lunedì 16 settembre 2013

Cacace (sic!): «la sinistra italiana ha fatto poco o niente per valorizzare le posizioni della Chiesa sulla “questione operaia”»
l’Unità 16.9.13
La dottrina sociale interroga la sinistra
di Nicola Cacace


TUTTE LE PRESE DI POSIZIONI DI PAPA FRANCESCO, DI CUI LE ULTIME LA LETTERA DI RISPOSTA A SCALFARI SUL DIALOGO CON I NON CREDENTI, definita dal fondatore de la Repubblica «scandalosamente affascinante» e l’invito rivolto dal Centro Astalli dei gesuiti di Roma ad «utilizzare i conventi vuoti per ospitare i rifugiati e non come alberghi per guadagnare» sono segni inequivocabili di apertura della Chiesa verso la società e soprattutto verso chi soffre. Il cammino della Chiesa in queste direzioni è stato accelerato da questo Papa ma non è di oggi. Nessuna grande comunità come la Chiesa ha fatto nell’ultimo secolo un cambiamento così significativo in campo sociale, a cominciare dalla cosiddetta questione operaia, di cui trattava l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII del 1891.
È incredibile che la sinistra democratica italiana non abbia mai analizzato in profondità questi cambiamenti, a differenza di altre sinistre, ad esempio quella tedesca, come dirò più avanti. Più di un secolo dopo, l’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI del 2009, si presenta con contenuti molto diversi dalla Rerum Novarum. Leggendo le due encicliche si ha la misura del cambiamento della Chiesa in un senso che, in politica, si definirebbe più progressista. La critica esplicita al socialismo e al sindacato oltre all’elogio delle diseguaglianze, temi centrali di Leone XIII sono sostituiti nella Caritas in Veritate dalla critica esplicita al capitalismo senza freni e controlli e alle scandalose diseguaglianze sociali.
Il capitolo più significativo per marcare le differenze tra le due encicliche è proprio quello dell’eguaglianza. Nella Rerum Novarum, sotto il titolo «Necessità delle diseguaglianze sociali e del lavoro faticoso» si legge: «Togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile... Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini, le diseguaglianze tornano a vantaggio sia dei privati che del consorzio, poiché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e l’impulso principale che muove gli uomini è la disparità dello stato». Questa visione, più vicina al cinismo sociale ed anche sbagliata nelle implicazioni economiche i Paesi più in salute sono quelli a più bassa diseguaglianza appare capovolta nella Caritas in Veritate. Benedetto XVI, parlando al sinodo per il Medio Oriente in Vaticano nel 2010, criticò duramente il capitalismo finanziario senza freni e controlli che pone l’uomo in schiavitù. Disse, in sostanza, che i capitali anonimi, una delle grandi potenze della nostra storia, sono diventate forme di schiavitù contemporanee, un potere distruttore che minaccia il mondo.
Il Papa rafforzava così concetti esplicitati l’anno prima nella sua enciclica. Ma alcune critiche esplicite alle forme più oppressive del capitalismo sono anche precedenti alla Caritas in Veritate. Nella Centesimus annus (1989), Papa Wojtila difese lo stato sociale e rimarcò con forza il concetto di sfruttamento, non usuale ancora nei testi della dottrina sociale della Chiesa. Scrisse infatti Giovanni Paolo II: «Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi del Paesi che cercano di ricostruire le loro società? (...) Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa». Il Papa polacco attaccò il mantra del mercato mano invisibile, mitica figura del liberismo economico, affermando il concetto di mercato etico. Temi poi ripresi dalla Caritas in Veritate: «Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità... La dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo le differenze di ricchezza, negative anche per lo sviluppo...Il mercato globale ha stimolato, anzitutto da parte di Paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni a basso costo... Questi processi hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, con gravi pericoli per i diritti dei lavoratori».
La posizione ufficiale della Chiesa espressa dalle encicliche e dalle prese di posizioni degli ultimi papi, incluse quelle di papa Francesco con la globalizzazione della solidarietà, invocata a Lampedusa è sempre più vicina a quelle di una sinistra moderna, egualitaria ma non classista, favorevole al mercato libero ma regolato, con uno Stato sociale universale che garantisca a tutti i diritti fondamentali, salute, istruzione, pensione. Non so se per carenze culturali o altri incomprensibili motivi la sinistra italiana ha fatto poco o niente per valorizzare le posizioni della Chiesa sulla «questione operaia». Anzi, in passato, alcuni valori o presunti tali della Chiesa sono stati sfruttati piuttosto dagli avversari politici. È ora di recuperare il tempo perduto, anche rispetto, ad esempio, ai socialisti tedeschi che, nel congresso riformatore della Spd a Bad Godesberg del 1959 così scrissero nell’incipit del documento finale: «Il socialismo democratico che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, bensì per rispetto delle scelte dell’individuo in materia di fede, scelte sul cui contenuto non devono arrogarsi diritti né un partito politico né lo Stato».

La Stampa 16.9.13
La lezione di Francesco sul potere
di Franca D’Agostini

qui

Repubblica 16.9.13
La ricerca della verità
di Enzo Bianchi

monaco e priore di Bose

NEL dialogo tra quanti cercano di essere coerenti con la propria fede e quanti si sforzano di esserlo con le proprie convinzioni, il bello e anche il difficile vengono adesso. Dopo la lettera aperta di papa Francesco a Eugenio Scalfari sembra predominare l’impressione della novità, della svolta, dell’inedito che prende forma. Ma vale la pena soffermarsi anche sulle conferme e gli approfondimenti, sulle prospettive e gli interrogativi ancora aperti.
Anzitutto, a chi si interrogasse sul perché del dialogo tra cristiani e laici, occorre rispondere che il dialogo è la via umana, condivisa dunque da tutti, “credenti” e “non credenti”, di costruire insieme un senso; è metodo (meth-odos) che diventa sinodo (syn-odos), cammino fatto insieme. E cercare insieme la verità. Questo atteggiamento, che per i cristiani deriva dal credere che ogni uomo in quanto tale è immagine e somiglianza di Dio, dà forma storica alla mitezza, crea relazioni ispirate a quella mitezza che per Paolo VI “è carattere proprio del dialogo” (Ecclesiam suam). Il dialogo è spazio sostitutivo della violenza elaborato mediante quella facoltà solamente umana che è la parola e di cui, a partire da Socrate, non mancano certo esempi nella tradizione culturale occidentale anche fuori del cristianesimo. Il dialogo, dunque, va praticato come via di costruzione di un mondo che crede alla forza della parola e rifiuta di affidarsi alla parola della forza.
Inoltre, il linguaggio esprime una difficoltà fondamentale: distinguere tra “credenti” e “non credenti” lascia molti insoddisfatti, sia perché una delle due categorie è definita solo in negativo rispetto all’altra, sia perché chi non crede in Dio sovente crede comunque nel cammino di umanizzazione e in alcuni principi coerenti con essa. Inoltre, è proprio dei cristiani ripetere ancora oggi le parole registrate nei Vangeli del padre di un ragazzo ammalato che così si rivolse a Gesù: “Io credo, aiuta la mia incredulità!” (Mc 9,24). Fede e incredulità abitano anche il credente che ogni giorno deve rinnovare la sua fede, dissipare – per quanto gli riesce – i dubbi, affidarsi al Signore quando la tenebra sembra dominare.
Vi è poi da capire perché il gesto e le parole di papa Francesco appaiono una novità nel nostro specifico contesto culturale: è un Papa non italiano e non europeo che si rivolge a un intellettuale italiano. Ora, in Italia avevamo già assistito, a partire almeno dal concilio Vaticano II, a tentativi anche approfonditi di dialogo, ma mai con il Papa stesso come interlocutore principale. Analogamente questo era avvenuto e avviene con regolarità e forza ancora maggiori in altri paesi, soprattutto extra-europei. Basterebbe pensare, solo per citare un esempio legato al fatto che il Papa è un gesuita, che tra i suoi confratelli religiosi ben cinquemila sono indiani, nati e cresciuti anche teologicamente in un contesto in cui il dialogo interreligioso e culturale è da tempo sfida e opportunità quotidiana. La lettera di papa Francesco ha sì avuto risonanza mondiale, ma i più implicati – e anche i più sorpresi – dalla novità restiamo noi italiani. Un vescovo di Roma, che ha potestà e autorevolezza sull’intero orbe cattolico, dialoga direttamente con il fondatore ed editorialista di un quotidiano laico che ha sede a Roma.
Che la Chiesa cattolica volesse, anche nella sua istanza suprema che è il concilio ecumenico, aprirsi al dialogo con il mondo contemporaneo, lo sappiamo fin dal Vaticano II e della sua costituzione Gaudium et spes,cioè da quasi cinquant’anni. Così come la definizione della Chiesa come “esperta in umanità” che vuole dialogare ed essere solidale con l’umanità risale a Paolo VI e al suo discorso davanti all’assemblea generale dell’Onu, il 4 ottobre 1965. Da allora si sono moltiplicati anche gli organismi ufficiali preposti al dialogo, non solo con i cristiani non cattolici e con le altre religioni, ma anche con il mondo della cultura e dei “non credenti”. Ma un conto sono le commissioni, gli incontri ufficiali tra esperti, i documenti elaborati insieme, un altro conto sono i dibattiti negli spazi pubblici, le “cattedre” create nelle grandi città, i “cortili dei gentili” aperti ai pensatori di ogni scuola e, da ultimo, lo scambio diretto sui media tra il Papa stesso e un autorevole giornalista.
La novità più grossa resta che, proprio a questo livello di massima divulgazione – i mezzi di informazione quotidiana – si sia passati dal dibattito accademico e dal reiterato auspicio della necessità del dialogo, al dialogo vero e proprio, all’ascolto delle domande dell’altro e alle risposte, al rendere conto di chi o che cosa anima il proprio sentire e il proprio agire. Per questo dicevo che il difficile viene adesso: perché ormai non basta più dire che si vuole il dialogo, bisogna anche attuarlo, accettando di confrontarsi anche su temi rispetto ai quali l’uno o l’altro degli interlocutori – e magari entrambi – pensano di essersi già assestati su posizioni consolidate.
“Fare un pezzo di cammino insieme”, allora, vuol dire per tutti rendersi conto di non essere soli a camminare, di considerare questo confronto un’opportunità e non un fastidio o un impedimento a una marcia più spedita, una ricchezza potenziale e non un sacrificio inevitabile. Significa, per i cristiani, verificare anche se il linguaggio che usiamo è adatto a essere capito dal nostro interlocutore, se le certezze su cui ci fondiamo possono avere una base anche umana e non solo rivelata e trascendente, se ciò che presentiamo come istanza etica superiore abbia una valenza antropologica anche per chi non ne condivide l’origine. Gli interrogativi sull’inizio, la qualità e la fine della vita, le modalità della convivenza civile, le esigenze della libertà religiosa, i contrappesi delle istituzioni democratiche, i doveri e i limiti delle “ingerenze umanitarie”, il concetto stesso di democrazia e di giustizia, la discriminante decisiva tra ciò che è bene e ciò che è male sono tutti ambiti fondamentali che richiedono una deontologia del dialogo e, più ancora, una concreta pratica quotidiana del dialogo stesso. Questo il confronto che ci attende se vogliamo veramente camminare insieme: confronto di cui l’accoglienza riservata al pressante appello di papa Francesco per la pace costituisce una tappa fondamentale.
Papa Francesco mi pare abbia saputo cogliere negli interrogativi postigli da Scalfari una sete autentica e una volontà sincera di confronto e ha saputo avviare la risposta con franchezza ed empatia: nessuna reticenza sul proprio cammino di cristiano, di prete e di vescovo, nessuno stravolgimento compiacente del pensiero cattolico e della tradizione cristiana, ma la capacità di usare parole antiche con l’efficacia di un linguaggio nuovo perché semplice, uno stile evangelico che è già messaggio, una cordialità non affettata. E, soprattutto, una disponibilità ad aprire e proseguire la discussione, non a chiuderla. Se resta chiaro che Gesù Cristo è per il Papa il principio e il compimento della sua fede, questo non esaurisce il confronto, ma lo approfondisce, nella piena consapevolezza di cosa significhi per un cristiano l’evento inaudito di un Dio fattosi uomo.
Per chi è cristiano c’è una risposta da dare alle parole di Gesù: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mc 8,29). E il cristiano sa che questa risposta si può solo dare nella fede, cioè se avviene la rivelazione, se Dio alza il velo e concede di “contemplare l’umanità di Gesù” come immagine del Padre. È allora decisivo da parte di ciascuno ascoltare questa domanda, non essere soddisfatto e chiuso in una autoreferenzialità incapace di ricerca e di ascolto, e quindi obbedire alla propria coscienza. Il cristiano sa che ogni essere umano è a immagine e somiglianza di Dio, quindi capace di avere in sé il senso del bene e del male, capace di accogliere la luce e di combattere le tenebre. Gesù di Nazareth per i cristiani è il racconto di Dio narrato nella sua vita umana, per gli altri è un uomo intrigante, un uomo singolare che ha saputo, come dice Scalfari, “amare gli altri più di se stesso”. Sì, per i cristiani Gesù è risorto dai morti, ha vinto la morte, ed è questo il fondamento della loro fede; per gli altri resta una domanda: ci interessa o no che l’amore vissuto fino all’estremo possa vincere la morte?
L’augurio è che ciascuno di noi, nelle semplici realtà quotidiane in cui si ritrova, possa riprendere e proseguire questo dialogo: un confronto che non è riservato agli specialisti, perché riguarda la vita. E ciascuno di noi è uno specialista, un esperto della vita. Ciascuno di noi ne conosce il valore e i limiti, sa cosa sia per lui e per quanti ama il vivere, il con-vivere, il morire. Ciascuno di noi sa anche cosa significhi camminare sulle strade della vita e come il camminare insieme possa aiutare a compiere passi che, intrapresi in solitudine, avrebbe considerato impossibili.

