giovedì 12 settembre 2013

in prima pagina
l’Unità 12.9.13
Il Papa e i credenti /1
Il cristianesimo non è un’ideologia
Padre Antonio Spataro


Quest’estate ero a Buenos Aires per una conferenza alla Società argentina di teologia. A pranzo si parlava di Papa Francesco, e io facevo cenno allo stupore che le sue parole e i suoi gesti suscitano in molti dalle nostre parti. La risposta di alcuni dei miei interlocutori è stata che loro si stupivano del nostro stupore.
Perché Bergoglio è sempre stato così: aperto a un dialogo senza porte e finestre. Il vescovo di Roma che telefona o che scrive lettere è lo stesso vescovo di Buenos Aires che in quella sede faceva le stesse cose. Ma adesso le fa da Papa, appunto.
Il significato della lunga lettera a Eugenio Scalfari, dunque, è da trovare nella visione che Papa Francesco ha sempre avuto del rapporto umano. Non c’è testimonianza né comunicazione della fede, del resto, se non c’è prima e alla base un rapporto umano. Lo abbiamo visto in Brasile: la prossimità, fatta di abbracci e parole, non è per lui una questione di puro stile esteriore, ma parte integrante e imprescindibile del suo ministero e del messaggio che intende comunicare: il Vangelo. Quello di Papa Francesco è un agire comunicativo per cui non c’è distanza tra la sua persona e ciò che fa o dice. Sa insomma di essere un uomo e non una «icona».
Le sue dunque sono lettere, non oracoli. E quella a Scalfari è una lettera che attinge a piene mani all’esperienza personale di fede del Papa.
LA SFIDA PER I CRISTIANI
Scalfari si era professato un non credente affascinato da Gesù di Nazareth, che comunque crede che Dio sia una «invenzione consolatoria degli uomini». Si era rivolto al Papa senza immaginarsi una risposta, credo, ma aprendo una interlocuzione su temi importanti. Francesco è naturalmente attratto da interlocuzioni serie con persone che si professano non credenti o anche credenti di altre religioni.
Non dimentichiamo che alla fine del suo primo incontro con gli operatori dei media il Papa aveva impartito la sua benedizione in silenzio. Dunque l’ha impartita, ma silenziosamente, perché aveva detto «molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti». Si è trattato allora di un gesto singolare, compiuto «rispettando la coscienza di ciascuno, ma sapendo che ciascuno di voi è figlio di Dio». La potenza di questa benedizione silenziosa ha attraversato persino le barriere dei cuori, giungendo a toccare chiunque proprio grazie alla creazione di un «evento comunicativo» che non ha lasciato fuori nessuno. Nel suo splendido dialogo col rabbino Skorka aveva detto: «Perfino con un agnostico, perfino dal suo dubbio, possiamo guardare insieme verso l’alto e cercare la trascendenza». Sono parole forti. Sempre in quella conversazione forse troviamo la chiave di lettura della missiva a Scalfari: «Quando mi ritrovo con degli atei, condivido problematiche umane, ma non propongo subito il problema di Dio, a meno che non siano loro a chiedermelo. Se accade, spiego perché io credo». Scalfari glielo ha chiesto. E il Papa ha risposto.
Insomma il Papa dialoga perché vuole condividere un pezzo di strada e sa che il Vangelo si testimonia incarnandolo in un atteggiamento «non arrogante», lontano dall’irrigimento. La verità non irrigidisce, ma rende liberi. E richiede che anche l’altro interlocutore non sia rigido e sia invece libero. La verità non mette sulla difensiva, ma rende possibile la testimonianza e il dialogo. Insomma: qui c’è il senso e lo stile della missione secondo Bergoglio e la sua positiva sfida alla Chiesa che è chiamata ad essere radicalmente callejra, di strada, di frontiera, di missione.
Qui io personalmente ritrovo anche il Bergoglio formatosi a una spiritualità umanistica, come quella gesuitica, che sa costruire ponti, che gode dei terreni comuni e si nutre di autenticità di relazione naturalmente intensa anche con l’ateo: «Non gli direi mai che la sua vita è condannata, perché sono convinto di non avere il diritto di giudicare l’onestà di quella persona. E ancor meno se mostra di avere virtù umane, quelle che rendono grande una persona e fanno del bene anche a me». Lo aveva detto al rabbino Skorka e lo ha ripetuto a chiare lettere: «La questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza». Non è affatto debolezza o captatio benevolentiae. Le motivazioni di questo atteggiamento sono profonde. Il discernimento spirituale ha insegnato a Bergoglio che «l’esperienza spirituale dell’incontro con Dio non è controllabile» (parole sue). Anche l’ateo, dal punto di vista di un credente, ha una vita spirituale, come qualunque essere umano. Nessuno è escluso dalla grazia, anche se non riesce a riconoscerlo. E qui troviamo un’altra grande sfida del pontificato di Papa Francesco: la trasmissione della fede in un mondo complesso, considerando quello che Ignazio di Loyola chiamava un presupponendum aperto e positivo circa gli atteggiamenti, le parole, la sincera ricerca degli altri.
Posto ciò, Papa Francesco ha parlato di Cristo col quale bisogna confrontarsi «nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda». Se c’è una cosa che Bergoglio non tollera è l’ideologia. Una fede che ha al cuore altro (precetti, certezze, qualunque altra cosa) rispetto alla potenza che scaturisce dala persona di Gesù rasenta l’ideologia. Questo è un punto prezioso della lettera del Papa a Scalfari: la verità del Vangelo non è mai «assoluta», dice il Papa, perché non è mai slegata (ab-soluta, in latino) dalla relazione. Ciascuno coglie la verità del Vangelo e la esprime a partire dalla propria storia, dalla propria cultura, dalla propria situazione esistenziale.
E ancora il Papa ha ribadito: Dio «non è un’idea». L’originalità della fede cristiana sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare al rapporto che Gesù ha con Dio. Un rapporto che include tutti gli uomini, compresi i nemici. Gesù include non esclude. Da qui discendono due elementi fondamentali, apparentemente lontani tra loro. Il primo è l’importanza della Chiesa: senza di essa per Bergoglio non sarebbe stato possibile l’incontro personale con Cristo. Senza la comunità la fede resta come appesa: senza sacramenti, senza fraternità, senza intelligenza delle Scritture. Il secondo elemento è l’importanza che riveste per Bergoglio la laicità dello Stato, perché come ha detto in Brasile «senza assumere come propria nessuna posizione confessionale, rispetta e valorizza la presenza della dimensione religiosa nella società, favorendone le espressioni più concrete». Tutte.
Questa lettera di Papa Francesco è dunque una tappa all’interno di un dialogo aperto con chi è ateo o agnostico. E tuttavia è anche una lettera che sfida il credente, lo pungola a vivere una vita che lo apre al mondo e alle sue contraddizioni, sapendo che Cristo è l’unico principio e fondamento della sua fede.

in prima pagina
l’Unità 12.9.13
Il Papa e i credenti /2
Se la verità diventa avventura
La lettera del Papa mi ricorda i pensieri del card. Martini: la questione prima per la Chiesa non è la dottrina ma l’annuncio e la testimonianza
Nessuna esperienza della verità è priva di relazioni: questo vale per credenti e non
di Carlo Sini


La risposta di Papa Francesco alle domande di Scalfari conferma una volta di più l’ammirevole e per certi versi stupefacente disponibilità dell’attuale Pontefice ad aprirsi a un dialogo e a una presenza reale ovunque e con chiunque lo interpelli con sincerità e nobiltà di intenti.
Nella risposta molte cose importanti meriterebbero ovviamente attenzione adeguata. Per esempio il senso, a mio avviso, profondamente pastorale che emana da tutto il testo: non è questione prima per la Chiesa la dottrina, la «filosofia», ma l’annuncio e la testimonianza, la pratica concreta dell’amore. Anche il cardinale Martini, nei suoi interventi alla cattedra dei non credenti, pur non sottraendosi alle argomentazioni più sottili, privilegiava, se ben ricordo, la parola semplice e piana, che tocchi il cuore, la speranza e il destino esistenziale di chi ascolta.
C’è però più di un passaggio che suscita attenzione in chi, muovendo, diceva Scalfari, dalla modernità illuminista, ha detto addio a una supposta verità assoluta; con il sottinteso che la Chiesa sia invece tuttora favorevole ad attribuirsela. In proposito la risposta di Papa Francesco è non poco spiazzante: non è il caso di parlare di verità assoluta nemmeno per il credente. Ma qui bisogna intendere. Ciò che Papa Francesco rifiuta è che il non essere assoluto della verità equivalga all’esistenza di «una serie di verità relative e soggettive», come Scalfari sembra ritenere e con lui certamente moltissimi. Ora, che una verità sia «relativa» e «soggettiva» equivale a un’opinione priva di senso, che dice «verità» e che evidentemente non pensa ciò che dice; così pure non ha senso pensare verità in tono minore o «debole».
Papa Francesco dice invece chiaramente che cosa si deve pensare dell’assoluto: assoluto significa «sciolto» (ab-solutus), cioè privo di relazioni; ma nessuna esperienza o figura della verità è priva di relazioni, quella del credente come quella del non credente. Si tratta dunque di mutare sguardo relativamente a ciò che intendiamo nel riferirci alla verità. Uno sguardo inadeguato è quello che ritiene che la verità coincida con il contenuto di una credenza o con la forma logica di un giudizio (il famoso principio di non contraddizione, che suggestiona ancora qualche filosofema superstizioso). Papa Francesco invita a considerare invece la verità un cammino e una relazione di vita. In termini più filosofici direi che la verità è un evento, qualcosa a cui si appartiene, dice il Papa, e non che ci appartiene.
In un’intervista recente mi capitò di dire che la verità è un’avventura (chissà perché qualcuno vi ravvisò un pericolo di...nazismo): per avventura siamo nati e destinati a un certo mondo, che non abbiamo scelto. Dice Francesco: senza la Chiesa non avrei incontrato Gesù. Scalfari potrebbe dire: senza la tradizione della cultura illuminista non sarei quel non credente che sono. Tutto questo non è certo secondario o accidentale, perché senza relazioni (alla Chiesa, all’illuminismo, all’ebraismo ecc.), nessuna verità si fa presente e si manifesta. Il punto è come possa stare ognuno di noi nel suo destino e nella sua occasione di verità.
IL CAMMINO E L’ERRORE
E qui non so sin dove il mio dire cammini insieme al dire generoso di Francesco. Quello che penso dei contenuti che ognuno di fatto riferisce alla verità è che essi sono certamente inadeguati, nella loro parzialità storica, psicologica, antropologica ecc. Vi è qui come la certezza dell’essere in errore e dell’errare: senza questa consapevolezza, pregiudizio e superstizione la fanno da padroni (una Chiesa così disegnata sarebbe oscurantista, il che, osserva il Papa, è scandaloso pensarlo di una istituzione che ha per legge l’amore e per fine la liberazione di tutti gli esseri umani). Ma il fatto che i contenuti siano in errore rispetto al loro stesso evento, alla totalità che mai potranno circoscrivere, non significa affatto che essi siano trascurabili o secondari: è solo attraverso di essi, infatti, che ognuno fa di continuo esperienza della verità, del camminare della verità in relazione con noi, modificandoci e destinandoci all’avventura sempre aperta della vita, a un compito di incarnazione transitoria del destino che ci è assegnato. Imparare a considerare la verità non solo dalla parte superstiziosa del significato, ma dalla parte dell’evento, in quanto evento del significato e di ogni significato, dell’occasione e della nostra occasione, è forse l’apertura a una comprensione umana che sia più vera e più profonda della mera opposizione tra credenti e non credenti.

l’Unità 12.9.13
Francesco: Dio accoglie chi non crede
Il Papa ha risposto a una lettera di Scalfari: «Chi obbedisce alla coscienza avrà il perdono di Dio»
di Roberto Monteforte


«Lungo i secoli della modernità la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa
e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d`impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità». Parte da questa considerazione, che definisce «un paradosso», la lettera con cui Papa Francesco ha risposto alle sollecitazioni del fondatore di Repubblica, il «non credente» Eugenio Scalfari spiegando quanto sia «espressione intima e indispensabile» per un credente la stagione di «dialogo aperto e senza preconcetti per un serio e fecondo incontro» avviato con il Concilio Vaticano II. È questa la Chiesa di Bergoglio: accoglie più che giudicare e condannare. Soprattutto i «lontani», chi non crede. Abbandona i formalismi per andare verso l’uomo e affrontarne le inquietudini a partire dal senso del peccato. «La misericordia di Dio spiega non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza». «Il peccato, anche per chi non ha la fede aggiunge c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».
Alle sollecitazioni di Scalfari su «verità assoluta» e «relative» risponde uscendo da ogni dogmatismo paralizzante. «Per cominciare io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione». «Ora, la verità, secondo la fede cristiana osserva è l’amore di Dio per noi in Gesù
Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa puntualizza che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita» ed «essendo tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa». Invita ad «intendersi bene sui termini» e «per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione».

il Fatto 12.9.13
Risposta a Scalfari
La “fede laica” di papa Francesco
di Marco Politi


Lo Spirito soffia dove vuole e la Sorte apre la sua cornucopia a suo piacimento. Per anni Eugenio Scalfari ha inseguito l’obiettivo di un’intervista con Giovanni Paolo II (negatagli dall’entourage di Wojtyla, che non voleva concedere questa soddisfazione a un papa laico) ed ecco che d’improvviso Francesco risponde a due suoi articoli estivi, in cui il fondatore di Repubblica esponeva gli interrogativi di un non-credente su un vasto arco di temi: dall’insostenibilità nel pensiero moderno di verità assolute al problema della Trinità e dell’incarnazione di Cristo negati dal rigido monoteismo ebraico e islamico fino ad arrivare alla questione del potere temporale della Chiesa così contrastante con il messaggio d’amore di Gesù.
Compresa la madre di tutte le domande: “Se una persona non ha fede né la cerca ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonata dal Dio cristiano? ”.
“La Chiesa è madre”, titola oggi l’Osservatore Romano e Francesco replica al “Pregiatissimo Dottor Scalfari” guardandosi bene dal dipingere un Dio cristiano, che da burocrate rigira in mano una pratica del non-credente e poi decide in onnipotenza se dare il timbro dell’assoluzione.
Francesco va oltre, non parla nemmeno di un “perdono”, che cade dall’alto. Racconta il Dio di Gesù la cui “misericordia non ha limiti” e insiste su un principio, ribadito dal Concilio e profondamente radicato nella morale laica: “Il peccato, anche per chi non ha fede, c’è quando si va contro la propria coscienza”. Perché sul decidersi come agire di fronte al bene o al male, “si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire”.
LA LUNGA “Lettera a un non-credente”, come sarà chiamata da domani, è anzitutto il segno dell’enorme libertà interiore cui Francesco non vuole rinunciare. Già gli costa non potere girare senza vincoli per Roma, ma non intende assolutamente privarsi della comunicazione diretta con i suoi contemporanei. Si tratti di una donna abusata in America latina o di un uomo di cultura, che lo sfida con domande difficili.
La “Chiesa è madre”, ha detto ieri ai pellegrini all’udienza generale. Una madre che perdona, comprende, e “accompagna sempre” uomini e donne che a Cristo di rivolgono. È questo accompagnare che interessa Francesco, senza distinzioni di etichette. Di più, il papa che rifiuta il titolo di pontefice ha un solo grande interesse da quando è stato eletto: avvicinarsi agli uomini e alle donne del suo tempo, specie quelli – come notava con allarme giorni fa il cardinale Scola – che sentono la Chiesa astratta e lontana.
E così, mentre risponde con affettuosa cortesia all’“Egregio Dott. Scalfari”, scavalca i termini stessi di una disputa al-l’antica tra l’Illuminista e il Gesuita, tra il Razionalista e il Tomista o il seguace di sant’Agostino (qual era Benedetto XVI). In otto punti Scalfari riassume ieri su Repubblica le sue domande.
Quasi fosse ancora all’interno di un dibattito su Fede e Ragione, di quelli che appassionavano cerebralmente Joseph Ratzinger. Ma a Francesco il duello teologico, al fondo, non interessa affatto.
Gli sta a cuore rompere il muro dell’incomunicabilità, partendo dal “confrontarsi con Gesù nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda”. Gli sta a cuore un dialogo senza preconcetti indirizzato a un “serio e fecondo incontro” con i non-credenti (e, si può dire, con tutti i variamente credenti), non arenandosi nel gioco degli schemi concettuali, che portavano Ratzinger alla fine a teorizzare una Chiesa che decide e spiega cosa è la ragione, cosa è la natura, persino come deve essere la laicità dello Stato.
Francesco, lo si evince dalla sua lettera, vuole altro. Annuncia un Cristo venuto a dare a chi lo ascolta “libertà e pienezza di vita”. Parla di una fede, che esclude la “ricerca di qualsivoglia egemonia” e si pone al servizio di tutti gli uomini. (E intanto, la notizia è di ieri, spiega ai religiosi che i conventi vuoti è meglio dedicarli all’assistenza invece di trasformarli in alberghi! Maggio scorso, rivolto alla Caritas internazionale, aveva detto che bisognerebbe “persino vendere le chiese per dare da mangiare ai poveri”. Scontrandosi con il muro del silenzio della gerarchia ecclesiastica).
FRANCESCO parla di una fede che non rende arroganti, ma umili. Che “non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro”, Che non è separazione, ma dialogo. Una fede in cui è valorizzata l’obbedienza alla propria coscienza.
È persino fuorviante, spiega papa Bergoglio, parlare di verità “assolute”. Perché evoca l’idea di verità slegate da ogni relazione. No, insiste il papa, la “verità è l’amore di Dio per noi… la verità è una relazione”. E ognuno la esprime a partire dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive. Niente di “soggettivo” in tutto questo – rimarca Francesco – ma la consapevolezza che la verità non è un trofeo da brandire ma “si dà a noi sempre come un cammino e una vita”. In definitiva, la verità è tutt’uno con l’amore. In questa prospettiva Francesco vuole “fare un tratto di strada insieme” con i non-credenti. Ammettendo apertamente che la Chiesa nei suoi esponenti “può aver commesso infedeltà, errori e peccati e può ancora commetterne”.
Una domanda cruciale, tuttavia, rimane inevasa in questo dialogo. Scalfari, avendo confessato che gli piacciono moltissimo papa Francesco, il Poverello di Assisi e Gesù di Nazareth, ricordava la Chiesa cattolica è diventata quello che è, perché si è data una struttura di potere.
Che ne sarà? Qui Bergoglio non può rispondere. Perché l’interrogativo riguarda la sua stessa leadership e il successo o l’insuccesso della sua perestrojka.

l’Unità 12.9.13
Il gruppo del Pd: «Invitiamo il Papa a Strasburgo»


«Il Parlamento europeo ha un ruolo fondamentale, di rappresentanza delle attese dei cittadini europei e di incoraggiamento e stimolo nei confronti della comunità internazionale», una missione per la quale «abbiamo bisogno di tutte le energie politiche, culturali e spirituali, anche per onorare il premio Nobel per la pace che è stato assegnato alla UE. Anche per queste ragioni ti chiediamo di prendere in considerazione la possibilità di invitare Sua Santità Papa Francesco ad intervenire in una prossima seduta plenaria al Parlamento europeo». È quanto si legge in una lettera inviata al presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, e sottoscritta da tutti gli eurodeputati del Partito democratico, con primo firmatario il capogruppo David Sassoli.
«Si tratterebbecontinuano gli europarlamentari democratici nella letteradi un gesto che avrebbe un grande significato e sarebbe un riconoscimento a chi sta portando avanti, con autorevolezza e coraggio, il dialogo interreligioso e interculturale per promuovere il futuro della convivenza umana». Nella lettera si sottolinea pure come In questi giorni dove «le parole guerra e pace si rincorrono e tornano di drammatica attualità» sia «risuonata forte e limpida la voce di Papa Francesco che ha rivolto un appello "agli uomini e alle donne di buona volontà credenti e non credenti"».

