domenica 15 settembre 2013

Repubblica 15.9.13
La verità, vi prego, sui confini dell’amore
di Eugenio Scalfari


TRA i tanti articoli che sono stati scritti sulla lettera a me diretta da papa Francesco ce n’è uno di Vito Mancuso pubblicato venerdì scorso sul nostro giornale (“Il Papa, i non credenti e la risposta di Agostino”). Lo cito perché pone un problema che merita d’esser approfondito: chi sono i non credenti, quelli che nel linguaggio corrente sono definiti atei?
Mancuso non è un ateo, anzi è un fine teologo credente, ma la sua è una fede molto particolare e la descrive così: «Credo alla luce che è in me laddove splende nella mia anima ciò che non è costretto dallo spazio e risuona ciò che non è incalzato dal tempo. Quella luce ci permette di superare noi stessi e liberarci dall’oscurità dell’ego, da quella bestia che certamente fa parte della condizione umana ma non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andremo. La fede in Dio lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene orientando l’uomo verso la solidarietà e la giustizia».
Insomma Mancuso crede nel Pensiero che porta verso il Bene. Quel Pensiero è Dio e ci ispira solidarietà e giustizia.
Trovo suggestivo questo suo modo di pensare e di sentire. La fede infatti è un sentimento che proviene dall’interno dell’uomo, dal suo “sé” ed erompe verso la mente dove hanno sede il pensiero e la ragione. Sono molte le persone che, rifiutando le Sacre Scritture, la dottrina della Chiesa e la sua liturgia, credono “in qualche cosa” che in parte sta dentro di noi e in parte ne sta fuori. Per metà sono credenti, per un’altra metà non lo sono.
La secolarizzazione della società moderna viaggia in gran parte su questa lunghezza d’onda. A me è capitato più volte di domandare ad amici ai quali mi legano simpatia, frequentazione, comunità di progetti e di lavoro: tu credi? Molto spesso la risposta è affermativa, ma se ancora domando: in che cosa? La risposta è appunto “in qualche cosa”. È un’ipotesi consolatoria, un aldilà incognito che comunque promette un proseguimento della vita “fuori dallo spazio e dal tempo” come scrive Mancuso, oppure è un abbozzo di pensiero che non viene approfondito perché i bisogni e gli interessi quotidiani, la concretezza dei fatti e degli incontri, incalzano e ingabbiano dentro lo spazio-tempo che non può essere facilmente accantonato?
La bestia pensante è esattamente questo: istinti animali che la mente riflessiva fa lievitare. L’essere sta, diceva Parmenide; l’essere diviene diceva Eraclito; l’essere è formato dagli elementi della natura, diceva Empedocle. Qualche tempo dopo arrivò Platone e la sua pianura della verità, i suoi archetipi, modelli trascendenti, punti di riferimento della bestia pensante.
Se bestia pensante non piace possiamo nobilitarla chiamandola “homo sapiens”, oppure darle un nome mitologico che la nobiliti ancora di più. Io lo chiamo Eros, non il paggetto alato che accompagna Venere-Afrodite e lancia le frecce per infiammare i cuori, ma una forza originaria del cosmo, signore di tutte le brame e di tutti i desideri. La nostra, prima ancora di essere una specie pensante, è una specie desiderante. Si obietterà che tutte le specie viventi desiderano ed è vero, ma i desideri dell’animale sono coatti e ripetitivi, quelli della nostra specie sono invece evolutivi e da un desiderio appagato ne nasce immediatamente un altro. Perciò noi siamo una specie desiderante perché desideriamo desiderare ed Eros è la forza della vita e ne misura l’intensità.
***
C’è una poesia di Auden che ad un certo punto invoca: «La verità, vi prego, sull’amore»; ma delle varie specie d’amore parlano anche, e molto, La Rochefoucauld, Pascal, Leopardi, Baudelaire, ciascuno a suo modo.
C’è primo tra i primi, l’amore per se stesso; La Rochefoucauld lo chiamò amor proprio, la mitologia lo chiamò Narciso, il giovane che rimirandosi nelle acque d’un lago si innamorò di se stesso. L’amore per se stesso è il fondamento della nostra vita perché noi viviamo con noi stessi 24 ore su 24. Se ci odiassimo saremmo vittime di un disturbo mentale che potrebbe arrivare al “tedium vitae” e persino al suicidio. Ma se il narcisismo oltrepassa la soglia fisiologica al punto di escludere ogni altra specie d’amore, allora diventa egolatria, auto-idolatria. È una patologia alquanto diffusa e molto pericolosa per la società.
Poi c’è l’amore per l’altro, la coppia di innamorati, anche questo con molte sottospecie, il rispecchiamento reciproco, l’attrazione sessuale per l’altro sesso oppure per lo stesso, l’amore platonico, l’amicizia amorosa, l’affinità elettiva.
Infine l’altra e grandiosa forma d’amore, quella per gli altri, visti come “prossimo”, cioè l’amore per la specie, la fratellanza dei sentimenti, la famiglia. Ricordate il detto evangelico “Ama il prossimo tuo come te stesso”?
Dunque Gesù non escludeva l’amore per sé, e come avrebbe potuto escluderlo visto che era un uomo, fosse o non fosse il figlio di Dio? Il miracolo che si proponeva di compiere era di parificare l’amore per il prossimo a quello verso se stesso, ma poi, quando pensò (o rivelò) d’essere figlio di Dio, allora l’asticella del miracolo diventò molto più alta: non voleva soltanto elevare l’amore verso di sé e quello per il prossimo allo stesso livello di intensità, ma pensò che dovesse abolire interamente l’amore proprio e concentrare sul prossimo tutto il sentimento amoroso di cui ciascuno dispone.
Gli è riuscito questo miracolo? Direi di no, anzi dopo due millenni dalla sua venuta l’amor proprio è diventato più intenso e quello verso gli altri è fortemente diminuito. Se il mio dialogo con papa Francesco continuerà, come spero ardentemente che avvenga, questo credo che potrebbe essere il tema: far crescere l’amore per gli altri almeno allo stesso livello dell’amor proprio. Gesù di Nazareth fu martirizzato e crocifisso per aver voluto testimoniare la scomparsa dell’amore verso di sé. Volle cioè andare oltre la natura della bestia pensante che il Creatore aveva creato.
Il miracolo fallì, ma l’incitamento rimase e fu raccolto dai suoi discepoli, dai suoi apostoli, dai suoi fedeli ed anche dagli uomini di buona volontà. Siano essi credenti nell’Abba, nel Dio mosaico, in Allah, o in “qualcosa” o atei ma consapevoli.
Per questo continuo a pensare che il vero culmine del Cristianesimo non sia la resurrezione di Cristo, ma la crocifissione di Gesù, non la conferma dell’esistenza d’un aldilà ma l’esempio e l’incitamento all’amore del prossimo, alla giustizia e alla libertà responsabile nell’aldiquà.
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Questo che segue è un post scriptum sulla politica, anche se aumenta la mia personale noia per la sua attuale ripetitività. Perciò sarò molto breve.
Berlusconi sembra aver perso — come si dice — la trebisonda; eppure il percorso che ha davanti a sé è molto chiaro: dovrebbe dimettersi da senatore e, se desidera ottenere provvedimenti di clemenza dal Capo dello Stato, li chieda nelle forme previste dalla legge. A quel punto Napolitano valuterà e deciderà come ritiene più opportuno. Non esistono altre vie e salvacondotti perché nella nostra Costituzione non esiste il “motu proprio” e nessuno può inventarselo.
La legge Severino la si può valutare come si vuole, ma la sua applicazione dipende dal confronto delle diverse opinioni. I senatori del Pdl voteranno compatti per il ricorso alla Consulta, il Pd e quelli che la pensano allo stesso suo modo voteranno contro. Poi si andrà in aula e il voto sarà ripetuto, segreto o pubblico, si vedrà. Tutto questo è normale e proceduralmente corretto ma quale che sia il risultato arriverà circa negli stessi giorni il pronunciamento della Corte d’Appello di Milano sulla durata della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici che completa la sentenza definitiva della Cassazione. Quindi Berlusconi sarà comunque interdetto e i provvedimenti di pena accessoria non rientrano nell’eventuale atto di clemenza che gli venisse concesso.
Parliamo ora del governo Letta. I ministri, a qualunque partito appartengano, quando sono nominati dal Capo dello Stato acquistano una figura diversa da quella di uomini di partito poiché le istituzioni sono titolari dell’interesse generale mentre i partiti hanno ciascuno una propria visione del bene comune.
Infine l’economia. Il timore d’una caduta del governo ha già fortemente danneggiato il nostro Paese. Il valore dei titoli del debito pubblico è diminuito scendendo al di sotto di quello spagnolo. La recessione continua mentre il resto d’Europa sembra uscirne sia pure lentamente. Un provvedimento importante sarebbe l’abbattimento del cuneo fiscale. Penso che Letta dovrebbe deciderlo subito. Non ha risorse sufficienti? Emetta titoli pubblici e ne destini il ricavato a questo obiettivo. Sappiamo che il ministro Saccomanni sta studiando questo problema ed esaminando tutte le possibili alternative, ma non c’è più tempo da perdere e la stessa Bce ci chiede di non guardare troppo meticolosamente il fabbisogno se lo si destina alla crescita reale.
Così pure bisogna muoversi sulla riforma della legge elettorale e per l’abolizione del finanziamento dei partiti già prevista nel disegno di legge all’esame del Parlamento. Se il Parlamento indugia ancora il governo ponga un limite di tempo ed emetta decreti sui quali porre la fiducia.
Questi sono i miei pensieri insieme a quello che ripeto ancora una volta: auspico per il bene del Paese e dell’Europa che Letta continui a presiedere il governo fino al compimento del semestre europeo con presidenza italiana, cioè fino all’inizio del 2015. Se questo avverrà con il dinamismo necessario, saremo anche noi fuori dal tunnel.
Quanto al Pd, sia compatto su questo obiettivo e nel frattempo ricostruisca la sua ammaccata identità di partito riformista della sinistra democratica italiana ed europea.
Buona sera e buona fortuna.

Repubblica 15.9.13
Il metodo di Francesco
di Adriano Prosperi


C’è una strategia che si dispiega sotto i nostri occhi negli atti e nelle parole di papa Francesco: fermarsi alla superficie, allo sconvolgimento delle forme rituali dei contatti e degli approcci, ci farebbe perdere di vista la sostanza.
Un giornale gli pone alcune domande: e lui risponde con disponibilità larghissima di parole e spontanea e dimessa gentilezza di forme. Siamo lontani dall’epoca delle lettere encicliche. Lo dice un semplice confronto con l’ultima, appena uscita a due nomi, quello del papa dimissionario e quello di quest’uomo che non definiremo “pontefice regnante” ma piuttosto un uomo che tasta cautamente il terreno del governo della Chiesa ma che, intanto, guarda fuori dalle mura vaticane, saggia uomini e coglie occasioni.
La lettera a Eugenio Scalfari arriva dopo la visita a Lampedusa; e dopo la parola sottolineata nella sua visita al Centro Astalli di Roma: “Solidarietà, questa parola che fa paura per il mondo sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra parola”.
Il dialogo con Scalfari è un esempio del metodo di Francesco. Un non credente di convinzioni illuministiche e razionaliste ha invitato il Papa a un dialogo, a un confronto di idee e di convinzioni intellettuali; e lui ha accolto immediatamente e con grandissima disponibilità l’invito. Ma come ha risposto? Ha aperto il suo cielo cristiano senza limiti a chi segue la retta coscienza e così ha spostato il terreno dalla teologia e dai dogmi alla morale. E ha dato una bella lezione a questa Italia di cui Leopardi scriveva che “non è luogo dove la religion cattolica, anzi la cristiana… sia più rilasciata nell’esterno ancora, e massime nell’interno”. Cioè poco creduta dentro e poco praticata fuori. Morale, non dogma. Nell’Italia dove i monsignori vaticani dovevano meditare non molto tempo fa se si poteva concedere l’Eucarestia a un divorziato molto ricco e molto potente, oggi si comincia a parlare un’altra lingua.
Intorno alla solidarietà si gioca l’offerta di un gran pezzo di strada da fare insieme tra gli eredi della dichiarazione settecentesca dei diritti, dove la fraternità saldava il nodo tra libertà e uguaglianza, e gli eredi del celebre, indimenticabile elogio della carità di San Paolo. Che ce ne sia bisogno, in Italia, non c’è dubbio. Da quando il crollo del muro di Berlino ha seppellito l’idea della lotta per una maggiore giustizia sociale, rivolta a quelli che l’inno dei lavoratori di Filippo Turati chiamava “fratelli e compagni”, si è imposta una morale d’uso che vede dovunque “un mercato e in tutto la specolazione”, per dirla con le parole del giacobino Vincenzio Russo.
In questa Italia d’oggi, la parola di papa Francesco comincia a scuotere un’opinione pubblica dove, come dicono i sondaggi, c’è un gran mucchio di persone che concepisce la libertà come qualcosa che va in direzione opposta rispetto all’uguaglianza. Qui, grazie a una poliennale e pervasiva educazione morale a mezzo televisione, al vincolo collettivo della solidarietà si oppone il diritto all’egoismo come esitonecessario della libertà: libertà di godimento dei beni che mi so procurare; libertà di evadere anche il fisco; sacro egoismo in un mondo abitato dalla belva umana, che consapevole della brevità della vita vuole godere di tutto quello che si offre ai suoi appetiti e attraversa ogni volta che può le barriere fissate dalla legge. E se i giudici lo condannano, noi vediamo quello che fa.
La partita che si è aperta è questa: riguarda la morale. La loro morale e la nostra, si potrebbe dire con un celebre scritto di Lev Trotzski (molto favorevole ai gesuiti). Fu su questo terreno che le avanguardie missionarie del cristianesimo europeo varcarono i limiti teologici tra cristianesimo e cultura cinese. Poi però ci fu nella Chiesa chi li condannò come eretici. Oggi un gesuita è diventato papa. Ma intanto molte cose sono cambiate. Tra la morale della Chiesa quale abbiamo visto all’opera in tanti recenti e laceranti conflitti nel paese Italia, dominato ancora dalle regole del Concordato del 1929, e quella dei diritti di libertà sanciti nelle costituzioni moderne a partire dal 1789, esistono fratture profonde. A questo ha fatto una delicata allusione ieri su la Repubblica Umberto Veronesi. Ma la cosa è così importante che bisogna ricordarla ancora, a rischio di sembrare importuni. È qui che aspettiamo alla prova quest’uomo di buona volontà che oggi siede sul trono di Pietro.

La Stampa 15.9.13
Vaticano, la svolta dopo 30 anni
Boff: «Con Francesco dialogo continuo anche se a distanza»
«Ci sentiamo tramite un’amica comune che abita in Argentina»
«Benedetto XVI era troppo tedesco quand’era Prefetto Ma eravamo amici»
Il teologo della liberazione loda Ratzinger “Andandosene ha pensato al bene della Chiesa”
intervista di Marco Bardazzi


È stata una delle grandi battaglie teologiche e anche politiche che hanno coinvolto il Vaticano negli ultimi decenni. La teologia della liberazione, con la sua insistenza sul rapporto tra Vangelo, povertà e classi sociali, ha posto un sfida difficile agli ultimi papi, preoccupati che un approccio giusto sfociasse in un’analisi marxista. Il teologo brasiliano Leonardo Boff e il cardinale, poi Papa, Joseph Ratzinger sono stati i protagonisti dello scontro a distanza tra l’America Latina e Roma. L’arrivo di Francesco, il primo Papa sudamericano, sembra aver creato le condizioni per voltare pagina. L’ex francescano a Torino Spiritualità Con l’intervento del teologo brasiliano Leonardo Boff è stata anticipata l’apertura della rassegna «Torino Spiritualità» che si terrà a Torino dal 25 al 29 settembre. Giunta alla sua nona edizione la rassegna, che affronta temi di fede sotto diversi punti di vista, quest’anno ha quale tema guida « Il valore della scelta»
Bisogna lodare Ratzinger». Scusi? Ma lei è l’ex francescano Leonardo Boff, avversario storico del cardinale Joseph Ratzinger per decenni. Lei non è quello che, quando fu eletto Papa, disse che con Benedetto XVI arrivava «l’inverno della Chiesa»? Il sorriso si apre in mezzo alla folta barba candida di Boff e ci vuol poco a capire che nella Chiesa di Francesco stanno evaporando anche i conflitti teologici che hanno impegnato il Vaticano fin dagli anni Settanta.
Certo, lo scrittore brasiliano rende omaggio al Papa emerito soprattutto perché si è fatto da parte, ma per Ratzinger ha solo parole di stima. E non è la sola sorpresa che l’esponente di spicco della teologia della liberazione svela, sprofondato in una poltrona d’albergo, dopo aver aperto in anteprima la rassegna «Torino Spiritualità». Difficile fino a poco tempo fa immaginare che un autore con un profilo come quello di Leonardo Boff potesse essere considerato consulente da un pontefice. Eppure è proprio quello che Papa Francesco sta facendo con lui, racconta Boff: si scrivono e dialogano attraverso un’amica comune in Argentina.
Lei dice che Benedetto XVI merita una lode. Perché?
«Quando ha letto il rapporto sugli scandali nella Chiesa, ha capito di non avere più la forza fisica, psicologica e spirituale per affrontare un problema di questa gravità. E in forma umile e sincera, con coraggio a mio avviso, ha rinunciato. Ha voluto pensare più alla Chiesa che a se stesso».
Avete avuto un rapporto burrascoso nel corso degli anni, l’allora cardinale Ratzinger nel 1984 l’ha anche sottoposta a un «processo».
«Eravamo amici, è una persona estremamente elegante, fine, non alza mai la voce. Ha sempre mostrato per me grande rispetto. Il problema è che quando è diventato prefetto, si è rivelato troppo “tedesco”. Io predicavo una Chiesa che promuove la libertà nella società. Ratzinger lo ha capito come un discorso protestante. Mi diceva: “Così parla Lutero”. Io replicavo: “Bene, ascoltiamolo: sono 500 anni che la Chiesa non ascolta abbastanza Lutero”».
Lei ora ripone molte speranze in Papa Francesco. Perché?
«Perché prima di fare la riforma della curia, ha fatto quella del papato. Di solito uno diventa Papa e assume tutti i riti del potere. Lui ha fatto alla rovescia, è rimasto quello che era e ha abituato tutti a cambiare secondo la sua tradizione personale».
Il nome che ha scelto cosa le suggerisce?
«Più che un nome, Francesco è un progetto di Chiesa e di mondo. Una Chiesa nella povertà e umiltà umane. L’attenzione che ha il Papa per i poveri viene da questa intuizione, propria dell’America Latina. Bisogna ricordare che viene da un altro tipo di Chiesa e di teologia, è la tradizione della teologia del popolo argentina. Lui si definisce un Papa peronista e giustizialista».
Lei chiede l’apertura di un Concilio Vaticano III per riformare la Chiesa. Questa Papa riuscirà a portare il cambiamento che lei auspica?
«È molto intelligente, non vuole presiedere la Chiesa in modo monarchico, ma collegialmente. Per questo ha scelto otto cardinali di tutti i continenti che con lui faranno la riforma della curia e guideranno la Chiesa in modo collegiale. Penso sia arrivato il momento, come gli ho scritto perché mi ha chiesto un’opinione».
Dialoga con il Papa? In che modo?
«Abbiamo un’amica comune in Argentina, lui la sente ogni domenica, le parla spesso. Io mando a lei delle cose, lui me ne chiede altre».
Cosa ha suggerito al Papa fino ad ora?
«Per esempio che tutte le chiese, specie quella cattolica, sono occidentali e saranno sempre più accidentali. Andiamo verso una nuova fase dell’umanità che sarà globalizzata. La Chiesa non ha trovato un posto in questo processo, ma è ora di definirlo con le altre chiese. Le differenze dottrinali sono piccole e anche le chiese protestanti accettano un Papa che non domina, ma che fa da riferimento simbolico del cristianesimo, come fenomeno storico e memoria di Gesù».
Se guarda indietro al suo rapporto con la Chiesa, gli scontri, l’addio all’ordine francescano, ha rimpianti?
«Ho lasciato la funzione istituzionale di prete, ma non di teologo. Ho cambiato trincea, ma non battaglia. E in Brasile non ho mai avuto conflitti con la Chiesa. Continuo a fare il teologo nelle comunità di base. E io celebro, faccio battesimi, matrimoni, tutti i sacramenti quando non c’è un sacerdote. I vescovi lo sanno e mi dicono: vai avanti. Mi sento bene, in questa veste di laico. Dopotutto, Gesù non era un sacerdote».