La Stampa 16.9.13
Vaticano. lo scandalo delle finanze
Giochi di borsa e illeciti all’ombra della Santa Sede
Prime ammissioni di Monsignor Scarano con la Procura: “Molte operazioni poco chiare”
di Guido Ruotolo


Quando comincia a verbalizzare monsignor Nunzio Scarano, sono le undici di un caldo giorno di luglio. Il procuratore aggiunto Nello Rossi, a un certo punto gli chiede da quanto tempo lavorasse all’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio immobiliare della Sede Apostolica. Dal 28 giugno Scarano è in carcere per via dell’operazione sospetta di riciclaggio di venti milioni d’euro, frutto di una evasione fiscale di 41 milioni di euro degli armatori D’Amico, che dovevano essere trasferiti dalla Svizzera a un conto Ior.
Scarano risponde così al pm romano: «Sono 22 anni che lavoro all’Apsa. Già nell’87 avevo rifiutato di andare a lavorare allo Ior e questo non era stato apprezzato. Di recente ho chiesto udienza al Santo Padre perché non ero soddisfatto di come andassero le cose all’Apsa. Non mi convinceva la gestione. Capivo che volutamente venivo tenuto all’oscuro di molte cose».
Facevamo banca Chiede il pm: «Ad esempio?». «Esempi concreti non sono in grado di farne, se non con riferimento a un episodio. Noi come Apsa non potevamo avere clienti esterni, ma pure non potendo, in realtà, “facevamo banca”, nel senso che avevamo una raccolta di risparmio e forme di reimpiego con corresponsione di interessi ai depositanti». Ricorda il prelato: «Fui ricevuto dal cardinale Bertone (Tarcisio, ex segretario di Stato, ndr), alcuni anni fa, subito dopo la sua nomina, ma l’incontro non ebbe alcun effetto. C’erano anche conti di cardinali, gestiti da Giorgio Stoppa, precedente delegato (direttore) dell’Apsa, E c’erano anche altri conti. Ma non ricordo alcun nome specifico se non quello della Duchessa Salviati (Maria Grazia - ndr), benefattrice del Bambin Gesù». «Di recente mi recai dal cardinal Filoni (Fernando, prefetto di Propaganda Fide, ndr) al quale dissi dei conti “laici”. Dato l’incontro nel 2010 e in seguito a questo, in effetti, alcuni funzionari furono allontanati da Apsa (tra cui De Angelis)».
Scheletri nell’armadio «Il Mennini (Paolo, ex numero uno di Apsa, ndr) era arrivato quando Giorgio Stoppa andò in pensione e si trattava di trovare qualcuno che si occupasse anche di coprire gli scheletri da lui lasciati in armadio. Il Menniti portò con sé il De Angelis. I due avevano uno stretto rapporto con Marco Fiore, che lavorava per i D’Amico (gli armatori coinvolti nel trasferimento dei fondi neri dalla Svizzera allo Ior, ndr) a Montecarlo. Stoppa gestiva in maniera padronale e opaca il suo settore. Mennini gli riconobbe un trattamento pensionistico molto lauto. Mennini si era portato anche una certa Maria Teresa Pastanella che godeva di un trattamento privilegiato pur non avendo alcun titolo di studio». Monsignor Scarano è convinto che l’incontro con il cardinal Filoni produsse contromisure importanti, come «la chiusura di alcuni conti di laici». Il pm chiede se nell’incontro con il prefetto di Propaganda Fide, riferì episodi specifici. Scarano ricorda molto bene un episodio.
Nattino spericolato Nei confronti di Monsignor Scarano e degli altri indagati la Procura sta per chiedere il processo immediato per la tranche dell’inchiesta sul riciclaggio con la Svizzera. Sempre da piazzale Clodio è partita la richiesta di rogatoria con il Vaticano per approfondire la vicenda Nattino. Stiamo parlando della famiglia di banchieri che ha fondato «Finnat Euramerica», famiglia temuta dal finanziere Stefano Ricucci che, in un interrogatorio davanti ai pm, disse agli inquirenti che chiedevano lumi sui Nattino: «Ma lei vuole che a me mi uccidono stasera qui». Dunque, Monsignor Scarano: «Un episodio lo riferii. Ed è relativo ad un’operazione fatta da un banchiere di nome Nattino. Questi aveva un conto all’Apsa (poi chiuso) e un figlio di Mennini (Luigi) lavorava nella banca da lui diretta. Fece una operazione di aggiotaggio di cui si parlava nei corridoi e che riguardava titoli della sua banca che subivano oscillazione e che venivano comprati e venduti, di fatto, sotto mentite spoglie. A quanto ricordo i titoli erano stati fatti artatamente scendere di valore e il Nattino li riacquistò al momento giusto senza apparire e servendosi dello schermo dell’Apsa. Vi furono più operazioni simili».
Sospetti bancari A sentire il monsignor detenuto, la sua «cantata» al prefetto cardinal Filoni produsse repulisti e promozioni. «Quando il cardinal Filoni prese provvedimenti, la cosa scatenò il finimondo. Io fui promosso in seguito a questi eventi, anche se la promozione, di fatto, mi collocò fuori dal perimetro operativo. Avevo anche sospetti su improvvisi cambiamenti nelle banche con cui operavamo (si considerò che spostavamo milioni di euro). In un caso fu interessato un istituto in cui lavorava il padre del genero di Mennini, ma non so quale sia la banca». «Qual era il suo stipendio?». Chissà perché il magistrato gli domanda a quanto ammontavano le sue entrate ufficiali. L’indagato, comunque, non si sottrae alla risposta: «Tremila euro al mese più circa cinquecento di messe. Non ho mai preso i gettoni di presenza che invece altri prendevano senza averne diritto per le trasferte all’estero». Ma la sua era invidia?

Corriere 16.9.13
Le rivelazioni del prelato
Scarano: «Così si riciclavano i soldi in Vaticano»
«Soldi nascosti sui conti»
di Fiorenza Sarzanini


«Così si riciclavano i soldi in Vaticano». L'ultimo filone di indagine avviato dai magistrati romani che indagano sull'attività di monsignor Nunzio Scarano, l'ex capo contabile arrestato per aver esportato milioni di euro degli armatori D'Amico e poi finito al centro dell'ennesimo scandalo finanziario che coinvolge una delle strutture strategiche del Vaticano, riguarda operazioni di riciclaggio effettuate attraverso i conti aperti presso l'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica.

ROMA — Operazioni di riciclaggio effettuate attraverso i conti aperti presso l'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica. È l'ultimo filone di indagine avviato dai magistrati romani che indagano sull'attività di monsignor Nunzio Scarano, l'ex capo contabile arrestato a giugno per aver esportato all'estero milioni di euro di proprietà degli armatori D'Amico. E poi finito al centro dell'ennesimo scandalo finanziario che coinvolge una delle strutture strategiche del Vaticano. Sono state proprio le rivelazioni dell'alto prelato ad aprire scenari inediti. E adesso le verifiche disposte dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dal sostituto Stefano Pesce, si concentrano su questi trasferimenti di denaro. Così come accaduto per lo Ior, sono stati scoperti depositi non riconducibili ai religiosi utilizzati per «schermare» passaggi illeciti di soldi.
I «conti laici»
L'8 luglio scorso, assistito dal suo avvocato Francesco Caroleo Grimaldi, monsignor Scarano risponde alle domande dei pubblici ministeri e racconta i retroscena di svariate operazioni, fornendo anche i nomi di alcuni «referenti»: «Noi come Apsa non potevamo avere clienti esterni, ma pur non potendo in realtà "facevamo banca", nel senso che avevamo una raccolta di risparmio e forme di reimpiego con corresponsione di interessi ai depositanti. Fui ricevuto dal cardinal Bertone alcuni anni fa, subito dopo la sua nomina, ma l'incontro non ebbe alcun effetto».
Gli inquirenti chiedono di entrare nei dettagli e Scarano dichiara: «C'erano conti di cardinali, gestiti da Giorgio Stoppa precedente delegato direttore dell'Apsa. C'erano anche conti laici ma non ricordo alcun nome specifico se non quello della duchessa Salviati, benefattrice del Bambin Gesù. Di recente mi recai dal cardinal Filoni (Ferdinando, attuale prefetto di Propaganda Fide, ndr) al quale dissi dei conti "laici". Dato l'incontro al 2010 e in seguito a questo in effetti alcuni funzionari furono allontanati dall'Apsa. Mennini (Paolo, il direttore, ndr) era arrivato quando Stoppa andò in pensione e si trattava di trovare qualcuno che si occupasse anche di coprire gli scheletri da lui lasciati nell'armadio. Mennini portò con sé De Angelis. I due avevano uno stretto rapporto con Marco Fiore che lavora per i D'Amico a Montecarlo. Stoppa gestiva in maniera padronale e opaca il suo settore. Mennini gli riconobbe un trattamento pensionistico molto lauto. Mennini si era portato anche una certa Maria Teresa Pastanella che godeva di un trattamento privilegiato pur non avendo alcun titolo di studio. Per effetto del mio incontro con il cardinale Filoni furono anche chiusi dei conti di laici».
L'aggiotaggio e Finnat
Le indagini effettuate dagli specialisti del Nucleo valutario della Guardia di finanza guidati dal generale Giuseppe Bottillo hanno ricostruito un'operazione di riciclaggio da 20 milioni di euro che il prelato avrebbe effettuato su conti personali Ior per favorire i D'Amico. Adesso nuove verifiche mirate dovranno essere compiute sulle indicazioni di Scarano ai magistrati che durante l'interrogatorio gli avevano chiesto se avesse parlato con le gerarchie vaticane di quanto accadeva all'interno di Apsa.
Lui dichiara: «A Filone riferì di un'operazione fatta dal banchiere Nattino». Il riferimento è alla famiglia fondatrice della banca Finnat. Poi prosegue: «Questi aveva un conto all'Apsa (poi chiuso) e un figlio di Mennini, Luigi, lavorava nella banca da lui diretta. Fece un'operazione di aggiotaggio di cui si parlava nei corridoi che riguardava titoli della sua banca che subivano oscillazioni e che venivano comprati e venduti, di fatto, sotto mentite spoglie. A quanto ricordo i titoli erano stati fatti artatamente scendere di valore e Nattino li riacquistò al momento giusto senza apparire e servendosi dello schermo Apsa. Vi furono più operazioni simili. Quando il cardinale Filoni prese provvedimenti, la cosa scatenò il finimondo e io fui promosso in seguito a questi eventi, anche se la promozione, di fatto mi collocò fuori dal perimetro operativo. Avevo anche sospetti su improvvisi cambiamenti nelle banche con cui operavano (si consideri che spostavamo milioni di euro). In un caso fu interessato un istituto in cui lavorava il padre del genero di Mennini, ma non so quale sia la banca».

Repubblica 16.9.13
Ior, rivolta di vescovi e suore “Basta col terzo grado sui nostri conti correnti”
Raffica di domande allo sportello su prelievi e bonifici
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO — «Piuttosto è lei che mi deve spiegare che fine avete fatto fare ai miei soldi!”. «E perché devo dirle come utilizzerò questi 100 euro che devo prelevare? Io ci faccio quello che voglio senza rendere conto a nessuno». «Ma in base a quale diritto lei vuole sapere da dove provengono i 90 euro che mi sono stati accreditati sul mio conto?». «Cambio banca, qui non ci metterò più piede!...». È rivolta allo Ior (Istituto per le Opere di Religione), la banca vaticana, tra i piccoli e medi correntisti che ogni giorno si presentano al banco per effettuare prelievi, bonifici, pagare bollette. In gran parte preti, suore, religiosi, vescovi. Cardinali pochi perché o hanno un conto presso altri istituti o si servono dei rispettivi segretari per le periodiche operazioni bancarie. Joseph Ratzinger, ad esempio, non ha mai avuto un conto allo Ior né da cardinale né da pontefice.
Da qualche settimana, su decisione della direzione dello Ior, iclienti che si presentono agli sportelli della banca vengono sottoposti dagli impiegati ad una serie di domande. Un terzo grado a cui i correntisti sono costretti a rispondere, pena il blocco immediato dell’operazione. Un interrogatorio senza rispetto della privacy davanti a tutti i clienti presenti. C’è chi — come le suorine che non conoscono molto bene la lingua italiana o il prete che teme di perdere il prelievo che andrà in beneficenza — risponde, pur con grande imbarazzo. Ma non sono pochi quelli che reagiscono a muso duro agli impiegati, che cercano di calmare gli animi spiegando che hanno ricevuto ordini precisi dalla direzione dello Ior nell’ambito dell’operazione di “controllo e pulizia” chela banca da qualche tempo ha intrapreso per rispettare le regole sulla lotta al riciclaggio. Operazione iniziata a luglio con l’invioa tutti i correntisti della banca di una scheda con 11 quesiti relativi alla “identità” del conto: dal nome del titolare (persona fisica o società) all’attività del correntista, provenienza dei soldi (ricavi immobiliari, eredità, stipendi, pensioni, investimenti, donazioni...). Si deve specificare anche se le cifre sono frutto di remunerazioni per insegnamento, pubblicazioni, conferenze, attività commerciali o da libero professionista. Le domande sono accompagnate da una lettera nella quale lo Ior spiega che si tratta di una “richiesta di informazioni aggiuntive per un aggiornamento della documentazione anagrafica e informativa della propria utenza”.
Allo sportello, però, ai correntisti non basta consegnare la scheda compilata. Prima di effettuare prelievi o versamenti anche di piccole somme devono sottostare alle domande personali degli impiegati, che vogliono sapere praticamente tutto, ponendo quesiti e pretendendo risposte al cospetto tutti gli altri correntisti in coda: in particolare “perché state prelevando questa cifra? Cosa ci dovete fare?”. Se un prete, o un religioso, risponde “la devo dare in beneficenza”, scattano altre domande su “chi saranno i beneficiari?, e perché la cifra va data proprio a loro?”. Capita spesso che qualche sacerdote destini mensilmente un aiuto ai clochard che stazionano davanti alla parrocchia, così non sanno i nomi di chi assistono. «O mi dice chi è il beneficiario e per quale motivo lei gli dà questi soldi o qui scrivo che lei usa questi 80 euro per motivi personali», è la secca risposta del funzionario Ior.
«E lei crede di evitare il riciclaggio adottando questi metodi?», ha tuonato un vescovo che voleva prelevare 300 euro. «Io con i soldi che prelevo ci faccio quello che voglio e non devo dar conto a nessuno. Siete voi dello Ior che dovete spiegarmi come avete utilizzato i miei risparmi. La verità è che avete perso credibilità e ora — ha protestato l vescovo — cercate di rifarvi una verginità con questi metodi vessatori contro i piccoli correntisti. Non mi vedrete mai più». Ora allo Ior temono che altri seguiranno il suo esempio.

La Stampa 16.9.13
Lo scontro nel Pd
Renzi: basta regali a Berlusconi
Il sindaco: “Se si votasse ora li asfalteremmo, per questo il Pdl non vuole le elezioni”
di Jacopo Iacoboni


«Giù, per terra», esordisce dal palco Francesco La Forgia, coordinatore del Pd di Milano, rivolto alla folla che s’accalca per fare la foto al sindaco leader. Non una frase simpaticissima, ma è l’incipit di un piccolo episodio rivelatore che accoglie Matteo Renzi a Sesto San Giovanni. La Forgia alle primarie votò Bersani, e molto lo sostenne; ora introducendo Renzi pronuncia un discorso più rottamatorio del rottamatore. In questo istante, davvero, bisognerebbe essere nella testa di Renzi. Forse vi si coglierebbe un lungo sospiro sulle umane cose.
Perché è certo che ieri il sindaco ha ripetuto «noi non cerchiamo rivincite rispetto all’altra volta, questa è un’altra sfida», però non può non aver notato l’increscioso fenomeno. E allora «non mi preoccupano né gli endorsement per l’uno né per l’altro», però «se pensate di salire sul carro per convenienza, sappiate che noi siamo abituati a far scendere questa gente prima ancora che sia salita». E, dopo un po’ di tempo, torna a usare il verbo più evocativo della sua esperienza politica, rottamare: «Se al congresso si decide di voltare pagina la prima cosa che rottamiamo sono le correnti, lo dico per primo ai renziani, guarite da questa malattia! La politica bisogna farla portandoci entusiasmo, e col proprio nome». Non è dato sapere cosa pensi, a quel punto, il senatore Franco Mirabelli, altro neo fervente renziano milanese in sala, vicino a Franceschini.
Ecco, ci sono alcune osservazioni che balzano all’occhio guardando Renzi a Sesto San Giovanni. Siamo nell’ex area Breda, una zona di recupero post-industriale interessantissima - spazi che hanno il sapore del Novecento rosso italiano, delle sue forze e sconfitte, accanto a palazzoni grigi o buffamente multicolore che tradiscono quella dubbia, ma quanto affascinante estetica della periferia nord milanese. Quando Matteo fa il solito esperimento di chiedere quanti sono gli iscritti in sala, almeno 1800 delle duemila e più persone alzano la mano. Gente di partito, sì, ma sono giovani; spesso si sono iscritti da poco; non restituiscono l’idea della Sesto operaia, antica e tradita Stalingrado del nord. E Renzi non accenna al Novecento operaio. Sulla decadenza del Cavaliere si sbilancia in una scommessa (sempre a rischio col Pd dei 101), «salvare Berlusconi non esiste». Lui non crede affatto che si voti a breve, «Berlusconi non farà mai cadere il governo»; perciò l’aggiunta - «anche perché se si votasse noi non ripeteremmo gli errori del passato, li asfalteremmo» - racconta più del carattere di Matteo che di una minaccia reale.
Si vede che fatica a trattenere la battuta sul premier, certo è sempre pungente con le larghe intese, «come si fa a mandare subito in pensione le larghe intese? Si fa subito una legge elettorale per cui, come per il sindaco, sia chiaro chi vince»; oppure quando gli chiedono cosa potrebbe fare Letta, dribbla, «questo gioco di sistemare le persone lo faceva D’Alema una volta... a Enrico lo dico dal primo giorno, se il governo fa bene sono il primo a festeggiare, se invece rinvia e rinvia e rinvia, rivendico il diritto di dire: portate a casa qualcosa»...
Il vecchio Pd di Penati, qui a Sesto, è come se non ci fosse più. Mutazione financo troppo rapida, sussurrano a Milano. Qui stasera vedi facce come quelle di Simona Bonafè, Maria Elena Boschi, Marco Campione. Passa Giorgio Gori. Passa Federico Sarica, direttore di Studio. L’altra sera, alla festa per la nuova sede della scuola Holden, Renzi a tu per tu confidava: «Sono molto sereno, nonostante tutto vivo questo momento con una maturità e una tranquillità che ho scoperto dentro. So che stiamo andando bene, molto bene, ma so che la partita è lunga»; e bisogna a questo punto guardarsi dagli amici, non solo dai nemici.