Repubblica 12.9.13
La lettera di Bergoglio a Repubblica
Il coraggio di papa Francesco che apre alla cultura moderna
Quel passo di Francesco per far camminare insieme la Chiesa e i non credenti
La lettera del Papa ela storica apertura alla cultura moderna
di Eugenio Scalfari


LA LETTERA di papa Francesco da noi pubblicata ieri ha suscitato in me, nel nostro direttore Ezio Mauro e in tutti i colleghi una grande emozione. Penso che la stessa emozione l’abbiano avuta tutti coloro che l’hanno letta.
Non parlo di quello che nel nostro linguaggio gergale chiamiamo “scoop”. Gli scoop alimentano le chiacchiere, non il pensiero e qui, leggendo le parole del Papa, il nostro pensiero è chiamato e stimolato a riflettere di fronte alla concezione del tutto originale che papa Francesco esprime sul tema “fede e ragione”, uno dei cardini dell’architettura spirituale, religiosa e teologica della Chiesa. Ma non soltanto della Chiesa: la cultura moderna dell’Occidente nasce esattamente da quel tema e papa Francesco lo ricorda nella sua lettera quando scrive: «La fede cristiana, la cui incidenza sulla vita dell’uomo è stata espressa attraverso il simbolo della luce, spesso fu bollata come il buio della superstizione. Così tra la Chiesa da una parte e la cultura moderna dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. Ma è venuto ormai il tempo – e il Vaticano II ne ha aperto la stagione – d’un dialogo senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro».
QUESTE parole sono al tempo stesso una rottura e un’apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati. L’intera lettera di papa Francesco ruota attorno a questa premessa, ma c’è una frase nelle parole del Papa sopra citate che merita a mio avviso una particolare attenzione:«La fede cristiana... è stata espressa attraverso il simbolo della luce».
Bisogna tornare all’“incipit” del Vangelo di Giovanni per trovare questo simbolo, laddove l’evangelista scrive: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio ed era Dio il Verbo.
Le cose tutte furono fatte per mezzo di Lui e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini e la luce risplende tra le tenebre ma le tenebre non l’hanno ricevuta».
Qui, in questi tre ultimi versi poetici e profetici come tutto quel quarto Vangelo, nasce la visione cristiana del bene e del male: la vita era la luce degli uomini, ma le tenebre non l’hanno ricevuta. Papa Francesco sviluppa questa visione della contrapposizione tra luce e tenebre, tra bene e male, in modo originalissimo. In un punto della sua lettera scrive: «Per chi non crede in Dio la questione: [del bene e del male] sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad essa significa infatti decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene e male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».
Un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cat-tedra di San Pietro. Neppure papa Giovanni era arrivato a tanto e neppure le conclusioni del Vaticano II, che avevano auspicato l’inizio del percorso ai pontefici che sarebbero venuti dopo e ai Sinodi che avrebbero convocato. Papa Francesco quel passo l’ha fatto ed io lo sento profondamente echeggiare nella mia coscienza. Ricordo con grande affetto che visione analoga l’ho ascoltata nei miei colloqui con il cardinale Carlo Maria Martini, che non a caso era amico del cardinale Bergoglio. Ma Martini non era un Papa quando diceva queste cose, Bergoglio ora lo è.
C’è un altro aspetto assai importante — questo sì — politico, quando il Papa scrive della distinzione tra la sfera religiosa e quella politica («Date a Cesare»): «Alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel dirit-to e nella pace, una vita sempre più umana. Ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza».
La visione dell’autonomia della politica mi sembra che sfugga al Papa, ed è comprensibile che sia così. Uno come lui non può concepire la politica che nel quadro di un servizio ai cittadini. Questa opinione è perfettamente condivisibile ma non può escludere l’egemonia. In un regime di libertà e di democrazia convivono diverse visioni del bene comune, che si confrontano e si scontrano tra loro. Chi ottiene la maggioranza dei consensi e quindi l’egemonia, cerca di realizzare la sua visione del bene comune. Resta o dovrebbe restare un servizio, che passa però attraverso la conquistadel potere. Questo, papa Francesco lo sa, e la Chiesa cattolica infatti l’ha sperimentato facendo del potere temporale uno dei cardini della sua storia. Se vogliamo riandare ad uno dei più importanti esempi, ricordiamo la lotta per le investiture culminata nello scontro tra Ildebrando da Soana Gregorio VII e Enrico imperatore di Germania, colpito dalla scomunica e costretto ad inginocchiarsi vestito da mendicante ai piedi del Papa nel castello di Canossa. Raccontano le storie che quando Enrico dovette baciare il piede del Papa in segno di sottomissione, abbia detto: «Non tibi sed Petro» e Gregorio gli abbia risposto: «Et mihi et Petro».
Poi vennero le Crociate e tutta la storia della Chiesa come istituzione di potere e di guerra. Così durò fino al 1870, ma anche dopo la temporalità cattolica è continuata sotto altre forme che specialmente in Ita-lia, ma non soltanto, ben conosciamo. La pastoralità, la Chiesa predicante e missionaria, c’è sempre stata e Francesco d’Assisi ne ha rappresentato la più fulgida ma non certo la sola manifestazione. Tuttavia non ha quasi mai avuto la prevalenza sulla Chiesa istituzionale.
Papa Francesco ha interrotto e sta cercando di capovolgere questa situazione. La trasformazione in corso nella Curia e nella Segreteria di Stato sono segnali estremamente importanti. Temo però che molto difficilmente ci sarà un Francesco II e del resto non è un caso se quel nome non sia stato fin qui mai usato per il successore di Pietro.
La lettera del Papa è comunque chiarissima, risponde alle domande che mi ero permesso di porre e su certe questioni va anche molto più in là. Sicché non la commenterò più oltre, salvo due ultimi aspetti.
Il tema degli ebrei, del loro esser considerati dai cattolici come fratelli maggiori, la fine dell’accusa di «deicidio» che i cristiani hanno sempre lanciato contro di loro, ed infine la comune discendenza dal Dio mosaico del Sinai e dei dieci comandamenti, era già stato sollevato da papa Giovanni e da papa Wojtyla, ma non con la chiarezza definitiva di papa Francesco. È un passo molto importante che segna finalmente un capovolgimento nell’atteggiamento durato quasi due millenni.
Infine c’è il racconto che il Papa fa del suo incontro con la fede. Rileggiamo quel brano.
«La fede per me è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato possibile nella comunità di fede in cui ho vissuto e grazie allaquale ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, vera immagine del Signore. Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono della fede è custodito nei vasi d’argilla della nostra umanità».
Un racconto splendido, un’autobiografia affascinante. Ci si sente sotto, per quanto posso intuire, più Bernardo, più Agostino, più Benedetto che Tommaso e la Scolastica, che tuttavia è ancora assai presente nella dottrina tradizionale Chi come me non solo non ha la fede ma neppure la cerca; chi come me sente il fascino della predicazione di Gesù e lo ritiene uomo e figlio dell’uomo, non può che ammirare un successore di Pietro che rivendica la Chiesa come luogo eletto affinché il sentimento di umanità custodito in vasi d’argilla non venga distrutto dai vasi di piombo che fuori e dentro la Chiesa spezzano i vasi d’argilla.
Il Papa mi fa l’onore di voler fare un tratto di percorso insieme. Ne sarei felice. Anch’io vorrei che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre anche se so che quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista.
Perciò lunga vita e affettuosa fraternità con Francesco, Vescovo di Roma e capo d’una Chiesa che lotta anch’essa tra il benee il male.

La Stampa 12.9.13
Un nuovo sguardo tra laici e religiosi
di Gian Enrico Rusconi


La lettera di papa Francesco a Repubblica è il segnale che stanno cambiando i parametri di confronto tra laici e religiosi-di-chiesa? O che possono cambiare? Ce lo auguriamo. Ma siamo appena agli inizi. Occorre incominciare da una ridefinizione reciproca.
O meglio da un nuovo sguardo reciproco.
Per prima cosa occorre abbandonare la confusione tra laico e ateo o irreligioso, un «senza Dio» – in quella accezione sibilante che è dura a morire. Ma viceversa abbandonare anche la presunta coincidenza tra religioso, credente o cattolico – per tacere della differenza tra cattolico, cristiano o ebreo (senza dimenticare le altre fedi ormai insediate a casa nostra). Naturalmente la strada non è quella della pignola ridefinizione semantica o «valoriale» o «identitaria» che ci ha estenuato negli anni scorsi. Ma è quella del reciproco «sorriso» (stile Francesco), non del cipiglio del cardinale o della seriosa ironia del laico doc.
Questo non significa sentimentalismo o banale irenismo. Ridefinire significa individuare le cose più importanti della vita e della convivenza che ci toccano come uomini e come donne, come cittadini e come membri di una società che sta andando a pezzi. E decidere insieme su temi che attengono direttamente la vita, la persona, la famiglia e ci dividono profondamente, magari facendo entrare in gioco la fede .
E’ la stessa fede di cui parla Papa Francesco? La sua è una apertura di chi ha «la fede» verso coloro che «non ce l’hanno», ma sentono il bisogno di fargli domande in proposito. Le sue risposte non riguardano esplicitamente le questioni divisive, di cui parlavo sopra, eppure vanno in una direzione che non può non toccarle.
La fede di Bergoglio è interamente centrata sulla figura di Gesù di Nazareth. Un discorso teologico e cristologico dogmaticamente ineccepibile, formulato con una intensità umana che è la forza comunicativa e pastorale vincente di questo Papa. Nella lettera c’è un passaggio di (ortodossa) semplicità che è la cifra del suo pensiero teologico: la fede cristiana, scrive, «fa perno sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio». L’umanità del Figlio di Dio, non l’assolutezza del divino. Non so se qui alluda semplicemente alla concezione del Dio dell’Islam rispetto a quello del cristianesimo, o non pensi anche ad una profonda rivisitazione del pensiero teologico cattolico ormai ammutolito. Incapace di fondare in modo razionale e ragionevole le sue stesse indicazioni morali in fatto di «natura umana», di autonomia personale, di interazioni sessuali. Disumano per povertà intellettuale. Mi chiedo se gli uomini di Chiesa percepiscono questo impoverimento o si accontentano di recriminare contro il laicismo, il nichilismo e così via.
Papa Bergoglio mostra una sensibilità diversa. Ma ha davanti un compito molto difficile se vuol combinare la sua tensione umana con molti aspetti dottrinali inadeguati. Nella sua lettera afferma in modo audace, pur nel suo intento ineccepibilmente ortodosso, una sorta di primato della coscienza («Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male»). In altri tempi si sarebbe evocato il pericolo del soggettivismo relativistico. Forse lo pensa tuttora anche qualche cardinale.
Il testo di Bergoglio prosegue sul filo del rasoio, salvandosi solo con il richiamo a Gesù. La verità «non è un assoluto» ma «è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. ».
Mi rifiuto di fare una lettura forzata o maliziosa di questo passaggio. Del resto, in modo disarmante lo stesso Papa scrive: «Bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione».
Già, reimpostare in profondità la questione. Forse che i laici non possono fare la loro parte argomentando, portando conoscenza ed esperienza anziché limitarsi ad aderire amichevolmente al messaggio fatto in nome di Gesù di Nazareth?

La Stampa 12.9.13
Vaticano /Il nuovo corso
Le telefonate, le lettere Il senso del Papa per la comunicazione
L’ultimo strappo: una risposta a Scalfari su Repubblica
di Andrea Tornielli


«Pregiatissimo dottor Scalfari... ». Il Papa prende carta e penna per scrivere una lettera di risposta a un giornale. Non era mai accaduto. Il fondatore di «Repubblica», Eugenio Scalfari, si era rivolto direttamente a lui per due volte, a luglio e poi in agosto, con domande e riflessioni a partire dall’enciclica «Lumen Fidei». Francesco le ha ritenute intelligenti e ha risposto con una lunga lettera personale pubblicata ieri dal quotidiano, presentando il cuore della fede e dell’esperienza cristiana e spiegando che il dialogo con i non credenti «non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile».
Nella lettera, quasi una piccola «summa» dei contenuti essenziali della fede, il Papa parla di Gesù che sulla croce si manifesta «Figlio di un Dio che è amore». Parla del perdono di Dio che «è più forte di ogni peccato». Risponde alla domanda se il Dio dei cristiani perdoni i peccati di chi non crede, spiegando che «la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza». E a proposito della «verità assoluta» contrapposta alle «verità relative e soggettive», dà questa risposta: «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! ».
Joseph Ratzinger, da cardinale, era stato protagonista di alcuni dialoghi con non credenti sui temi della fede. Divenuto Benedetto XVI, ha promosso il «Cortile dei Gentili», perché questo confronto continuasse, ma durante il suo pontificato non ci sono precedenti simili alla lettera pubblicata ieri su «Repubblica». Mentre Paolo VI e Giovanni Paolo II avevano fatto dei dialoghi sui temi della fede divenuti libri-intervista, ma con grandi firme cattoliche (Jean Guitton, André Frossard, Vittorio Messori), non con chi non crede.
La lettera a Scalfari è soltanto l’ultima delle novità di Francesco, un Papa che, sorpreso dallo scalpore suscitato per il bagaglio a mano da lui personalmente portato sull’aereo per Rio, aveva commentato: «Bisogna essere normali». C’è la «normalità», eccezionale per un Pontefice, di rifiutare la scorta e di muoversi per Roma o dall’altro capo del mondo senza le grandi e lussuose auto di rappresentanza, finendo per usare utilitarie molto più modeste di quelle dei cardinali al seguito. C’è la sua decisione di abitare nella Casa Santa Marta, in una residenza più piccola e soprattutto meno isolata dell’appartamento nel palazzo apostolico, consumando i pasti nella sala da pranzo comune. Ci sono le telefonate, fatte direttamente e senza alcun filtro, a persone anche sconosciute, che gli hanno scritto segnalando situazioni di sofferenza: dalla madre che ha deciso di non abortire a quella che invece ha perso il figlio in una rapina.
Piccole e grandi scelte di stile, nuove per un Papa. Parlano di pastore che per vent’anni ha fatto il vescovo tra la gente, per la gente e con la gente, fuori dal palazzi curiali, lontano da ogni clericalismo e dal potere, rimanendo se stesso fino in fondo anche in Vaticano.
Il Papa, che appena affacciatosi dopo l’elezione, prima di benedire il popolo, ha chinato il capo chiedendo ai fedeli di pregare in silenzio per lui, sta raggiungendo ormai tantissime persone. Uomini e donne, anche lontane dalla Chiesa, attendono le omelie quotidiane della messa a Santa Marta, e guardano con simpatia al Papa «parroco» capace di «sbriciolare» il Vangelo, ripetendo con particolare insistenza il messaggio della misericordia. E la tenerezza di un Dio che ama e accoglie, insieme alla priorità evangelica dell’abbracciare i poveri e i sofferenti per toccare «la carne di Cristo». La sua forza comunicativa deriva dall’essere un testimone immediato e credibile. «È un Papa che veramente fa sentire Dio vicino agli ultimi e ai bisognosi», ha detto sorridendo una ragazza africana uscendo martedì scorso dal Centro Astalli dei gesuiti, dove Francesco aveva appena incontrato un gruppo di rifugiati. Un Papa pienamente a suo agio nelle favelas di Rio, nelle mense dei poveri, nell’abbraccio con i malati in piazza San Pietro come nel dialogo con Eugenio Scalfari.

La Stampa 12.9.13
Preti sposati, verso lo scontro tra tradizione e rivoluzione
Dopo l’apertura del segretario di Stato Parolin al matrimonio
di Giacomo Galeazzi


Il neo segretario di Stato riapre la discussione sui preti sposati. Il celibato sacerdotale «non è un dogma della Chiesa e se ne può discutere perché è una tradizione ecclesiastica». Però «non si può dire, semplicemente, che appartiene al passato». L’arcivescovo Pietro Parolin ha risposto così a una domanda del quotidiano venezuelano «El Universal» e la sua «apertura» è rimbalzata immediatamente in Curia. Il dato della non intangibilità della legge canonica sul celibato, sostenuto dalla maggior parte dei teologi, era stato pubblicamente contestato alcuni mesi fa dal cardinale Mauro Piacenza, prefetto del clero, mentre il suo predecessore, Claudio Hummes aveva preso la posizione contraria.
Parolin condivide l’orientamento riformatore e dialogante del porporato brasiliano che di Francesco è amico e consigliere. «È possibile parlare, riflettere e approfondire - spiega nell’intervista rilasciata a Caracas, dove ha deciso di restare fino a metà ottobre, quando entrerà in carica in Vaticano - quei temi che non sono articoli di fede e pensare ad alcune modifiche, però sempre al servizio dell’unità e secondo la volontà di Dio». Parolin difende il valore della legge sul celibato (peraltro in vigore solo nella Chiesa cattolica di rito latino, mentre le comunità cattoliche orientali non la seguono) e ribadisce che «risale ai primi secoli». Tuttavia, ammette che il tema rappresenta «una grande sfida per il Papa», poiché «egli possiede il ministero dell’unità e tutte queste decisioni devono essere assunte per unire la Chiesa, non per dividerla».
Per il braccio destro di Francesco, occorre seguire «la volontà di Dio e la storia della Chiesa», ma non si può ignorare la realtà di oggi e cioè «la scarsezza del clero» che a un certo punto potrebbe rendere necessario rivedere questa norma. Commenta il cardinale canonista Velasio De Paolis, commissario papale dei Legionari di Cristo: «Il celibato è un carisma ritenuto fin dai primi secoli adatto e conveniente al sacerdozio ma appartiene alla prassi non alla dottrina». Parlarne, evidenzia De Paolis, «non è né ereticale né scandaloso» e già «soprattutto durante i pontificati di Montini e Ratzinger si è posta la questione», però «non si tratta di una semplice tradizione come il breviario, le mani giunte o i salmi». Disponibilità al confronto dunque, senza fughe in avanti. «È una questione che può essere discussa: pur sapendo che il celibato è solo una tradizione, anche dopo il Vaticano II - sottolinea lo storico del cristianesimo Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore romano - i papi hanno confermato la prassi della Chiesa latina. Nelle comunità orientali vengono ordinati uomini sposati, ma diventano vescovi solo i celibi. Nel Vangelo Gesù parla di castità per il regno dei cieli e ciò non era esclusiva dei seguaci di Cristo: non si sposavano neppure gli asceti giudei, mentre nel monachesimo è costante la scelta celibataria, che per le donne è un elemento di parità importante».

Corriere 12.9.13
Il Papa e la misericordia di Dio verso quelli che non credono
Per Francesco chi ha fede non ha verità assolute
di Luigi Accattoli


Un Papa che dialoga con qualcuno che «non è credente» e «non cerca Dio» finora non si era visto, ma ieri La Repubblica ha pubblicato la lunga risposta di papa Francesco alle domande che Eugenio Scalfari gli aveva posto in due editoriali del 7 luglio e del 7 agosto. Erano otto domande sulla fede con al centro una — più insidiosa — sulla responsabilità morale del non credente agli occhi del credente, alla quale il Papa risponde che decisivo è «l'obbedire alla propria coscienza».
Una risposta ormai classica, da Newman a Ratzinger, ma anche una risposta nuova nella sua articolazione, perché la domanda non chiedeva semplicemente che ne fosse del non credente, ma poneva la domanda sul «peccato» di chi non crede e il Papa argentino ha introdotto — nella risposta — l'elemento della «misericordia», tipico della sua predicazione e che, in questo contesto, costituisce una novità.
Domanda: se il non credente «commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?» Risposta: «Premesso che — ed è la cosa fondamentale — la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male».
Altra domanda cruciale di Scalfari sul non credente che rifiuta di accettare verità «assolute» e riconosce solo «verità relative»: qui si direbbe che il Papa segni un punto, perché nell'opposizione scalfariana di assoluto e relativo introduce una terza via che è quella «relazionale» e opta per essa: «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità assoluta, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».
Le altre domande riguardavano il monoteismo trinitario, il comandamento dell'amore, la Shoah, il destino dell'idea stessa di Dio quando «la nostra specie finirà». Il Papa nega che finendo «questo mondo» l'uomo «termini di esistere» e dunque sempre «in un modo che non sappiamo» si rapporterà a Dio, che è «realtà con la R maiuscola e non un'idea del pensiero umano». Sulla Shoah afferma che essa non smentisce le «promesse» di Dio ad Abramo: e qui Francesco si appella all'affermazione dell'apostolo Paolo che Dio «non viene meno alla sua alleanza con Israele» e ne indica una riprova nel fatto che in tanti secoli di «terribili prove» gli ebrei hanno conservato la loro fede.
Francesco dunque non dialoga solo con i tribolati che gli scrivono nelle prove della vita ma anche con gli intellettuali non credenti. Da Roncalli a oggi i Papi avevano dialogato con tanti interlocutori — da Montanelli a Guitton, a Frossard, a Gawronski, a Seewald — ma si trattava di cattolici, o lo scambio era sulla politica ecclesiastica: questo è il primo confronto sulla fede con uno che «non cerca Dio». È un nuovo passo di quella che Francesco chiama «uscita» verso il mondo.

