martedì 17 settembre 2013

CONTINUA L'OFFENSIVA PAPISTA
L'UNITÀ E I MEDIA "DI SINISTRA" LA APPOGGIANO IN PRIMA LINEA
LEGGI I PRECEDENTI QUI DI SEGUITO
E L'ARTICOLO DI NADIA URBINATI
 
l’Unità 17.9.13
Il vangelo dei poveri
Con Papa Francesco la «rivincita» della teologia della liberazione
di Serena Noceti


SONO PASSATI SEI MESI DALL’ELEZIONE DI PAPA FRANCESCO: LO STILE DI VICINANZA ASSUNTO FIN DAL PRIMO SALUTO, il linguaggio libero dai paludamenti di un sacro per tanti incomprensibile e non significativo, l’attenzione all’esistenza umana e ai suoi bisogni, il riconoscimento di valore dei cammini plurali e spesso difficili di chi credente e no cerca verità, i segni chiari e incisivi di una fede coerente perché tradotta in scelte di amore e giustizia per tutti, sembrano orientare i cristiani sulle vie di una presenza nuova e insieme offrire un’«anima» alle necessarie, attese ma finora insperate, riforme strutturali che attendono la Chiesa cattolica per una piena attuazione del Concilio Vaticano II.
Già con la scelta del nome, Papa Francesco ha richiamato i cristiani all’essenziale: alla scelta radicale di un vangelo che è pienezza di vita per tutti, in particolare per i poveri, gli emarginati, «coloro che non hanno diritto ad avere diritti» (H. Arendt). È in questo orizzonte di una chiesa che sta esplorando le vie antiche del vangelo di Gesù di Nazareth e le vuole declinare in modo nuovo in un contesto secolarizzato e pluralista, dopo i lunghi secoli della societas christiana, che si può collocare l’incontro avvenuto mercoledì scorso tra il Papa e Gustavo Gutierrez. Il teologo peruviano, riconosciuto come il «fondatore» della teologia della liberazione, era in Italia per partecipare al congresso dell’Associazione teologica italiana, e poi presentare al Festival della letteratura di Mantova il saggio scritto nel 2004 con Gerhard Ludwig Müller, oggi prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della chiesa.
Fortemente criticata, quando non avversata, da una parte della gerarchia cattolica, oggetto di due pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della fede negli anni 80, accusata di ideologizzazione e immanentizzazione della fede, di ridurre la salvezza a una liberazione dalla povertà economica, di dipendere dalla lettura marxista della storia e di giustificare la lotta di classe e il ricorso alla violenza, rappresenta una delle correnti teologiche più significative e feconde del post-Concilio. Nata nell’America Latina della seconda metà degli anni 60, dalla volontà di incarnare il Vaticano II e di individuare categorie adeguate per pensare i temi classici di ogni teologia (Dio, Cristo, la Chiesa, l’uomo) in un contesto segnato dalla miseria, dalla sperequazione economica, dalla ferocia di dittature militari, ha offerto alla Chiesa intera prospettive inedite per pensare criticamente la fede cristiana, interrompendo di fatto la «pretesa» europea di essere il luogo primario e di riferimento del pensare teologico.
Sono passati 45 anni dalla prima conferenza di Gutierrez (Chimbote, Perù, luglio 1968) che sostituiva al concetto di «sviluppo» il paradigma della «liberazione» e sono innumerevoli le voci di teologi e teologhe che, con sensibilità diverse e in diversi contesti continentali, hanno contribuito a ripensare la fede cristiana in questa prospettiva, tanto che è bene oggi parlare di «teologie della liberazione» al plurale. Per tutti rimane determinante lo sguardo sulla realtà e sulla rivelazione e la collocazione assunta: l’opzione preferenziale per i poveri, per coloro che Gutierrez definisce gli «insignificanti» agli occhi del mondo. In un tempo che sembra accettare passivamente la condizione di miseria di milioni di esseri umani, che misura tutto sul registro economico e non vuole ridiscutere l’attuale assetto neoliberista e gli equilibri della globalizzazione, la teologia della liberazione appare necessaria a una Chiesa che voglia essere «chiesa povera e dei poveri», come dichiara Papa Francesco: essa ribadisce senza paura che il Dio del Vangelo di Gesù sta dalla parte di coloro che sono schiacciati dal peso della vita e delle ingiustizie, senza speranza e senza futuro.
Mentre denuncia che la povertà (economica, culturale, sociale) è inumana (e antievangelica), la teologia della liberazione afferma che è necessario lottare contro la povertà e le cause che la generano, non rassegnarsi all’ingiustizia, promuovere la dignità di tutti. Ai cristiani ricorda che non si aderisce a una verità astratta e astorica su un divino puramente trascendente, ma si opera per una trasformazione del mondo secondo quella rivelazione su Dio e sull’uomo che Gesù ha proposto: nessuna ortodossia che non sia ortoprassi; nessun discorso sulla fede che non nasca da un concreto coinvolgimento nel contesto sociale di appartenenza e da una attenta lettura della storia; nessuna opera di misericordia per i singoli che dimentichi gli scenari dell’interdipendenza del genere umano. Esperienza e riflessione sull’esperienza, mediazione, prassi: tre parole chiave per vivere la vita cristiana anche in Europa, ma anche tre sollecitazioni per una rivisitazione dell’esercizio della politica oggi. Perché la teologia della liberazione rappresenta, indubbiamente, una delle voci più provocatorie nel dialogo culturale, che oltrepassa per le vie di intelligenza della realtà adottate e per il coinvolgimento attivo con i movimenti di lotta per la giustizia il solo ambito della vita della chiesa cattolica per condividere preziose suggestioni sull’umano con chiunque si preoccupi del bene comune.

l’Unità 17.9.13
«Anche l’Europa deve imparare»
Parla Gustavo Gutierrez, il fondatore della teologia della liberazione: la Chiesa non ha un programma politico, ma cambiare il mondo e renderlo più giusto è dovere dei cristiani
intervista di Se. No.


L’elezione di Papa Francesco e il suo auspicio di “una Chiesa povera per i poveri” ha spinto molti osservatori a parlare di una “rivincita” della teologia della liberazione. Che ne pensa e quali ritiene siano le sfide di fronte al nuovo Papa? «Il Papa ama i poveri perché ha letto il Vangelo e l’ha compreso. Può darsi che abbia letto di teologia della liberazione, ma è secondario. La radice non è mai in una teologia, ma nelle fonti. La sfida dei poveri è da tempo presente nell’orizzonte della Chiesa e se n’è tenuto conto, altrimenti non si capirebbe il martirio che abbiamo sperimentato in America Latina, a cominciare da vescovi come Angelelli in Argentina, Romero in Salvador e Gerardi in Guatemala, per non parlare dei moltissimi laici. La povertà resta una grande sfida per la vita della Chiesa, non solo latinoamericana. Già in Argentina l’attuale Papa ha dimostrato il proprio interesse per il mondo dei poveri: e costruire “una chiesa povera per i poveri”, come egli ha detto di desiderare, è una grande sfida».
Si parla molto di riforme della Chiesa che il Papa potrebbe realizzare. Quali pensa sarebbero necessarie da questo punto di vista?
«Nel dire che la povertà è una sfida molto grande alla Chiesa è implicito che ci siano cambiamenti da operare. Si tratta di raccogliere maggiormente la realtà del mondo della povertà e affermare con maggior forza in ciascun Paese la necessità che i bisogni dei poveri siano la principale preoccupazione politica, sia pur senza indicare vie concrete per risolverlo. In diversi casi la Chiesa l’ha già fatto, ma con questo Papa ciò dovrebbe rafforzarsi. C’è quindi molto da fare. E il problema della povertà è complesso, perché non si riduce all’aspetto economico, ma coinvolge, per esempio, la diversità culturale e la convivenza
di storia ed etnie diverse, come accade in tanti Paesi del Sud America. Sono convinto che assumere la prospettiva degli ultimi, del povero, cambia molte cose nel comportamento dei cristiani. E non si può ignorare che dell’America Latina si parla sempre come di un “continente cattolico”, ma poi c’è questa immensa povertà, che va combattuta, perché si tratta di intendersi sul concetto di cattolico, che non si riduce all’assolvere alcuni obblighi religiosi, che sono necessari, ma se non sono accompagnati dalla lotta per la giustizia non hanno molto senso».
Quali riforme vorrebbe veder realizzate?
«Quella già annunciata della Curia romana, che ha conseguenze per la Chiesa universale. Di questa riforma fa parte, per esempio, un diverso orientamento nella nomina dei vescovi».
Quali elementi di continuità vede tra Benedetto XVI e Francesco?
«Hanno un carattere e uno stile personale molto diversi, legati alla provenienza, l’Europa centrale piuttosto che “la fine del mondo”. D’altro canto l’opzione preferenziale per i poveri è così presente nel documento di Aparecida perché Benedetto XVI ne parlò nel discorso di apertura, collegandola direttamente alla fede in Cristo. Credo che se non l’avesse detto, il documento ne avrebbe parlato meno. E naturalmente questa prospettiva è condivisa da Papa Francesco. Quindi c’è una continuità, anche se lo stile è molto differente. Ogni giudizio deve essere comunque prudente, perché il Papa è stato eletto solo pochi mesi fa».
Frei Betto sostiene che oggi la teologia della liberazione ha più ascolto fuori dalla Chiesa che dentro, riferendosi al fatto che nell’ultimo decennio in America latina sono andati al governo leader che si richiamano idealmente alla “opzione per i poveri” e alla Chiesa della liberazione. Condivide questo giudizio?
«Diffido molto di queste identificazioni. Certo, Correa è un uomo di formazione cristiana, avendo studiato a Lovanio con François Houtart: al contempo, però, è un economista con le sue idee. Funes cita spesso Oscar Romero, che peraltro è una figura di riferimento per tutto il Paese. Ma sono singoli casi. Credo che i politici abbiano tutto il diritto di usare questi riferimenti, perché vuol dire che per loro significano qualcosa e questo mi rallegra. Non penso però che si possa dire che in questi Paesi ci siano presidenti legati alla teologia della liberazione, perché essi fanno politica nel loro pieno diritto e ritengo che si tratti della politica necessaria per cambiare un Paese ma una teologia non può essere un riferimento ideologico. Un aneddoto: molti anni fa ricevetti una telefonata da un giornalista di Barcellona che mi chiedeva un parere a proposito della rivoluzione sandinista, definendola “una rivoluzione fatta da persone legate alla teologia della liberazione”. Gli ho risposto che pensavo ci fossero fattori molto più importanti della teologia della liberazione alla radice di quella rivoluzione, prima di tutto la dittatura dei Somoza. Non bisogna perdere il senso delle proporzioni e la capacità di analizzare i molti fattori sociali. Comunque non ho dubbi, e anzi me ne rallegro, che la posizione della Chiesa latinoamericana negli ultimi quarant’anni abbia influito molto nella società: e parlo di Chiesa perché le idee che si attribuiscono alla teologia della liberazione sono poi presenti nei documenti delle conferenze generali dell’episcopato latinoamericano. E, d’altro canto, molta repressione dei governi è stata motivata con la lotta alla teologia della liberazione! Nella conferenza degli eserciti americani del 1987 si sosteneva che la teologia della liberazione era contraria alla «civiltà occidentale cristiana». Quindi la teologia della liberazione è presente nell’ambito politico, nel bene e nel male, ma ci sono altri fattori che influiscono. Credo che abbia motivato molte persone, ma compito della Chiesa è cambiare le coscienze e la teologia contribuisce a questo dando ragioni e fondamenti. Si fa teologia anche per cambiare questo mondo!»

La Stampa 17.9.13
L’intervento del Papa
Francesco: «I cattolici si immischino in politica E chi governa sia umile»
L’indicazione durante l’omelia a Santa Marta: «I governanti amino il loro popolo»
di Andrea Tornielli


Chi governa deve avere come caratteristiche «umiltà e amore per il popolo». E il buon cattolico deve «immischiarsi» in politica. Lo ha detto ieri mattina Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta, commentando il Vangelo del centurione che chiede con umiltà la guarigione del servo, e la lettera di San Paolo a Timoteo con l’invito a pregare per i governanti. Brani che sono serviti a Bergoglio per spiegare il «servizio dell’autorità».
Chi governa, ha detto Francesco, «deve amare il suo popolo», perché «un governante che non ama, non può governare: al massimo potrà disciplinare, mettere un po’ di ordine, ma non governare». «Non si può governare senza amore al popolo e senza umiltà! - ha spiegato il Papa - E ogni uomo, ogni donna che deve prendere possesso di un servizio di governo, deve farsi queste due domande: “Io amo il mio popolo, per servirlo meglio? Sono umile e sento tutti gli altri, le diverse opinioni, per scegliere la migliore strada? ”. Se non si fa queste domande il suo governo non sarà buono. Il governante, uomo o donna, che ama il suo popolo è un uomo o una donna umile». Parole distanti mille miglia da una politica caratterizzata da tatticismi, lotta per il mantenimento del potere o interessi personali. Parole che mettono nuovamente al centro il «bene comune».
Ma Bergoglio, riecheggiando San Paolo che invita i cittadini ad elevare preghiere «per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla», ha ricordato che non ci si può disinteressare della politica. «Nessuno di noi può dire: “Ma io non c’entro in questo, loro governano”. No, no, io sono responsabile del loro governo e devo fare il meglio perché loro governino bene e devo fare il meglio partecipando nella politica come io posso. La politica dice la Dottrina Sociale della Chiesa - è una delle forme più alte della carità, perché è servire il bene comune. Io non posso lavarmi le mani, eh? Tutti dobbiamo dare qualcosa!».
Francesco ha quindi osservato come sia invalsa l’abitudine di dire soltanto male dei governanti, lamentandosi per le «cose che non vanno bene». «Tu senti il servizio della Tv e bastonano, bastonano; tu leggi il giornale e bastonano. Sempre il male, sempre contro!». Forse - ha proseguito il Pontefice - «il governante, sì, è un peccatore, come Davide lo era, ma io devo collaborare con la mia opinione, con la mia parola, anche con la mia correzione» perché tutti «dobbiamo partecipare al bene comune!». E se «tante volte abbiamo sentito dire: “Un buon cattolico non si immischia in politica” - ha aggiunto - questo non è vero, quella non è una buona strada».
«Un buon cattolico - ha precisato Bergoglio - si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare. Ma qual è la cosa migliore che noi possiamo offrire ai governanti? La preghiera!». Pertanto, ha concluso Francesco, «diamo il meglio di noi, idee, suggerimenti, il meglio, ma soprattutto il meglio è la preghiera. Preghiamo per i governanti, perché ci governino bene, perché portino la nostra patria, la nostra nazione avanti e anche il mondo, che ci sia la pace e il bene comune».
Così come aveva fatto in occasione del drammatico appello per la pace in Siria, richiamando all’impegno di tutti nella preghiera e nel gesto concreto del digiuno, Francesco invita dunque a una responsabilità simile verso la politica, chiedendo che si preghi per chi ha responsabilità di governo. Ma chiedendo allo stesso tempo ai governanti umiltà e amore per il popolo. (ha collaborato Mauro Castagnaro)

Repubblica 17.9.13
La propra storia con Dio
di Mariapia Veladiano


Il nostro interrogare la vita accade sempre dall’interno di una storia personale che segna il confine del nostro meraviglioso essere unici. Poi il dialogo nasce se ci riconosciamo parte di qualcosa di comune, che possiamo chiamare per nome oppure sentire in altro modo, ma c’è, e ci permette di non trovarci costretti dentro il micidiale sentimento di esclusione che ci fissa all’angolo di una solitudine dalla quale sembra possibile solo scagliare frecce. Vien da dire che è facile dare un nome a questo appartenere, è semplicemente la nostra comune umanità. Esser fatti di corpo e pensare e parlare e avere emozioni, la vita come piacere, dolore, stupore, in un movimento che dà ritmi sempre diversi al tempo, più veloce o più lento, al passo con il nostro essere sereni o afflitti. Non c’è giorno che non ci veda diversi da quel che eravamo e che saremo. E in questo trascolorare del sentire c’è tutta la contiguità di cui siamo intessuti. Sconfinamento che ci impedisce di esser felici solo noi alla faccia dell’ingiustizia.
In questa comune umanità non esiste un luogo da cui interrogare la vita che sia proprio solo dell’intelligenza oppure solo della fede. È inimmaginabile sul piano della storia della salvezza cristiana un Dio che chiama alla vita (comunque si intenda l’espressione) l’uomo e la donna e chiede il sacrificio del pensiero nel momento in cui il loro interrogare incontra quel che più importa: la felicità o il dolore.
Dentro questa comune umanità, chi crede è chi ha una storia con Dio. Oltre che con gli uomini e le donne che nel tempo hanno costruito, cambiato, sfiorato la sua vita, ha anche una storia personale, vera con Dio. Un incontro avvenuto in forme diverse, a volte così particolari che non si possono raccontare. Più spesso invece è possibile trovare le parole. Papa Francesco ha raccontato la sua, limpido incontro nato dentro una comunità di fede. Ed è spiazzante e bello che il suo intervenire nel discorso sulla verità e sul credere sia partito da una storia, la sua storia, e non da una dottrina.
Altri che credono possono raccontare incontri più segreti, un trovarsi a essere portati e sollevati proprio nel momento del più nero sprofondare. Scarti inattesi in una vita che si pensava finita.
Quel che cambia in chi crede non è la possibilità finalmente raggiunta di ottenere geometriche risposte alla vita tutta. L’interrogativo sul dolore è scandalo per chi crede e per chi non crede. La misura è la stessa, e così l’impotenza rispetto a tutto il male della natura, che non dipende da noi, e spesso anche rispetto al male della storia, che molto dipende da noi. I tentativi di chiudere il cerchio del male dentro un confine concettuale hanno portato a risultati impronunciabili. A una insopportabile retorica che sui temi più tremendi vorrebbe essere devozione ed è solo contraddizione e anche offesa a chi patisce e muore. Nessuna algebra del bene e del male può essere evocata davanti al dolore. Anche chi crede conosce tutta la tentazione del disperare. E a volte dispera. Ma non per sempre e certo non grazie a una malintesa devozione che blocca il pensiero davanti al dubbio, ma perché non è proprio capace di farlo. La sua storia con Dio lo fa rialzare. Nel corpo che si rimette in piedi anche suo malgrado quando cade e nello spirito che non sa pensarsi finito. E allora grazie alla sua storia con Dio, non lascia Dio da solo davanti all’ingiustizia del mondo.
E la verità che noi possiamo e di cui parliamo è sempre verità umana. Anche da credenti. Quel veder per speculum in aenigmate, in modo confuso, come in uno specchio, che può essere inganno qui e ora e ci fa innamorare di un’ombra, idolo che si chiama denaro, ambizione, potere. In realtà tutte variantidel potere. Del voler essere Dio invece che figli e fratelli. E quanto dolore ha portato all’umanità e alla chiesa la verità in forma di idolo. Già questo dovrebbe trasformare il nostro parlare di verità in ascolto silenzioso sul confine del mondo.
È un credere e non un sapere il nostro, dentro l’umana libertà e dentro un umano fluttuare di maggiore o minore chiarezza e convinzione. È a volte un sollevarsi di allegria contagiosa, altre un quieto attendere, a seconda dei momenti e della qualità del sentire non solo individuale ma anche sociale e storico che ci investe. È poter credere che il buon esito del nostro agire è assicurato perché non dipende da solo da noi. Perché è stato promesso da chi ha mantenuto la più impensabile delle promesse, la sconfitta della morte e in noi questo poter rinascere lo abbiamo vissuto. E non sappiamo perché altri no, ma non vogliamo essere noi l’inciampo, con la nostra verità scolpita e contundente, o con la nostra identità coltivata come separatezza, idolo ancora una volta, oppure ancora con i nostri valori non negoziabili. Orribile espressione mercantile.
Tutto il resto rimane, è comune umanità di chi crede e chi non crede: lo scandalo del male, il mistero dell’impotenza storica dell’azione, l’ingiustizia che imperversa a dispetto di un diritto che ha oggettivamente disegnato un immenso progresso nella nostra storia. La coscienza che si interroga. E nella battaglia buona per la nostra convivenza, guai a lavorare per dividere le buone forze in campo. Insieme è già un credere. Che spendersi per la vita buona valga la pena. Quanto alla chiesa, chi crede affida a Dio i confini di questa immensa patria di uomini liberi. Intanto nel bene operare e pensare ci si fa compagnia. Esser soli moltiplica la paura. E anche la Trinità si fa compagnia.

Corriere 17.9.13
I quadri preziosi del prelato nell'inchiesta sui conti Ior
I pm chiedono per Scarano il giudizio immediato
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Giudizio immediato per gli illeciti compiuti attraverso il trasferimento di denaro dall'estero. La procura di Roma stringe i tempi e chiede che monsignor Nunzio Scarano sia subito processato. I reati contestati all'ex contabile dell'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, tuttora detenuto, sono la corruzione e la truffa per un'operazione da 20 milioni di euro degli armatori D'Amico da far rientrare dalla Svizzera. Ma altri filoni di indagine si sono già aperti e l'attenzione degli inquirenti si concentra su tutti i conti correnti aperti presso l'Apsa e soprattutto presso lo Ior, gestiti proprio dall'alto prelato.
I soldi da Montecarlo
L'istanza del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Stefano Pesci è stata depositata ieri mattina nell'ufficio del gip. E i difensori di Scarano, gli avvocati Francesco Caroleo Grimaldi e Silverio Sica, anticipano che non chiederanno alcun rito alternativo proprio perché si possa celebrare il dibattimento «e dimostrare che in realtà il nostro cliente ha sempre agito a fin di bene». In realtà sono state proprio le dichiarazioni del monsignore — che ha accettato di rispondere a numerosi interrogatori — a svelare un sistema di reimpiego dei capitali di imprenditori e banchieri attraverso i cosiddetti «conti laici». E al nucleo Valutario della Guardia di Finanza guidato dal generale Giuseppe Bottillo sono state delegate verifiche su tutti i passaggi di soldi, ma anche sulle «operazioni di aggiotaggio» che secondo Scarano sarebbero state compiute dal banchiere Nattino, il fondatore di Banca Finnat.
Non solo. Di fronte ai pubblici ministeri di Salerno che indagano su alcuni investimenti effettuati dall'alto prelato, compreso l'acquisto di immobili per oltre un milione e mezzo di euro, Scarano ha delineato il percorso spesso utilizzato per occultare i soldi. E l'11 giugno scorso, circa venti giorni prima di essere arrestato per ordine del giudice della Capitale, aveva dichiarato: «I fondi dei D'Amico arrivano sui conti Ior attraverso bonifici estero su estero, cioè disposti da Montecarlo o dal Lussemburgo verso il Vaticano benché la sede legale della società sia a Roma». Inizialmente aveva giustificato queste modalità sostenendo di «non essere a conoscenza delle motivazioni, ma ritengo che sia una ragione di comodità dei D'Amico». Poi si è scoperto che il sistema era stato «testato» più volte.
Conti correnti e quadri preziosi
In realtà nei successivi interrogatori, messo di fronte a quanto era stato scoperto dagli investigatori del valutario, ha ammesso le operazioni illecite effettuate all'estero e soprattutto l'utilizzo di «conti laici» per schermare le operazioni sospette. È la parte più delicata dell'indagine, quella che genera preoccupazione all'interno della Santa Sede. Perché il regolamento dell'Apsa, così come del resto quello dello Ior, vieta di intestare i depositi a persone che non siano religiose. E invece, come ha raccontato proprio Scarano, il via libera veniva concesso regolarmente, tanto che anche lui ha detto di aver utilizzato questi conti. Ma soprattutto ha ammesso di averli messi a disposizione di persone che volevano spostare fondi senza lasciare tracce. Compresi faccendieri e 007 che adesso si ritrovano sotto inchiesta con lui proprio per aver concorso nei reati.
La «rete» di amicizie sulla quale Scarano poteva contare emerge proprio dal suo racconto ai magistrati di Salerno, in particolare quando si sofferma sui regali ricevuti. E spiega: «Il piccolo crocifisso del Bernini è un oggetto donatomi da Antonio D'Amico. Il Marc Chagall l'ho acquistato a titolo di investimento. I sei quadri di De Chirico, la cui autenticità deve essere comunque provata, sono un regalo della principessa Giudy Caracciolo di Castagneto».

il Fatto 17.9.13
Vogliono zittire i cittadini
di Paolo Flores d’Arcais


L’altra mattina, in una trasmissione di Radio3, è toccato sentire uno dei partecipanti, che per professione dovrebbe avere la vocazione a informare, definire bassa manovra demagogica la raccolta di firme che questo giornale ha lanciato in difesa della Costituzione. Siamo ormai dentro un disgustoso mondo alla rovescia, dove la virtù repubblicana diventa colpa inemendabile, mentre i ciclopici vizi della più inetta e corrotta e mediocre e bugiarda e infingarda classe politica d’occidente vengono santificati a baluardo contro la catastrofe, quando ne sono causa e motore.
Perché in una democrazia anche le migliori leggi, le più oculate balances des pouvoirs, la migliore Costituzione, possono essere aggirate dalla prepotenza degli establishment, come la storia ha troppe volte confermato e in Italia stiamo di nuovo sperimentando, e dunque alla fine la tenuta di una democrazia si fonda sull’ethos repubblicano diffuso tra i cittadini. Passione civile, partecipazione, intransigenza sui valori di giustizia e libertà che informano la Costituzione, sono gli ingredienti della Cittadinanza Attiva che, sola, è baluardo di democrazia. Hannah Arendt sosteneva che il grande criminale del XX secolo fosse stato “il buon padre di famiglia” che si era estraniato dalla vita pubblica per curarsi solo del “particulare”, aprendo la strada al totalitarismo nazi-fascista.
Questo giornale ha motivato quasi mezzo milione di cittadini a firmare in difesa della Costituzione, minacciata dalla vera e propria manovra eversiva delle larghe intese per annullare l’articolo 138 (lo hanno scritto fior di giuristi che, tutti, avrebbero meritato il posto vacante della Consulta ignobilmente assegnato da Napolitano ad Amato). Il 12 ottobre l’Italia repubblicana e civile scenderà in piazza a Roma per esigere la “realizzazione” della Costituzione e per chiudere il ventennio nauseabondo del berlusconismo e degli inciuci. Ma tanti che si definiscono “giornalisti” continuano a spurgare ingiurie sui cittadini civilmente impegnati e menzognero giulebbe di servilismo su un governo e un presidente che pretendono intoccabili.
Vogliono che i responsabili della catastrofe di crescente impoverimento, inefficienza, ingiustizie e infine macerie materiali e morali, cui hanno ridotto il paese dai loro Palazzi e Colli, vengano incensati e santificati. Vogliono che i cittadini tacciano, o si genuflettano belanti. E invece la rivolta morale dei cittadini, con le firme, nel web e nelle piazze, li seppellirà. Albert Camus del-l’etica e del cittadino ha scritto: “Mi rivolto, dunque sono”.

