Resistenza potesse consentire un rafforzamento della democrazia e un rinnovamento profondo della società italiana. Ma evidentemente non era possibile un ritorno alla stagione che aveva portato al miracoloso compromesso costituzionale. La strategia di Berlinguer si basava sui mutamenti intervenuti negli ultimi anni, non era velleitaria e disponeva già di interlocutori. Moro era altrettanto convinto della fragilità della democrazia italiana e della necessità di impedire che si stabilisse una saldatura tra le forze conservatrici e una parte del centro politico italiano. Come Berlinguer, Moro credeva che le forze progressive e democratiche emerse a partire dal ’68 dovessero essere valorizzate nel quadro costituzionale e che occorresse servirsi di queste forze per avviare una nuova stagione democratica. Il referendum sul divorzio del maggio 1974 e quel confronto col mondo cattolico furono una specie di prova del fuoco che diede vigore e credibilità alla proposta di Berlinguer.

Il convegno a Roma
Berlinguer e Allende

Oggi alle 17 sala della Casa dell’Architettura, Piazza Manfredo Fanti il convegno «11 settembre 1973-11 settembre 2013: quarant’anni dopo il golpe, la scomparsa di Allende e le «riflessioni»
Enrico Berlinguer ». Con Ugo Sposetti, Donato Santo, Ignazio Marino, Nicola Zingaretti. Interventi di Guido Calvi, Nana Corossacz, Piero De Masi, Sergio Insunza, Patricia Mayorga, Italo Moretti, Maria Stabili, Olga Sthandier, Aldo Tortorella, Guido Vicario. Conclusioni di Piero Fassino, Massimo D’Alema, Josè Miguel Insulza.

Corriere 11.9.13
Quattro condanne per lo stupro che ha cambiato volto all’India
Dopo quel delitto è nata una nuova consapevolezza
di Nita Bhalla

Fondazione Thomson Reuters

NEW DELHI — Il violentatore seriale la segue per giorni. Poi all’improvviso si introduce in casa sua mentre è sola e tenta di violentarla sotto la minaccia di un coltello. Ma in qualche modo la ragazza riesce a sopraffarlo e a immobilizzarlo. Ora, con l’aiuto delle due coinquiline, deve decidere che cosa fare di lui. Ammazzarlo e seppellirlo in giardino? O chiamare la polizia, di cui però tutti conoscono l’inefficienza e l’insensibilità, con il rischio che il criminale venga rilasciato subito?
È questa la trama di Kill the Rapist ?(Ammazzare il violentatore?), un nuovo thriller di Bollywood che punta a rilanciare il dibattito e incoraggiare le donne indiane a denunciare le violenze sessuali, e vuole ammonire i potenziali stupratori facendoli «tremare di paura al solo pensiero di perpetrare una violenza sessuale», come recita la pagina Facebook del film.
Un film controverso? Certo. Nasce dalla crescente consapevolezza che va diffondendosi in India sulla violenza contro le donne, dal giorno dello stupro di gruppo di cui fu vittima una studentessa di 23 anni su un bus lo scorso dicembre a Delhi. La ragazza morì dopo due settimane per le lesioni riportate. «Come la maggior parte degli indiani, anch’io mi ero assuefatto a sentire notizie di stupri e altre violenze contro le donne. Le leggevo sui giornali, giravo la pagina e dimenticavo» dice Siddhartha Jain, il produttore 39enne di Kill the Rapist? «Ma il caso della studentessa mi ha profondamente sconvolto. Non volevo che fosse una storia come tante altre. Il mio film, che uscirà nelle sale nell’anniversario dello stupro, fornisce lo spunto per ampliare il dibattito sulla sicurezza delle donne, con la speranza di generare qualche cambiamento».
La brutale aggressione contro la studentessa scosse le coscienze di decine di migliaia di abitanti delle grandi città, normalmente distratti, che si riversarono nelle piazze a dicembre e gennaio per protestare contro le insufficienti misure di sicurezza a tutela delle donne, puntando i riflettori mondiali su un Paese dove una donna viene stuprata ogni venti minuti.
Nove mesi dopo, mentre il Paese aspetta il verdetto — previsto per oggi — contro i quattro imputati, e anche se i manifestanti si sono tenuti lontano dalle strade, il caso dimostra di aver avuto un impatto durevole sulla società indiana. Negli ultimi mesi, stampa e tv hanno dato maggior risalto ai reati di genere, i dibattiti si intensificano sui social media e persino le stelle di Bollywood e i campioni di cricket sono scesi in campo. Questo argomento — una volta riservato a movimenti femministi, attivisti e accademici — oggi anima le discussioni della classe media urbanizzata. «Si avverte una sensibilità molto maggiore sui problemi di genere in tutti i settori della società» afferma Santosh Desai, editorialista e autrice di Mother Pious Lady: Making Sense of Everyday India (Madre e donna devota: capire l’India di tutti i giorni). «Per la prima volta la questione si è allargata a tutti i settori della società e l’interesse non accenna a diminuire, anzi, le iniziative si moltiplicano».
Ma se, come dicono gli attivisti, oggi le donne non si sentono molto più sicure di prima in India, per lo meno è stato infranto quel muro di silenzio che circondava la violenza contro le donne in questa società profondamente patriarcale. La polizia di Nuova Delhi, per esempio, è convinta che l’aumento nelle denunce di stupro è dovuto in parte al nuovo coraggio delle vittime a farsi avanti. Da dicembre ad oggi è stato denunciato oltre il doppio degli stupri rispetto all’anno scorso.
La molla sociale
Gli analisti attribuiscono il merito di buona parte di questa nuova consapevolezza ai media indiani, che hanno indagato e commentato lo stupro del 16 dicembre e i suoi strascichi. Uno studio effettuato su sei canali di informazione ha rivelato che nelle due settimane successive all’aggressione sono andati in onda 546 notiziari e 194 programmi speciali riguardanti questo caso, oltre a 7.541 minuti di diffusione radiofonica. Le principali testate hanno dedicato al caso da una a tre pagine giornalmente. «I media hanno svolto un grande ruolo come molla sociale su questo tema. Il caso ha scatenato un’ondata impressionante di emozioni e si è rivelato il punto di svolta nella società indiana nel prendere consapevolezza della violenza contro le donne» afferma Prabhakar Kumar, del Csm (centro di studi sui media) di Delhi. «Sono emerse centinaia di storie sulla violenza di genere in seguito allo stupro di Delhi e non c’è dubbio che abbiano contribuito a spezzare il silenzio che spesso imbavaglia la vittima in questa nostra società».
Sonia Singh, direttore editoriale e presidente della commissione etica presso NDTV, un canale nazionale di informazione molto seguito, in lingua inglese, concorda pienamente. «E’ stata una svolta per noi nel senso che abbiamo scoperto che il nostro pubblico era diventato molto più sensibile e ricettivo davanti a questi casi. Di conseguenza sono aumentati i servizi di cronaca, ai quali abbiamo dato maggior visibilità».
Il dibattito ha infiammato siti come Facebook e Twitter. Celebrità nazionali, come gli attori di Bollywood e i campioni sportivi che contano milioni di fan, hanno fatto sentire la loro voce. Il mese scorso, la superstar di Bollywood, Shah Rukh Khan, ha rispettato la promessa presa dopo lo stupro di Delhi di far precedere il proprio nome da quello della protagonista nei titoli di testa del suo film d’azione Chennai Express , per diffondere il rispetto per le donne in un’industria, come quella cinematografica, ancora dominata dagli uomini. Altri attori si sono spinti oltre, dando vita a iniziative come Men Against Rape and Discrimination (Uomini contro lo stupro e la discriminazione) il cui acronimo, MARD, significa uomo in hindi, per insegnare ai ragazzi la parità di genere, avvalendosi del contributo di campioni di cricket, come Sachin Tendulkar.
Rompere il silenzio
Questa maggior consapevolezza si è sviluppata soprattutto nei centri urbani, senza scalfire le masse rurali, profondamente conservatrici, che formano fino al 70% della popolazione indiana, che si aggira sui 1,2 miliardi di abitanti. «Da allora ci sono state proteste continue sui casi di stupro e la gente è scesa in strada sempre più numerosa» dice Kavita Krishnan, segretaria della All India Progressive Women’s Association . «Si è creato un interesse molto più profondo e duraturo su questo argomento, la gente vuol vedere misure efficaci per contrastare le violenze. E’ il risultato più incoraggiante».
Da Nuova Delhi ad altre città, come Mumbai, Kolkata e Manipal, non si fermano le manifestazioni di protesta per ogni nuovo caso di stupro, costringendo le autorità a passare all’azione. Lo scorso giugno, per esempio, il rapimento e lo stupro di gruppo ai danni di una studentessa universitaria in un autorisciò nella città meridionale di Manipal hanno scatenato le proteste di centinaia di studenti, in seguito alle quali la polizia ha intensificato le ricerche che hanno portato al fermo di tre assalitori. Con l’intervento di centinaia di poliziotti e l’interrogatorio di cinquemila autisti di autorisciò, tre sospettati sono stati arrestati.
Secondo fonti della polizia, anche la volontà delle vittime di denunciare gli attacchi, malgrado la paura e la vergogna, ha avuto un peso determinante. Circa il 40% di tutti gli stupri in India viene denunciato nella sola Delhi. I dati rivelano che 1036 violenze sessuali sono state denunciate a Delhi quest’anno, al 15 agosto, contro i 433 casi dello stesso periodo lo scorso anno, mentre le denunce di molestie è passato da 381 a 2267.
Il regista Siddhartha Jain ribadisce quanto sia importante mantenere acceso il dibattito per incoraggiare le donne a sporgere denuncia. «Le studentesse sono violentate dai loro insegnanti, le bambine dagli zii e dai vicini di casa, e il loro silenzio è assicurato con l’intimidazione e le minacce. Grazie a strumenti quali i film e i social media che mantengono vivo il dibattito, forse queste vittime troveranno il coraggio di raccontare le loro storie ed eradicare la violenza contro le donne».
(Traduzione Rita Baldassarre)