Corriere 12.9.13
Il filosofo Veca: ma il confronto può essere utile solo se autentico
intervista di Antonio Carioti


MILANO — Giunto alla soglia dei settant'anni (li compirà in ottobre) e fermo nelle sue convinzioni laiche, il filosofo Salvatore Veca guarda con favore al dialogo tra credenti e non credenti, che papa Francesco ha rilanciato con la lettera a Eugenio Scalfari. Ma ritiene che possa dare frutti solo a precise condizioni: «Bisogna che si tratti di un confronto autentico. È il requisito che caratterizzava le iniziative di Carlo Maria Martini e che colgo anche nelle parole di Jorge Mario Bergoglio. Tanto più si possono generare esiti interessanti e innovativi, quanto più ciascuno degli interlocutori si esprime con un senso di veridicità, con franchezza, senza celare nulla delle sue credenze per ragioni diplomatiche. Come diceva Confucio, siate leali verso voi stessi e quindi attenti agli altri».
Francesco sostiene che la verità cristiana non è assoluta, in quanto si esprime in relazione con Dio, ma non è neppure variabile e soggettiva. Che ne pensa?
«Il Pontefice espone un'idea della verità fondata su una relazione che consiste nell'affidarsi a Dio attraverso l'incontro con Gesù Cristo. Quando scrive che non è una verità assoluta, vuol dire che non può essere slegata o incondizionata, in quanto presuppone un forte rapporto con l'Altro. Non è certo una verità mutevole, ma è impossibile isolarla, immunizzarla da contatti esterni, scolpirla nella roccia, perché vive solo nella relazione ed è quindi per sua natura aperta».
Anche a chi professa credenze non religiose?
«Sì, perché a partire dal rapporto con l'Altro si sviluppa la relazione con gli altri, che del resto sono creature fatte a immagine e somiglianza di Dio».
Ma se la soluzione è affidarsi alla divinità, la verità assoluta, uscita dalla porta, non rientra dalla finestra?
«È inevitabile in una dimensione religiosa. Tutto ciò che per noi ha significato dipende dal fatto che ci connettiamo a soggetti esterni. Nel caso della fede, però, non è che Dio tragga significato dal rapporto con noi. Egli semmai è il significato supremo. Nella prospettiva religiosa il riferimento alla relazione trova sempre questo punto d'arresto».
Quindi il dissenso con i laici non può venir meno?
«Rimane la differenza. Ma se tutti la pensassero allo stesso modo, non avrebbe senso dialogare. Il Papa non intende nascondere le dissonanze, che però sono utili, aiutano a riflettere su noi stessi in rapporto agli altri».
Come valuta il brano in cui Bergoglio scrive che anche chi non ha fede in Dio può evitare il peccato, ascoltando la propria coscienza?
«Mi sembra in linea con l'eredità del Concilio Vaticano II, spesso disattesa o dissipata negli anni passati. Comunque è un'affermazione forte. Fëdor Dostoevskij diceva che, se Dio non esiste, tutto è permesso. Invece Francesco ammette l'esistenza di un'etica laica: una condotta basata sul giudizio riguardante il bene e il male, ma indipendente da ogni credenza religiosa».
Francesco riafferma la convinzione che l'uomo continuerà a esistere anche dopo l'estinzione della vita sulla terra. Come risponde lei, da laico?
«Capisco che si possa provare una certezza del genere, sulla base dell'idea che in noi ci sia una componente sovrannaturale. Ma ciò è dissonante rispetto al mio modo di pensare: io trovo ragionevole ritenere che nell'universo non resterà nulla dell'uomo. Tuttavia m'interessa discutere la concezione di Bergoglio e vedere che cosa mi suggerisce. Può darsi che, anche senza modificare le mie convinzioni, mi apra una prospettiva nuova».

il Fatto 12.9.13
Altro che Imu
Dopo la denuncia del Papa sui conventi di lusso
Ecco la mappa delle suite vaticane in affitto con Propaganda Fide
“Il Burcardo” gestisce delle stanze a 5 stelle in sette palazzi del centro di Roma
A capo della società un imprenditore finito in manette ad aprile
di Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce


Stanze super chic in affitto all’interno di sette palazzi, nel centro di Roma, di proprietà di Propaganda Fide. A gestire il patrimonio e le attività una società di un imprenditore abruzzese finito in manette nell’aprile scorso

Roma Un pizzico di generosità c’è comunque, basta coglierla. Volete scoprire, vivere, dormire, svegliarvi in alcuni dei più lussuosi e affascinanti palazzi di Roma, dentro stanze storiche? Non c’è problema, ci pensa Propaganda Fide, e per lei l’agenzia che ha ricevuto il mandato per affittare le suite in sette strutture, tutte centrali, appena ristrutturate, belle e infiocchettate e soprattutto a prezzi fuori-mercato: per due notti, a metà settembre, la richiesta è di appena 350 euro complessivi, quando in zona, per un pari livello, la cifra può anche quadruplicare, quintuplicare e salire ancora. Miracolo della Fide.
MA LA GENEROSITÀ non si esaurisce solo nell’offerta al pubblico, tocca anche la gestione degli immobili, affidata a “il Burcardo srl”, società fondata nel 2008, con amministratore tal Maurizio Stornelli, fratello di Sabatino, ex dirigente di Finmeccanica, ed ex amministratore delegato della Selex Service Management. I due, nell’aprile scorso, sono stati coinvolti nell’inchiesta napoletana riguardo l’appalto Sistri, la tracciabilità dei rifiuti e “la violazione della normativa sui contratti pubblici”. Il bilancio: 22 arresti, tra i quali i fratelli Stornelli, nati ad Avezzano, paese celebre per aver dato i natali a Gianni Letta, ma è un dettaglio. Non lo è l’ultimo contratto stipulato da Propaganda Fide con il Burcardo, datato 28 aprile, quindi successivo allo scandalo, all’arresto e dopo l’insediamento di papa Francesco e il nuovo corso imposto in Vaticano. Sobrietà, solidarietà, niente sfarzi, accoglienza ai poveri sono concetti lontani dalle stanze proposte, resta solo il concetto di “disponibilità”, a secondo dei giorni. “Mi dispiace, siamo pieni”. È sicura? “Sì, tutto occupato fino al mese prossimo”. Ma neanche una stanza libera? Non importa in quale delle sette strutture. “Forse ne abbiamo una e per sole due notti”. È bella? È al-l’altezza di quelle pubblicate sul sito? “Guardi, le nostre suite sono una meraviglia, una più bella dell’altra”. Così pare. Affreschi, letti a baldacchino, frutta fresca, drappi, quadri, storia dai Borgia ai più romanzati cardinali della città santa: “Sarete in una dimora secentesca di grande fascino ed eleganza affacciata su una piccola corte dove, secondo cronache vaticane, sembra che Caravaggio abbia ucciso Ranuccio Tommasoni”, recita la pubblicità. Il Burcardo non ha conosciuto fermate o flessione. Anno dopo anno, nonostante i cambi ai vertici di Propaganda Fide: ora c’è il cardinale pugliese Fernando Filoni, Maurizio Stornelli ha ricevuto in gestione questi vantaggi antichi che godono di agevolazioni fiscali come se fossero un convento di suore di clausura. E quindi pazienza per le parole di papa Francesco rispetto Chiesa troppo terrena: “Non trasformate i conventi in alberghi, dateli ai rifugiati”. Propaganda Fide è il dicastero che coordina le attività missionarie, incluso un patrimonio immobiliare che invade l’intera capitale, in gran parte ricevuti come donazioni.
LE RESIDENZE gestite dal Burcardo sono state donate negli anni Trenta. A Roma, molti palazzi di questo tipo venivano affittati ai ristoratori dei Castelli con canoni di cortesia e carità o ai più poveri del quartiere. Negli ultimi vent’anni, soprattutto con il mandato del cardinale Sepe, si sono ripetuti gli sfratti e le conversioni in albergo o camere di pregio. Altro che missionari.
Con scandali su scandali, smentite e nuove rivelazioni.
In attesa di un seguito alle parole di papa Francesco, chi vuole fare una passeggiata dentro la storia romana sa dove andare. Sempre se ha la fortuna di trovare una stanza libera.

Barbara Spinelli
il Fatto 12.9.13
Tra moniti e pressioni
“L’obiettivo di B.: prescrizione politica”
Spinelli: “Il Pd sia indipendente da Napolitano”
Il presidente Napolitano è intervenuto due volte, in agosto e settembre, sulla decadenza di Berlusconi
Un’interferenza abbastanza irrituale, pericolosa e anche singolare
intervista di Silvia Truzzi


Tra urla, appelli e minacce che accompagnano in questi giorni il dibattito sulla decadenza del senatore Silvio Berlusconi, pare che nessuno si sia posto una semplice, ma capitale, domanda: quanto costerebbe al Paese sacrificare un principio fondamentale come l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? Lo abbiamo chiesto a Barbara Spinelli, scrittrice ed editorialista di Repubblica.
Perché sembra una bestemmia dire che una persona condannata definitivamente per frode fiscale – reato ai danni dello Stato – non può rappresentare i cittadini in Parlamento?
Perché è difficile dire quel che pure è ovvio: questo nostro Stato si definisce a parole democratico, ma ha perduto la coscienza di essere una democrazia costituzionale, cioè dotata di una legge fondamentale che garantisce principi come la separazione dei poteri e, appunto, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Si procede con sospetta premura alla modifica dell’articolo cardine della Costituzione, il 138, che disciplina la revisione della Carta con procedure di garanzia. Tutto questo per volontà di un governo “contro natura”, nato da un’infedeltà elettorale, insieme a un Parlamento eletto con una legge fortemente sospetta di incostituzionalità. C’è più di qualcosa che non quadra.
Cambiare la Costituzione con procedure accelerate che stravolgono l’articolo 138 – una valvola di sicurezza pensata dai Padri costituenti proprio per evitare manomissioni – è un colpo di mano. Si parla di deroga, ma la parola giusta è violazione della Costituzione: finché non è modificato, l’articolo 138 è legge da osservare. Tanto più è un colpo di mano se pensiamo alla presente congiuntura storica: un Parlamento di nominati, un governo di larghe intese che gli elettori non volevano e che distorce la democrazia. Infine il conflitto di interessi: immutato, esso resta il male volutamente non curato del sistema politico. Come rafforzare i poteri dell’esecutivo, quando chi più si batte per il rafforzamento è Berlusconi, condannato e interdetto dai pubblici uffici perché frodava lo Stato per i propri interessi di imprenditore mentre governava? Altra stortura, gravissima: la legge elettorale viene accorpata al riesame costituzionale, dunque chissà quando ne avremo una nuova. Come se il Porcellum fosse parte della Carta!
Che impressione ha di questa lunga discussione nella Giunta per le elezioni del Senato: stanno prendendo/perdendo tempo?
Certo: già questo è un successo per Berlusconi. È come nei processi: rinvii, cavilli, dilazioni fino ad arrivare alla prescrizione. Anche in politica il traguardo pare essere una sorta di prescrizione. A forza di allungare i tempi si giungerà a ottobre, quando Berlusconi deciderà sull'affidamento ai servizi sociali e quando la Corte d’appello ridefinirà l’interdizione dai pubblici uffici. Sarebbe una vittoria per lui: vorrebbe dire che il parlamento non è riuscito a farlo decadere e che lo faranno i giudici, contro cui potrà inveire in nome del popolo sovrano e del Parlamento.
Il capo dello Stato martedì ha dichiarato: “Se non teniamo fermi e consolidiamo questi pilastri della nostra convivenza nazionale tutto è a rischio”. L’appello all’unità è stato messo in relazione con il braccio di ferro sulla decadenza di Berlusconi. Lei cosa pensa di questo intervento?
Il Presidente è intervenuto due volte, in agosto e settembre, sulla decadenza. Un’interferenza abbastanza irrituale, che tradisce la sua gerarchia delle urgenze: la cosa che più conta è la sopravvivenza del governo delle grandi intese. In altre parole: dà a quest’ultimo il primato, e pesa sulla Giunta ricordandole che essenziale è non abbattere i “pilastri della convivenza nazionale” con una rottura tra Pd e Pdl. L’intervento è pericoloso, e anche singolare: se è vero che le sentenze vanno rispettate, e Napolitano lo ribadisce con forza, come evitare uno scontro fra Pd e Pdl? Nella sostanza, siamo a un bivio: se vuole ritrovare identità ed elettori, il Pd deve interrompere questa venerazione di Napolitano, che va ben al di là del rispetto istituzionale. È l’adesione a una visione emergenziale della democrazia italiana, fatta propria dal Quirinale: da anni siamo “sull'orlo del precipizio”, “a un passo dal baratro”, dunque in stato di eccezione. Nulla deve muoversi. La democrazia è sospesa. Io non ritengo affatto pericolosa la caduta di un governo. Ne abbiamo avute tante e l’economia ne ha risentito poco.
Napolitano è stato rieletto, per la prima volta nella storia repubblicana, al sesto scrutinio. Ma ci sono stati presidenti eletti al 21esimo. E così ora una possibile caduta del governo cui seguissero nuove consultazioni ed eventualmente un nuovo esecutivo sembra un strappo. Che fine ha fatto la fisiologia istituzionale?
L’ideologia emergenziale permette a oligarchie chiuse di governare aggirando il normale funzionamento delle istituzioni, e anche gli esiti elettorali. È un ricatto sotto il quale viviamo da tempo. Ci ha anestetizzati. Il terrore del tracollo si è insinuato nelle menti, tanto ossessivamente viene ripetuto. Ci sono poi parole assassine: “governo di scopo”, “governo di servizio” trasmettono un’unica immagine: qualunque altro governo nato da elezioni non sarà “di servizio”. Nella migliore delle ipotesi sarà “senza scopo”, nella peggiore sarà in mano a populisti e malfattori.
Paolo Mieli ha detto: “Il ricatto di Berlusconi sulla caduta del governo è una pistola scarica”. Non è che tutto questo urlare alla catastrofe in caso di caduta del governo, carica quest’arma?
Berlusconi si è sempre nutrito della retorica emergenziale. La sua idea del capo legibus solutus, non ostacolato da nessuno, è coerente all’idea, valida in tempi di guerra, dello stato di necessità.
Perché si sono consegnati mani e piedi a un uomo che stava per essere condannato?
Nel 2009, a proposito del lodo Alfano, Ghedini disse che il premier non è un primus inter pares, ma un primus super pares. Che la “legge è uguale per tutti, non la sua applicazione”. Sono controverità entrate negli usi e costumi della Repubblica. Nella dichiarazione del 13 agosto, Napolitano ha preso atto della condanna di Berlusconi, ma al tempo stesso ha considerato “legittimi” gli attacchi e le rimostranze del Pdl contro i magistrati e la sentenza. Contrapporre la legittimità alla legalità è materia incandescente. È uno iato di cui s'è nutrita la cultura antilegalitaria delle destre e sinistre estreme, nella storia d'Europa.
Il capo dello Stato ha ricevuto il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, che secondo il Corriere della Sera, è salito al Colle in veste di ambasciatore di Berlusconi.
Il fatto in sé non mi scompone. Ma era il caso di riceverlo proprio in questi giorni? È il momento prescelto che inquieta. Come le telefonate di Nicola Mancino. Telefonare con Mancino è del tutto normale, tranne nel momento in cui l’ex ministro è indagato sulla trattativa Stato-mafia.

Enrico Berlinguer: un’intervista del 1972. «Non sono credente»
il Fatto 12.9.13
Enrico Berlinguer è appena diventato il nuovo segretario del Pci
Enzo Biagi lo incontra nel suo piccolo ufficio a Botteghe Oscure. Alle sue spalle c’è un’immagine di Gramsci
Parlano di valiori e coerenza
Enrico Berlinguer: “Un partito serio non tradisce la linea. Una formazione politica credibile non può permettersi di enunciare un programma e poi comportarsi in maniera opposta. Ma che bisogno c’è di entrare in un governo?”

intervista di Enzo Biagi

Enrico Berlinguer da qualche mese è entrato nell’ufficio più importante di Botteghe Oscure: è il nuovo segretario del Partito comunista italiano, ha preso il posto di Luigi Longo che nel 1969 lo aveva voluto accanto a sé come vice. L’appuntamento è alle dodici.
È stato battezzato “il sardo-muto”, perché è nato a Sassari e parla poco. È uscito dal liceo per entrare nel partito. Non ha concluso l'università, ma ha studiato profondamente i teorici del marxismo, e i classici della politica. La ribellione comincia quando è ancora ragazzo, ma nella sua nobile famiglia si contesta quasi per tradizione. Ha alle spalle un bisnonno repubblicano, un nonno che va con Garibaldi e un padre che è contro Mussolini. Non si presta al “colore”: anche dalle confidenze di chi gli sta vicino si ricava ben poco. La sua sposa si chiama Letizia, e si comporta come una qualunque casalinga. Il segretario non appare mai in pubblico, solo a poche feste dell’Unità. Ha ottimi rapporti con i figli, che vede assai poco, perché ogni mattina esce alle otto, e rientra a sera tarda. Di costituzione delicata, è un accanito fumatore, ma il fratello Giovanni, medico, lo ha indotto a ridurre la razione di sigarette. Trascurato nel vestire, non dimostra particolare predilezione per la buona tavola. C'è una celebre battuta di Pajetta: “Giovanissimo si iscrisse alla segreteria del Pci”. È un politico che odora di pulito.
Prima di incontrarlo ho dato un'occhiata ai ritagli; poche notizie. Cinquant'anni, sembra che ami la musica classica: preferenze Wagner e Bach. Appassionato di vela e soprattutto di calcio, qualche domenica va all'Olimpico ed è tifoso del Cagliari, e d’estate, durante la villeggiatura a Stintino, si diverte ad arbitrare partite di ragazzi. Dice di lui un amico: “Se gli viene da ridere pare quasi che se ne vergogni”.
L’esercizio, penso, non sarà facile. Allegri.
Nella portineria di Botteghe Oscure c’è il ritratto di Togliatti, dietro la sua scrivania quello di Gramsci. L’ufficio è piccolo, tranquillo. Enrico Berlinguer ha l'aspetto gracile e il volto segnato: la politica è il suo mestiere, la sua vita. Casa, famiglia, ad esempio, non debbono entrare nella cronaca. E, tutto sommato, è un suo diritto.
È una domanda d'obbligo: com’è diventato comunista?
Da ragazzo c'era in me un sentimento di ribellione. Contestavo, se vogliamo usare una parola di moda, tutto. La religione, lo Stato, le frasi fatte e le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi sentivo un anarchico. Nella biblioteca di uno zio, socialista umanitario, trovai il Manifesto di Marx; poi conobbi degli operai, degli artigiani che avevano seguito Bordiga, e che anche col fascismo conservavano i loro ideali. Esercitarono su di me un forte richiamo; c'era, nelle loro vicende, molta suggestione.
Dicono che lei è stato il delfino di Togliatti. Quando l'ha conosciuto?
A Salerno; allora il governo era laggiù, nel 1944. Mi presentò mio padre; erano compagni di liceo. Ne avevo sentito già parlare, ma come Ercole Ercoli, o Mario Correnti, il nome che usava ai microfoni di Radio Mosca. Togliatti era rientrato in Italia dopo 18 anni di esilio, era riuscito a formare un governo di unità nazionale per cacciare i nazisti. Aveva l’idea di un partito nuovo popolare e di massa. Nel secondo governo Badoglio, Togliatti era vicepresidente con Benedetto Croce. Gramsci, invece, aveva studiato a Cagliari.
La Sardegna ha il suo peso nel vostro partito.
Già. Togliatti e Gramsci erano molto bravi a scuola, vinsero una borsa dell'Università di Torino, e là s'incontrarono. Togliatti si licenziò con tutti otto e qualche nove. Hanno ritrovato la pagella. Bravissimo. Ma una sorella lo batteva.
E il liceale Berlinguer come se la cavava?
Io? Normale. In mezzo. Molti sei, qualche sette, pochi otto. Ma non dimentichi che tra i sardi c'è anche Velio Spano, antifascista e costituente. Togliatti era figlio di un economo dei convitti nazionali, trasferito nell'isola; c'è ancora chi lo ha in mente come un giovanottino studioso, riservato, che non si occupava di faccende politiche. Rimasero sbalorditi quando seppero che Ercoli era lui.
E Croce lo ha visto?
Certo; per un periodo sono stato anche un suo seguace. Sempre a Salerno, alla mensa del ministero delle Finanze. Pure i collaboratori di Badoglio che non avevano macchine, e allora non c'erano ristoranti, mangiavano con gli impiegati, quelle terribili pappette americane, e la carne in scatola. Se non è irriverente, ma forse non è il caso di dirlo, Croce mi fece impressione per il buon appetito che dimostrava.
Sono accadute molte cose da allora. C'è chi sostiene che, pur di andare al potere, adesso vi accontentereste anche di un sottosegretariato alle Poste.
No, chiederemmo di sicuro qualcosa di più. Ma che bisogno c'è di entrare in un governo? Potremmo anche appoggiarlo standone fuori. I comunisti italiani devono trovare una loro strada, completamente diversa da quella dei partiti del-l’Est.
Cosa è mutato da quando sedevate attorno a De Gasperi e coi liberali? Intendo dire: cambiato per voi?
A quell'epoca c’era un grande entusiasmo. C’era la fede nell’Urss e in Stalin, e i dirigenti erano fuori da ogni critica, si erano guadagnati il rispetto di tutti nella lotta antifascista. Poi, i rapporti si sono fatti burrascosi, il dibattito più libero, si sono poste delle questioni e si sono discusse. L'adesione al partito è diventata più razionale, più meditata. C'è stato, e penso che nessuno abbia difficoltà a riconoscerlo, un progresso notevole. Infine nel 1956 è arrivato lo scossone del XX Congresso del Pcus con Kruscev che aveva denunciato le violenze di Stalin.
E non avete più insistito nel proporre i vecchi modelli: l'Ungheria, la Polonia o l’Unione Sovietica, che era sempre il paese al di sopra di ogni sospetto.
Non nascondiamo la nostra simpatia per l’Urss, non condividiamo le scelte che ha fatto, la nostra posizione non esclude il dissenso. In ogni caso, il tipo di socialismo che si può e si deve costruire da noi è del tutto diverso. Per intenderci, all'Est, lo sviluppo dei fatti è stato condizionato dalla situazione interna e da quella internazionale. Guerra fredda e accerchiamento hanno determinato certe scelte dell'Urss. Solo la Cecoslovacchia aveva alle spalle un minimo di democrazia borghese. Poi ci sono stati, è evidente, gli errori, che bisogna ammettere, perché non basta la ragione storica a spiegare certe limitazioni a un regime di democrazia politica. Con grande libertà dico che siamo pronti a camminare con chiunque si proponga le nostre mete.
È quasi una confessione.
No, è un'analisi. Ci sono alcune libertà, come quella di stampa, che hanno un valore assoluto. Ma bisogna che ci siano anche certi mezzi per renderle effettive. Alcune giuste esigenze sono limitate dal capitalismo, dallo sfruttamento di classe. Ma già la nostra Costituzione, che è una delle più avanzate, contiene principi e norme che tracciano nuove strade: il diritto al lavoro, all'istruzione, all'assistenza aprono la via ad alcune riforme economiche che devono tener conto della particolare struttura dell'Italia, dove non c'è soltanto una grande borghesia e un proletariato, ma un ceto medio produttivo, che va conservato, perché in alcuni campi l'iniziativa dei privati può giovare allo sviluppo dell'intera società.
Sono queste affermazioni, forse, che hanno provocato la nascita del Manifesto. Cosa è stata per lei questa frattura?
Non una sorpresa, ma un fatto doloroso. Sono compagni coi quali abbiamo vissuto tante esperienze. Nel Congresso di Bologna, che mi nominò vicesegretario, Rossanda, Natoli e Pintor rimasero inizialmente all’interno del Comitato centrale, la destra del partito era per l’immediata espulsione. Ero convinto che lo strappo potesse creare una specie di “tribuna d’opinione”, abbiamo discusso per alcuni mesi: la rottura è stata inevitabile, non sul piano personale con loro mi confronto ancora.
Come spiega la sfiducia di fondo che c'è per i vostri programmi? Forse scontate anche i fallimenti e gli sbagli di alcune Repubbliche socialiste.
Alle politiche del maggio scorso abbiamo preso nove milioni di voti, il 27 per cento, un milione e mezzo di iscritti, non sono poi un bilancio che denuncia una grande diffidenza nei nostri confronti. Un partito serio non può permettersi di enunciare una linea e poi di comportarsi in maniera opposta.
Veramente c'è una casistica che potrebbe dimostrarlo.
Ma poi, non saremmo mai soli, saremmo sempre con gli altri. La gente ci crede, e noi offriamo garanzie alla gente anche contro di noi. Non siamo, bisogna intendersi, disposti a collaborare con tutti, ma con coloro che si riconoscono in alcuni obiettivi comuni.
Non è un riferimento a testi classici, tutt'altro. Ricordo una scenetta che recitava, nel primo dopoguerra, Totò. Gli annunciavano l'arrivo di un russo; e lui aveva paura. “Ma è un russo buono”, diceva l'attore che gli faceva da spalla. E lui: “Sempre russo è”. E l'altro insisteva: “Ma un russo bianco”. E Totò: “Sempre russo è”. E così molti pensano del Partito comunista italiano.
Scusi, ma perché la Democrazia cristiana, avendone la possibilità, non ha instaurato la sua dittatura? Non esiste nessun partito che, per definizione, sia alieno dal prendere tutto il potere. Vedi Tambroni, vedi la “legge truffa”. Noi chiediamo una leale intesa con gli altri. Vorrei poter dire che Dio mi è testimone, sa che sono sincero, ma non posso dirlo.
Lo dica, perché no?
Perché non sono credente.
Sua moglie lo è?
Sì. Lei crede.
E i suoi quattro figli sono battezzati?
Non mi va di parlare di loro, devono restar fuori, devono poter fare, liberamente, le loro scelte, senza alcun pregiudizio.
Perdoni l'insistenza. Sono, anche loro, nella fase anarchica?
La maggiore ha tredici anni; sarebbe troppo precoce.
Nel primo discorso da segretario ha detto che lei non sarà né Togliatti né Longo, cosa significa?
Il discorso continuava così: “Non aspettatevi da me quello che non posso dare”. Io non appartengo a quella generazione eroica di chi mi ha preceduto, non ho il passato di Terracini, Amendola, Pajetta e tanti altri, farò del mio meglio e con passione. È il momento di cercare, insieme, di trasformare la società, lavorando con l’obiettivo di unire tutti gli strati sociali e le forze politiche di ogni orientamento. Dobbiamo raggiungere l’unità per il bene del paese, però senza cedere all’estremismo.
Cosa ha rappresentato per il suo partito il Sessantotto, il movimento studentesco?
Il segretario Longo, che si era recato a Praga ad abbracciare Dubcek, non va dimenticato, volle incontrare una delegazione di studenti, e dopo scrisse su Rinascita: “Il movimento studentesco peccherà magari di estremismo, ma si batte contro il sistema capitalistico”. Noi siamo stati loro alleati. Il Pci è sempre stato presente in tutte le lotte contadine, operaie e anche nel movimento studentesco.
La bomba di piazza Fontana a Milano, la morte dell’anarchico Pinelli, il recente omicidio del commissario Calabresi…
Le bombe e la violenza hanno un solo scopo: quello di creare nel popolo un sentimento di paura, esasperare gli animi, un clima di grande confusione, per innestare un tentativo di soluzioni autoritarie.
È passata un'ora e alle quattordici Berlinguer ha l’abitudine di andare a casa, mi dice: “Vado per scrivere, per studiare, in casa mi trovo meglio”. Togliatti aveva alle spalle l'Albergo Lux di Mosca, il Comintern, Dimitroff e la Pasionaria, le “purghe” e Stalin; Longo la guerra di Spagna e le brigate partigiane. Enrico Berlinguer esce da una biblioteca di buoni borghesi antifascisti, da una scuola di partito, dalle conversazioni che faceva, in un paese della provincia di Sassari, con pastori e marinai.
Un pescatore che l'aveva conosciuto a quei tempi ha raccontato a un cronista che inutilmente cercava un po' di “colore”: “Sin da bambino era serio, molto chiuso. Non rideva mai”. Già. È la stessa osservazione che un monsignore avrebbe fatto a Paolo VI: “Molti si chiedono perché è così raro vedere Vostra Santità sorridere”. “Che motivo ne avrei? ”, rispose il Papa.