Corriere 16.9.13
Renzi: salvare Berlusconi? Non esiste Se andiamo alle urne li asfaltiamo
Il sindaco a Milano: nuova legge elettorale per pensionare le larghe intese
di Elisabetta Soglio


MILANO — La legge elettorale «da fare in fretta e bene perché è il solo modo per mandare in pensione il governo delle larghe intese». Il futuro di Berlusconi «che non farà cadere l’esecutivo e comunque se si vota li asfaltiamo». Il Pd che «deve imparare a comunicare bene e non deve chiudersi e mettere casa in un museo delle cere». La stoccata ai grillini «che vanno sul tetto a difendere la Costituzione, ma devono farlo al piano di sotto». Fino alla dichiarazione d’amore: «Io sto cercando di far vincere la sinistra, non di tradirla». È toccato a Matteo Renzi chiudere ieri sera la festa del Pd milanese, da due anni traslocata a Sesto San Giovanni nella (ex) rossa Stalingrado, negli spazi del Carroponte, monumento del parco archeologico industriale della ex Breda.
Una folla immensa, con gli operai ormai in pensione ma ancora nostalgici del Pci e i giovani che cercano qualcosa di nuovo, le famiglie e gli iscritti, i curiosi e i simpatizzanti. L’accoglienza è calorosa, più di quella che la sera precedente aveva ricevuto l’ex segretario Bersani (e sono in molti a giurare che il sindaco di Firenze ha vinto anche il match a distanza con Gianni Cuperlo, a Milano appoggiato dai dirigenti del Pd). Una bella soddisfazione, per uno che alle primarie qui si era fermato intorno al 38 per cento e che oggi si trova intorno molti di quelli che lo criticavano: «C’è spazio per tutti. Ma quelli che pensano di salire sul carro del vincitore stiano attenti, perché siamo abituati a farli scendere prima che possano ottenere qualcosa», avverte. Gli applausi all’inizio non sono scroscianti. La gente si scioglie man mano che Renzi risponde alle sollecitazioni di Beppe Severgnini e si esalta quando il sindaco critica il governo delle larghe intese: «Certo che non facciamo i salti di gioia, ma dobbiamo sapere che è colpa nostra. Abbiamo perso le elezioni mettendoci a disquisire di giaguari e di tacchini». Enrico Letta? «Non ricominciamo con il derby della personalizzazione. Appena apro bocca su Enrico arrivano le critiche e questo è letale per il Pd, non per il rapporto Letta-Renzi. Dico che se il suo governo fa le cose per bene, sono il primo ad esserne contento. Ma se rinvia, rinvia, rinvia, rivendico il diritto di dirlo». Quindi, l’impegno: «Se qui si cambia linea, dobbiamo rottamare le correnti perché non si afferma un’idea sulla base dell’appartenenza e lo dico anzitutto ai renziani: guai a voi!». Infine, il consiglio al governo Letta: «Non si preoccupi nelle prossime settimane di stare dietro a ricatti e minacce ma faccia le cose promesse, a partire dalla legge elettorale». Quanto all’ipotesi di Letta al Quirinale, Renzi è categorico: «Questo gioco di sistemare le persone nelle caselle l’hanno fatto una volta anche con me. Ma ci danneggia».
C’è poi tutto il capitolo Berlusconi. «L’ipotesi di salvarlo non esiste. Se anche qualche furbastro ci provasse, ma non credo, Berlusconi ha una condanna definitiva con l’interdizione». Il sindaco spiega perché Berlusconi è stato «straordinario» quando in campagna elettorale ha annunciato l’abolizione dell’Imu: «Non era preoccupato per la casa, ma aveva bisogno di crearsi degli avversari e sapeva che qualcuno nel Pd avrebbe detto di no al taglio della tassa. E la cosa più straordinaria è che Berlusconi non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale: ma noi del Pd, che siamo un partito generoso, cosa abbiamo fatto? Gliene abbiamo realizzata noi una, proprio quella dell’Imu». Renzi risponde anche a «quelli che mi criticano perché cerco di acchiappare i voti dei delusi del centrodestra. Non faccio battute per ottenere facile consenso e non sono una superstar. Ma se non prendi questi voti non vinci le elezioni. E se non vinci le elezioni devi tenerti Brunetta e Schifani e con loro la legge sul conflitto di interesse, che noi vogliamo, non la puoi fare».
Un’ora e mezza dopo, la chiacchierata si conclude. Renzi fa un giro negli spazi della Festa e si ferma allo stand dei Giovani Democratici dove viene accolto scherzosamente dalla sigla di Happy Days e viene omaggiato con il pupazzo di un giaguaro. Il sindaco sta al gioco ma rifiuta il dono: «Questo lo mettiamo da parte, poi magari lo smacchiamo insieme fra un anno..».

La Stampa 16.9.13
Il rottamatore e il rischio logoramento
La routine da segretario di partito potrebbe fargli perdere appeal elettorale
di Federico Geremicca


Potremmo chiamarla la parabola della foglia di fico. In questo o quel dibattito, in questa o quella Festa democratica, Matteo Renzi l’ha ripetuta spesso negli ultimi mesi, per rimarcare la sua distanza dallo «stato maggiore» del Pd e le potenzialità elettorali - l’appeal, insomma - di una sua candidatura (prima a premier, poi anche a segretario). Il sindaco di Firenze la racconta così: non pensino di utilizzarmi come una foglia di fico, cioè che io prendo i voti ma poi comandano loro, perchè io i voti li prendo solo se non ci sono più loro...
Con quel «loro», Renzi intende gli onnipresenti «soliti noti» del Pd: e forse, addirittura, tutt’intero lo stesso Pd, con le sue burocrazie, i suoi apparati, le sue correnti e le sue liti. È una lettura sulla quale si può esser più o meno d’accordo: ma non pare campata in aria e - probabilmente - poggia su una solida base di verità. Quel che si capisce meno, allora, è la circostanza che Renzi abbia deciso di scendere in campo e di ingaggiare battaglia (e che battaglia) proprio per diventare il capo di un partito e di dirigenti che non fa mistero di non amare più.
Se il Congresso del Pd si farà davvero entro quest’anno e se le famose «regole» non saranno cambiate, ogni previsione - al momento - indica proprio in Renzi il sicuro vincitore di primarie che rischiano addirittura di trasformarsi in un mezzo plebiscito. A quel punto, di fronte al neo-segretario (e ovviamente al suo partito) si pareranno due scenari assai diversi: che il governo Letta inciampi e si vada dunque a elezioni la primavera prossima, oppure che il patto Pd-Pdl-Scelta civica tenga e al voto ci si giunga solo nella primavera 2015 (nella migliore delle ipotesi). Uno scenario, naturalmente, non vale l’altro: e il secondo, in particolare, potrebbe trasformarsi in un boomerang, in un colpo, per lo stesso Renzi e considerata la situazione - per le sorti dell’intero Pd.
Non c’è sondaggio, infatti, che oggi non indichi nel sindaco di Firenze il miglior candidato possibile alla premiership per conto del centrosinistra: vincerebbe contro Berlusconi e dunque, presumibilmente, contro chiunque altro. La sua forza, però, risiede soprattutto nell’alone di novità che lo circonda e nella distanza - addirittura nell’estraneità - che gli viene riconosciuta (a torto o a ragione) rispetto ai cosiddetti «soliti noti». Anche la sua capacità di attrarre consensi tra chi ha sempre votato «dall’altra parte», del resto, origina da queste precise e incontestabili caratteristiche.
Che sarebbe di tutto questo, una volta che Renzi venisse eletto segretario del Pd? E che ne sarebbe, soprattutto, se il giovane sindaco di Firenze dovesse ritrovarsi inchiodato a quel ruolo per un tempo indefinito, in ragione della tenuta del governo di Enrico Letta? Lasciamo stare, in questa sede, i possibili effetti che una segreteria-Renzi potrebbe avere sulle sorti del Pd: e proviamo a ipotizzare, solo per un momento, quel che potrebbe accadere su uno scenario più generale.
L’effetto-novità sfumerebbe in maniera inversamente proporzionale alla quantità di immagini di questo o quel Tg che lo ritraggono in riunione con i «soliti noti», in delegazione dal Capo dello Stato, in polemica con Alfano o con Casini o perfino alle prese con questo o quello scandalo che dovesse riguardare il Pd. Non solo: per un elettore di centrodestra sarebbe ovviamente cosa ben diversa (e più difficile) passare da Berlusconi al Renzi-rottamatore di oggi, piuttosto che al Renzi nientemeno che segretario del Pd. L’effetto sul centrosinistra, insomma, sarebbe quello di ritrovarsi con un candidato-premier ieri vincente e poi invece «sfigurato», depotenziato, dalle scelte (e dal ruolo) da lui stesso compiute.
Per non dire dei riflessi (non irrilevanti) che una segreteria Renzi potrebbe avere sullo stesso Pd: e qui si va dall’ipotesi estrema di una scissione fino a quella (ottimistica ma meno probabile) di una totale e positiva trasformazione del partito e del suo modo di essere e di operare. Ciò nonostante, Renzi pare aver fatto la sua scelta. Potrebbe non essere un buon affare, né per lui né per il Pd: ma come in tante altre cose solo il tempo dirà se le cose stanno davvero così...

La Stampa 16.9.13
I congiurati anti-Matteo “In caso di crisi, primarie solo per la premiership”
Bersaniani e dalemiani tentati dal blitz per tenersi il partito
di Carlo Bertini


«Chiamala se vuoi, tentazione...»: così la definisce per ora uno dei giovani leoni della brigata anti-Renzi messa in piedi per ingaggiare la resistenza contro il rottamatore: e la «tentazione», che in questi giorni stanno accarezzando bersaniani e dalemiani ha già un nome e cognome: «clausola di salvaguardia». Da far votare in assemblea se si riuscisse a raggranellare una vasta maggioranza di «maldipancisti vari», franceschiniani, lettiani, bindiani, fioroniani e così via.
L’obiettivo è chiaro, evitare che in caso di elezioni Renzi possa prendersi in due colpi ravvicinati partito e governo. Ad illustrarne la ratio senza peli sulla lingua è Alfredo D’Attorre, autore del documento congressuale di Bersani, «Fare il Pd» e membro della segreteria di Epifani: «Se la crisi non deflagra prima, venerdì l’assemblea è chiamata a convocare il congresso ragionando come se legislatura andasse avanti. Ma si potrebbe proporre una clausola per stabilire che se si aprisse un percorso che portasse ad elezioni anticipate, si sospendano le primarie per il segretario e si facciano quelle per la premiership. Ma senza alcuna intenzione di usare l’incertezza politica come alibi per non fare il congresso, si badi bene».
Un blitz che risulterebbe indigesto al sindaco di Firenze, al punto che basta prospettare una simile ipotesi a due suoi parlamentari per sentir esplodere due sonore risate, condite dalla controaccusa «sarebbero irresponsabili». Ancora non c’è uno straccio di accordo con Renzi su come si svolgerà il congresso, per evitare di arrivare in Assemblea «al buio» mercoledì dovrebbe riunirsi la Commissione ad hoc, ma Epifani ancora non l’ha convocata. I due nodi sul tappeto sono la partita dei segretari regionali, se cioé farli eleggere prima, dopo o in contemporanea al leader; e quella per la «separazione delle carriere» tra segretario e candidato premier. Quest’ultima è collegata appunto alla «tentazione» che i giovani leoni delle correnti che sostengono Cuperlo stanno maturando: perché certificando che in caso di voto anticipato si facciano solo le primarie per la premiership, di fatto si congelerebbe la figura del segretario. E difficilmente, una volta giocata la partita per Palazzo Chigi, Renzi potrebbe spendersi pure per la campagna congressuale, che verrebbe rinviata a dopo le elezioni. «Comunque sia, se vi fosse una clausola del genere non sarebbe male, ma anche se non vi fosse sarebbe ragionevole tenere in conto un’eventuale sospensione e una modifica del percorso congressuale», fa notare il portavoce di Bersani, Stefano Di Traglia.
Insomma, la questione ancora viene derubricata come un’ipotesi di «buon senso», figlia della distinzione dei ruoli tra segretario e premier, ma non è stata formalizzata in attesa dello scontro finale.
«Fermo restando che il congresso va chiuso entro l’anno chiarisce D’Attorre - noi teniamo il punto che si debba partire dal basso, facendo votare i circoli e le federazioni liberamente, senza ingabbiarli in schemi correntizi. In Lombardia, una parte dei nostri voterà un renziano, in Calabria avverrà il contrario: meglio se non siamo noi da Roma a dirgli cosa fare. E non è per mantenere l’apparato esistente, anzi».
E mentre i resistenti stanno preparando una manifestazione per la prossima settimana a Roma con Cuperlo Bersani, Marini ed altri ex Dc, i renziani già salgono sulle barricate contro la tentazione del blitz. «Una cosa così sembrerebbe di fatto un macigno per indebolire Letta e se l’assemblea nazionale votasse una roba simile si capirebbe chiaramente chi pensa davvero alla crisi di governo», dice Paolo Gentiloni. E chi per Renzi tratta le regole in commissione congresso, cioé Lorenzo Guerini, è ancora più duro. «Votare una clausola del genere? Se fossi Letta li manderei a quel paese...»