«agàpe eros e philia»
Corriere 15.9.13
Il festival emiliano esplora il sentimento. Anticipiamo l’intervento di Vincenzo Paglia
Tre nomi per chiamare l'amore (e l'ultima parola non è di Eros)
Al vertice di tutto sta l'«agàpe», il suo modello è Gesù
di Vincenzo Paglia

sacerdote, consulente spirituale della comunità di Sant’Egidio
presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia

In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l'amore resta l'unica via per immaginare un nuovo futuro. Si potrebbe dire: è il tempo dell'«agàpe», il tempo dell'amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore «agapico». Agàpe, una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo Testamento per descrivere l'amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per nulla usata poiché la cultura greca per dire l'amore preferiva i termini eros e philia. Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e impensata concezione dell'amore: un amore che non si nutre della mancanza dell'altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell'altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire — ed è il meno che si possa dire — al di fuori d'ogni reciprocità.
È davvero un amore fuori regola, fuori norma. L'apostolo Paolo nella Lettera ai Romani afferma: «A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»( Rm 5, 7-8).
Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L'agàpe è infatti l'essere stesso di Dio. Quindi è l'essere stesso Dio a spingerlo a uscire da sé per scendere in mezzo agli uomini. L'incarnazione è un mistero centrale nella fede cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una religione che divinizza l'uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Non solo, quest'uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore. Nella «croce» appare il culmine dell'amore con la sua vittoria definitiva sull'egoismo.
Semiòn Frank, filosofo russo, scrive: «L'idea di un Dio disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze umane e cosmiche, l'idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea possibile, la sola "giustificazione" convincente di Dio». Qui vi è tutta l'originalità dell'agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la sua forza irresistibile: l'agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo nuovo liberato dalla legge inesorabile dell'amore per sé. (...)
L'agàpe, culmine dell'amore, non elimina l'eros e la philia, non le accantona, se così posso dire, semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata né voluta, e spinge con prepotenza l'amante ad annullarsi nell'amato, sia nella prospettiva esaltante della luce che nell'altra, anch'essa ugualmente esaltante, della morte. In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel Simposio, lo definisce a-oikos, senza casa. Il grande pericolo che eros fa correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora, da ogni casa, senza un approdo che sia stabile. Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della contemporaneità: l'Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti abbiamo pulsioni d'amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d'amore che ci muovono, ma — è papa Ratzinger a scriverlo nell'enciclica Deus caritas est — «i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore».
La philia — che traduciamo normalmente con «amicizia» — esprime un'altra dimensione ancora dell'amore. Ordinariamente viene pensata come una forma attenuata dell'amore, un sentimento più debole, meno impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile limitatezza! Molto meno cantata dell'amore, la philia è tuttavia non meno protagonista nella vicenda umana. Un bell'esempio di philia lo rileviamo nella triplice domanda d'amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo interroga sull'amore. Gesù chiede al discepolo: «Mi ami?» (phileis me?). Qui non è l'eros che parla, ma un sentimento che chiede una compartecipazione stretta, duratura, perenne. È come se gli chiedesse: «Sei veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?» Nella philia i due — e questa è la differenza fondamentale con eros — rimangono tali, non vi è una dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria identità. Anzi, sussistono perché «stanno bene insieme». Semmai, il rischio in tale dinamica è l'appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma rischiosa chiusura.
Ed ecco l'agàpe che supera ambedue, senza tuttavia escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo trinitario ove non c'è l'annullamento nell'altro e neppure la coappartenenza. C'è di più: la generazione di un altro nel circolo dell'amore. La raffigurazione emblematica dell'agàpe è l'icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli attorno alla mensa. Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la Relazione stessa come una terza figura. L'agàpe comporta una trascendenza tra i due che è appunto la «Relazione» stessa nella sua eternità, nella sua necessità. L'agàpe è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro «relazione». Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana. Il suo nome è Spirito Santo e la sua azione è sconvolgente.

Repubblica 15.9.13
“Su Berlusconi il voto sia palese” Pd con il M5S, ma il Pdl fa muro
Il costituzionalista Onida: un precedente del ’93 può aprire uno spiraglio
“Deroga una tantum vietata però i cittadini hanno diritto alla trasparenza degli eletti”
intervista di Liana Milella


ROMA — Non ha dubbi, Valerio Onida, il noto costituzionalista. «Non ha senso una deroga solo per Berlusconi, ma abolire il voto segreto è possibile». Poi una significativa “scoperta”: «Comunque, non è detto che questo sia un voto sulle persone per il quale lo scrutinio segreto è obbligatorio».
Allora, professore, ci faccia capire. Davvero si può eliminare il voto segreto in Parlamento?
«Il modo in cui si vota nelle Camere non è prescritto dalla Costituzione, se non per particolari oggetti, come l’elezione del presidente della Repubblica, che deve avvenire a scrutino segreto, o i voti di fiducia, che devono invece essere palesi, per appello nominale. Per il resto le stesse Camere si autodeterminano, tant’è che nel 1988 sia Montecitorio che palazzo Madama hanno modificato i regolamenti, limitando gli oggetti in cui il voto è o può essere segreto, anzi fissando una serie di materie per cui il voto segreto è espressamente vietato».
Rispetto a queste regole che stabiliscono il voto segreto per i voti che riguardano le persone, sarebbe accettabile modificare ilprincipio, non solo per Berlusconi ma definitivamente?
«Per tradizione, questi voti sono a scrutinio segreto perché si suppone che elementi di carattere personale possano essere rilevanti rispetto a quelli di carattere politico. Peraltro, nel 1993, la giunta per il regolamento del Senato espresse il parere che le votazioni sulle richieste di autorizzazione a procedere in giudizio nei confronti dei parlamentari dovessero avvenire a scrutinio palese, perché non dovevano considerarsi votazioni “riguardanti persone”. Per analogia si potrebbe ritenere che anche le votazioni sulle cause di ineleggibilità non siano propriamente votazioni riguardanti persone, ma attengano allaregolare composizione dell’assemblea».
Come si fa a non considerare una votazione sulla persona quella che determina la sua decadenza?
«Perché i componenti dell’assemblea non sono chiamati ad apprezzare le qualità di una persona, ma a pronunciarsi sulla regolare composizione dell’organo».
L’M5S propone di eliminare del tutto il voto segreto? Si può?
«Sì, si potrebbe, salvi i vincoli costituzionali di cui s’è detto, perché la Carta garantisce la segretezza del voto degli elettori, non quella del voto dei parlamentari. L’esperienza dice come tante volte lo scrutinio segreto venga chiesto o utilizzato non per ragioni di coscienza o perché si debbano apprezzare le qualità di una persona, ma per manovre politiche, volendo sfuggire alla necessità di rendere pubblicamente conto della propria posizione. È il diffuso fenomeno dei franchi tiratori, cioè di chi vota in difformità dal proprio gruppo, ma non lo vuole rivelare».
Si potrebbe, solo per Berlusconi, imporre il voto palese frutto di un’intesa politica? O sarebbe una violazione delle regole?
«Allo stato attuale, se si ritenesse che si tratti di un voto riguardante persone, vi sarebbe l’obbligo dello scrutinio segreto. Non ci sarebbe nel caso opposto. Comunque, non avrebbe alcun senso immaginare una regola diversaper il caso Berlusconi rispetto a tutte le altre votazioni dello stesso tipo».
Il fatto che se ne discuta a un mese dal voto in aula sull’ex premier non rivela la “paura” di una maggioranza trasversale a suo favore contro le direttive dei partiti di appartenenza?
«Non c’è dubbio che riveli questa paura. Fa sorgere il sospetto che ci possano essere senatori che, nel segreto dell’urna, intendano votare diversamente da come dichiarano. Si tratterebbe di un fenomeno di “immoralità” parlamentare”».
Non sarebbe meglio cancellare il voto segreto e fare in modo che gli eletti dal popolo facciano sapere che cosa fanno?
«Sarebbe auspicabile che i parlamentari dovessero rendere sempre conto pubblicamente della loro condotta in Parlamento. Sarebbe un modo più trasparente di esercitare il mandato».

Repubblica 15.9.13
Il capogruppo dei 5Stelle Nicola Morra: modificare subito la norma sul voto segreto, vediamo se democratici, Lega e Udc ci appoggiano
“Va cambiato il regolamento, il Pd sia coerente”
di Sivio Buzzanca


ROMA — Senatore Morra, lei è il capogruppo del Movimento Cinque Stelle al Senato. Domani presenterete una proposta di modifica del regolamento per cancellare il voto segreto...
«Certamente, presenteremo questa proposta per evitare le zone d’ombra che nei decenni hanno celato le nefandezze della politica italiana. Vogliamo evitare che ci si possa trovare in situazione imbarazzanti come la discussione intorno alla decadenza da senatore di Silvio Berlusconi. Noi siamo per la trasparenza assoluta e questa della modifica al regolamento ci sembra una via semplice, netta e chiara. Accompagneremo questa proposta con altre, contro l’insopportabile fenomeno dei pianisti che è una cosa molto grave e un fatto cronico che affligge il Senato».
Senatore, il presidente Grasso si è già pronunciato: la regola è il voto segreto, ma se i gruppi voglio cambiare....
«Benissimo. Allora dico che è una questione di volontà politica, di scelta da parte dei partiti. Se Grasso convoca subito la Giunta per il regolamento per discutere la nostra proposta siamo contenti».
Anche Pd, Lega e Udc vorrebbero il voto palese...
«Molto bene. Si convochi laGiunta e in quella sede verificheremo il grado coerenza di queste forze politiche».
Senatore, si sentono già le prime critiche. La vostra proposta se messa in discussione allungherà i tempi della decadenza di Berlusconi...
«Noi vogliamo abolire il voto segreto anche per cancellare questo tipo di ambiguità, quelle voci che circolano nel mondo della politica...».
Voci che dicono che voi grillini siete i più interessati a votare nel segreto dell’urna a favore di Berlusconi. Così cade il governo, si va al voto con il Porcellum...
«Lo dice Carlo Giovanardi e a me viene da ridere. Noi non siamo per ciò che è utile al movimento, ma per ciò che è utile ai cittadini. E in questo momento è necessario liberare il Senato dalla presenza di un pregiudicato per un reato molto grave».
Senatore Morra, cosa succederà mercoledì nella Giunta per le autorizzazioni? Si voterà?
«A meno che non facciano scoppiare la Terza guerra mondiale si dovrebbe votare. E a Schifani che lamenta la velocità in cui si arriverebbe ad un voto, che ricorda il caso di Cesare Previti dove i tempi furono lunghi, io replico: se nel passato si è fatto male è il caso di continuare anche adesso a fare male?»

Corriere 15.9.13
L’impari sfida con i franchi tiratori tra voci, spiate e foto col telefonino
Quanti risultati a sorpresa, dal caso Craxi ai «traditori» di Prodi
di Tommaso Labate


ROMA — «Questo dibattito sul voto segreto è i-ne-si-sten-te», urla al telefono Maurizio Gasparri. Non esiste il tema, insomma, per il vicepresidente del Senato. A meno che «Berlusconi stesso non dica che vuole il voto palese sulla sua decadenza», i venti senatori necessari usciranno allo scoperto con la richiesta di scrutinio segreto. E quindi meglio prepararsi a quello che, per dirla con il senatore socialista Enrico Buemi, «sarà un momento storico». Un momento in cui, aggiunge, «dentro l’emiciclo di Palazzo Madama si consumeranno i fatti e i misfatti della Seconda Repubblica».
Proprio come nella massima che il poeta americano Thomas Stearns Eliot aveva racchiuso in uno dei suoi versi più celebri. «Nel mio principio è la mia fine/nella mia fine è il mio principio». Che salvi Berlusconi o che lo condanni alla decadenza, il voto segreto può spegnere per sempre le luci di quella Seconda Repubblica che aveva generato il 29 aprile 1993. «Presenti 565, votanti 564, astenuti 1, maggioranza 283, favorevoli 273, contrari 291», disse l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano leggendo l’esito dello scrutinio — segreto, ovviamente — con cui l’Aula di Montecitorio aveva appena respinto l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Quattro ministri del neonato governo Ciampi — Luigi Berlinguer, Augusto Barbera, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli — si dimisero subito. Un altro, Paolo Savona, li seguì a ruota. La moneta italiana iniziò a crollare sui mercati proprio mentre il leader socialista, l’indomani, finì vittima del noto lancio di monetine davanti all’hotel Raphael. Il tutto mentre i sospetti sui misteriosi «franchi tiratori» si addensarono verso il blocco più ostile a Craxi. A cominciare dalla Lega e dal Movimento sociale italiano. «Con Berlusconi succederà proprio come con Craxi. Se c’è qualcuno che lo salverà nel voto segreto», sussurrava giorni fa il senatore del Pd Ugo Sposetti, «quelli saranno i grillini». Ed è uno schema che evidentemente non convince troppo chi, come la sua collega Laura Puppato, qualche settimana fa ha scandito la marcia d’avvicinamento dei Democratici verso il voto su Berlusconi con parole segnate dal demone del Sospetto: «Da quando in Aula è successa quella storia dei 101» — e il rimando è al fuoco amico contro la candidatura di Prodi al Colle — «mi sento come circondata da incappucciati». Incappucciati che neanche i telefonini riuscirono a smascherare. Visto che, di fronte ad alcune foto di schede con la scritta «Prodi», la prodiana Sandra Zampa insinuò che lo scatto era uno solo, fatto circolare dai traditori a mo’ di prova a discarico.
Spiare il voto di un vicino di banco, giura l’ex senatore del Pd Stefano Ceccanti, «è impossibile. Si vota infilando la mano in una piccola buca». Una buca in cui ci sono tre tasti. A sinistra c’è «astenuto», al centro «favorevole», a destra «contrario». Il polso non tradirà mai quello che il dito farà scegliendo uno dei tre tasti. Fotografarsi la mano con il telefonino, zoomando verso la buca?. «Oddio, aspetti. Forse... Ma no, no, non si vedrebbe comunque», dice il socialista Buemi. «Però», è qui torna a parlare Gasparri, «i grillini potrebbero inventarsi qualche microchip... Non dimentichiamoci che oggi ci sono Facebook e Twitter». C’erano anche quando nel giugno 2012, Palazzo Madama votò sull’arresto di Luigi Lusi. «Il voto segreto mi salverà», disse il tesoriere della Margherita alla vigilia. Qualche ora dopo sarebbe stato in galera, condannato dai 155 sì compatti del suo partito. Decisamente più cauto era stato il suo collega di sventura Sergio De Gregorio del Pdl, oggi principale accusatore di Berlusconi nell’inchiesta sulla compravendita di parlamentari, che allora fu salvato dai 169 voti contrari alle manette.
Diversa la storia alla Camera. Dove antiche malelingue tramandano quell’ordine di scuderia impartito dal berlusconiano Antonio Leone nell’ottobre del 2005, all’epoca del voto sul Porcellum. «Pensate al dito nel quale avete messo l’anello il giorno in cui vi siete sposati». Il dito dell’amore eterno — e cioè l’anulare — era quello che consentiva a tutti i colleghi di far capire come si votava. Se infilato in un certo modo poteva portare in quel caso solo all’opzione scelta dai berlusconiani. In quel giorno di otto anni fa, Berlusconi rimase alla Camera per dieci ore filate, a controllare che i suoi votassero con l’anulare. «È qui per impedirvi di votare liberamente», urlò l’allora capogruppo dei Ds Luciano Violante. Parole inutili visto che il Porcellum, grazie agli anulari berlusconiani, prese il largo. E visto che chi di dito ferisce di dito finisce per perire, ecco che l’anno scorso, per rendere palese il voto sull’arresto del berlusconiano Alfonso Papa, i deputati del Pd escogitarono il trucchetto di votare con l’indice della mano sinistra. Che può portare solo al tasto «sì». E dire che, anni prima, il leghista Calderoli aveva provato a seminare zizzania verso i piani alti: «Il voto segreto si fa con le macchine. E dietro le macchine ci sono gli uomini dei servizi informatici delle Camere...». E prima che esistesse il voto elettronico? «Rifiuto di consacrare questo strumento. Da un lato tende a incoraggiare i deputati meno vigorosi nell’affermazione delle loro idee...», disse nella seduta dell’Assemblea costituente del 14 ottobre 1947 il giovane democristiano Aldo Moro, parlando contro il «voto segreto». Una tesi che probabilmente, nel 2013, non convince del tutto il senatore Domenico Scilipoti, del Pdl. «Palese o segreto, è la stessa cosa. Basta avere il coraggio delle proprie idee. Lei mi vuole chiedere se su Berlusconi avranno la meglio l’odio e il pregiudizio oppure la lealtà di chi s’è letto le carte del processo e della giunta?». Pausa. Risposta. «Ecco, questo io proprio non lo so».