Il governo dell’inciucio deroga alla Costituzione
e l’Unità è contro Stefano Rodotà e Barbara Spinelli
ma anche contro Enrico Berlinguer...
l’Unità 12.9.13
Costituzione, ragione e dialogo
di Massimo Luciani


L’articolo di Stefano Rodotà pubblicato su l’Unità invita a ricondurre al piano del confronto pacato e argomentato la discussione sulla revisione della Costituzione. È un dato positivo, perché non sempre è stato così, negli ultimi tempi. Lo dimostrano, fra l’altro, le oltre 400 mila adesioni all’appello di un noto quotidiano che proclama (nientemeno!) «non vogliamo la riforma della P2».
E lo dimostrano il tono e il contenuto di alcune delle critiche rivolte al percorso di revisione che la Camera ha appena approvato. È stato detto, ad esempio, che oggi una revisione della Costituzione non sarebbe possibile perché dovrebbe costruirla un Parlamento delegittimato dall’essere stato eletto con una legge elettorale non solo impopolare, ma anche incostituzionale. Un ragionamento di questo tipo, però, deve essere conseguente: se legittimazione non c’è, non c’è per nessuna delle decisioni dell’attuale Parlamento, nemmeno per quelle che so in tema di imposizione fiscale o di ordine pubblico. Che facciamo, allora? Invitiamo gli italiani a non tenerne conto?
Si è anche detto che una revisione concordata da Pd e Pdl sarebbe assurda, perché questi due partiti non avrebbero nulla in comune, sicché il loro accordo potrebbe partorire solo un infante deforme. Anche qui c’è ragione di sorprendersi: forse la Costituzione del 1948 è stata scritta da forze politiche armoniosamente omogenee? E chi tiene alla logica del parlamentarismo non ha sempre pensato e detto che il bello di quella forma istituzionale è la ricerca del dialogo e del compromesso con l’avversario, entro un percorso di dibattito democratico? Dire pregiudizialmente no a qualunque confronto perché l’avversario non piace è proprio quello che chi ha a cuore il Parlamento e la rappresentanza politica non deve fare.
Ora, Rodotà prospetta due obiezioni di ben altro peso e serietà: che il procedimento previsto dal disegno di legge di revisione, visto che deroga all’art. 138 della Costituzione, sarebbe rischioso e illegittimo; che quel procedimento preluderebbe non alla «manutenzione», ma alla «manomissione» della Carta. Vediamole.
Sulla prima obiezione c’è poco da aggiungere a quanto già si sa: noi costituzionalisti siamo divisi fra chi sostiene che l’art. 138 non possa essere derogato e chi come me la pensa all’opposto. Qui, insisto, il punto essenziale è che la deroga deve lasciare intatta l’essenza di valore del procedimento di revisione, in particolare la garanzia delle minoranze e quella del voto popolare. Poiché il disegno di legge di revisione prevede che il referendum approvativo si tenga anche se la riforma della Costituzione è approvata con una maggioranza dei due terzi, a me pare che le garanzie costituzionali, sia per le attuali minoranze che per il corpo elettorale, siano state addirittura aumentate.
Quanto alla seconda obiezione, va detto che Rodotà ha perfettamente ragione quando distingue fra manutenzione e manomissione della Costituzione. Il problema, però, è identificare con precisione il confine fra le due. Lo stesso Rodotà riconosce che sono essenziali «la riduzione del numero dei parlamentari e l’abbandono del bicameralismo perfetto». È giusto. Ma non è forse vero che intervenire sui rapporti fra Camera, Senato e potere esecutivo significa incidere anche sulla forma di governo? E non è necessario, a questo punto, affrontarla direttamente, la questione della forma di governo, favorendo, senza indulgere ad eccessi plebiscitari, quella stabilità dell’esecutivo che è il vero problema della nostra esperienza costituzionale? E, visto che il Senato dovrebbe trasformarsi in camera di rappresentanza delle autonomie territoriali, non sarebbe necessario intervenire anche sull’attuale Titolo V della Costituzione, improvvidamente modificato nel 2001 da una legge di revisione (che seguì il procedimento dell’art. 138!) che ha creato innumerevoli problemi di funzionamento al nostro regionalismo?
Insomma: chi ama la Costituzione non può non cogliere l’emergere di alcuni punti di sofferenza e non può non agire per migliorare le cose. Rodotà chiede che si riconosca agli oppositori (in buona fede) dell’attuale tentativo di revisione di non essere ciechi conservatori. Anche qui ha ragione. Ma anche a coloro che (in buona fede) quel tentativo sostengono si deve riconoscere di non essere degli occulti eversori. Se faremo questo, il dialogo potrà riprendere sul saldo terreno della ragione. Anche perché è paradossale che si sia interrotto proprio fra chi tiene esattamente alla stessa cosa: la difesa dei valori della Costituzione repubblicana.

Corriere 12.9.13
L’analisi allarmante dello storico De Luna
La religione civile non abita in Italia
Serve un risveglio della politica
di Antonio Carioti


La classe dirigente risorgimentale cercò di dare all'Italia un'identità nazionale con la scuola, l'esercito, i prefetti. Ma non bastava. Quindi sul piano politico finì per adottare la tecnica del trasformismo, che permetteva di «attutire i contrasti» e coinvolgere i suoi avversari, perlopiù estranei a una visione liberale, in una gestione del potere al ribasso. Poi venne il fascismo, che cercò d'imporre «una cittadinanza militarizzata e ideologizzata», ma si assestò poi nella pratica di una «nazionalizzazione burocratica», le cui fondamenta si rivelarono fragili. In epoca democratica nessun progetto volto alla costruzione di valori condivisi ha mai conquistato una solida egemonia, tanto che oggi nella vita pubblica domina la deprimente (e al tempo stesso inquietante) sensazione di vuoto, cui dà voce lo storico Giovanni De Luna nel saggio Una politica senza religione (Einaudi).
Le religione cui si riferisce il titolo del libro non s'identifica ovviamente con alcun culto confessionale. Si tratta di una «religione civile», cioè del complesso di memorie, regole, idee attorno alle quali si organizza la convivenza in una nazione democratica moderna. Nulla che abbia a che vedere con la sacralizzazione della politica, anticamera dei regimi totalitari, ma piuttosto il prodotto di un «continuo dinamismo» tra eredità del passato e mutamenti storici.
Questo è l'ideale cui guarda De Luna. Ben diverso, purtroppo, lo stato di cose prodotto dalla sequela di fallimenti che il suo libro analizza. Abortì l'utopia azionista (cara a De Luna) di portare al governo il fervore della lotta partigiana. Ma fallì anche il disegno clericale di fare dell'Italia postbellica una «nazione cattolica», fedele innanzitutto alla Chiesa. Il rilancio dell'antifascismo in chiave unitaria, perseguito dal Pci, si appiattì «in una dimensione troppo esasperatamente partitica». La stessa ipotesi di un «patriottismo costituzionale», tuttora in campo, sconta i limiti di una Carta fondamentale caratterizzata dal «complesso del tiranno», cioè pensata non tanto per assicurare un buon funzionamento alle istituzioni quanto per bloccare in partenza le temute tentazioni autoritarie.
Sotto il peso di tanti insuccessi, i partiti tradizionali avevano sostanzialmente abdicato già prima di essere travolti nel biennio 1992-94. Ormai l'unico residuo, ma possente, fattore d'unificazione del Paese era estraneo alla politica: si trattava della «religione dei consumi» affermatasi grazie al vorticoso sviluppo economico. De Luna guarda al fenomeno con occhi severi, utilizzando il concetto pasoliniano di «omologazione», mentre pare più equo mettere in luce anche i suoi aspetti positivi: la motorizzazione di massa è stata un grande volano di libertà individuale; gli elettrodomestici hanno dato un contributo enorme all'emancipazione femminile; la televisione ha fornito per la prima volta a milioni di persone un contatto permanente con la lingua italiana parlata in modo corretto.
Di certo però il culto dei consumi non basta a tenere insieme un Paese e neppure una coalizione governativa. Il blocco guidato da Silvio Berlusconi, la cui leadership è stata soprattutto espressione della crisi della politica, ha proposto agli italiani come segno di appartenenza «il sentirsi tutti figli dello stesso benessere»: una rappresentazione dei fatti contraddetta dalle diseguaglianze crescenti e poi spazzata via dalla crisi finanziaria internazionale. Lo slogan del «nuovo miracolo italiano», che pure ha funzionato per parecchi anni, ormai ha il sapore amaro della derisione.
Naufragate quelle suggestioni, proprio l'emergenza economica, che riduce le risorse disponibili per i consumi individuali come per la protezione sociale, rendendo necessario un doloroso programma riformatore, richiederebbe un risveglio della politica, che in fasi come queste, scrive giustamente De Luna, non può ridursi «alla semplice amministrazione tecnica dell'esistente», pena il rischio di «soccombere». È tempo di «un esame di coscienza», conclude l'autore, a cui nessun italiano può sottrarsi.

il Fatto 12.9.13
La giunta dei preliminari si aggrappa al calendario
Oggi nuova riunione sulle date
Si voterà a metà ottobre: tempo utile perché i berluscones trovino i 44 senatori necessari a salvare il Cav
di Carlo Tecce


Ci hanno messo due ore per stilare il calendario e, dopo le due ore, il calendario non c'era. L'incertezza è l'unica certezza per la Giunta del Senato che può far decadere o salvare lo scranno di Silvio Berlusconi.
Infastidito (e chissà se pentito) per la retromarcia di martedì sera, il Partito democratico – assieme al Movimento Cinque Stelle - ieri ha cercato di bruciare i tempi, compresa la relazione di Andrea Augello, e aveva indicato il voto per lunedì o martedì. Ma il Pdl voleva 15 giorni di discussioni: niente unanimità, niente accordo.
OGGI SEDUTA nel pomeriggio, ci riprovano. Ma per l'esito finale si dovrà aspettare metà ottobre: l'aula di palazzo Madama si esprime a scrutinio segreto, ai berlusconiani mancano 44 senatori. C'è spazio e modo per la caccia al franco tiratore, specialità del Cavaliere.
Torniamo negli uffici di Sant'Ivo alla Sapienza, magnifica sede in cui i 23 senatori in Giunta hanno trascorso e trascorreranno parecchie ore. Il socialista Enrico Buemi, eletto con i democratici, ne aveva calcolato una quindicina per bocciare o promuovere il testo di Augello infarcito con le pregiudiziali ribattezzate in preliminari, cioè i tre tentativi di girare la gestione all'esterno fra Corte di Lussemburgo e Corte Costituzionale .
Il Movimento Cinque Stelle è disposto a lavorare anche nel fine settimana, dunque oggi, domani e anche domenica se occorre. Il Partito democratico, stavolta in sintonia con Scelta Civica, ha preferito non esagerare e indicare lunedì o martedì. Oggi sapremo.
Chiusa la parentesi di Augello, la maggioranza dovrebbe nominare un proprio relatore e la decadenza, almeno in Giunta, sarebbe sancita in una settimana, l'ultima di settembre. A quel punto, ci sarà un'attesa, e si pronostica spettacolare, riunione pubblica con Berlusconi in persona o un suo legale rappresentante, ma non Niccolò Ghedini perché parlamentare.
Ci sono al massimo dieci giorni di riflessioni e burocrazia prima di comunicare la decisione a palazzo Madama. Qualcuno ipotizza che il Pdl potrebbe far allungare l'agenda chiedendo ulteriori dieci giorni: esiste un cavillo nel regolamento, ci possono riuscire.
Ricevuta la posta dai colleghi in Giunta, la prima o la seconda settimana di ottobre, il presidente Pietro Grasso potrebbe convocare i 321 senatori, compresi i sei a vita, per le votazioni su Berlusconi. Ma si sovrappongo due date: il 15 ottobre finisce la finestra elettorale per l'inverno, poi se ne riparlerebbe nel 2014; il 19 la Corte d'Appello di Milano inizia a ricalcolare la pena accessoria ai quattro anni di condanna in Cassazione per il Cavaliere.
ORA QUESTE sono ipotesi, anche ottimistiche, con tanti “se”: se il Pdl non s'inventa nuova arzigogoli procedurali; se non minacciano di mandare a casa Enrico Letta; se non monita il Quirinale; se il Pd non risente le pressioni. E al Senato, ammesso che siano tutti presenti e tutti siano intenzionati a votare, lo scudo del Cavaliere parte da 117 voti. La maggioranza è quota 161 e i berlusconiani proveranno la caccia dei 44 dai democratici ai centristi di Monti, nessuno escluso. Il voto è segreto. E gli agguati, da Romano Prodi in giù, non sono fenomeni improbabili da quelle parti. Anche perché l’addio parlamentare di Berlusconi potrebbe provocare tanti addii e tanti sommovimenti interni ai partiti rivali o alleati di governo.

il Fatto 12.9.13
Partita decadenza
Il voto segreto su B? Il Pd teme i killer che colpirono Prodi
Delrio avverte: “Se ci dividiamo sul destino di quello siamo morti e sepolti”
Fassina “Il sospetto è inevitabile”
di Antonello Caporale


La paura è che questo partito possa di nuovo debosciarsi. Tradire e tradirsi. Come un alcolista che malgrado gli sforzi cade nel vizio. Il terrore è giungere a metà ottobre al punto di non ritorno: contarsi ancora una volta nel nome di Silvio Berlusconi. Provare a essere rapiti persino nella valutazione della sua condanna. Essere trascinati nell'aria zozza di chi pugnala alle spalle, di chi vende l'onore altrui senza la forza di consegnare alle stampe il proprio viso. È il terrore di annotare, nel buio fitto del voto segreto, il numero di chi ha osato dire no alla decadenza. “Posso garantire la nostra determinazione, e la puntualità con cui la Giunta emetterà il suo verdetto. Lei però mi parla del dopo: dell'aula del Senato, dell'ipotesi che il voto da palese divenga segreto e che la segretezza porti quella robaccia con sé. Il Pd ha conosciuto i 101 che hanno votato contro Prodi, quindi la possibilità esiste, anche se il rischio è remoto. Temo, certo che sì”. Tremano tutti, e anche a Felice Casson, che è stato un giudice integro e oggi resta il teorico della linea della fermezza, tocca ponderare l'eventualità che Berlusconi sia così abile e così spericolato da condurre il Pd e grappoli di senatori di ogni altra foggia e misura (da Scelta civica ai terribili grillini) a condurlo alla salvezza, portarlo nella nebbia fitta e da lì fuori pericolo.
COME NUVOLE che in cielo si riallineano e si ritrovano improvvisamente vicine, il destino di Berlusconi si coniuga al destino del governo, la sua morte alla fine delle larghe intese, la corsa verso le elezioni al blocco di tante singole carriere, piccole e grandi. E così, quando gli umori cambiano repentinamente come le nuvolette in cielo, il clima generale subito ne risente: ieri nervoso, oggi rilassato. Ieri contrapposto oggi compiaciuto. Ieri tutti sulle barricate, oggi tutti sui sofà. Di nuovo Berlusconi e di nuovo quella parola, campagna acquisti, che terrorizza solo a pronunciarla e impone uno scatto immediato per respingerla, trascinarla lontana da sé con il tacco della scarpa come fosse una cicca di sigaretta spenta. “Il partito sarebbe morto e sepolto se si mostrasse diviso sul destino di quello lì. Non ci sarebbe più. Punto e basta”. Vero, fa paura pensarci, e neanche vorrebbe farlo Graziano Delrio, ministro per gli Affari regionali, ma soprattutto amico di Matteo Renzi, dunque parte dell'enorme pentolone in cui bolle l'acqua del partito. Renzi ha fretta di conquistare il partito, di contarsi dentro e poi fuori. Renzi annuncia lo sfratto a Enrico Letta, ma deve notificarglielo. E come si fa se la strada delle elezioni è sbarrata e quella del congresso pure? Michele Anzaldi è della sua falange: “Ancora non abbiamo una data per decidere il nome del nuovo segretario, ed è ragionevole pensare che la dilazione significhi ostruzione, che il contrasto venga aiutato dai cavilli, dalle eccezioni, e da piccole o grandi novità”. Se Berlusconi cade per mano del Pd, il governo cade per mano di Berlusconi. Dunque è più probabile che si voti, ed è più probabile che Renzi conquisti, con il partito, anche il governo. È questa l'ipotesi ancora più accreditata, malgrado Napolitano aggiunga moniti ai suoi già pressanti consigli di non fare di un destino personale il destino della Repubblica.
MA È ANCHE vero che sul destino di Silvio si srotola il destino dei suoi oppositori, le velleità di singoli, le speranze di molti. E la battaglia sul fronte esterno può pericolosamente intersecarsi con quella interna. Se le lingue si confondono, gli animi si incupiscono, le diagnosi si complicano e ciascuno guarda a sè. L'idea di fregare l'amico anche al costo di salvare il nemico atterrisce ma non è esclusa. E si somma all'eventualità che rasenta la perdizione: ogni carriera è in vendita e l'intelligenza col nemico, per profitto personale, è già consuetudine nella storia della Repubblica, già riempie pagine di un processo che si sta per aprire a Napoli. Il terrore è che malgrado le urla dei militanti, gli inviti alla schiena dritta (e alle mani a posto) qualcuno possa procedere come prima. “Un partito che ha combinato quel poco a maggio porta con sé il sospetto che in quell'occasione una resistenza sia stata organizzata e ancora oggi conservi una possibile vitalità e un interesse a proseguire nell'opera di denigrazione. Ma dobbiamo trovare il modo per scongiurare alla radice anche la possibilità teorica che questo assunto possa ritenersi plausibile, e immaginare modi, se la votazione dovesse essere segreta, in cui il voto del singolo abbia un suo vestito, una propria faccia. Se c'è gente che ha in mente di distruggere l'immagine del Pd, deve sapere che esistono modi per sterilizzare questo sciagurato tentativo”, dice Stefano Fassina, vice ministro all'Economia. O solo spera.