Corriere 11.9.13
Asia, in 6 Paesi un uomo su quattro è un violentatore
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Un quarto degli uomini ammette di aver violentato una donna, spesso la compagna. È il risultato di uno studio condotto dall’Onu in sei Paesi asiatici: Bangladesh, Cina, Cambogia, Indonesia, Sri Lanka e Papua Nuova Guinea. Le domande sono state poste a 10 mila maschi tra i 18 e i 49 anni ai quali era stato garantito l’anonimato. La maggioranza dei soggetti ha riferito di non aver dovuto affrontare alcuna conseguenza legale.
Gli autori del sondaggio hanno usato come metro «un atto sessuale di penetrazione non consensuale». L’11 per cento dei 10 mila ha confidato di averlo imposto a donne con le quali non avevano alcun legame, ma il dato sale fino al 23 per cento se si considerano le compagne, mogli o fidanzate. Quasi la metà ha stuprato più di una volta.
La più alta incidenza di violenza sessuale è stata rilevata a Bougainville, in Papua Nuova Guinea: nel campione il 62 per cento ha ammesso uno o più stupri. Nelle città dell’Indonesia i violentatori sarebbero il 26%, nelle campagne il dato scende al 19. In Cina è stata fatta una media urbana e rurale del 22%; in Cambogia 20%; Sri Lanka 14,5%; Bangladesh 14%.
Gli intervistatori dell’agenzia Onu erano maschi e hanno posto le domande con cautela: «Ha mai forzato una donna che non era sua moglie o la sua ragazza ad avere un rapporto sessuale?», o «Ha mai fatto sesso con una donna sotto l’effetto di droghe o alcol che non fosse in grado di indicare il proprio consenso?». Ai violentatori è stato infine chiesto: «Perché?». Circa il 75% ha risposto: «Perché la volevo» o «Perché volevo fare del sesso». Il 38 per cento delle risposte è stato: «Perché volevo punirla». La dottoressa Emma Fulu, coordinatrice del rapporto, dice: «Colpisce che questi uomini sentissero di avere “un diritto sessuale”».
A Pechino si attende il verdetto su un processo per stupro che ha riempito le cronache dei giornali : accusati cinque ragazzi della nuova alta borghesia, che hanno portato in una camera d’albergo la vittima agganciata in un bar. Il più noto degli imputati è il figlio diciassettenne del capo del gruppo artistico dell’esercito, il generale Li, popolarissimo cantante. Lui ha precedenti per aggressione, ma la famiglia sta facendo di tutto per salvarlo: prima ha cercato di far degradare l’accusa da stupro di gruppo ad «azione di sesso a turno»; poi hanno trovato anche l’appoggio di un professore di diritto dell’università Tsinghua: siccome la vittima sarebbe stata una hostess di locale notturno, è la tesi, la violenza sarebbe «meno grave». Il docente è stato sommerso di messaggi di protesta e ha fatto marcia indietro.

Corriere 11.9.13
Yemen, la sposa muore a otto anni
Quelle bambine ci chiedono aiuto
di Orsola Riva


Avere 8 anni ed essere data in sposa a un uomo che ha 5 volte la tua età. Avere 8 anni e morire durante la prima notte di nozze in una camera d'albergo per un'emorragia interna. Si chiamava Rawan, viveva ad Hardh, provincia nordoccidentale dello Yemen, e di più non sappiamo. La sua storia è stata denunciata da un giornalista locale ed è subito rimbalzata sui siti di mezzo mondo. Difficile accertarne la veridicità: le autorità locali si sono affrettate a smentirla. Troppo terribile per essere vera, viene da dire. Ma non è così. La storia di Rawan è «vera» anche se non lo fosse. Avere 8 anni e sposare un uomo di quaranta è già morire. E questo succede spesso in Yemen. Soprattutto nelle aree rurali come quella dove viveva Rawan.
Secondo un rapporto di Human Rights Watch più della metà delle donne yemenite si sposa prima di aver compiuto 18 anni: il 14% prima dei 15. In Yemen non esiste una legge che imponga un'età minima per il matrimonio. Alcuni leader religiosi e tribali criticano la pratica delle spose bambine, altri invece si richiamano all'esempio di Maometto che sposò Aisha quando era una bimba. Ogni anno nel mondo 14 milioni di minorenni vengono date in sposa contro la propria volontà. Nei Paesi in via di sviluppo una su sette prima dei 15 e alcune, proprio come Rawan, a 8, 9 anni. In cima alla classifica il Niger con il 75% di matrimoni precoci (al dodicesimo posto l'India dei Brics con il 47% di «spose bambine»). Si tratta, nella maggioranza dei casi, di famiglie molto povere che pensano di non avere altra scelta. Le conseguenze di queste unioni forzate sono devastanti. Le bambine perdono la possibilità di studiare e lavorare e così contribuiscono ad alimentare il ciclo di povertà da cui provengono. Il problema non è solo il matrimonio precoce ma anche il parto precoce: la morte per parto sotto i 15 anni è 5 volte più probabile che per le ventenni. Come sradicare questa piaga che in molti Paesi si perpetua solo perché è sempre stato così? Le organizzazioni internazionali sono abbastanza d'accordo: bisogna mobilitare e istruire le comunità, collaborare con i leader locali per cambiare le convenzioni sociali. Come ha detto una volta Graça Machel, moglie di Nelson Mandela: «Le tradizioni sono fatte dalle persone: e noi possiamo decidere di cambiarle».