l’Unità 17.9.13
No al congresso senza politica
di Alfredo Reichlin


Che congresso vogliamo fare? La risposta a questa domanda non mi è ancora chiara. Noi non siamo una associazione ricreativa la quale deve rinnovare i suoi dirigenti perché si è arrivati a una scadenza statutaria. Siamo un partito politico, anzi il solo che bene o male è tale, non essendo nato da una avventura personale ma essendo l’erede delle storie secolari del socialismo e del cattolicesimo democratico.
Una storia grande. Saremo pure una piccola cosa rispetto alla grandezza del mondo nuovo e alle sue inedite sfide ma dopotutto siamo nani seduti sulle spalle di giganti. Nessuno però lo dice e assistiamo invece a vecchi dirigenti in fuga.
Io sono molto colpito. Non so separare la vicenda del Pd da quella più grande di un Paese in grande sofferenza, anche morale. Una crisi di identità sembra colpire gli italiani. La cosa che più mi preoccupa è lo sfarinarsi di quel grande deposito di valori che è la solidarietà. Il Papa ha sollevato questa questione e la grida al mondo. Mi chiedo se la crisi della sinistra sia anche causa ed effetto di questo fenomeno più grande. Eppure, piaccia o non piaccia, è solo a noi che la gente può chiedere una guida, uno sguardo sul futuro, una risposta ai suoi problemi di vita e al suo enorme bisogno di giustizia. A chi, se no? Guardiamo il panorama politico che ci sta intorno: Grillo gioca allo sfascio e il mondo moderato sembra incapace di separare la sua sorte da quelle di Berlusconi. È per tutte queste ragioni che io mi chiedo se ci rendiamo conto del danno enorme che fanno le nostre beghe interne. Non possiamo continuare a parlare solo di noi stessi.
Ripeto dunque la domanda: che congresso vogliamo fare? In altre parole, quale grande proposta politica facciamo a questo Paese. Non solo come parliamo con efficacia nei comizi ma come facciamo la cosa essenziale che deve fare un partito politico, cioè una proposta politica, una scelta qui e ora sul come far leva sulle forze reali, come tornare a schierarle e portarle all’azione e alla lotta. Questa è la politica. E quindi è dall’Italia che dobbiamo partire, non da noi. E allora: quale Italia? Basta alzare un poco lo sguardo per rendersi conto della grandezza dei problemi che ci interrogano. Con l’uscita di scena di Berlusconi finisce una intera fase della vita italiana, un ventennio. Ma non è come se si chiudesse una parentesi. Si aprono nuovi scenari, e il terreno è coperto di macerie. Nulla tornerà come prima. Le responsabilità di Silvio Berlusconi sono evidenti ma, dopotutto, costui non è arrivato dall’estero. Bisogna quindi fare i conti con problemi più di fondo la struttura dello Stato, il vecchio modo dello stare insieme degli italiani cioè con quei problemi da gran tempo irrisolti e che non sono separabili dalla straordinaria avventura del Cavaliere. Poniamoci con freddezza e realismo di fronte alla realtà. Il dato di fondo è che l’Italia si è impoverita ed è diventata più piccola in tutti i campi dello sviluppo economico scientifico e culturale. Solo rispetto al 2007 abbiamo perso dieci punti di ricchezza, ma è dai primi anni Novanta che avevamo cessato di crescere. Perché?
Alla base c’è la sostanziale incapacità della compagine statale e dei compromessi sociali e politici che ne sono l’ossatura, di riformarsi in rapporto alle nuove sfide dell’internazionalismo. Noi abbiamo sottovalutato la grandezza e la natura di quella vera e proprio mutazione rappresentata dalla mondializzazione dell’economia. Sono state ridisegnate le identità collettive e i saperi diffusi, non solo le forme dell’economia. Sono state investite le figure sociali, i poteri dello Stato e i vecchi diritti di cittadinanza. Sono venute meno le armi fondamentali del mondo del lavoro, come il sindacato e lo Stato sociale, si è rotto il compromesso del capitalismo con la democrazia. E, come risposta, ognuno ha cercato di difendersi da solo a scapito di quel cemento essenziale che è la solidarietà con gli altri. È vero anche che si sono allargate le conoscenze e che nuovi popoli sono venuti alla ribalta. Ma la società è diventata più egoista e più ingiusta. Il potere politico ha ceduto il passo di fronte alla potenza senza limiti dell’economia finanziaria e alla sua logica del breve periodo: prendi i soldi e scappa. L’Italia è finita ai margini perché investire sul futuro, sui giovani, sul meraviglioso patrimonio umano e culturale italiano è meno conveniente.
Questo a me pare il cuore del problema politico italiano. I programmi restano vani annunci se non partiamo dall’anima della nazione, se non ridiamo una identità agli italiani, una nuova idea di sé, un nuovo orizzonte e quindi una fiducia nella politica e nel cambiamento. Non si va da nessuna parte con questa rissa continua. Guardare i talk show televisivi fa orrore: una marea di fango, di insulti, di risse senza capo né coda. In quale Paese del mondo civile un uomo politico condannato per frode allo Stato, invece di dimettersi, può ricattare il Paese minacciando il caos?
Dunque, non piccoli cambiamenti ma una grande svolta è necessaria. Ma nella realtà in cui siamo la condizione di una svolta (ecco ciò che voglio dire) è come spostare le risorse che nonostante tutto esistono e sono grandi perché sono le risorse umane, le conoscenze, il capitale sociale italiano verso l’investimento produttivo, i beni pubblici, la difesa dell’ambiente, i nuovi bisogni. Ma come? Io credo che c’è un solo modo, ed è quello di mettere in campo non solo un leader ma una forza reale, un movimento civile, una soggettività organizzata, una forza politica, un partito, cioè lo strumento che trasforma una somma di individui in una comunità pensante.
Questa è la grande responsabilità che pesa su tutte le correnti del Partito democratico. Cerchiamo di vedere il grande spazio che si apre dopo il berlusconismo. È lo spazio nuovo che la crisi del vecchio ordine ultraliberale dovrà per forza restituire alla politica. È l’enorme bisogno di guida, di certezze, di valori. È il bisogno di luoghi dove possa costruire uno stare insieme e un nuovo alto compromesso civile e sociale tra gli italiani.
Questo è il tema di fondo del Congresso, il banco di prova di questo partito. Il Pd non può esistere come grande partito se non è utile al Paese e se non ridefinisce il suo ruolo a fronte di questa crisi di identità, di valori e di prospettive. È qui che io vedo, nel concreto, nel qui e ora, la necessità e il realismo di una grande proposta politica che il nostro congresso dovrebbe avanzare. La proposta di un nuovo patto tra gli italiani. Qualcosa di analogo a ciò che ispirò Berlinguer nel suo assillo di tenere insieme la politica con la società e con la cultura. Non quella dei libri e dei dotti, ma quella di un popolo che si fa Stato e crea, non gli «inciuci», ma una religione civile. Fummo sconfitti, prevalse un’altra idea della politica. Più la grande politica perdeva basi popolari e il potere delle grandi decisioni veniva assunto dall’economia, più i leader si illudevano di difendersi puntando tutto sul potere personale e sul consenso dei «media». Cominciava l’era degli uomini soli al comando (Craxi, Berlusconi, Di Pietro, Grillo, ecc.).
È questa la vera «roba vecchia». Il mondo è inondato dai debiti e i ricchi sono diventati più ricchi. Mentre il nuovo, a mio parere, sta nel dare agli uomini strumenti capaci di restituire ad essi la padronanza delle loro vite. Penso che bisognerebbe dare voce al «primo popolo» (come lo chiama De Rita), cioè quelli che stanno sotto. Non è solo con le primarie che si forma un popolo, qualcuno deve pur dirlo. Io non credo che il Pd possa avere un grande avvenire isolando le forze che vengono dalla lunga storia del socialismo.

il Fatto 17.9.13
Pd, l’incubo dell’assemblea al buio
Convocata per venerdì
Nessun accordo sulle regole
I lettiani sempre più neri col rottamatore
di Wanda Marra


“Adesso! ”: il congresso, Matteo Renzi lo vuole fare subito. Il vocabolo chiave delle scorse primarie si potrebbe applicare all’ultima battaglia ingaggiata dal sindaco di Firenze. E “adesso”, l’accordo non c’è, la trattativa è ancora in alto mare e all’assemblea di venerdì e sabato si rischia di arrivare al buio totale. Intanto, Letta e i suoi sono sempre più irritati col sindaco di Firenze e il Pd epifanian-bersaniano lo accusa più o meno di tutti i mali politici del momento. Primo tra tutti, voler accelerare sul congresso per far cadere il governo da segretario. Sono mesi che i Democratici discutono delle regole e della data del congresso e a tre giorni da un incontro già rinviato più volte, si brancola nel buio. L’ultimo oggetto del contendere sono i congressi locali: “Si era arrivati a un punto d’accordo. Fare quelli provinciali prima dei congressi nazionali”, spiega Nico Stumpo, bersaniano. E quelli regionali? “Noi vogliamo tenerli slegati da quelli nazionali”. Quindi, al limite anche dopo. Ora Renzi però chiede che i congressi regionali siano fatti insieme alle primarie per la segreteria.
UNA SCELTA che lo avvantaggerebbe: la sua figura farebbe da traino per i “suoi” candidati alle segreterie della regione. “Ma possiamo mediare sulla mediazione? ”, si chiede ancora Stumpo. E allora, ecco l’incubo della conta. Magari persino su un ordine del giorno imprevisto, per esempio sulle larghe intese. O anche l’incubo del nulla di fatto. “Loro i congressi locali vogliono farli prima di quello nazionale per far slittare l’elezione del segretario”, attacca Lorenzo Guerini, renziano. Nel frattempo, Renzi, è partito all’attacco sugli iscritti. “Sostiene che dopo le primarie per il segretario farà il tesseramento? Strumentale”, dicono i bersaniani. Perché in realtà vorrebbe solo affrettare i tempi, per far cadere il governo. “Bersani è riuscito quasi a dimezzare gli iscritti, si sono persi 3,5 milioni di voti”, ha detto Renzi a Porta a Porta. Nel 2009, quando Bersani diventò segretario gli iscritti erano 900mila, nel 2012 500mila, quest’anno siamo a 270mila. Spiega Stumpo: “Tra le primarie, le elezioni e le feste democratiche siamo stati occupati a fare altro. Ma abbiamo ancora qualche mese davanti”. Evidentemente, il Pd è stato talmente travolto dagli eventi che le tessere sono andate a picco. Tema politico, più che organizzativo. Per domani Epifani dovrebbe convocare la commissione sulle regole pre-Assemblea. Non l’ha ancora fatto. Chi sta nel bunker del Nazareno ragiona più o meno così: “Ma mettiamo conto che c’è la crisi di governo: come si fa a fare un congresso in quelle condizioni? E poi, che congresso viene fuori? ”. Di certo, nessuno ha deciso ufficialmente che cosa accadrebbe se si andasse a elezioni. E l’ex Rottamatore è sempre più nel mirino di Letta: non passa giorno che non ci sia un altolà, una reprimenda, raccontano gli uomini di Matteo.

il Fatto 17.9.13
Le grane del Pd 1
Arrestata la Lorenzetti, ex governatrice dell’Umbria


Corruzione per l’Alta velocità, la presidente di Italferr ai domiciliari. Intanto i 5Stelle e Felice Casson (“fatti gravi”) chiedono le dimissioni del neo-giudice costituzionale per la telefonata, svelata dal “Fa t to”, in cui l’ex braccio destro di Craxi metteva il silenziatore a una teste in un processo per tangenti

il Fatto 17.9.13
Le grane del Pd 1
Amato poco costituzionale Casson: “È un fatto grave”
I “consigli” intercettati nel 1990 imbarazzano ancora l’ex tesoriere Psi
“Non fare nomi, niente frittate”, fu il consiglio di Amato alla vedova di un socialista da poco defunto
di Emiliano Liuzzi


Più che la giunta, Berlusconi, i falchi e le colombe, è la telefonata di Giuliano Amato, rivelata dal Fatto Quotidiano, dove l’allora vice segretario del Psi di Craxi “consiglia” la testimone di un processo, a tenere il banco sulla scena politica. E non solo per parte del Movimento 5 stelle che ha già chiesto le dimissioni di Amato da giudice della Corte costituzionale. Ieri è stato un senatore del Pd, Felice Casson, ex magistrato, a non girare molto attorno alla questione: “Ho ascoltato e riascoltato la registrazione. Il fatto è grave, non ci sono dubbi. Ma non potete chiedere a me cosa farei io al posto di Amato, è questione di sensibilità personale. Posso dire invece quello che non avrei mai fatto: quella telefonata”. Massimo D'Alema, ai microfoni di Lilli Gruber, se la cava con un "non scherziamo" e l'aria di chi la sa lunga. Non entra nel merito, però, la sua diventa una difesa d'ufficio: “Il prestigio di Amato non è in discussione”. Non lo mette in discussione neppure Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia, il prestigio. Ma chiede che Amato lasci l'incarico.
Certo che quel processo, datato 1990, di interferenze ne ha viste assai. Da una parte quella di Amato che chiama la vedova del senatore Paolo Barsacchi, morto quattro anni prima. Sulle scrivanie dei magistrati c’è una tangente da 270 milioni di lire che funzionari del Psi della Versilia chiesero a un imprenditore per aggiudicarsi i lavori della pretura. E la linea difensiva fu una soltanto: scaricare le responsabilità sulla persona che non c’è più, il senatore Barsacchi, appunto. In quel modo – siamo alla vigilia di Mani Pulite, non c'erano pool di Milano, ma un tribunale di provincia, quello di Pisa – i giudici avrebbero dovuto dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del-l’imputato che non poteva difendersi, stroncato da una malattia a 50 anni. Sarebbe filato tutto liscio se la vedova del senatore, Anna Maria Gemignani, non si fosse opposta con tutte le forze. E’ a questo punto che entrano in gioco, nel processo, due pezzi da novanta: Amato e quello che all'epoca dei fatti era il ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli. Anche l’ex ministro, così come Amato, vengono chiamati a testimoniare, e nel depositare le motivazioni della sentenza, i tre giudici del collegio del tribunale di Pisa, Alberto Bargagna, Carmelo Solarino e Alberto De Palma, esprimono disappunto. “Suscita perplessità”, scrivono, “il fatto che Vassalli chiami la vedova di Barsacchi a Roma per parlarle, quasi a non voler dire cose compromettenti per telefono”. Espliciti lo sono anche sulla posizione di Amato, oggi giudice della Consulta: “È preoccupato solo di evitare una frittata intendendo per tale un capitombolo complessivo del partito. Ma come mai _ si chiedono i giudici _ nessuno di questi eminenti politici si e' sentito in dovere di verificare tra i documenti giacenti nella segreteria centrale del partito per quali tramiti fossero arrivati a Roma quei 270 milioni riconducibili alla tangente? ”. Amato e Vassalli vennero chiamati a testimoniare, dissero che non c’era nessuna congiura, e tornarono a Roma. Nessuna congiura, ma un malaffare da quattro miliardi di lire, poi diventati sette, affidati al costruttore Luigi Rota in cambio di una tangente. Finì con quattro condanne, tra i sette e i due anni, e il riconoscimento dell'estraneità nei confronti del senatore Bar-sacchi, l’uomo che gli imputati volevano incolpare. Finì con le condanne e iniziò una telefonata di Amato fa alla vedova del senatore: “Troverei giusto che tu entrassi in quel maledetto processo e dicessi che quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto. Ma senza un’operazione che va a fare quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in questa storia non c’entra. Questo è legittimo”.

il Fatto 17.9.13

Le grane del Pd 2
 Tunnel di Firenze, retata per corruzione negli appalti Tav
L’ex governatore piddì umbro arrestata per essere a “capo” di una associazione a delinquere
Da presidente di Italferr ha agito anche contro la società pubblica
di Davide Vecchi


“Parlo io con Anna (Finocchiaro) non preoccuparti”, “ora deve chiamarla Pier Luigi” (Bersani). La dalemiana Maria Rita Lorenzetti, 13 anni da parlamentare e due mandati da governatore dell’Umbria nonché membro della direzione nazionale del Pd, nominata presidente di Italferr, usava le amicizie politiche e la società pubblica del gruppo Ferrovie dello Stato per trarne “vantaggio personale”, “del marito” e della sua “squadra”. A scapito della stessa Italferr. Lo scrive il gip di Firenze, Angelo Antonio Pezzuti, nell’ordinanza di arresto emessa ieri a carico di Lorenzetti e altre dieci persone con le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e abuso d’ufficio nel-l’appalto per l’attraversamento di Firenze della Tav.
AI DOMICILIARI con Lorenzetti sono finiti Gualtiero (detto Walter) Bellomo membro della commissione Via del ministero dell’Ambiente; Furio Saraceno presidente di Nodavia; Valerio Lombardi tecnico di Italferr; Alessandro Coletta consulente e all’epoca dei fatti membro del-l’Autorità di vigilanza sugli Appalti pubblici; Aristodemo Busillo della società Seli di Roma, che gestisce la grande fresa sotterranea “Monna Lisa” per realizzare il tunnel Tav sotto Firenze. Una “squadra”, la definisce il Gip, ben collaudata e “più volte richiamata da Lorenzetti che riporta a un articolato sistema corruttivo”.
Il sistema era semplice. E ben collaudato. “Lorenzetti – scrive il gip fiorentino – svolgeva la propria attività nell’interesse e a vantaggio della controparte Novadia e Coopsette, da cui poi pretendeva favori per il marito, e mettendo a disposizione le proprie conoscenze personali, i propri contatti politici e una vasta rete di contatti grazie ai quali era in grado di promettere utilità ai pubblici ufficiali avvicinati”. Ed era Lorenzetti che faceva in modo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, “grazie a modifiche normative e accomodanti disposizioni delle pubbliche amministrazioni a copertura dell’operato” della squadra, “la gestione degli scarti della fresa (per scavare il tunnel sotto Firenze, ndr) ” (..) venisse “fatta in deroga alla disciplina sui rifiuti”. Inoltre a lei spettava “risolvere positivamente le problematiche insorte, anche penali, relative alla scadenza dell’autorizzazione paesaggistica dell’opera”; “ottenere il massimo riconoscimento possibile delle riserve contrattuali poste dagli appaltatori (Nodavia e le società subappaltatrici, ndr) per una maggiorazione delle spettanze economiche di centinaia di milioni di euro aggiuntivi rispetto al prezzo di aggiudicazione”, “ottenendo i favori e la disponibilità di pubblici funzionari coinvolti nel-l’associazione ” a delinquere.
Che l’obiettivo sia far approvare il decreto per la gestione della collina Santa Barbara (dove stoccare i rifiuti), ottenere l’autorizzazione paesaggistica, aiutare il marito Domenico Pasquale (“inserito negli appalti posi-terremoto in Emilia Romagna”), raccomandare gli amici o far nominare qualcuno in posti chiave, il metodo usato – ricostruisce il gip – è sempre lo stesso: “La ricerca di contatti affidabili”.
Lorenzetti si muove anche a Bruxelles. Al telefono con Grillo la presidentessa garantisce che neanche alla Ue ci saranno problemi. “I nostri uffici Bruxelles consigliano di attendere con fiducia senza forzare... (inc.)... ovviamente Bruxelles... adesso io... ecco un'altra cosa... eh... ho risentito... questi nostri uffici di Bruxelles... (...)... che consigliano... eh... di... di... non... cioè di non scapizzare come dire... casomai di utilizzare visto che lì il parlamento è chiuso... (...)... di utilizzare gli eurodeputati che com... che sono nella commissione Ambiente e Territorio... (...)... in questo caso... o... Vittorio Prodi... ”.
LA RICERCA di appoggi si rivolge persino al Consiglio di Stato. Quando Valeria Lombardi apprende che il presidente di sezione di tale organo deve cambiare, invita, nel corso della telefonata del 18 aprile 2013, Lorenzetti a informarsi sul nuovo arrivato. Lei si riserva di chiedere ad Anna Finocchiaro qualcosa: “Adesso guarda sto andando al Senato perché devo andare a prendere un caffè con Anna... sento se lei conosce... lo conosce... se ha notizie da dove provenga... chi sia insomma”. E coinvolge Finocchiaro anche in occasione del decreto del Fare che dovrebbe azzerare i cda delle controllate pubbliche. L’ex presidente di Palazzo Madama è più volte coinvolta da Lorenzetti. Il 27 luglio 2012 si accorda con Bellomo: “Io sto andando al Senato (...) io fra 5 minuti ci sono (...) ci vediamo lì da Anna... insomma via! ”.

La Stampa 17.9.13
Renziani e bersaniani uniti “Non ci sarà un Letta bis”
Nel Pd lo scenario più accreditato in caso di crisi è un governo istituzionale a tempo
di Carlo Bertini


Vietato parlarne pubblicamente, «perché solo mettere in discussione le larghe intese significa indebolirle e fare un cattivo servizio a Enrico», ma nel Pd ormai sono in molti a pensare che se Berlusconi staccasse la spina, l’unico sbocco accettabile non sarebbe certo un Letta bis, ma un governo istituzionale non guidato da un premier Democratico; un governo a scadenza breve, utile solo a portare il paese alle urne senza il porcellum. Con un profilo istituzionale e molto tecnico, a cui il Pd darebbe un appoggio esterno, «perché non vogliamo ripetere l’errore facendo un Monti due», spiegano dalle parti di Epifani. Sembrerà paradossale, ma questo scenario mette d’accordo le due truppe avversarie di renziani e bersaniani, che su tutto il resto sono su barricate opposte, a cominciare dal nodo se congelare il congresso o no nel caso venisse giù tutto l’impianto attuale. Ma c’è anche chi fa notare come allo stesso Letta non converrebbe logorarsi guidando un esecutivo debole e raffazzonato, poco credibile in Europa, che non sarebbe certo un buon biglietto da visita per sfidare alle primarie Matteo Renzi. Tanto che il contrattacco del premier da Vespa e quell’uscita sulla volontà di ridurre le tasse sul lavoro come priorità, al Nazareno viene considerata già un segnale che «anche Enrico si sente già in campagna elettorale».
Dunque, se pubblicamente lo scenario di un Letta bis viene brandito per frenare la voglia di Berlusconi di staccare la spina alle larghe intese, in realtà nei colloqui privati tra i dirigenti del Pd questo sbocco è visto come altamente improbabile, «a meno che non si verifichi un vero smottamento nel Pdl e tra i 5Stelle, noi riusciremmo ad accettare solo un governo guidato istituzionale, magari retto dal presidente del Senato, per fare la legge di stabilità e quella elettorale», spiega uno di quelli che tengono i contatti con tutti, in primis con Matteo Renzi.
Anche nell’inner circle del «segretario emerito», così viene chiamato scherzosamente Bersani dai suoi detrattori, la musica è la stessa. «Un Letta bis con numeri risicati, sotto il bombardamento costante di tivvù e giornali della destra, non conviene a nessuno ed Enrico ha fatto già capire di non essere uomo per tutte le stagioni», dicono gli uomini ancora fedeli all’ex leader. Il quale non crede affatto che una situazione come l’attuale possa reggere a lungo e che Berlusconi proverà comunque a provocare la crisi. «E’ possibile che mercoledì non succeda niente e che anche a metà ottobre quando arriva la sentenza da milano sull’interdizione di Berlusconi non succederà niente?», chiede il bersaniano Nico Stumpo seduto su un divano alla Camera. «Non sappiamo quali scenari, se ce ne fosse uno con Letta che mettesse in pratica quanto dice sempre, cioè che lui non resta lì a tutti i costi?».
Una delle teste pensanti del renzismo, Paolo Gentiloni, la mette giù così per spiegare quanto sia poco probabile un Letta bis. «Le larghe intese nascono da uno stato di necessità e sosteniamo questo governo per questo, ma se tale opzione fallisse per colpa di Berlusconi, allora si torni a votare». Un modo elegante per dire che i numeri per un Letta bis nei gruppi parlamentari del Pd non ci sarebbero, punto. Altra storia invece è l’accordo con Renzi sui tempi del congresso, ancora in alto mare. Lo stesso Stumpo, che lavora gomito a gomito con Epifani, annuncia che «le primarie si riusciranno a fare il 15 dicembre se venerdì in assemblea si trova un’intesa politica per abolire l’automatismo tra segretario e candidato premier e sulla tempistica, per far partire prima i congressi locali e separare l’elezione dei segretari regionali da quella del leader. Ma se per assurdo l’8 dicembre venissero sciolte le Camere, non si può chiedere al paese di aspettare il nostro congresso per le consultazioni...».