Corriere 16.9.13
E Cuperlo presenta l’altra ricetta «Penso solo a ricostruire il Pd»
«Parleremo poi di chi è più giovane o fotogenico»
di Alessandro Trocino


ROMA — Il segretario Guglielmo Epifani è preoccupato: «Il centrodestra si assuma le sue responsabilità: non stacca la spina al governo, ma al Paese». E il tema della sopravvivenza dell’esecutivo di larghe intese, sottoposto al logorìo provocato dall’avvicinarsi del giorno del giudizio per Silvio Berlusconi, non può che collegarsi alle prospettive del Partito democratico. Che si avvicina sempre più alle primarie per il segretario. Tanto che Epifani annuncia: «Entro questa settimana il tema della data del congresso verrà affrontato, discusso e spero anche deciso».
E se Matteo Renzi si dice sicuro che il centrosinistra «asfalterà» il Pdl alle urne, Epifani replica, meno convinto: con «il Porcellum, una legge uguale alla legge Acerbo, fatta in pieno fascismo, è particolarmente difficile stravincere. Poi è chiaro che se sarà questa la legge faremo di tutto per stravincere».
Intanto gli altri protagonisti del duello cominciano a scaldarsi. Il principale rivale di Renzi (gli altri sono Pippo Civati e Gianni Pittella) non potrebbe essere più diverso dal sindaco di Firenze e non perde occasione per dichiararlo. Gianni Cuperlo è un tipo posato, un intellettuale abituato a ragionare a bassa voce e con una chiara inclinazione verso la sinistra, dalla quale proviene, a differenza di Renzi.
Come massima concessione al glamour gossip, Cuperlo ha confessato ieri di essere milanista. Nessuna frase roboante, né tantomeno proclami da battaglia. L’ultimo segretario della Fgci sfodera un understatement che a tratti ricorda quello di Mino Martinazzoli: «Vincere? Non so se vincerò io o se vincerà il giovane sindaco di Firenze, e non mi interessa neanche». Poi una frecciata: «Parleremo poi di chi è più giovane o più fotogenico, adesso dobbiamo capire dove siamo adesso. Dov’è l’Italia? Dov’è l’Europa? E dov’è il Pd dentro l’Italia e dentro l’Europa?».
Cuperlo reagisce infastidito alle polemiche di Renzi, che insiste sulla data del congresso e sulle modalità di elezione del segretario: «I punti del mio programma? Ricostruire il Pd, fare un congresso non basandolo sulle regole. Non bisogna guardarsi la punta delle scarpe». Quanto all’esecutivo, il sostegno lo dà, ma controvoglia: «Questo non è il governo che avremmo voluto. La maggioranza che lo sostiene non è e non potrà mai essere un progetto politico».
Anche Stefano Fassina, dopo l’endorsement di ieri di Pier Luigi Bersani, sta con Cuperlo: «Renzi va molto di moda ed è sostenuto da media molto rilevanti. La battaglia congressuale è aperta, molto difficile per chi va controcorrente e cerca di contrastare le mode». Il renziano Davide Faraone vede nell’appoggio di Bersani e degli ex ds un elemento a vantaggio del sindaco di Firenze: «Da quella parte ci sono non solo gli ex pci, ma l’idea e la concezione stessa del Pd come partito formato da ex. Una impostazione che guarda indietro. I tre protagonisti del patto di sindacato del Pd, Bersani, Franceschini e Letta, ormai giocano di rimessa».

Repubblica 16.9.13
Pd al 28 %, Pdl a 2 punti
Ma è un'Italia senza maggioranza
di Ilvo Diamanti

qui

TUTTE LE TABELLE QUI

«L’articolo 138 della Costituzione non si tocca…» gridano i manifestanti
La manifestazione di protesta è organizzata dalla sezione regionale dell’Anpi, Abruzzo Social Forum, Rifondazione e Movimento Cinque Stelle.
Repubblica 16.9.13
I saggi in conclave, sit-in e proteste
Al via i lavori in hotel per cambiare la Costituzione. “L’articolo 138 non si tocca”
di Giuseppe Caporale


FRANCAVILLA AL MARE — «Allora, ce l’avete fatta a superare il sit-in di protesta...». Scherzano tra loro i trentacinque saggi del governo Letta, mentre fuori dall’hotel Sporting Villa Maria, 4Stelle Superior, c’è un clima d’assedio. I prescelti per cambiare la Costituzione arrivano alla spicciolata per il conclave che si terrà fino a domani in questo albergo in collina che si affaccia sul mare Adriatico. Costo del soggiorno: ventimila euro, a spese dello Stato. I sorrisi di circostanza provano stemperare la tensione. Ci sono forze dell’ordinedappertutto. A rovinare l’accoglienza ci pensa un gruppo di manifestanti, che davanti ai cancelli, con dei cartelli in mano, urla e intona slogan, seppure sotto gli occhi di una ventina di poliziotti, guidati dai dirigenti della Digos. E il rischio di scontri c’è ogni volta che arriva un auto in cui viaggia uno degli esperti scelti da Palazzo Chigi: volano insulti e c’è anche chi tenta di fermare l’auto. «L’articolo 138 della Costituzione non si tocca…» gridano.
La manifestazione di protesta è organizzata dalla sezione regionale dell’Anpi (l’associazione nazionale partigiani italiani), Abruzzo Social Forum, Rifondazione e Movimento Cinque Stelle. «La Costituzione può anche essere oggetto di una revisione ma non possono essere questi i metodi per riscriverla, come l’attacco all’articolo 138» prova a spiegare le sue ragioni tra uno slogan el’altro il presidente dell’Anpi di Pescara, Enzo Fimiani.Per il parlamentare abruzzese del M5S Andrea Colletti «più che i saggi questi signori rappresentano i seggi… vista l’appartenenza dei giuristi nominati da Letta ai due partiti che tengono in vita il Governo». «Questo è un centro benessere, l’Italia èdiventata un centro malessere, speriamo di sentirci meglio», afferma il costituzionalista Michele Ainis, arrivando a Francavilla al Mare. Rispondendo ai cronisti che lo interpellavano sulle spese sostenute per la riunione dei saggi Ainis ha detto: «Io sono venuto a spese mie con la mia macchina e sto lavorando gratis. Personalmente avrei preferito non muovermi, anche perché vivo a Roma. Speriamo di fare un buon lavoro ».
Il dispiegamento di forze è un muro invalicabile per i manifestanti: i carabinieri hanno organizzato posti di blocco lungo le strade vicino all’albergo. Dentro invece, il giardino di sei ettari è pattugliato da una decina di uomini della guardia di Finanza, mentre all’ingresso ci sono perfino gli artificieri della questura di Pescara. Nella hall intanto i “saggi” si fermano per i saluti, mentre il personale del ricevimento dell’albergo li informa che «il pranzo è in terrazza, mentre gli accappatoi per accedere al centro benessere sono già in camera». «La Spa è al piano di sotto, per i massaggi basta prenotare a questo numero…» specifica il concierge. E c’è già chi si prenota.

La Stampa 16.9.13
In tre anni bruciata la generazione under 35
Istat: i giovani hanno perso un milione di posti di lavoro rispetto al 2010
La fascia più colpita è tra i 25 e i 34 anni
di Roberto Giovannini


L’Italia - purtroppo ormai lo sappiamo - non è un paese amico dei giovani. Lo dice l’esperienza quotidiana di tutti noi, ma lo confermano anche i numeri. Come mostrano i dati dell’Istat riferiti al secondo trimestre del 2013, tra il 2010 e il 2013 il numero delle persone con meno di 35 anni con un lavoro è letteralmente crollato: da 6,3 a 5,3 milioni. A subire la regressione peggiore sono gli italiani tra 25 e 34 anni, che nello stesso periodo hanno dovuto accettare la perdita di ben 750.000 posti di lavoro. Nel secondo trimestre 2013 in questa fascia di età - quella in cui un tempo chi aveva seguito un corso universitario si laureava, cominciava a lavorare ed eventualmente metteva su famiglia - lavoravano appena 4,329 milioni di persone contro i 5,089 milioni di tre anni prima. Il tasso di occupazione ha subito un crollo dal 65,9 al 60,2 (era al 70,1% nella media 2007), con quindi appena sei persone su dieci al lavoro nell’età attiva per eccellenza. E se per i maschi del Nord la situazione è ancora accettabile, con l’81,4% al lavoro (dall’86,6% del secondo trimestre 2010), al Sud la situazione è drammatica con appena il 51% degli uomini della fascia 25-34 anni che lavora (e solo il 33,3% delle donne).
L’imbuto che ha stritolato questa generazione è stato generato dalla recessione e dalle riforme pensionistiche. Da una parte, infatti, la stretta sull’uscita verso il pensionamento ha obbligato al lavoro i più anziani (il tasso di occupazione nella fascia tra i 55 e i 64 anni è passato nel triennio considerato dal 36,6% al 42,1%). Dall’altro, ovviamente, la crisi economica che ha raggelato l’economia ha insieme bruciato occupazione e impedito la creazione di nuove opportunità di impiego.
Per le giovani donne del Sud il calo percentuale è stato meno consistente partendo da un dato basso (dal 34,2% al 33,3%). Se si guarda al complesso degli under 35 (quindi anche ai giovanissimi) il tasso di occupazione a livello nazionale risulta in calo dal 45,9% del secondo trimestre 2010 al 40,4% dello stesso periodo del 2013. Il tasso di disoccupazione nella fascia tra i 25 e i 34 anni è cresciuto dall’11,7% del secondo trimestre 2010 al 17,8% dello stesso periodo del 2013 con oltre sei punti in più. I disoccupati tra i giovani adulti sono passati da 670.000 a 935.000. Al Sud il tasso di disoccupazione in questa fascia di età è ormai al 30% (molto simile tra uomini al 29,1% a donne al 31,5%) dal 20,6% di appena tre anni prima. Al Nord la disoccupazione tra i giovani adulti è passata dal 7,3% del secondo trimestre 2010 al 10,9%.
Intanto, secondo un’indagine condotta da Swg per la Coldiretti, la maggioranza dei giovani (51%) sotto i 40 anni è pronta a espatriare per lavorare. Secondo il sondaggio il 73% dei giovani ritiene che l’Italia non possa offrire un futuro; solo il 20% ritiene che gli italiani hanno competenze e creatività per uscire dalla crisi. Non si crede più neanche nella raccomandazione, alla quale solo l’11% dei giovani italiani dichiara di aver fatto ricorso. La visione negativa del futuro è confermata dal fatto che in generale il 61% degli under 40 interpellati pensa che in futuro la sua situazione economica sarà peggiore di quella dei propri genitori. Per il 17% sarà uguale, e solo per il 14% migliore (gli altri non rispondono).

l’Unità 16.9.13
Gli studenti tornano in piazza l’11 ottobre
di Dario Costantino

Coordinatore della Federazione degli studenti

UN’OPERAZIONE STORICA. LA SPIEGAVAMO COSÌ IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA DI CINQUE ANNI FA AI NUOVI ISCRITTI: l’ultimo governo di centrodestra tagliava gli investimenti all’istruzione dopo 150 anni di continuo aumento. Al fondo l’idea, purtroppo ancora sostenuta da alcuni, era separare le intelligenze delle mani e della mente e costruire una scuola pubblica sempre più piccola ed elementare.
Nel frattempo l’abbandono scolastico è cresciuto, le iscrizioni all’università sono calate, l’edilizia scolastica è in eccezionale stato di difficoltà e l’offerta formativa è stata ridotta all’osso. Nonostante i risparmi il Paese recede e i ragazzi studiano poco e lavorano meno, con somma soddisfazione dei sottotenenti della meritocrazia. Un leggero segnale di inversione è arrivato. Il decreto Istruzione del Governo, nei suoi limiti, consegna ai ragazzi un primo giorno di scuola diverso, con qualche strumento in più e un’ingiustizia in meno: quell’insopportabile bonus maturità, su cui si è danzato un po’ troppo. Non sarà, né può essere presentato come la Gerusalemme del sapere, ma intraprende dei primi e necessari accorgimenti.
Quei provvedimenti però non avranno il successo che sperano se non saranno inseriti in un disegno di insieme. Tanto meno le strade strette di questo esecutivo possono giustificare l’assenza, a sinistra, di una riflessione organica sulla scuola, l’università e la ricerca. Non può presumerlo, in primis, il Partito democratico che guida quest’esecutivo.
Cominciamo rovesciando le ragioni che hanno giustificato questi anni. Per prima cosa: il sistema sapere è l’elemento fondamentale per la costruzione di un modello di sviluppo intelligente e sostenibile, funziona se è capace di includere e diffondersi, generalizzando l'accesso ad alti livelli di conoscenza. Farlo significherà aumentare le risorse e la relazione con la vita delle città e col mondo della produzione. La trasformazione della scuola chiama tutti all'impegno. Dovranno essere i docenti e gli studenti a stabilire insieme i temi, i tempi e gli spazi dell’apprendimento, integrando gli obiettivi nazionali con il patrimonio delle città e del territorio.
È la possibilità di una classe siciliana di studiare una monografia su Sciascia anziché un anno di Promessi sposi, stipulando un nuovo patto educativo. Lì maestro e allievo vivono alla pari un percorso di ricerca, che include, impiega il web, interseca le discipline, valuta il prodotto e il processo di ciò che si è fatto e non lascia nessuno indietro. Su questo dovremo essere capaci di incontrarci e indirizzare un cammino collettivo di riforma.
Ognuno però ha bisogno degli strumenti per studiare. Per comprarsi dei libri, un e-reader o banalmente per arrivare a scuola. Il governo ha aperto una strada, ma è al Parlamento e alle forze politiche a cui chiediamo di costruire un’infrastruttura migliore. Nel nostro Paese esistono venti leggi regionali diverse sul diritto allo studio, e pare che gli estensori non si siano mai rivolti la parola. I 15 milioni erogati dal governo non bastano e vengono distribuiti in un regime di iniquità interregionale. È doveroso adottare una legge nazionale che renda omogeneo il diritto allo studio da Palermo a Torino, integrandolo ad un welfare più ampio, che deve crescere dal municipio alla Regione, dai teatri comunali ai trasporti interurbani.
Su questo abbiamo scritto una proposta di legge con le altre associazioni studentesche, depositata da alcuni giovani parlamentari del Pd. Per questo andremo in piazza l’11 ottobre, in tutta Italia. Per chiedere una rapida calendarizzazione e approvazione del testo. Le assenze non sono giustificate.

La Stampa 16.9.13
Ask, il social network che scatena la violenza fra gli adolescenti
A Bologna dopo una mega-rissa indagine sul sito dei teenager
Lo scontro fra 250 giovani: venerdì notte il regolamento di conti tra «ragazzi bene» e coetanei delle periferie
Cyberbullismo Il 43% degli adolescenti si è scontrato con questo fenomeno: persecuzioni offese e molestie consumate on line attraverso i social network
di Giuseppe Bottero, Franco Giubilei


È vero che domani vai ai Giardini con il lanciafiamme a bruciare la Bolofeccia?». Due giorni dopo la maxi-rissa tra i ragazzi di Bologna la chiamata alle armi è ancora lì, sulla bacheca di Ask, il più discusso e controverso tra i social network. Per qualcuno, una tana in cui dimenticare le timidezze. Per gli altri, il paradiso dei cyber-bulli, una piazza virtuale in balìa degli anonimi. Per i 250 adolescenti che venerdì sera si sono sfidati ai Giardini Margherita, divisi in fazioni- la «feccia» contro la «parte bene della città», gli studenti degli istituti tecnici di periferia contro i liceali del centro- il sito è stato campo di battaglia per tutta l’estate. Un’escalation di scherzi che si sono trasformati prima in insulti e poi in minacce. Fino alla resa dei conti.
La Procura di Bologna, che ha aperto un’inchiesta per rissa aggravata e istigazione a delinquere, non ha dubbi: è nato tutto su Ask, il sito lanciato nel 2010 che corre senza freni. Almeno 60 milioni di messaggi e 200 mila nuovi iscritti al giorno. L’ età media degli utenti non raggiunge i 18 anni.
Il Facebook dei ragazzini, sede in Lituania, vale almeno 65 milioni di euro. Ask funziona perché è a misura di adolescente: offre risposte a chi non ha nient’altro che domande. Funziona perché, dietro il tasto «anonimo», abbatte le timidezze. Funziona, e spaventa. In Gran Bretagna, choccato dal suicidio di due ragazze, il primo ministro Cameron ha evocato un boicottaggio: «Se inciti qualcuno a farsi del male, stai violando la legge, che tu sia online o offline. Se c’è una cosa che possiamo fare come genitori e come utenti è non usare siti come quello. Ignorateli, non ci andate». I proprietari di Ask, nel ciclone da mesi, si barricano dietro un comunicato: «Tutte le segnalazioni sono lette da un team di moderatori. Rimuoviamo sempre i contenuti che violano i termini del servizio». In realtà, dopo il crescendo di cyber-violenza, anche nel palazzone di Riga iniziano a serpeggiare i timori. Da poco sul sito è arrivato un «panic button», un pulsante che consente di segnalare gli abusi. Troppo tardi? Raccontano dall’associazione «Save The Children» che il cyber-bullismo, in Italia, è una minaccia per 7 adolescenti su 10. Insulti, foto sconvenienti, domande imbarazzati. Sfregi virtuali che provocano ferite dolorosissime. E che hanno lasciato senza parole Bologna, dove la Procura minorile, nei prossimi giorni, ascolterà tutte le persone coinvolte. Al di là dei profili penali, dice il procuratore Ugo Pastore, «per noi l’aspetto più importante è capire se alle spalle dei ragazzi ci sono famiglie idonee oppure se ci sono carenze, latitanze educative. Insomma bisognerà capire come si è arrivati a questo punto».
Le ideologie politiche non c’entrano, le ragazze neppure. È come se qualcuno avesse deciso di trasferire in strada tutta la rabbia accumulata in Rete. «La rissa di venerdì è uno dei casi in cui si verifica un corto circuito fra vita online e vita reale: non è colpa del social network in sé», dice Annalisa Guarini, ricercatrice del dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna. Secondo Alberto Rossetti, psicologo specializzato in cyber-dipendenza, «i ragazzi vanno educati al digitale. A scuola e in famiglia. Devono capire i meccanismi e le conseguenze di ciò che succede in Rete». A Bologna è finita con qualche cazzotto e una denuncia. Hanna Smith e Rebecca Ann Sedwick, neppure un mese prima, sono state sbranate nelle loro camerette dagli insulti e dalle insinuazioni degli anonimi. Il processo ad Ask è appena iniziato.