La Stampa 11.9.13
“Ricchi privilegiati” Ad Harvard irrompe la lotta di classe
La retta annuale della Business School di Harvard è di 50.000 dollari. Il 65% degli studenti frequenta grazie a borse di studio
Migliaia di dollari per le attività sociali: “Se no sei out”
di Francesco Semprini


Questione di soldi, verrebbe da dire sentendo il racconto di alcuni ex alunni di Harvard Business School, la scuola di «affari» dell’ateneo più celebre degli Stati Uniti che anche quest’anno si trova in vetta alla classifica del World University Rankings.
A far la differenza tra gli iscritti sono infatti gli assegni staccati per le attività ludiche, come se non bastassero le cospicue rette che vengono pagate per l’iscrizione e la «sopravvivenza» universitaria. Ad esempio, all’ingresso nel campus gli alunni del primo anno devono staccare alle rispettive «Section», ovvero il gruppo di studio in cui vengono inseriti, un assegno di 300 o 400 dollari, se vogliono essere coinvolti nelle cosiddette «attività sociali», feste, riunioni, celebrazioni e altri generi di svaghi. Ed è solo l’inizio, perché secondo il «New York Times», gli studenti di secondo anno (il corso «graduate» è articolato in un biennio), organizzano minivacanze sulle piste da sci a mille dollari, o fine settimana di lusso a Mosca o in Islanda. Gli spendaccioni più spregiudicati sono quelli della «Section X» una sorta di «società segreta» per studenti ultra-ricchi chiamata così per sottolinearne l’eccezionalità, visto che le sezioni regolari vanno dalla A alla J.
Eloquente la testimonianza di Christina Wallace, attuale direttore di «Startup Institute», che ha frequentato la scuola di business di Harvard grazie a una borsa di studio. «Ad un certo punto i miei compagni di corso mi hanno detto a chiare lettere che dovevo spendere più soldi se volevo essere più coinvolta nelle attività di classe», dice l’ex studentessa. «Non facevano altro che ripetere la stessa cosa - racconta - “la differenza tra una buona esperienza ed una bellissima è di soli 20 mila dollari”». Quasi una forma di bullismo discriminante: «Lì le differenze di classe sono elemento di divisione ancor più che la differenza tra maschi e femmine», chiosa Wallace. Tanto che in riferimento a un recente articolo apparso sempre sul «New York Times» nel quale si diceva che Harvard sta aumentando i propri sforzi per promuovere il ruolo delle donne all’interno dell’ateneo, la reazione di molti è stata simile a quella di Christina. «Il problema è un altro - ha scritto sul sito del quotidiano un’ex alunna - ho preso in prestito decine di migliaia di dollari per elevare il mio stato sociale e non mi sono mai sognata di portare i compagni a casa dei miei genitori». Eppure gli iscritti alla scuola di Business sembrano provenire dalle realtà più disparate e il 65% frequenta grazie a borse di studio che permettono di far fronte alla retta di 50 mila dollari l’anno. Anche il rettore della scuola, Nitin Nohria, è noto per aver sempre affrontato in maniera corretta le questioni sociali che caratterizzano le dinamiche interne all’ateneo. Tuttavia è assai complicato capire quali e quanti sforzi siano stati compiuti per far fronte ai conflitti sociali e di sesso. Un suggerimento arriva da Thomas J. Peters, coautore di «In Search of Excellence», e aspro critico dell’educazione impartita nelle scuole di business, il quale spiega che bisognerebbe introdurre una clausola di iscrizione: i candidati ricchi devono aver fatto un’esperienza significativa dal punto di vista sociale. Sempre che non si comprino anche quella.

Corriere 11.9.13
L’Inghilterra che piace a Loach porta in trionfo lo stato sociale
Nel documentario celebra le riforme e attacca l’era Thatcher
di Paolo Mereghetti


Il progetto politico per affrontare il futuro, Ken Loach lo cerca nel passato, nello «spirito del ’45», come dice il titolo del suo documentario, presentato a febbraio al festival di Berlino e ora distribuito in Italia in edizione originale sottotitolata
A spiegare meglio il senso di quello spirito ci pensa il sottotitolo: «La vittoria laburista del ’45. Ricordi e riflessioni» che fa riferimento al ribaltone politico che subito dopo la guerra allontanò dal governo l’artefice della vittoria inglese contro il nazismo, Winston Churchill, per sostituirlo con il laburista Clement Attlee (Churchill si prenderà la rivincita nel 1951, ma questo a Loach non interessa). In effetti la sorpresa fu grande: nessuno pensava a una sconfitta di sir Winston, ma evidentemente la guerra, con il suo strascico di morti e sofferenze ma anche il suo bagaglio di speranze e sogni, aveva cambiato in profondità la società inglese.
Ed è questo l’oggetto dell’interesse di Ken Loach. Abbandonando per una volta la finzione, il regista inglese scava negli archivi cinematografici per raccontare come una nazione sostanzialmente conservatrice, che aveva sopportato miserie e carestie negli anni Trenta, sembrò risvegliarsi nel dopoguerra. Le immagini scelte dal regista sono uguali a quelle che abbiamo visto in tante parti del mondo: scene di euforia, baci appassionati tra soldati e belle ragazze per le vie della città, abbracci e sorrisi. Quello che il montaggio mette in evidenza è lo stretto rapporto che pian piano si va formando tra il successo in una guerra che all’inizio sembrava persa e la voglia di ricostruire la nazione su basi diverse. «Se abbiamo vinto la guerra, niente è impossibile» sembra di leggere nella mente dei reduci. O almeno questa è la speranza che il partito laburista fa circolare tra i suoi simpatizzanti: gli anni Trenta erano stati duri per tutti, avevano visto il trionfo di poche, ricchissime famiglie che avevano fatto il bello e il cattivo tempo (più il cattivo, a essere sinceri) ma evidentemente lo sforzo bellico aveva modificato i rapporti di forza. O comunque aveva acceso altre speranze: i Conservatori non l’avevano capito, i Laburisti sì e alle elezioni del 1945 ottennero a sorpresa la maggioranza assoluta.
Con l’aiuto di una serie di vecchi militanti intervistati oggi, montati assieme a materiale di repertorio, ecco che Loach ripercorre quegli anni per raccontare le riforme che cambiarono profondamente lo stato e la vita degli inglesi. Non fa nemmeno una parola sulla concessione dell’indipendenza all’India (che pure segnò una svolta epocale per la storia dell’impero britannico) ma ripercorre quasi con commozione l’instaurazione del servizio medico nazionale. Esalta il ruolo innovatore di Aneurin Bevan, ministro della Sanità e della Ricostruzione, difensore intransigente della necessità di estendere a tutta la popolazione le cure mediche gratuite e fautore di un piano di edilizia popolare che favorì una politica sociale di affitti. Poi passa a illustrare l’entusiasmo che innescarono nella popolazione la nazionalizzazione delle miniere, dei trasporti, dell’elettricità, del gas, dell’acqua, il piano nazionale per i portuali: scene di volti sorridenti, di famiglie allegre, di sindacalisti orgogliosi, mentre qualche reduce di allora — un minatore, uno dei primissimi medici di base, due infermiere, alcuni ferrovieri, tra gli altri — ricorda l’entusiasmo per una vita che sembrava finalmente a misura di tutti e non di pochi privilegiati.
Per 70 minuti, il film, rigorosamente in bianco e nero, ripercorre un passato felice e ottimistico che sembra destinato a durare fino all’arrivo della «strega cattiva» Margareth Thatcher, il cui principale titolo di merito sembra essere quello di aver smantellato ciò che fino ad allora aveva dato tanta felicità... Ed è qui che il film mostra i suoi limiti, perché se è vero che la politica neoliberista messa in atto in quasi tutto l’Occidente a partire dagli anni Ottanta si è rivelata un fallimento, il film non accenna minimamente alla crisi dello stato sociale i cui costi (e malfunzionamenti) apparivano insostenibili per l’economia nazionale. A Loach e ai suoi intervistati interessa sottolineare come lo smantellamento delle riforme volute dai Laburisti abbia peggiorato di molto la vita inglese (il che è incontestabile), ma non sembrano porsi il problema della spesa sociale, del suo malfunzionamento e di come reperire le risorse per finanziarla.
Alla fine del film , rivediamo a colori alcune immagini già viste all’inizio in bianco e nero, a ribadire un’euforia che nell’immediato dopoguerra c’era e che adesso Loach si augura torni. Ce lo vorremmo augurare tutti, anche se sappiamo che non basta colorizzare qualche vecchia immagine per trasformare i sogni in realtà.