Repubblica 12.9.13
Guadagnare tempo, il Vietnam di Silvio
L’ultima carta del Cavaliere con il Quirinale “Ormai so che la finestra elettorale si è chiusa”
Ma dice no ai figli che gli portano la domanda di grazia già firmata
di Carmelo Lopapa


IL SIPARIO che scende inesorabile sulla finestra elettorale d’autunno. La crisi di governo ormai minacciata a salve. «Al voto non possiamo più andare, non ci sono più i tempi, le condizioni, dobbiamo combattere a oltranza per evitare la decadenza almeno fino a metà ottobre, non posso incassarla prima che Milano decida l’interdizione». Silvio Berlusconi torna a vedere nero e ordina la resistenza e le barricate ai suoi.
ALMENO fin tanto che la Corte d’appello di Milano non di pronunci sull’interdizione, facendolo comunque decadere. È l’ultima, disperata strategia.
Il report che gli prospetta in mattinata ad Arcore il senatore di fiducia Francesco Nitto Palma sui lavori della giunta delle elezioni al Senato, d’altronde, quel procedere del Pd a tappe forzate verso il voto in tempi celeri, gettano il leader nello sconforto più nero. Non ci sono più condizioni per evitare il voto in giunta e poi in aula, qualsiasi trattativa coi democratici appare preclusa. Il diktat lanciato da Villa San Martino è allora di combattere a Sant’Ivo alla Sapienza giorno per giorno. Cercare di strappare giorni, settimane, magari un mese prezioso. Ed è quello che i suoi iniziano a fare in ufficio di presidenza della giunta fin dal pomeriggio. Ottengono poco o nulla, ma oggi si riprende. Con quale obiettivo? Quel che gli avvocati Ghedini e Longo gli spiegano a più riprese è che con molta probabilità il presidente della Repubblica Napolitano si ritroverebbe con le mani legate se nei prossimi giorni arrivasse un voto definitivo dell’aula di Palazzo Madama che sancisse la decadenza. Con difficoltà, è la tesi, potrebbe procedere alla commutazione della pena detentiva (domiciliari o servizi sociali) inpecuniaria, ancora meno a una grazia, in presenza di un voto parlamentare. Molto meglio se la decadenza seguisse, automatica, l’interdizione che il 19 ottobre la Corte d’Appello di Milano dovrà infliggere (da uno a tre anni). È il «film» che proiettano in queste ore ad Arcore e che ha convinto e forse consolato l’inquilino. Ma solo in parte.
Il presidente Napolitano ha lasciato intendere con molta chiarezza che qualsiasi atto di clemenza da parte sua potrebbe incidere sulla pena principale, non certo su quella accessoria. Berlusconi in ogni caso decadrà, non sarà ricandidabile, non sarà più parlamentare e dunque resterà privo di qualsiasi immunità. Non c’è rimedio per l’incubo «di un arresto disposto da una procura qualsiasi» che lo attanaglia ormai giorno e notte. Falchi alla Verdini continuano a ripetergli che nulla impedisce che lui possa al contrario candidarsi da leader se si andasse al voto, fosse pure a fine novembre. Ma il Collenon concederà mai lo scioglimento delle Camere, Berlusconi lo dà per certo. E quella finestra elettorale poi, calendario alla mano, è ormai di fatto chiusa. E dunque far cadere Letta «per ottenere cosa?» È la grande incognita. Anche se la minaccia della crisi viene tenuta alta, ripetuta da tutti i dirigenti Pdl nei talk show, se in giunta il Pd procederà da oggi a tappe forzate. La realtà tuttavia dice altro, e altro raccontano le cifre delle azioni Mediaset tornate come per magia a crescerein Borsa sulla scia della semplice notizia di una tregua politica che campeggiava sui giornali di ieri. «E sono argomenti che per lui contano più di tanto altro» spiega chi è di casa ad Arcore. D’altronde, non è passata inosservata la presenza di quasi tutti i parlamentari Pdl in aula quando nel pomeriggio il premier Enrico Letta ha riferito a Palazzo Madama sul G20. «Non vogliamo la crisi» ripete in giornata il capogruppo Schifani. E dopo Letta «ci sarebbe di certo il voto, non è conquesti grillini che possono sognare di fare un altro governo» è la tesi di Mariastella Gelmini.
È in questo clima che i figli sono tornati alla carica. A metterlo alle strette. Per tutto il giorno è rimasto blindato a Villa San Martino proprio con i loro, mentre un via vai incessante di avvocati conclamava la gravità del momento. Nessuna voglia di parlare con i dirigenti Pdl, non sono loro a poterlo salvare, non la politica ormai. Raccontano che Marina, Piersilvio e Barbara si siano presentati ieri sera a cena portando poche cartelle da loro controfirmate con la richiesta ufficiale di grazia al capo dello Stato. Il gesto estremo e clamoroso della famiglia. Da accompagnare, inevitabile, con le dimissioni dalla carica di senatore, prima di qualsiasi pronunciamento della giunta delle elezioni. Un atto di «responsabilità e coraggio», gli chiedono i figli più grandi. Lui resiste, non accetta. «Non vi autorizzo a presentarla, non è il momento, non ora» sarebbe stata la reazione a caldo. Ma la richiesta è lì sul tavolo. E ci resta. «Non lo farà» giura Angelino Alfano parlando a chiusura della festa “Controcorrente” del Giornale a Sanremo. Berlusconi resta in silenzio e spaesato, smarrito, «non sa in realtà che fare» confida chi gli ha parlato. Vuole mostrare il volto duro, resistere, ma gli artigli sono spuntati. E la via dell’appello alla clemenza del capo dello Stato e delle dimissioni diventa l’unica via di salvezza.

da La Stampa 12.9.13
La fretta di Berlusconi Mettere in salvo il patrimonio
I figli gli hanno sottoposto una domanda di grazia
di Ugo Magri


I rampolli del Cavaliere pare abbiano sottoposto al padre una richiesta di clemenza già scritta e solo da firmare. Lui, per il momento, si sarebbe rifiutato. Corre voce che la vera segretissima ragione di questi ripetuti summit consista in una sistemazione patrimoniale avviata da Berlusconi a favore dei figli, una corsa contro il tempo per evitare contraccolpi giudiziari della condanna (sequestri di pacchetti azionari e provvedimenti simili) sui vasti interessi dell’azienda di famiglia. Sarà una coincidenza, ma ieri il titolo Mediaset è passato parecchio di mano con un aumento in Borsa di oltre il 3 per cento.
(...)
Spiega uno dei rari saggi rimasti nel Pdl: «Tutti stanno recitando una commedia per far contento l’impresario, cioè Berlusconi. Ma si capisce che già pensano alla prossima scrittura...».

Repubblica 12.9.13
Indegni escamotage
di Chiara Saraceno


Le disquisizioni giuridiche sulla costituzionalità della legge Severino, il dibattito sui poteri della giunta per le elezioni, il ping pong di ricatti e contro-ricatti cui assistiamo impotenti in questi giorni, hanno finito per cancellare il nodo politico e civile della questione Berlusconi, o meglio per rovesciarlo nel suo contrario. È politicamente accettabile che una persona che è stata condannata in via definitiva per danni gravi alla collettività non senta il dovere di dimettersi dal parlamento, tanto più se ha avuto ed ha ruoli pubblici e politici importanti?
Anche se ritiene di essere stato condannato ingiustamente, proprio perché si considera uomo di Stato e punto di riferimento politico per una parte importante dei cittadini, dimettersi pur protestando la propria innocenza sarebbe insieme un atto di dignità e di civismo che rafforzerebbe, non indebolirebbe, la sua statura politica. Rafforzerebbe anche le richieste di riforma della giustizia, togliendo l’ombra di strumentalità ad personam. Al contrario, il continuo ricorrere a cavilli giuridici, rafforzati dalla minaccia di far cadere il governo, per mantenere il proprio status di parlamentare in nome del proprio ruolo di importante leader politico lo indebolisce precisamente come uomo di Stato e come autentico leader. Non solo perché conferma i sospetti che abbia un’idea della politica come strumento per i propri individuali interessi, con scarsa attenzione per gli interessi collettivi, ma perché riduce l’azione politica (la “agibilità politica”) alla presenza parlamentare. Può spuntarla, ma al prezzo di un ulteriore scadimento della pratica politica e della sua percezione da parte dei cittadini.
È possibile che la legge Severino presenti tratti di incostituzionalità, non tanto per la questione della retroattività, quanto per ciò che riguarda i poteri della Giunta e quindi meriti di essere ulteriormente valutata sotto questo aspetto. Ma lo scopo condiviso da tutti i partiti (incluso il Pdl) che l’hanno a suo tempo approvata era quello di evitare che persone condannate possano sedere in parlamento come rappresentanti dei cittadini. Il cittadino, il leader politico Berlusconi che l’ha a suo tempo approvata, dovrebbe accettarne le conseguenze per sé, dimettendosi di propria iniziativa e senza richiesta di salvacondotti e garanzie per il futuro, proprio per testimoniare che riconosce il valore di quell’obiettivo. Rifiutarle come escamotage per aggirare la sentenza che lo ha condannato non gli rende onore. E chi lo sostiene in questo tentativo non gli rende un buon servizio, come uomo e come leader politico. Non rende neppure un buon servizio al proprio partito.

La Stampa 12.9.13
Comunque vada è già cominciata la nuova campagna elettorale
di Marcello Sorgi


Ci hanno messo due ore per stilare il calendario e, dopo le due ore, il calendario non c'era. L'incertezza è l'unica certezza per la Giunta del Senato che può far decadere o salvare lo scranno di Silvio Berlusconi.
Infastidito (e chissà se pentito) per la retromarcia di martedì sera, il Partito democratico – assieme al Movimento Cinque Stelle - ieri ha cercato di bruciare i tempi, compresa la relazione di Andrea Augello, e aveva indicato il voto per lunedì o martedì. Ma il Pdl voleva 15 giorni di discussioni: niente unanimità, niente accordo.
OGGI SEDUTA nel pomeriggio, ci riprovano. Ma per l'esito finale si dovrà aspettare metà ottobre: l'aula di palazzo Madama si esprime a scrutinio segreto, ai berlusconiani mancano 44 senatori. C'è spazio e modo per la caccia al franco tiratore, specialità del Cavaliere.
Torniamo negli uffici di Sant'Ivo alla Sapienza, magnifica sede in cui i 23 senatori in Giunta hanno trascorso e trascorreranno parecchie ore. Il socialista Enrico Buemi, eletto con i democratici, ne aveva calcolato una quindicina per bocciare o promuovere il testo di Augello infarcito con le pregiudiziali ribattezzate in preliminari, cioè i tre tentativi di girare la gestione all'esterno fra Corte di Lussemburgo e Corte Costituzionale .
Il Movimento Cinque Stelle è disposto a lavorare anche nel fine settimana, dunque oggi, domani e anche domenica se occorre. Il Partito democratico, stavolta in sintonia con Scelta Civica, ha preferito non esagerare e indicare lunedì o martedì. Oggi sapremo.
Chiusa la parentesi di Augello, la maggioranza dovrebbe nominare un proprio relatore e la decadenza, almeno in Giunta, sarebbe sancita in una settimana, l'ultima di settembre. A quel punto, ci sarà un'attesa, e si pronostica spettacolare, riunione pubblica con Berlusconi in persona o un suo legale rappresentante, ma non Niccolò Ghedini perché parlamentare.
Ci sono al massimo dieci giorni di riflessioni e burocrazia prima di comunicare la decisione a palazzo Madama. Qualcuno ipotizza che il Pdl potrebbe far allungare l'agenda chiedendo ulteriori dieci giorni: esiste un cavillo nel regolamento, ci possono riuscire.
Ricevuta la posta dai colleghi in Giunta, la prima o la seconda settimana di ottobre, il presidente Pietro Grasso potrebbe convocare i 321 senatori, compresi i sei a vita, per le votazioni su Berlusconi. Ma si sovrappongo due date: il 15 ottobre finisce la finestra elettorale per l'inverno, poi se ne riparlerebbe nel 2014; il 19 la Corte d'Appello di Milano inizia a ricalcolare la pena accessoria ai quattro anni di condanna in Cassazione per il Cavaliere.
ORA QUESTE sono ipotesi, anche ottimistiche, con tanti “se”: se il Pdl non s'inventa nuova arzigogoli procedurali; se non minacciano di mandare a casa Enrico Letta; se non monita il Quirinale; se il Pd non risente le pressioni. E al Senato, ammesso che siano tutti presenti e tutti siano intenzionati a votare, lo scudo del Cavaliere parte da 117 voti. La maggioranza è quota 161 e i berlusconiani proveranno la caccia dei 44 dai democratici ai centristi di Monti, nessuno escluso. Il voto è segreto. E gli agguati, da Romano Prodi in giù, non sono fenomeni improbabili da quelle parti. Anche perché l’addio parlamentare di Berlusconi potrebbe provocare tanti addii e tanti sommovimenti interni ai partiti rivali o alleati di governo.

Corriere 12.9.13
Mps, inchiesta sul patto tra Pd e Pdl per gli incarichi
Così Pd e Pdl si dividevano le nomine di Monte Paschi
I pm aprono un fascicolo sui rapporti tra banca e politica
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Una spartizione tra Pd e Pdl dove la sinistra ha sempre prevalso e poi è scesa a patti. Accordi su nomine e affari che venivano discussi a livello locale e avallati dai vertici nazionali del partiti, passando per la presidenza del Consiglio. Nell'inchiesta sulla gestione del Monte dei Paschi di Siena, si apre il capitolo di indagine più delicato. È quello che porta direttamente nelle stanze della politica romana. Sono le deposizioni degli amministratori locali, di coloro che per statuto devono indicare i nomi da sottoporre alla scelta per la composizione dei consigli di amministrazione, a delineare quanto è accaduto negli ultimi anni. Svelando come alla fine ci fosse sempre la necessità di trovare un'intesa che potesse garantire le varie parti. Spesso ignorando quali fossero le reali esigenze finanziarie e soprattutto le garanzie per gli azionisti. La maggior parte dei verbali sono stati depositati all'inizio di agosto scorso, quando i pubblici ministeri Antonio Nastasi, Aldo Natalini e Giuseppe Grosso hanno chiuso la prima istruttoria sull'acquisizione della banca Antonveneta avvenuta alla fine del 2007 per 9,3 miliardi di euro, con una plusvalenza calcolata in almeno tre miliardi di euro rispetto a quanto era stata pagata tre mesi prima dalla banca Santander.
«Le anime dei Ds»
Era stato il presidente della Fondazione Gabriello Mancini il più incisivo nel delineare i meccanismi di designazione in un interrogatorio del 31 gennaio 2013: «Era il presidente Giuseppe Mussari che decideva le nomine e mi informava. Il suo riferimento era Franco Ceccuzzi, di area dalemiana. Posso dire che aveva un cordiale rapporto anche con Walter Veltroni quando divenne segretario del Pd. Il punto di riferimento nel Pdl era l'onorevole Denis Verdini. Altra persona con cui aveva rapporti era Gianni Letta. Ricordo che Letta affermava che Mussari era il suo riferimento in banca, mentre io ero il suo riferimento in Fondazione».
Altri importanti dettagli li ha forniti ai magistrati Maurizio Cenni, sindaco di Siena dal 2001 al 2011. Viene ascoltato come testimone il 4 ottobre 2012 e dichiara: «Devo dire che le diverse anime dei Ds erano fortemente interessate alla gestione di Banca Mps. È sufficiente leggere i giornali dell'epoca per ricordare ciò che l'onorevole Vincenzo Visco o l'onorevole Massimo D'Alema, ad esempio, pensavano della banca. Affermavano che era antistorico che una realtà di soli 60 mila abitanti potesse gestire, attraverso gli enti locali, un gruppo bancario importante comne Mps. Affermavano che la banca doveva crescere, doveva acquisire altri gruppi bancari, essere più presente sul mercato italiano e internazionale. L'acquisizione di Antonveneta avviene anche in ragione della pressione psicologica che vi era sulla banca».
I cinque componenti
In uno stralcio di verbale reso noto qualche settimana fa, Fabio Ceccherini il presidente della Provincia di Siena dal 1999 al 2009, chiarisce che nel 2006, per le nomine di Mancini a presidente della Fondazione e Mussari a presidente della banca, di averne parlato «con Cenni, Ceccuzzi e con Franco Bassanini che era stato eletto nella circoscrizione di Siena e assieme all'onorevole Giuliano Amato erano quelli maggiormente attenti al territorio e alla banca. Ebbi colloqui anche con D'Alema che esprimeva perplessità sulla governance».
Altri dettagli sono stati aggiunti dal politico nel corso di quell'interrogatorio del 4 ottobre 2012. In particolare Ceccherini specifica che «il presidente nomina cinque componenti della deputazione» e sostiene di aver cercato sempre «di privilegiare il territorio per la nomina degli stessi». Secondo lui «c'era interesse, ma non ingerenza da parte dei responsabili nazionali dei Ds in ordine alle scelte riguardanti la banca». Ma specifica come proprio D'Alema «riteneva il sistema di nomine medievale perché troppo legato agli enti locali e auspicava un'apertura, un suo maggior radicamento sul territorio nazionale e una politica industriale che fosse più attenta alle esigenze del mercato».
L'accordo con il Pdl
Agli atti dell'inchiesta c'è la bozza di un patto siglato tra Ceccuzzi e Verdini predisposto il 12 novembre 2008 per la spartizione delle nomine. In calce ci sono i nomi, ma non le firme ed entrambi hanno dichiarato che «si tratta di una bufala». In realtà le «regole» fissate in quel documento sono le stesse poi ripetute a verbale da numerosi protagonisti come il senatore del centrodestra Paolo Amato che ai magistrati, parlando della nomina di Alberto Pisaneschi nel Cda di Mps in quota Pdl, aveva dichiarato: «Pisaneschi non è stato nominato da Verdini, ma è stato il frutto del "groviglio armonioso" senese. Poi Verdini lo ha gestito».
Una linea confermata da Mancini secondo il quale «per questa scelta è stato necessario l'avallo di Gianni Letta e il via libera finale di Silvio Berlusconi». Non solo. Chiarisce Mancini: «Dopo l'acquisizione, la presidenza di Antonveneta venne affidata a Pisaneschi su indicazione di Mussari. Egli motivava questa sua indicazione con opportunità politica poiché Antonveneta aveva i suoi maggiori interessi in Veneto, regione a forte connotazione politica di centrodestra e dunque era opportuno che il presidente fosse della medesima area politica. Mussari mi disse di aver informato il presidente della Regione Giancarlo Galan dell'acquisizione di Antonveneta».

da l’Unità 12.9.13
Bersani: bene Cuperlo
L’ex segretario: guardo alle posizioni di Gianni e di Barca
di Vladimiro Frulletti


(...) Ieri mattina Cuperlo ha avuto un lungo incontro con una delegazione di bersaniani: il viceministro Stefano Fassina, il suo collega al governo (già segretario della Lombardia) Maurizio Martina e il deputato Alfredo D’Attorre. L’adesione alla candidatura Cuperlo oramai è scontata. Fassina il suo voto l’ha già deciso e lo stesso Bersani (che pure da ex segretario non vuole fare il king maker) ha ribadito a Sky24 di guardare con attenzione a Cuperlo (e di apprezzare barca «che però non è candidato»). Così ieri hanno discusso del come. Probabilmente ci sarà nei prossimi giorni (ma sono previsti altri incontri) un’iniziativa pubblica. Ancora non è stato deciso invece se il sostegno dei bersaniani avverrà attraverso un proprio documento perché c’è chi teme che possa essere interpretato come una mossa dal sapore correntizio. Tra l’altro le proprie idee i bersaniani le avevano già indicate (al convegno “Fare il Pd” ) lo scorso 13 giugno. Quello che è certo è che ieri E ieri hanno confermato a Cuperlo di condividere «ampiamente» la sua impostazione. In particolare c’è sintonia sul modello di partito, a cominciare dalla separazione fra segretario e candidato premier. In più però gli hanno chiesto di allargare i propri riferimenti a «tutti i riformismi» del Pd e in particolar modo all’esperienza del cattolicesimo democratico. «Bisogna evitare di apparire come una minoranza di sinistra» avverte D’Attorre. Non a caso Bersani va ripetendo che lui non appoggerebbe mai l’idea di «un partito diviso fra credenti e non credenti». Indicazioni a cui Cuperlo ha spalancato le porte facendo notare che nel proprio documento c’è scritto che «non ha senso resuscitare la sinistra del passato». Anche per questo all’iniziativa pubblica in cui verrà ufficializzato il sostegno a Cuperlo a fianco dei bersaniani ci saranno diversi esponenti dell’area cattolica. E la discussione è aperta anche in Areadem dove non mancano i maldipancia nei confronti di Franceschini (reo di aver scelto Renzi senza confrontarsi) come è emerso alla riunione di ierisera.
Dunque si stanno formando le squadre. Del resto a meno di sconvolgimenti a Palazzo Chigi e di elezioni anticipate, il congresso ci sarà entro la prima settimana di dicembre. La data verrà annunciata all’assemblea del 20 e 21 settembre. E lì sarà indicato anche il percorso che la commissione per le regole dovrebbe varare entro i primi giorni della prossima settimana. L’eurodeputato Roberto Gualtieri avrebbe trovato una mediazione: prima i congressi degli iscritti nei circoli e nelle federazioni provinciali, poi primarie aperte per i segretari regionali e infine quelle per il segretario nazionale che, probabilmente, potrà essere sostenuto da una sola lista.

l’Unità 12.9.13
Alessandra Moretti
La neo deputata Pd ora fa parte del gruppo dei cosiddetti «non allineati»
«Per schierarci al congresso aspettiamo regole e programmi»
«Vogliamo un partito aperto senza personalismi»
intervista di Rachele Gonnelli