Repubblica 17.9.13
Il grande freddo tra Enrico e Matteo il premier tentato dal sì a Cuperlo
Ancora niente accordo su regole e data del congresso
di Giovanna Casadio


ROMA — Ad ogni bordata di Renzi contro il governo, il gelo si accentua. Enrico Letta ovviamente dice che non si occupa e non si occuperà del congresso del Pd, ma la presa di distanza dal “rottamatore” sembra ormai irreversibile. Basta osservare le mosse dei lettiani. Paola De Micheli ad esempio, è sempre più tentata dal sostegno a Gianni Cuperlo, il candidato anti Renzi. Così un altro lettiano doc, Francesco Russo. A tessere la tela e mantenere i contatti in questi giorni sono i bersaniani, Nico Stumpo, Davide Zoggia. Del resto Bersani stesso l’ha ripetuto a ogni piè sospinto: appoggio Cuperlo a patto che non si crei una ridotta della sinistra post comunista. «Dobbiamo portare altri, dell’area lettiana, dei Popolari di Marini», ha ribadito l’ex segretario. Colloqui, incontri e endorsement: a 48 ore dall’Assemblea nazionale di venerdì che darà formalmente il via al conto alla rovescia per il congresso, il meteo democratico segna burrasca.
I posizionamenti spappolano correnti e sodalizi: Cesare Damiano ha detto all’amico di una vita, Piero Fassino di non chiedergli di appoggiare Renzi; Stefano Bonaccini, segretario emiliano e grande sostenitore di Pierluigi Bersani alle primarie del 2012, ha informato Pierluigi che Matteo è meglio, e sta trascinando con sé tutto il Pd dell’Emilia. Renzi che ormai non fa nulla per nascondere le sue critiche al presidente del consiglio, va avanti per la sua strada: «A me di queste storie di correnti e di sostegni non me ne importa nulla», fa sapere. Ma molto invece importa ai renziani delle tagliole che potrebbero essere disseminate nella corsa per la segreteria democratica. Alla vigilia dell’Assemblea l’accordo sulle regole ancora non c’è.
Il segretario Epifani garantisce che oggi cercherà di evitare la conta in Assemblea: «Prenderò in mano la situazione e proverò a fare un accordo, riparlerò con Renzi». Il leader, ex segretario della Cgil, sa bene che le trattative si concludono all’ultimo minuto. Lorenzo Guerini, renziano nel “comitatone” per il congresso, sostiene che ancora non si vede l’approdo. Gli uomini del sindaco non vogliono le lungaggini dei congressi locali se questo significa spostare alle calende greche le primarie per il segretario. Percorso indicato invece da Epifani. I “giovani turchi” si fidano di Roberto Gualtieri, il “mediatore”, e ritengono che la base per chiudere c’è e quindi i renziani non agitino altre scuse. Ma Margherita Miotto, bindiana, dà l’altolà a qualsiasi ipotesi di cambiare lo Statuto del partito nel punto fondamentale, ovvero quello percui il segretario è anche il candidato premier del centrosinistra. «Una cosa è prevedere una proroga della norma transitoria che Bersani volle modificare per consentire a Renzi di sfidarlo alle primarie, e cioè che non c’è automatismo; altra cassare l’identità stessa del Pd e la sua scommessa bipolare». Spiega Miotto. Come lei la pensano Morassut, i veltroniani e Renzi. Bindi non ha ancora scelto chi appoggiare: la polarizzazione tra Renzi e Cuperlo crea smarrimento, è il suo leit motiv. Sarà alla festa di Left Wing, la rivista dei “giovani turchi”, dal 26 al 29 settembre a Roma. Però Matteo Orfini ha chiamato a raccolta un po’ tutti, renziani inclusi, anche Yoram Gutgeld, consigliere di Renzi per l’economia. Conclusione con Cuperlo.
Su una cosa i renziani non transigono: niente allungamenti dei tempi, il congresso a norma di Statuto è previsto per il 7 novembre e massimo può slittare al 24. Né l’elezione dei segretari regionali può essere sganciata dal leader nazionale, rendendolo ostaggio del partito. Il “comitatone” dovrebbe essere riunito domani. E se l’intesa non c’è? «Si vota e la maggioranza decide», sfidano i renziani.

Corriere 17.9.13
Renzi vede Pisapia
Tra i sindaci un asse che guarda a Roma
di Elisabetta Soglio


Dopo Bersani e Vendola, Renzi e Pisapia. L’idea del nuovo ticket che potrebbe affrontare la prossima campagna elettorale piace a molti ed è stata rafforzata dagli incontri e dalle dichiarazioni di questo ultimo week end. Un ticket che viene considerato vincente perché i protagonisti, caratterialmente agli antipodi, hanno in comune la capacità di rivolgersi a mondi diversi da quelli della sinistra tradizionalmente intesi. Una strana coppia, a dire il vero: tanto il trentottenne Renzi è esuberante, affabulatore, amante della ribalta, quanto Pisapia è timido, schivo, molto low profile. I due, come hanno ricordato ieri, si sono conosciuti a Firenze nel 2010 in occasione di un festa organizzata da Emergency. Prima di allora, non era stato propriamente amore: Pisapia aveva dichiarato di non condividere l’approccio da «rottamatore» del collega sostenendo la necessità di cercare un leader capace di aggregare. Col tempo, soprattutto dopo la sconfitta alle primarie, Renzi ha modificato quel suo atteggiamento puntando più sui contenuti e sulle proposte. Tolto di mezzo quell’argomento, sono emersi i molti aspetti che li rendono affini ed è scattato il feeling. Primo punto: entrambi hanno alle spalle un’esperienza negli scout, che significa avere nel dna il senso del servizio, dell’impegno, dell’attenzione al prossimo. Secondo: nessuno dei due nasce politico, dal momento che dopo la laurea Renzi fa esperienza di manager nell’azienda di famiglia, mentre Pisapia è avvocato molto affermato. Terzo: entrambi stanno facendo la difficile esperienza di amministratori in tempo di crisi ed entrambi governano nel “tartassato” centro-nord. Devono far quadrare i bilanci, mentre lo Stato taglia; devono rispondere ai bisogni dei loro cittadini; devono cercare di fare fronte comune contro lo Stato che scarica tutte le tensioni sul livello locale.
Durante l’incontro di ieri, a Palazzo Marino, i due hanno rinnovato l’asse «sulle questioni concrete, perché a noi interessano quelle, mentre voi giornalisti vi occupate solo del congresso del Pd». E quindi, alleanza Milano-Firenze a 360 gradi: dalla moda all’Expo, passando per la necessità di avviare azioni con l’Anci a tutela dei trasferimenti agli enti locali. E la politica nazionale? Inutile stuzzicarli evocando possibili impegni comuni: Renzi prima spiega che «mi piacerebbe fare l’assessore di Pisapia»; poi, ulteriormente sollecitato su un trasferimento di entrambi a Roma, taglia corto sorridendo: «Dovete chiederlo al sindaco Marino».
In realtà, qualcosa si è già mosso. Come detto, entrambi hanno dimostrato la grande capacità di parlare a mondi diversi dal loro. Per questo motivo, Pisapia ha vinto le elezioni a Milano sgretolando 14 anni di dominio del centrodestra, preceduto dal quadriennio della Lega. Per lo stesso motivo, l’altra sera alla Festa del Pd Renzi ha ribadito che «per vincere bisogna allargare il consenso».
Ed ecco che la strana coppia potrebbe scendere in campo. Renzi ha stima totale per Pisapia e potrebbe affidare a lui il compito di parlare al mondo di sinistra più duro e perplesso nei confronti del sindaco di Firenze. Inoltre il sindaco meneghino potrebbe rappresentare, in questa alleanza, l’uomo forte del Nord che sostiene le istanze delle regioni più avanzate. Un primo risultato, Renzi lo ha già portato a casa: Pisapia ha infatti già esercitato una sorta di effetto trascinamento sulla sua giunta, che alle primarie era in maggioranza schierata con Bersani. L’endorsement più importante è stato quello del vicesindaco Ada Lucia De Cesaris, che alle primarie era addirittura stata coordinatore dei comitati di sostegno all’allora segretario e che l’altra sera ha ammesso: «Sento dire che le feste danno il polso degli umori del partito. La popolarità di Renzi non può essere ignorata e i giovani che fanno la coda per ascoltarlo sono un chiaro segnale». In effetti, sarà un caso ma Milano ha già cambiato atteggiamento nei confronti del sindaco fiorentino: tiepida alle primarie, dove Bersani l’aveva fatta da padrone sia in città che in Lombardia, Milano ha accolto Renzi con affetto e ovazioni alla Festa dell’Unità. E sicuramente in parte è stato merito di Giuliano Pisapia.

Repubblica 17.9.13
Aborto, crescono gli obiettori
di Guglielmo Pepe


L’aborto è un evento drammatico e doloroso. Pertanto la notizia che il numero delle Interruzioni di gravidanza (Idv) è sceso nettamente (4,9% in meno rispetto allo scorso anno: 106 mila casi a fronte degli oltre 111 mi-la), è molto positiva. Ma la relazione presentata al Parlamento sull’attuazione della legge 194 dice un’altra cosa, negativa: aumentano gli obiettori di coscienza. Con punte di quasi il 90% dei ginecologi in Campania e di oltre l’80 in tutto il Sud. Anche gli anestesisti meridionali obiettano in massa, con medie superiori al 70 per cento. Dunque i medici del Mezzogiorno d’Italia sono 'più sensibili' degli altri? E quali conseguenze ha questo comportamento? Si può ipotizzare che il calo del numero di Idv è dovuto in parte a questa diffusa obiezione di coscienza. Né si può escludere il ritorno della clandestinità o dei viaggi all’estero. Visto che la legge 194 non viene applicata in modo uniforme, il ministro ha fatto avviare un monitoraggio per verificare le situazioni critiche. Bene. Però se in una struttura 9 medici su 10 sono obiettori, il problema non è solo organizzativo ma culturale e politico: forse c'è chi vuole boicottare la legge 194.

La Stampa 17.9.13
“È il precariato che uccide la ricerca”
Il fisico del Cern Fabiola Gianotti: basta saltare una generazione per bloccare tutto
intervista di Gabriele Beccaria


«La ricerca si fa per passione, non per la fama o i soldi». Così dice Fabiola Gianotti, la scienziata italiana più famosa al mondo, a capo del team che l’anno scorso ha annunciato la scoperta del bosone di Higgs, la particella che, dando massa alle altre, fa esistere ciò che conosciamo, compresi noi stessi. A Torino per il «Premio StellaRe 2013», consegnato dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è inevitabile ricordarle la polemica del giorno, lanciata dalla neo-senatrice a vita, Elena Cattaneo, stupita dalla differenza tra i suoi due stipendi: 3300 euro al mese per dirigere il maggiore laboratorio d’Italia di cellule staminali e 12 mila per lo scranno. Risposta: «E’ un problema ancora più generale».
Ci spieghi.
«Anche gli insegnanti sono pagati poco, dalle elementari all’università. Gli stipendi non sono paragonabili a quelli della Svizzera, dove lavoro. Non sono adeguati al loro ruolo».
Cosa si deve fare per guarire quella malata cronica che è la ricerca italiana?
«Fare ricerca nel proprio Paese è quanto di più bello si possa immaginare. Però devono sussistere le condizioni: stipendi decorosi, appunto, e un sistema meritocratico. E si deve risolvere la piaga del momento, il precariato. Non si può pensare che un ricercatore rimanga fino a 40 anni nell’incertezza. A quel punto la scelta dell’estero diventa obbligata. E’ il precariato a uccidere la ricerca».
E così continua la fuga dei cervelli.
«Il flusso dei cervelli è positivo se è bilanciato: i nostri giovani vanno all’estero e altrettanti dovrebbero venire da noi. Il problema è quando il flusso ha una sola direzione e diventa “fuga”. E la ricerca si impoverisce. Penso al patrimonio della fisica, che si basa sui “Ragazzi di Via Panisperna”, Fermi, Rasetti, Pontecorvo, Segrè e Amaldi: è una tradizione che si è perpetuata anche grazie all’Infn, l’Istituto di fisica nucleare, e alle università. Ma, quando i giovani se ne vanno, basta saltare una generazione per bloccare tutto. Accade come con le botteghe del Rinascimento: il sapere deve tramandarsi di padre in figlio».
Non crede che gli scienziati debbano farsi sentire di più?
«Ci sono segnali forti che vengono dagli scienziati italiani. Dall’Infn, che si impegna a spiegare ai politici ciò che fa facciamo e l’impatto sulla società, e dall’estero, dato il prestigio dei nostri scienziati. Ma ci deve essere la volontà politica di investire nella ricerca».
Come si convincono i politici?
«In un momento di crisi la tentazione è tagliare gli aspetti che non hanno un’influenza immediato sulla vita quotidiana, ma è una reazione a corto raggio. Senza ricerca fondamentale non ci sono idee, senza idee non ci sono applicazioni e senza applicazioni non c’è progresso. Alla lunga si paga. Un Paese costretto a comprare conoscenza all’estero è senza futuro».
Va però peggio per le donne: perché quello della fisica è un mondo ancora maschilista?
«C’è un aspetto storico: 30-40 anni fa non erano molte le donne che studiavano le “scienze dure”. Oggi al Cern sono il 20%, ma la percentuale cresce, anche se una donna fa ancora un po’ più fatica dei maschi».
Ha subito discriminazioni?
«Non sento di averne subite. Lo dimostra il fatto che sono stata eletta da 3 mila fisici per coordinare il test “Atlas” al Cern di Ginevra».
Lei è celebre. Copertina di «Time», citazione di «Forbes» e tanti premi: come ci si sente a essere la scienziata italiana numero uno?
«Non sono sicura di essere la più famosa! L’Italia produce tanti scienziati di alto livello».
Com’è cambiata la sua vita?
«Quello che ha cambiato la mia vita - prima di tutto scientifica è il bosone di Higgs: trovare una particella così importante è il coronamento di anni di lavoro collettivo, di migliaia di scienziati, tra cui 600 italiani. Ma anche il resto della mia vita è cambiata: non mi sarei mai aspettata una risposta così positiva dai giovani per una scoperta da “addetti ai lavori”».
Come se lo spiega?
«Credo sia il fascino che il bosone esprime. E’ una particellachiave per capire la struttura e l’evoluzione dell’Universo. Molti, anche i teenager, mi scrivono e vengono alle mie conferenze».
Lei che consiglio dà?
«Inseguire i propri ideali, con determinazione ed entusiasmo».
L’ha sorpresa la nominadi Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo a senatori a vita?
«Napolitano ha fatto scelte eccellenti e forti».
Ora sogna il Nobel?
«Premiare la scoperta del bosone è difficile, perché si tratta di una collaborazione di migliaia di scienziati. E prima di loro ci sono stati i fisici che hanno sviluppato la teoria. Vedremo che ne pensano a Stoccolma!».

La Stampa 17.9.13
A Pechino la censura non basta Carcere per i blogger scomodi
Nuova legge contro social network e microblogging: chi ha più seguaci paga di più
Tre anni di detenzione se una notizia «non vera» viene ritwittata
I colpevoli devono fare pubblicamente mea culpa con le manette ai polsi
di Ilaria Maria Sala


Secondo alcuni sondaggi il traffico su Sina Weibo, il sito di microblogging più popolare, sarebbe già diminuito del 30%

«Non credere alle voci infondate. Non spargere voci infondate. La spiegazione del governo è l’unica prova fondata»: la frase, scritta in caratteri bianchi su drappi rossi, è l’ultima arrivata nell’infinita serie di slogan propagandistici che dagli Anni Cinquanta segnano le campagne politiche in corso in Cina. Veicolata come sempre con striscioni per le strade, quest’ultima campagna segna anche il momento in cui la censura ha finalmente marcato il passo con la tecnologia, riuscendo a dare il colpo più duro ai social network. Finora ci avevano provato con la censura diretta. Un esercito di sorveglianti dei siti social, che cancellavano in tempo reale ogni post troppo critico nei confronti del Partito o del governo, o troppo impertinente nel proporre riforme. Ma i social e i siti di microblogging simili a Twitter, chiamati in Cina weibo, vanno troppo veloci, e qualcosa sfuggiva sempre da sotto le maglie. Cancellato, il post ricompariva ritwittato da altri, e l’esercito di sorveglianti doveva comunque agire in difesa. Ora, con la nuova legge contro le «voci infondate» in vigore da lunedì, invece, si gioca d’attacco: una notizia che il governo considera «non vera» distribuita sui social e ritwittata 500 volte può costare tre anni di detenzione. Lo stesso vale per una pagina web, di nuovo contenente le notizie che il governo dichiara«infondate», visitata 5000 volte. E dopo alcuni arresti eccellenti, cos’altro resta se non l’autocensura? Secondo alcuni conteggi, infatti, il traffico su Sina Weibo, il sito di microblogging più popolare, sarebbe già diminuito del 30%.
Le nuove misure colpiranno più duramente quelli che in Cina sono chiamati i «Grossi V», ovvero i titolari degli account weibo più popolari. Sono contraddistinti da una piccola V di fianco al nome, che sta per «verificato». La stessa lettera compare anche su Twitter, accanto ai nomi delle celebrità o di chi ha molti follower. Fra di loro c’è Charles Xue Manzi, un uomo d’affari sino-americano che aveva 12 milioni di «seguaci» su weibo e che era noto per i suoi post critici delle autorità, arrestato ad agosto con l’accusa di aver adescato alcune prostitute. Due anni fa aveva lanciato una campagna per salvare i bambini rapiti, ma le sue dichiarazioni pro-democrazia lo avevano reso un blogger-non-gradito. Ora, è divenuto il bersaglio di articoli che lo denigrano e lo ridicolizzano, come quello pubblicato ieri da Xinhua, l’agenzia di stampa cinese: «Si comportava come un imperatore su Internet… un uomo arrogante che prima non era nessuno…» e che, in una confessione trasmessa dalla televisione, ha detto «la mia irresponsabilità nel diffondere notizie online era solo un modo per sfogare i miei umori negativi». Xue, dice Xinhua, «vergognandosi delle sue azioni passate ha offerto di comparire in televisione in manette, per servire da esempio negativo». Non c’è più la gogna, non ci sono più i cartelli appesi al collo della Rivoluzione Culturale, ma ci sono queste terribili confessioni in tv, per umiliare i condannati davanti a tutti e per costringerli ad accettare la loro «giusta» punizione.
Venerdì scorso, divenuto noto come il «venerdì nero» per i social media in Cina, è stata la volta di Wang Gongquan, altro «Grosso V» arrestato per aver «disturbato l’ordine pubblico», in cui per la prima volta la parola «pubblico» è utilizzata per indicare il web, spazio comune che può essere «disturbato» da post impertinenti. Wang, con 1.6 milioni di follower, è un amico stretto di Xu Zhiyong, l’avvocato per i diritti civili detenuto da aprile, ma arrestato formalmente solo dal mese scorso, a causa del suo «Movimento dei Nuovi Cittadini» che proponeva maggior supervisione del Partito e varie riforme civiche e politiche. Wang, noto per aver perorato in modo pubblico le cause di chi ha subito angherie dalle autorità, ha scritto vari post chiedendo la liberazione di Xu, segnando il suo destino. È probabilmente il primo miliardario cinese finito agli arresti non per corruzione o frode, ma come vittima illustre della campagna contro le «voci infondate», con cui la nuova leadership cinese ha detto chiaro e tondo che il potere di Internet può essere limitato e messo sotto controllo. A cominciare da chi si era illuso che la celebrità, o il successo in affari, potessero servire da scudo di protezione.

Repubblica 17.9.13
RUSSIA, SPARATORIA DOPO UNA LITE SU KANT
MOSCA — Una discussione filosofica sfociata in un’incredibile sparatoria. Nella notte tra domenica e lunedì a Rostov sul Don, nel sud della Russia europea, due giovani del posto (di 28 e 26 anni) erano in fila presso un chiosco di alcolici. A un certo punto, nel-l’attesa, hanno intrapreso una discussione su Immanuel Kant, filosofo amato da entrambi. Stando al racconto della polizia, dopo aver discusso pacatamente su diverse opere di Kant, i due avrebbero cominciato a litigare sulla “dialettica trascendentale”. Alla fine, uno dei due ha tirato fuori dalla giacca una pistola scacciacani e ha sparato all’altro, ferendolo alla testa, ma non gravemente. Non è chiaro se il ragazzo che ha sparato sia stato arrestato.

Corriere 17.9.13
Antifascisti sepolti nel Gulag
L'indifferenza di Togliatti per gli esuli arrestati in Urss
di Aldo Cazzullo


«Non rivedrò più te, né mio figlio, né fratelli, né compagni. E io che sognavo una morte gloriosa all'ombra di quella bandiera per cui ho dato e sono pronto a dare la vita! Mi trovo nella regione più infame che ci sia: 40 gradi di freddo e manca tutto. Guai se mi mettessi a raccontare quello che mi capita... Ti pare giusto arrestare altri dieci italiani solo perché erano miei amici, e tre operai russi che della mia questione non sanno nulla?».
È straziante rileggere — nel nuovo saggio di Arrigo Petacco A Mosca, solo andata, che la Mondadori manda oggi in libreria — la lettera scritta dal Gulag alla moglie Angelina da Luigi Calligaris, un uomo che Leo Valiani — confinato con lui a Ponza — definì «una delle figure più eroiche della lotta antifascista», arrestato e deportato all'inizio delle purghe staliniane. «Angiolina mia, ti supplico, anche se non dovessi più scrivere, fin che hai un attimo di respiro insisti di voler sapere dove sono finito. Scrivi alla Croce Rossa, a Parigi, va a Roma dall'ambasciatore russo e insisti per sapere cosa hanno fatto di me. Se ti diranno che mi sono ammazzato, che sono finito sotto un'automobile, non credere e non credere neppure se ti mostrassero le firme dei testimoni. Questo (...) è il grido disperato di un comunista che, dopo avere visto la morte sui campi di battaglia della guerra imperialista e della lotta politica, non vuole fare una morte ingloriosa per mano dei propri fratelli».
L'angoscia di Calligaris non era immotivata. Non era solo la prospettiva della persecuzione, dell'arresto, della tortura, della morte a terrorizzare i comunisti italiani riparati in Unione Sovietica per sfuggire alla dittatura fascista, e finiti nelle grinfie di un altro regime fintamente amico e in realtà di paranoica spietatezza. Ancora più dolore dava la prospettiva di non lasciare traccia, di sparire nel nulla, di lasciare un nome infangato da false accuse agli occhi dei compagni. E infatti Calligaris finirà inghiottito dalla macchina della repressione. Di lui non si è saputo più nulla. Con lui nel gennaio 1935 furono arrestati altri otto comunisti italiani, sotto l'accusa di avere mantenuto contatti con i bordighisti-trotzkisti all'estero. Furono i primi di una lunga serie. Tra loro c'era anche Ezio Biondini, il ragazzo che nel 1924, a 17 anni, era riuscito a issare sul castello di Udine una enorme bandiera rossa che vi sventolò per tre giorni (i fascisti non riuscivano ad ammainarla). La sorte di Biondini fu terribile. Condannato ai lavori forzati in Siberia, ricondannato a fine pena, condannato per una terza volta, liberato nel 1946, tornato a Mosca nel 1950, arrestato per aver chiesto il rimpatrio all'ambasciata italiana, si vide infliggere altri 25 anni di lavori forzati. Morì poco dopo nel campo di Krasnojarsk.
Il libro di Petacco, uno scrittore che studia come uno storico e racconta come un giornalista, va letto sia perché restituisce memoria a tante storie perdute o dimenticate, tra cui quelle di molte donne. E perché affronta un tema essenziale: le compromissioni del comunismo italiano, a cominciare da Togliatti, nei crimini dello stalinismo. Petacco individua una figura-chiave in Paolo Robotti, il marito di Elena Montagnana, sorella di Rita, la moglie del segretario generale. Robotti, «l'uomo di marmo» incaricato di sorvegliare i compagni espatriati a Mosca, divenuto a sua volta vittima, invano torturato dalla polizia politica nella speranza di incastrare il suo illustre parente. Il rimorso lo accompagnerà per tutta la vita, ma quando nel 1961, otto anni dopo la morte di Stalin, cinque dopo il XX congresso del Pcus, Robotti preparò una lista di 125 compagni fucilati da riabilitare (una piccola parte di quelli travolti dalle purghe), Togliatti lesse il foglio svogliatamente, poi lo accartocciò e lo gettò nel cestino: «Queste sono cose da dimenticare. Meglio non parlarne».
Il ruolo di Togliatti — controllore e controllato — e del Pci in quegli anni terribili è rimasto limitato al dibattito accademico, e le rare volte in cui è entrato nella discussione pubblica è stato strumentalizzato e piegato a fini di parte, come nel caso della lettera — manipolata — di Togliatti a Stalin sulla sorte degli alpini prigionieri in Russia. Invece è possibile, e anzi doveroso, affrontare l'argomento senza secondi fini, ad esempio senza affievolire la fermezza della condanna del fascismo e delle sue atrocità, che pure ci furono, ma anche senza nascondere che il mito del comunismo italiano è stato costruito anche occultando le responsabilità del suo leader storico e dei più stretti collaboratori.
È impressionante come fino all'ultimo anche le vittime, tornate dall'Urss dopo anni di prigionia e di stenti, continuassero a mentire o a tacere, pur di non incorrere nella condanna massima: il disconoscimento del partito. E allora è importante scrivere e leggere le loro storie, anche quando sembrano tratte dal teatro dell'assurdo. Come la vicenda di Andrea Bertazzoni, alias Mukas, specialista caseario di Mantova messo a capo di un kolkhoz agricolo di Rostov che produceva formaggi. Bertazzoni pensò di far conoscere ai russi il gorgonzola. Sorpreso mentre iniettava la muffa nella pasta, fu creduto un sabotatore, torturato, condannato a morte. Lo salvò dal plotone d'esecuzione il commissario agli Esteri Maksim Litvinov, che alla conferenza di Genova del 1922 aveva apprezzato il gorgonzola.