Repubblica 16.9.13
Male l’Spd che si ferma al 20%
Baviera, la Merkel dilaga ma perde i liberali
Test a una settimana dal voto nazionale, gli alleati sotto la soglia del 5 per cento
di Andrea Tarquini


BERLINO VENTO in poppa dalla ricca Baviera per Angela Merkel, a una settimana dalle elezioni politiche generali dove la cancelliera chiede un terzo mandato di legislatura.
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
ALLE elezioni nel Freistaat Bayern – il più prospero ed efficiente Land della federazione, terra di eccellenze tecnologiche da Bmw a Audi, da Siemens all’aerospaziale – il centrodestra degli alleati locali di “Angie” ha vinto alla grande, ha colto un successo cruciale in vista delle elezioni nazionali riconquistando la maggioranza assoluta che aveva perduto alle scorse consultazioni regionali.
Male le sinistre, qui come altrove nella Ue: l’avanzata della Spd, di appena due punti, è ben deludente, e i Verdi calano. Scompare dal Maximilianeum, il Parlamento bavarese, anche la Fdp (liberali) alleata di Merkel a Berlino. Perdono voti anche i Freie Waehler, gruppo populista che comunque resta terza forza in Baviera. In ogni caso, dopo lo schiaffo bavarese a opposizioni di sinistra e populisti, Angela Merkel può guardare più fiduciosa alle elezioni politiche, già attese da mercati e osservatori come un referendum su di lei, una vittoria annunciata. Eppure, dal voto bavarese emerge anche qualche problema per la “donna più potente del mondo”.
«Siamo raggianti, un elettore bavarese su due ha votato per noi», ha esultato il governatore uscente e riconfermato dal voto,Horst Seehofer. «Ci saremmo aspettati un risultato migliore, mi congratulo con il concorrente, il vincitore», ha replicato leale e triste il capolista della Spd, il pur popolare sindaco di Monaco di Baviera. I risultati, secondo le precise proiezioni sugli exit poll diffuse velocissime dai canali tv pubblici nazionali Ard e Zdf,parlano chiarissimo. La Csu (Unione cristiano sociale, partner bavarese della Cdu appunto) aumenta i consensi del 5,6 per cento arrivando al 49. La Spd di Ude sale di appena 2,3 punti al 20,9 per cento. Perdono invece i populisti Freie Waehler calando dell’1,8 per cento all’8,4, i Verdi che scendono dell’1,1 per cento all’8,3. Rimangono infine sotto la soglia di rappresentanza del 5 per cento i liberali, la Linke e i Pirati. In un certo senso, il voto bavarese bocciando la Fdp può preannunciare una futura Grosse Koalition guidata da una Merkel riconfermata tra sette giorni a Berlino.
Lo schiaffo degli elettori bavaresi è per i liberali uno shock: «Adesso mobilitiamoci tutti al massimo, per ogni secondo voto », ha detto il leader del partito Philipp Roesler (in Germania alle politiche l’elettore esprime due voti, uno di circoscrizione e uno di lista in sostanza). Quindi, dicono a caldo qui i commenti di tg e siti online, se la certezza di restare cancelliera adesso è più forte per Angela Merkel, la debolezza del suo attuale partner di coalizione le preannuncia due problemi. O la Fdp convincerà molti elettori moderati adarle almeno il secondo voto, a volte entrambi, toglierà consensi alla Cdu/Csu. Oppure, la Fdp non riuscirà ad arrivare al 5 per cento. In entrambi i casi “Angie” resterebbe al potere solo con una Grosse Koalition.
L’allarme è stato lanciato ieri sera da un alto esponente cdu, il superconservatore ministrodell’Ambiente Peter Altmeier: «Che tutti i nostri seguaci restino freddi e calmi, non offriamo i nostri voti», ha detto. In casa Spd, ieri sera si coglieva molto nervosismo. La buona figura nel recente duello tv con Merkel non ha sortito effetti in Baviera. Lo sfidante Peer Steinbrueck, che nel duello era piaciuto perdomande precise ma anche perché per la prima volta sorrideva, ieri sera è tornato a volto e toni cupi: «Il matrimonio democristiani- liberali è fallito in Baviera, ci suono buone chance che fallisca per tutto il paese domenica prossima», ha affermato.

Repubblica 16.9.13
Il direttore della Zeit, Giovanni di Lorenzo: “Adesso è in bilico la maggioranza con il Fdp con cui governa”
“Per Angie è un campanello d’allarme rischia una Grande Coalizione con la Spd”
di A. T.


BERLINO — Giovanni di Lorenzo, direttore diDie Zeit,cosa significa il voto bavarese a livello nazionale, in vista delle politiche del 22?
«Credo che sia soprattutto una quasi garanzia per i liberali che a livello nazionale avranno un buon risultato. Perché a questo punto molti che sono intenzionati a votare Cdu/Csu con entrambi i voti espressi dall’elettore, daranno invece il secondo voto alla Fdp. Ciò a svantaggio dei soli democristiani ».
Il successo diventa un problema per la Merkel?
«Assolutamente: alla fine potrebbe avere un buon risultato lei, i liberali anche, ma non sufficiente per riavere la maggioranza con cui hanno governato negli ultimi 4 anni».
Allora Grosse Koalition o rosso- rosso-verde, cioè Spd, verdi e Linke?
«No, rosso-rosso-verde è per ora impensabile. Certo che se ci sarà una maggioranza rosso-rosso- verde domenica prossima e per questo la Cdu/Csu sarà obbligata ad allearsi con la Spd, la Spd avrà l’altra formula ipotetica di maggioranza in pugno comeun’opzione di ricatto».
L’Europa allora rischia una Germania instabile dopo il 22 settembre?
«Aspettiamo il risultato alla sera del 22, è troppo presto per dire qualsiasi cosa».
Perché la sinistra in Europa è
sempre così debole e poco capace di vincere? Cosa fa di sbagliato?
«In Germania il motivo principale del successo democristiano, anche in Baviera, è il fatto che l’economia va bene. In Baviera più dell’ottanta per cento degli elettori, secondo un sondaggio, ha dichiarato che la situazione economica è buona. E la maggioranza degli interrogati dice di ritenereche nella società esiste anche la giustizia sociale. Se vengono a mancare questi due fattori un governo cade, se invece la gente ha la sensazione che grosso modo le cose vanno bene non ha lo spunto a cambiar governo».
Il centrodestra tedesco quindi dà ai cittadini percezioni che la sinistra al governo, in Francia e in parte in Italia, non riesce a dare?
«Il merito di un’economia che funziona non è solo risultato della politica degli ultimi quattro anni. Chiunque fosse al governo con questi dati economici avrebbe una buona probabilità di successo ».
E il rischio di Alternative für Deutschland?
«Non c’è un sondaggio che lo dia oltre il 5 per cento. Ma si sa che chi vuole esprimere un voto di protesta non sempre lo dice nei sondaggi. Se AfD entrerà nel Bundestag paradossalmente porteranno al governo la grande Coalizione, una coalizione molto stabile perché né democristiani né socialdemocratici avrebbero interesse a uscirne».

Repubblica 16.9.13
Polonia
Oltre centomila in piazza contro Tusk “Via il governo, basta tagli al Welfare”


VARSAVIA — Nubi di instabilità politica e sociale sulla Polonia. Nel weekend un enorme corteo — 120mila persone, dicono i sindacati, da Solidarnosc allo Opzz, che l’hanno organizzato — ha protestato contro il rigore della politica del governo liberal ed europesita del premier Donald Tusk. «O si ferma o arriveremo anche allo sciopero generale», dicono i sindacalisti. Vogliono il ritiro di una dura riforma delle pensioni e dei tagli al Welfare. La Polonia ha avuto negli anni scorsi la crescita più alta della Ue, ma quest’anno sarà di appena lo 0,4%. La disoccupazione è salita al 13%. L’opposizione nazionalpopulista cavalca la tigre del malcontento. Tusk non esclude più elezioni anticipate.

Repubblica 16.9.13
Il regime esulta: “Ha vinto Assad” E Obama lancia messaggi all’Iran
“Il nucleare è la priorità”. Oggi il rapporto Onu sui gas
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — «Abbiamo vinto noi. È un grande successo ottenuto grazie agli amici russi»: cosìparla all’agenzia di Mosca Ria Novosti il ministro siriano della Riconciliazione Ali Haidar: «Questa intesa evita un attacco contro di noi, ci aiuta ad uscire dall’angolo e toglie ai nostri nemici le scuseper colpirci. Adesso aspettiamo le decisioni dell’Onu e le rispetteremo ». Le sue parole sono il primo commento ufficiale di Damasco dopo l’accordo firmato sabato a Ginevra tra Usa e Russia per il disarmo dell’arsenale chimico di Assad. E le sue dichiarazioni sono la sponda perfetta per le critiche che Obama si trova a dover affrontare ancora una volta da quando è iniziata la lunga crisi.
I giornali, dalWashington PostalNew York Times, sono scettici sugli sviluppi dell’intesa, gli analisti sottolineano le difficoltà che incontreranno gli ispettori sul terreno e le esperienze passate (Libia in testa) non inducono all’ottimismo. Duri anche i repubblicani con John McCain che ironicamente si chiede: «Dove è finita la linea rossa?». Così il presidente per difendersi torna in tv, dall’anchor man George Stephanopoulos dell’Abc, e ripete: «Non siamo al traguardo finale ma rispetto a due settimane fa abbiamo compiuto parecchia strada e molto velocemente. Sono soddisfatto dell’accordo, se verrà rispettato avremo segnato un punto importante per uscire da questa situazione e mettere fine alla guerra civile. Capisco le critiche, ma a Washington c’è qualcuno che guarda troppo alle questioni di stile e di forma. Forse la nostra politica non è sembrata lineare, fluente e ordinata, ma ha funzionato ed è solo questo che conta».
Poi Obama tocca l’argomento Putin, l’altra spina nel fianco: «Abbiamo opinioni diverse su molte cose, ma sono felice che sia entrato in gioco nella questione siriana facendo pressioni sul suo fido alleato Assad. È stata la nostraazione politica e la minaccia di un blitz militare a costringerlo all’azione. Ora dobbiamo continuare a lavorare assieme». Infine l’Iran, con l’annuncio a sorpresa di uno scambio di lettere tra la Casa Bianca e il nuovo presidente Hassan Rohani, la riapertura di un canale diplomatico chiuso dal 1979, i giorni del blitz all’ambasciata Usa di Teheran: «Abbiamo discusso della Siria, voglio essere sicuro che loro non pensino sia un segnale di nostro disinteresse per quel che accade nella regione. Anzi per noi il dossier nucleare è al primo posto dell’agenda e l’intesa di Ginevra può essere un modello da seguire in futuro per regolare anche questo problema».
Non a caso, il segretario di Stato John Kerry ieri è volato in Israele per rassicurare Benjamin Netanyahu al quale ha ripetuto: «L’uso della forza rimane un’opzione, la nostra linea non cambia ». E oggi l’attenzione torna all’Onu, dove gli ispettori diffonderanno i risultati sull’uso delle armi chimiche. Rapporto che, secondo le ultime indiscrezioni, dovrebbe essere molto duro nei confronti di Assad collegandolo direttamente all’uso dei gas contro i civili nella strage del 21 agosto. Un punto di consolazione per Obama.

il Fatto 16.9.13
Lucio Villari e Maurizio Viroli
Due Machiavelli al momento giusto
di Furio Colombo


Due libri sono usciti insieme e vanno letti insieme su Niccolò Macchiavelli. Una prima ragione è che fanno luce in modo diverso, la seconda è che il nome degli autori chiede di prestare attenzione. La terza è che viviamo in un tempo in cui si è perso il filo della politica, o meglio del far politica, sostituito in parti uguali da malavita, eccesso mediatico e angosciate invenzioni dell’ultimo istante.
Ecco dunque Machiavelli di Lucio Villari (Oscar Mondadori) e Machiavelli, filosofo della libertà di Maurizio Viroli (Castelvecchi).
Il libro di Villari è scritto, come accade a volte (ma di rado) ai saggisti, con l’impeto narrativo di una fiction, in cui le avventure dei poteri, delle alleanze, dei re, dei papi e degli imperi sembrano costruiti in sequenze capaci di reggere l’interesse teso del lettore e impongono di sapere gli incredibili esiti (veri e accaduti) di capitolo in capitolo. Macchiavelli è sempre presente con la sua descrizione, previsione e spietato giudizio sui fatti, ma è sospinto e travolto a sua volta fino alla punto della cacciata in esilio. Il pregio del libro non è di raccontare una storia (la Storia) ad un livello narrativo di piena qualità letteraria, ma di consentire al lettore di essere sul posto con ordine e chiarezza logica, perché tutti partecipano ma non l’autore, che a sua volta diventa il Machiavelli del Machiavelli e ci offre uno sguardo da fuori che è caldo nella tecnica del narrare, ma freddo, nel giudizio del tutto privo di enfasi.
Il Machiavelli filosofo di Viroli segue un percorso diverso. I materiali, le fonti, i fatti gli servono per rendere vivacissimo il suo intento di celebrazione del grande fiorentino. Il pensiero di Machiavelli è in primo piano, gli eventi sono la verifica e la prova, l’autore guida il giudizio, che è allo stesso tempo illuminato e appassionato, e Machiavelli diventa l’eroe non di una saga ma di un nodo e uno scontro di pensiero.
UN GRANDE PREGIO comune ai due saggi è il rimuovere il “machiavellismo” da conversazione, per portarci di fronte a fatti, pensieri e verità ben più drammatici e alquanto al di sopra dei luoghi comuni, anche colti, intorno a Machiavelli e alla politica. E qui, in questa parola, si colloca il punto di valore che rende indispensabili i due libri.
Viviamo in un’epoca in cui la politica sembra (o è stata degradata a) un espediente, spesso guidato dall’immoralità (che si ama definire “machiavellica”) e ormai quasi sempre composta di movimenti alla cieca. In questo quadro, la cultura alta crede nel distacco e aderisce ai movimenti “antipolitici” che assegnano un inevitabile disprezzo. Ma in tal modo un brutto momento diventa l’unico modo di ridefinire il tutto per abbandonarlo al suo destino. Che però è il nostro. Dunque i due saggi sono stati scritti al momento giusto.