il Fatto 11.9.13
70 anni dopo. Lo storico Gianni Oliva
I conti col passato di un Paese che assolve tutti
di Silvia Truzzi


Che siamo un paese incapace di epurazioni lo si capisce bene osservando le vicende di questi giorni. O di vent’anni fa, quando – scavallata Tangentopoli – l’intera classe politica, processata e condannata, passò in tutta serenità da una Repubblica al-l’altra. Anche la Seconda guerra mondiale spiega molte cose: “La vulgata parla dell’8 settembre ‘43 come del giorno della scelta, della gente che va in montagna, dell’inizio della resistenza”, spiega Gianni Oliva, storico e autore de L’Italia del silenzio (Mondadori). “In realtà se si vanno a vedere le testimonianze delle persone che la resistenza l’hanno fatta davvero – da Calamandrei a Calvino a Fenoglio – ci si accorge che l’8 settembre fu un momento di grande confusione, in attesa di una liberazione che avrebbe comunque dovuto arrivare da altre”.
Professore, “il vizio assurdo” del silenzio ha attraversato la storia d’Italia fino a qui.
Quando la guerra è finita abbiamo fatto finta di averla vinta. E la Resistenza è stato quello che ci ha permesso di sostenere che eravamo dalla parte dei vincitori.
Ma è stata una guerra civile!
Non poteva non esserlo. Noi il fascismo l’abbiamo inventato, non è che ce l’hanno imposto con un’occupazione, come è capitato nella Francia di Vichy. Avevamo inventato il modello, era ovvio che da quello si uscisse con uno scontro che era anche culturale oltre che fisico. La resistenza è stata da un punto di vista geografico concentrata nel Nord e da un punto di vista quantitativo ha coinvolto un numero di persone che è sicuramente significativo, ma che non permette di dire che la maggioranza degli italiani ha aderito alla resistenza. Un grande storico liberale, Rosario Romeo, diceva: “La resistenza, opera di pochi, è stata usata da tanti per evitare di fare i conti con il proprio passato”. È stata proposta una rilettura del Ventennio nel quale la responsabilità di tutto ciò che accadeva era stata del re e di Mussolini. Nei manuali scolastici si legge che nel ‘31 Mussolini obbligò i professori universitari a giurare fedeltà al regime. E si ricordano i 12 che si rifiutarono di giurare. Giustissimo parlarne, ma bisogna anche dire che i professori universitari quel-l’anno in Italia erano 1.848: i 12 non sono statisticamente rilevanti.
Lo scontro fascismo-antifascismo è rimasto vivissimo durante tutto il ‘900, almeno come contrapposizione dialettica.
Lo scontro si è basato su un’interpretazione parziale del passato. Il fascista non è mai stato quello del Ventennio, ma quello di Salò. Se il fascista è solo quello, è chiaro che si assolvono tutti quelli che per vent’anni hanno retto le sorti del regime approfittandone in termini di carriera e guadagni. Quest’ambiguità interpretativa è essenzialmente servita a permettere che la classe dirigente transitasse da prima a dopo senza pagare pegni. Tutto ciò che ricordava che l’Italia aveva fatto una guerra e l’aveva persa è stato rimosso. Sui criminali di guerra italiani c'è stato un incredibile baratto dei silenzi. Alla fine del conflitto, la Commissione internazionale per i crimini di guerra ha mandato a Roma la richiesta di 2.200 estradizioni di ufficiali e funzionari accusati di aver compiuto crimini contro i civili in Jugoslavia, in Albania e in Grecia. L’estradizione avrebbe permesso che queste persone venissero processate nei paesi che ne avevano fatto richiesta. De Gasperi si mise di traverso, affidando la pratica al sottosegretario Andreotti che cominciò a prendere tempo.
Da che mondo è mondo si processano i vinti, non i vincitori.
Appunto. Dagli archivi è saltata fuori una lettera di Pietro Quaroni, che era l’ambasciatore italiano a Mosca, indirizzata a De Gasperi: “Caro Alcide, te l’avevo detto che questi criminali dovevamo processarceli noi; dargli trent’anni e tra due o tre anni, quando più nessuno ne avrebbe parlato, farli uscire. Visto che non l’abbiamo fatto abbiamo una sola strada. Cioè non pretendiamo di estradare e processare criminali di guerra tedeschi che hanno commesso crimini in Italia”. Così si spiega l’Armadio della vergogna, perché tutti i dossier relativi ai crimini di guerra compiuti in Italia dai tedeschi sono stati mandati da quella commissione a Roma con nomi, cognomi, gradi e indirizzo dei responsabili. Ma sono stati messi in un armadio nel sottoscala della Procura militare di Roma con le ante rivolte verso il muro. E lì sono rimasti fino al 1994 quando un impiegato incauto ha girato l’armadio e si è scoperto che sapevamo tutto da cinquant'anni.
In questo clima di grande rimozione quanto ha pesato l’amnistia Togliatti?
L'amnistia Togliatti è stata, per certi versi, comprensibile. Non si possono trascinare troppo a lungo i processi se si vuole uscire da un periodo turbolento come è stato quello della guerra. Il punto non è solo il processo alle singole persone, quello che è mancato è una consapevolezza delle responsabilità collettive. Di tutti quelli che durante il ventennio hanno fatto i maestri, i professori, i giornalisti, chi rappresentava i grandi poteri economico finanziari, l’esercito, la magistratura: tutti quelli che per convenienza, indifferenza, complicità o convinzione hanno sostenuto il regime.
In un capitolo lei dice che la letteratura spiega il fascismo meglio della storia: perché?
Il letterato, quando racconta, lo fa sulla spinta di un’emozione. Ciò che muove lo storico invece è un processo razionale. In un libro come Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino trovi una Resistenza che non ha nulla di eroico, ma è piena di contraddizioni, debolezze, casualità. La letteratura arriva prima, spesso dice cose che la storiografia trascura per anni. Penso alle esecuzioni successive alla fine della guerra, quelle che poi Pansa ha trasformato in un libraccio, Il sangue dei vinti, dove si dicono tutte cose vere, ma non c'è nulla che faccia capire perché sono accadute. La ragazza di Bube, di Carlo Cassola, pubblicato nel ‘58, racconta esattamente la stessa cosa. Il partigiano Bube che a guerra finita uccide il maresciallo del suo paese perché era stato fascista.