Repubblica 17.9.13
Il Profeta contro la crisi
Bolle, speculazioni e debito ecco l’insegnamento di Maometto
Per l’Islam, l’economia si fonda su regole morali
di Roger Scruton


Ognuno di noi ha una sua opinione su cosa si dovrebbe fare per raddrizzare la nostra spaventosa situazione economica. Un’idea? Perché non ascoltare Maometto? È vero, il Profeta non aveva un retroterra da economista né poteva collegarsi a talk show dedicati alla finanza. I tempi sono cambiati dal VII secolo. Ma Maometto conosceva un paio di cose sulla natura umana che non sono per nulla cambiate.
Un versetto del Corano dice: «O voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni, ma commerciate con mutuo consenso, e non uccidetevi da voi stessi» (4,29). Questo è uno dei versetti e haddith interpretati come proibizione dell’interesse, delle assicurazioni e del commercio sui debiti. Il Profeta era rimasto sconvolto dalla vendita e dall’acquisto di cose non reali, specialmente quando le persone cercavano di non rispettare il volere di Dio vendendo quello che non possedevano o quello per cui non sarebbe mai stato chiesto loro conto. La legge islamica tradizionale perciò proibisce molte delle strategie commerciali che noi diamo per acquisite: per esempio, la responsabilità limitata, che permette alle persone di sfuggire alle conseguenze di ciò che fanno indossando una maschera aziendale.
Certamente un’economia senza interessi, assicurazioni, responsabilità limitata o commercio sul debito sarebbe una cosa molto differente dall’economia mondiale di oggi. Sarebbe molto lenta, ristretta e, in paragone, impoverita. Ma non è questo il punto: l’economia proposta dal Profeta era giustificata non su basi economiche, ma su un piano morale; era un’economia virtuosa. E non si trattava del desiderio di un’economia morale confinata al solo islam. Anche nel mondo dell’ultimo dopoguerra nel quale io sono cresciuto, la vita economica è stata circoscritta da editti di carattere morale.
Per molti anni dopo la Seconda guerra mondiale una cosa chiamata “capitalismo” è stata guardata con grande sospetto dalle élite europee e anche da larghi strati della popolazione. Capitalismo significava “avidità”, “profitto” e “sfruttamento”. Gli affari privati venivano visti come un attacco al sistema pubblico, o almeno morale, e nell’Inghilterra delle industrie nazionalizzate e degli imponenti progetti statali non era raro che il “motivo del profitto” evocasse una certa ripugnanza.
Poi venne la rivoluzione thatcheriana. Abbiamo vissuto quella che è stata, vedendola retrospettivamente, una radicale trasformazione nel mondo delle idee e anche nella politica quotidiana. Molto in fretta il sistema che veniva condannato come “capitalismo” iniziò a essere lodato come “il mercato”. L’economia, ci venne detto, non riguardava lo sfruttamento, ma la libertà. Il mercato non era solo una necessità sociale, ma anche qualcosa di moralmente buono. Perciò era il mercato ciò con cui ogni persona doveva avere a che fare, apertamente e onestamente, per il beneficio di tutti. Esso offriva libertà e chiedeva come suo prezzo la responsabilità. Lo Stato non era più il guardiano del bene comune, ma il grande intruso, la clausola condizionale di tutti i nostri contratti, il ladro che prendeva i guadagni degli onesti lavoratori e li distribuiva ai suoi viziati clienti. Dopo i cupi anni del socialismo puritano, questa nuova moralità era indubbiamente liberante. Ma liberava sia cose buone sia cose cattive, e non ha mai fatto i conti con la verità che era stata segnalata da Maometto, ovvero che, in un’economia di finzione, nessuno può essere chiamato a render conto.
Non so se le “bolle” che abbiamo visto di recente fossero necessarie per il commercio immobiliare. Io ho il sospetto che lo siano, e che la ricerca di regole che dovrebbero prevenirle sia un uso futile di denaro pubblico e di energia politica. Nessuno può giocare con la vita delle persone e diventare ricco trasformando in rifiuti i pochi risparmi degli altri. Ma le cose non migliorano quando lo Stato vi mette becco.
La premessa originaria dell’interferenza statale è che lo Stato e i suoi clienti vengono prima. La principale preoccupazione della classe politica è di assicurare che coloro i quali dipendono da essa per una vita facile – i burocrati e i loro clienti – vengano debitamente foraggiati, con un fondo di riserva per comprare il favore degli scontenti. Il commercio in un mercato irreale procede così.
La norma europea, nella quale la parte maggioritaria dell’economia è controllata dallo Stato, rappresenta una sorta di posizione debole per le moderne democrazie e appunto verso quella stanno or ora andando anche gli Stati Uniti, sebbene per lungo tempo abbiano costituito un’eccezione. Tasse alte per tutti coloro che lavorano duramente, che prendono rischi e permettono all’economia di funzionare, e un atteggiamento libero verso tutti quelli i cui voti si possono facilmente comprare: questa è la tendenza degli Stati democratici. Nessuno in Grecia o in Portogallo ne ha mai dubitato e solo un barlume residuo di etica del lavoro protestante non ha distratto i tedeschi dalla verità nei confronti della quale essi non hanno realmente dei titoli per lamentarsi nel momento in cui la classe politica greca cerca di trasferire il costo dei prestiti che riceve, un costo insolubile, sui contribuenti tedeschi, i quali invece potrebbero rifondere quel prestito. Questo infatti è ciò che significa la democrazia sociale, e la socialdemocrazia è stato il prodotto da esportazione più grande della Germania postbellica.
Vari economisti hanno scritto articoli tecnici molto dotti per spiegare come è sorta l’attuale crisi del debito e come si potrebbe gestirla. La teoria di rifinanziare e rendere sovrano il debito ha riempito un volume di grafici e statistiche. Ma questo non dovrebbe renderci ciechi rispetto alla verità che il Profeta ci ha mostrato, ovvero che vi è un altro modo, più vero, di percepire questi problemi: la strada del giudizio morale. Se prendiamo a prestito del denaro, siamo obbligati a rifonderlo. E dovremmo rifonderlo guadagnando la somma richiesta, non prendendone a prestito ancora, e ancora, e ancora. Per alcune ragioni, quando ciò capita a degli Stati e ai loro clienti, queste elementari regole morali vengono dimenticate. Si potrebbe dire che in questo caso vi è uno iato tra la sapienza morale e quella economica.
Non ne sono convinto. Mi sembra che il senso morale sia emerso negli esseri umani precisamente perché esso, a lungo andare, va a loro vantaggio. Sono i fatti che mettono un freno a comportamenti spericolati, che causano il costo deglierrori per chi li commette, e che espellono dal giro chi bara.
Essere puniti è una cosa che ferisce, ed è naturale che gli Stati che agiscono male cerchino di evitare la punizione. E siccome nel sistema attuale essi possono molto facilmente trasferire a noi le loro ferite, noi chiudiamo un occhio sul loro comportamento. Ma penso che nel migliore dei casi il risultato sia un vantaggio economico di breve durata e che i costi a lungo termine saranno molto più grandi. Per quel che abbiamo visto, in Europa e in America, questa situazione causa una “demoralizzazione” economica. I debiti non vengono più visti come un obbligo da ottemperare ma un asset su cui fare affari. E il loro costo sta per passare ai nostri figli, per i quali noi cerchiamo protezione e che giustamente ci disprezzeranno per aver passato i nostri debiti sulle loro spalle.
(Traduzione di Lorenzo Fazzini)

La Stampa 17.9.13
Firenze celebra il centenario di Camus con due giorni di eventi e dibattiti


Nel centenario della nascita, Firenze vara una due giorni di eventi in omaggio ad Albert Camus (1913-1960), lo scrittore, filosofo e drammaturgo francese, premio Nobel per la letteratura nel 1957. L’iniziativa «Albert Camus, solitario solidale», si terrà il 26 e 27 settembre. Primo appuntamento per l’incontro «Sulle tracce di Albert Camus» che vedrà gli interventi di Valerio Magrelli, Sergio Givone e Italo Dall’Orto. Proprio quest’ultimo leggerà alcuni brani del Deserto, un testo giovanile scritto da Camus durante il suo soggiorno a Firenze nel 1937. Sempre il 26 settembre, al cinema Odeon alle 21,30, proiezione del film di Gianni Amelio Il primo uomo , tratto dall’omonimo libro di Camus, preceduto da un incontro con il regista intervistato dai critici Gabriele Rizza e Claudio Carabba. Venerdì alle 11, al giardino di Boboli, «percorso camusiano» verso il Forte di Belvedere. A seguire, alle 17 all’Institut Français, si terrà un incontro sull’opera di Camus, con interventi di Maissa Bey, Sandra Teroni e Benjamin Stora. Alle 21, proiezione del film che Luchino Visconti ha tratto da Lo straniero .

il Fatto 17.9.13
LA7D. Psicoanalisi on line la terapia dura tre minuti
di Chiara Daina


Con internet il mondo entra in casa tua. Con internet tutto è a portata di clic e tutto diventa fai da te, dalla vacanza all’università, foto, video, film, libri, ricerca di casa, aereo, babysitter, corso di inglese, orto sul balcone, trucco, cucina, chitarra. Si dice che internet rende gli umani pigri, crea posti di lavoro, ruba posti di lavoro, taglia fuori gli anziani, uccide l’innovazione, spegne la creatività, stimola i neuroni. Dunque, lo spazio virtuale è di tutto e di più. O, se si preferisce, è ciò che di più controverso possa esistere. È anche il lettino dello psicanalista, incluso lo psicanalista. La nuova grammatica della psicologia si chiama Webtherapy, in onda su La7d. Non richiede niente di fisico, nessuno in carne e ossa. Basta munirsi di un computer, perfino un iPad o uno smartphone, una connessione internet, una webcam e un account su Skype. E la psicoterapia è quasi fatta. Dal-l’altra parte dello schermo, infatti, si deve palesare il volto della dottoressa Fiona Wallice, alias Lisa Kudrow. Cioè l’ex attrice di Friends, esilarante e fortunatissima sitcom made in Usa. Capello lungo, biondo, liscio e voluminoso e tanta faccia tosta. Suo marito è un avvocato. Lei viene da una famiglia benestante. Per lei il lavoro è soltanto un hobby, anzi il capro espiatorio delle sue nevrosi: Wallice è egocentrica, isterica, pungente e arrogante. I problemi degli altri sono la fonte del suo business: il franchising della web therapy. Si procaccia i pazienti online grazie al sito internet e fa sedute esclusivamente mordi e fuggi. Durata: tre minuti. Non un secondo di più, altrimenti perde la pazienza e le staffe.
UN PAZIENTE gli chiede un appuntamento di 50 minuti. Lei replica così: “In tre minuti si è obbligati ad arrivare al punto”. Come fa lei, che spiattella la verità in un colpo senza farla digerire agli assistiti: “Lei si attacca agli uomini che fuggono perché è stata cresciuta da una coppia di lesbiche e quindi senza una figura paterna, per cui è familiare vivere l’assenza maschile”. Oppure “A lei sono mancate le attenzioni di sua madre e quindi non cerca la donna indipendente ma la badante”. Un altro le chiede di essere ricevuto di persona nel suo studio. La dottoressa inorridisce e lo taccia di stalking. Dinamiche surreali, analisi forzate, sprazzi di lumi freudiani qua e là. Il pubblico da casa vede due finestre della video chat aperte. Nessun montaggio, mai cambi di inquadratura. Per fortuna è solo una serie tv.

lunedì 16 settembre 2013

Cacace (sic!): «la sinistra italiana ha fatto poco o niente per valorizzare le posizioni della Chiesa sulla “questione operaia”»
l’Unità 16.9.13
La dottrina sociale interroga la sinistra
di Nicola Cacace


TUTTE LE PRESE DI POSIZIONI DI PAPA FRANCESCO, DI CUI LE ULTIME LA LETTERA DI RISPOSTA A SCALFARI SUL DIALOGO CON I NON CREDENTI, definita dal fondatore de la Repubblica «scandalosamente affascinante» e l’invito rivolto dal Centro Astalli dei gesuiti di Roma ad «utilizzare i conventi vuoti per ospitare i rifugiati e non come alberghi per guadagnare» sono segni inequivocabili di apertura della Chiesa verso la società e soprattutto verso chi soffre. Il cammino della Chiesa in queste direzioni è stato accelerato da questo Papa ma non è di oggi. Nessuna grande comunità come la Chiesa ha fatto nell’ultimo secolo un cambiamento così significativo in campo sociale, a cominciare dalla cosiddetta questione operaia, di cui trattava l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII del 1891.
È incredibile che la sinistra democratica italiana non abbia mai analizzato in profondità questi cambiamenti, a differenza di altre sinistre, ad esempio quella tedesca, come dirò più avanti. Più di un secolo dopo, l’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI del 2009, si presenta con contenuti molto diversi dalla Rerum Novarum. Leggendo le due encicliche si ha la misura del cambiamento della Chiesa in un senso che, in politica, si definirebbe più progressista. La critica esplicita al socialismo e al sindacato oltre all’elogio delle diseguaglianze, temi centrali di Leone XIII sono sostituiti nella Caritas in Veritate dalla critica esplicita al capitalismo senza freni e controlli e alle scandalose diseguaglianze sociali.
Il capitolo più significativo per marcare le differenze tra le due encicliche è proprio quello dell’eguaglianza. Nella Rerum Novarum, sotto il titolo «Necessità delle diseguaglianze sociali e del lavoro faticoso» si legge: «Togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile... Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini, le diseguaglianze tornano a vantaggio sia dei privati che del consorzio, poiché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e l’impulso principale che muove gli uomini è la disparità dello stato». Questa visione, più vicina al cinismo sociale ed anche sbagliata nelle implicazioni economiche i Paesi più in salute sono quelli a più bassa diseguaglianza appare capovolta nella Caritas in Veritate. Benedetto XVI, parlando al sinodo per il Medio Oriente in Vaticano nel 2010, criticò duramente il capitalismo finanziario senza freni e controlli che pone l’uomo in schiavitù. Disse, in sostanza, che i capitali anonimi, una delle grandi potenze della nostra storia, sono diventate forme di schiavitù contemporanee, un potere distruttore che minaccia il mondo.
Il Papa rafforzava così concetti esplicitati l’anno prima nella sua enciclica. Ma alcune critiche esplicite alle forme più oppressive del capitalismo sono anche precedenti alla Caritas in Veritate. Nella Centesimus annus (1989), Papa Wojtila difese lo stato sociale e rimarcò con forza il concetto di sfruttamento, non usuale ancora nei testi della dottrina sociale della Chiesa. Scrisse infatti Giovanni Paolo II: «Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi del Paesi che cercano di ricostruire le loro società? (...) Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa». Il Papa polacco attaccò il mantra del mercato mano invisibile, mitica figura del liberismo economico, affermando il concetto di mercato etico. Temi poi ripresi dalla Caritas in Veritate: «Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità... La dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo le differenze di ricchezza, negative anche per lo sviluppo...Il mercato globale ha stimolato, anzitutto da parte di Paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni a basso costo... Questi processi hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, con gravi pericoli per i diritti dei lavoratori».
La posizione ufficiale della Chiesa espressa dalle encicliche e dalle prese di posizioni degli ultimi papi, incluse quelle di papa Francesco con la globalizzazione della solidarietà, invocata a Lampedusa è sempre più vicina a quelle di una sinistra moderna, egualitaria ma non classista, favorevole al mercato libero ma regolato, con uno Stato sociale universale che garantisca a tutti i diritti fondamentali, salute, istruzione, pensione. Non so se per carenze culturali o altri incomprensibili motivi la sinistra italiana ha fatto poco o niente per valorizzare le posizioni della Chiesa sulla «questione operaia». Anzi, in passato, alcuni valori o presunti tali della Chiesa sono stati sfruttati piuttosto dagli avversari politici. È ora di recuperare il tempo perduto, anche rispetto, ad esempio, ai socialisti tedeschi che, nel congresso riformatore della Spd a Bad Godesberg del 1959 così scrissero nell’incipit del documento finale: «Il socialismo democratico che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, bensì per rispetto delle scelte dell’individuo in materia di fede, scelte sul cui contenuto non devono arrogarsi diritti né un partito politico né lo Stato».

La Stampa 16.9.13
La lezione di Francesco sul potere
di Franca D’Agostini

qui

Repubblica 16.9.13
La ricerca della verità
di Enzo Bianchi

monaco e priore di Bose

NEL dialogo tra quanti cercano di essere coerenti con la propria fede e quanti si sforzano di esserlo con le proprie convinzioni, il bello e anche il difficile vengono adesso. Dopo la lettera aperta di papa Francesco a Eugenio Scalfari sembra predominare l’impressione della novità, della svolta, dell’inedito che prende forma. Ma vale la pena soffermarsi anche sulle conferme e gli approfondimenti, sulle prospettive e gli interrogativi ancora aperti.
Anzitutto, a chi si interrogasse sul perché del dialogo tra cristiani e laici, occorre rispondere che il dialogo è la via umana, condivisa dunque da tutti, “credenti” e “non credenti”, di costruire insieme un senso; è metodo (meth-odos) che diventa sinodo (syn-odos), cammino fatto insieme. E cercare insieme la verità. Questo atteggiamento, che per i cristiani deriva dal credere che ogni uomo in quanto tale è immagine e somiglianza di Dio, dà forma storica alla mitezza, crea relazioni ispirate a quella mitezza che per Paolo VI “è carattere proprio del dialogo” (Ecclesiam suam). Il dialogo è spazio sostitutivo della violenza elaborato mediante quella facoltà solamente umana che è la parola e di cui, a partire da Socrate, non mancano certo esempi nella tradizione culturale occidentale anche fuori del cristianesimo. Il dialogo, dunque, va praticato come via di costruzione di un mondo che crede alla forza della parola e rifiuta di affidarsi alla parola della forza.
Inoltre, il linguaggio esprime una difficoltà fondamentale: distinguere tra “credenti” e “non credenti” lascia molti insoddisfatti, sia perché una delle due categorie è definita solo in negativo rispetto all’altra, sia perché chi non crede in Dio sovente crede comunque nel cammino di umanizzazione e in alcuni principi coerenti con essa. Inoltre, è proprio dei cristiani ripetere ancora oggi le parole registrate nei Vangeli del padre di un ragazzo ammalato che così si rivolse a Gesù: “Io credo, aiuta la mia incredulità!” (Mc 9,24). Fede e incredulità abitano anche il credente che ogni giorno deve rinnovare la sua fede, dissipare – per quanto gli riesce – i dubbi, affidarsi al Signore quando la tenebra sembra dominare.
Vi è poi da capire perché il gesto e le parole di papa Francesco appaiono una novità nel nostro specifico contesto culturale: è un Papa non italiano e non europeo che si rivolge a un intellettuale italiano. Ora, in Italia avevamo già assistito, a partire almeno dal concilio Vaticano II, a tentativi anche approfonditi di dialogo, ma mai con il Papa stesso come interlocutore principale. Analogamente questo era avvenuto e avviene con regolarità e forza ancora maggiori in altri paesi, soprattutto extra-europei. Basterebbe pensare, solo per citare un esempio legato al fatto che il Papa è un gesuita, che tra i suoi confratelli religiosi ben cinquemila sono indiani, nati e cresciuti anche teologicamente in un contesto in cui il dialogo interreligioso e culturale è da tempo sfida e opportunità quotidiana. La lettera di papa Francesco ha sì avuto risonanza mondiale, ma i più implicati – e anche i più sorpresi – dalla novità restiamo noi italiani. Un vescovo di Roma, che ha potestà e autorevolezza sull’intero orbe cattolico, dialoga direttamente con il fondatore ed editorialista di un quotidiano laico che ha sede a Roma.
Che la Chiesa cattolica volesse, anche nella sua istanza suprema che è il concilio ecumenico, aprirsi al dialogo con il mondo contemporaneo, lo sappiamo fin dal Vaticano II e della sua costituzione Gaudium et spes,cioè da quasi cinquant’anni. Così come la definizione della Chiesa come “esperta in umanità” che vuole dialogare ed essere solidale con l’umanità risale a Paolo VI e al suo discorso davanti all’assemblea generale dell’Onu, il 4 ottobre 1965. Da allora si sono moltiplicati anche gli organismi ufficiali preposti al dialogo, non solo con i cristiani non cattolici e con le altre religioni, ma anche con il mondo della cultura e dei “non credenti”. Ma un conto sono le commissioni, gli incontri ufficiali tra esperti, i documenti elaborati insieme, un altro conto sono i dibattiti negli spazi pubblici, le “cattedre” create nelle grandi città, i “cortili dei gentili” aperti ai pensatori di ogni scuola e, da ultimo, lo scambio diretto sui media tra il Papa stesso e un autorevole giornalista.
La novità più grossa resta che, proprio a questo livello di massima divulgazione – i mezzi di informazione quotidiana – si sia passati dal dibattito accademico e dal reiterato auspicio della necessità del dialogo, al dialogo vero e proprio, all’ascolto delle domande dell’altro e alle risposte, al rendere conto di chi o che cosa anima il proprio sentire e il proprio agire. Per questo dicevo che il difficile viene adesso: perché ormai non basta più dire che si vuole il dialogo, bisogna anche attuarlo, accettando di confrontarsi anche su temi rispetto ai quali l’uno o l’altro degli interlocutori – e magari entrambi – pensano di essersi già assestati su posizioni consolidate.
“Fare un pezzo di cammino insieme”, allora, vuol dire per tutti rendersi conto di non essere soli a camminare, di considerare questo confronto un’opportunità e non un fastidio o un impedimento a una marcia più spedita, una ricchezza potenziale e non un sacrificio inevitabile. Significa, per i cristiani, verificare anche se il linguaggio che usiamo è adatto a essere capito dal nostro interlocutore, se le certezze su cui ci fondiamo possono avere una base anche umana e non solo rivelata e trascendente, se ciò che presentiamo come istanza etica superiore abbia una valenza antropologica anche per chi non ne condivide l’origine. Gli interrogativi sull’inizio, la qualità e la fine della vita, le modalità della convivenza civile, le esigenze della libertà religiosa, i contrappesi delle istituzioni democratiche, i doveri e i limiti delle “ingerenze umanitarie”, il concetto stesso di democrazia e di giustizia, la discriminante decisiva tra ciò che è bene e ciò che è male sono tutti ambiti fondamentali che richiedono una deontologia del dialogo e, più ancora, una concreta pratica quotidiana del dialogo stesso. Questo il confronto che ci attende se vogliamo veramente camminare insieme: confronto di cui l’accoglienza riservata al pressante appello di papa Francesco per la pace costituisce una tappa fondamentale.
Papa Francesco mi pare abbia saputo cogliere negli interrogativi postigli da Scalfari una sete autentica e una volontà sincera di confronto e ha saputo avviare la risposta con franchezza ed empatia: nessuna reticenza sul proprio cammino di cristiano, di prete e di vescovo, nessuno stravolgimento compiacente del pensiero cattolico e della tradizione cristiana, ma la capacità di usare parole antiche con l’efficacia di un linguaggio nuovo perché semplice, uno stile evangelico che è già messaggio, una cordialità non affettata. E, soprattutto, una disponibilità ad aprire e proseguire la discussione, non a chiuderla. Se resta chiaro che Gesù Cristo è per il Papa il principio e il compimento della sua fede, questo non esaurisce il confronto, ma lo approfondisce, nella piena consapevolezza di cosa significhi per un cristiano l’evento inaudito di un Dio fattosi uomo.
Per chi è cristiano c’è una risposta da dare alle parole di Gesù: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mc 8,29). E il cristiano sa che questa risposta si può solo dare nella fede, cioè se avviene la rivelazione, se Dio alza il velo e concede di “contemplare l’umanità di Gesù” come immagine del Padre. È allora decisivo da parte di ciascuno ascoltare questa domanda, non essere soddisfatto e chiuso in una autoreferenzialità incapace di ricerca e di ascolto, e quindi obbedire alla propria coscienza. Il cristiano sa che ogni essere umano è a immagine e somiglianza di Dio, quindi capace di avere in sé il senso del bene e del male, capace di accogliere la luce e di combattere le tenebre. Gesù di Nazareth per i cristiani è il racconto di Dio narrato nella sua vita umana, per gli altri è un uomo intrigante, un uomo singolare che ha saputo, come dice Scalfari, “amare gli altri più di se stesso”. Sì, per i cristiani Gesù è risorto dai morti, ha vinto la morte, ed è questo il fondamento della loro fede; per gli altri resta una domanda: ci interessa o no che l’amore vissuto fino all’estremo possa vincere la morte?
L’augurio è che ciascuno di noi, nelle semplici realtà quotidiane in cui si ritrova, possa riprendere e proseguire questo dialogo: un confronto che non è riservato agli specialisti, perché riguarda la vita. E ciascuno di noi è uno specialista, un esperto della vita. Ciascuno di noi ne conosce il valore e i limiti, sa cosa sia per lui e per quanti ama il vivere, il con-vivere, il morire. Ciascuno di noi sa anche cosa significhi camminare sulle strade della vita e come il camminare insieme possa aiutare a compiere passi che, intrapresi in solitudine, avrebbe considerato impossibili.

La Stampa 16.9.13
Vaticano. lo scandalo delle finanze
Giochi di borsa e illeciti all’ombra della Santa Sede
Prime ammissioni di Monsignor Scarano con la Procura: “Molte operazioni poco chiare”
di Guido Ruotolo


Quando comincia a verbalizzare monsignor Nunzio Scarano, sono le undici di un caldo giorno di luglio. Il procuratore aggiunto Nello Rossi, a un certo punto gli chiede da quanto tempo lavorasse all’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio immobiliare della Sede Apostolica. Dal 28 giugno Scarano è in carcere per via dell’operazione sospetta di riciclaggio di venti milioni d’euro, frutto di una evasione fiscale di 41 milioni di euro degli armatori D’Amico, che dovevano essere trasferiti dalla Svizzera a un conto Ior.
Scarano risponde così al pm romano: «Sono 22 anni che lavoro all’Apsa. Già nell’87 avevo rifiutato di andare a lavorare allo Ior e questo non era stato apprezzato. Di recente ho chiesto udienza al Santo Padre perché non ero soddisfatto di come andassero le cose all’Apsa. Non mi convinceva la gestione. Capivo che volutamente venivo tenuto all’oscuro di molte cose».
Facevamo banca Chiede il pm: «Ad esempio?». «Esempi concreti non sono in grado di farne, se non con riferimento a un episodio. Noi come Apsa non potevamo avere clienti esterni, ma pure non potendo, in realtà, “facevamo banca”, nel senso che avevamo una raccolta di risparmio e forme di reimpiego con corresponsione di interessi ai depositanti». Ricorda il prelato: «Fui ricevuto dal cardinale Bertone (Tarcisio, ex segretario di Stato, ndr), alcuni anni fa, subito dopo la sua nomina, ma l’incontro non ebbe alcun effetto. C’erano anche conti di cardinali, gestiti da Giorgio Stoppa, precedente delegato (direttore) dell’Apsa, E c’erano anche altri conti. Ma non ricordo alcun nome specifico se non quello della Duchessa Salviati (Maria Grazia - ndr), benefattrice del Bambin Gesù». «Di recente mi recai dal cardinal Filoni (Fernando, prefetto di Propaganda Fide, ndr) al quale dissi dei conti “laici”. Dato l’incontro nel 2010 e in seguito a questo, in effetti, alcuni funzionari furono allontanati da Apsa (tra cui De Angelis)».
Scheletri nell’armadio «Il Mennini (Paolo, ex numero uno di Apsa, ndr) era arrivato quando Giorgio Stoppa andò in pensione e si trattava di trovare qualcuno che si occupasse anche di coprire gli scheletri da lui lasciati in armadio. Il Menniti portò con sé il De Angelis. I due avevano uno stretto rapporto con Marco Fiore, che lavorava per i D’Amico (gli armatori coinvolti nel trasferimento dei fondi neri dalla Svizzera allo Ior, ndr) a Montecarlo. Stoppa gestiva in maniera padronale e opaca il suo settore. Mennini gli riconobbe un trattamento pensionistico molto lauto. Mennini si era portato anche una certa Maria Teresa Pastanella che godeva di un trattamento privilegiato pur non avendo alcun titolo di studio». Monsignor Scarano è convinto che l’incontro con il cardinal Filoni produsse contromisure importanti, come «la chiusura di alcuni conti di laici». Il pm chiede se nell’incontro con il prefetto di Propaganda Fide, riferì episodi specifici. Scarano ricorda molto bene un episodio.
Nattino spericolato Nei confronti di Monsignor Scarano e degli altri indagati la Procura sta per chiedere il processo immediato per la tranche dell’inchiesta sul riciclaggio con la Svizzera. Sempre da piazzale Clodio è partita la richiesta di rogatoria con il Vaticano per approfondire la vicenda Nattino. Stiamo parlando della famiglia di banchieri che ha fondato «Finnat Euramerica», famiglia temuta dal finanziere Stefano Ricucci che, in un interrogatorio davanti ai pm, disse agli inquirenti che chiedevano lumi sui Nattino: «Ma lei vuole che a me mi uccidono stasera qui». Dunque, Monsignor Scarano: «Un episodio lo riferii. Ed è relativo ad un’operazione fatta da un banchiere di nome Nattino. Questi aveva un conto all’Apsa (poi chiuso) e un figlio di Mennini (Luigi) lavorava nella banca da lui diretta. Fece una operazione di aggiotaggio di cui si parlava nei corridoi e che riguardava titoli della sua banca che subivano oscillazione e che venivano comprati e venduti, di fatto, sotto mentite spoglie. A quanto ricordo i titoli erano stati fatti artatamente scendere di valore e il Nattino li riacquistò al momento giusto senza apparire e servendosi dello schermo dell’Apsa. Vi furono più operazioni simili».
Sospetti bancari A sentire il monsignor detenuto, la sua «cantata» al prefetto cardinal Filoni produsse repulisti e promozioni. «Quando il cardinal Filoni prese provvedimenti, la cosa scatenò il finimondo. Io fui promosso in seguito a questi eventi, anche se la promozione, di fatto, mi collocò fuori dal perimetro operativo. Avevo anche sospetti su improvvisi cambiamenti nelle banche con cui operavamo (si considerò che spostavamo milioni di euro). In un caso fu interessato un istituto in cui lavorava il padre del genero di Mennini, ma non so quale sia la banca». «Qual era il suo stipendio?». Chissà perché il magistrato gli domanda a quanto ammontavano le sue entrate ufficiali. L’indagato, comunque, non si sottrae alla risposta: «Tremila euro al mese più circa cinquecento di messe. Non ho mai preso i gettoni di presenza che invece altri prendevano senza averne diritto per le trasferte all’estero». Ma la sua era invidia?