La Stampa 16.9.13
“Io, bimba felice a Auschwitz. Mio papà era il comandante”
Brigitte Höss, 80 anni, ha conservato per decenni il suo segreto Poi la scoperta di avere un cancro: è giunto il momento di parlare
di Paolo Mastrolilli


Brigitte Aveva 12 anni quando scoprì che il nonno era stato uno dei peggiori criminali nazisti condannato a morte dai polacchi nel 1947 e impiccato davanti al crematorio di Auschwitz
Brigitte ha ottant’anni e dorme ancora sotto una foto del padre e della madre scattata nel giorno del matrimonio, che sta appesa sopra il suo letto. Sorridono felici, come una coppia qualsiasi, e a prima vista è bello sentire che la loro figliola è rimasta così devota. I nipoti di Brigitte, però, non hanno mai saputo chi è quell’uomo. Sanno che è il bisnonno, ma non conoscono il suo vero nome, perché lei finora si è vergognata di informarli che discendono dal comandante del campo di Auschwitz.
Proprio così. Inge-Brigitt Höss, nata in una fattoria sul Mar Baltico il 18 agosto del 1933, abita dal 1972 in Virginia, a pochi passi da Washington. Nessuno però sapeva che era la figlia di Rudolf, responsabile della morte di oltre un milione di ebrei, fino a quando l’ha rintracciata lo scrittore Thomas Harding, che ha raccontato la sua storia sul «Washington Post». Nel 2006, quando era andato al funerale dello zio Hanns Alexander, Harding aveva scoperto dall’elogio funebre che dopo la guerra lui era stato un cacciatore di nazisti. Si era messo a studiare ossessivamente, e aveva scoperto che lo zio aveva catturato proprio Rudolf Höss. Quindi ha saputo che la figlia del comandante di Auschwitz vive in America ed è andato a trovarla a casa, per scrivere un libro in uscita che si intitola «Hanns and Rudolf».
Brigitte era cresciuta passando da un campo di concentramento all’altro: Dachau da uno a 5 anni, Sachsenhausen da 5 a 7, e Auschwitz da 7 a 11. Il papà Rudolf e la mamma Hedwig si erano conosciuti in una fattoria, dove andavano i giovani tedeschi infatuati dal mito della purezza della razza. Avevano avuto cinque bambini, vivendo un’esistenza di lusso anche nei campi di sterminio. Hedwig definiva la loro villetta di Auschwitz come il «paradiso», anche se guardando bene si intravedevano i forni. I prigionieri lavoravano in giardino, al punto che una volta, per giocare, Brigitte e i fratelli si vestirono a strisce e appuntarono sul petto stelle gialle, rincorrendosi fino a quando il padre non li fermò.
Dopo la guerra scapparono verso Nord, e si divisero: la madre e i bambini in una fattoria di St. Michaelisdonn, il padre vicino al confine con la Danimarca, in attesa del momento buono per fuggire in Sudamerica. Hanns Alexander, però, li scovò: «Ricordo ancora il giorno in cui bussò alla nostra porta, mi torna l’emicrania». Hedwig, temendo violenze contro i figli, rivelò il nascondiglio. Quando Hanns raggiunse Rudolf, lui negò la propria identità. Allora Hanns gli chiese l’anello di matrimonio, ma Rudolf disse che era bloccato al dito. Hanns minacciò di tagliarglielo, il dito, e quindi l’ex comandante di Auschwitz cedette: all’interno c’erano incisi i nomi di Rudolf ed Hedwig.
Nel 1950 Brigitte scappò in Spagna, dove lavorò come modella per Balenciaga. Conobbe un ingegnere americano e si sposarono. Gli rivelò la verità, ma lui rispose: «Eri bambina, non hai colpe. Mettiamo il passato alle spalle». E così fecero. Liberia, Grecia, Iran e Vietnam, per seguire il lavoro del marito, che nel 1972 si trasferì in Virginia. Lei trovò posto in una boutique, ma una volta che aveva bevuto raccontò la sua storia alla manager. La manager la rivelò ai proprietari, che però decisero di tenerla: erano due ebrei tedeschi, scappati negli Usa dopo la Notte dei cristalli, ma lei non lo sapeva.
Brigitte e il marito si separarono nel 1983, e lei è rimasta a vivere nella stessa casa con il figlio, che conosce l’identità del nonno. Ai nipoti, invece, non hanno detto nulla: «Non vogliamo turbarli». Ora però a Brigitte è stato diagnosticato un cancro, e vuole chiarire il suo passato: «Penso che lo farò, è venuto il momento». Col marito avevano un tacito accordo: non parlarne mai. Non serviva perché «è dentro me, non se ne va». Brigitte non contesta l’Olocausto, ma le sue dimensioni: «Se furono uccisi così tanti ebrei, come mai ci sono così tanti sopravvissuti?». Dubita anche della confessione fatta dal padre: «Gli inglesi gliela estorsero con la tortura». Rudolf lo ricorda come «l’uomo più dolce al mondo. Doveva avere due facce: quella che conoscevo io, e poi un’altra...». Lei sopra al letto conserva ancora la foto della prima faccia, illudendosi che fosse quella vera.

Corriere 16.9.13
Re, pellegrini e studenti i primi turisti d'Europa
Ma le guerre di Bonaparte paralizzarono il continente
di Paolo Mieli