Repubblica 11.9.13
All’asta i diari inediti del vice di Hitler

Dall’arrivo in Scozia alla misteriosa offerta di pace tra Churchill e il Reich
Rudolf Hess. Le confessioni segrete del gerarca nazista in fuga
di Andrea Tarquini


BERLINO «Io volevo realizzare il grande sogno del Führer: la pace tra Germani e britannici, contro il nemico comune, la Russia bolscevica. Non vollero mai credermi». L’appunto dattiloscritto è uno dei tanti, in quel fascicolo di oltre trecento pagine ingiallito dal tempo, e con la dizione “most secret” in alto a destra della copertina beige, che ora riemerso per caso dall’oblio grazie a un misterioso collezionista andrà all’asta negli Usa. È una scoperta sensazionale, ci dice e ci dirà molto di più su uno dei grandi gialli irrisolti della Seconda guerra mondiale: quella spettacolare, avventurosa fuga di Rudolf Hess, il delfino di Hitler, arrivato da solo nel Regno Unito pilotando un bimotore Messerschmitt 110, per proporre una pace separata. Arrivò persino a scrivere a Sua Maestà Re Giorgio VI (il padre di Elisabetta, quello immortalato ne Il discorso del Re). Non convinse nessuno. Non si seppe mai se Hess agì per conto di Hitler, da incoraggiato o da solo. Mai, fino alla sua misteriosa morte, il suicidio per impiccagione negli anni Ottanta nel carcere militare britannico di Berlino-Spandau, di cui era rimasto ultimo ospite. Ultimo criminale nazista condannato a Norimberga e sopravvissuto.
«L’atterraggio di fortuna fu avventuroso», scrisse Rudolf Hess in quei suoi appunti, quasi le sueLe mie prigioni, redatti poi in anni di reclusione di lusso nel Regno Unito fino al processo di Norimberga. «Ero ancora impegnato a cercare di piegare il mio paracadute e di liberarmene, quando il signor David McLean mi scoprì. Non opposi resistenza, mi presentai come “capitano Alfred Horn della Luftwaffe”». Ma quando i soldati della Home Guard e gli agenti dello MI5 vennero da McLean a prenderlo in consegna, capirono subito per memoria fotografica chi avevano davanti a loro.
Trecento pagine e passa, scritte pazientemente con una vecchia nera Remington, pagine piene di correzioni e annotazioni a penna, ecco quanto andrà all’asta e chi sa a qual prezzo sarà venduto. Hess cercò senza successo di usare quel suo diario segreto come sua merce di scambio per difendersi al processo di Norimberga. Ma come materiale processuale il documento non fu reso pubblico, poi sparì. Non si sa come è finito nelle mani di un ignoto collezionista, che dietro lauto compenso (da 200 a 300mila dollari) lo ha offerto alle autorità degli Alleat idi allora. Senza dire quasi nulla su come l’aveva comprato, «l’ho avuto da fonti anonime». «Non è un falso», assicurano dopo averlo esaminato gli esperti del Bundesarchiv, l’archivio federale. Insomma non siamo di fronte a un bis della bufala dei diari taroccati di Hitler, questa è roba vera.
Londra si occupò subito del giallo di Hess messaggero o fuggitivo, al massimo livello. Non c’era tempo da perdere per capire cosa stesse succedendo, mentre la Royal Air Force e le sue squadriglie speciali polacche e cecoslovacche combattevano da sole nel mondo contro il vittorioso Reich Millenario, e nei cieli sopra il Tamigi stavano per infliggergli la prima sconfitta. Per primo, rivelano i diari segreti di Hess, «venne a trovarmi il duca di Hamilton, alto ufficiale della Raf, responsabile della difesa aerea sulla Scozia. Spero in lui», aggiunse Hess, «magari è avversario di Churchill, sarebbe pronto a spodestarlo e a riprendere la politica dell’appeasement prima di Churchill». Il duca di Hamilton visitò Hess in una prigione d’oro, una caserma della gloriosa Highland Light Infantry a Glasgow. «Come il Führer, gli dissi — prosegue Hess nelle trecento pagine segrete — anch’io, ed ebbi l’impressione che anche Lord Hamilton la pensasse così, giudicavo la guerra tra i nostri due paesi una sciagura per tutti, tante vittime senza uno scopo degno».
Poi continuò con la sua opera di persuasione: «Mio Lord, capisco che per ragioni di prestigio il governo britannico non può accettare l’offerta di pace del Führer senza una ragione e un’occasione precisa, ma proprio volando qui da voi ho voluto creare la circostanza adeguata. Adesso, con me ministro del Reich venuto a consegnarsi a Voi, il governo di Sua Maestà ha l’occasione di dichiararsi pronto a negoziati sulla base delle proposte che vi ho portato, quelle del Führer».
Proposte precise, e anche a lingua biforcuta: dividiamoci l’Europa, lasciateci liquidare la Russia sovietica, ridateci le colonie perse in Africa nel 1914-18, vivremo in pace da popoli anglosassoni superiori. «Il duca sembrò colpito», annotò Rudolf Hess, «ma non riuscii a smuoverlo dalla sua convinzione chela Germania voleva solo dominare il mondo. Mi promise di esporre ogni mia proposta a Londra alle persone giuste, ma poi con tono di monito mi sussurrò: “Mi creda, la Germania sta andando incontro a tempi difficili”».
Lord Hamilton sapeva di cosa parlava, Hess forse non lo aveva capito. Churchill gli pose un efficace tranello: inviò a visitarlo Lord Simon, ex capo della diplomazia, favorevole all’appeasement con Berlino. Con quel sicuro amico a Hess si sciolse la lingua. Fino a riconoscere infine che aveva agito da solo, senza alcun mandato di Hitler, e che le sue offerte di pace erano riletture di vecchie proposte del Führer. Fu un monologo di Hess più che un dialogo, protocollato in 71 delle 300 pagine. «Sì, è vero, lo ammetto, sono venuto qui senza ordine del Führer, ma espongo le sue idee, dividiamoci le sfere d’influenza per evitare nuove guerre». Poi, sentendosi non creduto, sbottò in una minac-cia: «Se l’Inghilterra non accetterà adesso proposte d’intesa, poi un giorno sarà costretta a farlo».
Nulla da fare, Churchill non si lasciò convincere. All’attacco nazista all’Urss reagì con lo storico discorso ai Comuni — «anche patti col diavolo pur di far sparire Hitler» — e inondando l’Urss di armi modernissime, dagli aerei all’elettronica. Invano Hess (rivela sempre egli nei diari segreti) incontrò per fare pressing il magnate dei media anglocanadesi Lord Beaverbrook, pubblicando una “Dichiarazione sull’intesa atlantica”, Londra e Berlino contro il bolscevismo. Vistosi incompreso e respinto, tentò il suicidio gettandosi da una tromba delle scale. Riuscì solo a rompersi una gamba. Scrisse a re Giorgio VI denunciando tentativi dei medici di avvelenarlo, chiedendo inchieste indipendenti sulle minacce alla sua vita e invitandolo a temere più la Russia che la Germania quale nemico dell’Impero. Invano, finì condannato all’ergastolo a Norimberga. E là nel carcere alleato di Spandau, decenni dopo, il suicidio (ma di recente in Inghilterra si è tornato a parlare di “omicidio”) gli riuscì alla perfezione, fino a regalare ai neonazisti un nuovo martire.