Repubblica 15.9.13
È allarme iscritti, la metà del 2012 “Giù per larghe intese e 101 anti-Prodi”
Crollo da 500 a 250mila. La segreteria: recupero in autunno
di Silvia Bignami e Simona Poli


FIRENZE — Dimezzati. Rispetto al 2012 gli iscritti del Pd che finora hanno rinnovato la tessera sono 250 mila mentre alla fine dello scorso anno superavano il mezzo milione. La tendenza non è omogenea, in Emilia le adesioni toccano il 70 per cento, in Piemonte e Liguria il 60, in Toscana, Veneto e Lombardia sfiorano il 50, in Sardegna arrivano al 40mentre dalle regioni del Sud ancora non sono neppure stati trasmessi i dati, visto che la campagna per il tesseramento sta partendo solo in questi giorni, in grandissimo ritardo rispetto al Centro-Nord. Sulla carta geografica del Pd, già piena di ombre, spicca la voragine di Roma, dove appena il 30 per cento dei quindicimila iscritti ha confermato l’adesione.
Numeri che indicano una disaffezione, che sarà difficile da recuperare. E invece la lettura del dato fornita dal vertice del Pd è tutt’altro che negativa, anzi. «Ora si apre la fase dei congressi, la gente correrà nei circoli a rinnovare la tessera, gli anni congressuali sono da sempre quelli in cui facciamo il boom degli iscritti», sostiene senza esitazioni Tore Corona, responsabile nazionale del tesseramento e dell’anagrafe, l’uomo a cui il capo dell’organizzazione Davide Zoggia ha affidato il compito di attaccarsi al telefono senza sosta per dare la sveglia ai segretari regionali e provinciali per riattivare la macchina del consenso appesantita dalle ruggini estive. «Tradizionalmente il picco delle iscrizioni è tra settembre e novembre», spiega Corona, «quindi nessuna preoccupazione. Le tessere sono arrivate nei circoli con un ritardo di mesi rispetto alla norma, tutto è andato lento a causa delle elezioni politiche e dopo, a marzo, il contesto era abbastanza depresso ». Tra i 101 franchi tiratori di Prodi e il governo delle larghe intese, insomma, l’entusiasmo nei confronti del Pd si sarebbe parecchio raffreddato.
In Toscana (dove solo 25mila delle 58mila tessere sono al momento confermate) il segretario Ivan Ferrucci promuove due giorni di campagna per il tesseramento, con banchetti per le iscrizioni e circoli aperti non stop. I prezzi sono invariati, 15 euro per il Pd e 5 per iscriversi ai Giovani Democratici. Da qualche giorno è anche partita la novità del tesseramento on line ma qui le cifre sono più alte: «Proponiamo un «pacchetto» che include l’abbonamento alle edizioni digitali di Europa, Unità, Left e Tam Tam», dice Corona, «il costo complessivo è di 50 euro (25 per chi ha meno di 30 anni) e abbiamo già ricevuto duemila richieste».
Segna un calo anche l’Emilia, compresa la federazione di Bologna, sulla carta una delle più forti d’Italia. Ad agosto nell’intera provincia il tesseramento è arrivato al 61%, 14.058 tessere contro le circa 23mila del 2012. Dalla sede Pd di Bologna, già arrivata all’89 per cento di conferme, il segretario Raffaele Donini è ottimista ma è difficile non notare come la tessera di Romano Prodi sia una tra le più illustri a mancare quest’anno all’appello. L’esodo però non comincia adesso, basti pensare che nel 2009, l’anno del congresso che incoronò Bersani, gli iscritti della federazione erano 35mila, circa 12mila più del 2012. E il confronto diventa impietoso se si va ancora più indietro: ai circa 65mila iscritti dell’era Pds, fino ai 120mila iscritti del Pci a Bologna. Le cose vanno un poco meglio a livello regionale: «Siamo a circa 56mila iscritti e partivamo da 82mila», spiega il segretario Stefano Bonaccini, ex bersaniano di ferro oggi vicino a Renzi.
Torino ha rinnovato il 60 percento delle 12.500 tessere e in Piemonte la quota 2012 da raggiungere è di 19.835 iscritti. «Siamo partiti tardi», dice il segretario regionale Michele Paolino, «con tutto quello che è accaduto, il tesseramento non è stato tra le priorità». Più ottimisti in Liguria e a Genova (oltre il 60% di riconferme), dove il Pd trae beneficio dalle oltre 500mila presenze della festa organizzata al Porto antico: tanto positiva che si sta pensando di mantenere Genova come sede fissa della kermesse nazionale. Il sud è il fanalino di coda: «In Sicilia abbiamo dei tempi diversi ma siamo certi di superare i 37mila iscritti del 2012», dice il segretario Giuseppe Lupo, franceschiniano. Enzo Amendola in Campania, dove le tessere erano 41mila, ammette: «Trovarsi in coalizione col Pdl non ha aiutato. Molti dei nostri aspettano di capire quali scelte farà il Pd sulla decadenza di Berlusconi e sul congresso». Scadenze vicine ormai, che potrebbero fare la differenza.

l’Unità 15.9.13
Pd, Bersani: «Ecco perchè scelgo Cuperlo»
di Vladimiro Frulletti

qui
 

il Fatto 15.9.13
Amato e la vergogna degli ex socialisti
di  Giorgio Padovani, partigiano Brigata Garibaldi


Mentre si dà la caccia a Berlusconi Amato è nominato giudice della Corte Costituzionale. Ricordo che quando scoppiò il caso Giulietto Chiesa, il compagno Amato, allora vice segretario del Psi, venne a Grosseto a presiedere una riunione dei quadri locali del partito. Ero fra questi e decisi di andare. Subito si sforzò di dimostrare che, come sosteneva Craxi, il finanziamento ai partiti era ormai una necessità comune e che, in sostanza, non c’era da meravigliarsi. Insomma, se corruzione c’era, era giustificata dal costo della politica, e comunque lui era all’oscuro di qualsiasi finanziamento abusivo. Gli domandai come potesse sostenere, lui che era il più vicino a Craxi, di ignorare da dove provenissero i soldi. Gli dissi anche, fra i continui applausi dei presenti, che noi della base non dovevamo essere costretti a vergognarci di chiamarci socialisti e che tutta la classe dirigente avrebbe dovuto dimettersi dopo lo scandalo di Milano. Risultato fu che il partito sparì dalla scena politica. Craxi ricevette le monetine, mentre il buon Amato, continuò la sua carriera di deputato, poi primo ministro, costituente europeo, saggio quirinalizio ed ora giudice Costituzionale e certamente prossimo presidente della Consulta. Se un pregiudicato come Berlusconi può rimanere alla guida di un partito di governo, un fedele compagno di un altro pregiudicato diverrà custode di quella Costituzione per la quale io da giovane ho lottato e sperato.

il Fatto 15.9.13
Banchetti in crisi
Referendum, firme promesse: 4 milioni Ma chi le ha viste?
L’appoggio del Cavaliere non dà i frutti sperati
I Radicali: “Aspettiamo di contare”
di Sara Nicoli


Avevano promesso “almeno un milione entro la fine di settembre 2013 – è stata la parola di Renato Brunetta il 19 agosto scorso – perché la giustizia italiana va riformata da cima a fondo”. E Berlusconi era addirittura arrivato a parlare di 4 milioni. Qualcosa, però, sembra essersi un po’ inceppato nell’entusiasmo del popolo pidiellino all’indomani della scelta di Silvio Berlusconi di firmare tutti e 12 i referendum radicali promettendo di mobilitare il suo intero elettorato per raggiungere lo scopo. Mancano, ormai, poco più di 15 giorni al fatidico 30 settembre, quando si chiuderà il tempo per la raccolta e nessuno sa bene quanto e – soprattutto – come sta andando la raccolta delle firme nei banchi del Pdl. “Recentemente – racconta Maurizio Turco, tesoriere dei Radicali – dal Pdl hanno richiesto nuovi moduli per le firme, il che dovrebbe essere un dato positivo, ma in questi casi, finché non si contano le firme non si può sapere. Mi risulta che, in alcune parti d’Italia, il Pdl è partito in ritardo, su alcuni quesiti ho saputo che hanno raccolto 150mila firme ciascuno, ma sono un po’ numeri a caso. Ripeto, fino a quando non si contano, non possiamo dire nulla”. I moduli vengono raccolti nel garage di via San Silverio a Roma, è lì che verranno accatastati gli scatoloni con le firme per i controlli: “Al momento – sostiene Rita Bernardini proprio dal garage - è difficile capire a che punto stiamo; gli ultimi giorni sono sempre importanti, possiamo solo sperare che se non l’hanno fatto fino ad oggi, almeno mobilitino il loro popolo, come promesso, all’ultimo tuffo; comunque, mi chiedo, che fine ha fatto anche la sinistra? Qui sono spariti tutti, dal Pd a Sel passando per i socialisti, e anche loro avevano detto tutti che avrebbero dato una mano…”. Il Pdl, però, con Berlusconi, si è esposto veramente tanto. E se, alla fine, all’appello mancheranno quei 4 milioni di firme promesse almeno sui 6 referendum sulla giustizia, che premevano più di altri al Cavaliere, vorrà dire che anche l’abbraccio con Pannella nel nome di una giustizia più giusta sarà stata solo l’ennesimo spot di Silvio a fini elettorali. Ovviamente, i suoi.

il Fatto 15.9.13
Soldi pubblici
Bilancio M5S, cercasi trasparenza
Affitti e consulenze: voci generiche senza dettagli


Un cruccio se lo sono tolti. Volevano sapere quanto guadagnasse Claudio Messora, il loro capo della comunicazione al Senato e lui, ieri, ha pubblicato on line la sua busta paga: 6.099 euro lordi, comprensivi di rimborso “ad personam variabile” per le spese di vitto a Roma. Eppure, la diffusione del bilancio dei primi quattro mesi di attività dei gruppi parlamentari ha creato nuovi grattacapi tra gli eletti del Movimento. Troppo generiche le voci che parlano di consulenze e di locazioni. Mentre senatori e deputati, la settimana prossima, dovranno pubblicare il resoconto dettagliato delle spese sostenute con la diaria (non basta la cifra totale del bonifico per giustificare le uscite), qui si parla di contratti ed affitti senza specificare né per chi né per cosa.
Spulciando le 56 voci di spesa del bilancio (consultabile on line) effettivamente non si hanno le idee molto chiare. È vero che i Cinque Stelle hanno rinunciato a 42 milioni di euro di finanziamento e restituito un milione e mezzo solo nei primi tre mesi di legislatura, ma la trasparenza è a costo zero. E soprattutto è una delle “colonne del Partenone” che lo stesso fondatore del Movimento, una settimana fa, ha illustrato agli imprenditori del Forum di Cernobbio. Eppure il bilancio pubblicato ieri – dopo la segnalazione de l'Espresso – è piuttosto generico. Risponde ai requisiti richiesti dalla legge, è vero. Però da M5S ci si poteva aspettare qualcosa di più: per esempio a chi sono destinati i tre immobili presi in affitto dal gruppo. O chi siano e cosa abbiano fatto i consulenti retribuiti (domanda: c’è anche la Casaleggio associati?). Oppure, vista la campagna sui consumi “low cost”, perché si siano spesi quasi 12 mila euro in tre mesi per la telefonia mobile.

Corriere 15.9.13
Quale destra dopo il berlusconismo?
di Paolo Franchi


Tra i tanti motivi addotti per invocare il fatidico passo indietro di Silvio Berlusconi, ce n'è uno per così dire sistemico, che investe cioè, al di là dell'emergenza, il futuro della democrazia italiana. Solo se Berlusconi si farà da parte, si dice, potrà finalmente cominciare a prendere corpo la riorganizzazione politica e culturale di tutta quella (vastissima) parte del Paese che per mille e un motivo è sempre stata e sempre sarà avversa alla sinistra. Dei moderati, insomma. O per essere più precisi, visto che di moderati ce ne sono sotto ogni cielo politico, della destra. Che finalmente potrebbe prendere quelle sembianze «di stampo europeo» che, da noi, non ha mai avuto. Emancipandosi non solo da un capo nel bene e nel male ingombrante come Berlusconi, ma dall'irriducibile anomalia rispetto all'Europa cui la sua leadership l'ha dannata.
Si tratta, naturalmente, d'un ragionamento virtuoso: senza una destra e una sinistra di «stampo europeo», ogni discorso sulla democrazia dell'alternanza lascia il tempo che trova. Ma si tratta pure d'un ragionamento che si presta a molteplici obiezioni, alcune delle quali hanno a che fare con la realtà più che con i vaticini. La più forte, e diffusa, si riassume in un'affermazione lapidaria: la destra italiana non è in grado di elaborare il lutto della caduta di Berlusconi, perché senza Berlusconi e il cosiddetto berlusconismo semplicemente non esiste. E non esprime né un leader che la possa guidare alla riscossa, né un'ideologia che possa cementarne le anime diverse e contraddittorie. Lasciamo pure da parte le rappresentazioni ornitologiche, i falchi e le colombe. Smettiamo per un po' di inseguire giorno per giorno, ora per ora, le (comprensibili) incertezze di Berlusconi, pressato alternativamente da chi gli prospetta un'estrema resistenza in qualche ridotto della Valtellina e chi gli suggerisce cangianti tattiche per ridurre, nei limiti (molto stretti) del possibile, il danno. E non diamo nemmeno per scontato quel che pure somiglia da vicino a un dato di fatto, e cioè che il Pdl (o, fa lo stesso, una risorgente Forza Italia) sia un partito personale, anzi, proprietario, destinato, verrebbe da dire per sua natura, a implodere al momento della caduta (ormai ineluttabile) del padre fondatore. Ma una volta fatti questi esercizi, e pure altri consimili, resterebbero intatte, se non le tesi che negano senz'appello un futuro senza Berlusconi alla destra italiana, quanto meno alcune domande che fin qui in certi casi non hanno trovato risposta, in altri non sono nemmeno state apertamente formulate.
Anzitutto. Esiste in Italia, almeno in potenza, una destra post berlusconiana politicamente consistente, che si muova senza incertezze sul terreno liberaldemocratico, e nutra una cultura, dei legami e delle ambizioni politiche europee? E se questa destra esiste, perché lungo tutta la storia repubblicana non s'è mai espressa autonomamente, e nella Prima Repubblica s'è affidata soprattutto a un partito di centro che guardava a sinistra come la Dc, nella (cosiddetta) Seconda al populismo e al plebiscitarismo di Berlusconi? La risposta alla prima domanda è, temo, negativa, e non basta a renderla positiva il fatto che la maggioranza degli italiani sia (quasi) sempre stata contraria a qualunque sinistra, e con ogni probabilità lo sia tuttora: essere contro qualcosa (quante volte abbiamo fatto questo discorso a proposito dell'antiberlusconismo della sinistra?) non basta a definire un'identità. Le risposte alla seconda domanda, invece, le aspettiamo naturalmente in primo luogo dagli storici: nel nostro piccolo, ci limitiamo a rilevare che, se le cose sono andate così, non dev'essere stato solo per via del destino cinico e baro. Infine, un piccolo ricordo che riguarda il sottoscritto e il Corriere. Vent'anni fa, la prima manifestazione pubblica di Forza Italia, alla Fiera di Roma, fu salutata dalla maggior parte dei commentatori, e pure da molti cronisti, soprattutto con lazzi e frizzi: il partito di plastica, l'uomo delle televisioni, l'inno… Ai miei occhi le cose stavano diversamente. Pensavo che per la prima volta, per quanto la cosa potesse dispiacerci, avevamo visto di quale pasta fosse fatta una destra emancipata dagli antichi ceppi, con ogni probabilità maggioritaria: si apriva un ciclo. Lo scrissi. Indro Montanelli se ne dispiacque pubblicamente, seppure in spirito di amicizia, nell'editoriale del giorno dopo. Non perché pensasse che le cose stessero molto diversamente, annotò, ma perché quella destra era agli antipodi della sua. Adesso che quel ciclo ventennale si sta chiudendo, e non certo perché la sinistra sia riuscita a battere sul campo Berlusconi, c'è solo da osservare che la destra cara al grande Indro continua, purtroppo per tutti, sinistra compresa, a non esserci. E magari da riflettere un po' più a fondo sul perché e sul percome.

Corriere 15.9.13
Il Cie di Gradisca
«Noi, uomini-impronta digitale»
Rinchiusi fino a un anno e mezzo perché per lo Stato non hanno un nome
di Giovanni Bianconi


GRADISCA D'ISONZO — Lui dice di chiamarsi Tawfik Assad, ma appena lo vedi pensi a Fabrizio Corona per via dei tatuaggi, i muscoli tesi, i capelli curati, orecchini e braccialetti, gli occhiali a specchio inforcati a dispetto delle nuvole. Ha 25 anni, viene dal Marocco. È un ex detenuto che ha scontato la pena «per rapina e lesioni», assicura con l'aria di voler sminuire il reato, ma forse era qualcosa di più pesante. Dopo la scarcerazione ha attraversato un paio di Centri di identificazione ed espulsione, poi è tornato libero e ha preso la strada dell'Olanda, ma in Francia l'hanno fermato e rispedito in Italia.
Da due mesi Tawfik è rinchiuso nel Cie di Gradisca, dove in agosto è stato un protagonista della rivolta che ha portato all'occupazione dei tetti, ingenti danneggiamenti, intervento massiccio delle forze dell'ordine con manganelli e lacrimogeni, dodici evasioni (sebbene tecnicamente non possano definirsi tali, giacché gli «ospiti» non sono detenuti) e un aspirante fuggiasco in coma dopo un volo da qualche metro d'altezza. È stata quella faccia da Corona a condurre la trattativa con la deputata di Sel Serena Pellegrino, per far cessare la protesta. I ribelli hanno ottenuto la riconsegna dei telefonini sottratti all'ingresso, nonostante non fossero vietati da alcuna norma, e la promessa di riapertura della mensa e del campo di calcio. Ma adesso Tawfik chiede altro: «Io voglio uscire e tornare in Marocco dalla mia famiglia», dice alla delegazione della commissione Diritti umani del Senato, guidata da Luigi Manconi, impegnata a verificare le condizioni di vita nei sette Cie attualmente in funzione, dove complessivamente sono custodite 550 persone. Il problema è che il Marocco sembra non volerne sapere di riprendersi questo ex galeotto, né risponde alle richieste delle autorità italiane. «Se mi fanno uscire vado io a parlare col console», insiste Tawfik, e si può immaginare che il console non sia ansioso di incontrarlo. Così il simil-Corona resta uno degli uomini-impronta chiusi qui dentro, riconosciuti e riconoscibili solo dalle impronte digitali, al pari degli altri 43 che vivono da prigionieri senza esserlo. Si tratta di condannati trasferiti direttamente dalla cella a pena esaurita, in attesa dell'identificazione e del rimpatrio (volontario o forzoso che sia) dovuto alla pericolosità sociale o altri motivi; oppure clandestini arrivati dalla strada, dopo un controllo di polizia che ha svelato impronte e precedenti penali, di solito droga o reati contro il patrimonio: l'unico dato certo, finché non si accertano nome e provenienza.
«Io sono stato fermato a Brescia senza documenti — racconta Jallo, dalla pelle color nero Senegal — dopo sei anni che stavo in Italia». Dice di avere una sorella e un fratello che vivono regolarmente a Parma e Brescia, ma chissà. E chissà se è vera la storia riferita da Morad Samud, tunisino che s'è visto negare la richiesta di asilo. Sostiene di essere approdato a Pantelleria, unico superstite di un equipaggio di quattro: «Gli altri tre sono annegati, nel mio Paese mi accusano di essere lo scafista di quel viaggio e dunque non posso rientrare».
Abdel Aziz Nazik è un sedicente algerino di quarant'anni che vive in Italia da diciotto, clandestino. Dal Cie di Torino è stato trasferito qui, oltre un anno fa. Ufficialmente è un senza patria: «L'Algeria ha risposto che non gli risulto, e così Marocco e Tunisia». Conseguenza, non si sa dove rispedirlo. Tra qualche mese — scaduto l'anno e mezzo che la legge prevede come limite massimo al trattenimento per gli uomini-impronta — tornerà libero con l'ordine di lasciare il Paese. Che verosimilmente non rispetterà, in attesa del fermo successivo. Un presunto connazionale di Nazik aspetta da diciassette mesi, per lui le porte si apriranno prima. A meno che non riaccada quel che è successo quando il Marocco ha accettato di riprendersi un «trattenuto» il giorno prima che scoccasse il diciottesimo mese.
La scarsa o nulla collaborazione delle autorità consolari — soprattutto dei Paesi del Maghreb, da cui proviene la maggioranza dei trattenuti — è uno dei principali ostacoli segnalati all'unisono da questore, prefetto e responsabili del Cie. Un altro è la mancata imposizione dell'identificazione delle persone in carcere. Nelle nostre prigioni gli uomini-impronta trascorrono la detenzione con nome e nazionalità virtuali, e solo quando escono comincia la trafila burocratica dell'identificazione. Di qui i trattenimenti che, secondo le statistiche di Gradisca, nel 60 per cento dei casi durano meno di sei mesi. Gli altri, quasi tutti di provenienza maghrebina, restano in media fino a un anno, qualcuno di più. Vivono in quella che, a vederla, è una galera a tutti gli effetti: camerate da otto letti e gabinetti in condizioni igieniche appena accettabili (ma dipende dagli standard di ognuno), protette da cancelli che adesso sono chiusi solo di notte mentre fino a poco tempo fa restavano serrati anche di giorno, con turni di apertura di 45 minuti ogni dodici ore, prestabiliti per ogni stanza. Ora invece, da mattina a sera, hanno libera circolazione nelle cosiddette «vasche», cortili recintati da sbarre e chiusi sopra le teste da reti metalliche, come per i mafiosi rinchiusi al «41 bis». Gabbie.
Tutti sostengono che nelle carceri vere si sta meglio, «lì il cibo è buono, qui fa schifo». Il tunisino Aymen Zini rimpiange la playstation del penitenziario svizzero dove era detenuto prima di essere mandato in Italia, perché qui gli avevano preso le prime impronte digitali. Mohamed Zeroki, algerino quasi cinquantenne, ha portato il suo materasso fuori dalla camera coi graffiti inneggianti Allah e contro gli «sbirri», dorme lì per via dell'asma. È stato condannato per «tentato furto», afferma esibendo il provvedimento dei giudici di Bologna che hanno annullato l'ordine di espulsione perché nel suo Paese «è praticata la tortura, come indicato da affidabili organizzazioni internazionali». Scontata la pena è approdato qui: «Dicono che per restare devo trovare un lavoro, ma se mi tengono qui come lo cerco?».
Siccome al momento la mensa è inagibile, come il campo sportivo, i pasti vengono distribuiti nelle camerate, dove vecchi televisori trasmettono immagini e parole inutili. Non c'è niente da fare, si aspetta solo che passi il tempo, in attesa di nulla. Un limbo blindato. In infermeria la dottoressa di turno spiega che quasi tutti gli «ospiti» chiedono psicofarmaci pesanti, che lei cerca di somministrare con parsimonia, e ogni tanto le portano qualcuno che s'è tagliato o ha ingoiato chissà che. «Atti di autolesionismo tipici dei luoghi di trattenimento coatto — dice il senatore Manconi, da sempre attento ai diritti dei reclusi —. In queste condizioni il Cie di Gradisca va chiuso». Il 20 agosto la deputata Pellegrino ha presentato un'interpellanza per chiedere ai ministri dell'Interno e dell'Integrazione «se non si intenda provvedere a una revisione della legge sull'immigrazione», nonché «verificare con regolarità che nel Cie di Gradisca vengano rispettati i livelli minimi di dignità umana e di rispetto della persona imposti dalla legge».