Lei fa parte di un gruppo nel Pd che si chiama dei non allineati. Buffo nome.
«Ci siamo costituiti come gruppo parlamentare e il nome ci è stato attribuito dopo, dai giornali. Avevamo scritto una lettera al segretario Epifani in cui denunciavamo un correntismo spinto nel gruppo parlamentare, spesso autoreferenziale e con poco riferimento al radicamento territoriale. Sulla base di quel documento abbiamo avanzato un’idea di partito aperto, riformista, ancorato in un quadro europeo, con radici valoriali importanti quali equità, lavoro, democrazia interna, giustizia sociale, solidarietà. Abbiamo aperto un ragionamento sul percorso di ricostituzione del partito dopo le vicende delle elezioni e del voto per il Quirinale che metta al centro i progetti, le visioni e un tipo di partito aperto».
Quanti siete?
«Una cinquantina di parlamentari, in gran parte provenienti dall’area bersaniana».
Siete per le primarie aperte?
«Siamo per primarie il più possibile aperte alla società civile con regole che l’assemblea nazionale ha il compito di fissare».
Non temete di esser visti come l’ennesima corrente interna?
«No, stiamo impostando un metodo nuovo di discussione. Non basato sulla fedeltà a un capo ma su un rapporto paritario delle diverse sensibilità che esistono nel partito. Non siamo contro le correnti di pensiero, che sono una cosa sana, pulita e positiva. Siamo per un plu-
ralismo di visione. Se tutto si riduce a una spartizione di posti e poltrone, c’è qualcosa che non va. Mi pare chiaro». Punti in contatto con il progetto di Fabrizio Barca?
«Il documento di Barca è sicuramente interessante perché per la prima volta propone un metodo nuovo e poi perché pone l’accento sul merito e sulle competenze. Noi come deputati siamo un gruppo trasversale che ha come riferimento il riformismo europeo ma che spinge anche per un rinnovamento generazionale dei gruppi dirigenti. E che vuole un partito che sia da riferimento per mondi della società civile, per il mondo sindacale, dei movimenti, delle associazioni che stanno aspettando risposte e una interlocuzione».
In quali tempi deciderete chi sostenere per la corsa alla segreteria?
«In questo momento attendiamo di conoscere le regole che dovranno essere decise dall’assemblea nazionale. Attendiamo anche l’ufficializzazione delle candidature, che ancora non c’è stata. Poi avvieremo un confronto diretto con i candidati sulla base dei programmi. Non vorremmo che il congresso si limitasse a una contrapposizione tra personalismi».
Volete vedere le regole dall’assemblea e i programmi dai candidati. Una posizione un po’ attendista?
«È il candidato che ha il compito di darsi un programma. Da parte nostra contribuiamo a elaborare idee e a condividerle con altri deputati anche che hanno già fatto una scelta, con grande senso di partecipazione e condivisione nella stesura dei programmi sulla base dei convincimenti maturati in questi mesi».
Continua a pensare che un governo Letta-bis sarebbe possibile e forse anche auspicabile?
«Credo che questo governo sia legittimato nella misura in cui dà risposte al Paese per come è nato ed è nato come governo di servizio in un momento di grande difficoltà per l’Italia, un momento in cui Napolitano ha fatto dipendere, come condizione per accettare il sacrificio di un altro settennato, il prevalere del senso di responsabilità delle forze politiche. Se il Pdl dovesse staccare la spina facendo prevalere gli interessi del suo leader su quelli del Paese credo che non sia da escludere un Letta-bis su una piattaforma di tre punti: legge elettorale, legge di stabilità, misure per agganciare la crescita. Se non vengono fatte queste cose non ha senso riandare al voto e gettare il Paese nel caos».
Una maggioranza che vada dai dissidenti 5Stelle a Scilipoti non sembra una miscellanea stile Prodi?
«E questo governo cos’è? Non è una miscellanea? Se è un governo di servizio lo è indipendentemente dalla sua maggioranza. E questa è già una stranissima maggioranza».

il Fatto 12.9.13
Festa dei Giovani Democratici: ci sono tutti tranne Renzi


ANCHE I GIOVANI DEMOCRATICI fanno la loro festa: da oggi a domenica al Circolo degli Artisti di Roma. Grande escluso: Matteo Renzi. Il primo incontro oggi alle 18 è col candidato “di sinistra”, Gianni Cuperlo. L’onore della serata d’apertura tocca al segretario, Guglielmo Epifani. E poi, via con Pippo Civati, Fabrizio Barca e anche Ignazio Marino. Sarà che il segretario è Fausto Raciti, un giovane Turco, ma nella scelta degli incontri l’anti-renzismo salta agli occhi.
Tra l’altro, ieri mattina c’è stato il primo incontro ufficiale tra i bersaniani e Gianni Cuperlo. Alfredo D’Attorre, Stefano Fassina e Maurizio Martina hanno incontrato Cuperlo manifestandogli una condivisione sull'impostazione del suo progetto, ma anche la richiesta di allargare il fronte della sua candidatura e aprirsi a un confronto con tutte le culture del Pd, anche con il mondo cattolico.

l’Unità 12.9.13
La mobilitazione ha vinto
Niente asta per Suvignano
di Silvia Gigli


Il grande pressing sul governo partito dalla Toscana all’indomani della decisione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati di metterla all’asta (era il 21 agosto scorso) e culminato nella grande manifestazione di domenica scorsa, ha avuto l’esito sperato. Ieri il viceministro dell'Interno Filippo Bubbico ha incontrato il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e con lui si è impegnato a modificare nel più breve tempo possibile la norma a cui aveva fatto riferimento l'Agenzia nazionale per i beni confiscati prendendo la decisione di vendere la tenuta, e renderla quindi compatibile con il progetto regionale di valorizzazione. Un progetto elaborato con le associazioni antimafia e gli enti locali che punta alla produzione agricola di qualità unita ad una serie di importanti attività sociali.
«È un bellissimo risultato dice soddisfatto il presidente Rossi alla fine del lungo e proficuo incontro romano che conferma la sostenibilità e il valore sociale del progetto che abbiamo condiviso con gli enti locali interessati e con tante associazioni impegnate sul fronte antimafia. Vendere la tenuta avrebbe voluto dire correre il rischio di farla nuovamente cadere nelle mani sbagliate o esporla a rischio di speculazioni. Adesso ci mettiamo subito al lavoro per concretizzare il nostro sogno».
La storia della tenuta di Suvignano è lunga e tortuosa. Azienda agricola dal potenziale enorme, è da anni in amministrazione giudiziaria, il che rende particolarmente difficile anche la gestione quotidiana. Il banale acquisto di un trattore, per esempio, richiede almeno due anni di attesa. Ciò nonostante, la struttura non ha mai smesso di lavorare e produrre, seppure con strumenti ridotti. Centinaia di ettari coltivati a grano, foraggio, olivi, foreste e poi 1800 pecore, maiali di cinta senese, un agriturismo e molto altro. Il pericolo che questo patrimonio dallo straordinario valore economico e paesaggistico potesse passare in mano a qualche privato aveva sollevato una vera e propria ondata di proteste. Era stato per primo il presidente della Toscana a farsene interprete inviando una lettera al presidente del consiglio Enrico Letta e al ministro dell’Interno Angelino Alfano. Un primo passo seguito dalla decisione della Regione di ricorrere al Tar, infine la manifestazione di domenica scorsa che ha raccolto a Suvignano mille persone tra cittadini, volontari, politici insieme a Libera, Cgil, Coop, Legambiente, Arci, Avviso Pubblico e almeno altre 40 associazioni. In prima fila Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare ucciso dalla mafia che trentuno anni fa firmò la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi. Anche don Luigi Ciotti e Maria Falcone, sorella di Giovanni, avevano voluto partecipare inviando i loro messaggi. «Da questa gente arriva una richiesta alla quale il governo non può non rispondere» aveva detto il sindaco di Monteroni d’Arbia, Jacopo Armini. All’indomani del corteo, infatti, ci sono stati contatti telefonici tra Rossi e Bubbico culminati nella riunione di ieri alla quale hanno partecipato anche il sottosegretario all'Interno Domenico Manzione, il prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, e il direttore generale della Regione Toscana Antonio Davide Barretta. «Il progetto regionale ha tenuto a sottolineare Rossi rispetta le finalità sociali previste dalla normativa, con il proseguimento dell'attività produttiva di un'azienda che occupa 12 dipendenti per un valore delle attività e dei beni di circa 30 milioni di euro. Questo territorio continuerà ad essere produttivo e nello stesso tempo attivo nella battaglia per la legalità».
L'azienda di Suvignano fu sequestrata nel 1996 a Vincenzo Piazza, imprenditore edile appartenente a Cosa Nostra, e confiscata in via definitiva nel 2007. La produzione agricola biologica, insieme alla filiera corta sono al centro del progetto di gestione della tenuta presentato dalla Regione.
Parte della produzione dovrà essere destinata al mercato locale (per esempio nelle mense pubbliche e private), e poi si punterà all'allevamento di bestiame, sulla fattoria didattica, sull'ospitalità rurale, l'uso delle fonti alternative e sostenibili, l'impegno sociale e la diffusione delle cultura della legalità.
Se Suvignano è un simbolo, sia per l’estensione territoriale che ne fa il bene più grande confiscato alla mafia nel centro nord Italia, sia per il legame con il nome di Falcone, in Toscana i beni confiscati alle organizzazioni criminali sono in tutto 57: 32 sono stati consegnati dall'Agenzia ai soggetti che dovranno gestirli (il tempo medio fra la confisca e l'assegnazione è di 5 anni e mezzo), mentre per 19 ancora non è stata definita la destinazione finale e quindi rimangono come patrimonio dello Stato in gestione dell'Agenzia.

Corriere 12.9.13
La Cina riprende la Via della Seta, una zona franca per i nuovi mercati
di Guido Santevecchi


Mentre al G20 gli altri grandi pensavano alla Siria, il presidente cinese Xi Jinping tesseva una nuova rete di contatti politico-commerciali: con l'obiettivo di riaprire la Via della Seta sotto forma di una zona di libero scambio tra Cina e Paesi euroasiatici. Il leader di Pechino è impegnato in un tour di due settimane nei vari Stan dell'ex impero sovietico. Ha fatto tappa in Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, ricchi di minerali, gas e petrolio di cui la Repubblica popolare è il primo consumatore del mondo. E ha lanciato la proposta di costruire «una cintura economica lungo l'antica Via della Seta che aprirà un mercato di tre miliardi di consumatori».
La via originale partiva da Xi'an, la città dell'Esercito di terracotta, e arrivava dopo oltre settemila km alle coste del Mediterraneo. Xi ieri è andato a vedere Samarcanda in Uzbekistan, punto di passaggio mitico per le carovane che portavano merci preziose come seta e porcellana tra Est e Ovest. E ha fatto un discorso poetico (ha detto lui stesso che la visione della città lo faceva sentire poetico): «La mia casa è nella provincia di Xi'an, noi siamo così lontani, ma le nostre anime sono così vicine. È tempo di riprendere a viaggiare». Poi i progetti: «La struttura di cooperazione regionale si può costituire rafforzando le comunicazioni politiche, i collegamenti stradali, facilitando i commerci, la circolazione delle nostre valute». L'interscambio fra Pechino e l'Asia centrale nel 2012 ha raggiunto i 46 miliardi di dollari, 100 volte più che nel 1992, l'anno in cui la Cina ha allacciato relazioni diplomatiche con gli Stati usciti dal disfacimento dell'Unione Sovietica. Gli affari cresceranno ancora e di molto: con il Kazakistan, nella prima metà di quest'anno, sono stati toccati i 13 miliardi e la previsione è di arrivare a 40 nel 2015. Uno dei molti rami della Via della Seta attraversava anche la Siria: ma di questa terra tormentata Xi non ha parlato nel suo discorso. Lascia la pericolosa gestione della crisi ad americani, russi ed europei. A Pechino per ora interessano di più gli affari.

Repubblica 12.9.13
Nel Maghreb cresce la generazione degli autori influenzati dal nuovo clima
“Ma la narrativa non deve essere ostaggio della cronaca o della politica”
Gli scrittori della rivoluzione. Così la Primavera araba diventa letteratura
di Fabio Gambaro


«La rivoluzione degli ultimi due anni ha talmente trasformato le coscienze che non sarà più possibile vivere e scrivere come prima». La scrittrice tunisina Azza Filali riassume così la situazione in cui si trovano molti scrittori del suo paese e, più in generale, di tutto il Maghreb. Un mondo dove soffia un vento di libertà che scuote la società civile e l’universo della cultura, rimettendo in discussione lo status quo e favorendo la nascita di nuove modalità d’espressione, anche se naturalmente non mancano le contraddizioni e i cambiamenti di rotta repentini. Di fronte agli avvenimenti degli ultimi tre anni, molti scrittori s’interrogano sul loro ruolo, domandandosi come rendere conto di quanto sta accadendo senza farsi fagocitare dall’urgenza dell’azione politica e senza rinunciare all’autonomia della letteratura. Alcuni di loro ne discuteranno da oggi al 15 settembre a Bellinzona, in occasione di Babel, il Festival di letteratura e traduzione, quest’anno dedicato alla francofonia africana.
Tra gli invitati, accanto al romanziere Kamel Daoud e all’editore Sofiane Hadjadj, ci sarà proprio Azza Filali, la quale nel suo ultimo romanzo - Ouattan(Elyzad) - ha raccontato il clima corrotto e disorientato del suo paese immediatamente prima del crollo del regime di Ben Ali. La scrittrice rivendica il carattere «impegnato» della sua letteratura, ma facendo attenzione a distinguere la personale partecipazione alla vita politica del paese dall’attività di scrittrice, che invece preferisce prendere le distanze dalle vicende politiche contingenti: «La realtà della Tunisia è sempre presente nella miei libri, sullo sfondo o attraverso personaggi che ne evocano i problemi. Sto però attenta a non restare prigioniera della cronaca, perché la letteratura non ha il compito di restituire la realtà nella sua immediatezza. Al contrario, deve ricostruire il reale a partire dal vissuto emotivo e cognitivo dell’autore. La letteratura ha bisogno di tempi lunghi per lasciare decantare i fatti e permettere alle storie di maturare. Troppo a ridosso degli avvenimenti, la scrittura rischia di snaturarsi».
Non a caso, la romanziera tunisina ha aspettato quasi due anni prima di confrontarsi direttamente con «la primavera dei gelsomini», un’espressione che per altro ricusa, in quanto «tipica di un punto di vista occidentale, poco in sintonia con la drammaticità e la portata degli avvenimenti cui si riferisce». Proprio in questi giorni sta concludendo il suo nuovo romanzo, Faits de peau, la cui vicenda sisvolge nel mezzo della storia più recente: «Quello che m’interessa sono i personaggi, le loro storie. Insomma, la letteratura non deve essere presa in ostaggio dalla politica. Deve essere un percorso di libertà a partire dal proprio vissuto».
Una preoccupazione condivisa da Kamel Daoud, che, dopo una bella raccolta di racconti,La prefazione del negro (Casagrande), sta per pubblicare un nuovo romanzo intitolato Meursault, la contre-enquête (Barzakh), nel quale riprende la storia delloStraniero di Camus, ma raccontandola dal punto vista di un arabo. «Libertà è anche dissacrare un testo sacro», spiega lo scrittore e giornalista, per il quale i cambiamenti intervenuti nel mondo arabo, pur tra mille contraddizioni e difficoltà, hanno aperto nuove prospettive per tutto il Maghreb, anche sul piano culturale: «Prima soffocavamo, pensando che nulla sarebbe mai cambiato. Oggi sappiamo che il cambiamento è già qui, e nulla sarà più come prima. Abbiamo riscoperto il senso della parola libertà e ci sono migliaia di storie da raccontare». Una prospettiva che nelle sue opere si traduce in una scrittura dominata dall’ironia e dall’assurdo, nella convinzione che, per appropriarsi del reale, la letteratura debba preferire le vie traverse: «Di fronte ai problemi della società, e innanzitutto di fronte all’aggressività degli islamisti, ridere è il solo modo di salvarsi. Ricorrere all’assurdo non è un esercizio di pigrizia intellettuale ma un vero e proprio diritto».
Secondo Daoud, proprio questo atteggiamento battagliero nei confronti dell’intolleranza religiosa è uno degli elementi di novità della nuova letteratura maghrebina, che così si differenzia da quegli autori – ad esempio Kateb Yacine, Mohammed Dib, Rachid Boudjedra o Rachid Mimouni - che in passato si sono confrontati con la realtà coloniale e postcoloniale. Autori rispettati, certo, ma che oggi sembrano molto lontani dalle problematiche care ai lettori. Lo conferma Sofiane Hadjadj, che tredici anni fa ha fondato ad Algeri la casa editrice Barzakh: «Rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, oggi gli autori sono più sensibili a una problematica individiduale. Si chiedono come parlare della singolarità dell’individuo in una società da sempre dominata da una dimensione collettiva. Più che la politica, vogliono affrontare i problemi della quotidianità e in particolare la sessualità, che resta il problema fondamentale per molti».
In ogni caso però, anche per l’editore algerino, «la primavera araba non ha ancora prodotto una vera e propria primavera letteraria». Certo, gli scrittori si sentono più liberi, soprattutto le scrittrici, anche se per alcune tematiche (sessualità, esercito, religione) è ancora molto diffusa una sorta di autocensura. Anche per questo, sono ancora pochi gli autori che affrontano direttamente gli avvenimenti politici degli ultimi anni. Lo ha fatto ad esempio Tahar Ben Jelloun in un breve romanzo intitolatoFuoco(Bompiani), in cui ha rievocato la vicenda di Mohamed Bouazizi, il giovane che, immolandosi nel dicembre 2010, ha innescato la miccia della rivoluzione tunisina. Una stagione presente in maniera molto personale anche nelle opere del poeta tunisino Thar Bekri o del romanziere algerino Samir Toumi.
Il clima incandescente delle rivoluzioni arabe ha però potuto esprimersi nel cinema, nella musica e soprattutto nelle nuove forme di comunicazione, come testimonia il seguitissimo blog di Leena Ben Mennhi, in seguito diventato un piccolo libro, Tunisian Girl. La rivoluzione vista da un blog (Alegre). La giovane autrice è per altro presente anche nell’antologia
Nouvelles de Tunisie (Magellan et Cie/Elyzad), in cui, insieme a Imam Bassalah, Yamen Manai, Habib Selmi e Monique Zletaoui, ha provato a raccontare il nuovo volto del suo paese nato dalla rivolta popolare. Insomma, «il contesto della primavera arabo aiuta la letteratura a osare di più e ad essere più originale», conclude Hadjadj, che aggiunge: «Occorre però essere pazienti, senza cadere nella tentazione di scrivere per il pubblico europeo. La rivolta letteraria degli scrittori del Maghreb deve rivolgersi innanzitutto al pubblico dei nostri paesi».

Repubblica 12.9.13
In un inedito del 1863, il filosofo tedesco ragiona sul sentimento negativo che definisce “errore di conoscenza” e “logorio dell’anima”
Se volete la felicità dovete evitare di essere invidiosi
di Friedrich Nietzsche


Com’è possibile farsi un’idea della vita e del carattere di una persona che abbiamo conosciuto? In generale in modo simile a come ci si fa un’idea di un paesaggio che abbiamo visitato, del quale è necessario riportare alla mente le peculiarità fisionomiche: i monti, la flora e la fauna, l’azzurro del cielo… È tutto questo, nel suo insieme, a determinare l’impressione che se ne trae. Ma, in sé, non è ciò che vediamo all’inizio – le masse delle montagne, la forma delle rocce e i tipi di pietre – a conferire al paesaggio il suo carattere fisionomico. Anche in regioni diverse tra loro vengono fuori, secondo leggi simili, le medesime formazioni della natura inorganica, come, per esempio, gli stessi tipi di montagne, separate o raccolte in gruppi. Diversamente accade per le formazioni organiche. In particolare, nelle piante sono presenti i caratteri più diversi che si offrono a un’osservazione comparativa della natura.
Qualcosa di simile emerge quando vogliamo osservare e valutare adeguatamente la vita di un uomo. In questo caso non ci dobbiamo far guidare dagli eventi casuali, dai doni della sorte, dai mutevoli destini esteriori che sorgono dalle circostanze esterne che si incrociano tra loro, quand’anche ci saltino subito all’occhio come cime di montagne. Il carattere individuale è invece rivelato nel modo più chiaro proprio da quei piccoli eventi e da quei processi interiori che crediamo di dover ignorare: essi si sviluppano come organismi dalla natura dell’uomo, anche se sembrano esserle legati al modo degli elementi inorganici. È dunque un errore della conoscenza che si ha della propria interiorità desiderare di trovarsi nelle condizioni esteriori altrui, nella convinzione che su questo nuovo terreno saremmo più felici: a questo desiderio è connessa l’invidia per la felicità degli altri. L’invidia vorrebbe allontanare coloro che sono felici dalla propria condizione, e a tal fine cerca ragioni con perfida sofisticheria. Essa, quindi, è un errore della natura cognitiva e di quella morale. È un errore della natura cognitiva. È segno di una natura forte riconoscere nelle cose una ininterrotta catena di cause ed effetti non pensando semplicemente che seminare basti a produrre frumento, ma estendendo le medesime leggi anche alla vita umana e alla storia dei popoli. Ma l’invidioso, come, in generale, ogni uomo egoista e miope, vedendo emergere le cime dei monti dalle nuvole crede che esse fluttuino, isolate, nell’aria, mentre un osservatore più acuto intuisce che esse sono legate a qualcosa, seppure in modo nascosto, e comprende che sono i punti più elevati di una catena montuosa. Agli invidiosi la felicità e l’onore appaiono sotto l’involucro esteriore della ricchezza e dello splendore, dell’acclamazione pubblica e delle lodi dei giornali. Attraverso queste circostanze casuali, che accompagnano una felicità e una fama spesso solo apparenti e raramente reali, essi non riescono a vedere il cuore delle cose. E qual è questo cuore? Cos’è la felicità? Cos’è l’onore? Come ogni bellezza deve essere organica, come ogni aggiunta ornamentale è soltanto una mostruosità, così anche la felicità e l’onore devono sorgere dallo stesso tronco che poi adorneranno; ci vuole la forza dell’albero fresco e giovane perché i fiori sboccino, ed essi cadono subito quando la linfa che li ha prodotti si esaurisce. Ammettiamo che il destino regali a un invidioso quello che egli guardava con occhi avidi: esso gli si avvinghierebbe come una escrescenza inorganica, gli succhierebbe le forze, ne logorerebbe la volontà, lo ingannerebbe con nuove, splendide illusioni, verso le quali si volge, bramosa, la sua anima. [...] L’invidia è anche un errore della natura morale. È una malattia che corrode costantemente l’anima; non come alcune fragilità che lasciano intatto il cuore buono e sembrano solo danni esteriori, conseguenze di malanni fisici o di irritazioni intellettuali. L’invidia non è associabile all’amore, e senza amore non vi è un buon carattere. Anzi, l’invidia è sotto molti aspetti opposta all’amore, ancor più dell’odio. L’invidia lavora con la rabbia e con il risentimento, l’amore con una lieta calma; i frutti degli sforzi dell’invidia hanno sempre qualcosa di bieco e spiacevole. Lo sguardo dell’invidioso, che deforma tutto e tutto comprende in modo distorto, ritrova anche nei propri successi i segni di questa insoddisfazione. Esiste una patologia per cui dei bambini tendono ad appagare il loro appetito ricorrendo ad alimenti non commestibili; allo stesso modo l’invidioso pretende continuamente cose che sembrano dargli soddisfazione, ma che, in fondo, accendono sempre più la sua arsura interiore. Questo logorio dell’anima si ripercuote anche sul corpo: gli antichi hanno rappresentato l’invidia come un essere metà uomo metà donna, che procede in avanti con uno sguardo vuoto e torvo, con un velenoso sorriso negli occhi, in modo indolente e con lentezza, molto magra e pallida; insonne e senza pace, sospirando in continuazione dal profondo, nemica della compagnia, è accompagnata da cani serpentiformi (sic!)che la femmina consuma come alimenta suorum vitiorum, come dice Ovidio. [...] Ma può forse un uomo portare in sé una felicità che illumini ogni piega del suo cuore con un sole interiore e ne riscaldi la freddezza, che rassereni ogni tristezza ma che al contempo si accompagni con un odio radicato verso le altre persone, un’ostilità invidiosa contro tutto ciò che è alto e sublime, un’amarezza avversa a tutte le altre felicità e gli altri onori? Possono nascere dalla medesima radice la rosa che si apre al sole e la malinconica amica della notte, la viola notturna? La felicità, quella aperta e ridente, alla cui luce gli occhi degli sconosciuti si accendono e i volti ostili divengono cortesi, non è compatibile con l’invidia, dal cui sguardo spettrale e dalla cui timida andatura rifugge tutto ciò che è umano.
Secondo un’antica credenza popolare un’anziana donna invidiosa si sarebbe recata su di un’altura di fronte al proprio villaggio e avrebbe scatenato su di esso una tempesta con la violenza del suo sguardo crudele. Nella sua stessa casa e nel suo stesso cortile, uomini e animali sarebbero divenuti preda delle fiamme, mentre la criminale sarebbe stata portata all’inferno dalla nuvola di fumo alzatasi sul villaggio. In questa leggenda, il popolo esprime a modo suo il giudizio sul nefasto peccato dell’invidioso, tratteggiando, d’altra parte, il terribile potere che abita all’interno della sua cattiva volontà. Proprio in questa storia si mostra il ben radicato odio del popolo nei confronti dell’invidia; nelle sue leggende e fiabe, essa non viene trattata scherzosamente e con derisione, come accade con altri vizi, ma con profondo disprezzo e sdegno morale.
© 2013 Lit Edizioni Srl. Tutti i diritti riservati. Per gentile concessione di Elliot Edizioni (Traduzione di Alessandra Campo)
IL LIBRO Può un invidioso essere felice? a cura di Alessandra Campo (Elliot, pagg. 64 euro 8), in uscita il 17 settembre raccoglie quattro inediti in Italia di Nietzsche