L'Europa è nata per strada. Lungo le vie percorse dai viandanti nei secoli centrali del secondo millennio. Prima di allora, i viaggi erano avvenuti con modalità assai diverse da quelle che sarebbero state in epoca moderna. Nel mondo antico si spostavano eserciti, popoli in fuga, mercanti. E al viaggio era associata un'idea sì di avventura, ma soprattutto di incognita, di pericolo, di morte provocata dai nemici sul campo di battaglia o da avversità nel corso del tragitto. Poi, verso la metà del secondo millennio, qualcosa cambiò. Ed è a questa mutazione che è dedicato uno straordinario libro di Rita Mazzei, Per terra e per acqua. Viaggi e viaggiatori nell'Europa moderna, che sta per essere pubblicato da Carocci. In principio, dicevamo, a spostarsi in tempo di pace furono i mercanti. Per secoli isolatamente. Poi nel Trecento avviene un cambiamento. Nel 1330 si inaugura la fiera di Francoforte, a cui ne seguiranno molte altre. Per anni e anni, nonostante i conflitti religiosi, saranno sempre più frequentate. L'unica sospensione si ebbe al momento della guerra dei Trent'anni (1618-1648). Poi si riprese con le fiere di Francoforte, di alcune città polacche, di Lipsia e, in Italia, di Bolzano.
È il grande momento di mercanti e ambasciatori, i quali, scrive Rita Mazzei, offrono di sé un'immagine che li fissa nell'atto di salire a cavallo, o addirittura con il piede già nella staffa. Il diplomatico è abitualmente raffigurato mentre sta per mettersi in movimento. Il dipinto che meglio presenta questa situazione tipo è del 1495, realizzato da Vittore Carpaccio, a Venezia: la Partenza degli ambasciatori (all'interno del Ciclo di Sant'Orsola), dove i diplomatici inglesi sono rappresentati nell'atto di accomiatarsi dal re di Bretagna. Per compiere quel genere di viaggi era importante essere giovani, nel pieno delle forze. Francesco Guicciardini aveva solo 28 anni quando (nel 1512) fu mandato ambasciatore in Spagna, con il difficile compito di «mantenere la sua città nelle buone grazie di Ferdinando il Cattolico, nonostante il rifiuto della repubblica fiorentina di aderire alla lega antifrancese a fianco del papa Giulio II e della Spagna». Nel loro codice d'onore è definito ogni aspetto dell'atto di mettersi in movimento. Persino in che momento è lecito accettare regali. In quella che è considerata la prima opera francese dedicata al tema, L'Ambassadeur di Jean Hotman de Villiers (1603), si specifica che «l'ambasciatore non può accettare doni dal principe presso cui è stato invitato, se non dopo averne preso congedo, ossia quando sta per montare a cavallo». Mai prima.
I viaggi degli ambasciatori erano lunghi e faticosi, molti gli imprevisti. Il re di Polonia, nel Cinquecento, era anche granduca di Lituania, per cui, quando il padre regnava a Cracovia, il figlio «si preparava e si esercitava» a Vilna. Come fu per Sigismondo il Vecchio e Sigismondo II Augusto. E così quando moriva un re poteva capitare che gli ambasciatori, dopo aver compiuto un viaggio terribile per arrivare a Cracovia, dovessero intraprenderne un altro di mille chilometri («che si presentava come uno dei più scomodi nell'Europa del tempo») per recarsi a rendere omaggio al successore. Il cavallo all'epoca «costituiva di per sé un evidente segno di superiorità sociale». Un nobile, un ricco non potevano non sapere andare a cavallo. Tutto ciò che era collegato al nobile animale conferiva autorevolezza. Presso la corte degli Asburgo d'Austria «quella di maestro delle scuderie era una delle quattro maggiori cariche… che andarono consolidando la loro supremazia a partire dal Cinquecento». A Ferrara «quella di maestro di stalla era una carica così prestigiosa che conferiva il diritto di sedere alla mensa ducale». A Bruxelles, alla corte di Carlo di Lorena, governatore dei Paesi Bassi austriaci, il primo scudiere proveniva dall'alta nobiltà.
A parte ambasciatori e mercanti, a spostarsi furono soprattutto i re. Che batterono l'Europa in lungo e in largo, seguiti dalle loro corti. A volte per incontrarsi tra di loro. L'appuntamento più spettacolare, nel giugno del 1520, fu quello tra il re di Francia e il re d'Inghilterra nei pressi di Calais, posseduta dagli inglesi fin dal 1347. Francesco I ed Enrico VIII «si sfidarono a colpi di grandiose feste, giochi e tornei sullo sfondo di una scenografia mai vista». Poi il re d'Inghilterra, dopo essersi accomiatato da Francesco, andò ad incontrare l'imperatore Carlo V a Gravelines. E ogni sovrano aveva la propria corte al seguito. Fenomeno, quello delle «corti itineranti», che coinvolse l'intera nobiltà. In Spagna, i «re cattolici» si spostavano da una parte all'altra del loro Paese. In Francia la corte dei Valois, da Francesco I a Enrico III, «vagava da un castello all'altro». Benvenuto Cellini, al seguito di un viaggio di Francesco I, così scrive nella sua Autobiografia: «Noi andavamo seguitando la ditta Corte in tai luoghi, alcuna volta, dove non era dua case apena; e sì come fanno i zingani, si faceva delle trabacche di tele, e molte volte si pativa assai».
Celeberrimo fu il viaggio di 27 mesi compiuto da Carlo IX, non ancora quattordicenne, con la madre Caterina de' Medici e 15 mila persone («una massa di uomini e donne superiore alla media di una città francese del XVI secolo»), che il 24 gennaio del 1564 partirono da Parigi per farvi ritorno il 1° maggio del 1566, dopo aver visitato l'intera Francia senza mai passare due volte dallo stesso posto. Su 829 giorni, 201 (oltre sei mesi) furono di spostamenti e 628 di sosta. In Italia lasciavano volentieri la loro città per andarsene in giro le corti estense (Ferrara), dei Gonzaga (Mantova) e quella medicea (Firenze). Tali viaggi duravano mesi, anni. La corte spagnola fu a lungo, nei fatti, senza fissa dimora, almeno fino a che, nel 1561, fu stabilita la capitale a Madrid. Con Carlo V si raggiunse il massimo della mobilità. Il numero dei giorni da lui spesi in viaggio, a partire dal 1517 fino alla sua abdicazione nel 1555, furono circa un quarto di quelli del suo regno. È stato calcolato che nel corso della vita abbia cambiato letto 3.200 volte («anche se per lo più si portava dietro il proprio»). Alla fine dei suoi giorni, ricordò di essere stato nove volte in Germania, sei in Spagna, sette in Italia, dieci nei Paesi Bassi, quattro in Francia, due in Inghilterra e due in Africa, «senza contare i tragitti più brevi». Per lui fu inventato un sistema di sospensioni che assorbiva urti e sbalzi, il «giunto cardanico» (dal nome del milanese Gerolamo Cardano, che per primo ne parlò in un libro). Ma quando, a cinquant'anni, si ritirò nel monastero di San Geronimo, aveva — per le conseguenze di tutti gli spostamenti — l'aspetto di un vecchio ottantenne. Terribili erano sì i viaggi, ma anche le soste. Ad ogni tappa, per i regnanti, erano grandi, lunghi, interminabili festeggiamenti. Talché Margherita d'Austria, quando, quindicenne, andò in sposa a Filippo III, fece emanare un dispositivo a norma del quale, «pour éviter le cérémonial», lungo il viaggio tra Francia e Spagna sarebbe scesa solo sulle spiagge a riposare e ad ascoltare la messa all'interno di tende allestite all'uopo. A evitare i ricevimenti, molti sovrani decisero poi di viaggiare in incognito. È il caso di Pietro il Grande che, tra il 1697, il 1698 e nuovamente nel 1717, fece, senza appalesarsi come zar, un lungo viaggio in Europa prima di prendere le redini della Russia e avviarla alla modernità. Anche Cristina di Svezia, dopo l'abdicazione nel 1654, uscì dal suo Paese vestita da uomo e con un gran cappello adorno di piume, proprio per evitare di essere riconosciuta e festeggiata. In incognito viaggiò il principe Cosimo de' Medici in tutta Europa tra il 1667 e il 1669. Due anni in questo caso, ma a volte era necessario più tempo. A partire dal 1565-70 ci volevano in media cinque anni per l'andata e il ritorno fra la Spagna e le Filippine, attraverso il Messico e il Pacifico.
Il bagaglio che nobili e sovrani portavano con sé era imponente. Il marchese d'Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio, fuggì dall'Italia nel 1557 per timore di essere perseguitato dalla Chiesa, vagò per quarant'anni in Europa portando con sé la sua collezione immensa di libri. Libri che uscirono danneggiati, ma salvi, dopo un naufragio all'ingresso del porto di Danzica e che il marchese, in segno di riconoscenza, lasciò in dono a quella città, la quale ancor oggi lo considera il fondatore della propria biblioteca. La perdita dei beni nel corso del viaggio era un rischio da mettere nel conto. Margherita di Navarra, che si spostava da Lione ad Avignone lungo il corso del Rodano, subì un naufragio nel corso del quale morirono 23 membri dell'equipaggio. Una lettera di Enrico III mostrava più preoccupazione per il vasellame d'argento che per gli esseri umani inghiottiti dal fiume.
Moltissimi si spostavano attraverso l'Europa per motivi religiosi. In principio ci si dirigeva a Roma, la città del Papa e della cristianità. Poi fu la volta del movimento dei viaggiatori in direzione della Terrasanta, movimento iniziato dopo la prima crociata con la conquista di Gerusalemme (1099). Ma il fenomeno acquistò dimensioni massicce a partire dal XIV secolo. La città che più se ne avvantaggiò fu Venezia, e però di questi movimenti alla volta di Gerusalemme godettero anche gli scali intermedi: Otranto, Creta e Cipro, nonché Jaffa, luogo dello sbarco. Negli anni si erano aggiunte altre mete religiose: i grandi santuari d'Italia, Francia e Spagna con la tomba dell'apostolo Giacomo a Compostela, il cui richiamo era iniziato già dal X secolo. I pellegrini si muovevano praticamente senza bagaglio e con un bastone a cui appoggiarsi. Esibivano contrassegni del luogo a cui erano diretti: la palma per Gerusalemme, la conchiglia per Santiago de Compostela, un'immagine della Veronica o di Pietro e Paolo per Roma.
Roma, che — come si è detto — era già stata raggiunta da pellegrini (i cosiddetti romei) fin dai secoli VII e VIII, era adesso ridiventata una delle mete principali di questo genere di spostamenti, dopo che nel 1300 Bonifacio VIII aveva voluto il primo giubileo. Nel Cinquecento, la divisione del mondo cristiano, scrive Rita Mazzei, «intervenne a modificare la tradizione medievale del pellegrinaggio». Tradizione su cui aveva pesantemente ironizzato Erasmo ne Il pellegrinaggio fatto per devozione (1526). Nelle Province Unite, «dove ogni manifestazione pubblica legata alla fede cattolica era proibita», gli Stati di Olanda nel 1587 «promulgarono un'ordinanza contro i pellegrinaggi». Alle critiche di Erasmo si erano aggiunte quelle ancor più dure di Lutero e Calvino. La Chiesa rispose «con una rifondazione dottrinaria del giubileo stesso, mirante a far coincidere pellegrinaggio fisico e itinerario spirituale». Il giubileo di svolta fu quello del 1575, dopo che già per i festeggiamenti del 1550 si erano mossi 60 mila pellegrini; ma fu solo nel 1600 che si tornò agli antichi fasti e nel 1650 di pellegrini a Roma ne giunsero ben 160 mila. Tra i luoghi da visitare dal Cinquecento si erano aggiunti Loreto (dove gli angeli, nel 1291, avrebbero trasferito dalla Terrasanta la casa della Madonna), Assisi, la città di san Francesco, e Bari, che ospitava le reliquie di san Nicola di Myra.
Se i pellegrini avevano con sé solo un bastone, ben più consistente era il bagaglio dei nunzi apostolici che in età di Riforma dovettero muoversi a ritmo incessante. Chi erano questi nunzi? Il papa Paolo III Farnese mise a punto un imponente apparato di rappresentanza diplomatica, imperniato sulla figura del nunzio. E, dopo il Concilio di Trento (1545-1563), i nunzi furono i cardini della nuova politica della Chiesa di Roma. Le principali sedi di nunziature furono quelle di Venezia, Firenze e Napoli, ma una presenza qualificata si ebbe in tutte le principali corti europee. Gli ambasciatori del Papa divennero figure fondamentali. Alla fine del Cinquecento, fu un nunzio che trattò con Enrico IV, divenuto re di Francia, al quale, nel 1595, Clemente VIII accordò l'assoluzione. Più consistente ancora il carico dei cardinali che ogni volta che si apriva un conclave dovevano precipitarsi a Roma, come si diceva, «a grandissime giornate», cioè ultra velocemente. Velocemente sì, ma senza mai separarsi dal loro imponente bagaglio. E non solo loro.
Un banchiere fiorentino che a metà Quattrocento operava alla corte papale, Tommaso di Lionardo Spinelli, portava con sé un altare portatile, benedetto da papa Niccolò V, che poteva essere usato per celebrar messa in ogni dove, purché il luogo fosse «acconcio». Il cardinale d'Aragona, in viaggio attraverso l'Europa alla viglia della Riforma, si faceva accompagnare dal proprio cuoco, ben rifornito di una scorta di olio di oliva. I santuari e Loreto divennero meta anche per i regnanti. Maria Maddalena d'Austria si recò a Loreto due volte, nel 1612 e nel 1616. In questa seconda occasione si fece accompagnare da oltre cinquecento persone, tutte vestite di turchino. Anche il granduca Cosimo III visitò ripetutamente i santuari della Toscana: Camaldoli, Vallombrosa, La Verna. Nel 1695 decise di spingersi a Loreto «con minor pompa possibile», cioè accompagnato «solo» da qualche centinaio di persone invece che da qualche migliaio. Il percorso era molto accidentato, talché al capo vetturino fu impartito l'ordine di punire chi avesse bestemmiato con «rigorosi castighi».
La Riforma fu un'importante spinta al movimento degli uomini. Ma aprì anche la via «al dispiegarsi nel continente di nuove frontiere di segno confessionale». L'intraprendere un viaggio «bastava a mettere in moto sospetti». Il contatto con l'Europa riformata fu ovviamente assai malvisto dalla Chiesa di Roma, «che vigilava là dove vi fossero elementi rilevanti di mobilità». Stiamo parlando, ad esempio, di una città di mercato, luterana, quale era Norimberga, e della presenza di «tedeschi» in città quali Bologna, Lucca, Firenze.
Altro mondo in movimento fu quello delle università. La costituzione «Habita», «concessa da Federico Barbarossa intorno al 1155 agli studiosi dell'impero su richiesta dei dottori in legge dell'Università di Bologna, permetteva a coloro che si facevano "pellegrini per amore degli studi" di viaggiare con uno status giuridico di garanzia; la mobilità degli studiosi faceva sì che le stesse università fossero istituzioni mobili». L'Università di Padova, che ebbe sempre più grande credito in tutto l'Occidente, venne fondata nel 1220 da studenti bolognesi che erano stati «attirati in quella città da varie facilitazioni». In generale, scrive Rita Mazzei, nel Cinquecento «si registrava una sostenuta accelerazione della tradizionale mobilità di studenti, pur con sensibili differenze tra una regione e l'altra d'Europa». Per rispondere «alle particolari esigenze formative dell'aristocrazia europea, nascevano specifiche fondazioni collegiali destinate a favorirla». Ma anche antiche istituzioni come il collegio dei Lombardi a Parigi (1334) o il collegio di Spagna a Bologna (1368) incoraggiavano «l'afflusso di studenti dalle aree più lontane ad una grande università di prestigio».
La disponibilità degli intellettuali, anche di grande autorevolezza, a «spostarsi senza troppi problemi su lunghe e lunghissime distanze», per raggiungere una corte, una famosa università, un centro tipografico, «vede coincidere la mobilità dell'uomo con la circolazione delle idee, e sostiene la fortuna della cultura umanistica e rinascimentale». Modello di questo tipo di intellettuale è Erasmo da Rotterdam, che viaggiò ininterrottamente per tutta l'Europa, comprese Parigi, Londra (dall'amico Tommaso Moro), Friburgo, Basilea, Venezia, Padova, Ferrara, Siena, Roma, Napoli per poi spegnersi a Basilea, dove era tornato per la seconda volta.
È in questo clima che, tra il 1550 e il 1600, cioè dopo la rivoluzione luterana, il Concilio di Trento e poco prima che scoppiasse, nel 1618, la guerra dei Trent'anni, si diffuse il fenomeno della peregrinatio academica, cioè l'abitudine a incessanti viaggi di studenti e docenti da un'università all'altra. Va aggiunto che ci fu anche qualcosa in più. La fine dell'unità religiosa dell'Europa, scrive Rita Mazzei, «comportò nel tempo una radicale riorganizzazione dei circuiti universitari sulla base di un ridefinito spazio politico e religioso che condizionava fortemente gli scambi culturali». Gli studenti si spostavano alla ricerca di sedi accademiche in cui fosse rispettato (o, quanto meno, tollerato) il loro credo religioso. L'Università di Basilea, fondata nel 1460 da Pio II, dalla metà del Cinquecento, entrata nell'orbita della Riforma, attirò sempre più studenti provenienti dall'Europa protestante (e sempre meno tra i fedeli alla Chiesa di Roma). Stesso discorso per gli atenei di Ginevra, Leida, Heidelberg. I giovani polacchi, rimasti fedeli al Papa, si orientarono verso altre università.
A spostarsi poi non furono solo gli uomini. I testi di riferimento non riservano molto spazio alle donne, «la letteratura di viaggio tratta della mobilità degli uomini e presuppone la stabilità delle donne». Ma le donne si muovono, eccome. Si spostano per lo più a seguito di padri e mariti. Ma con tassi di incremento che fanno riflettere. Il viaggio più avventuroso del Cinquecento è senza dubbio quello alla volta delle Americhe. Qui le donne sono, tra il 1493 e il 1539, il 6,2 per cento; tra il 1560 e il 1579 crescono addirittura al 28,5 per cento. La Chiesa osteggiava gli spostamenti femminili. Già dai secoli precedenti. C'è una lettera al vescovo di Canterbury del 747 in cui san Bonifacio deplora le troppe donne, religiose o meno, che si recano in pellegrinaggio a Roma, perché, scrive, «la maggior parte di loro soccombe e poche di quelle che ritornano conservano la loro castità».
Nell'Italia del Cinquecento sono molte le donne che emigrano per non subire persecuzioni. È il caso delle «non poche lucchesi, molte dai cognomi prestigiosi, che seguirono padri e mariti nella Ginevra di Calvino». Negli stessi ambienti riformati «la spinta religiosa fu essenziale a determinare una forma di mobilità femminile». Si ha notizia «di donne quacchere che nel Seicento se ne andavano in giro per il continente a fare propaganda anticattolica, incappando talora nelle maglie dell'Inquisizione». I casi sono molti. Celebre è quello di due inglesi, Katherine Evans e Sarah Cheevers, partite nel 1658 dal porto di Plymouth alla volta di Alessandria d'Egitto per poi recarsi, presumibilmente, a Gerusalemme. Le due fecero sosta a Malta dove, però, furono arrestate su ordine del Sant'Uffizio e tenute in carcere per tre anni e mezzo. Minacciate di tortura e di morte, «sottoposte a interrogatori, sostennero violente discussioni con i frati dell'Inquisizione… nel frattempo digiunavano, si ammalavano, lavoravano a maglia e di cucito e soprattutto pregavano, confortate da visioni divine e segni premonitori».
Ma ci sono donne che si muovono per motivi che non hanno niente a che fare con la religione. Una mobilità, afferma Rita Mazzei, che «nella forma più immediatamente visibile sembra riguardare soprattutto regine e principesse in viaggio per raggiungere i regali mariti, donne di illustre lignaggio o di facoltose famiglie mercantili che potevano affrontare itinerari più o meno lunghi con il meglio degli agi e delle comodità che il tempo consentiva». Oppure le mogli di artisti. Come Agnes Frey, consorte di Albrecht Dürer, che, con la giovane cameriera Suzanne, segue il marito nel 1520-21 a Colonia, Anversa, Bruxelles.
Va rilevato come le città costituiscano le tappe essenziali di questi percorsi. Ciò che c'è lungo il tragitto tra un centro abitato e un altro quasi non esiste o comunque è menzionato assai poco in diari e memorie. Nessuno dei partecipanti al viaggio che nell'inverno del 1573-74 portò Enrico di Valois, fresco re di Polonia, dalla Lorena a Cracovia attraverso il Palatinato, la Sassonia, il Brandeburgo per oltre 1.500 chilometri, «ci dà, nei tanti resoconti che abbiamo, qualche specifico dettaglio relativo al territorio, al di là dell'osservazione che si procedeva ininterrottamente attraverso un paese piatto, senza vedere per giorni e giorni che neve e ghiaccio». Neve e ghiaccio che si trasformano presto in un'opportunità. Le slitte, meglio dei carri, «facilitavano gli spostamenti nella stagione invernale in una terra di foreste e di zone paludose come la Polonia-Lituania, un territorio immenso, esteso per più di ottocentomila chilometri quadrati nella seconda metà del secolo XVI e per circa un milione di chilometri quadrati nella prima metà del secolo XVII».
Ne rimaneva «non poco impressionato un ambasciatore di Caterina de' Medici al quale, quando fu spedito in gran fretta nel 1572 a saggiare il terreno in vista della candidatura francese al trono polacco, la superficie appariva ad occhio come due volte quella della Francia». La neve consolidava il terreno e, proprio grazie alle slitte, l'inverno era la stagione migliore per spostarsi. In quegli spazi immensi «rinascevano il lavoro, il commercio, la sociabilità e perfino la politica, come stanno a confermare le tante relazioni dei viaggiatori settecenteschi che ne riferiscono stupiti». E così la seconda «piccola era glaciale» (1570-1630), che «comportò un'alterazione peggiorativa delle condizioni climatiche in Europa con inverni lunghi e rigidi ed estati relativamente fresche e umide, fra le molte conseguenze potrebbe aver avuto anche quella di favorire al Nord e all'Est questo sistema di trasporto».
Nella seconda metà del Cinquecento si affermò prima in Italia e poi in Francia e in Inghilterra l'uso delle carrozze «riservate in un primo tempo ai prìncipi, agli aristocratici e ai ricchi borghesi, con una specifica utilizzazione soprattutto da parte delle loro mogli e delle loro figlie, e il possesso di uno o più esemplari divenne presto la misura delle disponibilità economiche, del rango e della rilevanza sociale… divennero in breve un tangibile segno di potere». Le carrozze, osserva Rita Mazzei, «furono una delle grandi novità del secolo XVI, e provocarono una profonda trasformazione nella circolazione e nei rapporti umani; si imposero ovunque, dilagando come una delle più appariscenti forme di lusso». Le prime furono una «conquista urbana» e fecero la loro apparizione nelle città italiane. A Roma «verso la fine del secolo se ne contavano diverse centinaia, nel 1594 fra cocchi e carrozze pare si arrivasse alla bella cifra di 883 mezzi, ripartiti fra 675 proprietari». Qualcuno ne aveva dunque più di una. Diceva Carlo Borromeo che per avere successo nella città santa erano necessarie due cose: amare Dio e avere una carrozza.
Carrozze e diligenze si moltiplicano poi nel Settecento, il secolo del Grand Tour: coupés, calessi, phaétons, cabriolets, berline che (inventate a Berlino nel 1663) divennero le vetture più apprezzate dalla nobiltà. Di termini per identificarle se ne contava adesso una ventina. Di lì a un secolo saranno oltre cento. Dapprima furono amate (per esempio dal cardinal Mazzarino) quelle di costruzione italiana. Poi fu la volta dei modelli francesi, di quelli inglesi. Al tempo del suo viaggio a Roma ed in Sicilia (1786-87), Goethe sosterrà che, in materia di carrozze, l'Italia era «rimasta enormemente indietro rispetto agli altri Paesi per tutto ciò che è meccanica e tecnica». Già, la meccanica e la tecnica. Adesso quei veicoli si potevano smontare e rimontare. Riferisce Montesquieu nel suo Viaggio in Italia (1728-29) che sul Moncenisio una carrozza veniva trasportata sul dorso di tre muli. Uno portava il corpo, l'altro le ruote, il terzo le stanghe. Sul Sempione, invece, il corpo della carrozza veniva trasportato da braccia umane, dal momento che la strada era troppo stretta perché si procedesse alla maniera descritta sopra. Il mulo diventa sempre più un grande protagonista di questi spostamenti. Nell'Europa del Cinquecento la richiesta cresce a dismisura, tanto che Fernand Braudel calcola che solo nella Spagna ve ne fossero già allora più di un milione.
In età umanistica conobbero grande fortuna mete che erano già state famose nell'antichità: i bagni termali. Fa testo una celebre lettera del 1405 di Coluccio Salutati a Leonardo Bruni, in cui si descrive questa nuova moda. Un secolo e mezzo dopo quella lettera, nel 1553, l'editore Tommaso Giunti pubblicò a Venezia il De balneis omnia quae extant apud Graecos, Latinos et Arabas. Era un'antologia, la prima, «che metteva insieme oltre settanta testi classici, medievali e moderni, sulle terme, tutti in lingua latina, sia medico-scientifici sia letterari». E che proponeva come modello i bagni di Plombières, ai confini tra la Lorena e la Germania. Assai apprezzati nel tempo divennero i bagni di Karlsbad (Karlovy Vary), in Boemia, «che potevano vantare i privilegi ricevuti alla fine del Trecento dall'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, il quale aveva fondato quell'insediamento dandogli il suo nome». Lì avrebbero soggiornato per qualche settimana Albrecht von Wallenstein nel pieno della guerra dei Trent'anni; l'imperatore Giuseppe I che, nel 1707, la elevò al rango di città libera; Johannes Sebastian Bach; Pietro il Grande, che a quei tavoli intavolò conversazioni con il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz. Non meno famosi furono i bagni di Baden, quelli inglesi di Bath e quelli italiani della Villa (Lucca) celebrati da Montaigne, che solo nel 1581 vi soggiornò due volte per ben undici settimane.
A Parigi nel 1552 viene data alle stampe la Guide des Chemins de France di Charles Estienne, prototipo delle guide tascabili. Un medico bergamasco, divenuto calvinista a Basilea, pubblicò nel 1561 la prima guida moderna. Quasi una guida pratica, scrive Rita Mazzei, «in un piccolo formato, tascabile si potrebbe dire, senz'altro comodo da portare con sé». Raccoglieva «tutte le informazioni disponibili sui principali itinerari, le vie alternative e le distanze da percorrere, ma offriva anche raccomandazioni di carattere igienico-sanitario e una serie di consigli pratici, frutto dell'esperienza accumulata negli anni dal suo autore. Uno dei più famosi trattati sull'arte del viaggio, la Methodus Apodemica dello svizzero Theodor Zwinger, fu pubblicato, sempre a Basilea, nel 1577. Ma l'interesse per questo genere di pubblicazioni e per le riflessioni che le caratterizzavano non era molto alto. Tra il 1580 e il 1581 Michel de Montaigne scrisse il celeberrimo Journal de voyage en Italie, che restò però dimenticato per 200 anni nell'archivio del suo castello e fu edito nel 1774.
Il Settecento fu infine il secolo dell'Illuminismo e del Grand Tour, che, soprattutto dopo la pace di Hubertusburg che segnò la fine della guerra dei Sette anni (1756-1763), portò i giovani delle migliori famiglie (inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, scandinavi, russi) soprattutto in Italia (Roma, Firenze, Venezia, ma anche Napoli e la Sicilia) sulle tracce dell'antichità. Franco Venturi ha fatto osservare come questi stranieri vennero a contatto con l'Italia nel secolo, il Settecento, più sfortunato della nostra storia per «sgretolamento politico, depressione economica, delusione intellettuale». Ciò che generò in giovani come Gibbon, Goethe, Rousseau, Montesquieu notevoli pregiudizi nei confronti delle nostre città. Ma questi viaggiatori fecero ricchi i nostri mercanti d'arte, che, soprattutto a seguito dell'inizio degli scavi a Ercolano (1738) e Pompei (1748), conobbero grande fortuna. Anche se qualcuno, come Gustavo III di Svezia sceso in Italia in incognito nel 1783 celandosi dietro il nome di conte di Haga, cominciava ad essere vigile contro il rischio di truffe. Tanto che il suo agente in Italia, il giovane Francesco figlio di Giambattista Piranesi, mise in burla la sua volontà di studiar bene ciò che forse avrebbe poi comprato: «Il conte di Haga che molto vede e poco paga», scrisse del re di Svezia.
A far finire (o, comunque, modificare radicalmente) questa lunga stagione fu la Rivoluzione francese, ma soprattutto furono le guerre napoleoniche. La campagna d'Italia del giovane Napoleone Bonaparte (1796) e le successive guerre, scrive Rita Mazzei, «paralizzarono l'intero continente e segnarono la fine di quell'avventura che nel corso dei secoli aveva contribuito a formare la coscienza intellettuale dell'Europa moderna». Quando, dopo il Congresso di Vienna (1815), si riprese a viaggiare, nulla fu più come prima. Nel libro ci si limita alla presa d'atto della cesura intervenuta tra il 1789 e il 1815. Ma è probabile che da questo spunto vengano fuori riflessioni di una qualche originalità e di un qualche interesse.