Corriere 15.9.13
Ragazzi «bene» contro poveri La mega rissa organizzata sul web
Scambio d'insulti sul sito dei bulli, poi si picchiano in 250
di Francesco Alberti


BOLOGNA — L'odio, la rivalità e gli sfottò tra le due bande sono lievitati sul web, giorno dopo giorno, in un crescendo divenuto sempre più valanga fino a trasformarsi, stavolta nella realtà, in una sorta di chiamata alle armi finita a pugni, calci e sprangate. Una bolla di livore cresciuta dietro il presunto anonimato di un social network dalla fama controversa: «Ask.fm», accusato da molti di alimentare il cyberbullismo e finito nella bufera nell'agosto scorso dopo il suicidio in Inghilterra di Hannah Smith, 14 anni, bersaglio sul sito di insulti pesantissimi.
Una bolla esplosa nella placida realtà di un venerdì bolognese quando, all'improvviso, come usciti dal nulla, circa 250 ragazzi, tutti tra i 14 e i 18 anni, hanno trasformato i viali alberati, le aiuole e il lago con i cigni dei Giardini Margherita, polmone verde a ridosso del centro medievale, in un mega ring: botte, inseguimenti, pugni, calci, urla. «Una rissa così non si vedeva da anni» è stato il commento, attonito, di alcuni testimoni. E la stessa Procura dei minori ha riconosciuto «l'abnormità del numero delle persone coinvolte».
Ci sono volute 8 pattuglie dei carabinieri per riportare la situazione alla calma. Non ci sono feriti gravi, solo qualche contuso. Molti ragazzi si sono dileguati. Altri sono stati identificati. Ma le inchieste (due: una della Procura della Repubblica per rissa aggravata e istigazione a delinquere via web, l'altra della Procura dei minori) sono solo all'inizio e puntano ad individuare tutti i partecipanti, tra i quali non è escluso ci fosse anche qualche maggiorenne.
A fare da innesco in questo mix tra virtuale e reale sarebbe stata, ma gli inquirenti sono cauti («È una lettura che va approfondita» ha precisato il capo della Procura dei minori, Ugo Pastore), una sorta di «guerra del censo» tra ragazzi benestanti e ragazzi (perlopiù immigrati) meno fortunati. I «Bolobene» contro i «Bolofeccia», li chiamano così ed esistono da sempre. Due universi adolescenziali divisi dallo stipendio e dal ruolo sociale dei genitori, dai quartieri in cui vivono e soprattutto dal tipo di scuola: i primi in gran parte liceali del centro, i secondi iscritti in istituti tecnici della periferia.
Una rivalità che sul web ha trovato terreno fertile. A rissa compiuta, agli investigatori è bastato un clic su «Ask.fm» per trovarsi immersi in un clima di guerra. Più di 800 messaggi (tutti anonimi), molti di questo tenore: «È vero che domani vai ai giardini con il lanciafiamme per bruciare qualche bolofeccia?», «Voglio un mega rissone!!», «Dobbiamo portare le lame?». Aspettando le indagini, sul banco degli imputati finisce inevitabilmente un certo uso del web e pure il ruolo delle famiglie. Se per «Ask.fm», social network nato in Lettonia, 60 milioni di utenti, questa è l'ennesima tegola dopo il caso di Hannah e altri episodi di autolesionismo da parte di adolescenti che frequentavano il sito, «l'aspetto più importante — ha detto il capo della Procura dei minori, Ugo Pastore — è capire se alle spalle dei ragazzi ci sono famiglie idonee o no». Perché, come ha aggiunto il Garante della privacy, Antonello Soro, «i nuovi strumenti della rete, così popolari tra i giovani, hanno un potenziale offensivo dal quale non tutti sono capaci di difendersi».

Corriere 15.9.13
I piccoli carpentieri del web al servizio della censura cinese
Sottopagati, lavorano 12 ore al giorno per controllare la Rete
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Sono laureati, età media 25 anni, lavorano in un palazzo moderno, seduti davanti a computer con grandi schermi, allineati in stanze con le pareti di vetro. Stretti, perché sono in tanti. Fanno parte dell’esercito dei tecnici della censura che ogni giorno controlla l’attività sul web di circa 500 milioni di cinesi iscritti a Sina Weibo, la versione locale di Twitter.
E per la prima volta si raccontano (sotto condizione di anonimato): lamentano di essere sfruttati con turni da 12 ore e sottopagati, perché guadagnano 3 mila yuan al mese, meno di 400 euro, «quanto un carpentiere che lavora in un cantiere a tirar su grattacieli». Sono praticamente tutti maschi, perché la censura in Cina è vigile 24 ore su 24, bisogna fare i turni di notte e le ragazze stanno alla larga. Nonostante i mugugni di questi Piccoli Fratelli al servizio del Grande Fratello di Pechino, il sistema ha una velocità di repressione sorprendente: si calcola che ogni guardiano della Rete «processi» tremila messaggi l’ora. Il sistema li aiuta segnalando subito le parole vietate o sensibili se associate ad altre: niente Tienanmen o Tibet, tanto per cominciare e nessuna critica destabilizzante alla linea del partito e del governo.
Circa il 5 per cento delle cancellazioni di post sgraditi al potere centrale avviene entro 8 minuti dalla pubblicazione; entro mezz’ora viene fatto scomparire un altro 30%. E quasi il 90% del materiale vietato viene spazzato via entro le 24 ore.
I Piccoli Fratelli che si sentono trattati da carpentieri del Web lavorano a Tianjin, mezz’ora di treno ad alta velocità da Pechino, pagati (poco) da Sina Weibo per eseguire gli ordini della censura di Stato. Hanno parlato delle loro frustrazioni con l’agenzia Reuters . «È un lavoro stressante e senza prospettive di carriera», «all’inizio ero combattuto, poi ci ho fatto l’abitudine e sono diventato insensibile». Ma c’è anche chi trova una giustificazione nobile: «Il nostro lavoro evita che Weibo venga chiuso dalle autorità, quindi noi diamo alla gente la possibilità di continuare ad esprimersi, certo, non è una situazione ideale, ma meglio di niente», dice un Piccolo Fratello.
Sina Weibo impiega almeno 150 controllori privati. Ma il partito comunista (che è lo Stato) dispone di un apparato sterminato: l’ufficio propaganda di Pechino ha 60 mila dipendenti ufficiali e altri due milioni di collaboratori e simpatizzanti. Il loro capo è il signor Lu Wei, direttore dell’Ufficio statale Informazione Internet: questa settimana ha detto che «la libertà significa ordine, la libertà senza ordine non esiste». Per garantire questo ordine, lunedì è entrata in vigore una nuova legge per la repressione delle «voci» diffuse sulla Rete. La pena per chi usa Sina Weibo «in modo irresponsabile» è commisurata al seguito dell’autore: se il messaggio è letto almeno 5 mila volte o è ritwittato 500 volte si rischiano tre anni di carcere. Un monito ai microblogger di successo.
La stretta della censura sulle «voci» tradisce la preoccupazione di Pechino: che prima ha incoraggiato i cittadini a denunciare online episodi di corruzione e cattiva amministrazione (perché è sempre meglio protestare nella piazza virtuale piuttosto che scendere davvero nelle strade). Poi è intervenuta di fronte alla valanga delle accuse sul Web (tra le quali naturalmente ci sono anche casi di diffamazione o ricatti).
Nelle ultime settimane decine di nomi famosi su Sina Weibo sono finiti in carcere. Il più celebre è Xue Manzi, un imprenditore con una dozzina di milioni di follower: per lui l’accusa poco credibile è di aver frequentato prostitute. Giovedì è toccata a Dong Rubin, noto per aver denunciato la morte di un detenuto che secondo le autorità del carcere si era rotto la testa «mentre giocava a nascondino con i compagni di cella». Venerdì un altro arresto eccellente: Wang Gongquan, milionario e membro del Movimento dei Nuovi Cittadini. Prima gli hanno chiuso l’account Weibo, poi hanno mandato venti poliziotti e lo hanno portato via per «disturbo dell’ordine pubblico».
La campagna per stroncare le «voci» sui social network è stata decisa al vertice: il presidente Xi Jinping ha detto al partito di mobilitare la macchina della propaganda, rendendola «efficiente come un esercito» per «conquistare il terreno dei new media».

Corriere 15.9.13
La lunga marcia verso il consumismo
di Danilo Taino


Non rilassatevi. Il mondo è ancora sul punto di cambiare. Nel Trade and Development Report 2013 pubblicato giovedì scorso dall'Unctad — l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa appunto di commercio e sviluppo — ci sono alcune statistiche sorprendenti che indicano quanto le economie del pianeta siano cambiate negli scorsi decenni e quanto siano destinate a cambiare nei prossimi. Una tabella del rapporto Unctad dà l'idea della forza dirompente della crescita cinese, un fenomeno che ha sconvolto equilibri antichi. In soli dieci anni, tra il 2002 e il 2012, il consumo di alluminio della Cina è passato dal 16,2% di quello mondiale al 44,8%. L'utilizzo di rame dal 18,2 al 43,3%. Quello del nichel dal 7,1 al 47,7%. Quello dei semi di soia dal 18,5 al 29,5%. Nel 2002, il Paese bruciava il 6,8% del petrolio usato nel mondo e nel 2012 l'11,7%. L'unico prodotto di base la cui quota è calata è il riso, cibo dei poveri: dal 33,4 al 30,8% dei consumi mondiali. Di conseguenza, le economie sviluppate hanno ridotto la loro quota di utilizzo dal 60,2 al 32,3% nel caso dell'alluminio, dal 52,7 al 29,8% nel rame, dal 64,7 al 34,1% nel nichel e via dicendo, fino a una quota di petrolio pari al 44,7% del totale mondiale, in calo rispetto al 55,2 del 2002. Lo spostamento della manifattura industriale verso la Cina, iniziato timidamente negli anni Ottanta, nell'ultimo decennio è insomma diventato portentoso e ha trasformato il mondo. Il fatto è che ora ha toccato il limite oltre il quale non può andare e la dirigenza di Pechino ha deciso di cambiare modello di sviluppo: meno esportazioni, più consumi interni. È assolutamente necessario. Per molti motivi ma anche per uno fotografato sempre dal rapporto dell'Unctad. Negli ultimi tre decenni, mentre la Cina diventava la fabbrica del mondo a basso costo, il peso del monte salari mondiale è diminuito drasticamente. Nel 1980, i redditi da lavoro, quelli percepiti dalle famiglie per avere prodotto beni e servizi, erano superiori al 60% del Prodotto lordo mondiale: nel 2011 erano scesi al 54%, il resto essendo profitti e rendite (pensioni comprese). Nelle previsioni dell'Unctad, se non interverranno cambiamenti di modello, la quota globale del lavoro rispetto al Pil continuerà a diminuire, attorno al 52% nel 2030. Si tratta di un calo che per alcuni versi ha ridotto i costi di produzione, ma per un altro ha frenato la crescita della capacità di consumo e dunque della domanda. Ciò significa che i Paesi emergenti, Cina e India in testa, dovranno accelerare le politiche che favoriscono l'espansione della loro classe media che consuma, anche attraverso salari più alti — tendenza già in corso in Cina. Oggi, circa il 60% della popolazione degli Stati Uniti è classe media, il resto è sopra la fascia di reddito che qualifica un americano come middle class. Ma solo un 30% di cinesi, l'8% degli indiani e il 5% dei nigeriani possono essere considerati classe media secondo gli standard di ognuno dei Paesi. Per loro, d'ora in poi, conteranno più i frigoriferi dell'alluminio.

Repubblica 15.9.13
Se l’inconscio è made in Cina
di Luciana Sica


Dice molto della stoffa dell’autore, delle sue escursioni intellettuali nel segno di un rigore sempre coniugato all’originalità, quest’ultimo libro di Christopher Bollas pieno di suggestioni così diverse, di digressioni dal sapore spesso personale, che certo si presenta anche come una singolare ricognizione di natura letteraria e filosofica su La mente orientale (è China on the Mind il titolo originale).
Non è però un sinologo Bollas, che a dicembre festeggerà settant’anni, ma una delle teste più brillanti della psicoanalisi contemporanea, un battitore libero che mai si è lasciato chiudere nei recinti di una certa psicoanalisi autocompiaciuta e ripetitiva. La riflessione anche eccentrica sull’Oriente che interessa Bollas - e vistosamente lo coinvolge su un piano non solo intellettuale - si basa su un’ipotesi ardita, ma non azzardata, strettamente correlata alla tradizione psicoanalitica britannica da cui senz’altro l’autore deriva senza esserne rimasto prigioniero. Non a caso sono soprattutto due i grandi nomi che ricorrono nelle pagine di questo libro: Donald Winnicott e il suo geniale e controverso allievo Masud Khan.
La tesi di fondo di Bollas è che la psicoanalisi ha operato una integrazione inconscia tra la struttura della mente orientale e quella occidentale. Il silenzio intenso dell’“ordine materno”, quel “conosciuto non pensato” che rimanda a un Sé preedipico fondamentale per la psicoanalisi, rappresenta la stessa modalità orientale di essere e di relazionarsi, non basata sulla “autorappresentazione” del linguaggio, ma piuttosto sulla “autopresentazione”: sull’essere e sulla forma come modalità di comunicazione. Quell’“ordine materno”, per quanto rimosso a favore di un “ordine paterno” decisamente più affidato al mondo simbolico del linguaggio, è il regalo che l’Oriente ha fatto alla psicoanalisi, non inventata ma trovata da Freud. Soprattutto la poesia, dove la forma prevale sul contenuto, fa da sfondo alla tesi di Bollas secondo cui «il processo analitico ha una sua poetica della forma che si collega al modo di essere orientale».
Leggendo queste pagine e tentando di riassumerle senza tradire il pensiero di un autore che già negli anni Ottanta ha scritto libri folgoranti come L’ombra dell’oggetto e Forze del destino (usciti in Italia da Borla), si comprende anche come Bollas sia sempre stato allergico alle pigrizie culturali e alle ritualità politiche di un certo establishment. Non ha mai amato le istituzioni psicoanalitiche e naturalmente non ne è stato particolarmente riamato. Da noi ci sono analisti che lo conoscono e lo ammirano (come Vincenzo Bonaminio, che ha curato Il momento freudiano, Franco Angeli), ma il più delle volte Bollas viene citato qua e là, senza che gli venga riconosciuto il suo ruolo che è invece indiscutibilmente quello di un fuoriclasse.
Eppure è stato un analista a volte idolatrato come André Green, l’allievo di Lacan scomparso all’inizio dello scorso anno, a dire di Bollas: «È uno psicoanalista, ma non scrive come uno psicoanalista, cioè evita miracolosamente di essere noioso, pedante, dogmatico. Non è sufficiente dire che è umano perché la sua sensibilità non è solo commovente, ma riflessiva. Non solo la sua scrittura è vivace e brillante, è anche profonda. Le persone di cui scrive - le persone, non i pazienti - non solo sono come noi, ma sembrano quasi la nostra ombra...».
È vero: Bollas scrive in modo magnifico, a tratti può ricordare Hillman, e non a caso è anche l’autore di tre romanzi psicoanalitici di un certo successo: il terzo uscirà da noi all’inizio del prossimo anno con il titolo Scompiglio, da Antigone. Di tempo per scrivere ne avrà ancora Bollas, ora che vive prevalentemente in un casolare di campagna in California e anzi fa sapere con tutta tranquillità che ormai lui l’analisi la fa solo al telefono o via Skype. C’è chi se lo può permettere.
LA MENTE ORIENTALE Psicoanalisi e Cina di Christopher Bollas Cortina, pagg. 203, euro 14

il Fatto 15.9.13
Come una Spy Story
Intrigo siriano: le mosse di Putin, i dubbi di Obama
di Furio Colombo