Corriere 16.9.13
Le rivelazioni del prelato
Scarano: «Così si riciclavano i soldi in Vaticano»
«Soldi nascosti sui conti»
di Fiorenza Sarzanini


«Così si riciclavano i soldi in Vaticano». L'ultimo filone di indagine avviato dai magistrati romani che indagano sull'attività di monsignor Nunzio Scarano, l'ex capo contabile arrestato per aver esportato milioni di euro degli armatori D'Amico e poi finito al centro dell'ennesimo scandalo finanziario che coinvolge una delle strutture strategiche del Vaticano, riguarda operazioni di riciclaggio effettuate attraverso i conti aperti presso l'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica.

ROMA — Operazioni di riciclaggio effettuate attraverso i conti aperti presso l'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica. È l'ultimo filone di indagine avviato dai magistrati romani che indagano sull'attività di monsignor Nunzio Scarano, l'ex capo contabile arrestato a giugno per aver esportato all'estero milioni di euro di proprietà degli armatori D'Amico. E poi finito al centro dell'ennesimo scandalo finanziario che coinvolge una delle strutture strategiche del Vaticano. Sono state proprio le rivelazioni dell'alto prelato ad aprire scenari inediti. E adesso le verifiche disposte dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dal sostituto Stefano Pesce, si concentrano su questi trasferimenti di denaro. Così come accaduto per lo Ior, sono stati scoperti depositi non riconducibili ai religiosi utilizzati per «schermare» passaggi illeciti di soldi.
I «conti laici»
L'8 luglio scorso, assistito dal suo avvocato Francesco Caroleo Grimaldi, monsignor Scarano risponde alle domande dei pubblici ministeri e racconta i retroscena di svariate operazioni, fornendo anche i nomi di alcuni «referenti»: «Noi come Apsa non potevamo avere clienti esterni, ma pur non potendo in realtà "facevamo banca", nel senso che avevamo una raccolta di risparmio e forme di reimpiego con corresponsione di interessi ai depositanti. Fui ricevuto dal cardinal Bertone alcuni anni fa, subito dopo la sua nomina, ma l'incontro non ebbe alcun effetto».
Gli inquirenti chiedono di entrare nei dettagli e Scarano dichiara: «C'erano conti di cardinali, gestiti da Giorgio Stoppa precedente delegato direttore dell'Apsa. C'erano anche conti laici ma non ricordo alcun nome specifico se non quello della duchessa Salviati, benefattrice del Bambin Gesù. Di recente mi recai dal cardinal Filoni (Ferdinando, attuale prefetto di Propaganda Fide, ndr) al quale dissi dei conti "laici". Dato l'incontro al 2010 e in seguito a questo in effetti alcuni funzionari furono allontanati dall'Apsa. Mennini (Paolo, il direttore, ndr) era arrivato quando Stoppa andò in pensione e si trattava di trovare qualcuno che si occupasse anche di coprire gli scheletri da lui lasciati nell'armadio. Mennini portò con sé De Angelis. I due avevano uno stretto rapporto con Marco Fiore che lavora per i D'Amico a Montecarlo. Stoppa gestiva in maniera padronale e opaca il suo settore. Mennini gli riconobbe un trattamento pensionistico molto lauto. Mennini si era portato anche una certa Maria Teresa Pastanella che godeva di un trattamento privilegiato pur non avendo alcun titolo di studio. Per effetto del mio incontro con il cardinale Filoni furono anche chiusi dei conti di laici».
L'aggiotaggio e Finnat
Le indagini effettuate dagli specialisti del Nucleo valutario della Guardia di finanza guidati dal generale Giuseppe Bottillo hanno ricostruito un'operazione di riciclaggio da 20 milioni di euro che il prelato avrebbe effettuato su conti personali Ior per favorire i D'Amico. Adesso nuove verifiche mirate dovranno essere compiute sulle indicazioni di Scarano ai magistrati che durante l'interrogatorio gli avevano chiesto se avesse parlato con le gerarchie vaticane di quanto accadeva all'interno di Apsa.
Lui dichiara: «A Filone riferì di un'operazione fatta dal banchiere Nattino». Il riferimento è alla famiglia fondatrice della banca Finnat. Poi prosegue: «Questi aveva un conto all'Apsa (poi chiuso) e un figlio di Mennini, Luigi, lavorava nella banca da lui diretta. Fece un'operazione di aggiotaggio di cui si parlava nei corridoi che riguardava titoli della sua banca che subivano oscillazioni e che venivano comprati e venduti, di fatto, sotto mentite spoglie. A quanto ricordo i titoli erano stati fatti artatamente scendere di valore e Nattino li riacquistò al momento giusto senza apparire e servendosi dello schermo Apsa. Vi furono più operazioni simili. Quando il cardinale Filoni prese provvedimenti, la cosa scatenò il finimondo e io fui promosso in seguito a questi eventi, anche se la promozione, di fatto mi collocò fuori dal perimetro operativo. Avevo anche sospetti su improvvisi cambiamenti nelle banche con cui operavano (si consideri che spostavamo milioni di euro). In un caso fu interessato un istituto in cui lavorava il padre del genero di Mennini, ma non so quale sia la banca».

Repubblica 16.9.13
Ior, rivolta di vescovi e suore “Basta col terzo grado sui nostri conti correnti”
Raffica di domande allo sportello su prelievi e bonifici
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO — «Piuttosto è lei che mi deve spiegare che fine avete fatto fare ai miei soldi!”. «E perché devo dirle come utilizzerò questi 100 euro che devo prelevare? Io ci faccio quello che voglio senza rendere conto a nessuno». «Ma in base a quale diritto lei vuole sapere da dove provengono i 90 euro che mi sono stati accreditati sul mio conto?». «Cambio banca, qui non ci metterò più piede!...». È rivolta allo Ior (Istituto per le Opere di Religione), la banca vaticana, tra i piccoli e medi correntisti che ogni giorno si presentano al banco per effettuare prelievi, bonifici, pagare bollette. In gran parte preti, suore, religiosi, vescovi. Cardinali pochi perché o hanno un conto presso altri istituti o si servono dei rispettivi segretari per le periodiche operazioni bancarie. Joseph Ratzinger, ad esempio, non ha mai avuto un conto allo Ior né da cardinale né da pontefice.
Da qualche settimana, su decisione della direzione dello Ior, iclienti che si presentono agli sportelli della banca vengono sottoposti dagli impiegati ad una serie di domande. Un terzo grado a cui i correntisti sono costretti a rispondere, pena il blocco immediato dell’operazione. Un interrogatorio senza rispetto della privacy davanti a tutti i clienti presenti. C’è chi — come le suorine che non conoscono molto bene la lingua italiana o il prete che teme di perdere il prelievo che andrà in beneficenza — risponde, pur con grande imbarazzo. Ma non sono pochi quelli che reagiscono a muso duro agli impiegati, che cercano di calmare gli animi spiegando che hanno ricevuto ordini precisi dalla direzione dello Ior nell’ambito dell’operazione di “controllo e pulizia” chela banca da qualche tempo ha intrapreso per rispettare le regole sulla lotta al riciclaggio. Operazione iniziata a luglio con l’invioa tutti i correntisti della banca di una scheda con 11 quesiti relativi alla “identità” del conto: dal nome del titolare (persona fisica o società) all’attività del correntista, provenienza dei soldi (ricavi immobiliari, eredità, stipendi, pensioni, investimenti, donazioni...). Si deve specificare anche se le cifre sono frutto di remunerazioni per insegnamento, pubblicazioni, conferenze, attività commerciali o da libero professionista. Le domande sono accompagnate da una lettera nella quale lo Ior spiega che si tratta di una “richiesta di informazioni aggiuntive per un aggiornamento della documentazione anagrafica e informativa della propria utenza”.
Allo sportello, però, ai correntisti non basta consegnare la scheda compilata. Prima di effettuare prelievi o versamenti anche di piccole somme devono sottostare alle domande personali degli impiegati, che vogliono sapere praticamente tutto, ponendo quesiti e pretendendo risposte al cospetto tutti gli altri correntisti in coda: in particolare “perché state prelevando questa cifra? Cosa ci dovete fare?”. Se un prete, o un religioso, risponde “la devo dare in beneficenza”, scattano altre domande su “chi saranno i beneficiari?, e perché la cifra va data proprio a loro?”. Capita spesso che qualche sacerdote destini mensilmente un aiuto ai clochard che stazionano davanti alla parrocchia, così non sanno i nomi di chi assistono. «O mi dice chi è il beneficiario e per quale motivo lei gli dà questi soldi o qui scrivo che lei usa questi 80 euro per motivi personali», è la secca risposta del funzionario Ior.
«E lei crede di evitare il riciclaggio adottando questi metodi?», ha tuonato un vescovo che voleva prelevare 300 euro. «Io con i soldi che prelevo ci faccio quello che voglio e non devo dar conto a nessuno. Siete voi dello Ior che dovete spiegarmi come avete utilizzato i miei risparmi. La verità è che avete perso credibilità e ora — ha protestato l vescovo — cercate di rifarvi una verginità con questi metodi vessatori contro i piccoli correntisti. Non mi vedrete mai più». Ora allo Ior temono che altri seguiranno il suo esempio.

La Stampa 16.9.13
Lo scontro nel Pd
Renzi: basta regali a Berlusconi
Il sindaco: “Se si votasse ora li asfalteremmo, per questo il Pdl non vuole le elezioni”
di Jacopo Iacoboni


«Giù, per terra», esordisce dal palco Francesco La Forgia, coordinatore del Pd di Milano, rivolto alla folla che s’accalca per fare la foto al sindaco leader. Non una frase simpaticissima, ma è l’incipit di un piccolo episodio rivelatore che accoglie Matteo Renzi a Sesto San Giovanni. La Forgia alle primarie votò Bersani, e molto lo sostenne; ora introducendo Renzi pronuncia un discorso più rottamatorio del rottamatore. In questo istante, davvero, bisognerebbe essere nella testa di Renzi. Forse vi si coglierebbe un lungo sospiro sulle umane cose.
Perché è certo che ieri il sindaco ha ripetuto «noi non cerchiamo rivincite rispetto all’altra volta, questa è un’altra sfida», però non può non aver notato l’increscioso fenomeno. E allora «non mi preoccupano né gli endorsement per l’uno né per l’altro», però «se pensate di salire sul carro per convenienza, sappiate che noi siamo abituati a far scendere questa gente prima ancora che sia salita». E, dopo un po’ di tempo, torna a usare il verbo più evocativo della sua esperienza politica, rottamare: «Se al congresso si decide di voltare pagina la prima cosa che rottamiamo sono le correnti, lo dico per primo ai renziani, guarite da questa malattia! La politica bisogna farla portandoci entusiasmo, e col proprio nome». Non è dato sapere cosa pensi, a quel punto, il senatore Franco Mirabelli, altro neo fervente renziano milanese in sala, vicino a Franceschini.
Ecco, ci sono alcune osservazioni che balzano all’occhio guardando Renzi a Sesto San Giovanni. Siamo nell’ex area Breda, una zona di recupero post-industriale interessantissima - spazi che hanno il sapore del Novecento rosso italiano, delle sue forze e sconfitte, accanto a palazzoni grigi o buffamente multicolore che tradiscono quella dubbia, ma quanto affascinante estetica della periferia nord milanese. Quando Matteo fa il solito esperimento di chiedere quanti sono gli iscritti in sala, almeno 1800 delle duemila e più persone alzano la mano. Gente di partito, sì, ma sono giovani; spesso si sono iscritti da poco; non restituiscono l’idea della Sesto operaia, antica e tradita Stalingrado del nord. E Renzi non accenna al Novecento operaio. Sulla decadenza del Cavaliere si sbilancia in una scommessa (sempre a rischio col Pd dei 101), «salvare Berlusconi non esiste». Lui non crede affatto che si voti a breve, «Berlusconi non farà mai cadere il governo»; perciò l’aggiunta - «anche perché se si votasse noi non ripeteremmo gli errori del passato, li asfalteremmo» - racconta più del carattere di Matteo che di una minaccia reale.
Si vede che fatica a trattenere la battuta sul premier, certo è sempre pungente con le larghe intese, «come si fa a mandare subito in pensione le larghe intese? Si fa subito una legge elettorale per cui, come per il sindaco, sia chiaro chi vince»; oppure quando gli chiedono cosa potrebbe fare Letta, dribbla, «questo gioco di sistemare le persone lo faceva D’Alema una volta... a Enrico lo dico dal primo giorno, se il governo fa bene sono il primo a festeggiare, se invece rinvia e rinvia e rinvia, rivendico il diritto di dire: portate a casa qualcosa»...
Il vecchio Pd di Penati, qui a Sesto, è come se non ci fosse più. Mutazione financo troppo rapida, sussurrano a Milano. Qui stasera vedi facce come quelle di Simona Bonafè, Maria Elena Boschi, Marco Campione. Passa Giorgio Gori. Passa Federico Sarica, direttore di Studio. L’altra sera, alla festa per la nuova sede della scuola Holden, Renzi a tu per tu confidava: «Sono molto sereno, nonostante tutto vivo questo momento con una maturità e una tranquillità che ho scoperto dentro. So che stiamo andando bene, molto bene, ma so che la partita è lunga»; e bisogna a questo punto guardarsi dagli amici, non solo dai nemici.

Corriere 16.9.13
Renzi: salvare Berlusconi? Non esiste Se andiamo alle urne li asfaltiamo
Il sindaco a Milano: nuova legge elettorale per pensionare le larghe intese
di Elisabetta Soglio


MILANO — La legge elettorale «da fare in fretta e bene perché è il solo modo per mandare in pensione il governo delle larghe intese». Il futuro di Berlusconi «che non farà cadere l’esecutivo e comunque se si vota li asfaltiamo». Il Pd che «deve imparare a comunicare bene e non deve chiudersi e mettere casa in un museo delle cere». La stoccata ai grillini «che vanno sul tetto a difendere la Costituzione, ma devono farlo al piano di sotto». Fino alla dichiarazione d’amore: «Io sto cercando di far vincere la sinistra, non di tradirla». È toccato a Matteo Renzi chiudere ieri sera la festa del Pd milanese, da due anni traslocata a Sesto San Giovanni nella (ex) rossa Stalingrado, negli spazi del Carroponte, monumento del parco archeologico industriale della ex Breda.
Una folla immensa, con gli operai ormai in pensione ma ancora nostalgici del Pci e i giovani che cercano qualcosa di nuovo, le famiglie e gli iscritti, i curiosi e i simpatizzanti. L’accoglienza è calorosa, più di quella che la sera precedente aveva ricevuto l’ex segretario Bersani (e sono in molti a giurare che il sindaco di Firenze ha vinto anche il match a distanza con Gianni Cuperlo, a Milano appoggiato dai dirigenti del Pd). Una bella soddisfazione, per uno che alle primarie qui si era fermato intorno al 38 per cento e che oggi si trova intorno molti di quelli che lo criticavano: «C’è spazio per tutti. Ma quelli che pensano di salire sul carro del vincitore stiano attenti, perché siamo abituati a farli scendere prima che possano ottenere qualcosa», avverte. Gli applausi all’inizio non sono scroscianti. La gente si scioglie man mano che Renzi risponde alle sollecitazioni di Beppe Severgnini e si esalta quando il sindaco critica il governo delle larghe intese: «Certo che non facciamo i salti di gioia, ma dobbiamo sapere che è colpa nostra. Abbiamo perso le elezioni mettendoci a disquisire di giaguari e di tacchini». Enrico Letta? «Non ricominciamo con il derby della personalizzazione. Appena apro bocca su Enrico arrivano le critiche e questo è letale per il Pd, non per il rapporto Letta-Renzi. Dico che se il suo governo fa le cose per bene, sono il primo ad esserne contento. Ma se rinvia, rinvia, rinvia, rivendico il diritto di dirlo». Quindi, l’impegno: «Se qui si cambia linea, dobbiamo rottamare le correnti perché non si afferma un’idea sulla base dell’appartenenza e lo dico anzitutto ai renziani: guai a voi!». Infine, il consiglio al governo Letta: «Non si preoccupi nelle prossime settimane di stare dietro a ricatti e minacce ma faccia le cose promesse, a partire dalla legge elettorale». Quanto all’ipotesi di Letta al Quirinale, Renzi è categorico: «Questo gioco di sistemare le persone nelle caselle l’hanno fatto una volta anche con me. Ma ci danneggia».
C’è poi tutto il capitolo Berlusconi. «L’ipotesi di salvarlo non esiste. Se anche qualche furbastro ci provasse, ma non credo, Berlusconi ha una condanna definitiva con l’interdizione». Il sindaco spiega perché Berlusconi è stato «straordinario» quando in campagna elettorale ha annunciato l’abolizione dell’Imu: «Non era preoccupato per la casa, ma aveva bisogno di crearsi degli avversari e sapeva che qualcuno nel Pd avrebbe detto di no al taglio della tassa. E la cosa più straordinaria è che Berlusconi non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale: ma noi del Pd, che siamo un partito generoso, cosa abbiamo fatto? Gliene abbiamo realizzata noi una, proprio quella dell’Imu». Renzi risponde anche a «quelli che mi criticano perché cerco di acchiappare i voti dei delusi del centrodestra. Non faccio battute per ottenere facile consenso e non sono una superstar. Ma se non prendi questi voti non vinci le elezioni. E se non vinci le elezioni devi tenerti Brunetta e Schifani e con loro la legge sul conflitto di interesse, che noi vogliamo, non la puoi fare».
Un’ora e mezza dopo, la chiacchierata si conclude. Renzi fa un giro negli spazi della Festa e si ferma allo stand dei Giovani Democratici dove viene accolto scherzosamente dalla sigla di Happy Days e viene omaggiato con il pupazzo di un giaguaro. Il sindaco sta al gioco ma rifiuta il dono: «Questo lo mettiamo da parte, poi magari lo smacchiamo insieme fra un anno..».

La Stampa 16.9.13
Il rottamatore e il rischio logoramento
La routine da segretario di partito potrebbe fargli perdere appeal elettorale
di Federico Geremicca


Potremmo chiamarla la parabola della foglia di fico. In questo o quel dibattito, in questa o quella Festa democratica, Matteo Renzi l’ha ripetuta spesso negli ultimi mesi, per rimarcare la sua distanza dallo «stato maggiore» del Pd e le potenzialità elettorali - l’appeal, insomma - di una sua candidatura (prima a premier, poi anche a segretario). Il sindaco di Firenze la racconta così: non pensino di utilizzarmi come una foglia di fico, cioè che io prendo i voti ma poi comandano loro, perchè io i voti li prendo solo se non ci sono più loro...
Con quel «loro», Renzi intende gli onnipresenti «soliti noti» del Pd: e forse, addirittura, tutt’intero lo stesso Pd, con le sue burocrazie, i suoi apparati, le sue correnti e le sue liti. È una lettura sulla quale si può esser più o meno d’accordo: ma non pare campata in aria e - probabilmente - poggia su una solida base di verità. Quel che si capisce meno, allora, è la circostanza che Renzi abbia deciso di scendere in campo e di ingaggiare battaglia (e che battaglia) proprio per diventare il capo di un partito e di dirigenti che non fa mistero di non amare più.
Se il Congresso del Pd si farà davvero entro quest’anno e se le famose «regole» non saranno cambiate, ogni previsione - al momento - indica proprio in Renzi il sicuro vincitore di primarie che rischiano addirittura di trasformarsi in un mezzo plebiscito. A quel punto, di fronte al neo-segretario (e ovviamente al suo partito) si pareranno due scenari assai diversi: che il governo Letta inciampi e si vada dunque a elezioni la primavera prossima, oppure che il patto Pd-Pdl-Scelta civica tenga e al voto ci si giunga solo nella primavera 2015 (nella migliore delle ipotesi). Uno scenario, naturalmente, non vale l’altro: e il secondo, in particolare, potrebbe trasformarsi in un boomerang, in un colpo, per lo stesso Renzi e considerata la situazione - per le sorti dell’intero Pd.
Non c’è sondaggio, infatti, che oggi non indichi nel sindaco di Firenze il miglior candidato possibile alla premiership per conto del centrosinistra: vincerebbe contro Berlusconi e dunque, presumibilmente, contro chiunque altro. La sua forza, però, risiede soprattutto nell’alone di novità che lo circonda e nella distanza - addirittura nell’estraneità - che gli viene riconosciuta (a torto o a ragione) rispetto ai cosiddetti «soliti noti». Anche la sua capacità di attrarre consensi tra chi ha sempre votato «dall’altra parte», del resto, origina da queste precise e incontestabili caratteristiche.
Che sarebbe di tutto questo, una volta che Renzi venisse eletto segretario del Pd? E che ne sarebbe, soprattutto, se il giovane sindaco di Firenze dovesse ritrovarsi inchiodato a quel ruolo per un tempo indefinito, in ragione della tenuta del governo di Enrico Letta? Lasciamo stare, in questa sede, i possibili effetti che una segreteria-Renzi potrebbe avere sulle sorti del Pd: e proviamo a ipotizzare, solo per un momento, quel che potrebbe accadere su uno scenario più generale.
L’effetto-novità sfumerebbe in maniera inversamente proporzionale alla quantità di immagini di questo o quel Tg che lo ritraggono in riunione con i «soliti noti», in delegazione dal Capo dello Stato, in polemica con Alfano o con Casini o perfino alle prese con questo o quello scandalo che dovesse riguardare il Pd. Non solo: per un elettore di centrodestra sarebbe ovviamente cosa ben diversa (e più difficile) passare da Berlusconi al Renzi-rottamatore di oggi, piuttosto che al Renzi nientemeno che segretario del Pd. L’effetto sul centrosinistra, insomma, sarebbe quello di ritrovarsi con un candidato-premier ieri vincente e poi invece «sfigurato», depotenziato, dalle scelte (e dal ruolo) da lui stesso compiute.
Per non dire dei riflessi (non irrilevanti) che una segreteria Renzi potrebbe avere sullo stesso Pd: e qui si va dall’ipotesi estrema di una scissione fino a quella (ottimistica ma meno probabile) di una totale e positiva trasformazione del partito e del suo modo di essere e di operare. Ciò nonostante, Renzi pare aver fatto la sua scelta. Potrebbe non essere un buon affare, né per lui né per il Pd: ma come in tante altre cose solo il tempo dirà se le cose stanno davvero così...

La Stampa 16.9.13
I congiurati anti-Matteo “In caso di crisi, primarie solo per la premiership”
Bersaniani e dalemiani tentati dal blitz per tenersi il partito
di Carlo Bertini


«Chiamala se vuoi, tentazione...»: così la definisce per ora uno dei giovani leoni della brigata anti-Renzi messa in piedi per ingaggiare la resistenza contro il rottamatore: e la «tentazione», che in questi giorni stanno accarezzando bersaniani e dalemiani ha già un nome e cognome: «clausola di salvaguardia». Da far votare in assemblea se si riuscisse a raggranellare una vasta maggioranza di «maldipancisti vari», franceschiniani, lettiani, bindiani, fioroniani e così via.
L’obiettivo è chiaro, evitare che in caso di elezioni Renzi possa prendersi in due colpi ravvicinati partito e governo. Ad illustrarne la ratio senza peli sulla lingua è Alfredo D’Attorre, autore del documento congressuale di Bersani, «Fare il Pd» e membro della segreteria di Epifani: «Se la crisi non deflagra prima, venerdì l’assemblea è chiamata a convocare il congresso ragionando come se legislatura andasse avanti. Ma si potrebbe proporre una clausola per stabilire che se si aprisse un percorso che portasse ad elezioni anticipate, si sospendano le primarie per il segretario e si facciano quelle per la premiership. Ma senza alcuna intenzione di usare l’incertezza politica come alibi per non fare il congresso, si badi bene».
Un blitz che risulterebbe indigesto al sindaco di Firenze, al punto che basta prospettare una simile ipotesi a due suoi parlamentari per sentir esplodere due sonore risate, condite dalla controaccusa «sarebbero irresponsabili». Ancora non c’è uno straccio di accordo con Renzi su come si svolgerà il congresso, per evitare di arrivare in Assemblea «al buio» mercoledì dovrebbe riunirsi la Commissione ad hoc, ma Epifani ancora non l’ha convocata. I due nodi sul tappeto sono la partita dei segretari regionali, se cioé farli eleggere prima, dopo o in contemporanea al leader; e quella per la «separazione delle carriere» tra segretario e candidato premier. Quest’ultima è collegata appunto alla «tentazione» che i giovani leoni delle correnti che sostengono Cuperlo stanno maturando: perché certificando che in caso di voto anticipato si facciano solo le primarie per la premiership, di fatto si congelerebbe la figura del segretario. E difficilmente, una volta giocata la partita per Palazzo Chigi, Renzi potrebbe spendersi pure per la campagna congressuale, che verrebbe rinviata a dopo le elezioni. «Comunque sia, se vi fosse una clausola del genere non sarebbe male, ma anche se non vi fosse sarebbe ragionevole tenere in conto un’eventuale sospensione e una modifica del percorso congressuale», fa notare il portavoce di Bersani, Stefano Di Traglia.
Insomma, la questione ancora viene derubricata come un’ipotesi di «buon senso», figlia della distinzione dei ruoli tra segretario e premier, ma non è stata formalizzata in attesa dello scontro finale.
«Fermo restando che il congresso va chiuso entro l’anno chiarisce D’Attorre - noi teniamo il punto che si debba partire dal basso, facendo votare i circoli e le federazioni liberamente, senza ingabbiarli in schemi correntizi. In Lombardia, una parte dei nostri voterà un renziano, in Calabria avverrà il contrario: meglio se non siamo noi da Roma a dirgli cosa fare. E non è per mantenere l’apparato esistente, anzi».
E mentre i resistenti stanno preparando una manifestazione per la prossima settimana a Roma con Cuperlo Bersani, Marini ed altri ex Dc, i renziani già salgono sulle barricate contro la tentazione del blitz. «Una cosa così sembrerebbe di fatto un macigno per indebolire Letta e se l’assemblea nazionale votasse una roba simile si capirebbe chiaramente chi pensa davvero alla crisi di governo», dice Paolo Gentiloni. E chi per Renzi tratta le regole in commissione congresso, cioé Lorenzo Guerini, è ancora più duro. «Votare una clausola del genere? Se fossi Letta li manderei a quel paese...»