Corriere 11.9.13
Chiedimi se sono felice
Per l'Onu l'Italia perde 17 posizioni ed è al 45° posto
di Anna Meldolesi


Il mondo è leggermente più felice, noi italiani molto meno. Lo dice l'ultimo «World Happiness Report» elaborato per le Nazioni Unite in vista della prossima Assemblea generale. A tirare un po' in su il dato globale è il benessere percepito in alcuni Paesi in via di sviluppo. A tirare giù noi, la crisi economica in atto con i suoi pesanti contraccolpi psicologici e sociali. Le cifre sono da prendere con le pinze: nulla è più difficile da misurare della felicità. A leggerle, comunque, fanno male. L'Italia perde 17 posizioni, precipitando al 45° posto nella graduatoria planetaria, tra Slovenia e Slovacchia. I migliori restano i soliti noti, i Paesi nordici, con la Danimarca in testa seguita da Norvegia, Svizzera, Olanda e Svezia. Anche gli ultimi sono sempre gli stessi, una sfilza di Paesi africani a cui si aggiunge la Siria (peggio di tutti il Togo). Ma la stabilità generale si infrange nel cuore dell'Eurozona: la notizia di quest'anno siamo noi, assieme agli altri Paesi economicamente travagliati indicati con l'acronimo «Pigs» (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). Perdiamo tutti molte posizioni, più di quelle che si potevano prevedere sulla base degli indicatori economici. Crolla ma sta meglio di noi la Spagna, al numero 38. Per non parlare dei cugini francesi che ci guardano dall'alto in basso, posizionati al numero 25, una casella sopra la Germania.
L'assunto che persone appartenenti a culture diverse rispondano in modo omogeneo a domande sulla felicità è discutibile, lo studio dunque ha dei limiti. La classifica, inoltre, presenta qualche anomalia che sfida il buonsenso: davvero è meglio vivere in Costa Rica (12) e in Messico (16) che negli Stati Uniti (17)? Se è così, bisognerebbe spiegarlo a chi attraversa illegalmente il confine. Possibile che Israele, sempre sotto la minaccia della guerra e del terrorismo, sorrida serenamente all'undicesimo posto? E che dire degli Emirati Arabi Uniti? Sono nella parte alta, al quattordicesimo posto, nonostante la condizione delle donne sia tutto fuorché felice. Il contentometro è forse impazzito?
La fotografia della felicità internazionale è stata scattata in base all'autovalutazione di centinaia di migliaia di cittadini, intervistati tra 2010 e 2012 sul grado di soddisfazione per la propria vita. Sei le variabili conteggiate: il prodotto interno lordo pro-capite, l'aspettativa di vita, il sostegno sociale nei momenti difficili, la percezione della corruzione, la diffusione della generosità, la libertà di fare le proprie scelte. Sarebbe proprio quest'ultimo il fattore che spiega meglio il deprimente giudizio espresso dagli italiani: sentiamo il ventaglio delle opportunità restringersi davanti ai nostri occhi. Più che la felicità, è la speranza di scegliere liberamente cosa fare che rischia l'estinzione. Eppure anche così i conti non tornano, ammette il rapporto: i sei fattori messi insieme spiegano appena un terzo del calo subito dall'Italia e dagli altri Pigs. Un altro terzo è dovuto alla disoccupazione che spegne il sorriso anche a chi un lavoro ce l'ha ma teme di perderlo, oppure annovera dei disoccupati fra i propri cari. Resta da spiegare la terza fetta di felicità perduta. Il rapporto se la cava suggerendo che sia l'effetto combinato dell'incapacità degli individui, delle comunità, dei governi di fare ciò che ci si aspetta da loro per fronteggiare la crisi. La decrescita, ahimè è infelice. Uno degli autori e ispiratori del rapporto, Jeffrey Sachs della Columbia University, ha presentato i dati augurandosi che le politiche vengano allineate a quello che davvero importa alla gente, non solo agli indicatori economici e finanziari. Giusto. Ma forse aveva ragione anche l'Economist quando scriveva che, visti i risultati non proprio brillanti ottenuti dai governi con il Pil, l'ultima cosa che ci possiamo augurare è che inizino a occuparsi di «gaudio interno lordo».
Negli ultimi anni di austerità, notava il settimanale britannico, sembra che la felicità sia diventata sempre più materia di studio per gli economisti. Chissà se torneranno a occuparsene i filosofi quando l'economia avrà ripreso a girare forte e bene.

Corriere 11.9.13
Orchestre sinfoniche, la sorpresa Italia: Verdi e Santa Cecilia ai vertici in Europa
In testa per numero di concerti e spettatori. I Berliner volano negli incassi
di Enrico Girardi


Si dice musica sinfonica e si pensa subito ai Berliner e ai Wiener Philharmoniker, piuttosto che alle gloriose orchestre di Lipsia, Dresda, Londra, Amsterdam, Monaco… Un’inchiesta del numero di settembre del mensile Classic Voice , relativa al mondo sinfonico nella stagione 2012/13, sorprende però rivelando che l’Italia vanta due lusinghieri primati. L’orchestra che ha avuto più spettatori paganti è la romana Accademia di Santa Cecilia. Quella che ha prodotto il maggior numero di manifestazioni concertistiche è la Verdi di Milano. E in generale anche in altre classifiche — numero di musicisti, di dischi incisi, di concerti in sede e in tournée — le istituzioni italiane si attestano su discrete posizioni.
Non ride invece la classifica degli incassi — guidata dai Berliner Philharmoniker —, in parte perché non disponiamo (salvo eccezioni) di sale adeguate, in parte perché, pur di riempirle, tendiamo ad adottare una politica di botteghino esageratamente lasca, retaggio di un’epoca in cui il pubblico musicale italiano era quasi esclusivamente attratto dagli spettacoli d’opera.
Va anche detto che i dati numerici non corrispondono a quelli artistici (seppure non manchino soddisfazioni anche su questo lato: l’Orchestra Mozart di Claudio Abbado, che ha sede a Bologna, primeggia per esempio per numero di premi discografici e riconoscimenti internazionali). E i numeri vanno sempre messi sotto la lente d’ingrandimento. Orchestre come i Wiener Philharmoniker o come la Staatskapelle di Dresda (che, fondata nel 1548, vanta il primato di antica del mondo) svolgono anche attività lirica nei rispettivi teatri d’Opera. E hanno un organico così vasto proprio per potersi sdoppiare, all’occorrenza, in teatro e in auditorium; ma la doppia prestazione, ai fini della classifica, vale comunque uno. L’antichissima orchestra di Lipsia (non a caso quella con l’organico più ampio: 185 professori) a volte addirittura si triplica perché copre la stagione sinfonica al Gewandhaus, quella lirica al Teatro dell’Opera e quella sacra alla Thomaskirche.
Però la sorpresa resta intatta, anche perché il «volume d’affari», per così dire, delle istituzioni sinfoniche italiane non sembra agonizzante quanto lamentano i dirigenti delle medesime, a dispetto della relativa entità dei finanziamenti pubblici.
Interessanti anche le classifiche «interne» italiane, relative alle orchestre regionali. Si nota ad esempio quanto sono attive le formazioni del Nord-est, la Haydn di Trento e Bolzano e l’Orchestra di Padova e del Veneto, e quanto è lusinghiero il botteghino dei Pomeriggi Musicali di Milano, nonostante l’agguerrita concorrenza cittadina, non solo della Verdi, ma anche della Filarmonica della Scala, che oltre alla stagione del teatro ne produce una sua propria. Stonano, invece, i dati sull’affluenza di pubblico e sul botteghino della Sinfonica Siciliana in relazione all’entità dei finanziamenti pubblici e all’ampiezza d’organico. Bene invece l’Orchestra della Toscana e benissimo la Filarmonica Toscanini: pochi anni fa era in crisi nera, oggi vanta un bilancio da prima della classe.
I problemi non mancano, ma la fotografia del mondo sinfonico scattata da Classic Voice dice, in conclusione, che l’Italia non è solo la patria di Giuseppe Verdi. Per fortuna.