Sembrava politica, all’inizio, la questione siriana, con i pesi e i contrappesi della responsabilità del leader e della moralità di un presidente “che non è stato eletto per la guerra” (parole sue) e che porta il peso di Premio Nobel per la pace. Sembrava politica, quando Barack Obama vedeva la necessità di un intervento, cercava di capire quale, esplorava il sostegno dei suoi cittadini, valutava i “sì” e i “no” dei suoi alleati tradizionali. E scrutava la Russia di Putin con lo sguardo ampio di chi per mestiere e vocazione (non della persona, del presidente) ha la responsabilità del mondo, scrutando il debutto del nuovo, unico concorrente, dopo la fine dell’impero sovietico. Era già abbastanza difficile la politica. Gli americani apparivano e appaiono riluttanti e in prevalenza(oltre il 60 per cento) contrari a un altro intervento militare americano nel mondo. Obama - come tutti gli esperti e i politologi americani - cerca di capire se si tratta di un mutamento di sentimenti verso la guerra dei suoi concittadini, o di un nuovo isolazionismo, o del-l’ansia di non perdere l’occasione di una vita un po’ migliore per tutti, proprio ora che negli Usa torna a dilatarsi il respiro economico. Il Congresso aveva dato, e sta dando, segni di opposizione, in parte perché i membri del Congresso sentono i messaggi contrari dei loro elettori, in parte per una resistenza tradizionale del potere legislativo, che non vuole cedere, senza ragioni di urgenza o pericolo per gli Usa, il potere di fare guerra al presidente. Anche il confronto-scontro con i media(giornali, televisioni e rete) stava dicendo al presidente, “non eletto per fare la guerra”, che si era creata intorno a lui una atmosfera mista di indifferenza, neo isolazionismo e contrarietà alla guerra sia di tipo strategico sia di sentimento morale. E tutto ciò stava trattenendo Obama su un difficile terreno di contraddizioni e di effetti incrociati che il linguaggio colloquiale americano descrive con l’espressione “damned if you do, damned if you don’t” (sbagli se lo fai, sbagli se non lo fai).
HO DETTO che tutto ciò sembrava politica, nella sua versione di intrico quasi senza uscita. Perché gli ingredienti erano due volte di natura morale (si può far finta di non vedere i bambini uccisi dal gas? Si possono usare, sia pure per tempi limitati e su obiettivi mirati, armi micidiali che puniscono i morti e la distruzione con altri morti e altra distruzione?), e due volte legate alla figura del presidente. Il comandante in capo deve prendersi la responsabilità di guidare rispondendo misura per misura al grande delitto. Il presidente “eletto per non fare la guerra” non può dimenticare la sua promessa di pace. Il G20 è sembrato stringere piuttosto che allentare il nodo delle mosse forzate, delle contrapposizioni inevitabili, del faccia a faccia del presidente di pace con la guerra. Invece è accaduta qualche altra cosa. E quello che sembrava un segmento delicato e difficilissimo di storia politica, ci appare adesso come la trama di un thriller. Infatti - si apprende con un po’ di ritardo non ancora spiegato - Putin ha lasciato sul tavolo una carta, con una mossa che sul momento nessuno sembrava avere notato, tranne l’altro personaggio primario, Obama. La proposta è di quelle che non si possono rifiutare: Assad consegna le armi chimiche, ispettori sicuri ( l’Onu?) le custodiscono sul posto, vengono gradatamente create condizioni per finire la guerra, nessuna discussione per ora sul destino del regime di Assad. Come se non bastasse Vladimir Putin si è preso il gusto di scrivere al “New York Times” per far sapere come stanno le cose, secondo lui. Un abile e riuscito gesto di propaganda, in cui Putin appare protagonista unico. Eppure ciò che sta accadendo, e che potrà accadere, dipende dalla prima deprecata decisione di Obama: la minaccia militare alla Siria. La mossa è grande per Putin: diventa attore protagonista (era solo un ostacolo alla politica americana) ; ha in mano la nuova mansuetudine di Assad; apre la porta a un vero ruolo dell’Onu per cui non ci saranno veti; evita la continuazione di spaventosi combattimenti con provati crimini di una parte e dell’altra; blocca la frantumazione del Paese Siria; Assad obbedisce ma, delitti o non delitti, non deve pagare, salvo una dura ma generica sgridata del segretario generale dell’Onu.
VUOL DIRE buone prospettive di salvarsi con un immenso debito verso un forte protettore. Il protettore, però, ha ridisegnato a zig zag una nuova linea di confronto fra la Russia e la parte americana del mondo, lasciando al nuovo gruppo di Paesi astensionisti, tra cui l’Italia, il conforto di non avere voce in capitolo. La trama è complessa, perché Putin porta pace, protegge una sponda di guerra, evita distruzione, e conquista terreno come benefattore ma anche come abile operatore (non tutto è in chiaro sulle intenzioni e sui fini) e come leader. Il gioco è montato in modo che ogni pezzo può essere cambiato dalla Russia (solo dalla Russia, che ha preso l'iniziativa) a seconda delle risposte che le altre parti offriranno di volta in volta. L’America è liberata dal peso di guidare (forse da sola) la pesantissima punizione militare del delitto. Ma diventa “una parte” non “la parte” contrapposta del gioco. Se Obama rifiuta, sceglie da solo la guerra (che sta ancora negoziando con il suo Congresso). Se Obama accetta rientra a buon titolo nei ranghi della pace (che però è pace fatta da altri), ma non nel ruolo di leader del mondo. Come in un buon thriller destinato ad avere un seguito, qualcosa resta in sospeso: perché la Siria aveva depositi, quanto pare non piccoli, di gas nervino, arma terribile vietata da ogni convenzione internazionale? Perché lo ammette senza esporsi a conseguenze, e con la collaborazione dell’Onu, che custodirà l’arsenale (non si è parlato di distruggerlo)? Perché non deve più dimostrare di non avere usate o fatto usare quelle armi? Come si dice parlando di un thriller, non vi racconterò la fine. Non lo farò perché non la conosco. Qui, oggi, posso solo scrivere (con molta ansia): “Continua”.

il Fatto 15.9.13
Quel che resta dei Gulag Viaggio nella Kolyma che congela gli orrori
Nella Siberia estrema sorsero i lager più inumani dell’”Arcipelago” rivelato al mondo da solgenitsin e prima descritto da Salamov
D’inverno fa -70, d’estate il nemico sono le zanzare
Tra il giorno eterno, resti dei campi di prigionia e di altri cimiteri industriali
di Pierfrancesco Curzi


Tin-tin, tin-tin. 1 messaggio ricevuto: ’Salve, è la sua agenzia. Le hanno cancellato il volo da Magadan. Cerchi di cavarsela da solo’. Sono le 5 del mattino e mancano 3 ore al check-in.
Oltre il Circolo polare artico il giorno dura 24 ore, d’estate, e il buio quasi altrettanto d’inverno.
La Kolyma è vasta circa 3 milioni di chilometri, circa 10 volte l’Italia, e rappresenta il Far West sovietico. Fin dal 1919 il regime di Lenin inizia a imprigionare gli oppositori politici nei campi di detenzione e di confino zarista; poi con l’avvento di Stalin e del periodo più feroce delle purghe (a varie fasi dal ‘33 al ‘38) il Cremlino crea l’“a rc i - pelago Gulag” il sistema di campi di lavoro che sfruttano le ricchezze naturali. Decine di milioni di persone verrano mandate per terra e per mare in Siberia, condannate a 5, 10, 15 anni con l’articolo 58, controrivoluzionario

Magadan (Siberia - Russia) Leggere I racconti delle Kolyma ha cambiato la vita a molti. Ora, mentre uno sgangherato Kamaz, il tipico camion russo, sta aggredendo i chilometri dell’omonima strada attraverso la taiga siberiana, mi sento piccolo piccolo. Inadeguato. Solo ieri mattina, al mio risveglio all’alba, sebbene di alba in Siberia non si possa mai parlare a causa della luce perenne in estate, quattro ragazzotti hanno pensato bene di usare la mia faccia come il punching ball del luna park: “Sei un tagiko”, e giù fendenti. Modo esaltante per iniziare la giornata. Ubriachi fradici, obnubilati da alcol e nazionalismo, mi hanno scambiato per un islamico. Non avevano interesse per il mio portafogli, volevano solo menare le mani e far capire ai forestieri che lì, tra la Jacuzia e la regione di Magadan, non c’è spazio per gli indesiderati. Benedetta è stata la mia teatralità e il frontespizio del passaporto italiano per calmarli. Il resto sono stati abbracci, scuse ripetute e l’invito, accolto giocoforza, per un passaggio da Curapca verso Khandyga, per farsi perdonare.
Un contraccolpo che avrebbe abbattuto un bisonte, al primo giorno del mio viaggio in autostop lungo i 2.300 km della mitica Strada della Kolyma, ribattezzata ‘Strada delle Ossa’, perché chi moriva durante i lavori veniva seppellito sotto la carreggiata. Un esordio simile avrebbe consigliato a chiunque di girare i tacchi di nuovo a occidente, verso Jakutsk, e lì attendere la scadenza del biglietto aereo. È in questo frangente che mi sono sentito piccolo rispetto a Varlam Salamov. Uno che ha sofferto davvero l’inferno in terra, uno dei pochi in grado di raccontare le sue esperienze, difficili da comprendere per chi è abituato ad una vita sedentaria. Scrittore sopraffino, famoso per i racconti della sua prigionia nei gulag della Kolyma, durante gli anni peggiori del ‘Terrore’ staliniano. Mi sono fatto forza, riprendendo il cammino col pollice in fuori verso la ‘terra promessa’: Magadan, la porta dell’orrore.
Oro e ricchezze. Valle dell’Eden ed Eldorado allo stesso tempo. Solo che qui non siamo nel selvaggio West. Iosif Vissarionovich Dzhugashvili, in arte Stalin si era fatto accecare dalla ricchezza del sottosuolo siberiano. Due piccioni con una fava: ‘Mi vendico di chi non la pensa come me, spedendolo al confino, e invece di farlo invecchiare in una prigione lo uso per scavare le ricche montagne della Kolyma e per costruire la strada tra Magadan e Jakutsk’. Nel 1953, con la morte prima di Stalin poi di Lavrentij Berija, e con l’avvento di Nikita Kruscev a capo del Politburo, le atrocità senza precedenti dei gulag vengono disvelate al mondo. Ma la durezza nei campi di lavoro per estrarre risorse utili a Mosca resta. L’era della corsa all’oro. Sorgono magicamente nuove città, nascono miniere, centrali termoelettriche. Poi la corsa rallenta e si ferma. E sul terreno restano le macerie. Quelle di una società allo sbando.
La Siberia della Kolyma, oggi, sta conoscendo un’inversione paurosa. Le cittadine e i villaggi si svuotano, sul posto restano i monconi della produzione passata. Gli esempi non mancano. Kadykchan, prospera cittadina a 800 km a nord-ovest di Magadan: nel 2008 l’ultimo residente ha abbandonato l’agglomerato urbano.
A Kadykchan arrivo in un ventilato pomeriggio d’inizi agosto. A piedi, rincorso dai soliti nugoli di zanzare aggressive. Durante i gelidi mesi invernali, da novembre a febbraio, la taiga viene avvolta da una morsa di ghiaccio. Le temperature scendono a valori inimmaginabili (il record è di -77°). Tutto si perpetua, in attesa del disgelo. Quando i raggi solari riescono ad infiltrarsi, a scaldare e a sciogliere lo strato di permafrost, restano infinite distese naturali e acquitrini paludosi. Terreno fertile per insetti che si muovono a loro agio su una terra inospitale per l’uomo. A Kadykchan ci sono solo loro. E il silenzio. Sembra di stare a Pripyat, la città evacuata l’indomani della catastrofe nucleare di Chernobyl, nel 1986. I palazzoni a stecca (tipici dell’architettura sovietica) sono rimasti in piedi, vuoti e disabitati. I balordi della zona hanno fatto razzia di infissi, mobili e oggetti lasciati dalle famiglie in fuga. Manufatti sfondati, carcasse di auto, negozi svuotati, il palazzo comunale orfano pure dell’effigie in marmo, dei parchi giochi sono rimasti solo scheletri arrugginiti. Giro tra i condomìni, immaginando il tran tran quotidiano a Kadykchan, quando le utenze erano attive e le strade brulicavano di vita. Ora restano i fantasmi e il vento che sferza il deserto d’erba, acqua e cemento.
Prima di Kadykchan di strada ne ho bruciata parecchia. Dall’arrivo all’aeroporto di Jakutsk una mattina di fine luglio. Via, su una chiatta per solcare le acque della Lena, il fiume che ha dato il nome al leader della Rivoluzione d’Ottobre, Vladimir Ulianov Ilic Lenin. Di nuovo sulla terra ferma, a Nizhny Bestyakh, dove parte la strada della Kolyma. Un autostop tira l’altro. Il primo a tirarmi su è un camionista armeno, Kagi. Dopo 80 km, nel villaggio di Tumul, mi lascia nelle mani di Volodia, russo di Irkutsk. Lo scoglio della lingua sta già mietendo vittime. Trovare qualche anima in grado di parlare inglese è e sarà un’impresa. Durante una sosta Volodia allestisce il necessario per la merenda del tardo pomeriggio: caffè scaldato su un fornelletto a gas, salsicciotti, cetrioli, pane e gallette. Sarà l’unico pasto del giorno, l’ultimo me lo avevano servito hostess in livrea sul volo da Mosca.
PRIMA LE BOTTE AL “TAGIKO ” POI LE PACCHE SULLE SPALLE
Giunti a Curapca, circa 200 km a est di Jakutsk, le nostre strade si dividono. Decido di andare avanti, nonostante si siano fatte le 11 della sera. Poco dopo cerco rifugio in un deposito di legname all’aperto e mi infilo nel sacco a pelo. Prima notte. Quella interrotta da un risveglio da incubo, quando i miei tratti somatici mi hanno fatto passare per un tagiko. Una parentesi nera, risolta senza troppi danni, a parte una ferita al labbro superiore e tanta paura.
Rimasto solo, scaricato dall’auto dei quattro giovani violenti, non ho alcun ripensamento: si va avanti. Dall’alba inizio il cammino verso Khandyga, 250 km a est. Impiego 12 ore. Due terzi le passo sulle rive del fiume Aldan, un mare piuttosto, in attesa di una chiatta per l’altra parte. Un autoarticolato con rimorchio è finito in acqua. Tanta solidarietà tra colleghi non sortisce alcun risultato. Ore di attesa sotto il sole e l’afa. Infine arriva la chiatta giusta. Per non pagare il passaggio mi aggrego a Dimitri e Vladimir, viaggiano con un fuoristrada e sono diretti a Magadan. Khandyga ha poco da offrire. Una mensa per cenare alla buona e una locanda per crollare in un sonno profondo. Fuori le macerie umane di un agglomerato grigio e sporco, costellato dalle tubazioni di acqua e gas che sembrano ponti. Impossibile ficcarle sotto terra, lo strato di permafrost lo impedisce, così come impedì, a suo tempo, di erigere i palazzi con le normali fondamenta. Meglio poggiare la struttura su dei pilastri di cemento.
Il giorno dopo, a tarda sera, giungo a Kyubeme, o meglio, alla sua stazione di servizio. Mi ci hanno portato gli occupanti di un eroico furgone Uaz. Vanno a lavorare in una fabbrica di Magadan. Quindici ore per coprire 300 km di strada, tra guasti, forature e soste forzate. Consumato un pasto frugale, loro ripartono; trovo ospitalità in un ex serbatoio della benzina trasformato in alloggio di fortuna. Kyubeme è lì, a due chilometri, ma non esiste più. Come per Kadychan, gli abitanti, senza più lavoro e prospettive, hanno preferito traslocare, lasciandosi dietro la desolazione. Un fiume reso impetuoso dalle piogge della sera mi impedisce di arrivarci. Poi incontro Ivan, l’uomo della provvidenza. Ucraino, è uno degli addetti del cantiere che sta realizzando il ponte sul fiume. Mi raccoglie, mentre scruto deluso il greto, e mi conduce nel loro quartiere generale: “Mangia, poi ti porteremo di là”. Ci vuole il mitico camion Ural, condotto da Yegor, un colosso buono, per guadare. A Kyubeme il mondo si è fermato 6 anni fa. Restano palazzi sventrati e un solo abitante, Igor: “Ora è fuori a pesca - mi dice Ivan indicandomi la capanna dove abita -, vive come un selvaggio, ma è innocuo”.
Oltre Kyubeme raggiungo, sempre in autostop, il villaggio di Tomtor: il ‘Polo del Freddo’. Da queste parti i rilevatori meteo registrano temperature assurde. Mi torna in mente un passaggio del testo di Salamov, quando scriveva “quello stesso gelo che trasformava in ghiaccio uno sputo”. Tomtor, un pugno di casette basse, un caffè specializzato nel servire vodka e poco altro. Potrei raggiungere Kadychan direttamente, ma il vecchio percorso della M56 non lo consente più. Tocca tornare indietro e salire fino alla inospitale cittadina di Ust-Nera, sede di una dozzina di miniere, bagnata dal fiume Indigirka. Molte le analogie con Khandyga, l’architettura, le enormi tubazioni sospese in aria, fabbriche in abbandono. In fondo a uno stradone c’è un enorme monumento dedicato ai caduti della II Guerra Mondiale. Ogni centro abitato ne ha uno. La Russia, enorme granaio e immenso serbatoio di giovani soldati da mandare al macello.
Fino ad ora è andata bene coi passaggi in autostop. A Ust-Nera l’incantesimo svanisce. Oltre c5 ore ai margini del centro abitato, sotto un acquazzone, assediato da zanzare impermeabili. Il desiderio di lasciare il centro più a nord del mio viaggio, è tale che, in un atto di pura follia inizio a andare a piedi: 5, 10, 15 chilometri, incurante degli orsi bruni che affollano la taiga. Mi raccoglie per primo un camioncino che conduce gli operai di una miniera al lavoro. Tornato solo nel nulla, ecco transitare un suv. Una famiglia russo-mongola, genitori e 3 bambini, sta rientrando a Magadan. Vengo sistemato dietro assieme ai giochi dei piccoli. Prossima fermata Kadykchan e gli spettri della città morta.
CAMIONISTI UBRIACHI SU STRADE DI FANGO VERSO GIACIMENTI D’ORO E CITTÀ MORTE
Jagodnoe, Susuman, Debin, Elgen, Detrin, Serpentinka, Orotukan. Si entra nel cuore dei gulag. Centinaia di luoghi dove lavori forzati, condizioni terribili e morte hanno regnato. Oggi di quei siti restano sparute tracce. L’Unione Sovietica prima, glasnost compresa, la Russia di Eltsin e Putin poi, hanno nascosto agli occhi del mondo la vergogna epocale. Ora che il sogno dorato sta crollando, sotto la cenere non resta nulla, solo agglomerati urbani, simili nel loro tragico destino: scomparire presto dalle mappe, come Kyubeme, Kadykchan, Artik o Bolshevik. Fino a quando non resterà più nulla: “Resta solo Magadan - mi raccontano Andreij e l’ennesimo ‘Dima’, diminutivo di Dimitrij, giovani ingegneri della Caterpillar, il colosso americano del movimento terra - il resto sta collassando. Presto non ci sarà più lavoro, chissà, magari toccherà anche a noi emigrare verso occidente. No, ormai qui nessuno parla più dell’orrore dei gulag, è tabù. I nostri nonni e, in parte, i nostri genitori ricordano bene quel periodo. Sono rimasti segnati”.
Macinando chilometri in sella a bisonti della strada o furgoni scassati, il mio viaggio prosegue. In mezzo notti trascorse nella maniera più incredibile. E gratuita. Ospitato in un alloggio sociale a Myaundzha, grazie all’ennesimo ‘sconosciuto’ incontrato per strada e incuriosito da quest’uomo barbuto con uno zaino in spalla. A Debin, dopo il primo gancio con due vecchietti seduti su una panchina, finisco nella baracca degli operai che stanno costruendo il nuovo ponte a doppia campata sul mitico fiume Kolyma. Di giorno mi offrono un alloggio, un pasto caldo e una generosità commovente; di sera, di ritorno dal bar, li ritrovo consumati dall’alcol, i volti tirati, irriconoscibili. C’è chi piange, chi urla, sono molesti, altri semplicemente sprofondano nel sonno. Tirano fuori il peggio di se stessi. Provate a trascorrere sei mesi di fila in un buco inospitale, tutti i giorni al lavoro, con l’unica alternativa di attaccarsi alla bottiglia per annegare le pene.
Una piccola deviazione e raggiungo Ust-Omchug. Un tempo, quando la città contava 15mila abitanti, si chiamava Zlata Gorsk: la città dell’oro. Oggi è rimasto solo un quinto degli abitanti, mezza città è distrutta e l’oro non scorre più. A 20 chilometri si trova uno dei rari siti della memoria pressoché intatti: Butugychag, considerato il principale campo di detenzione e di lavoro. I prigionieri, oltre che per la fatica, la fame e gli incidenti, morivano anche di tumore, visto che la miniera attigua conservava grossi giacimenti di uranio. Restano dei manufatti, difficili da raggiungere per i pochi visitatori interessati, e un museo a Ust-Omchug, ricco di testimonianze e di foto.
La tappa conclusiva è dietro l’angolo e la missione si chiama Magadan. L’ultimo passaggio in autostop - Ust-Omchug/Magadan, 210 km - si rivela il più ostico. Alla 7a ora di vana attesa, ecco materializzarsi l’ennesimo Kamaz, la carrozzeria a pezzi. Al volante un relitto umano supportato da un compare messo peggio di lui. Mi turo il naso e bado al sodo: devo raggiungere Magadan entro la sera. Roman ed Evghenij, il primo guida, il secondo svolge varie funzioni: passare birre e sigarette al conducente e attivare il tergicristalli. Roman, in effetti, nella mano destra tiene sempre qualcosa, solo con la sinistra accarezza il volante. Mi accolgono con entusiasmo, offrendomi subito una birra. Viste le esperienze passate, cerco di assecondarli, di non irritarli. In 8 ore di viaggio, di birre loro ne spazzolano 13 a testa. Temo per la mia incolumità lungo i viscidi, tortuosi sterrati di montagna. In cima a un passo, ennesima sosta: “Vuoi sparare un colpo? ”. Roman tira fuori un fucile in ottime condizioni, scende e inizia a colpire la montagna, mentre Evghenij se la ride.. Più tardi Roman estrarrà pure una pistola ad aria compressa, iniziando a sparare pallini d’acciaio contro cartelli stradali, lapidi sul ciglio della strada, quadrupedi, volatili. Solo alle dieci, stanco e teso, scorgo il cartello che aspettavo da settimane: Magadan. Roman si ferma in una piazzola di sosta: “Dormiamo qui, se mi becca la polizia, con l’alcol che ho bevuto, sono guai. Buon viaggio turista italiano”.
Prima fu realizzato il porto, nel 1937; due anni dopo venne inaugurata la cittadina di Magadan. Più che una città un villaggio di pescatori, baracche e capanne di legno tirate su lungo il costone a picco sul mare. Seduto sulla punta del molo in pietra, dove in 15 anni via mare sono arrivati milioni di prigionieri vittime delle ‘purghe’ (secondo gli storici i morti della Kolyma superano i 2 milioni), do le spalle alla baia di Ochotsk e all’Oceano Pacifico. Osservo il panorama ammantato di nebbia. Chiudo gli occhi e cerco di immaginare i pensieri delle vittime sacrificali, giunte a Magadan da Vladivostok e ancor prima a bordo dei convogli ferroviari da tutta l'Urss. I primi erano detenuti comuni, criminali. Quindi fu la volta di presunti sabotatori, controrivoluzionari, dissidenti. Tra questi anche scrittori come, appunto, Salamov e Solgenitsin. Riapro gli occhi. A occidente c’è un fiorente porto container, a sinistra il bacino mercantile. Oggi Magadan si è sviluppata oltre il costone, al di là della collina immersa nella nebbia. Una città viva, pulsante. In cima alla collina parte la ‘Strada della Kolyma’, il Chilometro Zero, da cui si dipanavano i collegamenti verso i bacini minerari e i gulag della regione. Per condannare il periodo dell’orrore, il governo russo se l’è cavata con poco: la Maschera del Dolore. Un monolite in pietra eretto su una delle colline attorno a Magadan, lontano da occhi indiscreti, immerso in un campo magnetico tra antenne tv e telefoniche.
È finita. Il viaggio è ai titoli di coda. La paura del risveglio a Curapca è un pallido ricordo, al punto da strapparmi un sorriso. Siberia e siberiani, poi, hanno mostrato il loro volto migliore, fatto di grande generosità. Cammino a piedi per una dozzina di chilometri, calpestando l’origine della ‘Strada delle Ossa’, rendendo onore ai morti che l’hanno costruita, baciandone l’asfalto irregolare. Ora è tempo di salire sul bus diretto all’aeroporto, 50 km a nord, nel borgo di Sokol.