Corriere 16.9.13
E Cuperlo presenta l’altra ricetta «Penso solo a ricostruire il Pd»
«Parleremo poi di chi è più giovane o fotogenico»
di Alessandro Trocino


ROMA — Il segretario Guglielmo Epifani è preoccupato: «Il centrodestra si assuma le sue responsabilità: non stacca la spina al governo, ma al Paese». E il tema della sopravvivenza dell’esecutivo di larghe intese, sottoposto al logorìo provocato dall’avvicinarsi del giorno del giudizio per Silvio Berlusconi, non può che collegarsi alle prospettive del Partito democratico. Che si avvicina sempre più alle primarie per il segretario. Tanto che Epifani annuncia: «Entro questa settimana il tema della data del congresso verrà affrontato, discusso e spero anche deciso».
E se Matteo Renzi si dice sicuro che il centrosinistra «asfalterà» il Pdl alle urne, Epifani replica, meno convinto: con «il Porcellum, una legge uguale alla legge Acerbo, fatta in pieno fascismo, è particolarmente difficile stravincere. Poi è chiaro che se sarà questa la legge faremo di tutto per stravincere».
Intanto gli altri protagonisti del duello cominciano a scaldarsi. Il principale rivale di Renzi (gli altri sono Pippo Civati e Gianni Pittella) non potrebbe essere più diverso dal sindaco di Firenze e non perde occasione per dichiararlo. Gianni Cuperlo è un tipo posato, un intellettuale abituato a ragionare a bassa voce e con una chiara inclinazione verso la sinistra, dalla quale proviene, a differenza di Renzi.
Come massima concessione al glamour gossip, Cuperlo ha confessato ieri di essere milanista. Nessuna frase roboante, né tantomeno proclami da battaglia. L’ultimo segretario della Fgci sfodera un understatement che a tratti ricorda quello di Mino Martinazzoli: «Vincere? Non so se vincerò io o se vincerà il giovane sindaco di Firenze, e non mi interessa neanche». Poi una frecciata: «Parleremo poi di chi è più giovane o più fotogenico, adesso dobbiamo capire dove siamo adesso. Dov’è l’Italia? Dov’è l’Europa? E dov’è il Pd dentro l’Italia e dentro l’Europa?».
Cuperlo reagisce infastidito alle polemiche di Renzi, che insiste sulla data del congresso e sulle modalità di elezione del segretario: «I punti del mio programma? Ricostruire il Pd, fare un congresso non basandolo sulle regole. Non bisogna guardarsi la punta delle scarpe». Quanto all’esecutivo, il sostegno lo dà, ma controvoglia: «Questo non è il governo che avremmo voluto. La maggioranza che lo sostiene non è e non potrà mai essere un progetto politico».
Anche Stefano Fassina, dopo l’endorsement di ieri di Pier Luigi Bersani, sta con Cuperlo: «Renzi va molto di moda ed è sostenuto da media molto rilevanti. La battaglia congressuale è aperta, molto difficile per chi va controcorrente e cerca di contrastare le mode». Il renziano Davide Faraone vede nell’appoggio di Bersani e degli ex ds un elemento a vantaggio del sindaco di Firenze: «Da quella parte ci sono non solo gli ex pci, ma l’idea e la concezione stessa del Pd come partito formato da ex. Una impostazione che guarda indietro. I tre protagonisti del patto di sindacato del Pd, Bersani, Franceschini e Letta, ormai giocano di rimessa».

Repubblica 16.9.13
Pd al 28 %, Pdl a 2 punti
Ma è un'Italia senza maggioranza
di Ilvo Diamanti

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TUTTE LE TABELLE QUI

«L’articolo 138 della Costituzione non si tocca…» gridano i manifestanti
La manifestazione di protesta è organizzata dalla sezione regionale dell’Anpi, Abruzzo Social Forum, Rifondazione e Movimento Cinque Stelle.
Repubblica 16.9.13
I saggi in conclave, sit-in e proteste
Al via i lavori in hotel per cambiare la Costituzione. “L’articolo 138 non si tocca”
di Giuseppe Caporale


FRANCAVILLA AL MARE — «Allora, ce l’avete fatta a superare il sit-in di protesta...». Scherzano tra loro i trentacinque saggi del governo Letta, mentre fuori dall’hotel Sporting Villa Maria, 4Stelle Superior, c’è un clima d’assedio. I prescelti per cambiare la Costituzione arrivano alla spicciolata per il conclave che si terrà fino a domani in questo albergo in collina che si affaccia sul mare Adriatico. Costo del soggiorno: ventimila euro, a spese dello Stato. I sorrisi di circostanza provano stemperare la tensione. Ci sono forze dell’ordinedappertutto. A rovinare l’accoglienza ci pensa un gruppo di manifestanti, che davanti ai cancelli, con dei cartelli in mano, urla e intona slogan, seppure sotto gli occhi di una ventina di poliziotti, guidati dai dirigenti della Digos. E il rischio di scontri c’è ogni volta che arriva un auto in cui viaggia uno degli esperti scelti da Palazzo Chigi: volano insulti e c’è anche chi tenta di fermare l’auto. «L’articolo 138 della Costituzione non si tocca…» gridano.
La manifestazione di protesta è organizzata dalla sezione regionale dell’Anpi (l’associazione nazionale partigiani italiani), Abruzzo Social Forum, Rifondazione e Movimento Cinque Stelle. «La Costituzione può anche essere oggetto di una revisione ma non possono essere questi i metodi per riscriverla, come l’attacco all’articolo 138» prova a spiegare le sue ragioni tra uno slogan el’altro il presidente dell’Anpi di Pescara, Enzo Fimiani.Per il parlamentare abruzzese del M5S Andrea Colletti «più che i saggi questi signori rappresentano i seggi… vista l’appartenenza dei giuristi nominati da Letta ai due partiti che tengono in vita il Governo». «Questo è un centro benessere, l’Italia èdiventata un centro malessere, speriamo di sentirci meglio», afferma il costituzionalista Michele Ainis, arrivando a Francavilla al Mare. Rispondendo ai cronisti che lo interpellavano sulle spese sostenute per la riunione dei saggi Ainis ha detto: «Io sono venuto a spese mie con la mia macchina e sto lavorando gratis. Personalmente avrei preferito non muovermi, anche perché vivo a Roma. Speriamo di fare un buon lavoro ».
Il dispiegamento di forze è un muro invalicabile per i manifestanti: i carabinieri hanno organizzato posti di blocco lungo le strade vicino all’albergo. Dentro invece, il giardino di sei ettari è pattugliato da una decina di uomini della guardia di Finanza, mentre all’ingresso ci sono perfino gli artificieri della questura di Pescara. Nella hall intanto i “saggi” si fermano per i saluti, mentre il personale del ricevimento dell’albergo li informa che «il pranzo è in terrazza, mentre gli accappatoi per accedere al centro benessere sono già in camera». «La Spa è al piano di sotto, per i massaggi basta prenotare a questo numero…» specifica il concierge. E c’è già chi si prenota.

La Stampa 16.9.13
In tre anni bruciata la generazione under 35
Istat: i giovani hanno perso un milione di posti di lavoro rispetto al 2010
La fascia più colpita è tra i 25 e i 34 anni
di Roberto Giovannini


L’Italia - purtroppo ormai lo sappiamo - non è un paese amico dei giovani. Lo dice l’esperienza quotidiana di tutti noi, ma lo confermano anche i numeri. Come mostrano i dati dell’Istat riferiti al secondo trimestre del 2013, tra il 2010 e il 2013 il numero delle persone con meno di 35 anni con un lavoro è letteralmente crollato: da 6,3 a 5,3 milioni. A subire la regressione peggiore sono gli italiani tra 25 e 34 anni, che nello stesso periodo hanno dovuto accettare la perdita di ben 750.000 posti di lavoro. Nel secondo trimestre 2013 in questa fascia di età - quella in cui un tempo chi aveva seguito un corso universitario si laureava, cominciava a lavorare ed eventualmente metteva su famiglia - lavoravano appena 4,329 milioni di persone contro i 5,089 milioni di tre anni prima. Il tasso di occupazione ha subito un crollo dal 65,9 al 60,2 (era al 70,1% nella media 2007), con quindi appena sei persone su dieci al lavoro nell’età attiva per eccellenza. E se per i maschi del Nord la situazione è ancora accettabile, con l’81,4% al lavoro (dall’86,6% del secondo trimestre 2010), al Sud la situazione è drammatica con appena il 51% degli uomini della fascia 25-34 anni che lavora (e solo il 33,3% delle donne).
L’imbuto che ha stritolato questa generazione è stato generato dalla recessione e dalle riforme pensionistiche. Da una parte, infatti, la stretta sull’uscita verso il pensionamento ha obbligato al lavoro i più anziani (il tasso di occupazione nella fascia tra i 55 e i 64 anni è passato nel triennio considerato dal 36,6% al 42,1%). Dall’altro, ovviamente, la crisi economica che ha raggelato l’economia ha insieme bruciato occupazione e impedito la creazione di nuove opportunità di impiego.
Per le giovani donne del Sud il calo percentuale è stato meno consistente partendo da un dato basso (dal 34,2% al 33,3%). Se si guarda al complesso degli under 35 (quindi anche ai giovanissimi) il tasso di occupazione a livello nazionale risulta in calo dal 45,9% del secondo trimestre 2010 al 40,4% dello stesso periodo del 2013. Il tasso di disoccupazione nella fascia tra i 25 e i 34 anni è cresciuto dall’11,7% del secondo trimestre 2010 al 17,8% dello stesso periodo del 2013 con oltre sei punti in più. I disoccupati tra i giovani adulti sono passati da 670.000 a 935.000. Al Sud il tasso di disoccupazione in questa fascia di età è ormai al 30% (molto simile tra uomini al 29,1% a donne al 31,5%) dal 20,6% di appena tre anni prima. Al Nord la disoccupazione tra i giovani adulti è passata dal 7,3% del secondo trimestre 2010 al 10,9%.
Intanto, secondo un’indagine condotta da Swg per la Coldiretti, la maggioranza dei giovani (51%) sotto i 40 anni è pronta a espatriare per lavorare. Secondo il sondaggio il 73% dei giovani ritiene che l’Italia non possa offrire un futuro; solo il 20% ritiene che gli italiani hanno competenze e creatività per uscire dalla crisi. Non si crede più neanche nella raccomandazione, alla quale solo l’11% dei giovani italiani dichiara di aver fatto ricorso. La visione negativa del futuro è confermata dal fatto che in generale il 61% degli under 40 interpellati pensa che in futuro la sua situazione economica sarà peggiore di quella dei propri genitori. Per il 17% sarà uguale, e solo per il 14% migliore (gli altri non rispondono).

l’Unità 16.9.13
Gli studenti tornano in piazza l’11 ottobre
di Dario Costantino

Coordinatore della Federazione degli studenti

UN’OPERAZIONE STORICA. LA SPIEGAVAMO COSÌ IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA DI CINQUE ANNI FA AI NUOVI ISCRITTI: l’ultimo governo di centrodestra tagliava gli investimenti all’istruzione dopo 150 anni di continuo aumento. Al fondo l’idea, purtroppo ancora sostenuta da alcuni, era separare le intelligenze delle mani e della mente e costruire una scuola pubblica sempre più piccola ed elementare.
Nel frattempo l’abbandono scolastico è cresciuto, le iscrizioni all’università sono calate, l’edilizia scolastica è in eccezionale stato di difficoltà e l’offerta formativa è stata ridotta all’osso. Nonostante i risparmi il Paese recede e i ragazzi studiano poco e lavorano meno, con somma soddisfazione dei sottotenenti della meritocrazia. Un leggero segnale di inversione è arrivato. Il decreto Istruzione del Governo, nei suoi limiti, consegna ai ragazzi un primo giorno di scuola diverso, con qualche strumento in più e un’ingiustizia in meno: quell’insopportabile bonus maturità, su cui si è danzato un po’ troppo. Non sarà, né può essere presentato come la Gerusalemme del sapere, ma intraprende dei primi e necessari accorgimenti.
Quei provvedimenti però non avranno il successo che sperano se non saranno inseriti in un disegno di insieme. Tanto meno le strade strette di questo esecutivo possono giustificare l’assenza, a sinistra, di una riflessione organica sulla scuola, l’università e la ricerca. Non può presumerlo, in primis, il Partito democratico che guida quest’esecutivo.
Cominciamo rovesciando le ragioni che hanno giustificato questi anni. Per prima cosa: il sistema sapere è l’elemento fondamentale per la costruzione di un modello di sviluppo intelligente e sostenibile, funziona se è capace di includere e diffondersi, generalizzando l'accesso ad alti livelli di conoscenza. Farlo significherà aumentare le risorse e la relazione con la vita delle città e col mondo della produzione. La trasformazione della scuola chiama tutti all'impegno. Dovranno essere i docenti e gli studenti a stabilire insieme i temi, i tempi e gli spazi dell’apprendimento, integrando gli obiettivi nazionali con il patrimonio delle città e del territorio.
È la possibilità di una classe siciliana di studiare una monografia su Sciascia anziché un anno di Promessi sposi, stipulando un nuovo patto educativo. Lì maestro e allievo vivono alla pari un percorso di ricerca, che include, impiega il web, interseca le discipline, valuta il prodotto e il processo di ciò che si è fatto e non lascia nessuno indietro. Su questo dovremo essere capaci di incontrarci e indirizzare un cammino collettivo di riforma.
Ognuno però ha bisogno degli strumenti per studiare. Per comprarsi dei libri, un e-reader o banalmente per arrivare a scuola. Il governo ha aperto una strada, ma è al Parlamento e alle forze politiche a cui chiediamo di costruire un’infrastruttura migliore. Nel nostro Paese esistono venti leggi regionali diverse sul diritto allo studio, e pare che gli estensori non si siano mai rivolti la parola. I 15 milioni erogati dal governo non bastano e vengono distribuiti in un regime di iniquità interregionale. È doveroso adottare una legge nazionale che renda omogeneo il diritto allo studio da Palermo a Torino, integrandolo ad un welfare più ampio, che deve crescere dal municipio alla Regione, dai teatri comunali ai trasporti interurbani.
Su questo abbiamo scritto una proposta di legge con le altre associazioni studentesche, depositata da alcuni giovani parlamentari del Pd. Per questo andremo in piazza l’11 ottobre, in tutta Italia. Per chiedere una rapida calendarizzazione e approvazione del testo. Le assenze non sono giustificate.

La Stampa 16.9.13
Ask, il social network che scatena la violenza fra gli adolescenti
A Bologna dopo una mega-rissa indagine sul sito dei teenager
Lo scontro fra 250 giovani: venerdì notte il regolamento di conti tra «ragazzi bene» e coetanei delle periferie
Cyberbullismo Il 43% degli adolescenti si è scontrato con questo fenomeno: persecuzioni offese e molestie consumate on line attraverso i social network
di Giuseppe Bottero, Franco Giubilei


È vero che domani vai ai Giardini con il lanciafiamme a bruciare la Bolofeccia?». Due giorni dopo la maxi-rissa tra i ragazzi di Bologna la chiamata alle armi è ancora lì, sulla bacheca di Ask, il più discusso e controverso tra i social network. Per qualcuno, una tana in cui dimenticare le timidezze. Per gli altri, il paradiso dei cyber-bulli, una piazza virtuale in balìa degli anonimi. Per i 250 adolescenti che venerdì sera si sono sfidati ai Giardini Margherita, divisi in fazioni- la «feccia» contro la «parte bene della città», gli studenti degli istituti tecnici di periferia contro i liceali del centro- il sito è stato campo di battaglia per tutta l’estate. Un’escalation di scherzi che si sono trasformati prima in insulti e poi in minacce. Fino alla resa dei conti.
La Procura di Bologna, che ha aperto un’inchiesta per rissa aggravata e istigazione a delinquere, non ha dubbi: è nato tutto su Ask, il sito lanciato nel 2010 che corre senza freni. Almeno 60 milioni di messaggi e 200 mila nuovi iscritti al giorno. L’ età media degli utenti non raggiunge i 18 anni.
Il Facebook dei ragazzini, sede in Lituania, vale almeno 65 milioni di euro. Ask funziona perché è a misura di adolescente: offre risposte a chi non ha nient’altro che domande. Funziona perché, dietro il tasto «anonimo», abbatte le timidezze. Funziona, e spaventa. In Gran Bretagna, choccato dal suicidio di due ragazze, il primo ministro Cameron ha evocato un boicottaggio: «Se inciti qualcuno a farsi del male, stai violando la legge, che tu sia online o offline. Se c’è una cosa che possiamo fare come genitori e come utenti è non usare siti come quello. Ignorateli, non ci andate». I proprietari di Ask, nel ciclone da mesi, si barricano dietro un comunicato: «Tutte le segnalazioni sono lette da un team di moderatori. Rimuoviamo sempre i contenuti che violano i termini del servizio». In realtà, dopo il crescendo di cyber-violenza, anche nel palazzone di Riga iniziano a serpeggiare i timori. Da poco sul sito è arrivato un «panic button», un pulsante che consente di segnalare gli abusi. Troppo tardi? Raccontano dall’associazione «Save The Children» che il cyber-bullismo, in Italia, è una minaccia per 7 adolescenti su 10. Insulti, foto sconvenienti, domande imbarazzati. Sfregi virtuali che provocano ferite dolorosissime. E che hanno lasciato senza parole Bologna, dove la Procura minorile, nei prossimi giorni, ascolterà tutte le persone coinvolte. Al di là dei profili penali, dice il procuratore Ugo Pastore, «per noi l’aspetto più importante è capire se alle spalle dei ragazzi ci sono famiglie idonee oppure se ci sono carenze, latitanze educative. Insomma bisognerà capire come si è arrivati a questo punto».
Le ideologie politiche non c’entrano, le ragazze neppure. È come se qualcuno avesse deciso di trasferire in strada tutta la rabbia accumulata in Rete. «La rissa di venerdì è uno dei casi in cui si verifica un corto circuito fra vita online e vita reale: non è colpa del social network in sé», dice Annalisa Guarini, ricercatrice del dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna. Secondo Alberto Rossetti, psicologo specializzato in cyber-dipendenza, «i ragazzi vanno educati al digitale. A scuola e in famiglia. Devono capire i meccanismi e le conseguenze di ciò che succede in Rete». A Bologna è finita con qualche cazzotto e una denuncia. Hanna Smith e Rebecca Ann Sedwick, neppure un mese prima, sono state sbranate nelle loro camerette dagli insulti e dalle insinuazioni degli anonimi. Il processo ad Ask è appena iniziato.

Repubblica 16.9.13
Male l’Spd che si ferma al 20%
Baviera, la Merkel dilaga ma perde i liberali
Test a una settimana dal voto nazionale, gli alleati sotto la soglia del 5 per cento
di Andrea Tarquini


BERLINO VENTO in poppa dalla ricca Baviera per Angela Merkel, a una settimana dalle elezioni politiche generali dove la cancelliera chiede un terzo mandato di legislatura.
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
ALLE elezioni nel Freistaat Bayern – il più prospero ed efficiente Land della federazione, terra di eccellenze tecnologiche da Bmw a Audi, da Siemens all’aerospaziale – il centrodestra degli alleati locali di “Angie” ha vinto alla grande, ha colto un successo cruciale in vista delle elezioni nazionali riconquistando la maggioranza assoluta che aveva perduto alle scorse consultazioni regionali.
Male le sinistre, qui come altrove nella Ue: l’avanzata della Spd, di appena due punti, è ben deludente, e i Verdi calano. Scompare dal Maximilianeum, il Parlamento bavarese, anche la Fdp (liberali) alleata di Merkel a Berlino. Perdono voti anche i Freie Waehler, gruppo populista che comunque resta terza forza in Baviera. In ogni caso, dopo lo schiaffo bavarese a opposizioni di sinistra e populisti, Angela Merkel può guardare più fiduciosa alle elezioni politiche, già attese da mercati e osservatori come un referendum su di lei, una vittoria annunciata. Eppure, dal voto bavarese emerge anche qualche problema per la “donna più potente del mondo”.
«Siamo raggianti, un elettore bavarese su due ha votato per noi», ha esultato il governatore uscente e riconfermato dal voto,Horst Seehofer. «Ci saremmo aspettati un risultato migliore, mi congratulo con il concorrente, il vincitore», ha replicato leale e triste il capolista della Spd, il pur popolare sindaco di Monaco di Baviera. I risultati, secondo le precise proiezioni sugli exit poll diffuse velocissime dai canali tv pubblici nazionali Ard e Zdf,parlano chiarissimo. La Csu (Unione cristiano sociale, partner bavarese della Cdu appunto) aumenta i consensi del 5,6 per cento arrivando al 49. La Spd di Ude sale di appena 2,3 punti al 20,9 per cento. Perdono invece i populisti Freie Waehler calando dell’1,8 per cento all’8,4, i Verdi che scendono dell’1,1 per cento all’8,3. Rimangono infine sotto la soglia di rappresentanza del 5 per cento i liberali, la Linke e i Pirati. In un certo senso, il voto bavarese bocciando la Fdp può preannunciare una futura Grosse Koalition guidata da una Merkel riconfermata tra sette giorni a Berlino.
Lo schiaffo degli elettori bavaresi è per i liberali uno shock: «Adesso mobilitiamoci tutti al massimo, per ogni secondo voto », ha detto il leader del partito Philipp Roesler (in Germania alle politiche l’elettore esprime due voti, uno di circoscrizione e uno di lista in sostanza). Quindi, dicono a caldo qui i commenti di tg e siti online, se la certezza di restare cancelliera adesso è più forte per Angela Merkel, la debolezza del suo attuale partner di coalizione le preannuncia due problemi. O la Fdp convincerà molti elettori moderati adarle almeno il secondo voto, a volte entrambi, toglierà consensi alla Cdu/Csu. Oppure, la Fdp non riuscirà ad arrivare al 5 per cento. In entrambi i casi “Angie” resterebbe al potere solo con una Grosse Koalition.
L’allarme è stato lanciato ieri sera da un alto esponente cdu, il superconservatore ministrodell’Ambiente Peter Altmeier: «Che tutti i nostri seguaci restino freddi e calmi, non offriamo i nostri voti», ha detto. In casa Spd, ieri sera si coglieva molto nervosismo. La buona figura nel recente duello tv con Merkel non ha sortito effetti in Baviera. Lo sfidante Peer Steinbrueck, che nel duello era piaciuto perdomande precise ma anche perché per la prima volta sorrideva, ieri sera è tornato a volto e toni cupi: «Il matrimonio democristiani- liberali è fallito in Baviera, ci suono buone chance che fallisca per tutto il paese domenica prossima», ha affermato.

Repubblica 16.9.13
Il direttore della Zeit, Giovanni di Lorenzo: “Adesso è in bilico la maggioranza con il Fdp con cui governa”
“Per Angie è un campanello d’allarme rischia una Grande Coalizione con la Spd”
di A. T.


BERLINO — Giovanni di Lorenzo, direttore diDie Zeit,cosa significa il voto bavarese a livello nazionale, in vista delle politiche del 22?
«Credo che sia soprattutto una quasi garanzia per i liberali che a livello nazionale avranno un buon risultato. Perché a questo punto molti che sono intenzionati a votare Cdu/Csu con entrambi i voti espressi dall’elettore, daranno invece il secondo voto alla Fdp. Ciò a svantaggio dei soli democristiani ».
Il successo diventa un problema per la Merkel?
«Assolutamente: alla fine potrebbe avere un buon risultato lei, i liberali anche, ma non sufficiente per riavere la maggioranza con cui hanno governato negli ultimi 4 anni».
Allora Grosse Koalition o rosso- rosso-verde, cioè Spd, verdi e Linke?
«No, rosso-rosso-verde è per ora impensabile. Certo che se ci sarà una maggioranza rosso-rosso- verde domenica prossima e per questo la Cdu/Csu sarà obbligata ad allearsi con la Spd, la Spd avrà l’altra formula ipotetica di maggioranza in pugno comeun’opzione di ricatto».
L’Europa allora rischia una Germania instabile dopo il 22 settembre?
«Aspettiamo il risultato alla sera del 22, è troppo presto per dire qualsiasi cosa».
Perché la sinistra in Europa è
sempre così debole e poco capace di vincere? Cosa fa di sbagliato?
«In Germania il motivo principale del successo democristiano, anche in Baviera, è il fatto che l’economia va bene. In Baviera più dell’ottanta per cento degli elettori, secondo un sondaggio, ha dichiarato che la situazione economica è buona. E la maggioranza degli interrogati dice di ritenereche nella società esiste anche la giustizia sociale. Se vengono a mancare questi due fattori un governo cade, se invece la gente ha la sensazione che grosso modo le cose vanno bene non ha lo spunto a cambiar governo».
Il centrodestra tedesco quindi dà ai cittadini percezioni che la sinistra al governo, in Francia e in parte in Italia, non riesce a dare?
«Il merito di un’economia che funziona non è solo risultato della politica degli ultimi quattro anni. Chiunque fosse al governo con questi dati economici avrebbe una buona probabilità di successo ».
E il rischio di Alternative für Deutschland?
«Non c’è un sondaggio che lo dia oltre il 5 per cento. Ma si sa che chi vuole esprimere un voto di protesta non sempre lo dice nei sondaggi. Se AfD entrerà nel Bundestag paradossalmente porteranno al governo la grande Coalizione, una coalizione molto stabile perché né democristiani né socialdemocratici avrebbero interesse a uscirne».