Repubblica 16.9.13
Quella battaglia per un Psi diverso
Valdo Spini racconta in un libro un decisivo periodo di storia dei socialisti
di Concetto Vecchio


Dopo la rovinosa dissoluzione del Psi si è tentati dall’identificare quel partito tout court con la spregiudicatezza di Craxi e gli scandali di Tangentopoli, che ne seppellirono la storia secolare sotto un cumulo di macerie, dimentichi che il Partito socialista fu anche dei galantuomini come Pertini, Lombardi, Antonio Giolitti. E Valdo Spini. Ora proprio Spini inLa buona politica. Da Machiavelli alla Terza Repubblica. Riflessioni di un socialista edito da Marsilio, prefazioni di Carlo Azeglio Ciampi e Furio Colombo, fa i conti con la sua lunga militanza, iniziata nel lontano 1962, folgorato ancora bambino da un’orazione di Tristano Codignola in onore di Pietro Calamandrei, e proseguita poi nella corrente lombardiana per una lunga vita: consigliere comunale, deputato, sottosegretario, ministro. «C’ero prima e dopo Craxi», ci tiene a precisare, e la figura del leadersocialista domina invariabilmente tutto il racconto. Non poteva essere diversamente. Dal 1976 al 1993 il Psi è stato Craxi, e Craxi è stato il Psi.
Perché ne scriviamo allora? Cosa rende interessante il suo percorso? Semplicemente in quella storia Spini occupa un posto non gregario, ma divigile coscienza critica, antesignano della moralizzazione della politica – fu tra i primi sin dal 1985 a sottoporre le sue entrate e le sue spese a un comitato di garanti – fautore di una legge sull’incandidabilità già dopo la sentenza di primo grado – la legge del Quadrifoglio – una norma Severino ante litteram. Ma assiso a soli 35 anni al ruolo di vicesegretario, l’altro vice, Martelli, ne aveva 38, («cosa fu il sabba del Midas se non una rottamazione generazionale»), si ritrovò ben presto emarginato dal sancta santorumdi via del Corso, inascoltate le sue mozioni sulla moralità pubblica, mentre il Psi perdeva la sua anima, invischiato in un reticolo di malaffare, di cinismo istituzionale, nella convinzione errata che lo spirito degli anni Ottanta sarebbe stato eterno.
Spini colloca l’inizio della fine al congresso di Palermo, nel 1981, quando Craxi nottetempo impone con un diktat l’elezione diretta del segretario, fino a quel momento deliberata collegialmente dalla direzione. È un blitz cesarista. Da quel momento Spini, in quanto minoranza, ottiene prestigiosi incarichi di governo, ma la sua voce all’interno viene silenziata, nel’84 il partito sabota la proposta contro il finanziamento illecito, fino a un tentativo di estromissione alle politiche dell’87, quando Craxi lo piazza al tredicesimo posto della lista in Toscana, convinto così di sbarazzarsene. Ma grazie a 19,525 preferenze riesce a farsi eleggere lo stesso. E quando alla Camera incoccia il segretario questi da consumato professionista della politica gli dice: «Così la volevo la tua vittoria, che fosse chiara!».
Il libro è trapuntato di aneddoti di un mondo ormai lontano. Pertini che nell’83 gli rivela in anticipo che darà l’incarico a Craxi; Berlinguer che mangia da solo nel self service di Montecitorio; il leader dei nenniani fiorentini Gigi Mariotti che al bar ordina la spuma, «perché costa meno», ché in un partito dei lavoratori occorre mostrare sobrietà. Il drammatico colloquio con Craxi, in piena Tangentopoli, nel quale il Capo gli confessa: «Effettivamente le cose erano andate troppo oltre». Spini è valdese, suo padre, Giorgio, fu un dirigente del Partito d’azione, due atout che fanno di lui un dirigente politico molto poco italiano. Perché, con questa diversità, egli rimane fedele al Psi sino all’ultimo? «Avrei potuto contrastare Craxi favorendo la strategia di De Mita che voleva fermare la crescita socialista, o quella di Berlinguer radicalmente ostile al nuovo corso socialista. Non ho voluto farlo rimanendo leale al partito». Quando Craxi, braccato dalle Procure, si dimette, Spini tenta di diventarne il successore, ma nemmeno lì avrà fortuna perché i maggiorenti faranno confluire il loro peso su Benvenuto: a quel rodeo congressuale è dedicato un ampio capitolo.

IL SAGGIO: La buona politica di Valdo Spini Marsilio pagg. 176, euro 15

Repubblica 16.9.13
La confusione stimola anche le cattive abitudini. Chi vive di regole è invece più buono e generoso
Disordine Se il caos creativo ci rovina la salute
di Massimo Vincenzi


NEW YORK Ordine o disordine, dilemma irrisolto, battaglia che affonda nella storia: dai dibattiti filosofici più raffinati sino alle rivolte (più concrete) di genitori contro figli per camerette al limite del terremoto, passando per colleghi di lavoro in lotta sui confini incerti di scrivanie gestite in maniera opposta. L’azione dell’ambiente in cui viviamo sulla mente e sui nostri comportamenti affascina da sempre gli scienziati. Cinquant’anni fa l’antropologa inglese Mary Douglas sosteneva che i larghi spazi come i campi coltivati e la pulizia hanno addirittura un’influenza sulla rettitudine morale, la incoraggiano. E la ricerca di un’azienda di profumi per ambienti spiega come l’essenza agli agrumi favorisce il senso etico e la fiducia in se stessi. Ed esiste anche una lunga lista di pubblicazioni che spiegano come le immagini caotiche sono spesso associate alla morte e alla tristezza. Eppure, nonostante la pubblicità negativa, il caos ha i suoi pregi, anzi è vitale per il progresso dell’umanità. Il disordine infatti è la molla decisiva della creatività e stimola la voglia di innovare, come prova l’ultimo studio condotto dallo Carlson School of Management dell’università del Minnesota.
I laboratori del college sono stati arredati in maniera differente. Su un lato del corridoio camere perfette, i libri allineati sulle mensole, le scrivanie con le biro disposte in maniera geometrica, niente post-it attaccati ai computer, sul pavimento nemmeno un pezzettino di carta. Dall’altra parte il colpo d’occhio è simile al passaggio di un uragano: cestini usati per allenarsi a basket, tavoli dove si fa fatica a trovare un centimetro libero e fogliettini con appunti ovunque. Quasi duecento persone sfilano nei due ambienti con la scusa di partecipare ad un’inchiesta di marketing alimentare. Su un menù i frullati di frutta da testare sono divisi per gusti, ma quel che conta è che su uno appare la definizione “classico” e sull’altro quella “nuovo”. Gli uomini e le donne che leggono l’offerta nella stanza ordinata puntano decisi sulla prima scelta, quella conservativa, gli altri cercano la novità, con dati cinque volte superiori. Ma le prove non finiscono qui. Ad un altro gruppo di cavie umane viene chiesto di immaginarsi slogan e usi alternative per delle palline da ping pong. Le risposte vengono giudicate in base a complicati parametri secondo il loro livello di creatività e, a questo punto è ovvio, le persone immerse nel caos trovano le idee migliori, quelle più rivoluzionarie e utili anche qui con distanze abissali. Alle stesse conclusioni, come racconta il
New York Times, arrivano gli studi della Northwestern University, dove si dimostra la stretta relazione tra la capacità di disegnare immagini spettacolari e il disordine.
La teoria ha conseguenze pratiche, a partire dagli uffici dove il design ultraminimalista imperante e la spasmodica ricerca del risparmio da parte delle aziende porta ad ambienti lavorativi asettici, senza spazio per muoversi, dove persino la mente si sente in gabbia, con pessimi effetti sul rendimento dei professionisti.
Un ultimo dettaglio, tenuto in ombra nelle conclusioni degli esperimenti: l’ordine fa bene alla salute e ci rende più buoni e generosi, ma il progresso non si può fermare davanti a queste banalità.

La Stampa 16.9.13
Hodler, Böcklin e i simbolisti svizzeri
Lugano Al Museo cantonale e al Museo d’Arte oltre 200 opere
di Fiorella Minervino


Al tramonto del XIX secolo, negli Anni 80, un fantasma attraversò l’Europa, agitando gli animi perturbati e accogliendo inquietudini e affanni destinati a durare fino ai giorni nostri. Era il Simbolismo, il movimento artistico, letterario, musicale, filosofico nel nome del Simbolo, dell’idea da raffigurare, delle suggestioni da evocare; sicché gli artisti si sforzarono di decifrare i misteri, i miti, l’ignoto, per legarsi all’universo, all’infinito. Nella scia dei predecessori Füssli e Blake, e sulla scorta di Wagner e l’unità delle arti, i simbolisti privilegiarono quali vie al cosmo temi come il sogno, l’esoterismo, il corpo, la danza. La donna era idolo comune, ora maliarda, circe o Salomé, ora angelo alle fonti della vita, senza escludere l’androgino e la punizione alle cattive madri. La natura regna sovrana in quei paradisi sulfurei o nella Bisanzio risorta dove vagano ombre malinconiche e dove, a scandire il tempo sono comunque le età della vita, le stagioni, le ore del giorno.
In tale clima Lugano propone una mostra in due sedi, ricca di 200 opere fra dipinti, sculture, foto, disegni, incisioni, manoscritti (in arrivo dai musei e collezioni elvetici e internazionali) che punta lo sguardo sulla Svizzera, crocevia di vari Paesi, ma con forte identità geografica, schierando in campo i propri artisti, come i due concittadini giganti: Hodler e Böcklin. È d’obbligo dire che non mancano gli esponenti europei come Redon, Khnopff, Klimt, Moreau, Rops,Toorop, Burne-Jones i nostri Segantini, Previati (non al meglio) e il primo Boccioni, e i La Rosa Croce, ma abbondano svizzeri minori, non sempre eccelsi pur con sorprese come Edoardo Berta e di nuovo il Monte Verità.
Tuttavia a dominare fra incubi e insonnie sono i due protagonisti: Arnold Böcklin con i prediletti volti dall’antico, muse, sirene, satiri, isole della Grecia, tutte ossessioni di de Chirico, e (senza dimenticare Valloton), e Ferdinand Hodler artista che si riconferma stupefacente. Basterebbe la sala con le sue quattro vedute del Lago di Thun e del Lemano, oli sul tela che paiono acquarelli, (tecnica amata dai simbolisti) per consigliare la visita. alla mostra (curata da Valentina Anker ). Sono visioni incantate, sospese, di paesaggi lacustri con montagne come potrebbero comparire in cartolina, invece coinvolgono e sconvolgono negli specchi d’acqua calmi o increspati che riflettono ombre possenti di vette verso l’alto, le montagne sovrane svariano nei blu e rammentano quelle dell’Engadina dove Nietzsche scrisse Così parlò Zarathustra , qui sovrastate da nuvole sinuose, corpose e cirri leggeri, senza traccia d’uomo. Esiste la fine del Simbolismo? Si parla piuttosto di continuità e a raccontarla sono Surrealismo, Metafisica, Astrazione e così via. Mancano però le cruciali arti decorative, anche se molti sono gli spunti offerti dalla rassegna.

MITI E MISTERI. IL SIMBOLISMO E GLI ARTISTI SVIZZERI LUGANO SEDI VARIE FINO AL 12 GENNAIO 2014