Corriere 15.9.13
l'India e il cappio per gli stupratori, ma non è il boia a cambiare i cuori
di Michele Farina


Sentenza «esemplare»: impiccagione. Rabbia popolare: placata. Avanti un altro (stupro). In India quattro uomini si aggiungono ai 477 condannati che aspettano nel braccio della morte. Un fruttivendolo, un istruttore di palestra, un addetto alle pulizie, un disoccupato: gli aguzzini del pullman di New Delhi che una sera di un anno fa dilaniarono una giovane fisioterapista di 23 anni che tornava a casa dal cinema con il fidanzato. È morta in ospedale dopo due settimane di tormenti, mentre fuori il suo caso faticava ad attirare l'attenzione dei politici. Dei suoi carnefici disse: «Dovrebbero essere bruciati vivi». Alla sentenza centinaia di persone hanno esultato, come si celebra una vittoria della nazionale di cricket. Il giudice ha detto: «Non potevamo distogliere lo sguardo da questo crimine, nel momento in cui le violenze contro le donne sono in aumento». La scrittrice Nilanjana S. Roy invece ha commentato: «Vorrei poter credere che un'esecuzione comminata a furor di popolo non sia soltanto un modo per soddisfare il nostro desiderio di vendetta. Ma non credo nelle favole». Nel Paese di Gandhi («È Dio che dà la vita e lui solo la può togliere») anche la pena capitale è (quasi) una favola: tre persone messe a morte negli ultimi 9 anni. Tra appelli e controappelli, i quattro killer del pullman potrebbero arrivare al patibolo tra diversi anni, forse non ci arriveranno mai. Non è una favola invece che nei primi otto mesi di quest'anno 1.098 casi di violenza siano stati denunciati solo nella capitale New Delhi, il doppio rispetto al 2012. Il dramma della giovane seviziata a morte sul pullman ha spinto il Parlamento a rafforzare in qualche modo la legge contro gli stupratori ma non ha diminuito le violenze. E non sarà una sentenza o una forca a cambiare i cuori in un Paese come l'India, la più popolosa democrazia del mondo, dove se nasci donna rischi di essere rifiutata dalla tua stessa famiglia e femminicidio a volte fa rima con feticidio.

Corriere 15.9.13
Si va definendo una nuova mappa delle passioni “transitive” e “intransitive”
L'inquieto passaggio dall'uomo razionale alle «tribù emotive»
di Pierluigi Panza


MODENA — Il contrasto tra passione e matrimonio è sempre stato presente, sia nella riflessione da bar che in quella filosofica. Negli anni Trenta del secolo scorso, in L'amore e l'Occidente, il filosofo Denis de Rougemont ha codificato un'insanabile disgiunzione tra desiderio e matrimonio, Dioniso e Legge. Una dialettica che, dopo la lezione di apertura di Sossio Giametta sulla metafisica dell'amore in Schopenhauer, è più volte riecheggiata nel dualismo tra «amore transitivo» e «amore intransitivo» che ha caratterizzato gli interventi del Festival Filosofia di Modena, Sassuolo e Carpi, dedicato quest'anno «all'amare». Un festival che si conclude oggi e che ha visto impegnati noti protagonisti del dibattito intellettuale, come il giurista Stefano Rodotà e i pensatori Massimo Cacciari, Marc Augé, Umberto Galimberti.
L'amore transitivo è quello che privilegia le condizioni di simmetrico riconoscimento tra gli innamorati. È quello che mira a ricomporre la distanza tra amore di possesso e amore donativo attraverso una alleanza tra le parti, in cui il «matrimonio d'amore» apre a un ideale di «compiuto umanesimo» (Luc Ferry). In questa prospettiva possono essere letti interventi come quelli di Salvatore Natoli, Vincenzo Paglia (di cui pubblichiamo un brano), Michela Marzano (con folle d'infatuate ragazzine ad ascoltarla per cercare la formula dell'amore) o anche l'analisi seria e coraggiosa di Franco La Cecla sulla necessità di «un galateo» nelle separazioni e sui pericoli di un pensiero unico che pone la donna come «garante» dei sentimenti.
Di contro, l'amore intransitivo è quello che manifesta le pulsioni, anche distruttive, della passione, ovvero l'amour-fou nelle sue molteplici declinazioni che riempiono la cronaca (anche quella nera). Come nel caso di donne (o uomini) che amano troppo (Maria Bettetini, oggi a Sassuolo), dell'amore incagliato nelle proprie proiezioni (Marco Vozza, Marc Augé) o in quello che gira a vuoto, preda di attrazioni fatali, come ha argomentato venerdì pomeriggio, in piazza Grande, il presidente del comitato scientifico Remo Bodei, che, insieme a Michelina Borsari, è il motore del Festival. «È vero che, come in Dante, se si è amati, si viene chiamati a rispondere all'amore. Ma oggi c'è incompetenza amorosa in un quadro di generale incapacità di gestire gli affetti. E l'inflazione degli amori rischia di distruggerne l'identità».
Così, anche «l'amare riamati» si sviluppa in «una generalizzata incompetenza affettiva» (Eva Illouz, oggi a Modena), che è espressione esperienziale del vacuo relazionismo virtuale. Anche se, secondo la sociologa Maura Franchi, la Rete «è anche il luogo dove si cerca la verità nei sentimenti».
Siamo, come succede sempre, in un'epoca di passaggio; e la nostra, secondo il sociologo francese Michel Maffesoli è segnata dal passaggio «dall'uomo razionale e inquadrato nell'organizzazione sociale all'uomo erotico organizzato in tribù emozionali». Un passaggio con il quale la giurisprudenza fatica a stare al passo, come mostrato dall'intervento di Rodotà.
Argomenti altissimi, insomma, quelli del Festival, che dal 2001 ha organizzato 1973 eventi con 249 filosofi e radunato un milione e mezzo di persone (quest'anno sono 200 gli appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche). Il rischio di questi festival — che stanno diventando il corrispettivo colto delle feste popolari — è l'allineamento culturale, ovvero la possibile inclinazione dei relatori a soddisfare le attese del pubblico socialmente omogeneo che li frequenta.

Corriere La Lettura 15.9.13
Ammalarsi di austerità, davvero
Tagli drastici a servizi e salute portano a un aumento di patologie e di decessi. La gradualità islandese meglio dello shock greco
di Giuseppe Remuzzi


D avvero l'austerità uccide? Se ne discute tanto di questi tempi; e il caso delle tre persone che si sono tolte la vita a Civitanova Marche ai primi di aprile è stato una delle occasioni per riparlarne. Che i periodi di crisi economica potessero avere risvolti anche gravi sulla salute è cominciato a emergere in modo abbastanza chiaro fin dall'Ottocento. È stato allora che si è cominciato a osservare un fenomeno preoccupante: chi non aveva un lavoro aveva due volte più probabilità di suicidarsi di chi aveva continuato a lavorare, nonostante le difficoltà. Poi, con i dati della grande recessione negli Stati Uniti, delle crisi finanziarie dell'Asia e della depressione della Russia post-sovietica, le evidenze sono diventate ancora più solide.
E oggi? Secondo un articolo recente del «New York Times» si è verificata negli Stati Uniti a partire dagli anni 2000 una tendenza graduale, ma costante, all'aumento dei suicidi, che ha raggiunto un picco nel 2007-2009 (crisi dei mutui subprime); in quel periodo si sono registrati 4.500 suicidi in più di quello che ci si sarebbe aspettati in base ai dati precedenti e gli Stati degli Usa con il maggior numero di suicidi erano proprio quelli dove c'era meno lavoro.
Oggi negli Stati Uniti è maggiore il numero dei cittadini che si tolgono la vita di quelli che muoiono per incidenti stradali. Ma esiste il rovescio della medaglia, per così dire: aumentare le tasse su alcol e fumo — come è stato fatto in Finlandia e Gran Bretagna recentemente — può persino ridurre le complicazioni e le morti causate da alcune malattie. Fra l'altro, durante i periodi di crisi economica la gente mangia meno e ha più tempo per l'esercizio fisico, tutte cose utili per stare meglio; e si sposta di meno in macchina, il che riduce le morti per incidenti stradali. Così, quando si analizzano i riflessi delle misure di austerità sulla salute, può accadere che gli effetti negativi che si vedono nei gruppi più vulnerabili siano mascherati da miglioramenti in altri strati della popolazione (il lavoro fu pubblicato dalla London School of Economics and Political Science nel 2009).
Non c'è dubbio, però, che i tagli indiscriminati producano malattie e morti, destabilizzino i sistemi sanitari e, a lungo andare, condizionino le possibilità di ripresa. Ogni giorno in qualche parte del mondo si discute di finanza, economia, debiti sovrani, Borsa e spread, a volte con notevole grado di sofisticazione. Chi mai discute dei costi che queste misure d'austerità comportano per la vita degli uomini? E quale politico ne tiene conto? Eppure occasioni per informarsi ce ne sono. Le statistiche che legano tagli alle spese per sanità e servizi sociali a malattie e morti, per esempio, si trovano nel numero di «Lancet» dell'aprile di quest'anno, interamente dedicato alla salute dell'Europa.
L'esempio più convincente è quello della Grecia, dove il budget per la salute, su indicazione della cosiddetta troika europea, è stato ridotto dal 2008 a oggi del 40%. Trentacinquemila fra medici e infermieri hanno perso il lavoro, la mortalità infantile è aumentata del 40%. C'era un programma per aiutare chi abusa di droghe perché potesse almeno usare siringhe pulite: è stato cancellato e il numero dei ragazzi che hanno contratto l'infezione da Hiv è raddoppiato. Nemmeno per gli spray per proteggersi dalla malaria ci sono più soldi e così aumentano i casi di chi contrae la malattia, circostanza che non si manifestava dal 1970. Sono pochi coloro che riescono a farsi ricoverare in ospedale per via delle liste d'attesa e, quando anche ci si riesce, è difficile curarsi perché non ci sono più farmaci (la gente ormai li compra al mercato nero, intanto nei nostri ospedali aumentano i furti di medicine costose destinate alla Grecia).
Una politica di ripresa deve essere orientata «al circolo lavoro-istruzione-salute che sono indissolubilmente collegati», scrive Guido Rossi sul «Sole 24 Ore». Parole? Niente affatto. Il «New York Times» porta l'esempio dell'Islanda: stessi problemi della Grecia, con la più grande crisi bancaria della storia in rapporto alle dimensioni della sua economia, e disoccupazione aumentata di nove volte. Problemi affrontati però in modo graduale e senza compromettere il sistema sanitario; e soprattutto senza nessuna restrizione all'importazione di farmaci, anche quando i costi aumentavano.
Così, mentre l'economia dell'Islanda è in ripresa, la Grecia è in bancarotta e non si vede la fine. C'è una classifica dei Paesi dove la gente è più felice, il World Happiness Report, e se l'anno scorso l'Islanda era ai primi posti, quest'anno è al nono, davanti all'Australia per esempio (l'Italia è molto indietro: quarantacinquesimo). Chi è critico dirà che Islanda e Grecia non si possono comparare, ma non è così; e poi ce ne sono molte altre di situazioni comparabili. Quelle delle ex repubbliche sovietiche, per esempio, dopo il 1991, dove chi ha adottato politiche drastiche di austerità ha avuto molte più morti per alcol, malattie di cuore e suicidi di chi ha praticato politiche di risanamento più graduale, senza compromettere i servizi sanitari. Lo stesso nel 1997 in Asia. Chi ha seguito le indicazioni di austerità del Fondo monetario internazionale — Thailandia e Indonesia — ha avuto molti più morti per infezione di quei Paesi dove, come in Malaysia, hanno fatto di testa loro, senza tagliare sui servizi alla salute.
L'indagine del «New York Times» dimostra che investire un dollaro in salute ne porta tre in crescita economica. Non si salvano solo vite, evitando i tagli a sanità e servizi sociali: si creano le condizioni per crescere.
Se l'austerità e i suoi effetti sulla salute fossero stati studiati come facciamo noi nei clinical trials per valutare l'effetto di un farmaco, lo studio l'avremmo già chiuso tanti anni fa perché nel braccio «austerità» si muore di più. La ricetta del «New York Times» è: 1) che ciascun Paese abbia un'agenzia indipendente che sappia valutare gli effetti sulla salute della politica monetaria; 2) che si tratti la disoccupazione (che porta a depressione, alcolismo e voglia di suicidarsi) come si trattano le epidemie (l'hanno fatto in Finlandia e Svezia con un programma per aiutare chi è senza lavoro a trovarlo in fretta e ci sono stati effetti positivi anche sulla crescita); 3) in tempi di crisi bisogna espandere, non ridurre i programmi di salute.
In medicina, come sappiamo tutti molto bene, prevenire è sempre meglio che curare, anche per quanto riguarda i costi, e se si arriva tardi certe volte le cure non funzionano più (basta pensare all'Aids e alla tubercolosi). Tagliare su salute e servizi sociali senza nemmeno porsi il problema di che cosa serva e cosa no, come abbiamo fatto noi con la spending review, potrebbe essere fatale.