Repubblica 12.9.13
Sabotaggio. Quando la protesta diventa violenza
Sono lotte che testimoniano debolezza invece che forza sconfitta, addirittura impossibilità di esistere del movimento collettivo
Una tragica distorsione che si verificò negli anni Settanta
La negazione della differenza tra una democrazia e uno stato totalitario
di Guido Crainz


Le polemiche recenti sulle azioni contro la Tav in Val di Susa riaprono la questione del confine tra diritto al dissenso e forme illegali di opposizione

Forse, davanti alle polemiche di questi giorni sulle proteste contro la Tav, occorre superare il fastidio per il riemergere di retoriche e stilemi che credevamo sepolti con gli anni Settanta. Forse occorre ritornare ancora su discrimini fondanti: su ciò che divide la battaglia quotidiana per consolidare i diritti e la democrazia dalle derive che possono indebolirla o insidiarla. A un primo sguardo è certo facile tracciare il confine fra le forme illegali e violente di lotta e quelle pacifiche e lecite: anche quelle più “estreme”, come gli scioperi della fame portati quasi oltre il limite o quelle forme di dissenso in climi ostili che espongono a ritorsioni – esse sì – violente (come avvenne nelle lotte per i diritti civili nel sud degli Stati Uniti e in molti altri casi). Sarebbe salutare, anche, che fossero molto più diffuse le ricerche sulle potenzialità di forme non violente di lotta anche di fronte a dittature feroci: ha iniziato a farlo molti anni fa Jacques Sémelin per l’Europa occupata dalla Germania nazista (Senz’armi di fronte a Hitler),da noi lo ha fatto anche di recente Anna Bravo muovendosi fra Italia e Tibet, India e Kossovo (La conta dei salvati): e sottolineando la forza dissacratrice dell’ironia, la sua capacità di accendere la potenzialità realmente eversive della fantasia, non dei roghi.
Con altrettanta evidenza, inoltre, la parola sabotaggio evoca sconfitta, debolezza o addirittura impossibilità di esistere del movimento collettivo. Così fu nelle campagne italiane di fine Ottocento ai primi albori del nostro movimento sindacale (che spesso ha nelle campagne appunto la sua origine): erano segnale di debolezza o di impotenza gli incendi dei fienili o il danneggiamento notturno dei raccolti. E lo fu anche il loro isolato riemergere, sconfessato dalle organizzazioni sindacali, all’indomani delle sconfitte del secondo dopoguerra, nel clima della guerra fredda. Per molti versi inoltre il passaggio a forme violente è la negazione, non la prosecuzione della mobilitazione e della presa di coscienza. Agli inizi degli anni settanta, ad esempio, la autoriduzione collettiva del pagamento delle bollette di luce, gas o telefoni fu ampiamente organizzata da comitati di quartieri, organizzazioni sindacali, gruppi di base: alla fine del decennio la possibilità stessa di riprendere quelle forme di lotta fu stroncata dalla pratica di autoriduzione violenta, spinta sino all’esproprio, praticata dai gruppi dell’ “autonomia operaia” (gli stessi che stritolarono le potenzialità dell’ala creativa del movimento del ’77). Altre osservazioni possono riguardare poi il rozzo pedagogismo giacobino dell’“atto esemplare”: vi è al fondo la sottovalutazione se non il dispregio della capacità di azione autonoma dei cittadini e – sotto altre spoglie – il vecchio mito della avanguardia A ciò si aggiunse negli anni settanta un altra tragica distorsione. Com’è del tutto ovvio il problema delle forme di lotta si pone in forme radicalmente diverse nelle democrazie o nei regimi totalitari (per non parlare, di nuovo, dell’Europa occupata della seconda guerra mondiale, quando la lotta armata fu integrata dalle forme più diverse di sabotaggio: un modo per estendere, non per restringere la partecipazione alla Resistenza). Il dramma degli anni di piombo iniziò proprio dalla negazione, tendenziale o drastica che fosse, di questa distinzione: in Germania come in Italia nell’ideologia e nella propaganda delle nascenti organizzazioni terroristiche fu centrale l’idea di vivere ormai in uno stato autoritario, se non totalitario, o avviato ad esserlo (intrecciata, naturalmente, al mito della rivoluzione). Da questa convinzione inizia il percorso che porta Giangiacomo Feltrinelli sino al traliccio di Segrate, e anche di questo parla un documento delle future Brigate rosse redatto all’indomani della strage di piazza Fontana.
A ciò si intrecciarono vie in qualche modo “intermedie”: all’inizio del decennio, nel clima della strategia della tensione e in presenza di una gestione rigida (e talora irresponsabile) dell’ordine pubblico, divieti ingiustificati alle manifestazioni favorirono chi tendeva ad “innalzare il livello dello scontro” trasformando i cortei in atti di guerra. Di qui una crescente “militarizzazione” dei servizi d’ordine di taluni gruppi extraparlamentari: e da qui verranno alla fine del decennio, nel declinare delle speranze di trasformazione, non pochi disperati e giovani flussi verso le organizzazioni terroristiche.
È sufficiente evocare quel clima per capire quanto ne siamo abissalmente lontani ma in questa nostra tragedia è iscritto anche l’antidoto più forte, solidamente basato su due cardini. In primo luogo la capacità di alimentare speranza, di contrapporre alle possibili derive la forza e la fiducia nel futuro delle pacifiche mobilitazioni collettive. E al tempo stesso il rispetto intransigente della democrazia, la fermezza nel denunciare ogni abuso anche minimo che possa incrinare la fiducia nello Stato democratico: quel che è successo nel 2001 al G8 di Genova nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto è stato molto più devastante di mille proclami eversivi. Per il resto, a leggere alcune dichiarazioni incendiarie dei giorni scorsi – talora non prive dei toni dannunziani de Il dominio e il sabotaggio di Toni Negri (1978) – vengono solo in mente alcuni versi ironici di Jacques Prévert: «Non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi...».

Repubblica 12.9.13
Dal luddismo dell’800 alle rivolte contemporanee
Quegli operai contro le macchine
di Massimo L. Salvadori


Durante la rivoluzione industriale il progresso tecnico gettava i lavoratori nella più nera disperazione, perché i processi produttivi avevano sempre meno bisogno di mano d’opera

Si racconta che nel 1779 Ned Ludd, abitante di un borgo della contea di Leicester, in Inghilterra, avesse distrutto un telaio meccanico, identificato come simbolo dei nuovi e perversi strumenti tecnici che, rendendo obsolete antiche forme di organizzazione del lavoro, aumentavano la produttività causando disoccupazione e aumentando la già tanto diffusa miseria. Non si sa se Ludd sia veramente esistito, ma in ogni caso, personaggio inventato o meno che fosse, egli diventò il mitico eroe di coloro che da lui presero il nome di “luddisti”. Il luddismo fu un movimento eversivo di lunga durata con diramazioni internazionali. Partito dall’Inghilterra e dalla Scozia tra la fine Settecento e gli inizi dell’Ottocento, negli anni seguenti si diffuse in Francia, in Germania e in Svizzera. La vera e propria esplosione del luddismo si ebbe in Gran Bretagna tra il 1811 e il 1816, con il convergere della protesta di artigiani e operai gettati nella più nera disperazione dalla marcia della rivoluzione industriale che creava macchine via via più progredite e meno bisognose di mano d’opera con una repressioneche assunse tratti implacabili. Le tappe decisive della lotta luddista furono le rivolte partite da Nottingham nel 1811 e nel 1816, cui risposero la mobilitazione di migliaia di soldati, i processi e le esecuzioni. Nel 1812 venne introdotta la pena di morte per i capi degli agitatori. A nulla valse l’esortazione alla pietà levata in quello stesso anno con toni solenni e commossi alla Camera dei Lord da Byron, il quale invitò a comprendere le cause della protesta di troppi uomini «magri per la fame, scavati dalla disperazione». Occhi e orecchi dei destinatari rimasero ciechi e sordi. La loro logica era la restaurazione dell’ordine con tutti i mezzi e la risposta furono la prigione, la deportazione e le forche. Nel gennaio 1813 vennero emesse 17 condanne a morte. Ciò nonostante, nel 1816 – mentre era in atto una congiuntura che stava pesantemente colpendo la Gran Bretagna – avendo nuovamente il suo centro a Nottingham ebbe luogo l’estrema vampata della rivolta luddista. A Manchester i soldati aprirono il fuoco compiendo la “strage di Peterloo”, nella quale venne ferito e ucciso un gran numero di agitatori. L’impiccagione in novembre del loro leader James Towler fu l’atto simbolico del tramonto e della sconfitta finale del movimento luddista.
La grande rivolta – testimonianza della disperata protesta umanamente eroica levata dalle tante vittime di un inarrestabile progresso tecnologico figlio del capitalismo moderno e prono alla suprema legge del profitto – ebbe così fine. Essa non aveva e non poteva avere alcun avvenire, poiché la sua aspirazione era la difesa di forme di produzione destinate ad essere inesorabilmente travolte. E del carattere storicamente indifendibile del loro sogno di ritorno ad un passato arcaico finirono per prendere infine coscienza vari ribelli luddisti, che, volte alle spalle alle forme condannate alla sconfitta della loro protesta, entrarono nelle file di un nuovo mondo della resistenza alla miseria, che permaneva estrema, generata dal capitalismo delle macchine e dei modi di organizzazione del lavoro che ne conseguivano. Era il mondo, ancora contraddistinto da incerti e assai difficili inizi, dell’associazionismo sindacale e politico che avrebbe avuto le sue espressioni nelle Trade Unions e da ultimo nella creazione del Partito laburista, trovando una sponda simpatetica nell’intellettualità e nella borghesia britannica liberali di orientamento progressista – di cui tipico e illustre esponente fu il grande economista e riformatore politico John Stuart Mill – le quali, con una sensibilità sociale e politica più sofisticata e moderna, rilanciarono alle classi dirigenti britanniche l’esortazione inascoltata levata alla Camera dei Lord da Byron.
Il luddismo che potremmo definire storico ha lasciato molteplici eredità nella società contemporanea, che ha visto sorgere e propagarsi vari movimenti neoluddisti. È comparso – per fare ricorso a etichette molto generiche ma atte a stabilire una pur sommaria distinzione – un neoluddismo di sinistra e un neoluddismo di destra. Il primo, che ha venature anarchiche e ecologiste, rivolge la sua polemica e le sue azioni dimostrative contro l’attacco portato dai potentati economici ad attività lavorative considerate ancora vitali e soffocate da una distorta modernità; il secondo è improntato alla difesa di tradizioni e costumi che sempre questa stessa distorta modernità minaccia colpevolmente di estinzione. Il comune legame è l’opposizione, con la ripresa di metodi anche violenti, a interessi dominanti accusati di mettere in grave pericolo interessi e valori ritenuti superiori.

Corriere 12.9.13
Le guerre sono ancora inevitabili?
Goodbye Lenin, comanda il Profitto
di Luciano Canfora


In che misura è ancora valida la tesi rigorosamente leninista dell'inevitabilità delle guerre? Per quanto profonda, tale intuizione — che trova ancora oggi seguaci nei più diversi ambienti culturali —, appare datata e non utilizzabile sic et simpliciter. Non intendiamo soltanto riferirci alle modifiche che tale fortunata teoria subì nel tempo: dalla «revisionistica» proposta staliniana dei tardi anni Quaranta, secondo cui è più probabile una guerra tra Paesi capitalistici che non una guerra mondiale tra i rappresentanti di opposti sistemi sociali, alla radicale innovazione kruscioviana (XX Congresso del Pcus) della non-inevitabilità delle guerre, che fu peraltro alla base della lunga vicenda della «coesistenza pacifica».
In certo senso — come ebbe ad osservare, alla metà degli anni Novanta, Demetrio Volcic — il pericolo di guerre s'è acuito con la fine, in rapida sequenza, del cosiddetto «socialismo reale». E infatti le guerre sono tornate d'attualità appunto nel ventennio successivo alla fine dell'Urss. Oggi però riproporre, come da taluno si fa, la tesi leninista dell'inevitabilità della guerra, anzi, delle guerre, sembra alquanto arcaico e segnato da ideologie paleo-realistiche (da Lenin a Carl Schmitt). La ormai non breve esperienza del ventennio «post-guerra fredda» ha insegnato molto: financo le grandi autorità «spirituali» vanno al cuore del problema. E ormai le motivazioni di parata (l'uso di armi chimiche, le armi di distruzione di Saddam etc.) — il cui archetipo retorico resta pur sempre la solidarietà mussoliniana per i «fratelli ciamurioti» — hanno mostrato definitivamente la loro intrinseca falsità. Altrimenti non si vede perché nessuno intervenga in Darfur. Come nella celebre novella di Hans Christian Andersen, è toccato ad un metaforico bambino di segnalare che «il re non ha niente indosso!»: che le guerre si provocano, si incrementano e si «giustificano» nell'interesse — evidentemente irresistibile — delle multinazionali delle armi.
Non ha dunque più senso tener dietro, per confutarle o per difenderle, alle costruzioni retoriche addotte per giustificare questa o quella guerra. Le diagnosi di tipo leninista-schmittiano appartengono oramai alla storia antica. Le guerre che punteggiano il nostro presente hanno tutte una robusta motivazione molto «materialistica»: alimentare il colossale profitto dei fabbricanti e venditori di armi annidati nel cuore del potere dei Paesi più ricchi e «per bene» è coessenziale ad essi. Siamo entrati dunque in una fase della storia in cui la retorica del bellum iustum ha finalmente rivelato la sua impudicizia, e si può «giocare a carte scoperte».

Corriere 12.9.13
L'umiliazione altrui che ci rende felici
di Anna Meldolesi


Benvenuti nell'era della Schadenfreude. Alla lingua tedesca basta una parola sola, noi lo chiamiamo «piacere per le sventure altrui». Questo brutto ma naturale sentimento, che è il compagno cattivo dell'invidia, fa capolino sempre più spesso quando accendiamo la tv. Il potente che cade in disgrazia, i divi che divorziano, i concorrenti che si rendono ridicoli nei reality show funzionano come il doping per l'autostima che traballa sotto il peso dei problemi quotidiani. Lo sostiene un libro scritto dallo psicologo sociale Richard Smith per la Oxford University Press, ma per convincersene basta dare un'occhiata alle copertine delle riviste e al palinsesto televisivo. Non sappiamo ancora se andrà in onda «The Mission», il contestatissimo programma che dovrebbe riprendere una manciata di vip (da Paola Barale ad Albano) alle prese con la drammatica realtà dei campi profughi. Migliaia di firme contrarie e lo sdegno della presidente della Camera, Laura Boldrini, potrebbero indurre la Rai a rivedere il format. Ma sul piccolo schermo debutterà la versione italiana di «Hell's Kitchen»: in America a maltrattare i concorrenti-chef ci pensava un cattivissimo Gordon Ramsay, su Sky dovrà farlo un (forse) meno spietato Carlo Cracco. Difficilmente i provini di «X Factor» ci risparmieranno qualche figuraccia coi fiocchi di aspiranti star senza alcun talento e di sicuro sentiremo ancora Flavio Briatore intimare «Sei fuori». Anche i format il cui filo conduttore è il successo dei migliori, in realtà sanno solleticare la parte peggiore di chi guarda. È quella vocina che bisbiglia: «Se l'è cercato. Ha avuto quel che meritava». È così che altri perdenti riceveranno il «meritato» tapiro e schiere di malfattori saranno smascherati davanti ai nostri occhi dagli inviati di trasmissioni come «Le Iene». Sono i predatori che diventano prede, i cattivi che vengono umiliati, gli ipocriti sorpresi a razzolare male dopo aver predicato bene, quelli che procurano maggiore piacere. La Schadenfreude infatti può liberarsi dai sensi di colpa. Proprio quest'estate è finito ai domiciliari un pedofilo dopo un servizio in cui l'inviato si era finto padre di una giovane vittima, per riprendere di nascosto l'abusatore. Ma forse il fondo non l'abbiamo ancora toccato, se è vero che negli Stati Uniti è andato in onda per anni un reality in cui veniva adescato e poi svergognato un pedofilo. Si chiamava «To catch a predator» e ha chiuso per troppo successo: nessuno ormai ci cascava più.
È vero che i romani hanno inventato i gladiatori e la gogna non l'hanno ideata degli esperti di audience. Probabilmente ben prima che esistesse «Paperissima», duecentomila anni fa i primi uomini ridevano quando qualcuno inciampava nella savana. Ma adesso a caricare la molla sono i mass media e rispetto a vent'anni fa, quando c'era «La corrida» di Corrado, il genere è diventato più cattivo, forse sono caduti i tabù. Due studiosi dei media, Brad Waite e Sarah Booker, hanno coniato il termine humilitainment, fondendo le parole intrattenimento e umiliazione. Perché funziona? Un gruppo giapponese ha suscitato la Schadenfreude di alcuni volontari e poi ne ha monitorato il cervello. Ad attivarsi è lo striato, uno dei centri del piacere. La neuroscienziata Susan Fiske sostiene che l'invidia attivi un'area legata alle emozioni (l'amigdala) e una che serve a fare i confronti (la corteccia cingolata anteriore). Un tempo ci paragonavamo con i nostri vicini di casa, ma oggi il senso d'inferiorità non conosce confini. In un momento storico in cui tanti sentono di perdere terreno per colpa della crisi e di non meritarselo, siamo tutti più vulnerabili. La giustizia diventa facilmente vendetta, e vedere quanto poco valga un altro può rassicurarci su quel che valiamo noi.
È la legge del contrasto di cui parlava Kant. Un sentimento ancestrale, profondamente umano, universale. Non sentiamoci troppo in colpa, se qualche volta dovesse capitare anche a noi. Ma ricordiamoci di coltivare il suo opposto, l'empatia. Anche quella è naturale e a Gandhi faceva dire: «È sempre stato un mistero per me come gli uomini possano sentirsi onorati dall'umiliazione degli altri».

l’Unità 12.9.13
Due donne a confronto
Affinità e divergenze tra Karenina ed Emma Bovary
Lo sguardo differente degli autori rispetto alle loro eroine tragiche: da una parte la solidarietà espressa da Flaubert, dall’altra il distacco e quasi la condanna di Tolstoj
di Renato Barilli