Repubblica 11.9.13
“Anche per chi crede la verità non è assoluta non la possediamo, è lei che ci abbraccia”
Francesco ai non credenti “Se obbedite alla coscienza avrete il perdono di Dio”
Il Papa risponde a Scalfari: facciamo un tratto di strada insieme
di Mario "Francesco" Bergoglio


PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’Enciclica Lumen fidei.
Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce «un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth».
Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù.
Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo. Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.
La prima circostanza — come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica — deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.
La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore — vi si sottolinea — «risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità.
Ora, è appunto a partire di qui, da que-sta personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso — o se non altro mi è più congeniale — andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Ge-sù di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.
Dunque, occorre confrontarsi conGesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo «scandalo» che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria «autorità»: una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è «exousia », che alla lettera rimanda a ciò che «proviene dall’essere» che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire— egli stesso lo dice — dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà,il quale gli consegna questa «autorità» perché egli la spenda a favore degli uomini.
Così Gesù predica «come uno che ha autorità», guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: «Chi è costui che...?», e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla costatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli,a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.
Ed è proprio allora — come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco — che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva «caro cardo salutis», la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce.
Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.
Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che èAbbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione. Certo, da ciò consegue anche — e non è una piccola cosa — quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel «dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare», affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo — mi creda — un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù.Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto.
Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che — ed è la cosa fondamentale — la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sinceroe contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità «assoluta», nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cer-cata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire.
Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio — questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! — non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la «R» maiuscola. Gesù ce lo rivela — e vive il rapporto con Lui — come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra — e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno — , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di «cieli nuovi e terra nuova» e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderioe attesa, Dio sarà «tutto in tutti». Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc4, 18-19).
Con fraterna vicinanza
Francesco

Repubblica 11.9.13
Gesù, fede e ragione, il dialogo del Pontefice con la pecora smarrita
di Eugenio Scalfari


PAPA Francesco ha deciso di rispondere alle domande che gli avevo indirizzato in due articoli, rispettivamente pubblicati sul nostro giornale il 7 luglio e il 7 agosto scorsi. Francamente non mi aspettavo che lo facesse così diffusamente e con spirito così affettuosamente fraterno. Forse perché la pecora smarrita merita maggiore attenzione e cura? Lo dico perché negli articoli sopra citati ho precisato al Papa che io sono un «non credente e non cerco Dio» anche se «sono da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e Giuseppe, ebreo della stirpe di David». E più oltre scrivo che «Dio, secondo me, è un’invenzione consolatoria della mente degli uomini».
Mi permetto di ricordare questa mia posizione di interlocutore anche perché essa rende ai nostri occhi ancor più «scandalosamente affascinante» la lettera che Papa Francesco mi ha inviato, una prova ulteriore della sua capacità e desiderio di superare gli steccati dialogando con tutti alla ricerca della pace, dell’amore e della testimonianza.
CIÒ detto, riassumo le domande e le riflessioni che ho fatto e alle quali il Papa risponde, affinché i lettori abbiano ben chiaro il quadro entro il quale si svolge questo dialogo.
1 — La modernità illuminista ha messo in discussione il tema dell’“assoluto”, a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante ciascuno individuo ne configura?
2 — I Vangeli e la dottrina della Chiesa affermano che l’Unigenito di Dio si è fatto carne non certo indossando un abito e imitando le movenze degli uomini e restando Dio, bensì assumendone anche i dolori, le gioie e i desideri. Ciò significa che Gesù ha avuto tutte le tentazioni della carne e le ha vinte non in quanto Dio ma in quanto uomo che si era posto il fine di portare l’amore per gli altri allo stesso livello d’intensità dell’amore per sé. Di qui l’incitamento: ama il prossimo tuo come te stesso. Fino a che punto la predicazione di Gesù e della Chiesa fondata dai suoi discepoli ha realizzato questo obiettivo?
3 — Le altre religioni monoteiste, l’ebraica e l’Islam, prevedono un solo Dio, il mistero della Trinità gli è del tutto estraneo. Il cristianesimo è dunque un monoteismo alquanto particolare. Come si spiega per una religione che ha come radice il Dio biblico, che non ha alcun Figlio Unigenito e non può essere né nominato né tantomeno raffigurato, come del resto Allah?
4 — Il Dio incarnato ha sempre affermato che il suo regno non era e non sarebbe mai stato di questo mondo. Di qui il “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Questo “limite” ha avuto come logica conseguenza che il cristianesimo non avrebbe mai dovuto avere la tentazione della teocrazia, che invece domina nelle terre islamiche. Tuttavia anche il cristianesimo soprattutto nella sua versione cattolica, ha sentito fortemente la tentazione del potere terreno, la temporalità ha spesso superato la pastoralità della Chiesa. Papa Francesco rappresenta finalmente la prevalenza della Chiesa povera e pastorale su quella istituzionale e temporalistica?
5 — Dio promise ad Abramo e al popolo eletto di Israele prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e culminò, dopo molti secoli di persecuzioni e discriminazioni, nell’orrore della Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non ha dunque mantenuto la sua promessa?
6 — Se una persona non ha fede né la cerca ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?
7 — Il credente crede nella verità rivelata, il non credente crede che non esista alcun “assoluto” ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?
8 — Il Papa ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie finirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Ma quando la nostra specie sarà scomparsa anche il pensiero sarà scomparso e nessuno penserà più Dio. Quindi, a quel punto, Dio sarà morto insieme a tutti gli uomini?
I lettori troveranno in queste pagine le risposte del Papa contenute nella sua lettera, della quale ancora con grande affetto e rispetto lo ringrazio. Nel nostro giornale di domani formulerò alcune riflessioni per approfondire i temi e portare avanti un dialogo che penso anch’io, come il Papa, sia utile ed anzi prezioso per i lettori, credenti in Gesù Cristo o in altre religioni o in nessuna, ma animati dal desiderio di conoscenza e dalla buona volontà di collaborare al bene comune.

Repubblica 11.9.13
Un videogioco per due: quello che pensa di fare una cosa e l’altro che (a distanza) la fa con un gesto Così l’esperimento (riuscito) di un ricercatore italiano dell’università di Seattle cambierà il mondo
Cervello L’ultima magia della scienza trasmettere il pensiero si può
di Massimo Vincenzi