Corriere La Lettura 15.9.13
L'alterna fama di Teoderico il goto primo re d'Italia
di Carlo Bertelli


Quando Eugenio Maccagni si trovò a scolpire le immagini delle città italiane nel monumento a Vittorio Emanuele II, per Ravenna scelse il volto di Teodora dal mosaico in San Vitale. A leggere ora la biografia di Teoderico (Il Mulino) che Claudio Azzara ha scritto mettendo a confronto reperti archeologici, fonti scritte e una variatissima bibliografia, si direbbe che la scelta giusta sarebbe stata Teoderico (più comunemente, ma meno correttamente noto come Teodorico).
Teoderico, il re goto, fu il primo re d'Italia. In un medaglione d'oro che lo ritrae, egli è descritto come Rex e Pius princeps e dimostrò di saper essere re e pio quando gestì, lui ariano, ovvero eretico, con equilibrio e indipendenza la questione che era sorta per l'elezione del Papa, che vedeva contrapposti i candidati Simmaco e Lorenzo. I goti si erano stabiliti in Italia come foederati, una specie di delegati dell'imperatore e, difatti, il re difese i confini dell'impero con nuove fortificazioni.
Ostaggio in gioventù alla corte di Costantinopoli, il futuro re aveva appreso le tecniche di governo dell'impero e avrebbe avuto accanto un ministro eloquente e capace come Cassiodoro, ma dovette governare un Paese nettamente diviso tra due etnie che radicavano la propria identità nell'esercito, che era precluso ai romani, e nella differenza di religione, una discriminante che contava molto nell'epoca della statalizzazione della fede, percorsa da profonde istanze teologiche pronte a divenire politiche o identitarie. Malgrado i notevoli sforzi di acculturazione, a Teoderico non riuscì ciò che invece ottenne il suo rivale franco Clodoveo, il quale, avendo accettato il credo cattolico, seppe fondere in un'unica società «romani» e franchi.
«Tante virtù — fu il giudizio di Machiavelli — furono bruttate nell'ultimo della sua vita». La biografia di Teoderico si divide infatti nettamente in un prima e un dopo. L'equilibrio s'incrinò intorno al 520 e da allora il re reagì al destino con atti di spietata crudeltà. Da Costantinopoli soffiava un vento avverso. Prima l'imperatore Giustino si mise a perseguitare gli ariani, poi il successore Giustiniano dette inizio alla campagna che doveva ricondurre alla dipendenza diretta dal governo centrale le province già affidate a vandali e a goti. Il progetto di Teoderico era fallito, il regno precipitava. Dopo la sua morte, nel 526, la figlia Amalasunta, che era ormai perfettamente ellenizzata, fu strangolata nell'isola di Bolsena dal marito, il ricchissimo goto Teodato. Seguirono le guerre gotiche, durate sul suolo italiano fino alla totale riconquista bizantina.
La demolizione di quanto aveva lasciato il suo regno durò a lungo. Prima i longobardi portarono a Brescia quanto poterono, compreso il Vangelo scritto in goto in lettere d'argento su fogli tinti di porpora, poi Carlo Magno ottenne il permesso papale per portare ad Aquisgrana marmi e bronzi del palazzo reale. La cattedrale ariana di Ravenna fu convertita in Sant'Apollinare Nuovo e nel grande mosaico, che rappresentava il re nel palazzo reale tra i suoi ministri, furono cancellate le figure. Poi venne un vero colpo di grazia al suo buon nome. Alla fine del VI secolo, Papa Gregorio Magno (sul soglio dal 590) raccolse il racconto d'una visione occorsa a un eremita. Nell'istante in cui il re moriva, questi gli era apparso, scalzo e stracciato, mentre il senatore Simmaco e il Papa Giovanni I, entrambi sue vittime, lo gettavano in un vulcano.
La storia è inserita nella raccolta dei Dialoghi, uno dei libri più consultati nel Medioevo come modello di scrittura. Così si diffuse presto in un raggio molto ampio e Teoderico fu universalmente condannato come nemico della Chiesa. Le Cronache dalla Novalesa a Verona — la città dove il re aveva avuto una seconda residenza — e persino il Liber Pontificalis di Ravenna confermarono l'immagine del tutto negativa del re.
A scrittori franchi, come Fredegario, o longobardi, come Paolo Diacono, il re appariva però diversamente. Il primo conosceva episodi della giovinezza trascorsa nei Balcani, diffusi, probabilmente, dai bardi goti della diaspora, mentre il secondo era ammirato dello splendore dei palazzi teodoriciani di Monza e Pavia. Verona attribuì al re goto la costruzione dell'arena, o di un misterioso palazzo capace di contenere migliaia di persone. Nel Duecento, tradizioni longobarde e gote vennero a mescolarsi. Per il cronista Giovanni Codagnello, Teoderico e Alboino, nonostante il secolo che li separa, divennero rivali.
Nel mondo germanico la figura di Teoderico si complicò ulteriormente. Egli divenne il nemico di Ermrich (re di Roma), si sarebbe incautamente fidato del castellano di Raben (Ravenna) e sarebbe stato protetto da Etzel (Attila) etc. etc. Di ballata in ballata i trovatori assicuravano a Teoderico una sopravvivenza complicatissima. Ormai il re era pronto per entrare nella saga del Nibelungenlied, incontrare Sigfrido, Crimilde e Brunilde, in un intreccio di amori, duelli, tradimenti. Era ora l'eroe di Verona (Dietrich von Bern) ed entrava nelle leggende scandinave come Diderik.
In Italia Teoderico doveva tornare nella sua Verona, dopo essere stato, in annali scritti a Colonia, fantasma errabondo sulle rive della Mosella. Il celebre bassorilievo sulla facciata di San Zeno raccoglie un racconto che doveva circolare a Verona. Diceva che il diavolo in persona aveva regalato al re un destriero stregato, che lo avrebbe precipitato nell'inferno. Era il Teoderico di una famosa poesia di Carducci.

Corriere La Lettura 15,9.13
La morte color mostarda calò sulle trincee di Ypres
La guerra del Peloponneso, i raid di Saddam. I tentativi (inutili) di vietare le armi chimiche
di Marcello Flores


Fin dall'antichità si è cercato, in qualche modo, di disciplinare la guerra e a volte di limitarne alcuni eccessi, anche se è soltanto in età moderna, a partire dal Settecento — non a caso nell'epoca della nascita dei «diritti umani» — che sono stati assunti impegni concreti in questa direzione. Hanno funzionato? O l'utopia di combattere in modo più «umano», proprio quando la tecnologia iniziava a permettere distruzioni più ampie e continue, si è rivelata una mera illusione?
Nella discussione che ha luogo oggi — e che ha sullo sfondo la guerra in Siria e l'uso di armi chimiche proibite da parte del governo di Assad — gli elementi da dibattere sono diversi e spesso si sovrappongono. Vi è chi pensa che ogni guerra sia simile a un'altra e che le uccisioni di massa siano sempre avvenute e non meritino l'attenzione e quella casistica, a volte esasperata, che è stata costruita nell'Otto e Novecento. O chi ritiene che le istituzioni e le regole internazionali sulle modalità di fare la guerra siano creazioni ipocrite, inutili e addirittura dannose. Ma anche tra gli altri vi è discussione se debba prevalere una regola (solo l'Onu ha diritto di stabilire l'intervento) o un'altra (l'obbligo di fermare con ogni mezzo chi commette crimini contro l'umanità), se il timore di effetti peggiori non debba fermare la «responsabilità di proteggere» le vittime o se la paura del proliferare di crimini non debba spingere a intervenire, pur con il rischio di ripetere fallimenti già sperimentati nel lontano e vicino passato.
Il punto di partenza è naturalmente quello di prendere sul serio le intenzioni di rendere la guerra più umana, di evitare sofferenze inutili, di impedire il coinvolgimento dei civili, anche se la loro codifica è stata, da un punto di vista pratico, spesso fallimentare. E queste intenzioni erano quelle di vietare o limitare armi capaci di distruggere e colpire i non combattenti o di aumentare sofferenze inutili ai militari e una distruzione sproporzionata del nemico.
Agenti chimici vennero usati già nell'antichità (sostanze che causavano nausea nell'antica Cina o producevano diarrea durante l'assedio di Cirra nel VII secolo a.C.; l'affumicamento con zolfo, resina e altre sostanze nella guerra del Peloponneso; la mistura di zolfo, idrogeno e cloro da parte dei bizantini o l'uso del fumo di arsenico nell'assedio turco di Belgrado nel 1456), ma vennero raffinati e usati con maggiore frequenza a partire dall'Ottocento: i proiettili incendiari durante la guerra civile americana da parte dei confederati, l'idrogeno da parte di Napoleone III, derivati dallo zolfo nell'assedio di Sebastopoli durante la guerra di Crimea (quando il premier britannico lord Palmerston rifiutò di usare mitragliatrici a vapore perché «troppo brutali per una guerra civilizzata»), bombe ripiene di gas tossici nel conflitto anglo-boero. L'uso di queste sostanze era condannato (per il Senato romano «le guerre si debbono combattere con le armi, non con il veleno», per il giurista olandese Hugo Grotius era «proibito uccidere chiunque con il veleno»), ma solo nel 1675 un accordo tra Francia e Impero germanico a Strasburgo proibì le «bombe velenose».
È comunque nell'Ottocento che la questione viene affrontata in modo sistematico: il codice Lieber, utilizzato da Lincoln nel 1863 durante la guerra civile, proibiva espressamente nell'articolo 16 l'uso di veleni in qualsiasi forma, ma costituiva una legge nazionale. A un atto formulato da più Paesi si arriva con la Dichiarazione di Bruxelles del 1874, non ancora un accordo, ma un progetto che, dopo una lunga trattativa, verrà inserito dentro la prima Convenzione dell'Aja del 1899 (nelle norme inserite nei regolamenti annessi si vieta in generale l'uso di «armi, proiettili o materiali capaci di causare lesioni eccessive» e in particolare l'uso di veleni o armi avvelenate; e viene approvata una speciale dichiarazione che vieta i «proiettili il cui solo scopo sia la diffusione di gas asfissianti o dannosi»). In questa convenzione, per la prima volta, viene inserita la proibizione — la cosiddetta clausola Martens — di infrangere «i principi del diritto internazionale quali risultano dagli usi stabiliti fra le nazioni civili, dalle leggi di umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica».
Quando viene approvata la prima Convenzione dell'Aja (ripresa identica, in fatto di gas e veleni, nella seconda conferenza del 1907), l'idea di riempire proiettili con gas è ancora solo un'ipotesi, non una realtà: che verrà però sperimentata in modo primitivo nella guerra anglo-boera ed entrerà ufficialmente nella storia il 22 aprile 1915 nella battaglia di Ypres, in Belgio, quando l'esercito tedesco rilasciò 168 tonnellate di gas a base di cloro (chiamato dagli inglesi «mustard gas» per il suo colore e poi divenuto noto come «iprite» dal luogo della battaglia). Le vittime tra gli alleati furono 20 mila (un quarto uccisi), ma alla fine della guerra in entrambi i campi furono un milione e 300 mila (91 mila morti), in seguito a 66 milioni di bombe ripiene di gas lanciate da entrambi gli eserciti.
Nel periodo tra le due guerre si lavora ancora per mettere fuori legge le armi chimiche (anche se Churchill nel 1920 suggerisce di usarle contro i ribelli in Iraq) e nel 1925 viene approvato a Ginevra il Protocollo concernente la proibizione di usare in guerra gas asfissianti, tossici o simili e mezzi batteriologici, che costituirà il più completo documento su questo tema, ma non impedirà l'uso dei gas in Etiopia da parte del fascismo nel 1935 e da parte dei giapponesi in Cina nel 1939 e 1941 (gli Stati Uniti lo approveranno solamente nel 1975).
Le Convenzioni di Ginevra approvate nel 1949 ripresero quanto già stabilito in passato, dopo che nel corso della Seconda guerra mondiale i gas non erano stati praticamente usati nelle operazioni belliche, ma massicciamente impiegati invece (il famigerato Zyklon B) nello sterminio degli ebrei da parte del nazismo. Accuse di un uso di gas nell'immediato dopoguerra vennero avanzate da entrambi i contendenti nella guerra civile cinese, nei confronti dei francesi in Indocina nel 1947, dell'esercito israeliano da parte egiziana nel 1949 e nello stesso anno da parte dei guerriglieri greci contro il governo ellenico; in Corea gli americani furono accusati di avere sganciato bombe piene di gas velenoso nel 1951 sulla città di Nampo, l'esercito francese di averle usate in Algeria e il governo cubano di Batista contro i guerriglieri nel 1957.
Nel corso della guerra in Vietnam, gli Stati Uniti sostennero che i gas diserbanti e di altra natura da loro gettati in gran quantità non erano tra quelli proibiti, anche se la maggior parte dei Paesi ritenne che la proibizione di usare armi chimiche e biologiche in guerra fosse assoluta, come venne riaffermato dalla risoluzione 2.603 delle Nazioni Unite nel 1969.
È a partire dagli anni sessanta che si fa strada la necessità di rivedere l'intera questione sulla base dei nuovi sviluppi scientifici, ma soltanto nel 1993, al termine della Guerra fredda, si potrà giungere a una nuova convenzione sulle armi chimiche, dopo che esse erano state abbondantemente utilizzate dall'Iraq nella guerra con l'Iran negli anni Ottanta.
Approvata a Parigi il 13 gennaio 1993, la Convenzione ha formulato in modo dettagliato non solo il divieto di uso, ma anche di produzione e vendita delle armi chimiche, stabilendo le forme e i tempi della distruzione di quelle esistenti. La convenzione è stata approvata dalla stragrande maggioranza dei Paesi, con l'esclusione di Angola, Egitto, Nord Corea e Siria. Nel dopoguerra si era imposta nella coscienza collettiva l'idea che le armi di distruzione di massa (quelle capaci di uccidere in modo massiccio e indiscriminato i non combattenti) costituissero una «novità», cui si poteva rispondere soltanto con un divieto totale. Ma solo con la fine della Guerra fredda questa consapevolezza si è trasformata in atti che avrebbero dovuto vincolare l'insieme degli Stati a rispettare il divieto e, nel caso in cui fosse stato infranto, a cercare con ogni mezzo di interromperne l'uso e impedirlo per il futuro.

Corriere La Lettura 15.9.13
La mia maschera con la proboscide per sfuggire al gas
Addestramento alle elementari per un orrore che oggi ritorna
di Guido Ceronetti


Gas. La parola è una rivisitazione del greco antico Chaos. Il chimico olandese Van Helmont, scoprendo questa sostanza anonima, che lo stupì per la sua incoercibilità, spiega Littré, ci vide la forza di uno spirito selvaggio che gli evocava la natura primordiale. Dal 1670 tutto il linguaggio umano ha assorbito gas, termine fondamentale come mamma, papà e pane. La Grande guerra, disumana sciagura, introdusse tra le armi sperimentali un gas verdastro a base di cloro, a cura dei comandi tedeschi, lanciandolo in cilindri nelle posizioni trincerate anglo-francesi durante la seconda battaglia di Ypres. La data del primo attacco, precisa Liddell Hart nella sua opera La Prima guerra mondiale (1930), fu il 22 aprile 1915. Il grazioso omaggio fu abbondantemente ricambiato dal fronte alleato e in una celebre occasione (Caporetto) ebbero agio di assaggiarne anche le linee italiane. Strage di fanti, strage di anima umana.
Da Ypres, l'iprite. Ma oggi abbiamo di meglio.
In Spagna non l'usarono. Bastava alle unghie farsi artigli da massacro, come dice il verso di Miguel Hernández. Ma nel 1935 alla richiesta di Badoglio di civilizzare romanamente l'Etiopia ricorrendo all'iprite, il condottiero adorato Mussolini diede il suo assenso. Mi dispiace di non aver comprato, nel 1965, al mercato delle pulci di Saint Ouen di Parigi, una straordinaria pittura naïf di un artista etiopico che raffigurava un villaggio terrorizzato, inerme, dalla gloriosa aviazione tricolore che lo irrorava di bombe e mitraglia. C'erano enormi scorte di gas pronte quando scoppiò la guerra del '39, ma non vennero usate, essendo troppo a portata di mano la ritorsione. E nei più grossi belligeranti l'allucinazione principale era ormai di costruire ordigni nucleari e missili. Ahimè, ci avevano addestrati per niente! Alle elementari ci facevano indossare, su simulazione di allarme aereo gassatore, la proboscide antigas, piacevole come un'uccellanda. Dopo il convegno criminale del Wansee, il gas Zyklon B, prodotto dalla Bayer, divenne l'arma principale dello sterminio degli ebrei. Anche i duecento bambini di Korciak e il loro magnifico insegnante passarono ignari per quelle camere a Treblinka, mentre Stangl osservava di lontano la scena col binocolo. E se non piangi di che pianger suoli?
Non furono usati i gas in Vietnam, ma le piaghe di Kim Phuc, irrorata bambina dal napalm a Trang Bang nel 1972, gridano ancora «Brucio brucio brucio brucio!».
Quando fu scoperto il seriale assassino di via Lesueur, che aveva la sua cabina a gas privata con oblò da cui godersi lo spettacolo dei contorcimenti delle vittime (ci rinchiudeva ebrei ricchi e gente della mala interessati a sparire, promettendo partenze per l'Argentina) il dottor Pétiot pretendeva riconoscimenti come Grande Resistente ammazzanazisti! Il tribunale, nel 1946, lo condannò a morte. Francamente, in un caso simile, non mi sentirei di deplorare il ricorso alla lama obliqua del filantropo Guillotin. Idem per il caposetta sedicente buddista che collocò contenitori di gas sarin in punti strategici della metropolitana di Tokyo. Preso e condannato, il nirvanico sparì nel nulla di una prigione giapponese. Il gas non è perdonabile.
Come essere umano mi vergogno dell'uso che ne è stato fatto in Siria e invocherei maledizioni e vendette divine davanti a quei bambini allineati. Come arma di guerra è fuori da ogni codice militare. È disonore puro, su un campo di battaglia come in mezzo a un traffico civile, dove già abbiamo, diretto cugino di iprite o zyklon o sarin o altra ripugnante invenzione chimica, il pervasivo gas degli scappamenti pacifici, la cui aggressività tossica è velata. E che cosa successe a Beslan, in Ossezia, a quella caterva di bambini nel loro primo giorno di scuola (1° settembre 2004)? Dostoevskij avrebbe rinnegato Cristo.
Capisco le perplessità dell'America: per punire un uomo, non si può scatenare l'inferno. Ma una punizione rinviata, incrostata di dubbi, non è più tale. Punito subito o lasciato impunito, il Gas, spirito di dannazione, è libero di colpire, e la nostra impotenza a fermarlo è straziante. Per buona sorte, non contando nulla, ci restano pulite le mani. La mente, non vista, sanguina, trafitta.