Repubblica 16.9.13
Polonia
Oltre centomila in piazza contro Tusk “Via il governo, basta tagli al Welfare”


VARSAVIA — Nubi di instabilità politica e sociale sulla Polonia. Nel weekend un enorme corteo — 120mila persone, dicono i sindacati, da Solidarnosc allo Opzz, che l’hanno organizzato — ha protestato contro il rigore della politica del governo liberal ed europesita del premier Donald Tusk. «O si ferma o arriveremo anche allo sciopero generale», dicono i sindacalisti. Vogliono il ritiro di una dura riforma delle pensioni e dei tagli al Welfare. La Polonia ha avuto negli anni scorsi la crescita più alta della Ue, ma quest’anno sarà di appena lo 0,4%. La disoccupazione è salita al 13%. L’opposizione nazionalpopulista cavalca la tigre del malcontento. Tusk non esclude più elezioni anticipate.

Repubblica 16.9.13
Il regime esulta: “Ha vinto Assad” E Obama lancia messaggi all’Iran
“Il nucleare è la priorità”. Oggi il rapporto Onu sui gas
di Massimo Vincenzi


NEW YORK — «Abbiamo vinto noi. È un grande successo ottenuto grazie agli amici russi»: cosìparla all’agenzia di Mosca Ria Novosti il ministro siriano della Riconciliazione Ali Haidar: «Questa intesa evita un attacco contro di noi, ci aiuta ad uscire dall’angolo e toglie ai nostri nemici le scuseper colpirci. Adesso aspettiamo le decisioni dell’Onu e le rispetteremo ». Le sue parole sono il primo commento ufficiale di Damasco dopo l’accordo firmato sabato a Ginevra tra Usa e Russia per il disarmo dell’arsenale chimico di Assad. E le sue dichiarazioni sono la sponda perfetta per le critiche che Obama si trova a dover affrontare ancora una volta da quando è iniziata la lunga crisi.
I giornali, dalWashington PostalNew York Times, sono scettici sugli sviluppi dell’intesa, gli analisti sottolineano le difficoltà che incontreranno gli ispettori sul terreno e le esperienze passate (Libia in testa) non inducono all’ottimismo. Duri anche i repubblicani con John McCain che ironicamente si chiede: «Dove è finita la linea rossa?». Così il presidente per difendersi torna in tv, dall’anchor man George Stephanopoulos dell’Abc, e ripete: «Non siamo al traguardo finale ma rispetto a due settimane fa abbiamo compiuto parecchia strada e molto velocemente. Sono soddisfatto dell’accordo, se verrà rispettato avremo segnato un punto importante per uscire da questa situazione e mettere fine alla guerra civile. Capisco le critiche, ma a Washington c’è qualcuno che guarda troppo alle questioni di stile e di forma. Forse la nostra politica non è sembrata lineare, fluente e ordinata, ma ha funzionato ed è solo questo che conta».
Poi Obama tocca l’argomento Putin, l’altra spina nel fianco: «Abbiamo opinioni diverse su molte cose, ma sono felice che sia entrato in gioco nella questione siriana facendo pressioni sul suo fido alleato Assad. È stata la nostraazione politica e la minaccia di un blitz militare a costringerlo all’azione. Ora dobbiamo continuare a lavorare assieme». Infine l’Iran, con l’annuncio a sorpresa di uno scambio di lettere tra la Casa Bianca e il nuovo presidente Hassan Rohani, la riapertura di un canale diplomatico chiuso dal 1979, i giorni del blitz all’ambasciata Usa di Teheran: «Abbiamo discusso della Siria, voglio essere sicuro che loro non pensino sia un segnale di nostro disinteresse per quel che accade nella regione. Anzi per noi il dossier nucleare è al primo posto dell’agenda e l’intesa di Ginevra può essere un modello da seguire in futuro per regolare anche questo problema».
Non a caso, il segretario di Stato John Kerry ieri è volato in Israele per rassicurare Benjamin Netanyahu al quale ha ripetuto: «L’uso della forza rimane un’opzione, la nostra linea non cambia ». E oggi l’attenzione torna all’Onu, dove gli ispettori diffonderanno i risultati sull’uso delle armi chimiche. Rapporto che, secondo le ultime indiscrezioni, dovrebbe essere molto duro nei confronti di Assad collegandolo direttamente all’uso dei gas contro i civili nella strage del 21 agosto. Un punto di consolazione per Obama.

il Fatto 16.9.13
Lucio Villari e Maurizio Viroli
Due Machiavelli al momento giusto
di Furio Colombo


Due libri sono usciti insieme e vanno letti insieme su Niccolò Macchiavelli. Una prima ragione è che fanno luce in modo diverso, la seconda è che il nome degli autori chiede di prestare attenzione. La terza è che viviamo in un tempo in cui si è perso il filo della politica, o meglio del far politica, sostituito in parti uguali da malavita, eccesso mediatico e angosciate invenzioni dell’ultimo istante.
Ecco dunque Machiavelli di Lucio Villari (Oscar Mondadori) e Machiavelli, filosofo della libertà di Maurizio Viroli (Castelvecchi).
Il libro di Villari è scritto, come accade a volte (ma di rado) ai saggisti, con l’impeto narrativo di una fiction, in cui le avventure dei poteri, delle alleanze, dei re, dei papi e degli imperi sembrano costruiti in sequenze capaci di reggere l’interesse teso del lettore e impongono di sapere gli incredibili esiti (veri e accaduti) di capitolo in capitolo. Macchiavelli è sempre presente con la sua descrizione, previsione e spietato giudizio sui fatti, ma è sospinto e travolto a sua volta fino alla punto della cacciata in esilio. Il pregio del libro non è di raccontare una storia (la Storia) ad un livello narrativo di piena qualità letteraria, ma di consentire al lettore di essere sul posto con ordine e chiarezza logica, perché tutti partecipano ma non l’autore, che a sua volta diventa il Machiavelli del Machiavelli e ci offre uno sguardo da fuori che è caldo nella tecnica del narrare, ma freddo, nel giudizio del tutto privo di enfasi.
Il Machiavelli filosofo di Viroli segue un percorso diverso. I materiali, le fonti, i fatti gli servono per rendere vivacissimo il suo intento di celebrazione del grande fiorentino. Il pensiero di Machiavelli è in primo piano, gli eventi sono la verifica e la prova, l’autore guida il giudizio, che è allo stesso tempo illuminato e appassionato, e Machiavelli diventa l’eroe non di una saga ma di un nodo e uno scontro di pensiero.
UN GRANDE PREGIO comune ai due saggi è il rimuovere il “machiavellismo” da conversazione, per portarci di fronte a fatti, pensieri e verità ben più drammatici e alquanto al di sopra dei luoghi comuni, anche colti, intorno a Machiavelli e alla politica. E qui, in questa parola, si colloca il punto di valore che rende indispensabili i due libri.
Viviamo in un’epoca in cui la politica sembra (o è stata degradata a) un espediente, spesso guidato dall’immoralità (che si ama definire “machiavellica”) e ormai quasi sempre composta di movimenti alla cieca. In questo quadro, la cultura alta crede nel distacco e aderisce ai movimenti “antipolitici” che assegnano un inevitabile disprezzo. Ma in tal modo un brutto momento diventa l’unico modo di ridefinire il tutto per abbandonarlo al suo destino. Che però è il nostro. Dunque i due saggi sono stati scritti al momento giusto.

La Stampa 16.9.13
“Io, bimba felice a Auschwitz. Mio papà era il comandante”
Brigitte Höss, 80 anni, ha conservato per decenni il suo segreto Poi la scoperta di avere un cancro: è giunto il momento di parlare
di Paolo Mastrolilli


Brigitte Aveva 12 anni quando scoprì che il nonno era stato uno dei peggiori criminali nazisti condannato a morte dai polacchi nel 1947 e impiccato davanti al crematorio di Auschwitz
Brigitte ha ottant’anni e dorme ancora sotto una foto del padre e della madre scattata nel giorno del matrimonio, che sta appesa sopra il suo letto. Sorridono felici, come una coppia qualsiasi, e a prima vista è bello sentire che la loro figliola è rimasta così devota. I nipoti di Brigitte, però, non hanno mai saputo chi è quell’uomo. Sanno che è il bisnonno, ma non conoscono il suo vero nome, perché lei finora si è vergognata di informarli che discendono dal comandante del campo di Auschwitz.
Proprio così. Inge-Brigitt Höss, nata in una fattoria sul Mar Baltico il 18 agosto del 1933, abita dal 1972 in Virginia, a pochi passi da Washington. Nessuno però sapeva che era la figlia di Rudolf, responsabile della morte di oltre un milione di ebrei, fino a quando l’ha rintracciata lo scrittore Thomas Harding, che ha raccontato la sua storia sul «Washington Post». Nel 2006, quando era andato al funerale dello zio Hanns Alexander, Harding aveva scoperto dall’elogio funebre che dopo la guerra lui era stato un cacciatore di nazisti. Si era messo a studiare ossessivamente, e aveva scoperto che lo zio aveva catturato proprio Rudolf Höss. Quindi ha saputo che la figlia del comandante di Auschwitz vive in America ed è andato a trovarla a casa, per scrivere un libro in uscita che si intitola «Hanns and Rudolf».
Brigitte era cresciuta passando da un campo di concentramento all’altro: Dachau da uno a 5 anni, Sachsenhausen da 5 a 7, e Auschwitz da 7 a 11. Il papà Rudolf e la mamma Hedwig si erano conosciuti in una fattoria, dove andavano i giovani tedeschi infatuati dal mito della purezza della razza. Avevano avuto cinque bambini, vivendo un’esistenza di lusso anche nei campi di sterminio. Hedwig definiva la loro villetta di Auschwitz come il «paradiso», anche se guardando bene si intravedevano i forni. I prigionieri lavoravano in giardino, al punto che una volta, per giocare, Brigitte e i fratelli si vestirono a strisce e appuntarono sul petto stelle gialle, rincorrendosi fino a quando il padre non li fermò.
Dopo la guerra scapparono verso Nord, e si divisero: la madre e i bambini in una fattoria di St. Michaelisdonn, il padre vicino al confine con la Danimarca, in attesa del momento buono per fuggire in Sudamerica. Hanns Alexander, però, li scovò: «Ricordo ancora il giorno in cui bussò alla nostra porta, mi torna l’emicrania». Hedwig, temendo violenze contro i figli, rivelò il nascondiglio. Quando Hanns raggiunse Rudolf, lui negò la propria identità. Allora Hanns gli chiese l’anello di matrimonio, ma Rudolf disse che era bloccato al dito. Hanns minacciò di tagliarglielo, il dito, e quindi l’ex comandante di Auschwitz cedette: all’interno c’erano incisi i nomi di Rudolf ed Hedwig.
Nel 1950 Brigitte scappò in Spagna, dove lavorò come modella per Balenciaga. Conobbe un ingegnere americano e si sposarono. Gli rivelò la verità, ma lui rispose: «Eri bambina, non hai colpe. Mettiamo il passato alle spalle». E così fecero. Liberia, Grecia, Iran e Vietnam, per seguire il lavoro del marito, che nel 1972 si trasferì in Virginia. Lei trovò posto in una boutique, ma una volta che aveva bevuto raccontò la sua storia alla manager. La manager la rivelò ai proprietari, che però decisero di tenerla: erano due ebrei tedeschi, scappati negli Usa dopo la Notte dei cristalli, ma lei non lo sapeva.
Brigitte e il marito si separarono nel 1983, e lei è rimasta a vivere nella stessa casa con il figlio, che conosce l’identità del nonno. Ai nipoti, invece, non hanno detto nulla: «Non vogliamo turbarli». Ora però a Brigitte è stato diagnosticato un cancro, e vuole chiarire il suo passato: «Penso che lo farò, è venuto il momento». Col marito avevano un tacito accordo: non parlarne mai. Non serviva perché «è dentro me, non se ne va». Brigitte non contesta l’Olocausto, ma le sue dimensioni: «Se furono uccisi così tanti ebrei, come mai ci sono così tanti sopravvissuti?». Dubita anche della confessione fatta dal padre: «Gli inglesi gliela estorsero con la tortura». Rudolf lo ricorda come «l’uomo più dolce al mondo. Doveva avere due facce: quella che conoscevo io, e poi un’altra...». Lei sopra al letto conserva ancora la foto della prima faccia, illudendosi che fosse quella vera.

Corriere 16.9.13
Re, pellegrini e studenti i primi turisti d'Europa
Ma le guerre di Bonaparte paralizzarono il continente
di Paolo Mieli