NEW YORK Il video ricorda più un b-movie di fantascienza anni Cinquanta che un esperimento: ci sono due giovani uomini con in testa strani aggeggi a metà tra l’elmetto e la cuffia da bagno da cui spuntano parecchi fili, poi uno agita la mano nell’aria e l’altro in simultanea, mosso dall’impulso esterno, muove la sua sulla tastiera che ha davanti a sé. Per capire che è successo qualcosa di storico bisogna osservare le facce degli altri presenti nella stanza: prima sorridono increduli poi applaudono felici.
Quello che è accaduto alla Washington University di Seattle è il primo test che prova la trasmissione del pensiero e il controllo della mente. Idea da film appunto, che parte dalla fantasia di Fritz Lang, passa da Star Trek e arriva sino a Voldemort, il mago cattivo di Harry Potter. Ma questa sceneggiatura è un capolavoro della scienza con dentro anche un pizzico di Italia, visto che uno dei due ricercatori si chiama Andrea Stocco: nato 37 anni fa a Udine, laurea a Trieste e adesso, come spesso capita, un lavoro in America. Lui è quello che riceve il comando, dall’altra parte c’è l’amico Rajesh Rao.
La procedura, giurano i due, è semplice, usa tecniche già note, quello che è rivoluzionario è aver messo tutto questo in connessione. In un laboratorio del campus sta seduto Rajesh Rao che guarda sullo schermo del pc un vecchio videogioco con le astronavi che si inseguono e combattono. Ma non ha la tastiera, così quando inquadra nel mirino i nemici può solo pensare di sparare: le sue onde cerebrali vengono inviate a un apparecchio per l’encefalogramma che a sua volta limanda ad un computer. Qui grazie al consueto algoritmo il messaggio viene codificato e spedito via Internet dove sta Andrea Stocco che è collegato ad un’altra macchina per la stimolazione magnetica transcranica, da cui parte l’ordine.
«È come quando hai un tic nervoso, ma senza la tensione muscolare che lo precede. Sino ad un attimo prima che la mia mano si muovesse non ho avvertito alcun stimolo, quando ho capito cosa era successo è stato molto emozionante», racconta Stocco. E il suo collega spiega: «È presto, ma abbiamo ottenuto un risultato importante: per la prima volta abbiamo dimostrato che si può trasmettere il pensiero. Internet è stata la strada per far circolare le idee di persone sparse nel mondo, ora può essere la chiave per collegare le menti».
Gli scienziati studiano da tempo i meccanismi del cervello umano, qualche mese fa un gruppo di lavoro della Duke University è riuscita a provare la trasmissione del pensiero tra i topi ma adesso si aprono nuovi scenari. E, sull’edizione americana, ilNational Geographic si diverte ad immaginare quello che accadrà grazie alla scoperta. I compositori scriveranno la loro musicasenza dover ricorrere a strumenti: basterà immaginare la melodia e il computer restituirà loro il suono perfetto. Meno poetica ma più utile la app sperimentale chiamata Good Times che funziona più o meno come una segretaria personale: il telefono legge l’attività celebrale e se avverte che si è impegnati a fare altro indirizza la chiamata in arrivo verso la segreteria telefonica. Una
start-up cilena, Thinker Thing,promette invece di rivoluzionare il design, grazie anche alle stampanti in 3D: l’oggetto disegnato si trasforma interagendo con i gusti del suo creatore, a seconda degli stati d’animo, rimangono le forme che piacciono, svaniscono quelle che suscitano cattivi pensieri. Ecco poi tablet, smartphone che si comanderanno senza usare le mani, ci lavorano tutte le più grandi compagnie: la Samsung è quella più avanti. Uguale destino per le auto e la stessa tecnologia aiuterà le persone che sono su una sedia a rotelle. In campo medico si sta studiando come applicare tutto questo agli arti artificiali donando loro una sensibilità e un calore quasi umani.
«Ci vorranno molti anni, ma sarà una vera rivoluzione», giurano i colleghi di Stocco e Rao intervistati da
Usa Today. E il portavoce della Washington University dice: «È piuttosto folle, ma è tutto vero». Tutto così affascinante, come dentro un film da Oscar.

Repubblica 11.9.13
Andrea Stocco: “Escluse le conseguenze negative”
“Dai chirurghi ai piloti ecco a chi potrà servire”
di Francesca Bottenghi


ROMA— «Il mio collega Rajesh non avrebbe potuto utilizzare la mia mano per darmi uno schiaffo. È un gesto troppo complesso per la tecnologia che possediamo ora», ammette sorridendo il professor Andrea Stocco. Trentasettenne, originario di Palmanova (Udine), emigrato negli Stati Uniti nel 2005 al termine del dottorato in Psicologia («Sì, sono uno dei tanti cervelli in fuga»): tre anni fa è arrivato a Seattle, dove il 12 agosto scorso ha partecipato all’esperimento di trasmissione del pensiero.
Quali saranno i vostri prossimi passi?
«Cercheremo di replicare il test con dei partecipanti che siano all’oscuro del suo funzionamento. Poi lavoreremo alla trasmissione di sensazioni o immagini molto elementari».
Quali prospettive si aprono?
«Per il futuro abbiamo in mente tre scenari. Il primo prevede il controllo motorio: un chirurgo potrebbe guidare le mani di qualcun altro per svolgere un’operazione a distanza. Un pilota potrebbe utilizzare lo stesso metodo per far atterrare un aereo. La seconda prospettiva riguarda il trasferimento di competenze complesse: se un professore di fisica è geniale ma non è in grado di spiegare, i suoi alunni potrebbero attingere alle informazioni direttamente dal suo cervello. La terza possibilità è legata alla neuro-riabilitazione. Potremmo aiutare i pazienti colpiti da ictus nell’apprendere di nuovo a parlare e muoversi».
E quali sono invece i possibili rischi?
«Nel 2011, prima di partire con il progetto, abbiamo riflettuto molto sui lati negativi. Ci siamo però resi conto che le applicazioni malvagie, quali il controllo remoto della mente senza che il soggetto ne sia consapevole, richiederebbero apparecchiature super miniaturizzate e decisamente più avanzate. Ora come ora non riusciamo nemmeno a immaginarle».

Corriere 11.9.13
Carta e digitale Corriere primo per diffusione


MILANO — È il Corriere della Sera il quotidiano più diffuso in Italia, con una media di 443 mila copie giornaliere. Sono i nuovi dati Ads per il mese di luglio basati sulle statistiche degli editori. Il risultato è la somma delle copie cartacee e digitali, in una classifica che vede al secondo posto la Repubblica a quota 408 mila copie e in terza posizione il Sole 24 Ore con 294 mila copie medie diffuse giornalmente.
Le statistiche proseguono con la Gazzetta dello Sport (285 mila copie il lunedì e 283 mila copie gli altri giorni), la Stampa (233 mila copie), il Corriere dello Sport-Stadio (157 mila copie il lunedì e 168 mila copie gli altri giorni), il Messaggero (153 mila copie) e QN-Il Resto del Carlino (129 mila copie). I numeri valgono come diffusione totale, includendo — per esempio — la distribuzione in edicola, gli abbonamenti, le vendite dirette e le copie digitali, con dati per singolo canale diversi a seconda della testata.
Per quanto riguarda le singole vendite di copie digitali, il Sole 24 Ore è in testa a quota 87 mila, seguito da Corriere (71 mila) e Repubblica (47 mila).
G. Str.

Repubblica 11.9.13
Editoria
Repubblica prima in edicola, bene il digitale


La Repubblica è il primo quotidiano in edicola. Secondo i dati diffusi da Ads (Accertamenti Diffusione Stampa) il giornale diretto da Ezio Mauro con oltre 313mila copie vendute, ha preceduto a luglio 2013 i concorrenti diretti e in particolare il Corriere della Sera che segue con 303mila e 970 copie; complessivamente la Repubblica si colloca a 408mila copie diffuse tra digitale e cartaceo.
In edicola la terza piazza per i quotidiani non sportivi, va a La Stampa con 185mila unità vendute. Le posizioni seguenti sono occupate dai quotidiani Messaggero, con 140 mila copie cartacee vendute, da QN Resto del Carlino a quota 123mila, e dalSole 24 Ore a 122mila.
Buona la performance di Repubblica nella diffusione media all’estero con 28mila 600 copie circa — contro le 22mila del Corriere della Sera — mentre nel formato digitale si arriva a quasi 42mila copie contro le 54mila del quotidiano Rcs.
Tra i quotidiani locali il Tirreno vende oltre 60mila copie, con la Nuova Sardegna a 47mila e il Piccolo 28mila. Il Mattinodi Napoli supera la soglia dei 51mila giornali venduti in edicola.
Sempre a luglio, sul fronte dei settimanali il Gruppo Espresso con il Venerdì ha messo a segno, tra cartaceo e digitale, una buona performance con una diffusione di 443mila mentre D la Repubblica delle donne, si colloca ben oltre le 356mila copie.
Infine il settimanale L’Espresso, a quota 245mila copie diffuse, ottiene un risultato di rilievo nel settore digitale, dove stacca nettamente il concorrente diretto Panorama.