Corriere La Lettura 15.9.13
Tra i responsabili anche il fascismo


La Prima guerra mondiale è stata il conflitto in cui si è fatto maggior uso di armi chimiche. Dopo il primo attacco con gas tossico effettuato dai tedeschi a Ypres, nell'aprile 1915, entrambe le parti adottarono questa pratica. In un primo tempo ci si limitava ad aprire i contenitori del gas, in condizioni atmosferiche favorevoli, in modo che il vento lo portasse verso le linee nemiche. Ma era un metodo assai poco efficiente, presto sostituito da lanciabombe che scagliavano contenitori di gas destinati a rompersi a terra. Più tardi vennero utilizzati anche proiettili di artiglieria pieni di gas,
che colpivano con maggiore precisione, ma potevano trasportare solo una quantità limitata di agenti tossici. Le forze italiane ricorsero largamente alle armi chimiche durante la guerra d'Etiopia, dietro esplicita autorizzazione di Mussolini: più che altro si trattò di bombardamenti aerei sulle vie di comunicazione o sulle truppe abissine in ritirata, sempre a notevole distanza dalle linee italiane. Nonostante il loro forte impatto, anche psicologico, le bombe a gas non furono però determinanti nel provocare la sconfitta degli etiopi. Di recente i gas sono stati impiegati da entrambi i contendenti, ma soprattutto dall'esercito di Saddam Hussein, durante la guerra tra Iran e Iraq (1980-1988). Tristemente famoso resta l'attacco con gas al cianuro compiuto dalle forze irachene contro la cittadina curda ribelle di Halabja, il 16 marzo 1988. Si calcola che i morti siano stati circa cinquemila

Repubblica 15.9.13
Albert Camus
Lettere agli amici “La Peste? Ho fallito, è schifoso”
di Anais Ginori


PARIGI «Mio caro Camus, la nostra amicizia non fu facile, ma la rimpiangerò». È l’agosto 1952, Jean-Paul Sartre scrive al suo collega e un tempo amico dopo l’ennesimo “tradimento”, la pubblicazione deL’uomo in rivolta. Una lettera appassionata ad Albert Camus: inedita, riemerge solo ora nel centenario della nascita di quest’ultimo.
Dopo l’esordio affettuoso, Sartre denuncia «l’incompetenza filosofica» dell’autore, prima di affidare la stroncatura del libro sulla sua rivista Temps Modernes. È una nuova testimonianza della forte relazione tra i due intellettuali francesi, protagonisti di una contrapposizione ideologica e filosofica che ha fatto epoca nel mondo culturale europeo, segnando la sinistra francese. Un documento prezioso perché esistono poche tracce del ricco carteggio intercorso tra Camus e Sartre. L’intellettuale franco-algerino aveva infatti bruciato tutta la corrispondenza con il filosofo esistenzialista dopo le numerose dispute sul marxismo, il totalitarismo, i crimini del comunismo. Era un’epoca, ormai remota, in cui si poteva rompere un legame umano importante solo per difendere un’idea, un principio.
Sartre si era interessato a Camus dopo l’uscita deLo straniero, nel 1942. Il primo appuntamento era stato — quasi banale dirlo — al Café de Flore. I due pensatori si frequentano. Sartre propone al nuovo amico di partecipare alla sua nuova pièce, Huis clos. Ma qualcosa va storto. È l’inizio dell’allontamento. In un altro, raro messaggio ritrovato di recente, Camus ringrazia lo stesso Sartre per la collaborazione teatrale, sebbene interrotta. «Le auguro, così come a Castor, di lavorare bene». “Castor” è il soprannome di Simone de Beauvoir. Anche questa lettera inedita fa parte, insieme ad altri cimeli, della mostra “Albert Camus de Tipasa à Lourmarin” a cura di Hervé e Eva Valentin, con la supervisione della figlia dello scrittore, Catherine Camus. Nelle teche allestite a Lourmarin, la città provenzale dov’è sepolto lo scrittore, sono stati esposti i manoscritti de La peste e Lo straniero,e la copia de La gaia scienza che Camus aveva ricevuto in Algeria nel 1933 dal suo amato insegnante di filosofia, Jean Grenier. Il testo di Nietzsche era sempre nella sua borsa, anche quasi trent’anni dopo a bordo della Facel-Vega con cui si schiantò il 4 gennaio 1960.
L’amico Camus era polemico, ovviamente in rivolta. Ma anche fedele e premuroso, come raccontano le corrispondenze con alcuni dei compagni di strada della sua breve ma intensa vita, che ora Gallimard ripubblica integralmente. Con lo scrittore bretone Louis Guilloux costruisce una relazione che durerà fino alla morte. Insieme andranno a Saint-Brieuc, sulla tomba del padre, Lucien Camus, e poi nei luoghi natali dell’Algeria. È a Guilloux che confessa alcune fragilità, insicurezze. «Ho finitoLa peste— scrive nel 1946 —. Ma mi sono fatto l’idea che sia un libro totalmente mancato, ho peccato d’ambizione e questo fallimento mi pesa. Lo tengo nel mio cassetto, come qualcosa di un po’ schifoso».
Le lettere di Camus agli amici più cari disegnano una costellazione sentimentale al maschile, come dice la dedica a René Char definito «fratello di pianeta». Forte il debito di riconoscenza che traspare nei messaggi a André Malraux, colui che lo ha raccomandato a Gallimard nel 1940 e al quale, per ironia del destino, “scipperà” il Nobel. Un altro scrittore francese insignito del prestigioso riconoscimento, Roger Martin du Gard, diventa invece una figura quasi paterna per Camus. Lo accompagna nei suoi dilemmi, lo rassicura. Sarà dedicato alui il famoso Discorso di Stoccolma pronunciato nel 1957. Con il poeta Francis Ponge, si lascia andare a riflessioni più umane. «In un mondo in cui ci sono così tante cose illusorie, ci si può appoggiare solo sugli uomini». Insieme discutono di politica. Ponge — cui Camus dà del lei — aderisce all’ideale marxista rivoluzionario. Una chiesa, una religione, secondo Camus. «Quel che è convinzione religiosa per un cattolico diventa convinzione politica nel suo caso. Non credo al mondo politico che lei spera. Dunque sono nel mezzo del cammino, meno felice di lei, armato solo della mia buona volontà e dal forte desiderio di non barare».
La rottura con Sartre riaffiora spesso nelle riflessioni sull’amicizia che è, secondo una citazione di André Gide, «nutrimento esistenziale». Non mancano le allusioni al filosofo che teorizza la violenza rivoluzionaria, «censore che si accomoda sempre nel senso della Storia». Il filosofo dedicherà a Camus un bellissimo testo su come le amicizie possano interrompersi, senza mai finire. «Avevamo avuto un disaccordo: ma un disaccordo non è nulla, solo un altro modo di vivere insieme. Non ho mai smesso di pensare a lui, di sentire il suo sguardo sulle pagine del libro, sul giornale che leggeva, e di pensare: Cosa ne dice? Cosa ne dice in questo momento?». Un’appassionata inimicizia tra due uomini in rivolta.

A Francis Ponge
(...) I miei rapporti profondi con i cattolici?
Diavolo! (Se così si può dire). Spero che non si tratti di un interrogatorio di ortodossia. In sintesi, ecco: ho amici cattolici, e provo simpatia per coloro che lo sono davvero. Sento che, in fondo, ci interessiamo alle stesse cose. Dal loro punto di vista, la soluzione è evidente Non lo è per me. Ma quel che ci interessa, a loro come a me, è l’essenziale. Non sono che la mia posizione sia definitiva È così che i miei amici cattolici pensano che mi avvicino a loro. In verità, è da qui che mi allontano
12 SETTEMBRE 1946

Mi sento colpevole, ma le cose non vanno bene per me. Sono tornato dall’America con l’unico desiderio di rimettermi al lavoro. Ho lasciato Parigi per la Loira e ho lavorato come un forzato per un mese In fin dei conti, ho finito
Ma mi sono fatto l’idea che sia un libro totalmente mancato, ho peccato d’ambizione e questo fallimento mi pesa Lo tengo nel mio cassetto, come qualcosa di un po’ schifoso. (...)
20 NOVEMBRE 1957

Caro amico, era anche mia intenzione accettare, con il viaggio a Stoccolma, tutti gli obblighi previsti. Non sono particolarmente dotato per questo tipo di cerimonie ma mi sembra che occorra tentare di giocare lealmente il gioco Del resto, il regista e l’attore che sono in me si divertiranno di uno spettacolo che, mi dicono, sia impressionante (...) Mi sento disorientato e stanco, e vorrei poter accogliere più generosamente questo “favore” del destino, di cui per ora sento solo il peso. Sono felice e fiero di essere suo contemporaneo

La Gaia Scienza di Nietzsche che Camus aveva con sé anche il giorno in cui morì in un incidente d’auto (4 gennaio 1960): non se ne separava mai A seguire, una rara lettera di Camus a Sartre e un’altra a Malraux In basso, una copia de La caduta dedicata dall’autore a René Char I documenti sono tratti dal catalogo della mostra Albert Camus de Tipasa à Lourmarina cura di Hervé e Eva Valentin

Un ritratto dello scrittore Nell’altra pagina, Albert Camus (accovacciato al centro) con un gruppo di amici nel 1944: tra gli altri Lacan (il primo da sinistra in piedi), Picasso (al centro) e Sartre (il primo in basso a sinistra)

Repubblica 15.9.13
Appena ci conoscemmo mi adottò o almeno così mi piace credere
di Jean Daniel


Non potrei parlare mai con distacco di un uomo al quale, dal principio, è la passione che mi ha legato. Era dopo la guerra, io ero giovane. Anche lui lo era ancora. Io ero uno sconosciuto. Lui era già famoso. Sin dai primi giorni ho capito che sarebbe stato il sole e l’onore della mia gioventù.
Sin dalla prima volta, è lui che prese l’iniziativa di chiamarmi per chiedere di pubblicare nella rivista che dirigevo allora, Caliban, un testo del suo amico Louis Guilloux, di cui avevo già letto Le Sang Noir. Sono abbastanza convinto che avesse accettato di vedermi dopo quella prima telefonata perché gli recitai a memoria alcuni passaggi del romanzo di Guilloux. Quando mi ricevette scoprì che, come lui, ero nato in Algeria. Mi adottò subito, almeno credo o comunque così mi piace credere.
Capivo tutto ciò che diceva, come se leggessi nel suo pensiero. Col tempo, sono diventato capace di anticipare la fine delle sue frasi. Questo incontro benedetto si è prolungato per dieci anni, fino al nostro litigio, per me drammatico, a proposito dell’Algeria. In quei dieci anni ha patrocinato la mia rivista, mi ha permesso di scrivere il mio primo libro, pubblicato nella collana da lui diretta. Mi ha trovato un lavoro quando ero disoccupato e mi ha presentato a tutti i suoi amici. Di lui sapevo poco ancora, a parte l’immagine pubblica che veniva dal suo essere stato direttore di Combate autore deLo straniero. Sartre aveva detto che Lo straniero era una sintesi tra un eroe di Kafka e uno di Hemingway. Lui, Camus, viveva della sua gloria in un modo insolente che spazientiva talvolta quelli che ignoravano come quel trionfo letterario fosse spesso interrotto dalle frequenti crisi di tubercolosi. Durante la sua convalescenza esprimeva ogni volta una vittoria su una fine possibile. Lo vidi una volta dopo che i medici gli avevano proibito l’esposizione al sole. Ero abbattuto ma lui, invece, non lasciava trasparire niente. Credo che fosse anche lui abbattuto. Gli avevo recitato le prime linee di Nozze pensando che non avrebbe mai accettato di vivere nell’ombra. Mi disse che aveva ancora fiducia. Sempre appagato, sempre minacciato. Poteva contare su questa famosa “forza oscura” di cui si trova definizione ne Il rovescio e il diritto,la sua opera prima, così come neIl primo uomo, il suo libro postumo e incompiuto. Questa fiducia nella forza che lo sosteneva, a lui e a nessun altro, non appartiene all’ottimismo della fede. È un mistero che non c’entra niente con Dio.

Repubblica 15.9.13
Potere e tirannide. La lezione di Kojève
di Marco Filoni


Esistono filosofie che si perdono, che vivono “altrove” e, per questo, devono tradursi in altre lingue e in altre culture.
Sono pensieri in esilio, come pure quello di Alexandre Kojève. Eppure il suo, come recita il sottotitolo di questo volume, è un «esilio sulla via maestra». Superata la cortina di fumo data dalla complessità del suo filosofare, si scopre una solida architettura giuridico-politica a cui è stata dedicata poca attenzione. Lo studio di Palma, uno dei filosofi più promettenti del nostro panorama, colma ampiamente la lacuna. La riflessione kojèviana sul diritto, sull’autorità, sulla tirannide e sul potere politico è, difatti, molto più attuale di quanto si pensi (e ricca di spunti con i quali fare ancora i conti: basti ricordare che recentemente Giorgio Agamben è stato additato dalla stampa tedesca come “filosofo di corte” di Berlusconi solo perché avrebbe preso in considerazione l’idea kojèviana di un impero latino in chiave antitedesca). Kojève ha saputo sviscerare, chirurgo raffinato e temerario, i meandri del politico ancora oggi da solcare. A sua volta Palma ha avuto la grazia di tradurre quelle esplorazioni per renderle percorribili con le sue pagine, che diradano la cortina di fumo.

POLITICA E DIRITTO IN KOJÈVE di Massimo Palma Editoriale scientifica, pagg. 175, euro 15

Repubblica 15.9.13
L’ombra nera di Picasso è la malinconica cicatrice di un’assenza
di Melania Mazzucco


Un pittore può entrare nel suo quadro in molti modi. Col nome: la firma — posta in un cartiglio o sul bordo, evidente o occultata nella scena dipinta — lo legittima, assegnandogli un padre creatore. Con la figura: inserendo il proprio autoritratto, il pittore rivendica la sua funzione di testimone nella storia e la sua presenza di artefice. Con un segno: una traccia, anche cifrata, della sua identità individuale. Picasso è tornato più volte sul motivo del rapporto fra creatore e opera e alla fine ha firmato con l’ombra. Anche l’ombra è una traccia: l’impronta dell’incontro di un corpo con la luce.
L’ombra sembra uno dei quadri più semplici dello sterminato catalogo di Picasso: ne conosciamo genesi, circostanze e significato. E’ un’immagine quasi tradizionale, costruita con pochi colori: l’interno di una stanza, con una finestra da cui s’intravede il cielo azzurro. La luce irrompe in un ambiente oscuro, dove c’è una figura femminile, distesa. L’erotismo implicito nella presenza della modella nuda è rivelato dalle dimensioni dei suoi seni (più grandi del volto) e della mano enorme, prensile, bestiale. Qualcuno si pone davanti alla fonte di luce. Ne vediamo solo l’ombra — una sagoma maschile, una piatta silhouette che sembra ritagliata con le forbici. Tecnicamente è difficile dipingere un’ombra senza renderla un’informe macchia grigia: per questo i pittori l’hanno sempre considerata con sospetto. Picasso dipinge l’ombra nera. E’ quella che scientificamente si definisce “ombra portata”: cioè non aderente al soggetto che la proietta. Questo soggetto, da cui è separata, rimane fuori dal quadro. Ma ne invade lo spazio con lo spettro.
Chi è?
Forse lo spettatore, cui Picasso restituisce il ruolo di voyeur che l’arte occidentale gli ha assegnato per secoli — almeno nella visione di un quadro con lo stesso soggetto di questo: la Nuda in una stanza. Ma la stanza del quadro, ha spiegato Picasso in un’intervista, è quella della sua casa di Vallauris, nel sud della Francia. Sulla mensola si riconosce un carretto siciliano, da lui acquistato durante un viaggio, sul camino un vaso di ceramica, sul pavimento un tappeto. Dunque l’Ombra è quella del pittore stesso. E’ Picasso che guardala scena. E’ come se volesse farci vedere ciò che lui vede — mettere lo spettatore al suo posto. Nei quadri cubisti di quasi cinquant’anni prima, aveva moltiplicato i punti di vista nella rappresentazione dell’oggetto, scomponendolo. Ma stavolta predilige il suo. Nel linguaggio cinematografico, sarebbe una ‘soggettiva’. E’ un autoritratto al negativo, dunque — ma singolare. Per convenzione, la mano del pittore è il suo segno. Invece l’ombra non ha mani. L’immagine è una sorta di riflesso mentale.
Guardando meglio, ci si accorge che la donna non è davvero presente nella stanza. E’ un ricordo, o un sogno. Bianca, come l’ombra del pittore è nera, marca un’opposizione fra idue, il colore e la forma sigillano una differenza di temperatura e consistenza — le due entità sono reciprocamente inafferrabili.
Françoise Gilot raccontò che nel momento in cui Picasso dipinse L’ombra — fra il Natale e il Capodanno del 1953, forse in un solo giorno — la donna, cioè lei, era assente, per una separazione che ormai era divenuta definitiva. Ma anche se lo ignorassimo, è il quadro che ce lo dice: non vi è nessun contatto fra l’ombra e il corpo, l’uomo e la donna. Le ombre non possono avere rapporti con le cose e le persone. Sono inerti, immateriali. Il quadro parla di solitudine, di perdita, di assenza.
Ma soprattutto parla d’arte. E’ stato notato che L’ombra ricorda
Matisse: il Violinista alla finestra nella struttura dell’immagine, la serie delle Odalische nella figura femminile nuda distesa. E l’ombra cita le guaches découpées che Matisse ottantaquattrenne andava creando nel letto dove giaceva immobilizzato. Matisse aveva detto che lui e Picasso erano come il Polo Nord e il Polo Sud. Lui era il nord: tradizione, intelletto, colore; Picasso il sud: genio, linea, disegno. Matisse francese, borghese di estrazione e d’animo, fautore di un’arte edonistica, riposante e impersonale; Picasso straniero, andaluso, bohémien, genio precoce che aveva imparato a disegnare prima che a parlare, sedotto dalla scultura primitiva e dagli idoli africani, creatore di un’arte onnivora, autobiografica, irriverente, disturbante. Si frequentarono, si sospettarono, si ammirarono, si studiarono per tutta la vita (ognuno teneva nel proprio studio almeno un capolavoro dell’altro). Si detestavano, anche. Matisse accusò Picasso di essere un bandito: in sostanza un ladro, che si appropriava delle idee altrui (e in particolare delle sue). Picasso era d’accordo: diceva che ogni pittore è un collezionista che raccoglie le immagini degli altri e le rende proprie, che anzi deve prendere ovunque sia possibile, e considerava degradante copiare solo da se stesso. Picasso vedeva in Matisse il suo negativo. Per questo è possibile che L’ombra sia davvero un omaggio di Picasso al suo rivale — ormai alla soglia della morte.
Ma non è solo un dialogo con l’amico-nemico di una vita. E’ anche una riflessione sulla propria pittura. L’ombra del pittore non si proietta infatti nella stanza della sua casa. Ma su un suo quadro che raffigura la stanza della sua casa. Picasso guarda se stesso — la sua vita e la sua opera. E la ripensa nel contesto della tradizione. Non ha mai smesso di confrontarsi con essa — per innovarla. Sapeva che la pittura occidentale origina dall’ombra. Lo racconta Plinio: Dibutades, figlia di un vasaio di Corinto, disegna sul muro il profilo dell’ombra dell’amato, prima che parta per sempre. Questo mito, accolto e interpretato per quasi due millenni da tutti gli storici dell’arte, inaugura una storia della rappresentazione che nel 1953 — anche se è sul punto di collassare — non si è ancora interrotta. Picasso, tra i principali artefici della rivoluzione artistica del XX secolo, la rivitalizza. La figurazione non è morta. E neanche l’artista: la sua ombra è ancora lunga. Però quel fantasma nero trasmette un’arcana inquietudine. Picasso, che si era infatuato dell’arte tribale, non ignorava che nelle credenze ancestrali e nel pensiero magico l’ombra è associata all’anima — di cui è immagine (forma visibile) o residuo (dopo la morte). Dunque per noi posteri l’ombra nera di Picasso potrebbe essere anche la malinconica cicatrice di un’assenza. Un buco nella luce. Il profilo sul muro di un amato scomparso, il contorno di un cadavere. Nel XXI secolo l’arte crede di non avere più bisogno di pittori.

Pablo Picasso: L’ombra (1953) olio su tela 130 x 97cm Musée National Picasso, Parigi