L'Europa è nata per strada. Lungo le vie percorse dai viandanti nei secoli centrali del secondo millennio. Prima di allora, i viaggi erano avvenuti con modalità assai diverse da quelle che sarebbero state in epoca moderna. Nel mondo antico si spostavano eserciti, popoli in fuga, mercanti. E al viaggio era associata un'idea sì di avventura, ma soprattutto di incognita, di pericolo, di morte provocata dai nemici sul campo di battaglia o da avversità nel corso del tragitto. Poi, verso la metà del secondo millennio, qualcosa cambiò. Ed è a questa mutazione che è dedicato uno straordinario libro di Rita Mazzei, Per terra e per acqua. Viaggi e viaggiatori nell'Europa moderna, che sta per essere pubblicato da Carocci. In principio, dicevamo, a spostarsi in tempo di pace furono i mercanti. Per secoli isolatamente. Poi nel Trecento avviene un cambiamento. Nel 1330 si inaugura la fiera di Francoforte, a cui ne seguiranno molte altre. Per anni e anni, nonostante i conflitti religiosi, saranno sempre più frequentate. L'unica sospensione si ebbe al momento della guerra dei Trent'anni (1618-1648). Poi si riprese con le fiere di Francoforte, di alcune città polacche, di Lipsia e, in Italia, di Bolzano.
È il grande momento di mercanti e ambasciatori, i quali, scrive Rita Mazzei, offrono di sé un'immagine che li fissa nell'atto di salire a cavallo, o addirittura con il piede già nella staffa. Il diplomatico è abitualmente raffigurato mentre sta per mettersi in movimento. Il dipinto che meglio presenta questa situazione tipo è del 1495, realizzato da Vittore Carpaccio, a Venezia: la Partenza degli ambasciatori (all'interno del Ciclo di Sant'Orsola), dove i diplomatici inglesi sono rappresentati nell'atto di accomiatarsi dal re di Bretagna. Per compiere quel genere di viaggi era importante essere giovani, nel pieno delle forze. Francesco Guicciardini aveva solo 28 anni quando (nel 1512) fu mandato ambasciatore in Spagna, con il difficile compito di «mantenere la sua città nelle buone grazie di Ferdinando il Cattolico, nonostante il rifiuto della repubblica fiorentina di aderire alla lega antifrancese a fianco del papa Giulio II e della Spagna». Nel loro codice d'onore è definito ogni aspetto dell'atto di mettersi in movimento. Persino in che momento è lecito accettare regali. In quella che è considerata la prima opera francese dedicata al tema, L'Ambassadeur di Jean Hotman de Villiers (1603), si specifica che «l'ambasciatore non può accettare doni dal principe presso cui è stato invitato, se non dopo averne preso congedo, ossia quando sta per montare a cavallo». Mai prima.
I viaggi degli ambasciatori erano lunghi e faticosi, molti gli imprevisti. Il re di Polonia, nel Cinquecento, era anche granduca di Lituania, per cui, quando il padre regnava a Cracovia, il figlio «si preparava e si esercitava» a Vilna. Come fu per Sigismondo il Vecchio e Sigismondo II Augusto. E così quando moriva un re poteva capitare che gli ambasciatori, dopo aver compiuto un viaggio terribile per arrivare a Cracovia, dovessero intraprenderne un altro di mille chilometri («che si presentava come uno dei più scomodi nell'Europa del tempo») per recarsi a rendere omaggio al successore. Il cavallo all'epoca «costituiva di per sé un evidente segno di superiorità sociale». Un nobile, un ricco non potevano non sapere andare a cavallo. Tutto ciò che era collegato al nobile animale conferiva autorevolezza. Presso la corte degli Asburgo d'Austria «quella di maestro delle scuderie era una delle quattro maggiori cariche… che andarono consolidando la loro supremazia a partire dal Cinquecento». A Ferrara «quella di maestro di stalla era una carica così prestigiosa che conferiva il diritto di sedere alla mensa ducale». A Bruxelles, alla corte di Carlo di Lorena, governatore dei Paesi Bassi austriaci, il primo scudiere proveniva dall'alta nobiltà.
A parte ambasciatori e mercanti, a spostarsi furono soprattutto i re. Che batterono l'Europa in lungo e in largo, seguiti dalle loro corti. A volte per incontrarsi tra di loro. L'appuntamento più spettacolare, nel giugno del 1520, fu quello tra il re di Francia e il re d'Inghilterra nei pressi di Calais, posseduta dagli inglesi fin dal 1347. Francesco I ed Enrico VIII «si sfidarono a colpi di grandiose feste, giochi e tornei sullo sfondo di una scenografia mai vista». Poi il re d'Inghilterra, dopo essersi accomiatato da Francesco, andò ad incontrare l'imperatore Carlo V a Gravelines. E ogni sovrano aveva la propria corte al seguito. Fenomeno, quello delle «corti itineranti», che coinvolse l'intera nobiltà. In Spagna, i «re cattolici» si spostavano da una parte all'altra del loro Paese. In Francia la corte dei Valois, da Francesco I a Enrico III, «vagava da un castello all'altro». Benvenuto Cellini, al seguito di un viaggio di Francesco I, così scrive nella sua Autobiografia: «Noi andavamo seguitando la ditta Corte in tai luoghi, alcuna volta, dove non era dua case apena; e sì come fanno i zingani, si faceva delle trabacche di tele, e molte volte si pativa assai».
Celeberrimo fu il viaggio di 27 mesi compiuto da Carlo IX, non ancora quattordicenne, con la madre Caterina de' Medici e 15 mila persone («una massa di uomini e donne superiore alla media di una città francese del XVI secolo»), che il 24 gennaio del 1564 partirono da Parigi per farvi ritorno il 1° maggio del 1566, dopo aver visitato l'intera Francia senza mai passare due volte dallo stesso posto. Su 829 giorni, 201 (oltre sei mesi) furono di spostamenti e 628 di sosta. In Italia lasciavano volentieri la loro città per andarsene in giro le corti estense (Ferrara), dei Gonzaga (Mantova) e quella medicea (Firenze). Tali viaggi duravano mesi, anni. La corte spagnola fu a lungo, nei fatti, senza fissa dimora, almeno fino a che, nel 1561, fu stabilita la capitale a Madrid. Con Carlo V si raggiunse il massimo della mobilità. Il numero dei giorni da lui spesi in viaggio, a partire dal 1517 fino alla sua abdicazione nel 1555, furono circa un quarto di quelli del suo regno. È stato calcolato che nel corso della vita abbia cambiato letto 3.200 volte («anche se per lo più si portava dietro il proprio»). Alla fine dei suoi giorni, ricordò di essere stato nove volte in Germania, sei in Spagna, sette in Italia, dieci nei Paesi Bassi, quattro in Francia, due in Inghilterra e due in Africa, «senza contare i tragitti più brevi». Per lui fu inventato un sistema di sospensioni che assorbiva urti e sbalzi, il «giunto cardanico» (dal nome del milanese Gerolamo Cardano, che per primo ne parlò in un libro). Ma quando, a cinquant'anni, si ritirò nel monastero di San Geronimo, aveva — per le conseguenze di tutti gli spostamenti — l'aspetto di un vecchio ottantenne. Terribili erano sì i viaggi, ma anche le soste. Ad ogni tappa, per i regnanti, erano grandi, lunghi, interminabili festeggiamenti. Talché Margherita d'Austria, quando, quindicenne, andò in sposa a Filippo III, fece emanare un dispositivo a norma del quale, «pour éviter le cérémonial», lungo il viaggio tra Francia e Spagna sarebbe scesa solo sulle spiagge a riposare e ad ascoltare la messa all'interno di tende allestite all'uopo. A evitare i ricevimenti, molti sovrani decisero poi di viaggiare in incognito. È il caso di Pietro il Grande che, tra il 1697, il 1698 e nuovamente nel 1717, fece, senza appalesarsi come zar, un lungo viaggio in Europa prima di prendere le redini della Russia e avviarla alla modernità. Anche Cristina di Svezia, dopo l'abdicazione nel 1654, uscì dal suo Paese vestita da uomo e con un gran cappello adorno di piume, proprio per evitare di essere riconosciuta e festeggiata. In incognito viaggiò il principe Cosimo de' Medici in tutta Europa tra il 1667 e il 1669. Due anni in questo caso, ma a volte era necessario più tempo. A partire dal 1565-70 ci volevano in media cinque anni per l'andata e il ritorno fra la Spagna e le Filippine, attraverso il Messico e il Pacifico.
Il bagaglio che nobili e sovrani portavano con sé era imponente. Il marchese d'Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio, fuggì dall'Italia nel 1557 per timore di essere perseguitato dalla Chiesa, vagò per quarant'anni in Europa portando con sé la sua collezione immensa di libri. Libri che uscirono danneggiati, ma salvi, dopo un naufragio all'ingresso del porto di Danzica e che il marchese, in segno di riconoscenza, lasciò in dono a quella città, la quale ancor oggi lo considera il fondatore della propria biblioteca. La perdita dei beni nel corso del viaggio era un rischio da mettere nel conto. Margherita di Navarra, che si spostava da Lione ad Avignone lungo il corso del Rodano, subì un naufragio nel corso del quale morirono 23 membri dell'equipaggio. Una lettera di Enrico III mostrava più preoccupazione per il vasellame d'argento che per gli esseri umani inghiottiti dal fiume.
Moltissimi si spostavano attraverso l'Europa per motivi religiosi. In principio ci si dirigeva a Roma, la città del Papa e della cristianità. Poi fu la volta del movimento dei viaggiatori in direzione della Terrasanta, movimento iniziato dopo la prima crociata con la conquista di Gerusalemme (1099). Ma il fenomeno acquistò dimensioni massicce a partire dal XIV secolo. La città che più se ne avvantaggiò fu Venezia, e però di questi movimenti alla volta di Gerusalemme godettero anche gli scali intermedi: Otranto, Creta e Cipro, nonché Jaffa, luogo dello sbarco. Negli anni si erano aggiunte altre mete religiose: i grandi santuari d'Italia, Francia e Spagna con la tomba dell'apostolo Giacomo a Compostela, il cui richiamo era iniziato già dal X secolo. I pellegrini si muovevano praticamente senza bagaglio e con un bastone a cui appoggiarsi. Esibivano contrassegni del luogo a cui erano diretti: la palma per Gerusalemme, la conchiglia per Santiago de Compostela, un'immagine della Veronica o di Pietro e Paolo per Roma.
Roma, che — come si è detto — era già stata raggiunta da pellegrini (i cosiddetti romei) fin dai secoli VII e VIII, era adesso ridiventata una delle mete principali di questo genere di spostamenti, dopo che nel 1300 Bonifacio VIII aveva voluto il primo giubileo. Nel Cinquecento, la divisione del mondo cristiano, scrive Rita Mazzei, «intervenne a modificare la tradizione medievale del pellegrinaggio». Tradizione su cui aveva pesantemente ironizzato Erasmo ne Il pellegrinaggio fatto per devozione (1526). Nelle Province Unite, «dove ogni manifestazione pubblica legata alla fede cattolica era proibita», gli Stati di Olanda nel 1587 «promulgarono un'ordinanza contro i pellegrinaggi». Alle critiche di Erasmo si erano aggiunte quelle ancor più dure di Lutero e Calvino. La Chiesa rispose «con una rifondazione dottrinaria del giubileo stesso, mirante a far coincidere pellegrinaggio fisico e itinerario spirituale». Il giubileo di svolta fu quello del 1575, dopo che già per i festeggiamenti del 1550 si erano mossi 60 mila pellegrini; ma fu solo nel 1600 che si tornò agli antichi fasti e nel 1650 di pellegrini a Roma ne giunsero ben 160 mila. Tra i luoghi da visitare dal Cinquecento si erano aggiunti Loreto (dove gli angeli, nel 1291, avrebbero trasferito dalla Terrasanta la casa della Madonna), Assisi, la città di san Francesco, e Bari, che ospitava le reliquie di san Nicola di Myra.
Se i pellegrini avevano con sé solo un bastone, ben più consistente era il bagaglio dei nunzi apostolici che in età di Riforma dovettero muoversi a ritmo incessante. Chi erano questi nunzi? Il papa Paolo III Farnese mise a punto un imponente apparato di rappresentanza diplomatica, imperniato sulla figura del nunzio. E, dopo il Concilio di Trento (1545-1563), i nunzi furono i cardini della nuova politica della Chiesa di Roma. Le principali sedi di nunziature furono quelle di Venezia, Firenze e Napoli, ma una presenza qualificata si ebbe in tutte le principali corti europee. Gli ambasciatori del Papa divennero figure fondamentali. Alla fine del Cinquecento, fu un nunzio che trattò con Enrico IV, divenuto re di Francia, al quale, nel 1595, Clemente VIII accordò l'assoluzione. Più consistente ancora il carico dei cardinali che ogni volta che si apriva un conclave dovevano precipitarsi a Roma, come si diceva, «a grandissime giornate», cioè ultra velocemente. Velocemente sì, ma senza mai separarsi dal loro imponente bagaglio. E non solo loro.
Un banchiere fiorentino che a metà Quattrocento operava alla corte papale, Tommaso di Lionardo Spinelli, portava con sé un altare portatile, benedetto da papa Niccolò V, che poteva essere usato per celebrar messa in ogni dove, purché il luogo fosse «acconcio». Il cardinale d'Aragona, in viaggio attraverso l'Europa alla viglia della Riforma, si faceva accompagnare dal proprio cuoco, ben rifornito di una scorta di olio di oliva. I santuari e Loreto divennero meta anche per i regnanti. Maria Maddalena d'Austria si recò a Loreto due volte, nel 1612 e nel 1616. In questa seconda occasione si fece accompagnare da oltre cinquecento persone, tutte vestite di turchino. Anche il granduca Cosimo III visitò ripetutamente i santuari della Toscana: Camaldoli, Vallombrosa, La Verna. Nel 1695 decise di spingersi a Loreto «con minor pompa possibile», cioè accompagnato «solo» da qualche centinaio di persone invece che da qualche migliaio. Il percorso era molto accidentato, talché al capo vetturino fu impartito l'ordine di punire chi avesse bestemmiato con «rigorosi castighi».
La Riforma fu un'importante spinta al movimento degli uomini. Ma aprì anche la via «al dispiegarsi nel continente di nuove frontiere di segno confessionale». L'intraprendere un viaggio «bastava a mettere in moto sospetti». Il contatto con l'Europa riformata fu ovviamente assai malvisto dalla Chiesa di Roma, «che vigilava là dove vi fossero elementi rilevanti di mobilità». Stiamo parlando, ad esempio, di una città di mercato, luterana, quale era Norimberga, e della presenza di «tedeschi» in città quali Bologna, Lucca, Firenze.
Altro mondo in movimento fu quello delle università. La costituzione «Habita», «concessa da Federico Barbarossa intorno al 1155 agli studiosi dell'impero su richiesta dei dottori in legge dell'Università di Bologna, permetteva a coloro che si facevano "pellegrini per amore degli studi" di viaggiare con uno status giuridico di garanzia; la mobilità degli studiosi faceva sì che le stesse università fossero istituzioni mobili». L'Università di Padova, che ebbe sempre più grande credito in tutto l'Occidente, venne fondata nel 1220 da studenti bolognesi che erano stati «attirati in quella città da varie facilitazioni». In generale, scrive Rita Mazzei, nel Cinquecento «si registrava una sostenuta accelerazione della tradizionale mobilità di studenti, pur con sensibili differenze tra una regione e l'altra d'Europa». Per rispondere «alle particolari esigenze formative dell'aristocrazia europea, nascevano specifiche fondazioni collegiali destinate a favorirla». Ma anche antiche istituzioni come il collegio dei Lombardi a Parigi (1334) o il collegio di Spagna a Bologna (1368) incoraggiavano «l'afflusso di studenti dalle aree più lontane ad una grande università di prestigio».
La disponibilità degli intellettuali, anche di grande autorevolezza, a «spostarsi senza troppi problemi su lunghe e lunghissime distanze», per raggiungere una corte, una famosa università, un centro tipografico, «vede coincidere la mobilità dell'uomo con la circolazione delle idee, e sostiene la fortuna della cultura umanistica e rinascimentale». Modello di questo tipo di intellettuale è Erasmo da Rotterdam, che viaggiò ininterrottamente per tutta l'Europa, comprese Parigi, Londra (dall'amico Tommaso Moro), Friburgo, Basilea, Venezia, Padova, Ferrara, Siena, Roma, Napoli per poi spegnersi a Basilea, dove era tornato per la seconda volta.
È in questo clima che, tra il 1550 e il 1600, cioè dopo la rivoluzione luterana, il Concilio di Trento e poco prima che scoppiasse, nel 1618, la guerra dei Trent'anni, si diffuse il fenomeno della peregrinatio academica, cioè l'abitudine a incessanti viaggi di studenti e docenti da un'università all'altra. Va aggiunto che ci fu anche qualcosa in più. La fine dell'unità religiosa dell'Europa, scrive Rita Mazzei, «comportò nel tempo una radicale riorganizzazione dei circuiti universitari sulla base di un ridefinito spazio politico e religioso che condizionava fortemente gli scambi culturali». Gli studenti si spostavano alla ricerca di sedi accademiche in cui fosse rispettato (o, quanto meno, tollerato) il loro credo religioso. L'Università di Basilea, fondata nel 1460 da Pio II, dalla metà del Cinquecento, entrata nell'orbita della Riforma, attirò sempre più studenti provenienti dall'Europa protestante (e sempre meno tra i fedeli alla Chiesa di Roma). Stesso discorso per gli atenei di Ginevra, Leida, Heidelberg. I giovani polacchi, rimasti fedeli al Papa, si orientarono verso altre università.
A spostarsi poi non furono solo gli uomini. I testi di riferimento non riservano molto spazio alle donne, «la letteratura di viaggio tratta della mobilità degli uomini e presuppone la stabilità delle donne». Ma le donne si muovono, eccome. Si spostano per lo più a seguito di padri e mariti. Ma con tassi di incremento che fanno riflettere. Il viaggio più avventuroso del Cinquecento è senza dubbio quello alla volta delle Americhe. Qui le donne sono, tra il 1493 e il 1539, il 6,2 per cento; tra il 1560 e il 1579 crescono addirittura al 28,5 per cento. La Chiesa osteggiava gli spostamenti femminili. Già dai secoli precedenti. C'è una lettera al vescovo di Canterbury del 747 in cui san Bonifacio deplora le troppe donne, religiose o meno, che si recano in pellegrinaggio a Roma, perché, scrive, «la maggior parte di loro soccombe e poche di quelle che ritornano conservano la loro castità».
Nell'Italia del Cinquecento sono molte le donne che emigrano per non subire persecuzioni. È il caso delle «non poche lucchesi, molte dai cognomi prestigiosi, che seguirono padri e mariti nella Ginevra di Calvino». Negli stessi ambienti riformati «la spinta religiosa fu essenziale a determinare una forma di mobilità femminile». Si ha notizia «di donne quacchere che nel Seicento se ne andavano in giro per il continente a fare propaganda anticattolica, incappando talora nelle maglie dell'Inquisizione». I casi sono molti. Celebre è quello di due inglesi, Katherine Evans e Sarah Cheevers, partite nel 1658 dal porto di Plymouth alla volta di Alessandria d'Egitto per poi recarsi, presumibilmente, a Gerusalemme. Le due fecero sosta a Malta dove, però, furono arrestate su ordine del Sant'Uffizio e tenute in carcere per tre anni e mezzo. Minacciate di tortura e di morte, «sottoposte a interrogatori, sostennero violente discussioni con i frati dell'Inquisizione… nel frattempo digiunavano, si ammalavano, lavoravano a maglia e di cucito e soprattutto pregavano, confortate da visioni divine e segni premonitori».
Ma ci sono donne che si muovono per motivi che non hanno niente a che fare con la religione. Una mobilità, afferma Rita Mazzei, che «nella forma più immediatamente visibile sembra riguardare soprattutto regine e principesse in viaggio per raggiungere i regali mariti, donne di illustre lignaggio o di facoltose famiglie mercantili che potevano affrontare itinerari più o meno lunghi con il meglio degli agi e delle comodità che il tempo consentiva». Oppure le mogli di artisti. Come Agnes Frey, consorte di Albrecht Dürer, che, con la giovane cameriera Suzanne, segue il marito nel 1520-21 a Colonia, Anversa, Bruxelles.
Va rilevato come le città costituiscano le tappe essenziali di questi percorsi. Ciò che c'è lungo il tragitto tra un centro abitato e un altro quasi non esiste o comunque è menzionato assai poco in diari e memorie. Nessuno dei partecipanti al viaggio che nell'inverno del 1573-74 portò Enrico di Valois, fresco re di Polonia, dalla Lorena a Cracovia attraverso il Palatinato, la Sassonia, il Brandeburgo per oltre 1.500 chilometri, «ci dà, nei tanti resoconti che abbiamo, qualche specifico dettaglio relativo al territorio, al di là dell'osservazione che si procedeva ininterrottamente attraverso un paese piatto, senza vedere per giorni e giorni che neve e ghiaccio». Neve e ghiaccio che si trasformano presto in un'opportunità. Le slitte, meglio dei carri, «facilitavano gli spostamenti nella stagione invernale in una terra di foreste e di zone paludose come la Polonia-Lituania, un territorio immenso, esteso per più di ottocentomila chilometri quadrati nella seconda metà del secolo XVI e per circa un milione di chilometri quadrati nella prima metà del secolo XVII».
Ne rimaneva «non poco impressionato un ambasciatore di Caterina de' Medici al quale, quando fu spedito in gran fretta nel 1572 a saggiare il terreno in vista della candidatura francese al trono polacco, la superficie appariva ad occhio come due volte quella della Francia». La neve consolidava il terreno e, proprio grazie alle slitte, l'inverno era la stagione migliore per spostarsi. In quegli spazi immensi «rinascevano il lavoro, il commercio, la sociabilità e perfino la politica, come stanno a confermare le tante relazioni dei viaggiatori settecenteschi che ne riferiscono stupiti». E così la seconda «piccola era glaciale» (1570-1630), che «comportò un'alterazione peggiorativa delle condizioni climatiche in Europa con inverni lunghi e rigidi ed estati relativamente fresche e umide, fra le molte conseguenze potrebbe aver avuto anche quella di favorire al Nord e all'Est questo sistema di trasporto».
Nella seconda metà del Cinquecento si affermò prima in Italia e poi in Francia e in Inghilterra l'uso delle carrozze «riservate in un primo tempo ai prìncipi, agli aristocratici e ai ricchi borghesi, con una specifica utilizzazione soprattutto da parte delle loro mogli e delle loro figlie, e il possesso di uno o più esemplari divenne presto la misura delle disponibilità economiche, del rango e della rilevanza sociale… divennero in breve un tangibile segno di potere». Le carrozze, osserva Rita Mazzei, «furono una delle grandi novità del secolo XVI, e provocarono una profonda trasformazione nella circolazione e nei rapporti umani; si imposero ovunque, dilagando come una delle più appariscenti forme di lusso». Le prime furono una «conquista urbana» e fecero la loro apparizione nelle città italiane. A Roma «verso la fine del secolo se ne contavano diverse centinaia, nel 1594 fra cocchi e carrozze pare si arrivasse alla bella cifra di 883 mezzi, ripartiti fra 675 proprietari». Qualcuno ne aveva dunque più di una. Diceva Carlo Borromeo che per avere successo nella città santa erano necessarie due cose: amare Dio e avere una carrozza.
Carrozze e diligenze si moltiplicano poi nel Settecento, il secolo del Grand Tour: coupés, calessi, phaétons, cabriolets, berline che (inventate a Berlino nel 1663) divennero le vetture più apprezzate dalla nobiltà. Di termini per identificarle se ne contava adesso una ventina. Di lì a un secolo saranno oltre cento. Dapprima furono amate (per esempio dal cardinal Mazzarino) quelle di costruzione italiana. Poi fu la volta dei modelli francesi, di quelli inglesi. Al tempo del suo viaggio a Roma ed in Sicilia (1786-87), Goethe sosterrà che, in materia di carrozze, l'Italia era «rimasta enormemente indietro rispetto agli altri Paesi per tutto ciò che è meccanica e tecnica». Già, la meccanica e la tecnica. Adesso quei veicoli si potevano smontare e rimontare. Riferisce Montesquieu nel suo Viaggio in Italia (1728-29) che sul Moncenisio una carrozza veniva trasportata sul dorso di tre muli. Uno portava il corpo, l'altro le ruote, il terzo le stanghe. Sul Sempione, invece, il corpo della carrozza veniva trasportato da braccia umane, dal momento che la strada era troppo stretta perché si procedesse alla maniera descritta sopra. Il mulo diventa sempre più un grande protagonista di questi spostamenti. Nell'Europa del Cinquecento la richiesta cresce a dismisura, tanto che Fernand Braudel calcola che solo nella Spagna ve ne fossero già allora più di un milione.
In età umanistica conobbero grande fortuna mete che erano già state famose nell'antichità: i bagni termali. Fa testo una celebre lettera del 1405 di Coluccio Salutati a Leonardo Bruni, in cui si descrive questa nuova moda. Un secolo e mezzo dopo quella lettera, nel 1553, l'editore Tommaso Giunti pubblicò a Venezia il De balneis omnia quae extant apud Graecos, Latinos et Arabas. Era un'antologia, la prima, «che metteva insieme oltre settanta testi classici, medievali e moderni, sulle terme, tutti in lingua latina, sia medico-scientifici sia letterari». E che proponeva come modello i bagni di Plombières, ai confini tra la Lorena e la Germania. Assai apprezzati nel tempo divennero i bagni di Karlsbad (Karlovy Vary), in Boemia, «che potevano vantare i privilegi ricevuti alla fine del Trecento dall'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, il quale aveva fondato quell'insediamento dandogli il suo nome». Lì avrebbero soggiornato per qualche settimana Albrecht von Wallenstein nel pieno della guerra dei Trent'anni; l'imperatore Giuseppe I che, nel 1707, la elevò al rango di città libera; Johannes Sebastian Bach; Pietro il Grande, che a quei tavoli intavolò conversazioni con il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz. Non meno famosi furono i bagni di Baden, quelli inglesi di Bath e quelli italiani della Villa (Lucca) celebrati da Montaigne, che solo nel 1581 vi soggiornò due volte per ben undici settimane.
A Parigi nel 1552 viene data alle stampe la Guide des Chemins de France di Charles Estienne, prototipo delle guide tascabili. Un medico bergamasco, divenuto calvinista a Basilea, pubblicò nel 1561 la prima guida moderna. Quasi una guida pratica, scrive Rita Mazzei, «in un piccolo formato, tascabile si potrebbe dire, senz'altro comodo da portare con sé». Raccoglieva «tutte le informazioni disponibili sui principali itinerari, le vie alternative e le distanze da percorrere, ma offriva anche raccomandazioni di carattere igienico-sanitario e una serie di consigli pratici, frutto dell'esperienza accumulata negli anni dal suo autore. Uno dei più famosi trattati sull'arte del viaggio, la Methodus Apodemica dello svizzero Theodor Zwinger, fu pubblicato, sempre a Basilea, nel 1577. Ma l'interesse per questo genere di pubblicazioni e per le riflessioni che le caratterizzavano non era molto alto. Tra il 1580 e il 1581 Michel de Montaigne scrisse il celeberrimo Journal de voyage en Italie, che restò però dimenticato per 200 anni nell'archivio del suo castello e fu edito nel 1774.
Il Settecento fu infine il secolo dell'Illuminismo e del Grand Tour, che, soprattutto dopo la pace di Hubertusburg che segnò la fine della guerra dei Sette anni (1756-1763), portò i giovani delle migliori famiglie (inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, scandinavi, russi) soprattutto in Italia (Roma, Firenze, Venezia, ma anche Napoli e la Sicilia) sulle tracce dell'antichità. Franco Venturi ha fatto osservare come questi stranieri vennero a contatto con l'Italia nel secolo, il Settecento, più sfortunato della nostra storia per «sgretolamento politico, depressione economica, delusione intellettuale». Ciò che generò in giovani come Gibbon, Goethe, Rousseau, Montesquieu notevoli pregiudizi nei confronti delle nostre città. Ma questi viaggiatori fecero ricchi i nostri mercanti d'arte, che, soprattutto a seguito dell'inizio degli scavi a Ercolano (1738) e Pompei (1748), conobbero grande fortuna. Anche se qualcuno, come Gustavo III di Svezia sceso in Italia in incognito nel 1783 celandosi dietro il nome di conte di Haga, cominciava ad essere vigile contro il rischio di truffe. Tanto che il suo agente in Italia, il giovane Francesco figlio di Giambattista Piranesi, mise in burla la sua volontà di studiar bene ciò che forse avrebbe poi comprato: «Il conte di Haga che molto vede e poco paga», scrisse del re di Svezia.
A far finire (o, comunque, modificare radicalmente) questa lunga stagione fu la Rivoluzione francese, ma soprattutto furono le guerre napoleoniche. La campagna d'Italia del giovane Napoleone Bonaparte (1796) e le successive guerre, scrive Rita Mazzei, «paralizzarono l'intero continente e segnarono la fine di quell'avventura che nel corso dei secoli aveva contribuito a formare la coscienza intellettuale dell'Europa moderna». Quando, dopo il Congresso di Vienna (1815), si riprese a viaggiare, nulla fu più come prima. Nel libro ci si limita alla presa d'atto della cesura intervenuta tra il 1789 e il 1815. Ma è probabile che da questo spunto vengano fuori riflessioni di una qualche originalità e di un qualche interesse.

Repubblica 16.9.13
Quella battaglia per un Psi diverso
Valdo Spini racconta in un libro un decisivo periodo di storia dei socialisti
di Concetto Vecchio


Dopo la rovinosa dissoluzione del Psi si è tentati dall’identificare quel partito tout court con la spregiudicatezza di Craxi e gli scandali di Tangentopoli, che ne seppellirono la storia secolare sotto un cumulo di macerie, dimentichi che il Partito socialista fu anche dei galantuomini come Pertini, Lombardi, Antonio Giolitti. E Valdo Spini. Ora proprio Spini inLa buona politica. Da Machiavelli alla Terza Repubblica. Riflessioni di un socialista edito da Marsilio, prefazioni di Carlo Azeglio Ciampi e Furio Colombo, fa i conti con la sua lunga militanza, iniziata nel lontano 1962, folgorato ancora bambino da un’orazione di Tristano Codignola in onore di Pietro Calamandrei, e proseguita poi nella corrente lombardiana per una lunga vita: consigliere comunale, deputato, sottosegretario, ministro. «C’ero prima e dopo Craxi», ci tiene a precisare, e la figura del leadersocialista domina invariabilmente tutto il racconto. Non poteva essere diversamente. Dal 1976 al 1993 il Psi è stato Craxi, e Craxi è stato il Psi.
Perché ne scriviamo allora? Cosa rende interessante il suo percorso? Semplicemente in quella storia Spini occupa un posto non gregario, ma divigile coscienza critica, antesignano della moralizzazione della politica – fu tra i primi sin dal 1985 a sottoporre le sue entrate e le sue spese a un comitato di garanti – fautore di una legge sull’incandidabilità già dopo la sentenza di primo grado – la legge del Quadrifoglio – una norma Severino ante litteram. Ma assiso a soli 35 anni al ruolo di vicesegretario, l’altro vice, Martelli, ne aveva 38, («cosa fu il sabba del Midas se non una rottamazione generazionale»), si ritrovò ben presto emarginato dal sancta santorumdi via del Corso, inascoltate le sue mozioni sulla moralità pubblica, mentre il Psi perdeva la sua anima, invischiato in un reticolo di malaffare, di cinismo istituzionale, nella convinzione errata che lo spirito degli anni Ottanta sarebbe stato eterno.
Spini colloca l’inizio della fine al congresso di Palermo, nel 1981, quando Craxi nottetempo impone con un diktat l’elezione diretta del segretario, fino a quel momento deliberata collegialmente dalla direzione. È un blitz cesarista. Da quel momento Spini, in quanto minoranza, ottiene prestigiosi incarichi di governo, ma la sua voce all’interno viene silenziata, nel’84 il partito sabota la proposta contro il finanziamento illecito, fino a un tentativo di estromissione alle politiche dell’87, quando Craxi lo piazza al tredicesimo posto della lista in Toscana, convinto così di sbarazzarsene. Ma grazie a 19,525 preferenze riesce a farsi eleggere lo stesso. E quando alla Camera incoccia il segretario questi da consumato professionista della politica gli dice: «Così la volevo la tua vittoria, che fosse chiara!».
Il libro è trapuntato di aneddoti di un mondo ormai lontano. Pertini che nell’83 gli rivela in anticipo che darà l’incarico a Craxi; Berlinguer che mangia da solo nel self service di Montecitorio; il leader dei nenniani fiorentini Gigi Mariotti che al bar ordina la spuma, «perché costa meno», ché in un partito dei lavoratori occorre mostrare sobrietà. Il drammatico colloquio con Craxi, in piena Tangentopoli, nel quale il Capo gli confessa: «Effettivamente le cose erano andate troppo oltre». Spini è valdese, suo padre, Giorgio, fu un dirigente del Partito d’azione, due atout che fanno di lui un dirigente politico molto poco italiano. Perché, con questa diversità, egli rimane fedele al Psi sino all’ultimo? «Avrei potuto contrastare Craxi favorendo la strategia di De Mita che voleva fermare la crescita socialista, o quella di Berlinguer radicalmente ostile al nuovo corso socialista. Non ho voluto farlo rimanendo leale al partito». Quando Craxi, braccato dalle Procure, si dimette, Spini tenta di diventarne il successore, ma nemmeno lì avrà fortuna perché i maggiorenti faranno confluire il loro peso su Benvenuto: a quel rodeo congressuale è dedicato un ampio capitolo.

IL SAGGIO: La buona politica di Valdo Spini Marsilio pagg. 176, euro 15

Repubblica 16.9.13
La confusione stimola anche le cattive abitudini. Chi vive di regole è invece più buono e generoso
Disordine Se il caos creativo ci rovina la salute
di Massimo Vincenzi


NEW YORK Ordine o disordine, dilemma irrisolto, battaglia che affonda nella storia: dai dibattiti filosofici più raffinati sino alle rivolte (più concrete) di genitori contro figli per camerette al limite del terremoto, passando per colleghi di lavoro in lotta sui confini incerti di scrivanie gestite in maniera opposta. L’azione dell’ambiente in cui viviamo sulla mente e sui nostri comportamenti affascina da sempre gli scienziati. Cinquant’anni fa l’antropologa inglese Mary Douglas sosteneva che i larghi spazi come i campi coltivati e la pulizia hanno addirittura un’influenza sulla rettitudine morale, la incoraggiano. E la ricerca di un’azienda di profumi per ambienti spiega come l’essenza agli agrumi favorisce il senso etico e la fiducia in se stessi. Ed esiste anche una lunga lista di pubblicazioni che spiegano come le immagini caotiche sono spesso associate alla morte e alla tristezza. Eppure, nonostante la pubblicità negativa, il caos ha i suoi pregi, anzi è vitale per il progresso dell’umanità. Il disordine infatti è la molla decisiva della creatività e stimola la voglia di innovare, come prova l’ultimo studio condotto dallo Carlson School of Management dell’università del Minnesota.
I laboratori del college sono stati arredati in maniera differente. Su un lato del corridoio camere perfette, i libri allineati sulle mensole, le scrivanie con le biro disposte in maniera geometrica, niente post-it attaccati ai computer, sul pavimento nemmeno un pezzettino di carta. Dall’altra parte il colpo d’occhio è simile al passaggio di un uragano: cestini usati per allenarsi a basket, tavoli dove si fa fatica a trovare un centimetro libero e fogliettini con appunti ovunque. Quasi duecento persone sfilano nei due ambienti con la scusa di partecipare ad un’inchiesta di marketing alimentare. Su un menù i frullati di frutta da testare sono divisi per gusti, ma quel che conta è che su uno appare la definizione “classico” e sull’altro quella “nuovo”. Gli uomini e le donne che leggono l’offerta nella stanza ordinata puntano decisi sulla prima scelta, quella conservativa, gli altri cercano la novità, con dati cinque volte superiori. Ma le prove non finiscono qui. Ad un altro gruppo di cavie umane viene chiesto di immaginarsi slogan e usi alternative per delle palline da ping pong. Le risposte vengono giudicate in base a complicati parametri secondo il loro livello di creatività e, a questo punto è ovvio, le persone immerse nel caos trovano le idee migliori, quelle più rivoluzionarie e utili anche qui con distanze abissali. Alle stesse conclusioni, come racconta il
New York Times, arrivano gli studi della Northwestern University, dove si dimostra la stretta relazione tra la capacità di disegnare immagini spettacolari e il disordine.
La teoria ha conseguenze pratiche, a partire dagli uffici dove il design ultraminimalista imperante e la spasmodica ricerca del risparmio da parte delle aziende porta ad ambienti lavorativi asettici, senza spazio per muoversi, dove persino la mente si sente in gabbia, con pessimi effetti sul rendimento dei professionisti.
Un ultimo dettaglio, tenuto in ombra nelle conclusioni degli esperimenti: l’ordine fa bene alla salute e ci rende più buoni e generosi, ma il progresso non si può fermare davanti a queste banalità.

La Stampa 16.9.13
Hodler, Böcklin e i simbolisti svizzeri
Lugano Al Museo cantonale e al Museo d’Arte oltre 200 opere
di Fiorella Minervino


Al tramonto del XIX secolo, negli Anni 80, un fantasma attraversò l’Europa, agitando gli animi perturbati e accogliendo inquietudini e affanni destinati a durare fino ai giorni nostri. Era il Simbolismo, il movimento artistico, letterario, musicale, filosofico nel nome del Simbolo, dell’idea da raffigurare, delle suggestioni da evocare; sicché gli artisti si sforzarono di decifrare i misteri, i miti, l’ignoto, per legarsi all’universo, all’infinito. Nella scia dei predecessori Füssli e Blake, e sulla scorta di Wagner e l’unità delle arti, i simbolisti privilegiarono quali vie al cosmo temi come il sogno, l’esoterismo, il corpo, la danza. La donna era idolo comune, ora maliarda, circe o Salomé, ora angelo alle fonti della vita, senza escludere l’androgino e la punizione alle cattive madri. La natura regna sovrana in quei paradisi sulfurei o nella Bisanzio risorta dove vagano ombre malinconiche e dove, a scandire il tempo sono comunque le età della vita, le stagioni, le ore del giorno.
In tale clima Lugano propone una mostra in due sedi, ricca di 200 opere fra dipinti, sculture, foto, disegni, incisioni, manoscritti (in arrivo dai musei e collezioni elvetici e internazionali) che punta lo sguardo sulla Svizzera, crocevia di vari Paesi, ma con forte identità geografica, schierando in campo i propri artisti, come i due concittadini giganti: Hodler e Böcklin. È d’obbligo dire che non mancano gli esponenti europei come Redon, Khnopff, Klimt, Moreau, Rops,Toorop, Burne-Jones i nostri Segantini, Previati (non al meglio) e il primo Boccioni, e i La Rosa Croce, ma abbondano svizzeri minori, non sempre eccelsi pur con sorprese come Edoardo Berta e di nuovo il Monte Verità.
Tuttavia a dominare fra incubi e insonnie sono i due protagonisti: Arnold Böcklin con i prediletti volti dall’antico, muse, sirene, satiri, isole della Grecia, tutte ossessioni di de Chirico, e (senza dimenticare Valloton), e Ferdinand Hodler artista che si riconferma stupefacente. Basterebbe la sala con le sue quattro vedute del Lago di Thun e del Lemano, oli sul tela che paiono acquarelli, (tecnica amata dai simbolisti) per consigliare la visita. alla mostra (curata da Valentina Anker ). Sono visioni incantate, sospese, di paesaggi lacustri con montagne come potrebbero comparire in cartolina, invece coinvolgono e sconvolgono negli specchi d’acqua calmi o increspati che riflettono ombre possenti di vette verso l’alto, le montagne sovrane svariano nei blu e rammentano quelle dell’Engadina dove Nietzsche scrisse Così parlò Zarathustra , qui sovrastate da nuvole sinuose, corpose e cirri leggeri, senza traccia d’uomo. Esiste la fine del Simbolismo? Si parla piuttosto di continuità e a raccontarla sono Surrealismo, Metafisica, Astrazione e così via. Mancano però le cruciali arti decorative, anche se molti sono gli spunti offerti dalla rassegna.

MITI E MISTERI. IL SIMBOLISMO E GLI ARTISTI SVIZZERI LUGANO SEDI VARIE FINO AL 12 GENNAIO 2014