TRA I CAPOLAVORI DELLA NARRATIVA DELL’OTTOCENTO SPICCANO DUE ROMANZI DEDICATI AD ALTRETTANTI SUICIDI compiuti da donne ree di aver infranto la fedeltà coniugale, uscendo allo scoperto in quella loro condotta giudicata inaccettabile, e quindi costrette a trarne le conseguenze fino a darsi una fine tragica. Sono le notissime Madame Bovary di Gustave Flaubert, del 1857, e Anna Karenina di Leone Tolstoj, uscita circa un ventennio dopo, quasi rispettando la distanza cronologica all’atto della nascita dei due romanzieri (1821 e 1828).
Sono documenti tragici della misera sorte che allora colpiva la condizione femminile, con netto discrimine rispetto a quella del sesso forte. I mariti potevano tradire il menage coniugale, anzi, di regola lo facevano, ma bastava che salvassero le forme e subito veniva-
no perdonati, le mogli dovevano tacere e sopportare, mentre per loro non c’era pietà, se almeno il peccato usciva allo scoperto. Al giorno d’oggi si sono fatti passi da gigante, verso un equilibrio delle rispettive sorti, ma senza dubbio molta strada è ancora da compiere.
Esaminando i due romanzi in questione, forse non si è notato a fondo che l’atteggiamento dei rispettivi autori fu assai diverso. Pieno di rispetto e di solidarietà, verso la sua eroina sciagurata, da parte di Flaubert, fino a pronunciare la frase famosa di quasi-identificazione, «Madame Bovary c’est moi»,, e invece improntato a riserbo, a distanza e a una condanna finale verso la Karenina, da parte di Tolstoj.
COME L’ALBATRO DI BAUDELAIRE
Il rapporto di segreta complicità, nel caso dell’autore francese, veniva dalla posizione globale da lui assunta verso la società del suo tempo, improntata a un cupo e implacabile realismo, che vedeva ovunque il predominio degli interessi, della lotta per il potere, per la conquista dei beni, soprattutto materiali. I protagonisti flaubertiani sono tutti in rivolta contro questo sistema dominante, ma sanno bene che al momento la loro partita è disperata, e dunque si limitano a reagire, per così dire, di contropiede, sapendo di essere sconfitti già in partenza. Questa è la situazione di Madame Bovary, coi suoi sogni di una vita diversa, se si vuole improntati a un romanticismo da strapazzo, oggi lo si direbbe alimentato dalla stampa rosa, ma in ogni caso è una rivolta istintiva contro la mediocrità di chi la circonda, un marito meschino, pago dei piaceri della carne e del cibo che lei gli prodiga, avendo attorno solo dei cinici profittatori della sua ansia di vivere, di soddisfare i suoi bisogni erotici, salvo poi a ritrarsi e a lasciarla nelle peste. Tra tutti, spicca lo pseudo-farmacista Homais, pronto a sparlare di chiunque, mettendosi sempre dalla parte di chi ha successo. In questo mondo di vili, di corrotti, di persone che volano basso Emma si dibatte, simile all’albatro di cui stava per parlare il grande Baudelaire. Essa vorrebbe librarsi nell’alto dei cieli, libera di amare, di vedere in grande, ma è costretta invece ad annaspare sulla tolda di una misera imbarcazione quotidiana, tanto che alla fine non le resta che darsi la morte, e nel modo più orrido, proprio per denunciare l’enorme divario tra il suo impeto libertario e invece la cappa pesante dei fatti.
Nessuno la compiange, se non proprio l’autore. E se l’uscita del romanzo fu accompagnata da un pubblico processo, forse lo si dovette non tanto alla cruda esposizione del tradimento coniugale nei suoi dettagli, ma perché la pubblica opinione annusava quel tanto di insopportabile complicità che legava il narratore alla sua creatura.
Diverse sono le circostanze in cui si pone il dramma e il suicidio dell’eroina russa, Anna Karenina. Non che Tolstoj neghi una commossa partecipazione alla morte cui la nobildonna si vede costretta, e le riconosce anche tante circostanze attenuanti. Senza dubbio è stata mal maritata, a un essere cinico quale l’alto funzionario Karenin, freddo come un automa, interessato solo alla sua carriera e alla posizione che detiene nella società pietroburghese. Si potrebbe dire, in sostanza, che il caso della Karenina non risulti molto diverso dalla sua compagna di pena e di martirio, la Bovary. Ma il guaio è che attorno a lei non imperversa solo un mondo di persone di segno contrario, tuffate nei calcoli più meschini, e prigioniere entro un congelato codice di onore.
IL GIUDIZIO
Qui sta il punto, in realtà il narratore russo circonda il caso della fedifraga con una serie di esempi nobili, di donne che portano pazienza e sanno tollerare i tradimenti dei loro maschi, a cominciare dalla cognata detta Dolly, offesa dalle infedeltà cui la sottopone il marito Stepen Oblonskij, che sarebbe poi il fratello della Karenina. La trama ci dice che Anna viene chiamata proprio al capezzale della coppia sofferente per portare rimedio, ma ahimé, alla stazione di Mosca avviene il colpo di fulmine col bellissimo principe Alekseij Vronskij, da cui parte la relazione fatale che condurrà la misera Anna a fuggire dal tetto coniugale, e a trascinare da quel momento una vita in esilio, condannata dai circoli aristocratici che fin lì l’avevano considerata come una sacra icona.
L’autore, certo, si inchina al cospetto di questo dramma, ne compiange l’esito finale, quando Anna si butta sotto un treno. Ma pesa, sullo sfondo, la condotta in definitiva più accettabile, secondo i canoni del tempo, accettati dallo scrittore, della brava cognata che perdona il marito trasgressore e tira avanti. E c’è pure il caso altrettanto positivo di un bravo coltivatore diretto, diremmo oggi, tale Sergeij Levin, che attende paziente nell’ombra finché una giovane, anche lei inizialmente ribelle, Kitty, non si sia scapricciata abbastanza in relazioni fugaci, riportandola poi all’ovile di un saggio e giusto matrimonio.
Questi sono gli esempi positivi che tacitamente l’autore contrappone alla colpa della Karenina, schierandosi dalla loro parte, senza accedere a una dichiarazione di correità, di partecipazione ai torti che la sua protagonista ha inflitto contro certi valori sociali in cui al momento egli crede fermamente.

l’Unità 12.9.13
Il neutrino e il «cucciolo»
Lui riusciva a «vedere» il mondo delle particelle subatomiche. Un po’ come Gillo «vedeva» la realtà
Il centenario della nascita del fisico serve a fare il punto sulle sue scelte coraggiose e controcorrente ma anche sull’intelligenza straordinaria di uno dei «ragazzi di via Panisperna» che cambiò la scienza in Italia
Un convegno aperto da Napolitano e un film per Bruno Pontecorvo
di Pietro Greco


ALLA PRESENZA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, GIORGIO NAPOLITANO, E CON UNA PROLUSIONE DI CARLO BERNARDINI SI È APERTO IERI A ROMA il convegno internazionale «L'eredità di Bruno Pontecorvo: l'uomo e lo scienziato». Il convegno è organizzato dall’Istituto Nazione di Fisica Nucleare. L’occasione è data dal centenario della nascita, avvenuta il 22 agosto 1913 a Marina di Pisa, del «cucciolo» che insieme agli altri «ragazzi di via Panisperna» negli anni tra il 1934 e il 1938 fecero di Roma la capitale mondiale della nuova fisica nucleare; del ricercatore che ha contribuito di più ogni altro a conoscere, sia per via teorica che sperimentale, la fisica del neutrino; dell’uomo che, nel 1950, fuggì a est e riparò in Unione Sovietica. La figura di Bruno Pontecorvo è quella di un grande scienziato (uno dei più grandi scienziati italiani di ogni tempo) e di uomo che ha attraversato per intero «secolo breve», il Novecento e tutte le sue contraddizioni.
UN PERSONAGGIO DEGNO DI UN ROMANZO
E infatti la figura dello scienziato e dell’uomo è raccontata nel film realizzato da Giuseppe Mussardo, fisico teorico della Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati di Trieste, che è stato presentato in anteprima italiana col titolo Maksimovic. La storia di Bruno Pontecorvo. Il 22 agosto il film era stato presentato in anteprima mondiale a Mosca. Di questo film/documentario, Giuseppe Mussardo è ideatore e sceneggiatore. Nella sua realizzazione il fisico che lavora a Triste ha potuto contare sulla collaborazione di Luisa Bonolis, storica della fisica, che ha recuperato molti materiali inediti, anche visivi, e sulla collaborazione di Diego Cenetiempo, che ha curato sia il montaggio sia la regia. Chi è interessato può chiedere una copia del dvd a Giuseppe Mussardo, raggiungibile all’indirizzo di posta elettronica mussardo@sissa.it.
Si tratta di un prodotto del rapporto tra arte, scienza e storia per molti versi unico. Intanto perché è uno delle poche ricostruzioni per immagini della figura, scientifica e umana, di Pontecorvo, realizzata con l’aiuto di molti tra storici e molti fisici, occidentali ed ex sovietici, che lo hanno conosciuto e con cui hanno collaborato. E poi perché è una ricostruzione equilibrata, che cerca di comprendere senza giudicare le scelte più controverse della sua vita fuori dall’ordinario.
Il film ricostruisce la carriera scientifica di Bruno Pontecorvo. Una carriera che non è esagerato definire straordinaria. Come riconosce Carlo Bernardini, che ha ospitato spesso nella sua stanza Pontecorvo e, insieme a Bruno, ha contribuito a ricostruirne quel curriculum che sarà poi pubblicato nel libro di Miriam Mafai, Il lungo freddo. Il «cucciolo» è stato, infatti, uno dei pochi fisici che hanno dimostrato la loro bravura assoluta sia nel campo della teoria sia nel campo della sperimentazione.
Bruno aveva conosciuto Enrico Fermi, conosciuto a via Panisperna come «il papa», fin dagli anni pisani. Si era poi trasferito a Roma all’inizio degli anni ’30 ed era stato arruolato da Fermi e da Franco Rasetti tra quei «ragazzi» che hanno fatto la fisica del nucleo e la fisica dei neutroni.
Fu proprio Bruno, in particolare, a scoprire la straordinaria efficacia del «neutroni lenti» nella trasmutazione del nucleo atomico, che valse a Fermi il premio Nobel nel 1938. Bruno maturò un’ammirazione per Fermi che resterà immutata, anzi che si è accresciuta nel corso del tempo. Eppure fu lui, Pontecorvo, il primo al mondo a fare della fisica dei neutroni una scienza applicata, utilizzando la loro rilevazione al fine di scoprire nuovi pozzi di petrolio.
A partire dalla seconda parte degli anni ’40 fu Bruno Pontecorvo a «fare» tutta la fisica del neutrino, teorica e sperimentale, mettendo a punto il metodo, sperimentale appunto, per rilevare la più elusiva tra le particelle conosciute, e ad avanzare varie ipotesi – ci sono diversi tipi di neutrini che possono trasformarsi gli uni negli altri – che, magari a mezzo secolo di distanza, sono state puntualmente verificate. Nessuno ha fatto di più nella ormai lunga storia della fisica dei neutrini.
Carlo Bernardini ha fornito ieri la spiegazione di questa capacità di Bruno Pontecorvo. «Il cucciolo» era dotato di una straordinaria «immaginazione quantistica». Riusciva a «vedere» il mondo a livello della particelle subatomiche. Un po’ come il fratello preferito, Gillo, era capace di vedere con altri occhi il mondo al nostro livello. A proposito, la presenza di Giorgio Napolitano alla inaugurazione del convegno dedicato  a Bruno è anche dovuta all’amicizia personale che il Presidente ha stretto con il regista.
Ma torniamo al film proiettato ieri. È merito di Giuseppe Mussardo aver notato e fatto notare che Bruno Pontecorvo ha dimostrato tutta la sua bravura di fisico in tutti i contesti in cui ha operato: a Roma, con Fermi e poi a Parigi con Frédéric Joliot-Curie; negli Stati Uniti e in Canada durante la guerra; in Inghilterra dopo la guerra e, infine, in Unione Sovietica. Creativo ovunque.
Ma col suo film/documentario, Giuseppe Mussardo affronta, con il medesimo equilibrio, anche la vicenda politica e umana di Bruno Pontecorvo. Non elude le domande più difficili: perché nel 1950 un fisco con questo pedigree sceglie di fuggire in Unione Sovietica, esponendosi alle critiche di mezzo mondo? Lo ha fatto perché era una spia e temeva di essere scoperto? Lo ha fatto per partecipare al programma nucleare di Stalin? Mussardo lascia aperte queste domande, anche se non crede in una risposta positiva. Bruno Pontecorvo non era una spia. E non ha partecipato al programma atomico dell’Unione Sovietica.
È andato in Unione Sovietica per il motivo apparentemente più banale. Credeva nel comunismo e voleva dare una mano a un paese che considerava ingiustamente preso di mira dalle potenze occidentali. E dare una mano non in un settore – quello delle armi nucleari – che non conosceva. Ma nel settore della fisica dove era il primo assoluto al mondo: la fisica dei neutrini.
La scelta è stata sbagliata? Forse sì. Forse, alla fine, Pontecorvo se ne è pentito. O forse no, perché alla fine Pontecorvo ha creduto, con Michail Gorbaciov, che il comunismo reale potesse essere riformato. Perché l’idea di fondo era giusta. Ma sia come sia la vicenda politica e umana di Pontecorvo può essere rappresentata dalla frase che Bruno pronuncia e con cui Mussardo chiude il film: «Ho commesso molti errori, ma sono sempre stato una persona perbene».

l’Unità 12.9.13
Lo spirito dei laburisti
Il doc di Loach su Bevan ministro nel dopoguerra
di Alberto Crespi


THE SPIRIT OF '45
The Spirit of ’45 Regia di Ken Loach Documentario Gran Bretagna, 2013 Distribuzione: Bim

NEL WEEKEND SUCCESSIVO ALLA CONCLUSIONE DELLA MOSTRA DI VENEZIA, È BELLO CHE L’ATTENZIONE DEL CRITICO E, SPERIAMO, ANCHE DI QUALCHE SPETTATORE venga sollecitata da due film lontanissimi dagli standard hollywoodiani medi (per altro sempre più bassi). A Venezia, si sa, ha vinto un documentario: Sacro Gra di Gianfranco Rosi. Ed ecco che, quasi per un effetto osmotico, arrivano nei cinema un documentario super-classico, The Spirit of ’45, e un film che mescola documento, narrazione e poesia in modo quanto mai insolito, Che strano chiamarsi Federico. Le due firme sono illustri: il primo è diretto da Ken Loach, ed è quasi una summa dell’opera del battagliero regista inglese; il secondo (ne parliamo qui sotto) è la vita di Federico Fellini ricreata da Ettore Scola.
Ken Loach, inglese del Warwickshire, aveva già diretto numerosi documentari. Con The Spirit of ’45 sembra voler dichiarare le radici del proprio cinema e dell’impegno politico e umanistico che ha attraversato la sua vita. Nel ’45 Loach aveva 9 anni (è nato il 17 giugno del 1936) e probabilmente conserva forti ricordi personali di quel tempo. In quell’anno fatidico finì la seconda guerra mondiale, e se in tutto il mondo la pace fu accolta con sollievo ed euforia, ogni paese declinò l’uscita dall’emergenza bellica in modo diverso.
La Gran Bretagna aveva tutto il diritto di far festa: per quasi due anni (fino all’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti, alla fine del ’41) aveva retto da sola le sorti del mondo civile. Winston Churchill era stato il primo ministro (conservatore) della resistenza e della vittoria, il creatore del famoso slogan «blood, sweat and tears» (sangue sudore e lacrime). Eppure, nel ’45, avvenne qualcosa di impensabile: il 26 luglio i laburisti vinsero le elezioni, e il loro leader Clement Attlee divenne primo ministro dopo essere stato vice di Churchill nel governo di coalizione durante la guerra.
Come fu possibile? The Spirit of ’45, in parte, lo fa capire. Era successa soprattutto una cosa: la guerra, anche sul fronte interno, era stata così terribile che gli inglesi avevano scoperto un valore che prima era meno cruciale: la solidarietà. Sia i reduci, sia le donne che avevano sostenuto la nazione lavorando duro e soccorrendo i feriti «sentirono» che i vecchi ideali conservatori avevano perso di forza e d’attualità. Per una volta, la politica ascoltò le voci che venivano dal basso.
Non si spiega altrimenti l’ascesa di un personaggio come Aneurin Bevan, per certi versi il vero «eroe» di The Spirit of ‘45: gallese, figlio di minatori, membro del parlamento dal 1929, Bevan fu ministro della sanità nel governo Attlee e diede il via a una delle leggende del dopoguerra britannico, la creazione di un sistema sanitario gratuito che sarebbe diventato un modello per tutto il mondo. Fino all’arrivo della Thatcher...
Se Attlee è il padre putativo del film e Bevan il suo protagonista positivo, Margaret Thatcher è il fantasma sullo sfondo, la donna che avrebbe distrutto lo «spirito del ‘45» e tutte le creazioni illuminate a cui i laburisti dettero vita in quegli anni. Un intervistato lo dice a chiare lettere: «Con i laburisti si pensava al bene comune, con la Thatcher è tornato l’individualismo». Ed è questo il punto su cui il documentario di Loach mostra la corda. Un militante laburista come Loach dovrebbe chiedersi perché Attlee fu sconfitto solo sei anni dopo, nel 1951. E chi ritornò a Downing Street, al suo posto? Lo stesso Winston Churchill che era stato battuto nel ‘45... I laburisti avrebbero dovuto attendere il 1974 per tornare al potere con Harold Wilson, e la successiva storia del Labour non è esente da errori e lati oscuri (basti pensare a cosa sappiamo, oggi, di Tony Blair). Lo «spirito del ‘45», insomma, non è stato calpestato dalla Thatcher, ma è durato lo spazio di un mattino, al punto da pensare che la leadership di Attlee e di Bevan sia stata quasi un incidente di percorso nella storia di un paese fondamentalmente conservatore.

Repubblica 12.9.13
Perché il Pop à Penser raccontano un mondo
Oggi analizzare i cantanti ci aiuta a capire il nostro immaginario
di Maurizio Ferraris


From a Logical Point of View (1953), forse il libro più famoso di un grande filosofo del secolo scorso, Willard van Orman Quine (1908-2000), prende il suo titolo dal verso di un calypso, Ugly Woman: «From a logical point of view / Always marry a woman uglier than you» (se ne trova facilmente su YouTube l’esecuzione di Robert Mitchum). E un tema caro a Jacques Derrida, lanostalgérie (nostalgia della natale Algeria), viene dal titolo di un’altra canzone, Nostalgérie, appunto, di Jean-Pax Méfret, giornalista e compositore (leggiamo su Wikipedia) fautore dell’Algeria francese. Visto che Schopenhauer, Kierkegaard, Wittgenstein erano melomani, ci sono fondati sospetti per pensare che, se ai loro tempi fossero già esistite le canzonette, se ne sarebbero serviti. Come fece Nietzsche che, quando Overbeck lo caricò sul treno che da Torino, dove era impazzito, avrebbe dovuto portarlo a Basilea, in clinica, intonò una canzone napoletana (Piscatore ‘e Pusilleco).Non è dato di sapere se fosse la stessa che (ricordo di averletto in un vecchio articolo di Beniamino Placido), stava ascoltando alla radio Giovanni Gentile convinto di esser solo una volta che degli ammiratori si recarono in visita al Pensatore.
Ci si può chiedere perché persone così originali e intelligenti condividessero dei tormentoni comuni a milioni di altre persone, ma la vera domanda è piuttosto perché non avrebbero dovuto condividerli. In effetti, le canzonette e il pop in generale sono la versione corrente del mito, di cui condividono l’ubiquità e la suggestione. E il mito, così come il pop che lo rilancia (ecco la “nuova mitologia” dei romantici dell’Ottocento), raccontano la vita umana nella sua universalità, cioè anzitutto nella sua ovvietà e medietà, per cui gli autori pop sono maîtres à pensernon perché additino l’eccentrico o l’originale ma, proprio al contrario, perché colgono meglio di altri il sentire comune, e lo fanno, direbbe Vico, «con animo perturbato e commosso». E non è un caso che Umberto Curi, studioso del mito, sia anche l’autore deiProlegomeni per una popsofia e tra gli animatori del fortunato festival di Civitanova Marche (e oggi di Pesaro) dedicato appunto alla Popsofia. Ma se la filosofia trova nel pop una delle tante possibili vie di riconciliazione con il mondo, ci sono altre discipline che gli sono legate da vincoli molto più stretti e decisivi. In particolare la linguistica. Il pop, nei film e soprattutto nelle canzonette, fornisce il più grande repertorio di lingua contemporanea che sia mai esistito, con la garanzia della sua influenza data dagli ascolti e dalle riprese sui giornali e nel web. È a questa impresa di antropologia linguistica che si è dedicato Giuseppe Antonelli, che insegna Linguistica italiana nell’Università di Cassino, autore diMa cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato (il Mulino 2010), e che oggi pubblica da Laterza una sua lunga conversazione con Ligabue (il cantante),La vita non è in rima.
Cosa sia l’italiano medio (anzi, “ipermedio” secondo il titolo di un precedente lavoro di Antonelli) emerge sicuramente con maggiore nettezza da Ligabue o da Jovanotti che non da Gadda. Con una avvertenza, però. L’autore di canzonette non è semplicemente un tramite che traspone in versi e musica la lingua media, ma è, appunto, un autore come un altro, con gusti, preferenze, letture. Per esempio è ricorrente in Ligabue il riferimento a Pier Vittorio Tondelli, suo compaesano e di cinque anni più vecchio di lui, ed è un fatto che in Tondelli non cessava di raccomandare agli amici i classici della letteratura. Ed è così che non solo le canzonette possono far da titolo a libri di filosofia, ma può accadere che la letteratura anche aulica possa circolare magari all’insaputa dei parlanti nel linguaggio comune (dal notissimo Ronsard che riemerge in «vivesti solo un giorno come le rose» di De André al meno noto endecasillabo «niente nessuno in nessun luogo mai» di Vittorio Sereni citato dai Virginiana Miller). In questo senso, ci troviamo in una situazione affine a quella registrata da Gian Luigi Beccaria inSicuterat. Il latino di chi non lo sa: Bibbia e liturgia nell'italiano e nei dia-letti, (Garzanti, 1999), di parlanti che citano e storpiano, senza saperlo e spesso senza capirle, delle fonti illustri. Non so se verrà il giorno in cui “No entity without identity”, uno dei più famosi slogan filosofici di Quine, entrerà in un rap. Di sicuro, Jim Morrison si ispirava allaNascita della tragedia, “Wittgenstein” è anche il nome di una band berlinese, a Guccini è capitato di citare Schopenhauer in una canzone, sul numero di luglio-agosto di Philosophy Now c’è un lungo articolo su Bono (il leader degli U2) come appassionato lettore di Kierkegaard, e un gruppo rock californiano si è chiamato, in onore di Derrida, Deconstruction.